RERUM NOVARUM lettera enciclica di S.S. LEONE XIII - La chiesa e il mondo del lavoro
È stato ormai assodato che la celebre enciclica leoniana trae le sue origini dalle sollecitazioni del cattolicesimo sociale europeo allora assai più avanzato nelle sue elaborazioni teoriche e nelle sue realizzazioni pratiche del corrispondente movimento cattolico italiano, prevalentemente interessato alla questione romana e alla posizione dei cattolici nell'ambito del nuovo stato unitario.
INTRODUZIONE
Motivo dell'enciclica: la
questione operaia
1. L'ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato
ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall'ordine politico
passare nell'ordine simile dell'economia sociale. E difatti i
portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell'industria;
le mutate relazioni tra padroni ed operai; l'essersi accumulata
la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il
sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici
più vivo, e l'unione tra loro più intima; questo insieme di
cose, con l'aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto
scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che
tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l'ingegno
dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le
deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che
oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo.
Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a
bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere
encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la
Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che
ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima
cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla
questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne
venne l'occasione più di una volta: ma la coscienza dell'apostolico
nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in
pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo
giustizia ed equità, si deve risolvere la questione. Questione
difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare
i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari,
tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed
astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la
questione stessa a perturbamento dei popoli.
2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell'uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un'usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all'infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile.
PARTE
PRIMA
IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO
La
soluzione socialista inaccettabile
dagli operai
3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando
nei poveri l'odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la
proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio
comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato.
Con questa trasformazione della proprietà da personale in
collettiva, e con l'eguale distribuzione degli utili e degli agi
tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato.
Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che
danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti
motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari,
altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto
l'ordine sociale.
4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l'artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d'investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l'accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all'operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione.
5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è diritto di natura. Poiché anche in questo passa gran differenza tra l'uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso; ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l'attività e ne svolgono le forze, dall'altra terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l'istinto della conservazione propria, e l'istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l'uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell'uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l'animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell'uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l'intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere all'uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che l'uso non consuma.
La proprietà privata è di
diritto naturale
6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell'umana
natura. Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che
abbraccia, oltre il presente, anche l'avvenire, e per la sua
libertà, l'uomo sotto la legge eterna e la provvidenza
universale di Dio, è provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque
poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento
della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il
tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei
frutti che dà la terra, spetta all'uomo la proprietà della
terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il
necessario ai suoi bisogni futuri. Giacché i bisogni dell'uomo
hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni e,
soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver
dato all'uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati
alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può
somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile
fecondità. Non v'è ragione di ricorrere alla provvidenza dello
Stato perché l'uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si
formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il
diritto di provvedere a sé stesso.
7. L'aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all'industria degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri vi supplisce con il lavoro; tanto che si può affermare con verità che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell'esercitare un'arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra e in essi viene commutata. Ed è questa un'altra prova che la proprietà privata è conforme alla natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione, che l'uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l'uomo impieghi l'industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, e in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità, sicché giustamente può tenerla per sua ed imporre agli altri l'obbligo di rispettarla.
La proprietà privata sancita
dalle leggi umane e divine
8. Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire
come abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali,
rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all'uomo l'uso del
suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha
fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà.
Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a
defraudare l'uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo
dissodato dalla mano e dall'arte del coltivato non è più quello
di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace.
Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che
la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che giustizia
sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse
a goderne i frutti? Come l'effetto appartiene alla sua causa,
così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A
ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi
contraddittori e con l'occhio fisso alla legge di natura, trova
in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni;
e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona
alla natura dell'uomo e alla pacifica convivenza sociale, l'ha
solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le
leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria
autorità ed efficacia dalla stessa legge naturale, confermano
tale diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il
suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente
perfino il desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie
del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non
il bue, non l'asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui
appartengono.
La libertà dell'uomo
9. Questo diritto individuale cresce di valore se lo
consideriamo nei riguardi del consorzio domestico. Libera all'uomo
è l'elezione del proprio stato: Egli può a suo piacere seguire
il consiglio evangelico della verginità o legarsi in matrimonio.
Naturale e primitivo è il diritto al coniugio e nessuna legge
umana può abolirlo, né può limitarne, comunque sia, lo scopo a
cui Iddio l'ha ordinato quando disse: Crescete e moltiplicatevi .
Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società
piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con
diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che
dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all'individuo
va applicato all'uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in
lui è tanto più forte quanto più estesa e completa è nel
consorzio domestico la sua personalità.
Famiglia e Stato
10. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il
mantenimento della prole: e per impulso della natura medesima,
che gli fa scorgere nei figli una immagine di sé e quasi una
espansione e continuazione della sua persona, egli è spinto a
provvederli in modo che nel difficile corso della vita possano
onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a
ottenersi se non mediante l'acquisto dei beni fruttiferi, ch'egli
poi trasmette loro in eredità. Come la convivenza civile così
la famiglia, secondo quello che abbiamo detto, è una società
retta da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti
determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e
l'uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua
legittima indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della
società civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il
consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al
civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i
diritti e i doveri. Che se l'uomo, se la famiglia, entrando a far
parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma
offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile
convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.
Lo Stato e il suo intervento
nella famiglia
11. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato
possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia.
Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in si gravi
strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile uscirne,
è giusto in tali frangenti l'intervento dei pubblici poteri,
giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente
in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i
membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il
suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma
assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però
deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare
oltre. La patria potestà non può lo Stato né annientarla né
assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa della vita umana.
I figli sono qualche cosa del padre, una espansione, per così
dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi
entrano a far parte del civile consorzio non da sé medesimi,
bensì mediante la famiglia in cui sono nati. È appunto per
questa ragione che, essendo i figli naturalmente qualcosa del
padre... prima dell'uso della ragione stanno sotto la cura dei
genitori. Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei
genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e
disciolgono la compagine delle famiglie.
La soluzione socialista è
nociva alla stessa società
12. Ed oltre l'ingiustizia, troppo chiaro appare quale
confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della
cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si
aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie:
le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni
stimolo all'ingegno e all'industria individuale: e la sognata
uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di
abiezione e di miseria. Tutte queste ragioni danno diritto a
concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va
del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve
recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera
gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo
adunque, che nell'opera di migliorare le sorti delle classi
operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di
proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a
trarre il rimedio.
PARTE
SECONDA
IL VERO RIMEDIO:
L'UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI
A) L'opera della Chiesa
13. Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno
diritto; giacché si tratta di questione di cui non è possibile
trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione
e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la
dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è
affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro
ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema
richiede il concorso e l'efficace cooperazione anche degli altri:
vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure
degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma
senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall'azione
della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la
Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o
certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura
con gli insegnamenti suoi, non solo d'illuminare la mente, ma d'informare
la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche
istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole
e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si
colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere
meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che,
entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse
leggi e l'autorità dello Stato.
1 - Necessità delle
ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso
14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che
si deve sopportare la condizione propria dell'umanità: togliere
dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano,
è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle
cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per
natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la
stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da
queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza
delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei
privati che del civile consorzio, perché la vita sociale
abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l'impulso
principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la
disparità dello stato. Quanto al lavoro, l'uomo nello stato
medesimo d'innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che,
quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a
ricreazione dell'animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato,
non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell'oracolo
divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di
essa in fatica tutti i giorni della tua vita. Similmente il
dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure,
difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le
quali, si voglia o no, accompagnano l'uomo fino alla tomba.
Patire e sopportare è dunque il retaggio dell'uomo; e qualunque
cosa si faccia e si tenti, non v'è forza né arte che possa
togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di
poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di
dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo
trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli
attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e
nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai
mali.
2 - Necessità della concordia
15. Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo:
supporre una classe sociale nemica naturalmente dell'altra; quasi
che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare
tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione
e alla verità. In vece è verissimo che, come nel corpo umano le
varie membra si accordano insieme e formano quell'armonico
temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che
nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e
ne risultasse l'equilibrio. L'una ha bisogno assoluto dell'altra:
né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza
il capitale. La concordia fa la bellezza e l'ordine delle cose,
mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e
barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse
radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.
3 - Relazioni tra le classi
sociali
a) giustizia
16. Innanzi tutto, l'insegnamento cristiano, di cui è
interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e
mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando
agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello
imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al
proletario e all'operaio, sono questi: prestare interamente e
fedelmente l'opera che liberamente e secondo equità fu pattuita;
non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni;
nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti,
né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini
malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che
quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono
i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai
schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana,
nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e
della fede il lavoro non degrada l'uomo, ma anzi lo nobilita col
metterlo in grado di vivere onestamente con l'opera propria.
Quello che veramente è indegno dell'uomo è di abusarne come di
cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono
i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei
proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell'anima.
È obbligo perciò dei padroni lasciare all'operaio comodità e
tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a
seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo
dallo spirito di famiglia e dall'amore del risparmio; non
imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l'età
e con il sesso.
17. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli operai... che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti. Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell'operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l'operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza. L'osservanza di questi precetti non basterà essa sola a mitigare l'asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio ?
b) carità
18. Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall'esempio
di Cristo, mira più in alto, cioè a riavvicinare il più
possibile le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo
non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l'animo non
si eleva ad un'altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale
la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi
l'intera creazione diventa un mistero inspiegabile. Quello
pertanto che la natura stessa ci detta, nel cristianesimo è un
dogma su cui come principale fondamento poggia tutto l'edificio
della religione: cioè che la vera vita dell'uomo è quella del
mondo avvenire. Poiché Iddio non ci ha creati per questi beni
fragili e caduchi, ma per quelli celesti ed eterni; e la terra ci
fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu
abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia
privo, ciò all'eterna felicità non importa nulla; ma il buono o
cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa.
Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù,
Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con redenzione copiosa, non
le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù e in maniera
di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere al
cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. Se persevereremo,
regneremo insieme. Accettando volontariamente sopra di sé
travagli e dolori, egli ne ha mitigato l'acerbità in modo
meraviglioso, e non solo con l'esempio ma con la sua grazia e con
la speranza del premio proposto, ci ha reso più facile il patire.
