La musica secondo... Carlo Maria Giulini

Intervista del 1987 - Articolo del 8 maggio 2004 - Biografia di Carlo Maria Giulini


Da una intervista del 1987.

"Al momento della performance la composizione appartiene a me. Bisogna essere convinti che questo è l'unico modo per interpretarla, che questa è la verità."

Carlo Maria Giulini

È stato un espresso desiderio di Giulini che la nostra chiacchierata non si prestasse come una formale intervista, ma piuttosto come una "conversazione amichevole".

"Date le colpa a me", ci ha detto. E cosi facciamo ringraziandolo, perché il prodotto finale, crediamo, dà una versione più accurata della conversazione che ha avuto luogo alla fine di novembre nello studio del Maestro.

Quale è il ruolo del direttore di fronte al brano musicale che deve interpretare? Dov'è che finisce il ruolo del compositore e comincia quello del direttore? Quando ascoltiamo la musica, chi è che stiamo ascoltando: il compositore, il direttore, o entrambi? E come si afferma la fragile linea che lega i due? Da cosa è formata?

Si dice spesso che Carlo Maria Giulini abbia una dedicazione religiosa al suo lavoro, e per lui l'arte di dirigere e intrisa di "mistero". È questo il punto da cui partiamo nella nostra conversazione…

"La scrittura musicale è estremamente misteriosa. È fatta di piccoli segni che chiamiamo "note", ma la nota, fino a quando resta solo sulla carta è morta… questa nota comincia a vivere dal momento in cui diventa suono… e questa è comunque solo la parte fisica". Ugualmente misterioso, è il fatto che il direttore è il solo musicista che non suona uno strumento e l'unico che può produrre un suono senza alcun contatto fisico con lo strumento. E allora com'è che viene prodotto il suono? "Non c'è una spiegazione".

Molto chiara, invece, la sua opinione a proposito del ruolo del direttore d'orchestra. Non è un ruolo creativo. "Il direttore comincia a muoversi da dove il compositore, il genio, aveva finito". "Il momento della creatività è la dove qualcosa viene creato dal nulla, e nella sua forma più sublime consiste nel dare all'umanità qualcosa che la arricchisca. Anche ad un livello minore non si può parlare di una tale creatività nella direzione, perché il direttore ha a che fare con qualcosa che è già stato creato. Il compito davanti al quale è posto il direttore è quello di cercare di capire cosa il compositore volesse dire all'umanità attraverso "questa difficile scrittura". Poi, di dare vita al suono, e in seguito di dare il suono al pubblico. "È questo il nostro compito, ed è questo che un direttore non dovrà mai smettere di imparare". In realtà se uno dovesse mai arrivare a dare un'interpretazione definitiva di un lavoro, allora questo perderebbe la sua ragione d'essere. "Senza dubbio, neanche il compositore stesso sapeva quale fosse l'interpretazione, anche per lui era soggetta a cambiamenti. In questo senso, la musica ha una grande qualità, in quanto parla direttamente alla fantasia".

Il direttore deve dare "prospettiva" alla musica. E quindi, per esempio, dove le dinamiche sono scritte nello stesso modo per tutti gli strumenti (in opere precedenti a Mahler), lui deve cambiarle in modo da far sentire i suoni individuali. Oppure, per dare un altro esempio, deve intervenire dove si trovi davanti a un lavoro che non è stato riveduto dal compositore. Mahler, dice Giulini, aveva l'abitudine di rivedere tutte le sue partiture. Tutti i compositori, infatti, lo facevano, anche Beethoven, per il quale divenne un particolare problema dopo che diventò sordo. Quindi l'intervento è necessario. "Certamente, aggiunge con un sorriso, c'è sempre Mozart, un vero enigma". E allora cos'è la musica? Possiamo definire questa forma d'arte estremamente esoterica, che riesce tuttavia a comunicare i sentimenti umani con tanta precisione? "È vero che la musica copre l'intera gamma dei nostri sentimenti ma come ci riesce resterà sempre una domanda senza risposta. Analogamente, se guardiamo a coloro che creano la musica, è impossibile spiegare ciò che hanno fatto. Prendiamo Mozart, per esempio, è uno dei più grandi misteri degli esseri umani in generale. Non c'è alcuna spiegazione (musiche, lirica, medica…) per ciò che ha fatto. Come si potrebbe mai tentare di definire un uomo che ha scritto la Jupiter con la stessa facilità con cui avrebbe scritto una lettera, con due o tre correzioni in tutto?…". A questo punto Giulini ci mostra il facsimile del manoscritto della Jupiter, pulito e con forse due o tre correzioni, ed alcuni facsimile dei manoscritti di Beethoven, soprattutto la coda della Sinfonia Corale, riempiti di correzioni e in una calligrafia illeggibile. "Pensate, aggiunge Giulini, questi sono i fogli su cui dovevano lavorare i copisti".

