La musica secondo... Herbert von Karajan


Da Salisburgo, Karajan parla con Richard Osborne (1988)

Quando arrivai a Salisburgo nei primi giorni di marzo per incontrare Herbert von Karajan, al Festspielhaus erano già iniziati i preparativi per il Festival di Pasqua. Di sicuro la vita musicale di una città non è mai stata così profondamente trasformata come quella di Salisburgo da Karajan, almeno da quando Wagner fece di Bayreuth un luogo di pellegrinaggio per i cultori della sua opera.
Karajan fa ancora qualche tournée con i Berliner Philharmoniker oltre ai suoi impegni direttoriali e filmici a Berlino e Vienna, ma la maggior parte del suo lavoro si svolge oramai a Salisburgo. Uno dei suoi impegni più importanti rimane naturalmente il festival estivo, che ha conosciuto fin dalla sua fondazione nel 1920. Nel 1922 Richard Strauss vi diresse Don Giovanni, la prima di una celebre serie di produzioni operistiche mozartiane; e nel 1991 il Festival presenterà, come omaggio del bicentenario, sette opere di Mozart. La sola amministrazione del progetto è scoraggiante, mi dice Karajan - «soltanto il problema di trovare gli interpreti per tanti ruoli importanti» ma, lentamente, il ciclo sta prendendo forma. Karajan ha già messo a punto una nuova produzione di Don Giovanni e fra poco ve ne aggiungerà una completamente nuova delle Nozze di Figaro; quest'estate, invece, sarà il turno della Clemenza di Tito, diretta da Riccardo Muti con la regia di Peter Brenner.
Tornando a Salisburgo prima di ogni festival di Pasqua, Karajan riprende il controllo di un'équipe esperta al pari di qualsiasi orchestra che abbia mai guidato. Come mi ha confessato, e cosciente delle critiche riguardo le proporzioni e i costi di un'operazione che, fuori di ogni consuetudine, è iniziativa di un solo uomo; comunque è contento poiché sa che sono soldi suoi (nel primo anno fece un profitto di circa 18.000 lire) investiti in un'iniziativa che ha per solo scopo quello di creare musica, spesso a un livello senza pari, ed indipendentemente da governi, uomini politici e amministratori. Allo stesso modo, mi fa notare, è sicuro di essere indipendente anche da registi che lasciati liberi di fare quello che vogliono infrangono spesso quella che Karajan ritiene la regola principale di una produzione operistica: e cioè che la scenografia e la impostazione drammatica devono nascere esclusivamente dalla musica e solo da quella.
«Per fortuna non sono nato per obbedire», mi disse accennando un sorriso sornione e disarmante, mentre stavamo seduti nella sua casa ad Anif che dà su prati coperti di neve, fino al torreggiante Untersberg che Karajan conosce fin da bambino. Era un giorno pieno di sole e così per me è stata una sorpresa molto piacevole andare ad Anif con quel tempo splendido, anche perché avevo pensato che la nostra conversazione si sarebbe svolta al Festspielhaus tra una prova e l'altra. La casa di Karajan - una casa colonica - è di dimensioni modeste, situata in un grande prato non troppo distante dal paese. Il sottosuolo e le dépendances nascondono una piscina e uno studio di montaggio cinematografico, ma la casa in sé non è affatto pretenziosa.
Visto che la casa era piena di telecamere, di cavi e di tecnici - la BBC era li a filmare una breve intervista con Karajan per una trasmissione televisiva - Eliette von Karajan se n'era fuggita in paese, anche se con scarso vantaggio visto che più tardi si è ritrovata insieme a noi per pranzo al Goldener Hirsch.