Poiché quella che attualmente è una momentanea e leggera
tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura
smisurato peso di gloria. I fortunati del secolo sono dunque
avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse
per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono; che i
ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente
severe di Gesù Cristo; che dell'uso dei loro beni avranno un
giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice.
c) la vera utilità delle
ricchezze
19. In ordine all'uso delle ricchezze, eccellente e
importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta dalla
filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa; la
quale inoltre procura che non rimanga pura speculazione, ma
discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale
dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il
possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell'uomo
è, come vedemmo, la privata proprietà dei beni e l'esercitare
questo diritto é, specialmente nella vita socievole, non pur
lecito, ma assolutamente necessario. È lecito, dice san Tommaso,
anzi necessario all'umana vita che l'uomo abbia la proprietà dei
beni. Ma se inoltre si domandi quale debba essere l'uso di tali
beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a
rispondere che, per questo rispetto, l'uomo non deve possedere i
beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che
facilmente li comunichi all'altrui necessità. Onde l'Apostolo
dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare
facilmente il proprio. Nessuno, Certo, é tenuto a soccorrere gli
altri con le cose necessarie a sé e ai suoi, anzi neppure con
ciò che è necessario alla convivenza e al decoro del proprio
stato, perché nessuno deve vivere in modo non conveniente. Ma
soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere
col superfluo i bisognosi. Quello che sopravanza date in
elemosina. Eccetto il caso di estrema necessità, questi, è vero,
non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui
adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma
sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il
giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del
dono generoso e insegna: È più bello dare che ricevere, e
terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai
bisognosi: Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei
fratelli, a me lo faceste. In conclusione, chiunque ha ricevuto
dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e
corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di
servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come
ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui: Chi ha
dunque ingegno, badi di non tacere; chi ha abbondanza di roba, si
guardi dall'essere troppo duro di mano nell'esercizio della
misericordia; chi ha un'arte per vivere, ne partecipi al prossimo
l'uso e l'utilità.
d) vantaggi della povertà
20. Ai poveri poi, la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è
cosa che rechi vergogna né la povertà né il dover vivere di
lavoro. Gesù Cristo confermò questa verità con 1'esempio suo
mentre, a salute degli uomini, essendo ricco, si fece povero ed
essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire ed
essere creduto figlio di un falegname, anzi non ricusò di
passare lavorando la maggior parte della sua vita: Non è costui
il fabbro, il figlio di Maria? Mirando la divinità di questo
esempio, si comprende più facilmente che la vera dignità e
grandezza dell'uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù;
che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai
grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle
opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio dell'eterna
beatitudine. Diciamo di più per gli infelici pare che Iddio
abbia una particolare predilezione poiché Gesù Cristo chiama
beati i poveri; in. vita amorosamente a venire da lui per
conforto, quanti sono stretti dal peso degli affanni; i deboli e
i perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima.
Queste verità sono molto efficaci ad abbassar l'orgoglio dei
fortunati e togliere all'avvilimento i miseri, ad ispirare
indulgenza negli uni e modestia negli altri. Così le distanze,
tanto care all'orgoglio, si accorciano; né riesce difficile
ottenere che le due classi, stringendosi la mano, scendano ad
amichevole accordo.
e) fraternità cristiana
21. Ma esse, obbedendo alla legge evangelica, non saranno
paghe di una semplice amicizia, ma vorranno darsi l'amplesso dell'amore
fraterno. Poiché conosceranno e sentiranno che tutti gli uomini
hanno origine da Dio, Padre comune; che tutti tendono a Dio, fine
supremo, che solo può rendere perfettamente felici gli uomini e
gli angeli; che tutti sono stati ugualmente redenti da Gesù
Cristo e chiamati alla dignità della figliolanza divina, in modo
che non solo tra loro, ma con Cristo Signore, primogenito fra
molti fratelli, sono congiunti col vincolo di una santa
fraternità. Conosceranno e sentiranno che i beni di natura e di
grazia sono patrimonio comune del genere umano e che nessuno,
senza proprio merito, verrà diseredato dal retaggio dei beni
celesti: perché se tutti figli, dunque tutti eredi; eredi di Dio,
e coeredi di Gesù Cristo. Ecco 1'ideale dei diritti e dei doveri
contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse nel mondo, non
cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?
4 - Mezzi positivi
a) la diffusione della dottrina cristiana
22. Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio,
l'applica ella stessa con la materna sua mano. Poiché ella é
tutta intenta a educare e formare gli uomini a queste massime,
procurando che le acque salutari della sua dottrina scorrano
largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare
tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare
negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino
governare dai divini precetti. E in quest'arte, che é di
capitale importanza, poiché ne dipende ogni vantaggio, la
Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera
a muovere gli animi le furono dati a questo fine da Gesù Cristo,
ed hanno in sé virtù divina; si che essi soli possono penetrare
nelle intime fibre dei cuori, e far si che gli uomini obbediscano
alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con
supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano
coraggiosamente tutti gli ostacoli che attraversano il cammino
della virtù.
b) il rinnovamento della
società
Basta su ciò accennar di passaggio agli esempi antichi.
Ricordiamo fatti e cose poste fuori di ogni dubbio: cioè che per
opera del cristianesimo fu trasformata da capo a fondo la
società; che questa trasformazione fu un vero progresso del
genere umano, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale,
e un perfezionamento non mai visto per l'innanzi né sperabile
maggiore per l'avvenire; e finalmente che Gesù Cristo è il
principio e il termine di questi benefizi, i quali, scaturiti da
lui, a lui vanno riferiti. Avendo il mondo mediante la luce
evangelica appreso il gran mistero dell'incarnazione del Verbo e
dell'umana redenzione, la vita di Gesù Cristo Dio e uomo si
trasfuse nella civile società che ne fu permeata con la fede, i
precetti, le leggi di lui. Perciò, se ai mali del mondo v'è un
rimedio, questi non può essere altro che il ritorno alla vita e
ai costumi cristiani. È un solenne principio questo, che per
riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai
principi che le hanno dato l'essere, la perfezione di ogni
società è riposta nello sforzo di arrivare al suo scopo: in
modo che il principio generatore dei moti e delle azioni sociali
sia il medesimo che ha generato l'associazione. Quindi deviare
dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad esso è salvezza.
