La grande proletaria si è mossa. Discorso di Giovanni Pascoli in esaltazione dell'impresa di Libia
Tra i tanti scritti e discorsi a sostegno della
conquista libica scegliamo questo del poeta Giovanni Pascoli, La
grande Proletaria si è mossa. Non può certo sorprendere che
un poeta nazionalista e attento alle mode come D'Annunzio abbia
inneggiato alla guerra di Libia (con le cosiddette canzoni
pubblicate sul «Corriere della Sera» nell'ottobre-dicembre 1911);
ma che anche un poeta della natura, del dolore e dei sentimenti
più semplici e umani come Pascoli abbia sentito il bisogno di
esaltare il nuovo colonialismo italiano, dà la misura dell'ubriacatura
nazionalista che percorse l'Italia nell'autunno 1911.
Nel discorso di Pascoli ricorrono tutti i temi più mistificanti
della propaganda coloniale: dalla fertilità delle regioni
libiche alle aquile di Roma, dal nuovo sbocco offerto all'emigrazione
al superamento della lotta di classe, dall'esaltazione dell'esercito
e della marina al disprezzo per l'arabo, il tutto unificato da un
dilagare di retorica senza freni. Sara poi ripreso dal fascismo
il tema centrale, ossia la giusta e vittoriosa lotta dell'Italia,
nazione proletaria sempre oltraggiata e misconosciuta, contro le
nazioni più ricche per la conquista di una nuova potenza e di un
«posto al sole».
Da "Il colonialismo italiano" La guerra di
Libia
È il discorso che Pascoli tenne al Teatro comunale di Barga il 21 novembre 1911, pubblicato su «La Tribuna» del 27 novembre 1911, e nel quale espresse la sua entusiastica adesione allimpresa libica. Questo brano non è solo importante per capire lideologia del Pascoli ma anche per comprendere lideologia degli intellettuali del tempo. La guerra in Libia e la polemica che avvenne in Italia prima dellintervento (1910) sono considerate dagli storici come una premessa del coinvolgimento italiano nella prima guerra mondiale. Il Pascoli, che si dichiarò sempre simpatizzante socialista, in questo brano dimostra di non esserlo affatto. La giustificazione dellintervento militare (non si può fare altrimenti) trova fondamento nel fatto che i proletari italiani non dovranno più emigrare in massa in tutto il mondo, in cerca di migliori condizioni di vita, ma andando in Libia, si sentiranno come in Patria a tutti gli effetti (il socialismo in realtà ripudiava le guerre di conquista, accettando solo quelle di difesa). In questo brano Pascoli, riferendosi alla grandezza dellantico Impero Romano, non tiene conto della giusta autodeterminazione dei popoli libici, e i toni un po razzisti di questo brano anticipano quelli più dichiarati e marcati degli interventisti e di DAnnunzio.
La grande proletaria si è mossa.
Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano
troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi
e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar
terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a
dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad
animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare
tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è
più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell'inaccessibile,
a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar pometi,
agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al
canto della strada.
Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d'Italia; e più ne
aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li
trattava male e li stranomava. Diceva Carcamanos! Gringos!
Cincali! Degos!
Erano diventati un po' come i negri, in America, questi
connazionali di colui che la scoprì; e come i negri ogni tanto
erano messi fuori della legge e della umanità, si linciavano.
Lontani o vicini alla loro patria, alla patria nobilissima su
tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i
più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più
ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici
indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini
che fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a
rinnegare la nazione, a non essere più d'Italia.
Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Si, come Dante,
a dir Terra, come Colombo, a dir Avanti! come Garibaldi.
Si diceva: - Dante? Ma voi siete un popolo d'analfabeti! Colombo?
Ma la vostra è l'onorata società della camorra e della mano
nera! Garibaldi? Ma il vostro esercito s'è fatto vincere e
annientare da africani scalzi! Viva Menelik!
I miracoli del nostro Risorgimento non erano più ricordati, o,
appunto, ricordati come miracoli di fortuna e d'astuzia. Non
erano più i vincitori di San Martino e di Calatafimi, gl'italiani:
erano i vinti di Abba-Garima. Non avevano essi mai impugnato il
fucile, puntata la lancia, rotata la sciabola: non sapevano
maneggiare che il coltello.
Così queste opre tornavano in patria poveri come prima e peggio
contenti di prima, o si perdevano oscuramente nei gorghi delle
altre nazionalità.
Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta
regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come
sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si
protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che
già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d'acque e di
messi, e verdeggiante d'alberi e giardini; e ora, da un pezzo,
per l'inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran
parte un deserto.