Pur avendo avuto una troupe televisiva in casa fino dall'ora di colazione, Karajan sembrava molto rilassato. Si scusò per i ritardi, fece una battuta sul "pessimo" mixaggio della BBC, e ordinò del caffè per noi tutti che aspettavamo. Nel tempo che abbiamo trascorso insieme durante l'intervista, potei constatare che dopo due o tre anni estremamente difficili, di grandi sofferenze (i suoi problemi spinali risalgono con tutta probabilità ad una rovinosa caduta da un albero quando aveva appena dodici anni), Karajan fortunatamente era ancora lui, se possibile più vitale che mai, ancora lo stesso instancabile programmatore di sempre. Il calore che manifestava per il Festival di Mozart del 1991 e per il suo ritorno al Ballo in Maschera nel Festival dell'Estate 1989, assieme ai suoi progetti di altri ritorni a un importante repertorio (l'Oedipus Rex di Stravinsky, per esempio), tutto faceva pensare agli entusiasmi di una volta. Forse l'inverno del 1986/87 è stato un periodo critico per lui; e certamente lo si può pensare a giudicare dai suoi commenti che leggerete nell'intervista sullo storico concerto di Capodanno a Vienna del 1987.
Karajan mi disse che adesso era anche più contento del suo grande progetto nel campo della videoriproduzione: la presentazione di film di altissima qualità del suo repertorio sinfonico e operistico più essenziale per una nuova generazione di collezionisti di video-disc. C'erano state battute d'arresto ormai irreparabili, come il rifiuto definitivo delle autorità cinesi a concedere a Karajan il permesso di girare un film della Turandot di Puccini all'interno della Città Proibita; ma la registrazione di tutto il resto del repertorio è a uno stadio già molto avanzato e Karajan afferma che adesso si sente completamente sicuro che sarà portata a termine. «Sono stato sotto pressione nei primi due anni quando iniziammo questa cosa, poiché non sapevo se sarei vissuto abbastanza per portarla a termine», ma oramai i problemi tecnici sono tutti sotto controllo, la linea di programmazione è stabilita, e la sua fiducia nell'équipe solida. L'impegno richiesto è eccezionale: Karajan spiega che ogni film è programmato da lui e per la fase iniziale si serve di un'orchestra di studenti per due giorni e poi gira con i Berliner o i Wiener usando tre postazioni di ripresa, ognuna delle quali è fornita di cinque camere. Il suo metodo d'impostare le riprese è "tradizionale". Prima stabilisce quali siano le strutture musicali e quindi cerca di tradurle in immagini con una serie di inquadrature incrociate del direttore, degli strumenti e dei gruppi strumentali, tutti ripresi in primo piano. Karajan, infatti, detesta la musica filmata a media distanza o in campo lungo. L'idea è di guidare l'occhio e l'orecchio a penetrare nella musica che l'orchestra sta suonando.
Finora quasi nessuno ha visto i nastri delle riprese e ho chiesto a Karajan quando i film sarebbero stati in commercio. Secondo lui, si dovrebbe iniziare a mettere i nastri su disco fra sei o sette mesi. Ma è impossibile affrettare i tempi di Karajan; se qualcosa non riesce come la desidera, la mette da parte e ci ritorna sopra dopo qualche mese a mente fresca, secondo il suo modo consueto di fare in tutte le cose. Karajan non si nasconde il fatto che i film saranno molto cari, ma è confortato da segnali evidenti che vengono dagli Stati Uniti e che indicano che la gente che vuole una buona resa sonora si sta già orientando verso la fascia più costosa del mercato. Se il progetto non avrà successo, dice che rimarrà comunque contento a sapere che i film resteranno come un documento.
La nostra conversazione, tuttavia, si è concentrata maggiormente sulla musica e sui musicisti. Tra le tante ristampe su CD che questo mese vedono Karajan protagonista (le celebri produzioni operistiche su etichetta EMI a partire dal classico Hänsel und Gretel, i 25 CD della «Karajan Edition» - ce ne sono di interessantissime delle prime registrazioni fatte da lui fra il 1938 e il 1943. Comprendono, fra l'altro, alcune esecuzioni dell'Orchestra Sinfonica della Radio di Torino sconnesse in modo tale da far rizzare i capelli in testa.