E questo è vero, come di tutto il consorzio civile, così della
classe lavoratrice, che ne è la parte più numerosa.
c) la beneficenza della Chiesa
23. Né si creda che le premure della Chiesa siano così
interamente e unicamente rivolte alla salvezza delle anime, da
trascurare ciò che appartiene alla vita morale e terrena. Ella
vuole e procura che soprattutto i proletari emergano dal loro
infelice stato, e migliorino la condizione di vita. E questo essa
fa innanzi tutto indirettamente, chiamando e insegnando a tutti
gli uomini la virtù. I costumi cristiani, quando siano tali
davvero, contribuiscono anch'essi di per sé alla prosperità
terrena, perché attirano le benedizioni di Dio, principio e
fonte di ogni bene; infrenano la cupidigia della roba e la sete
dei piaceri, veri flagelli che rendono misero l'uomo nella
abbondanza stessa di ogni cosa; contenti di una vita frugale,
suppliscono alla scarsezza del censo col risparmio, lontani dai
vizi, che non solo consumano le piccole, ma anche le grandi
sostanze, e mandano in rovina i più lauti patrimoni.
24. Ma vi è di più: la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere quanto può conferire al loro sollievo, e in questo tanto si è segnalata, da riscuoter l'ammirazione e gli encomi degli stessi nemici. Nel cuore dei primi cristiani la carità fraterna era così potente che i più facoltosi si privavano spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tanto che non vi era tra loro nessun bisognoso. Ai diaconi, ordine istituito appositamente per questo, era affidato dagli apostoli l'ufficio di esercitare la quotidiana beneficenza e l'apostolo Paolo, benché gravato dalla cura di tutte le Chiese, non dubitava di intraprendere faticosi viaggi, per recare di sua mano ai cristiani poveri le elemosine da lui raccolte. Tertulliano chiama depositi della pietà le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli di ciascuna adunanza, perché destinate a soccorrere e dar sepoltura agli indigenti, sovvenire i poveri orfani d'ambo i sessi, i vecchi e i naufraghi. Da lì poco a poco si formò il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura come patrimonio della povera gente. La quale anzi, con nuovi e determinati soccorsi, venne perfino liberata dalla vergogna di chiedere. Giacché, madre comune dei poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando dappertutto l'eroismo della carità, la Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri benefici istituti, che non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto. Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa perfino di questa carità squisita, e si è creduto bene di sostituire a questa la beneficenza legale. Ma non è umana industria che possa supplire la carità cristiana, tutta consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se non virtù della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal cuore santissimo di Gesù Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.
B) L'opera dello Stato
25. A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è
dubbio che si richiedano altresì i mezzi umani. Tutti quelli che
vi sono interessati debbono concorrervi ciascuno per la sua parte:
e ciò ad esempio di quell'ordine provvidenziale che governa il
mondo; poiché d'ordinario si vede che ogni buon effetto è
prodotto dall'armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui
esso dipende. Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello
Stato. Noi parliamo dello Stato non come è sostituito o come
funziona in questa o in quella nazione, ma dello Stato nel suo
vero concetto, quale si desume dai principi della retta ragione,
in perfetta armonia con le dottrine cattoliche, come noi medesimi
esponemmo nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli
Stati (enc. Immortale Dei).
1 - Il diritto d'intervento
dello Stato
26. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in
maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle
istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo
che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità.
Questo infatti è l'ufficio della civile prudenza e il dovere dei
reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni deriva
specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia,
dall'osservanza della religione e della giustizia, dall'imposizione
moderata e dall'equa distribuzione dei pubblici oneri, dal
progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell'agricoltura
e da altre simili cose, le quali, quanto maggiormente promosse,
tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via,
può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al benessere
delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò di suo
pieno diritto e senza dar sospetto d'indebite ingerenze; giacché
provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato. E
quanto maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa
generale provvidenza, tanto minore bisogno vi sarà di tentare
altre vie a salvezza degli operai.
a) per il bene comune
27. Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da
vicino la questione: che cioè lo Stato è una armoniosa unità
che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I proletari
né di più né di meno dei ricchi sono cittadini per diritto
naturale, membri veri e viventi onde si compone, mediante le
famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior
numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini
e trascurare l'altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la
dovuta cura del benessere degli operai; non facendolo, si offende
la giustizia che vuole si renda a ciascuno il suo, Onde
saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte e il tutto
fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è
in qualche maniera della parte. Perciò tra i molti e gravi
doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia
quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini,
osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta
distributiva.