Per Giulini la cosa più importante è che bisogna servire la musica, e servirla con amore. Un "atto d'amore", molto vicino si direbbe ad un atto di fede. Il direttore come servitore. Tuttavia, al momento della performance, la situazione cambia. "In quel momento la composizione appartiene a me. Bisogna essere profondamente convinti che questo è l'unico modo per interpretarla, che questa è la verità". Perché, a sua volta, la performance allora rappresenta ciò che uno è come uomo. Ed è per questa ragione che Giulini dirige soltanto lavori che "fanno parte di lui"; i pezzi che dirige devono avere qualche affinità con la sua natura. "Devo essere coinvolto al cento per cento, sentire che quel lavoro appartiene a me, alla mia vita, cuore e corpo, tanto quanto alla mente".

Ma non c'è qui un elemento di creatività, quando la musica e il direttore diventano una sola cosa? La risposta è stata inflessibile: "Creatività, no. Direi piuttosto ricreatività".

Passando a questioni più pratiche, cambia il rapporto direttore-composizione quando il pezzo in questione si incentra in una parte solista? Mentre si potrebbe immaginare un inevitabile conflitto tra due diverse percezioni di un pezzo, la soluzione sembra essere estremamente semplice: l'approccio al lavoro deve partire dal concetto che fino dall'inizio uno deve arrivare a un compromesso. "Altrimenti è inutile interpretare quel lavoro".

Con l'opera tuttavia, la soluzione non è altrettanto semplice. In un'opera si deve tener conto di tre elementi: le parole (che devono essere capite), la musica e il dramma. "L'opera è un dramma di cui fa parte anche la musica". La musica deve esprimere i momenti psicologici dei personaggi, non dei cantanti. È importante non solo l'interpretazione musicale, ma anche quella drammatica. Recitare attraverso la musica oltre che attraverso il fisico. L'interpretazione drammatica, che è responsabilità del regista, è una parte fondamentale dell'opera, perché ciò che uno sente deve corrispondere a ciò che si vede sulla scena. Ma cantare e recitare sono veramente compatibili? Secondo Giulini, la differenza tra recitare in un'opera e recitare in una commedia drammatica è che nell'opera c'è una questione di tempi, il modo in cui i sentimenti devono essere espressi. Se prendiamo l'esempio dell'Otello di Shakespeare e di quello di Verdi, il testo, nel primo, può essere interpretato in molti modi. Prendiamo per esempio Iago: i suoi pensieri e le sue parole sono scritti, ma non il modo in cui devono essere espressi. Nell'opera di Verdi abbiamo il contrario: si dice al cantante come deve essere caratterizzato psicologicamente Iago. "È l'interpretazione di Verdi, ed è Verdi che dobbiamo seguire".

Ma tornando al ruolo del direttore, abbiamo domandato a Giulini cos'è che rendeva così unico il sound di Toscanini. Dopo tutto, Giulini ha conosciuto Toscanini, sia a livello personale che a livello professionale. La prima parte della risposta dovrebbe essere presa come una lezione per tutti noi critici. "Il sound, ci ha detto, non può essere definito a parole, quindi non posso rispondere alla sua domanda". Per quanto riguarda Toscanini come direttore, la storia, ne è sicuro, lo sosterrà come uno dei tre artisti che hanno cambiato radicalmente la storia dell'interpretazione. Gli altri due grandi nomi sono Liszt (per il suo modo di suonare il pianoforte) e Paganini (per il suo modo rivoluzionario di suonare il violino). Il legato lasciatoci da Toscanini è duplice. Era capace di far scaturire dal gruppo di musicisti di un'orchestra una solidità ed una qualità interpretativa straordinaria. Per quanto riguarda la tecnica, prima di tutto Toscanini portò l'orchestra in una dimensione completamente nuova; in secondo luogo, ruppe con la tradizione Romantica per cui il direttore doveva presumibilmente aggiungere al lavoro ciò che secondo lui mancava. Toscanini era deciso sul fatto che il direttore dovesse fare ciò che il compositore voleva, il lavoro stesso era la "verità". " Questa è la più grande eredità che ci abbia lasciato".