- Lei aveva gia diretto con molto successo grandi orchestre come i Berliner Philharmoniher e il Concertgebouw. Come ha fatto a tollerare cattive orchestre che chiaramente non davano i risultati che Lei desiderava?
Glielo posso dire con franchezza. Io sentivo nel mio orecchio interiore quello che volevo sentire e per il resto... beh, il pubblico rimase contento! Ma sa, poi viene un momento in cui l'orecchio interiore si meraviglia di quello che esce fuori. Con una grande orchestra dopo un certo tempo, e se sono abituati a te e suonano veramente al massimo delle loro forze, ti danno qualche volta qualcosa di molto più bello di quello che pensavi di poter sentire; e da quel momento inizia il vero lavoro per portarla a dei livelli sempre più alti, e questo sicuramente non può accadere che dopo aver lavorato quindici o venti anni con la stessa orchestra. È per questa ragione che dissi che volevo l'orchestra per tutta la mia vita, altrimenti non avrei firmato il contratto. E questo paga con risultati che si possono ottenere solo dopo un lunghissimo periodo di tempo.

- Abbiamo avuto molte prove di questo, ma mi ricordo in particolare le esecuzioni che Lei diede nel 1982 della Nona di Mahler con i Berliner. Lei aveva fatto una bellissima registrazione su LP e poi volle che il concerto live del 1982 a Berlino fosse pubblicato a parte su CD. Per quale motivo?
Avemmo la sensazione che se non ci fosse stato rumore in sala avremmo potuto ottenere un risultato ancora migliore. E io so che ero davvero follemente preso dalla sinfonia a tal punto che una volta finita - ed è uno dei pochi lavori di cui posso dire questo - non avrei più osato avvicinarmici.

- Aveva esaurito l'opera?
Si, completamente.

- Mi ricordo il concerto qui a Salisburgo al Festival di Pasqua del 1982. Avevamo prenotato un tavolo per cena dopo il concerto - Lei inizia i suoi concerti del festival presto, quando possiamo ancora concentrarci sulla musica! - e siamo stati costretti a disdirlo perché non avremmo potuto mangiare.
Lo so. A me accadeva lo stesso. Una cosa così succede una volta nella vita.

- Perché è tornato a questa musica proprio in questo momento della sua vita?
Posso rispondere con precisione. Passai tre anni a Vienna da studente. Ascoltavamo questa musica - Mahler, Webern, Schönberg - molto spesso; era il nostro pane quotidiano. Poi venne la guerra e dopo la guerra gli organizzatori di concerti mi offrirono l'opportunità di eseguire tutte le sinfonie di Mahler. Chiesi loro su quante prove avrei potuto contare. «Due prove per ogni concerto». Io dissi: «Gentili signori, vi prego di scordarvelo». Mahler è molto difficile per un'orchestra. Prima di tutto devi, come direbbe un pittore, preparare la tua paletta. Le difficoltà sono enormi e il pericolo è più grande proprio in quei punti dove la musica diventa banale. Dirigo molta musica "leggera" e può essere molto difficile per un'orchestra realizzarla bene. Una volta passai tutta una prova sulla «Barcarolle» dei Contes d'Hoffmann, che per me è una delle cose più tragiche del repertorio operistico; non è gioiosa; un uomo passa dalla vita alla morte. E in Mahler c'è molto di questo.

- La Nona di Mahler mi sembra un lavoro a cui Lei è musicalmente molto vicino.
È particolarmente difficile arrivare alla fine della sinfonia. È uno dei lavori più difficili da dirigere.

- Mi viene in mente un'intervista che Lei diede alla televisione austriaca nel 1977 nella quale l'intervistatore commentò che Lei non dirigeva abbastanza musica del ventesimo secolo. Lei invece ha diretto tantissima musica del ventesimo secolo, addirittura anche Ligeti, Penderecki; ma forse non la guarda con particolare attenzione.
Sì, ma riesco a farla solo se sono veramente convinto. A volte è molto facile, ma con altri lavori è difficile se hai davanti una partitura e non sia cosa pensa il compositore.

- Una cosa che io credo di aver capito riguardo alle grandi registrazioni che Lei ha fatto di musica del ventesimo secolo - i Tre pezzi per orchestra di Berg, la Quinta di Prokofiev, la Liturgique di Honegger, la Decima di Shostakovich - è che sono tutti lavori che in certo senso esprimono la tragedia del nostro secolo. Lei aveva sei anni quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale. È qualcosa nella sua coscienza questo senso della tragedia dei nostri tempi e delle capacita salvifiche della musica?
Sì, sì, certamente. Ebbi degli ottimi rapporti con Shostakovich. L'ultima volta che fui a Mosca diressi la Decima Sinfonia. Lui era talmente timido e nello stesso tempo rimase così colpito... disse «non riesco a parlare» ma era un grandissimo compositore.

- Sentii dire una volta che Lei voleva dirigere la sua Sesta Sinfonia ma disse che siccome Mravinsky l'aveva già fatta talmente bene, Lei non ci si sarebbe avvicinato.
Sì, esatto.