b) per il bene degli operai
Sebbene tutti i cittadini senza eccezione alcuna, debbano
cooperare al benessere comune che poi, naturalmente, ridonda a
beneficio dei singoli, tuttavia la cooperazione non può essere
in tutti né uguale né la stessa. Per quanto si mutino e
rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà e
disparità di condizione senza la quale non può darsi e neanche
concepirsi il consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici
ministri, legislatori, giudici, insomma uomini tali che governano
la nazione in pace, e la difendono in guerra; ed è facile capire
che, essendo costoro la causa più prossima ed efficace del bene
comune, formano la parte principale della nazione. Non possono
allo stesso modo e con gli stessi uffici cooperare al bene comune
gli artigiani; tuttavia vi concorrono anch'essi potentemente con
i loro servizi, benché in modo indiretto. Certo, il bene sociale,
dovendo essere nel suo conseguimento un bene perfezionativo dei
cittadini in quanto sono uomini, va principalmente riposto nella
virtù. Nondimeno, in ogni società ben ordinata deve trovarsi
una sufficiente abbondanza dei beni corporali, l'uso dei quali è
necessario all'esercizio della virtù. Ora, a darci questi beni
è di necessità ed efficacia somma l'opera e l'arte dei
proletari, o si applichi all'agricoltura, o si eserciti nelle
officine. Somma, diciamo, poiché si può affermare con verità
che il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza
nazionale. È quindi giusto che il governo s'interessi dell'operaio,
facendo si che egli partecipi ín qualche misura di quella
ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto,
vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque
al massimo ciò che può in qualche modo migliorare la condizione
di lui, sicuri che questa provvidenza, anziché nuocere a
qualcuno, gioverà a tutti, essendo interesse universale che non
rimangano nella miseria coloro da cui provengono vantaggi di
tanto rilievo.
2 - Norme e limiti del diritto
d'intervento
28. Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la
famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si
lasci all'uno e all'altra tanta indipendenza di operare quanta se
ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti. Tuttavia, i
governanti debbono tutelare la società e le sue parti. La
società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al
sommo potere, tanto che la salute pubblica non è solo legge
suprema, ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le
parti, poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a insegnare
che il governo è istituito da natura non a beneficio dei
governanti, bensì dei governati. E perché il potere politico
viene da Dio ed è una certa quale partecipazione della divina
sovranità, deve amministrarsi sull'esempio di questa, che con
paterna cura provvede non meno alle particolari creature che a
tutto l'universo. Se dunque alla società o a qualche sua parte
è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro
modo riparare o impedire, si rende necessario l'intervento dello
Stato.
29. Ora, interessa il privato come il pubblico bene che sia mantenuto l'ordine e la tranquillità pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la religione; che fioriscano i costumi pubblici e privati; che sia inviolabilmente osservata la giustizia; che una classe di cittadini non opprima l'altra; che crescano sani e robusti i cittadini, atti a onorare e a difendere, se occorre, la patria. Perciò, se a causa di ammutinamenti o di scioperi si temono disordini pubblici; se tra i proletari sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia; se la religione non é rispettata nell'operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri; se per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l'integrità dei costumi corre pericolo nelle officine; se la classe lavoratrice viene oppressa con ingiusti pesi dai padroni o avvilita da fatti contrari alla personalità e dignità umana; se con il lavoro eccessivi o non conveniente al sesso e all'età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità delle leggi. I quali fini sono determinati dalla causa medesima che esige l'intervento dello Stato; e ciò significa che le leggi non devono andare al di là di ciò che richiede il riparo dei mali o la rimozione del pericolo. I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.
3 - Casi particolari d'intervento
a) difesa della proprietà privata
30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari
di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi
devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata.
Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna
che le popolazioni siano tenute a freno; perché, se la giustizia
consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la
giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad
altri nella roba, e sotto colore di non so quale eguaglianza si
invada l'altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbe
migliorare la propria condizione onestamente, senza far torto ad
alcuni; tuttavia non sono pochi coloro i quali, imbevuti di
massime false e smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di
eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga
dunque l'autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori,
preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione e i
legittimi padroni da quello dello spogliamento.
b) difesa del lavoro
1) contro lo sciopero
31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata
scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A
questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato,
perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e
agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e,
per le violenze e i tumulti a cui d'ordinario danno occasione,
mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio,
poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire
il male con l'autorità delle leggi e impedire lo scoppio,
rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il
conflitto tra operai e padroni.
2) condizioni di lavoro
32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell'operaio,
e prima di tutto i beni dell'anima. La vita di quaggiù, benché
buona e desiderabile, non è il fine per cui noi siamo stati
creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita dello spirito con
la cognizione del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è
quello che porta scolpita in sé l'immagine e la somiglianza
divina, ed in cui risiede quella superiorità in virtù della
quale fu imposto all'uomo di signoreggiare le creature inferiori,
e di far servire all'utilità sua le terre tutte ed i mari.
Riempite la terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i
pesci del mare e gli uccelli dell'aria e tutti gli animali che si
muovono sopra la terra. In questo tutti gli uomini sono uguali,
né esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi,
monarchi e sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti. A
nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell'uomo, di
cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli
la via a quel perfezionamento che è ordinato all'acquisto della
vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l'uomo
rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare
la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei
quali sia libero l'esercizio, bensì di doveri verso Dio
assolutamente inviolabili. Di qui segue la necessità del riposo
festivo. Sotto questo nome non s'intenda uno stare in ozio più a
lungo, e molto meno una totale inazione quale si desidera da
molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma un riposo
consacrato dalla religione. Unito alla religione, il riposo
toglie l'uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per
richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla
Maestà divina. Questa è principalmente la natura, questo il
fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale, prescrisse
all'uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli: Ricordati di
santificare il giorno di sabato e che egli stesso insegnò di
fatto, quando nel settimo giorno, creato l'uomo, si riposò dalle
opere della creazione: Riposò nel giorno settimo da tutte le
opere che aveva fatte.