Per finire la nostra conversazione, abbiamo chiesto a Giulini se pensava che tutta la grande musica avesse un qualche elemento in comune.

"Isolerei l'elemento della speranza". Per esempio, ci spiega, nella Nona di Mahler, la composizione apre con un'iniziale affermazione di speranza, seguita da una seconda frase in cui il tema viene gradualmente rovesciato e distrutto (esprimendo e riflettendo i momenti tragici della vita di Mahler). Ma man mano che ci si avvicina alla fine della composizione, quando Mahler cambia dalla chiave minore a quella maggiore, il tema della speranza, quella fondamentale fiducia nell'umanità, si riafferma con convinzione. "Il fatto che Mahler passi alla chiave maggiore, alla fine, è significativo a questo riguardo". Per prendere un altro esempio, Giulini ci spiega come nella Missa Solemnis di Beethoven ci sia lo stesso passaggio di chiave, da minore a maggiore. "Analogamente, il lavoro di Beethoven inizia con un'affermazione di gioia e di speranza, che allo stesso modo viene più tardi rovesciata per cui diventa un'affermazione della condizione umana… Poi, verso la fine, il tema si impone di nuovo, lentamente, e cosi la musica comunica una tranquillità interiore, una pace ritrovata".


Giulini, 90 anni di carisma gentile, di Sandro Cappelletto.

Dice di non aver mai capito il mestiere che ha fatto, "quel se stesso che prende una bacchetta in mano e va davanti a un'orchestra". Non si può comprendere, perché quel lavoro è soltanto "un atto d'amore che un servo, il direttore, fa davanti al genio del compositore".

Auguri, maestro e infinite volte grazie. Carlo Maria Giulini compie domani novant'anni. Ha iniziato davvero nel 1946, con l'Orchestra di Milano della Rai, che allora era motore vivo della vita artistica del Paese, si è fermato nel 1999. Lo hanno invitato e amato ovunque, ha diretto i migliori cantanti, spesso anche la Callas, ha lavorato con Luchino Visconti ad un meraviglioso "Don Carlos", ha suonato con i più profondi solisti. Benedetti Michelangeli gli aveva promesso di incidere assieme i cinque concerti per pianoforte di Beethoven, ma non riuscì - gli capitava, talvolta - a mantenere l'impegno. Giulini gli fece sapere che era stata immensa la gioia di suonare, almeno un po', con lui: "Senza di lui, siamo tutti più poveri", concludeva, anni dopo, un articolo per "La Stampa".

Quando i ritmi produttivi, i precipitosi andirivieni dei cantanti cominciarono a trasformare i teatri in tante sale arrivi e partenze, scelse di non dirigere più opere liriche: addio alla concitazione controllata di Verdi ("sento i suoi sentimenti più veri di quelli di Puccini", alla levità meravigliosa di Mozart. Servire la musica è un privilegio, se non ci sono le condizioni è doveroso, per un artista, rinunciare. Giulini, allora, ha preferito leggere e basta la musica, sentirsela dentro. Una lezione di umiltà e decenza, cioè di grandezza.

Il "lento" Giulini, si dice; eppure la "sua" (lui non direbbe mai così) quinta di Beethoven è stata scelta come la migliore da una giuria di critici europei. C'è qualcosa di organico e insieme di necessario nella generazione e nello sviluppo del "suo" suono, di non forzato.

"Guardino cosa ha scritto qui Beethoven: un pianissimo che va al piano, non al forte. Facciano come è scritto, sentendolo… adesso è diverso, non è vero?", disse durante una prova della Pastorale con l'Orchestra Giovanile Italiana. Dava del "loro", come sempre, agli orchestrali, anche se quei ragazzi avevano vent'anni. Dopo un'ora, ne erano tutti innamorati.

Le annotazioni delle sue partiture sono un tesoro per chi voglia cimentarsi con questo "mestiere". Il carisma gentile e inflessibile però è più difficile da imparare: "Il direttore è l'unico musicista senza strumento e fa nascere la musica senza suonarla. Può riuscirci solo attraverso l'amore".


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