- Disse proprio così?

- Era un grande direttore.
Sono un suo grande ammiratore. Rappresentava in modo perfetto la sua vecchia generazione.

- Ha mai diretto l'Orchestra di Leningrado?
No, ma lo farei volentieri se ne avessi il tempo; ma dicono sempre, se viene porti con sé la Sua orchestra.

-Ma Lei ha diretto altre grandi orchestre: la Cleveland Orchestra di Szell, per esempio?
Sì, Szell ed io eravamo grandi amici. Lui insisteva sempre che io dovevo dirigere la Quinta di Prokofiev, e mi domandavo dove voleva arrivare. Così lo feci, e durante l'intervallo delle prove venne a dirmi che aveva avuto uno shock nervoso perché dal momento in cui avevo iniziato si era reso conto che facevo l'esatto contrario di tutto quello che lui aveva già insegnato all'orchestra. Sembrava un grosso problema; ma dopo pochi minuti suonavano come se avessero sempre suonato in quella maniera. E sa che c'è un passaggio all'inizio del finale con i violoncelli... Nell'intervallo del mio concerto Szell andò a lavorare con i musicisti per assicurarsi che tutto, poi, fosse perfetto - ora questa è vera dedizione e generosità!

- Klemperer disse una volta che Szell era una macchina, ma comunque un'ottima macchina.
No, non si può dire questo. Era un uomo di grande cuore. Quando avevi l'occasione di incontrarlo a casa sua con tutti i suoi invitati, era un uomo straordinariamente affascinante e intelligente. No, non riesco a capire quella battuta.

- Quest'anno lei sta preparando un allestimento di Tosca per il Festival di Pasqua.
Sì, e sono estremamente entusiasta dei bozzetti di Schneider-Siemssen. Con il nostro palcoscenico e i nostri laboratori, che sono migliori di quelli di qualsiasi altro teatro al mondo, riusciamo a realizzare scene che sono davvero sensazionali, e che non hanno niente a che vedere con queste produzioni moderne che fanno tutto il contrario di quello che la musica richiede. Puccini scrive nella partitura un accenno, o un consiglio, oppure semplicemente un ordine. Noi seguiamo tutte queste cose.

- Lei ha fatto due incisioni memorabili di Tosca. È un'opera emozionante, ma i personaggi non sono del tutto simpatici: Tosca, Scarpia...
No, non sono affatto simpatici! Ma Tosca mi ha sempre affascinato. Goethe disse una volta: «Sarei stato capace di commettere qualsiasi crimine nella mia vita, se non avessi avuto la possibilità di raccontarlo». Bisogna dirigerla, qualche volta, altrimenti prima o poi potresti ammazzare qualcuno! Ogni singola battuta mi affascina.

- John Culshaw, che produsse l'incisione RCA di Tosca con Leontyne Price, disse che Lei non aveva paura del "melodramma" in Puccini.
Sì.

- Raccontò anche un aneddoto commovente di quando Lei ascoltò la registrazione di De Sabata e disse che quello era vero genio, ma che non poteva farla nel modo in cui la faceva lui. Era un direttore che ammirava molto?
Probabilmente era l'unica persona che non abbia mai parlato male di un altro direttore. I tempi nei quali visse furono molto difficili; lo volevano di nuovo alla Scala, ma c'era sempre la possibilità che ci ritornasse Toscanini. Una volta gli chiesi: «Cosa senti mentre dirigi?» e lui disse: «Ho milioni di note nella testa, e ogni nota che non è perfetta mi fa impazzire di rabbia». Soffriva molto quando dirigeva. In questo, devo dirlo, l'ho superato.

