Alla ricerca di
una vita possibile
di Carlo Castellaneta
Ho sempre pensato, e continuo a pensare, che alla fine della vita sapremo di noi stessi, nel migliore dei casi, l'ottanta per cento di quanto ci serviva per essere felici. Perché nell'altro venti per cento ci sono tutte le contraddizioni irrisolte che ci siamo portati dietro fino all'ultimo giorno, i dubbi, le paure, le illusioni che ci hanno accompagnato dall'infanzia alla vecchiaia, intrecciati in modo così complesso da non riuscire mai a venirne a capo.
In effetti il segreto di un'esistenza felice sarebbe proprio questo: saper identificare al momento giusto i nostri bisogni profondi, cioè dove sta il nostro bene. Si direbbe un traguardo elementare, se non fosse che, a quella che possiamo definire "la voce della coscienza" che dovrebbe guidarci senza sbagliare la rotta, si oppongono giorno per giorno centinaia di altri richiami.
Sono voci esterne, molto spesso futili, che però non possiamo fare a meno di ascoltare, e che mettono in dubbio le certezze del giorno prima. In quella zona oscura del nostro essere, in quel buio insondabile del venti per cento sconosciuto, si scontrano le pulsioni più varie: la saggezza è messa in crisi dall'ambizione; la serenità è continuamente aggredita dalle tentazioni; le passioni si fanno beffe della ragionevolezza. E il passare del tempo anziché placarsi spalanca nuovi inquietanti interrogativi.
E se andassi a vivere in campagna? E se tornassi a stabilirmi in città? E perché continuo a pensare a quella donna che conosco appena? Oppure è il lavoro che non mi dà più soddisfazione? E a chi potrei confidare questa inquietudine?
Così si agitano dentro di noi le passioni più diverse, a volte in contrasto l'una con l'altra. Potrei fare un figlio. Oppure lasciare il lavoro e girare il mondo. Dare un senso alla mia vita impegnandomi nel volontariato. O magari farmi un amante
Paradossalmente siamo immuni da queste suggestioni quando siamo preoccupati da un problema serio, economico o di salute. Altrimenti la mente non cessa di inseguire le sue chimere. Anche quando credevamo di sapere ciò che volevamo, la realtà si è incaricata di smentirci. O meglio, siamo noi che siamo cambiati. E adesso diciamo: no, non è questa la persona che desideravo, non è questo il mestiere che volevo, non è questa la vita che sognavo.
Avevamo intravisto uno spiraglio di luce, e subito la porta si è richiusa sul buio.
Come uscire allora da questo vicolo cieco? Simile a un treno in corsa che attraversa fasci di binari, la spinta dei desideri apre e chiude gli scambi, si entusiasma e si deprime, incapace di scegliere il binario definitivo. Ma chi sarà in questa corsa il vero macchinista del treno? Noi o le nostre debolezze? Conoscere i nostri punti deboli, intanto, sarebbe già un buon risultato. Il guaio è che alle debolezze siamo affezionati molto più che alle nostre virtù, e anche quando le conosciamo è molto difficile opporvisi. Le debolezze chiedono di essere blandite, soddisfatte, sanno persino ammantarsi di nobili ragioni. Ma prima o poi ci presentano il conto, quasi sempre quando l'errore è stato commesso o l'abbaglio consumato.
Così fragile è la natura umana da indurci a prendere decisioni di cui ci pentiremo, solo perché dettate da pura vanità o da sollecitazioni esterne, che niente hanno a che fare con un bisogno profondo. Oppure operiamo scelte secondo la convenienza, ispirate da illusori calcoli che nascondono invece le nostre paure. E sotto questo aspetto si può ben dire che il destino è la somma delle nostre fragilità.
Vi sono periodi in cui sembra essere il Caso a governare l'esistenza, e allora abbiamo bisogno di tutta la Fortuna possibile, poiché ci sentiamo in balia dei venti. In altri periodi invece abbiamo la sensazione esaltante di essere noi da soli a reggere il timone, che è poi la consapevolezza delle nostre forze.
Comunque, quale che sia il nostro comportamento, passivo o attivo, continuiamo a navigare a vista, senza carte né strumenti di bordo, dando piccoli colpi di timone per correggere la rotta appena avvistiamo qualche scoglio. Ma siamo sicuri che sia questo piccolo cabotaggio la vita che abbiamo vagheggiato da giovani? Cioè quando sognavamo le grandi traversate?
Credo che risieda in questa sperequazione tra progetto e riuscita il nocciolo della nostra scontentezza. Presi nel vortice di continui cambiamenti sociali e mutamenti di valori (fra i quali primeggia il mito del denaro, e in secondo luogo del successo) arranchiamo come cani di un cinodromo dietro la lepre che non raggiungeranno mai.
L'usa e getta che la società ci impone come modello ci lascia alla fine con un pugno di mosche. Questo lo sappiamo, ma senza cadere in un rifiuto totale, che sarebbe irrealizzabile, sentiamo tuttavia un bisogno di certezze che diano più senso alla vita. Non esistono nella vita istruzioni per l'uso, e dunque l'empirismo è d'obbligo quando si parla di felicità individuale. Cioè di qualcosa che riguarda prima di tutto la sfera dei sentimenti (non soltanto amorosi) che sono per loro natura labili e soggetti a continue oscillazioni.
Così consumiamo le nostre giornate spendendo quel poco o tanto di coraggio che abbiamo unicamente per sopravvivere, senza pensare a come rinnovarci, ma con la oscura cognizione di uno spreco, cercando qualche consolazione nelle vacanze, in un viaggio, nel cambiare l'automobile, nel cercare una casa in campagna, sapendo benissimo che l'appagamento sarà solo temporaneo, e altri desideri sopravverranno.
A questo punto, come salvarci dal circolo vizioso dei bisogni insoddisfatti e dei falsi bisogni? Probabilmente dovremmo far nostro l'insegnamento di Fromm: che essere è più importante che avere. Ma, aggiungo io, imparare anche (e insegnarlo ai nostri figli cresciuti nella civiltà del consumismo) che desiderare è più importante che avere. Anzi è il modo più sicuro per sentirsi vivi e apprezzare le cose che abbiamo, dopo che siamo riusciti a ottenerle.
In fondo, se ci pensiamo, la vera felicità consiste nella soddisfazione di aver raggiunto un traguardo, per modesto che sia, con le nostre sole forze, attingendo a quell'energia latente che sonnecchia pigra dentro di noi. E, se mi è consentita una piccola formula, nell'accettare i nostri limiti con maggior consapevolezza.
Forse la sola risposta agli interrogativi che ci assillano è impegnarsi a costruire, senza temere di dovere in futuro demolire. Dare amore senza aspettarsi di riceverne in eguale misura. Costruire affetti, amicizie, tenerezza. Qualcosa che non si compera, qualcosa su cui poter contare.
Carlo Castellaneta, scrittore milanese, ha dedicato alla sua città gran parte della sua produzione letteraria. Ha pubblicato, infatti, 15 romanzi e 4 raccolte di novelle che hanno per sfondo Milano. Collabora a Il Corriere della Sera con note di costume.