33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all'inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né umano esigere dall'uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l'attività dell'uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L'esercizio e l'uso l'affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un'altra o del tutto insopportabile o tale che sí sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all'uomo alto e robusto, non é ragionevole che s'imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l'età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all'erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l'onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l'educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all'operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l'uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell'uno e dell'altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio e a sé stesso.
3) la questione del salario
34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va
inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La
quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso
delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha
fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette
ingiustizia solo quando o il padrone non paga l'intera mercede o
l'operaio non presta tutta l'opera pattuita; e solo a tutela di
questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l'intervento
dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle
cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché
esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune
considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l'attività
umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente
alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte.
Ha dunque il lavoro dell'uomo come due caratteri impressigli da
natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è
inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e
al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il
frutto del lavoro è necessario all'uomo per il mantenimento
della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto
dalla natura. Ora, se si guarda solo l'aspetto della personalità,
non v'è dubbio che può l'operaio pattuire una mercede inferiore
al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l'opera,
così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o
rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la
personalità si considera la necessità: due cose logicamente
distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita
è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce,
come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di
sostentamento, che nella povera gente sí riducono al salario del
proprio lavoro. L'operaio e il padrone allora formino pure di
comune consenso il patto e nominatamente la quantità della
mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale,
anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è
che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al
sostentamento dell'operaio, frugale si intende, e di retti
costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di
peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal
proprietario o dall'imprenditore, volenti o nolenti debbono
essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la
quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili
cose, quali sono l'orario di lavoro, le cautele da prendere, per
garantire nelle officine la vita dell'operaio, affinché l'autorità
non s'ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose,
di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione
ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che
salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi
lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed
appoggio.
c) educazione al risparmio
35. Quando l'operaio riceve un salario sufficiente a
mantenere sé stesso e la sua famiglia in una certa quale
agiatezza, se egli è saggio, penserà naturalmente a risparmiare
e, assecondando l'impulso della stessa natura, farà in modo che
sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell'acquisto di
qualche piccola proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che l'inviolabilità
del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione
pratica ed efficace della questione operaia. Pertanto le leggi
devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più
possibile il numero dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi
vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della
ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione
della società come in due caste, tra le quali ha scavato un
abisso. Da una parte una fazione strapotente perché straricca,
la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e commercio,
sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita
pure nell'andamento dello Stato una grande influenza. Dall'altra
una moltitudine misera e debole, dall'animo esacerbato e pronto
sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine s'incoraggia l'industria
con la speranza di poter acquistare stabili proprietà, una
classe verrà avvicinandosi poco a poco all'altra, togliendo l'immensa
distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a ciò,
dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto maggiore.
Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più
alacrità e ardore, anzi si affezionano al campo coltivato di
propria mano, da cui attendono, per sé e per la famiglia, non
solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire
come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la
produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un
terzo vantaggio, cioè l'attaccamento al luogo natio; infatti non
si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse
di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che
tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata
proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il
diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma
da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente
temperarne l'uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia
ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto
di imposte.
C) L'opera delle associazioni
1 - Necessità della collaborazione di tutti
36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono
contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con
istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e
ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le
società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private
destinate a prendersi cura dell'operaio, della vedova, dei figli
orfani, nei casi d'improvvisi infortuni, d'infermità, o di altro
umano accidente; i patronati per i fanciulli d'ambo i sessi, per
la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto le
corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono
quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i
nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro
degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad
onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della
cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita
esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni
attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di
questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni,
ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità.
Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi sopra
per mostrarne l'opportunità, la legittimità, la forma del loro
ordinamento e la loro azione.
2 - Il diritto all'associazione
è naturale
37. Il sentimento della propria debolezza spinge l'uomo a
voler unire la sua opera all'altrui. La Scrittura dice: È meglio
essere in due che uno solo; perché due hanno maggior vantaggio
nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto dall'altro. Guai a chi
è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi. E altrove: il
fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata.
L'istinto di questa naturale inclinazione lo muove, come alla
società civile, così ad altre particolari società, piccole
certamente e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e
quella corre grandissima differenza per la diversità dei loro
fini prossimi. Il fine della società civile è universale,
perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e
singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione.
Perciò è chiamata pubblica; per essa gli uomini si mettono in
mutua comunicazione al fine di formare uno Stato. Al contrario le
altre società che sorgono in seno a quella si dicono e sono
private, perché hanno per scopo l'utile privato dei loro soci.
Società privata è quella che si forma per concludere affari
privati, come quando due o tre si uniscono a scopo di commercio.
38. Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro la Stato e ne siano come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo Stato proibirne la formazione. Poiché il diritto di unirsi in società l'uomo l'ha da natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe sé stesso, perché l'origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell'uomo. Si danno però casi che rendono legittimo e doveroso il divieto. Quando società particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all'onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile, legittimamente vi si oppone lo Stato, o vietando che si formino o sciogliendole se sono formate; è necessario però procedere in ciò con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini, e non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi non obbligano se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso alla legge eterna di Dio.