- Abbiamo appena visto uscire la ristampa di Madama Butterfly che Lei registrò per la EMI con la Callas. Ha dei ricordi di quando lavorò con lei? Senz'altro deve essere stata un'artista straordinaria.
Se la si prendeva per il verso giusto era molto facile. Era sempre preparata fino al minimo dettaglio e quando era convinta che un consiglio era giusto, ne teneva subito conto. Ma a volte poteva anche fare la Diva. Mi ricordo che una volta stavo sperimentando un sipario velato, era alla Scala da un centinaio di anni ed era pieno di polvere e lei era molto miope e non vedeva bene la platea. Venne alla prova e sulla ribalta sopra l'Orchestra dove dirigevo disse al direttore artistico: «Se questo velo rimane, non canto». Allora io non feci niente, la lasciai semplicemente passare, e dissi: «Oh, cara, sto cercando un nuovo "elemento"...» e dopo mezz'ora il direttore artistico venne a dirmi che Maria se ne stava seduta da sola, piagnucolando. Così le dissi: «Maria, stavo facendo un esperimento e quando dico che "sto sperimentando" significa che voglio vedere che effetto fa. Ma non so se l'adopreremo». Naturalmente poi l'adoprammo, ma lei ne capì la ragione. Io non cerco mai di mettere in difficoltà una persona se non c'è un'idea molto convincente che dobbiamo provare.

- Nei suoi corsi alla Juilliard, la Callas consigliava sempre ai suoi allievi di lavorare sul rubato consentito nei confronti del direttore. Ma è vero che lei aveva un senso del ritmo davvero eccezionale?
Incredibile. Quando aveva l'opera dentro di sé le dicevo: «Maria, tu puoi anche non guardarmi mentre canti, so che non sarai in nessun momento, nemmeno per una piccolissima parte di una battuta, fuori tempo; aveva un grande orecchio e cantava sempre con l'orchestra. Mi dispiace tanto, tantissimo, che non riuscii a persuaderla a fare un film di Tosca. Le dissi che avevamo già il nastro e che lei non doveva fare altro che essere lì e cantare la parte. Onassis mi invitò da lui - non lo conoscevo allora, ma più tardi diventammo grandi amici -. Allora Maria cominciò a fare le bizze e a insistere che avrebbe voluto vedere tutto prima. E lui disse: «Maria, non sono abbastanza ricco per pagare tutto questo». Io però continuai a pregarla, ma lei aveva paura, sì, aveva paura; aveva abbandonato la parte e se ne sentiva fuori...

- Siamo tutti molto eccitati all'idea che fra poco Lei dirigerà e registrerà Un Ballo in Maschera. L'ha mai diretto prima?
Sì, quarant'anni fa! Comunque per quanto riguarda questa produzione, John Schlesinger ne curerà la regia; è un regista molto noto, ma ha curato solo poche opere. In ogni modo sono rimasto affascinato da quella che vidi, e così ci siamo incontrati per parlare di una collaborazione. Quando ho ascoltato i dischi di Un Ballo in Maschera mi è tornato subito alla memoria, come succede quando si è giovani: le cose ti rimangono sempre nella testa. Quindi sapevo precisamente perché volevo dirigerlo. Mi interessa in modo particolare poiché - per considerare un solo aspetto - ha una grande quantità di lunghi pezzi d'insieme; un po' come Figaro. Dissi a Schlesinger che dovevamo trovare delle soluzioni sia per rendere efficacemente questo aspetto sia per mettere in evidenza i rapporti complessi tra i personaggi.

- C'è nel Ballo molta commedia "nera" così come c'è grande dramma?
Certamente!

- E quale versione adoprerà?
Quella svedese, naturalmente.

- E il suo cast?
Domingo e la ragazza inglese che cantò qui in Die schwarze Maske di Penderecki - cioè Josephine Barstow. Una volta le chiesi di cantare l'aria del Fidelio che avevo molto desiderio di dirigere. Lei venne a cantare - ha un bellissimo corpo, si muove bene, e canta con gusto e con espressività; così quando dovetti scegliere per Un Ballo in Maschera dissi che volevo lei.

- Ed il baritono?
Nucci. Così sono molto felice di farlo. A volte le cose ti passano vicine e non le afferri, ma in questo caso capii che c'era la possibilità di farlo con un bel cast.

- L'anno scorso (1987) Lei ha diretto il Concerto di Capodanno a Vienna. È sempre un evento così meraviglioso; una specie di messaggio di speranza all'inizio dell'anno. È stata un'occasione speciale per lei?
È stata davvero un'occasione speciale. È stata una svolta nella mia carriera.