Là i lavoratori saranno, non l'opre, mal pagate mal pregiate mal
nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle
parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; non
dovranno, il nome della patria, a forza, abiurarlo, ma apriranno
vie, colteranno terre, deriveranno acque, costruiranno case,
faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall'immenso
palpito del mare nostro il nostro tricolore.
E non saranno rifiutati, come merce avariata, al primo approdo; e
non saranno espulsi, come masnadieri, alla prima loro protesta; e
non saranno, al primo fallo d'un di loro, braccheggiati inseguiti
accoppati tutti, come bestie feroci.
Veglieranno su loro le leggi alle quali diedero il loro voto.
Vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà una
continuazione della terra nativa, con frapposta la strada
vicinale del mare. Troveranno, come in patria, ogni tratto le
vestigia dei grandi antenati.
Anche là è Roma.
E Rumi saranno chiamati. Il che sia augurio buono e promessa
certa. SI: Romani. SI: fare e soffrire da forti. E sopra tutto ai
popoli che non usano se non la forza, imporre, come non si può
fare altrimenti, mediante la guerra, la pace.
- Ma che? - Il mondo guarda attonito o nasconde sotto il ghigno
beffardo la sua meraviglia. - La Nazione proletaria, la nostra
fornitrice di braccia a prezzi ridotti, non aveva se non il
piccone, la vanga e la carriola. Queste le sue arti, queste le
armi sue: le armi, per lo meno, che sole sa maneggiare, oltre il
coltello col quale partisce il pane e si fa ragione sulle risse.
Si diceva bensì che era una potenza; e invero aveva avuto un
cotal risveglio che ella chiama risorgimento. Qual risorgimento?
Dalla vittoria d'un benefico popolo alleato aveva ottenuto Milano;
da quella d'un altro, Venezia. In un momento che questi due
alleati si battevano fieramente tra loro, ella aveva ghermito
Roma. Così la nazione era risorta. E risorta, volendo dar prova
di sè, era stata vinta da popoli neri e semineri E ora ... -
Ecco quel che è accaduto or ora e accade ora.
Ora l'Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant'anni
ch'ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per
la sua parte all'umanamento e incivilimento dei popoli; al suo
diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo
materno ufficio di provvedere ai suoi figli volenterosi quel che
sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno coi secoli augusti
delle sue due Istorie, di non esser da meno nella sua terza era
di quel che fosse nelle due prime; si è presentata possente e
serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare per terra e per
cielo.
Nessun'altra nazione, delle più ricche, delle più grandi, è
mai riuscita a compiere un simile sforzo. Che dico sforzo? Tutto
è sembrato così agevole, senza urto e senza attrito di sorta!
Una lunghissima costa era in pochi giorni, nei suoi punti
principali, saldamente occupata. Due eserciti vi campeggiano in
armi. O Tripoli, o Beronike, o Leptis Magna (non hanno diritto di
porre il nome quelli che hanno disertato o distrutta la casa!),
voi rivedete, dopo tanti secoli, i coloni dorici e le legioni
romane!
Guardate in alto: vi sono anche le aquile!
Un altro popolo ai nostri giorni si rivelò a un tratto così.
Dopo non molti anni che si veniva trasformando in silenzio,
eccolo mettere per primo in azione tutte le moderne invenzioni e
scoperte, le immense navi, i mostruosi cannoni, le mine e i
siluri, la breve vanga delle trincee, e il tuo invisibile spirito,
o Guglielmo Marconi, che scrive coi guizzi del fulmine; tutti i
portati della nuova scienza e tutto il suo antico eroismo; e coi
suoi soldatini ...
O non sono chiamati soldatini anche i classiarii e i legionari d'Italia?
Non ha l'Italia nuova in questa sua prima grande guerra messo in
opera tutti gli ardimenti scientifici e tutta la sua antica
storia? Non ha per prima battuto le ali e piovuto la morte sugli
accampamenti nemici? Non ha, a non grande distanza dal
promontorio Pulcro, rinnovato gli sbarchi di Roma? Non si è già
trincerata inespugnabilmente, secondo l'arte militare dei
progenitori, con fossa e vallo; per avanzare poi sicura e
irresistibile?
Eccoli là, e sono pur sempre quelli e attendono al medesimo
lavoro, i lavoratori che il mondo prendeva e prende a opra.
Eccoli con la vanga in mano, eccoli a picchiar col piccone e con
la scure, i terrazzieri e braccianti per tutto cercati e per
tutto spregiati. Con la vanga scavano fosse e alzano terrapieni,
al solito. Coi picconi, al solito, demoliscono vecchie muraglie,
e con le scuri abbattono, al solito, grandi selve.