39. E qui il nostro pensiero va ai sodalizi, collegi e ordini religiosi di tante specie a cui dà vita l'autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli; e con quanto vantaggio del genere umano, lo attesta la storia anche ai nostri giorni. Tali società, considerate al solo lume della ragione, avendo un fine onesto, sono per diritto di natura evidentemente legittime. In quanto poi riguardano la religione, non sottostanno che all'autorità della Chiesa. Non può dunque lo Stato arrogarsi più quelle competenza alcuna, né rivendicarne a sé l'amministrazione; ha però il dovere di rispettarle, conservarle e, se occorre, difenderle. Ma quanto diversamente si agisce, soprattutto ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi lo Stato ha leso i diritti di tali comunità, avendole sottoposte alle leggi civili a private di giuridica personalità, o spogliate dei loro beni. Nei quali beni la Chiesa aveva il diritto suo, come ognuno dei soci, e similmente quelli che li avevano destinati per un dato fine, e quelli al cui vantaggio e sollievo erano destinati. Non possiamo dunque astenerci dal deplorare spogliazioni sì ingiuste e dannose, tanto più che vediamo proibite società cattoliche, tranquille e utilissime, nel tempo stesso che si proclama altamente il diritto di associazione; mentre in realtà tale diritto vieni largamente concesso a uomini apertamente congiurati ai danni della religione e dello Stato.
40. Certe società diversissime, costituite specialmente di operai, vanno oggi moltiplicandosi sempre più. Di molte, tra queste, non è qui luogo di indagar l'origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti, con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico; costoro con il monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi a loro, a pagar caro il rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due vie: o iscriversi a società pericolose alla religione o formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi coraggiosamente a sì ingiusta e intollerabile oppressione. Ora, potrà mai esitare sulla scelta di questo secondo partito, chi non vuole mettere a repentaglio il massimo bene dell'uomo?
3 - Favorire i congressi
cattolici
41. Degnissimi d'encomio sono molti tra i cattolici che,
conosciute le esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo per
migliorare onestamente le condizioni degli operai. E presane in
mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere
individuale e domestico; di regolare, secondo equità, le
relazioni tra lavoratori e padroni; di tener viva e profondamente
radicata negli uni e negli altri il senso del dovere e l'osservanza
dei precetti evangelici; precetti che, allontanando l'animo da
ogni sorta di eccessi, lo inducono alla moderazione e, tra la
più grande diversità di persone e di cose, mantengono l'armonia
nella vita civile. A tal fine vediamo che spesso si radunano dei
congressi, ove uomini saggi si comunicano le idee, uniscono le
forze, si consultano intorno agli espedienti migliori, Altri s'ingegnano
di stringere opportunamente in società le varie classi operaie;
le aiutano col consiglio e i mezzi e procurano loro un lavoro
onesto e redditizio. Coraggio e protezione vi aggiungono i
vescovi, e sotto la loro dipendenza molti dell'uno e dell'altro
clero attendono con zelo al bene spirituale degli associati. Non
mancano finalmente i cattolici benestanti che, fatta causa comune
coi lavoratori, non risparmiano spese per fondare e largamente
diffondere associazioni che aiutino l'operaio non solo a
provvedere col suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi
ancora per l'avvenire un riposo onorato e tranquillo. I vantaggi
che tanti e sì volenterosi sforzi hanno recato al pubblico bene,
sono così noti che non occorre parlarne. Di qui attingiamo
motivi a bene sperare dell'avvenire, purché tali società
fioriscano sempre più, e siano saggiamente ordinate. Lo Stato
difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si
intrometta però nell'intimo della loro organizzazione e
disciplina, perché il movimento vitale nasce da un principio
intrinseco, e gli impulsi esterni facilmente lo soffocano.
4 - Autonomia e disciplina
delle associazioni
42. Questa sapiente organizzazione e disciplina è
assolutamente necessaria perché vi sia unità di azione e d'indirizzo.
Se hanno pertanto i cittadini, come l'hanno di fatto, libero
diritto di legarsi in società, debbono avere altresì uguale
diritto di scegliere per i loro consorzi quell'ordinamento che
giudicano più confacente al loro fine. Quale esso debba essere
nelle singole sue parti, non crediamo si possa definire con
regole certe e precise, dovendosi determinare piuttosto dall'indole
di ciascun popolo, dall'esperienza e abitudine, dalla quantità e
produttività dei lavori, dallo sviluppo commerciale, nonché da
altre circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto. In
sostanza, si può stabilire come regola generale e costante che
le associazioni degli operai si devono ordinare e governare in
modo da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al
conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno
degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di
benessere fisico, economico, morale. È evidente poi, che
conviene aver di mira, come scopo speciale, il perfezionamento
religioso e morale, e che a questo perfezionamento si deve
indirizzare tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali
associazioni degenerano facilmente in altra natura, né si
mantengono superiori a quelle in cui della religione non si tiene
conto alcuno. Del resto, che gioverebbe all'operaio l'aver
trovato nella società di che vivere bene, se l'anima sua, per
mancanza di alimento adatto, corresse pericolo di morire? Che
giova all'uomo l'acquisto di tutto il mondo con pregiudizio dell'anima
sua? Questo, secondo l'insegnamento di Gesù Cristo, é il
carattere che distingue il cristiano dal pagano: I pagani cercano
tutte queste cose... voi cercate prima di tutto il regno di Dio e
la sua giustizia, e gli altri beni vi saranno dati per giunta.