- Una svolta?
Perché soffrivo molto. A volte non riuscivo a dormire per delle notti di seguito. È stato un periodo difficilissimo. Quando ebbi l'invito dissi: «Sì, volentieri». Per tre settimane non avevo nient'altro da fare e così mi misi lì e decisi - avevo già inciso tutti quei pezzi - di vedere se ci fosse qualcos'altro in quella musica. Così per tre settimane, sei ore al giorno, suonai quella musica. E ad un tratto mi sentii cambiato dentro me stesso. Quando mi presentai davanti all'orchestra, non avevo niente da spiegare. Accadde tutto molto naturalmente. E da quel momento capii che dovevo rinunciare a tante cose - la vela e così via - ma la musica tornò. Cento volte meglio di prima.

- La musica però l'ha aiutato durante tutta la vita. E ha detto che il dolore se n'è andato?
Sì, ma ho ancora dei problemi a camminare...

- Ma tutti dicono che quando Lei è sul podio e comincia a fare musica...
Sì, lo so. E questo mi fa sentire completamente felice.

© Richard Osborne


Le prime registrazioni di Herbert von Karajan: 1938 - 1943

«I pittori hanno il privilegio di poter distruggere le tele mal riuscite, ma noi non possiamo bruciare i dischi che non ci soddisfano più!» disse una volta Karajan scherzando. Anche se però avesse mai avuto dei pentimenti a proposito dei dischi del suo apprendistato (quelli incisi negli ultimi anni Trenta e nei primi anni Quaranta), egli deve averli messi a tacere giacché ha permesso la loro riedizione su questi nitidissimi e limpidi trasferimenti digitali. Si tratta di un gruppo stupendamente eterogeneo di registrazioni, nelle quali vengono alla luce sfaccettature del giovane direttore alle quali il Karajan maturo ha spesso fatto chiare e franche allusioni, che non sarebbero però pienamente comprensibili senza l'ausilio di queste testimonianze dirette. Vi riscopriamo quel "Wunder Karajan" per assicurare un contratto al quale, una volta finita la guerra mondiale, il giovane direttore Walter Legge ha mosso mari e monti.
Alcune di queste esecuzioni sono eccezionali, e in particolare la lettura della Patetica di Ciaikovsky, registrata con i Berliner Philharmoniker nell'aprile del 1939, e quella della Prima Sinfonia di Brahms, incisa nel settembre del 1943 con l'Orchestra del Concertgebouw. D'altro canto, il Mozart del 1942 con l'Orchestra Sinfonica di Torino è piuttosto strano. Lo stesso Karajan ha talvolta notato come, da giovane, il suo modo di dirigere fosse spesso troppo veloce ed irregolare. «Devo essere stato ubriaco», è il suo laconico commento. Se il finale della Haffner è rapido e felino, caratteristiche che il Mozart di Karajan avrebbe mantenuto ancora per molti anni, l'inizio della sinfonia è invece veramente incerto e sembra che sia stato diretto da uno che si è appena staccato da una bottiglia di brandy. Tuttavia, si ha spesso la sensazione che Karajan non abbia avuto il tempo, o la pazienza, o l'autorità di correggere i più elementari errori di ritmo e d'accentazione (si ascolti, per esempio, il barcollante accento sul secondo tempo della battuta 13 della Sinfonia in sol minore, o il ritmo ineguale del trio). L'esecuzione della Jupiter è nel complesso piuttosto buona; è come se Karajan avesse escogitato il modo di sentire un'esecuzione che non viene però puntualmente realizzata dall'orchestra. Senza dubbio, egli deve essersi esercitato a questo tipo di direzione quando si trovava ad Ulm; questa sua abitudine sembrerebbe anche giustificare la sua conoscenza enciclopedica degli errori a cui è incline la maggior parte degli orchestrali. In ogni modo, l'esilio torinese dev'essere stato molto traumatico dopo gli inebrianti giorni in cui aveva avuto libero accesso al podio dei Berliner Philharmoniker nel 1938.
Il 1958 fu l'anno del celebre commento di Van der Nüll «Das Wunder Karajan!», al quale Karajan ha sempre sardonicamente risposto «Non ero affatto una meraviglia!», una smentita che è contraddetta dalla splendida interpretazione della Patetica. È vero che l'orchestra conosceva bene la sinfonia, e che ne aveva appena completato una storica incisione sotto la bacchetta di Furtwängler, ma la lettura porta l'inconfondibile cifra di Karajan: un suono straordinario e maestoso (solo l'inizio della Marcia sembra lievemente sconnesso), ritmi saldi e regolari, grande impatto emotivo nei punti cruciali, ma anche una totale assenza di falso sentimentalismo. Nella Nona di Dvorák, registrata con l'orchestra berlinese nel marzo del 1940, Karajan tende ad esagerare la tenerezza e l'introspezione del celebre Largo; il finale della Patetica è invece suonato con una dolcezza ed un'intensità esemplari e con una grande spiritualità. Gli archi hanno più "portamento" di quanto non ne abbiano oggi, ma senza mai strafare. Nel complesso, si riesce ben a capire perché Karajan ambisse a fare sua questa orchestra. È stato omesso un ritornello nel tema E del movimento in 5/4, e il suono degli archi nei passaggi acuti più forti è lievemente sbiadito, ma il suono è generalmente ottimo, e riproduce alla perfezione le tonalità brunite dell'orchestra berlinese e la sua limpida definizione dell'ordito ciaikovskiano.