Ma non sono le solite strade, che fanno per altrui: essi aprono
la via alla marcia trionfale e redentrice d'Italia.
Fanno una trincea di guerra, sgombrano lo spazio alle artiglierie.
Stanno li sotto i rovesci d'acqua, sotto le piogge di fuoco; e
cantano. La gaia canzone d'amore e ventura è spesso l'inno
funebre che cantano a se stessi, gli eroi ventenni. Che dico eroi?
Proletari, lavoratori, contadini.
Il popolo che l'Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo
appello, al suo invito, al suo comando, è là. O cinquant'anni
del miracolo! I contadini che spesso furono riluttanti e
ripugnanti, i contadini che anche lontani dal Lombardo-Veneto
chiamavano loro imperatore l'imperatore d'Austria, e ciò quando
l'imperio di Roma era nelle mani del dittatore ultimo, i
contadini che Garibaldi non trovò mai nelle sue file ...
vedeteli!
È l'ora dell'insidia e del tradimento. La trincea è in qualche
punto sorpassata. I nostri sono fucilati al petto e pugnalati a
tergo. Sopraggiunge al galoppo vertiginoso una batteria appena
appena sbarcata. La rivoltella in pugno, gli occhi schizzanti
fuoco, anelanti sui cavalli sferzati e spronati a sangue, vengono
... i contadini italiani. In tre minuti i cavalli sono staccati,
gli affusti tolti, i cannoni appostati; e la tempesta di ferro e
fuoco tuona formidabilmente.
Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cinquant'anni fa
l'Italia non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie,
non aveva commerci, non aveva coscienza di se, non aveva ricordo
del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell'avvenire.
In cinquant'anni è parso che altro non si facesse se non errori
e anche delitti; non si cominciasse se non a far sempre male e
non si finisse se non col non far mai nulla. La critica era
feroce e interminabile e insaziabile. Era forse un desiderio
impaziente che la animava.
Ebbene in cinquant'anni l'Italia aveva rifoggiato saldamente,
duramente, immortalmente, il suo destino.
Chi vuol conoscere quale ora ella è, guardi la sua armata e il
suo esercito. Li guardi ora in azione. Terra, mare e cielo, alpi
e pianura, penisola e isole, settentrione e mezzogiorno, vi sono
perfettamente fusi. Il roseo e grave alpino combatte vicino al
bruno e snello siciliano, l'alto granatiere lombardo s'affratella
col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri (chi vorrà
assegnare ai bersaglieri, fiore della gioventù panitalica, una
particolare origine?), gli artiglieri della nostra madre terra
piemontese dividono i rischi e le guardie coi marinai di Genova e
di Venezia, di Napoli e d'Ancona, di Livorno, di Viareggio, di
Bari. Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici
della loro luminosa ferita: voi avrete agio di ricordare e
ripassare la geografia di questa che appunto era tempo fa, una
espressione geografica.
E vi sono le classi e le categorie anche là : ma la lotta non v'è
o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima
lo afferra, a chi prima muore A questo modo là il popolo lotta
con la nobiltà e con la borghesia. Così là muore, in questa
lotta, l'artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese,
al duca.
Non si chiami, questa, retorica. Invero né là esistono classi né
qua. Ciò che perennemente e continuamente si muta, non è. La
classe che non è per un minuto solo composta dei medesimi
elementi, la classe in cui, con eterna vicenda, si può entrare e
se ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un'altra
classe. Qual lotta dunque può essere che non sia contro sè
stessa?
E lottiamo, dunque, bensì; ma sia la nostra lotta come quella
che si vede là, della nostra Patria, per così dire, scelta,
della nostra Patria, che vorrei dire in piccolo, se non dovessi
aggiungere: no: in grande!
Lotta d'emulazione tra fratelli, ufficiali o soldati, a chi più
ami la madre comune, che ne li rimerita con uguali gradi, premi,
onori, e li avvolge morti nello stesso tricolore.
O voi che siete la più grande, la più bella, la più benefica
scuola che abbia avuta nel cinquantennio l'Italia, armata ed
esercito nostri!
Dicono che in codesta scuola s'insegna a oziare! E no: s'insegna
a vigilar sempre. S'insegna a godere! E no: s'insegna a patire. S'insegna
a essere crudeli a ogni incendio, a ogni inondazione, a ogni
terremoto, a ogni peste, accorrono questi crudeli a fare da
pompieri, da navicellai, da suore di carità, da governanti, da
infermieri, da becchini. S'insegna a uccidere! S'insegna a morire.
