La musica secondo... Daniel Barenboim
Da un intervista di "La Repubblica" del 28 04 2002
Musicista e intellettuale ebreo. Musicista e intellettuale wagneriano. Non c'è conflitto, anzi: «È possibile un nesso, un legame» tra dimensioni che la storia ci ha segnalato come scandalosamente opposte. Daniel Barenboim, ebreo legatissimo a Israele, vive in piena consapevolezza un paradosso che definisce solo apparente. Per questo l'anno scorso volle dirigere Wagner a Gerusalemme. E in nome dello stesso principio di «ricerca di un terreno comune», nel marzo di quest'anno tentò invano (fu bloccato per motivi di sicurezza) di suonare a Ramallah di fronte a un pubblico di giovani palestinesi. Nato nel 1942 a Buenos Aires da una famiglia di ebrei russi, pianista eccelso oltre che campione del podio, direttore musicale sia della Staatsoper Unter den Linden di Berlino (dove è stato eletto direttore «a vita») che della Chicago Symphony, Barenboim è un wagneriano di fuoco, con trascorsi rilevanti a Bayreuth. Oggi, a Berlino, si conclude la maratona con cui ha reso a Wagner un omaggio senza precedenti, dirigendo le sue dieci, grandi opere una dopo l'altra, in ordine cronologico, dall'Olandese a Parsifal, rappresentate prima nell'arco di un paio di settimane, poi replicate, per un totale di oltre un mese di recite.
Un evento di mole smisurata...
Ma al di là dell'aspetto atletico conta la ricchezza del
viaggio. Solo una programmazione tanto ravvicinata può far
comprendere lo sviluppo linguistico grandioso dell'universo
wagneriano.
Partiamo da qui: dal perché del suo amore
incondizionato per Wagner.
È un musicista imprescindibile. Ci sono compositori che
hanno scritto musica bellissima ma senza influenzare la storia
della musica. E altri imperfetti che hanno avuto un'importanza
storica fondamentale. Se Mendelssohn non ci fosse stato saremmo
più poveri, ma lo sviluppo della musica sarebbe invariato.
Invece senza Berlioz, compositore discontinuo, oggi la musica
sarebbe diversa. Poi ci sono 5 o 6 compositori che hanno segnato
l'evoluzione musicale in modo necessario, riflettendo tutto quel
che c'è stato prima e condizionando tutto il dopo. Wagner è tra
questi. Come Bach e Beethoven.
E il Wagner antisemita? Lo considera un aspetto
irrilevante?
È una musica che può evocare associazioni col nazismo, e
per questo, quando volli dirigerla a Gerusalemme, parlai prima al
pubblico spiegando i perché della scelta, e dicendo che chi non
gradiva poteva uscire dalla sala. Diressi, dal Tristano e Isotta,
il Preludio e la Morte di Isotta, e su 3000 persone ne uscirono
una trentina. Gli altri seguirono in silenzio. Bisogna rispettare
i sentimenti di chi soffre di certi nessi, ma non si può
impedire ad altri di godere di una musica oggettivamente
splendida. E poi Wagner è morto mezzo secolo prima dell'ascesa
di Hitler al potere.
Facile replicare che non a caso il nazismo ha
fatto della musica wagneriana la sua colonna sonora. 'Perché
mentre uccidete fate suonare Wagner?', grida il maggiore
americano Arnold al direttore Furtwängler nel film di Szabo «A
torto o a ragione», che include brani da lei diretti. Per i
tedeschi Wagner è celebrazione dell'identità germanica ed
emblema del sentimento unificante del sangue: le sue saghe
poggiano sulle stesse radici del nazismo.
Lo so, così come riconosco che c'è un modo tedesco di
pensare la musica, legato anche alla lingua, al peso delle
consonanti. Ma non sta qui il problema del fascismo, che inizia
quando si dice: solo un tedesco può capire questa musica. E poi
l'antisemitisimo non è solo Wagner. Mi sono messo a ristudiare
la Passione secondo Giovanni di Bach scoprendo che è il testo
più antisemita che ci sia. Bisognerebbe cancellarla per questo?
Eseguire Wagner in Israele ha un senso politico,
oltre che culturale?