La Prima di Brahms, anch'essa con un'orchestra di tutto rispetto, il Concertgebouw di Mengelberg, è altrettanto buona, con violini ed oboi del movimento lento che suonano in modo squisito, e ovunque - fuorché nell'eccessivo rallentamento del grande tema nel finale - c'è un grande senso di proporzione, nonché un ammirevole equilibrio tra gli elementi drammatici e quelli lirici. Nel corso degli anni, la sua lettura si è fatta più corposa e si è arricchita di maggior slancio sonoro, ma è rimasta immutata sotto altri aspetti particolarmente importanti. Nel Don Juan di Strauss, il tempo è più fluttuante di quanto Karajan ci lascerebbe oggi percepire. L'ottantenne direttore fece il suo debutto con questo pezzo a Salisburgo nel 1929 e, ovviamente, lo conosceva bene; ma neanche il Concertgebouw di Mengelberg poteva eseguirlo con la stessa maestria con cui lo suonano oggi i Berliner Philharmoniker - una testimonianza della saggezza di Karajan nel voler un'orchestra tutta per sé, e per tutta la vita.
La registrazione della Nona di Dvorak è piuttosto sgradevole. Il suono è crudo e, come sarebbe successo molte altre volte negli anni successivi, i cambiamenti di livello dinamico di Karajan sembrano mettere in grande imbarazzo i tecnici del suono. Tuttavia, il suo Johann Strauss ha già tutto il suo caratteristico fascino. In sostanza, si tratta dello stesso approccio all'ouverture del Fledermaus che ritroviamo nell'incisione del 1955 con la Philharmonia, una lettura di grande verve e di tono aristocratico che i berlinesi riproducono con una sensibilità lievemente inferiore a quella dei loro colleghi inglesi. Nel 1941, l'interpretazione di Karajan del Kaiserwalzer era già imperiosa (la prima moglie di Karajan era la mitica stella dell'operetta tedesca Elmy Holgerloef, e la peculiare sensibilità del direttore per questa musica è sempre evidente).
Il disco di Beethoven, con dei riempitivi dai Meistersinger, è interessante perché smentisce in parte le posteriori riserve di Karajan circa il proprio Beethoven giovanile. Il movimento lento è piuttosto noioso, come anche il Trio del terzo movimento, dove l'ammirazione di Karajan per Toscanini non era riuscita a persuaderlo ad evitare i peggiori eccessi della tradizione tedesca. Il primo movimento è misurato, senza quell'esuberanza che avrebbe acquisito in seguito, ma lo Scherzo ed il Finale sono veramente esemplari. La lettura non si discosta molto da quella dell'incisione con la Philharmonia Orchestra, effettuata nel corso di più mesi a cavallo tra il 1951 e il 1952, una registrazione della Columbia molto lodata, in cui un'interpretazione intensa viene brillantemente realizzata dalla Philharmonia di Legge. L'esecuzione della Staatskapelle di Berlino del 1941 è talvolta fin troppo sforzata. La Leonora Ouverture e il preludio dei Meistersinger sono più disuguali come letture, con un Karajan che affretta e rilassa la musica in un modo che, negli anni seguenti, tenderà invece ad evitare con la massima cura.
È difficile non essere tentati dal Vol. VI di questo set, giacché, oltre ad abbracciare un gran numero di orchestre e di anni, essi presentano un Karajan alle prese con le composizioni più note del suo repertorio, alle quali sarebbe tornato molte volte, negli LP e nei CD di ouvertures, preludi e intermezzi. L'esecuzione dell'ouverture dello Zigeunerbaron è forse quella di maggior rilievo; altri pezzi, quali le ouvertures del Freischütz e della Forza del destino, sono state invece interpretate ed eseguite con più fantasia e maggior fascino da Karajan e dai Berliner Philharmoniker negli anni successivi.
L'equipe dei tecnici del suono della Deutsche Grammophon ha fatto un lavoro di alta qualità, su delle registrazioni generalmente pulite e ben equilibrate, provenienti da ottimi dischi tedeschi a 78 giri.

