La legge Coppino sull'istruzione
elementare obbligatoria
di Giorgio Candeloro
Il Depretis volle rendere effettivo, anche al fine della progettata riforma elettorale, l'obbligo scolastico. Ottimo proposito, ma bisognava anche rendersi conto che la lamentata inadempienza dell'obbligo scolastico già prescritto, sia pure in termini generici, dalla legga Casati del 1859, «dipendeva dalla miseria prima ancora che dall'incuria e dall'ignoranza dei genitori». Ci voleva altro che le minacciate sanzioni per costringere i genitori più poveri a mandare a scuola i propri figli, sempre che scuole vi fossero. Ma si volle almeno sancire il principio, salvo impegnarsi successivamente (Stato e comuni) a rendere operante la legge costruendo le scuole e dotandole di attrezzature e di insegnanti. La legge, avversata dai cattolici intransigenti, preoccupati del carattere laico che la scuola elementare pubblica avrebbe inevitabilmente assunto, fu comunque approvata nel luglio 1877 e prese nome dal suo presentatore, il ministro della pubblica istruzione Michele Coppino, un anno dopo l'avvento della Sinistra. Nonostante i suoi limiti (essa previde l'obbligo della frequenza di due sole classi), la legge rappresenta una grossa conquista civile, perché introdusse il principio che i fanciulli dovessero apprendere, oltreché a leggere e a scrivere, anche le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino. La filosofia positivistica dominante nella seconda metà del secolo portò anche nella scuola il suo influsso benefico in quanto l'insegnamento fu fondato su una nuova metodologia, non più sul dogmatismo e sul verbalismo, ma sulla concretezza e sulla lezione dei fatti. Anche per questo si ebbe un duro scontro coi cattolici, che si levarono a denunziare il tentativo di introdurre nella scuola l'ateismo, com'essi dicevano, lo spirito di rivolta contro la tradizione e l'autorità. Ricordiamo che la legge Coppino è legata al nome del pedagogista Aristide Gabelli, seguace del metodo positivistico, che collaborò alla elaborazione della legge e poi alla sua attuazione.
Dopo il '70 la consapevolezza della poca efficacia del sistema
di istruzione primaria esistente si fece più viva negli ambienti
politici e culturali. Si diffuse allora l'idea che fosse
opportuno imporre l'obbligo scolastico alle famiglie mediante
sanzioni fissate in modo preciso e non nei termini generici dell'art.
326 della legge Casati. Ma questa proposta, la cui approvazione
per molti uomini di sinistra era un presupposto necessario per la
riforma elettorale (per fondarsi essenzialmente sulla
sostituzione del criterio dell'alfabetismo a quello del censo),
fu giudicata da non pochi esperti di problemi scolastici, come il
Sacchi e il Bonghi, inadatta allo scopo di rendere effettivo l'obbligo
scolastico. La tanto diffusa inadempienza all'obbligo, infatti,
dipendeva dalla miseria prima ancora che dall'incuria e dall'ignoranza
dei genitori. Troppi erano i fanciulli costretti a lavorare per
aiutare la famiglia, perché si potesse arrivare con la più
semplice minaccia di sanzioni più o meno gravi, ma comunque di
non facile applicazione, ad indurre i genitori più poveri a
mandarli invece a scuola; senza contare che in vastissime zone le
scuole non sarebbero state assolutamente in grado di accogliere
tutti gli alunni legalmente obbligati a frequentarle. Ma i
sostenitori dell'obbligatorietà volevano soprattutto stabilire
chiaramente un principio che, mentre da un lato implicava un
obbligo per tutti i cittadini, dall'altro doveva indurre lo Stato
e i comuni ad impegnarsi più seriamente per lo sviluppo della
scuola elementare. La legge insomma doveva essere il punto di
partenza per un più celere sviluppo della lotta contro l'analfabetismo
e per l'elevamento culturale del popolo.
D'altra parte la questione dell'obbligo scolastico assunse allora
un particolare significato politico ed ideologico. Infatti alla
proposta riforma si opponevano i cattolici intransigenti,
preoccupati per lo sviluppo della scuola elementare pubblica,
tendente a divenire sempre più laica nei suoi insegnanti e nel
tipo di insegnamento. Con essa non potevano competere le scuole
private confessionali, le quali non potevano sorgere dappertutto
ed essere tutte gratuite come le scuole pubbliche e subivano
inoltre le ripercussioni dell'aspro conflitto in corso tra lo
stato e la Chiesa. I cattolici pertanto sostenevano che l'obbligatorietà
delle scuola elementare significava costringere i genitori ad
inviare i loro figli ad una scuola ispirata a principi contrari a
quelli della Chiesa. Ribattevano i democratici e molti liberali
che lo Stato aveva il dovere di dare a tutti i cittadini un
minimo di istruzione e di educazione civile, senza impedire con
questo alla Chiesa di svolgere la sua azione educativa al di
fuori della scuola. Perciò i più coerenti sostenitori della
scuola gratuita e obbligatoria sostenevano anche che essa dovesse
essere assolutamente laica, come lo Stato, e chiedevano che fosse
abolito nella scuola elementare l'insegnamento del catechismo e
della storia sacra (affidato dalla legge Casati ai maestri) e che
fossero aboliti i direttori spirituali nelle scuole medie, che
erano sacerdoti incaricati di svolgere corsi di religione in
queste scuole.