Questa è la scuola che, oltre aver distribuito tanto alfabeto,
ci ammaestra esemplarmente nell'umano esercizio del diritto e
nell'eroico adempimento del dovere. Essa risponde ora a quelli
che confondono l'aspirazione alla pace con la rassegnazione alla
barbarie e alla servitù.
- Noi -- dicono quei nostri maestri -- che siamo l'Italia in armi,
l'Italia al rischio, l'Italia. in guerra, combattiamo e spargiamo
sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per coltivare,
non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire,
non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro non è quello
dei Turchi. La nostra è dunque, checché appaiono i nostri atti
singoli di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma
difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di
alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata,
contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano
tutto, sequestrano per sè e corrono per loro, senza coltivarla,
togliendo pane, cibi, vesti, case, all'intera collettività che
ne abbisogna. A questa terra, così indegnamente sottratta al
mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che
nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare;
segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non
siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi
questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un
dovere nostro.
Così risponde l'Italia guerreggiante ai fautori dei pacifici
Turchi e della loro benefica scimitarra; degli umani Beduini-Arabi
che non usano violare e mutilare soltanto cadaveri; degli
industriosi razziatori di negri e mercanti di schiavi.
Così risponde con un fatto di eroica e materna pietà, che ha
virtù di simbolo. Il bersagliere, di quelli fulminati di fronte
e pugnalati alle spalle, raccoglie di tra i cadaveri una bambina
araba: la tiene con se nella trincea, la nutre, la copre, l'assicura.
Tuonano le artiglierie. Sono il canto della cuna. Passano
rombando le granate. La bambina è ben riparata, e le crede, chi
sa? balocchi fragorosi e luminosi. Ella è salva: crescerà
italiana, la figlia della guerra. O non è ella la barbarie, non
decadente e turpe, ma vergine e selvaggia; la barbarie nuda
famelica abbandonata? E colui che la salva e la nutre e la veste
non è l'esercito nostro che ha l'armi micidiali e il cuore pio,
che reca costretto la morte e non vorrebbe portar che la vita?
O esercito calunniato! Eppur tra lo sdegno e lo schifo, nel
leggere le diffamazioni dei giornali stranieri, noi abbiamo
sorriso! Chi non ha visto qualche volta i nostri bei ragazzi
armati dividere la gamella e il pan di munizione con qualche
vecchio povero? Chi non ha visto qualche volta uno dei nostri
cari fanciulloni soldati con un bambino in collo? Chi non li ha
visti accorrere a tutte le sventure, prestarsi a tutte le fatiche,
affrontare tutti i pericoli per gli altri? Ora ecco che in pochi
giorni sono divenuti masnadieri ...
Sì: noi sorrideremmo se l'accusa, per quanto assurda, ma immonda,
non toccasse ciò che abbiamo di più caro e di più sacro. Hanno
detto, rivolgendosi al tuo esercito, turpi parole contro te, o
pura o santa madre nostra Italia! Per quanto elle non giungano
all'orlo della tua veste, noi non possiamo perdonare, o madre d'ogni
umanità, o madre tanto forte quanto pia!
Noi ce ne ricorderemo. Ricorderemo che voi, o stranieri, avete
voluto prestare i fermenti di barbarie che forse ancora brulicano
nel vostro cuore, al popolo che con San Francesco rese più umano,
se è lecito dirlo, persino Gesù Nazareno; che coi suoi soavi
artisti fece dell'inaccessibile cielo una buona tiepida raccolta
casa terrena piena d'amore; che col Beccaria abolì la tortura;
che, quasi solo nel mondo, non ha più la pena di morte; che in
Garibaldi ebbe un portentoso guerriero che odiava la guerra e
preferiva la vanga alla spada e piangeva sul nemico vinto e sceso
dal trono e perdonava al suo tortòre e non faceva distruggere un
campo di grano, dove i nemici potevano nascondersi, perché il
grano era quasi maturo e vicino a divenir pane.
O santi martiri nostri, o Pellico e Oroboni, o Tazzoli e Tito
Speri, che vi faceste del duro carcere sotterraneo un tempio, e
del patibolo un altare!
Ma noi sappiamo da che furono mosse le inique accuse. Da questo:
l'esempio che aveva a restar unico, del Giappone, si era, dopo
poco tempo rinnovato. Le opre de' mondo erano, a suo tempo e
luogo, soldatini formidabili. La grande Proletaria delle nazioni
(laboriosa e popolosa questa dell'occidente appunto come quell'altra
dell'oriente estremo) scendeva in campo, si mostrava, per mare
per terra e per cielo, potenza tanto più forte quanto più
semplice, più lavoratrice, più avvezza a soffrire che a godere,
più consapevole del suo diritto conculcato, più ispirata dal
sublime pensiero che ella, pur mo' redenta, doveva a sua volta
divenir redentrice.