Prendendo adunque da Dio il principio, si dia una larga parte all'istruzione
religiosa, affinché ciascuno conosca i propri doveri verso Dio;
sappia bene ciò che deve credere, sperare e fare per salvarsi; e
sia ben premunito contro gli errori correnti e le seduzioni
corruttrici. L'operaio venga animato al culto di Dio e all'amore
della pietà, e specialmente all'osservanza dei giorni festivi.
Impari a venerare e amare la Chiesa, madre comune di tutti, come
pure a obbedire ai precetti di lei, e a frequentare i sacramenti,
mezzi divini di giustificazione e di santità.
5 - Diritti e doveri degli
associati
43. Posto il fondamento degli statuti sociali nella religione,
è aperta la strada a regolare le mutue relazioni dei soci per la
tranquillità della loro convivenza e del loro benessere
economico. Gli incarichi si distribuiscano in modo conveniente
agli interessi comuni, e con tale armonia che la diversità non
pregiudichi l'unità. È sommamente importante che codesti
incarichi vengano distribuiti con intelligenza e chiaramente
determinati, perché nessuno dei soci rimanga offeso. I beni
comuni della società siano amministrati con integrità, così
che i soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo i bisogni;
e i diritti e i doveri dei padroni armonizzino con i diritti e i
doveri degli operai. Quando poi gli uni o gli altri si credono
lesi, è desiderabile che trovino nella stessa associazione
uomini retti e competenti, al cui giudizio, in forza degli
statuti, si debbano sottomettere. Si dovrà ancora provvedere che
all'operaio non manchi mai il lavoro, e vi siano fondi
disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non solamente nelle
improvvise e inattese crisi dell'industria, ma altresì nei casi
di infermità, di vecchiaia, di infortunio. Quando tali statuti
sono volontariamente abbracciati, si é già sufficientemente
provveduto al benessere materiale e morale delle classi inferiori;
e le società cattoliche potranno esercitare non piccola
influenza sulla prosperità della stessa società civile. Dal
passato possiamo prudentemente prevedere l'avvenire. Le umane
generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia si
rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati
da quella Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le
umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella creazione
della umana famiglia. Agli inizi della Chiesa i pagani stimavano
disonore il vivere di elemosine o di lavoro, come tacevano la
maggior parte dei cristiani. Se non che, poveri e deboli,
riuscirono a conciliarsi le simpatie dei ricchi e il patrocinio
dei potenti. Era bello vederli attivi, laboriosi, pacifici,
giusti, portati come esempio, e singolarmente pieni di carità. A
tale spettacolo di vita e di condotta si dileguò ogni
pregiudizio, ammutolì la maldicenza dei malevoli, e le menzogne
di una inveterata superstizione cedettero il posto alla verità
cristiana.
6 - Le questioni operaie
risolte dalle loro associazioni
44. Si agita ai nostri giorni la questione operaia, la cui
buona o cattiva soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli
operai cristiani la sceglieranno bene, se uniti in associazione,
e saggiamente diretti, seguiranno quella medesima strada che con
tanto vantaggio di loro stessi e della società, tennero i loro
antenati. Poiché, sebbene così prepotente sia negli uomini la
forza dei pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità
del volere non ha spento in essi il senso dell'onesto, non
potranno non provare un sentimento benevolo verso gli operai
quando li scorgono laboriosi, moderati, pronti a mettere l'onestà
al di sopra del lucro e la coscienza del dovere innanzi a ogni
altra cosa. Ne seguirà poi un altro vantaggio, quello cioè di
infondere speranza e facilità di ravvedimento a quegli operai ai
quali manca o la fede o la buona condotta secondo la fede. Il
più delle volte questi poveretti capiscono bene di essere stati
ingannati da false speranze e da vane illusioni. Sentono che da
cupidi padroni vengono trattati in modo molto inumano e quasi non
sono valutati più di quello che producono lavorando; nella
società, in cui si trovano irretiti, invece di carità e di
affetto fraterno, regnano le discordie intestine, compagne
indivisibili della povertà orgogliosa e incredula. Affranti nel
corpo e nello spirito, molti di loro vorrebbero scuotere il giogo
di si abietta servitù; ma non osano per rispetto umano o per
timore della miseria. Ora a tutti costoro potrebbero recare
grande giovamento le associazioni cattoliche, se agevolando ad
essi il cammino, li inviteranno, esitanti, al loro seno, e
rinsaviti, porgeranno loro patrocinio e soccorso.
CONCLUSIONE
La carità, regina delle virtù
sociali
45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba
concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia
la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe
rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I
governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i
capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i
proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei
limiti del giusto, quanto possono; e poiché, come abbiamo detto
da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che
dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di
tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti
stimati più efficaci, si dimostreranno scarsi al bisogno. Quanto
alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l'opera
sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà
libera, e di questo devono persuadersi specialmente coloro che
hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano
tutta la forza dell'animo e la generosità dello zelo i ministri
del santuario; e guidati dall'autorità e dall'esempio vostro,
venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le
classi della società le massime del Vangelo; impegnino le loro
energie a salvezza dei popoli, e soprattutto alimentino in sé e
accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità,
signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata dev'essere
principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo
dire quella carità cristiana che compendia in sé tutto il
Vangelo e che, pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è
il più sicuro antidoto contro l'orgoglio e l'egoismo del secolo.
Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle parole: La
carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto:
tutto soffre, tutto sostiene. Auspice dei celesti favori e pegno
della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli,
al vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel
Signore impartiamo l'apostolica benedizione.
Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro pontificato.
LEONE PP. XIII