Certo. Sono convinto che tra i motivi della tragedia in Medio
Oriente ci sia l'assenza di un mutamento interiore che riguarda
anche il rapporto degli ebrei con Wagner. Mi spiego. Con la
creazione dello Stato d'Israele sono state soddisfatte le
aspirazioni nazionali degli ebrei. Andava fatto. Ma non può
voler dire ignorare il come è stato fatto. Il problema non è
solo israeliano-palestinese. O ebreo-arabo. È anche un problema
israeliano-ebreo.
Vale a dire?
Per 2000 anni abbiamo vissuto come minoranza, a volte
accettata e a volte perseguitata, come nell'Inquisizione in
Spagna o nella Germania di Hitler. Nel '48 siamo diventati
nazione. Non più solo artisti e banche, ma soldati, studenti,
politici, prostitute. Uno Stato. Poi, nel '67, con la Guerra dei
Sei Giorni, ci si è trovati a controllare un'altra minoranza,
quella palestinese. E qui è mancata la transizione. La prima, da
minoranza a Stato, è stata straordinaria. La seconda avrebbe
avuto bisogno di un cambiamento che non è avvenuto. Anche dello
humour ebreo.
Che c'entra lo humour?
Una cosa è quando ridi su chi sta sopra di te e un'altra è
quando ridi su chi ti sta sotto. Se sei nel ghetto di Varsavia e
di fuori passeggia la Gestapo, e hai un pezzo di pane duro e
vecchio, e lo butti al soldato tedesco dicendo: "è
abbastanza buono per i non ebrei", non solo fai una battuta
lecita, ma reagisci con coraggio a una situazione orrenda. Tutt'altro
è se butti quel pezzo di pane, dicendo che è abbastanza buono
per un non ebreo, a un palestinese di Ramallah. È un nodo
innanzitutto etico.
Come definirebbe l'etica ebrea?
È un'etica razionale, basata non sull'amore, come quella
cristiana, ma sulla giustizia. Non "ama il prossimo tuo",
ma "trattalo giustamente". Sviluppatasi nei secoli in
cui gli ebrei erano minoranza, non considera il rapporto con
esseri umani non ebrei, essendo basata appunto sulle necessità
di una minoranza.
Qui a Berlino lei è stato fatto oggetto di
attacchi antisemiti. Tempo fa un politico la contrappose, in
quanto ebreo, al direttore d'orchestra ariano Thielemann,
definito il nuovo Karajan. Segnali dell'antisemitismo che scorre
in Germania e non solo?
Episodi isolati. In realtà il mondo della musica è molto
filosemita. Però in questo paese vedo molta ignoranza sul
semitismo. Inoltre qui non sono tollerate critiche al governo
attuale d'Israele: si rischia subito l'accusa di antisemitismo. C'è
un senso forte, da parte dei giovani, di repulsione delle colpe
dei padri. Ma proprio a causa degli orrori del nazismo ogni
tedesco dovrebbe essere cosciente della responsabilità di
ciascuno di fare il possibile affinché quei crimini non si
ripetano. Consapevolezza che manca. Il che, associato all'ignoranza
di quel che significa essere ebrei, può portare all'antisemitismo.
È molto identificato con la cultura ebraica?
Sì. Ho avuto un'educazione impregnata di filosofia ebraica,
da Maimonide a Spinoza. Ma sono un ebreo laico, cosa difficile da
capire. Un ebreo religioso, che va in sinagoga, è facile da
identificare. Ma il laico? Essere ebreo è un miscuglio di
tradizioni, popolo e nazione. Appena c'è un conflitto su un
aspetto affiora l'altro. Se critichi Sharon attacchi la nazione.
Allora c'è chi dice: questo non è essere ebreo. Essere ebreo è
anche tradizione. E così via.
Vede possibile prospettive di pace in Israele?
Non certo finché la situazione è gestita da persone come
Sharon e Arafat. Ogni soluzione militare è strategicamente e
moralmente insensata. Bisogna trovare altri mezzi per comunicare.
Per questo in marzo volevo suonare a Ramallah. Niente di
risolutorio, certo. Solo un piccolo contributo. Ma che avrebbe
dato a 800 studenti palestinesi del Conservatorio l'opportunità
di vedere che non tutti gli ebrei sono soldati, e che c'è una
possibilità di dialogo. Cos' è la pace, se non contatti
culturali, economici e scientifici tra i popoli? Dunque, perché
aspettare?
Intervista di Leonetta Bentivoglio