Di conseguenza la lotta per la nuova legge sull'obbligo
scolastico fu collegata alla lotta per la laicità della scuola e
divenne così più difficile. Infatti molti moderati fecero
propri gli argomenti dei cattolici, un po' perché convinti che
la obbligatorietà potesse violare la libertà d'insegnamento, un
po' per spirito retrivo e un po' perché non volevano aggravare
il conflitto con la Chiesa. Così il Correnti fu costretto a
dimettersi nel 1872, quando fallì il suo tentativo di abolire i
direttori spirituali nelle scuole medie, e il suo progetto di
legge sull'obbligo scolastico, ripresentato dal suo successore
Scialoja, fu bocciato dalla Camera nel febbraio 1874. Soltanto
dopo l'andata al potere della Sinistra, il progetto, più o meno
negli stessi termini, poté essere approvato dal Parlamento e
divenire la legge Coppino del 15 luglio 1877.
Questa legge stabilì l'obbligo della frequenza del primo biennio
della scuola elementare per i fanciulli d'ambo i sessi dai 6 ai 9
anni e fissò le ammende per i genitori inadempienti ribadendo d'altra
parte i doveri delle amministrazioni comunali. Essa ammise
implicitamente che il programma del primo biennio potesse essere
svolto di fatto in tre ani anziché in due, come avveniva in
molti luoghi, ma non sancì l'obbligo del corso triennale,
introdotto molto più tardi. Importante come affermazione di
principio, la legge Coppino non risolse dunque il problema di
dare alla scuola primaria una universalità non formale e una
migliore efficienza didattica. Ruggero Bonghi vari anni dopo,
parlando alla Camera il 5 giugno 1889 sul bilancio della pubblica
istruzione faceva queste osservazioni a proposito delle
condizioni della scuola primaria: «Quando io ero in Inghilterra
l'anno scorso e mi si chiedeva quanti anni d'insegnamento
obbligatorio avessimo in Italia e rispondevo: due, mi si rideva
sul viso addirittura. Infatti in nessun paese l'insegnamento
obbligatorio è di così breve durata quanto in Italia. Noi
dobbiamo essere persuasi che un insegnamento obbligatorio di due
anni, o, come l'onorevole Gabelli ha detto, portato a tre di
straforo, è un insegnamento obbligatorio ridicolo. Nessuno degli
effetti che voi sperate da un insegnamento per la educazione del
popolo potrà essere conseguito».
La legge Coppino d'altra parte portò a nuovi contrasti tra laici
e cattolici poiché, mentre abolì i direttori spirituali nelle
scuole medie, non abolì esplicitamente l'insegnamento del
catechismo, ma si limitò a non indicarlo tra le materie di
studio nel corso obbligatorio delle elementari, nelle quali
introdusse le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino.
Di conseguenza molti comuni soppressero l'insegnamento del
catechismo, mentre molti altri lo conservarono a seconda del
colore politico delle varie amministrazioni. Ne seguirono
polemiche e discussioni, che si trascinarono per decenni, a causa
dell'esitazione del governo a prendere una posizione esplicita
sulla questione, intorno alla quale esistevano anche tra i laici
pareri discordi. La resistenza dei sostenitori del catechismo fu
d'altra parte rinforzata dal Consiglio di Stato, che, varie volte
interpellato sulla questione, espresse sempre il parere che la
disposizione della legge Casati relativa all'insegnamento del
catechismo non potesse considerarsi abrogata.
La polemica tra laici e cattolici sull'insegnamento del
catechismo si intrecciò allora con quella suscitata dalla
penetrazione nella scuola del metodo ispirato dal positivismo,
dovuta principalmente, oltre che all'influenza generale
esercitata dalla filosofia positivistica in quel tempo, all'opera
di alcuni pedagogisti, come Andrea Angiulli e Aristide Gabelli.
La diffusione del metodo positivista significò anzitutto una
giusta reazione contro il dogmatismo e il verbalismo, tanto
diffusi nella scuola italiana anche primaria. Quel metodo infatti
mirava a fondare l'insegnamento sulla lezione dei fatti, a
partire dall'osservazione per sviluppare la riflessione razionale
e a portare anche nell'insegnamento primario lo spirito della
scienza sperimentale. Questo metodo però fu osteggiato dai
pedagogisti che cercavano di ridare vigore alle tendenze
spiritualistiche, come Giuseppe Allievo e Augusto Alfani,
collaboratore della "Rassegna Nazionale" di Firenze, l'organo
dei cattolici conciliatoristi clerico-moderati. I moderati e i
cattolici accusarono allora i positivisti di introdurre nella
scuola l'ateismo e lo spirito di rivolta contro ogni tradizione e
ogni autorità. A questi attacchi i pedagogisti positivisti, che
non erano certo dei rivoluzionari ma soltanto dei democratici o
dei liberali più o meno progressisti, reagirono mettendo in luce
il valore metodologico della loro dottrina più che le
implicazioni politiche e religiose che essa poteva avere.
Comunque essi furono in generale difensori del laicismo, ma
cercarono anche di dimostrare che questo era assai meno in
contrasto con la morale tradizionale di quanto i cattolici
affermavano.
(da G. Candeloro, Storia dell'Italia Moderna, VI, 1871-1896, Feltrinelli, Milano, 1970)