Alla ricerca di
una vita possibile
di Edgarda Ferri
A sedici anni volevo essere bionda e provocante come Brigitte Bardot. Volevo essere così, e così andare a St. Tropez, dove, scalza in calzoncini bianchi a cavalcioni di un muretto di fronte al mare, come Francoise Sagan avrei scritto un libro. Ma non mi era neppure permesso di andare da sola fino a Ventimiglia. Inoltre ero una nera piatta, e costretta dalle monache a indossare un grembiule senza cintura.
Mi piacerebbe dire che ho passato quasi metà della mia vita (così almeno sarei sicura di arrivare a centanni) a combattere con me stessa perché volevo essere quella che non ero, avere quello che non avevo, andare dove non potevo. Volevo cambiare il mondo, i genitori, i professori, i programmi scolastici, gli uomini, le amiche, la mia vita intera. Come tutti i giovani, sognavo di ribaltare ogni cosa con una confusa quantità di iniziative e programmi.
Fondavo riviste con pretese letterarie, che non trovavano neppure collaboratori; raccoglievo medicine scadute e vestiti inservibili per gli alluvionati; volevo studiare medicina per seguire il dottor Schweizer a Lambarenè, andare in ginocchio ad Auschwitz e Hiroshima, far conoscere al mondo la storia di Hetty Hillesum che, a mio parere, era stata assai più di una santa scegliendo volontariamente di essere internata in un lager per condividere la sorte degli ebrei.
Avevo modelli irraggiungibili, altro che Brigitte Bardot.
Scrivevo. Per essere come Karen Blixen e Virginia Woolf e la Yourcenar e persino Dos Passos. Non lo conoscevo. Ma quando, in un mio manoscritto, Dino Buzzati trovò qualcosa in comune con Mentre moriva, mi esaltò divorarlo, confrontarmi con lui. Lotte immani contro fantasmi, chimere. Immagini distorte di me, e conseguenti furibonde proteste con tutti. Tu non mi capisci!, era laccusa più frequente a mio padre, mia madre, i ragazzi che mi facevano il filo. Quando ero io la prima a non capirmi. Del resto, volevo credermi incomprensibile. Amavo, nel mio immaginario, una ragazza inquieta, contorta, misteriosa e insondabile. Un mostro, quasi, solo a me stessa affascinante. E infelicissima.
Vivendo si impara. Un po di pazienza e la vita si incarica, a calci in faccia talvolta, di farti capire chi sei, e ciò di cui hai veramente bisogno. Sembra un paradosso, ma la mia vita è legata a una setosa, morbida luminosissima massa di capelli bianchi. Io, otto anni, accovacciata ai piedi di mia madre, seduta su una poltrona foderata di velluto rubino fissato con borchie a forma di testa di leone dorato con un anello infilato nel naso, che allatta mio fratello. Vestita di azzurro, ha grandi occhi verdi, il naso dritto e delicato, la pelle del colore dei coralli rosa, si dice peau dange. E i capelli bianchi. È bellissima. E anche la mia nonna, è bellissima.
Veste di nero, è una vedova, aveva ventisette anni, il suo campione di tamburello appena ventisei. Occhi nocciola, sopraccigli purissimi, pelle di seta. Quando si pettina, trattengo il fiato. Liberati dalle forcine di tartaruga scura, i capelli precipitano lunghi fino alla vita, in una massa compatta, pesante e candida. Immagine sublime, di proporzioni gigantesche.
Mentre ancora mi disperavo perché il mondo non cambiava nonostante tutti i miei sforzi, e non ero bionda come Brigitte Bardot, incanutivo anchio. Un bob-tail di venticinque anni: frangione bianchissimo, tempie e nuca a fili bianchi e neri. E così, finalmente, va a posto il primo tassello della mia identità. Mentre credevo che sarei stata felice se fossi nata bionda, scoprivo che il mio ideale di bellezza era la chiarità della mamma e della nonna, fissate in momenti di femminilità e assoluta serenità: allattare un figlio, pettinarsi.
Naturalmente, laccettazione del mio aspetto fisico è stata soltanto la prima parte della battaglia con me stessa. Per essere guerrigliera, lo sono stata anche dopo, e per molto tempo, e in un certo senso ancora. I capelli bianchi furono provvidenziali per provare il mio carattere e vedere fino a che punto, io che mi battevo soprattutto per la libertà dei popoli (oh! oh!), fossi a mia volta libera. Attraverso me stessa, ho imparato a sfidare gli altri (o viceversa?). Guarda, li provocavo: io oso. E tu?. Incuriosivo gli uomini proprio per questo. Interesse ma anche paura. (Lo so perché mi è stato detto). Troppo coraggiosa, spavalda, sicura di sé. Ergo, pericolosa.
Lasciar perdere subito. Dimenticarla. (Pazienza).
Poi, attraverso questi capelli (e intanto il tempo passa), lesame di me stessa, anche interiormente, si fa più facile.
È vero. Non sono una che si accontenta. E neppure da mezze misure. Curo la mia persona, ma non la trasformo. I capelli restano bianchi. Un po di trucco sugli occhi e la bocca, quasi sempre. Anche negli abiti cè ricerca, passione. Ma con un imperativo preciso: non raccontarmi mai fole, né raccontarle agli altri. Non voglio sembrare più giovane, e neppure migliore. Preferisco essere me stessa. Al meglio, questo certamente. Idem, per la persona che sono. Tale fuori, tale dentro. Senza finzioni per gli altri, senza finzioni per me. Senza mentirmi, illudendomi di essere quel che non sono, e non sarò, accusando gli altri perché non mi hanno capita, valorizzata, premiata. Scrivo perché mi piace raccontare. Mi premio da sola, provando un immenso piacere nello studiare profondamente la materia che tratterò, nel creare con fatica un carattere, una situazione (anche quattordici ore al giorno a fare e rifare una pagina per renderla fluida e insieme densa, eliminando il superfluo e il banale che ovunque si nascondono: di cui provo orrore).
Moltissimo mi premia infine chi mi legge e aspetta che scriva ancora e dice di aver provato gioia nella lettura dei miei libri, anche se non sempre ameni. La gioia di aver capito, di aver condiviso, di aver trascorso una notte insonne pur di non lasciare il libro che io ho scritto. Questo, per me, conta. Saper fare una cosa (che può anche essere una torta, un mazzo di fiori, una carezza), trasmettendo la gioia di questo fare.
Qualcuno dice che, in questa gioia del fare, bisogna metterci il cuore. Personalmente, ci metto tutta me stessa. Mi dimentico di me. Come quando si è felici: non ci pensi, non sai mai bene il perché. Sei felice e basta. La felicità del fare (ripeto, anche la marmellata, anche lamore, anche la visita a un malato), è contagiosa e, anche questo conta, immune da invidia. È infatti impalpabile, incontrollabile. Si cosparge, anche una piccolissima parte di mondo, qualcosa che nessuno sa definire, ma che fa bene. I veri invidiosi, cercano altro. (E non sanno quello che perdono). Comunque la vita è curiosa. Comunque, ogni giorno penso con gratitudine ai capelli di mia madre e di mia nonna, ai loro visi giovani e chiari.
Volevo tante cose. Ma in fondo, volevo soltanto la libertà. Di essere, assai più che di avere. E giuro: io garantisco che si può ottenere. E giuro, e garantisco, che si vive molto, ma molto, ma molto meglio di tanti.