Così l'Italia si è affermata e confermata. Ora è incrollabile.
Può (perdonate la bestemmia; ché in verità ella non può!)
essere ricacciata al mare, essere costretta ad abbandonare l'impresa,
essere invasa, corsa, calpestata, divisa e assoggettata ancora:
ella è e resterà, non può morir più una nazione in cui le
madri raccomandano ai figli che partono per la guerra, di farsi
onore, in cui tutti i bambini delle scuole rompono per i
feriti il loro salvadanaio, in cui (udite: è cosa accaduta in un
borghetto qui presso: ai Conti) il più povero mezzaiuolo dei
dintorni, che ha un figlio nelle trincee di Tripoli, dà ai
cercatori della Patria i suoi unici due soldi: l'obolo che la
Patria ha riposto nel suo seno, vicino al suo gran cuore, come
inestimabile tesoro.
I nostri feriti non trascineranno per le vie le mutile membra e
la vita impotente. No. Saranno quello che per la madre e per i
fratelli è il figlio e fratello nato o fatto infelice. Saranno i
careggiati, i meglio riguardati, i più amati. Essi ci
ricorderanno la prima ora che abbiamo avuta, dopo tanti anni, di
coscienza di noi, di gloria e vittoria, d'amore e concordia.
Non tenderanno la mano. La tenderemo noi a loro per averne una
stretta che ci faccia bene al cuore. Non picchieranno alla porta.
Le apriremo noi, a due battenti, le porte, per farli assidere al
nostro focolare e alla nostra mensa, e udirne i semplici e
magnifici racconti, e consacrare la nostra casa e i nostri figli
a quella, che ci ispira ogni bene, ci tien lontani da ogni viltà,
ci accompagna sempre, e non muta mai: alla Patria a cui quando si
rende, e così volontieri, così giocondamente, così sorridenti,
la vita che ci diede, ella, ella piange.
Benedetti voi, morti per la Patria! Riunitevi, eroi gentili, nomi
eccelsi, umili nomi, ai vostri precursori meno avventurati di voi,
perchè morirono per ciò che non esisteva ancora!
Voi l'Italia già grande ha raccolti nelle braccia possenti.
Qual festa vi faranno i morti vincitori di S. Martino di
Calatafimi! Il gigantesco Schiaffino, morto impugnando la
bandiera dei Mille, come accoglierà i piccoli fucilieri dell' 84°
conquistatori della bandiera del Profeta! Ma non vi fermate
troppo con loro; o bersaglieri di Homs coi bersaglieri di
Palestro, o cavalleggeri di Tripoli coi cavalleggeri di
Montebello. La vittoria rende felice anche i morti.
Andate a consolare i vinti! O Bianco, santa primizia della guerra,
o Grazioli, o De Lutti, o marinai di Tripoli e Ben-Ghazi,
consolate i morti di Lissa! O Bruchi, o Solaroli, o Granafei, o
Faitini, o Flombert, o Orsi, o Bellini, o Silvatici, o trecento
caduti in un'ora, consolate i morti di Custoza!
Oh! Non dimenticate i più dolorosi, e, se si può dire, anche
più valorosi, morti di Amba Alage e Abba Garima. Sono, essi, gli
ultimi martiri d'Italia: sono ancora sulla soglia. Abbracciate il
maggior Toselli così degno di guidare un'avanzata audace su Ain-Zara!
Baciate il maggior Galliano, così degno di difendere le trincee
di Bu-Meliana e Sciara-Sciat!
O capitano Pietro Verri che nel momento più periglioso guidasti
al contrattacco, fuori delle Trincee, i mozzi di sedici e diciassette
anni, i ragazzi del nostro mare, o sublime capitan Verri, tu va
direttamente a Caprera, va a narrar la cosa a Giuseppe Garibaldi.
Ripeterà esso a te il tuo appello: Garibaldini del mare! E ti
ricorderà che egli aveva il suo battaglione di speranzini,
ragazzi raccolti per le strade, i quali a Velletri, divini
fanciulli, lo salvarono.
Benedetti, o morti per la Patria! Voi non sapete che cosa siete
per noi e per la Storia! Non sapete che cosa vi debba l'Italia! L'Italia,
cinquant'anni or sono, era fatta. Nel sacro cinquantennario voi
avete provato, ciò che era voto de' nostri grandi che non
speravano si avesse da avverare in così breve tempo, voi avete
provato che sono fatti anche gl'italiani.
Giovanni Pascoli