SERIE DG «DOKUMENTE» - LE PRIME REGISTRAZIONI DI HERBERT VON KARAJAN 1938-1942

Vol. I: BEETHOVEN / WAGNER. Sinf. n. 7 (1941). Leonora III Ouv. (1943) / Die Meistersinger, prel. atti I, III (1939). Staatskapelle Berl.; Concertgebouw. 425 526-2.
Vol. II: BRAHMS / STRAUSS. Sinf. n. 1 (1943) / Don Giovanni. Danza sette veli (1943). Concertgebouw. 423 527-2.
Vol. III: DVORAK / STRAUSS. Sinf. n. 9 (1940) / Pipistrello Ouv. (1942). Vita d'artista (1940). Valzer dell'Imperatore (1941). Berliner Philh. 423 528-2.
Vol. IV: MOZART. Sinf. nn. 35, 40, 41 (1942). Orch. sinf. della RAI di Torino. 425 529-2.
Vol. V: CIAKOVSKY / SMETANA. Sinf. n.6 (1939) / La Moldava (1940). Berliner Philh. 425 530-2.
Vol. VI: OUVERTURES E PRELUDI. Flauto magico (1938). Semiramide (1942). Il franco cacciatore (1943). Anacreonte (1939). Lo zingaro barone (1942). La Traviata (1942). La forza del destino (1939). Staatskapelle Berlino; Orch. sinf. della RAI di Torino; Concertgebouw. 425 531-2.


Karajan e Sibelius

In questo secolo, abbiamo assistito ad alcune collaborazioni musicali di notevole importanza e di lunga durata: Mengelberg e il Concertgebouw, Koussevitzky e la Boston Symphony, Ormandy e la Philadelphia Orchestra, Barbirolli e la Halle, e seconda a nessun'altra Arturo Toscanini e la NBC Orchestra. In tempi più recenti, nessuna ha però avuto il rilievo della collaborazione tra Karajan e i Berliner Philharmoniker.
Soltanto pochi direttori d'orchestra hanno suscitato controversie maggiori: Toscanini e Mengelberg avevano i loro detrattori, ma quelli di Karajan sono decisamente più accaniti e chiassosi - forse questo fatto costituisce in sé una misura del suo successo. Per parafrasare Hoffmansthal, «quanto maggiore è la solitudine di un uomo, tanto più autorevole è il suo modo d'esprimersi», potremmo affermare che quanto più forti sono la sua personalità e il suo profilo, tanto più formidabili sono le emozioni che riesce a suscitare; tuttavia, è vero anche il contrario, ovvero che la grandezza isola e rende invidiosi e distruttivi i mediocri. Senza dubbio, Karajan ha avuto la sua dose di questi avversi sentimenti! È sufficiente ricordare come il gusto musicale tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta fosse dominato da figure quali De Sabata e Furtwängler, e come Karajan soffrisse all'ombra di quest'ultimo. Mi ricordo che ben presto cominciarono le critiche, e Karajan fu improvvisamente giudicato specioso e superficiale. Ciononostante, le sue esecuzioni di quel periodo sul podio della Philharmonia Orchestra e su quello dei Wiener Philharmoniker sono alquanto elettrizzanti. In quei giorni, le sue scelte cadevano in genere su Brahms e Beethoven: la Nona di Beethoven del 1947 con la Schwarzkopf, la Höngen, Patzak e Hotter, e il Requiem di Brahms, anch'esso con la Schwarzkopf e Hotter, furono universalmente acclamati, e possiedono tuttora una loro particolare aura olimpica. A quel periodo risalgono però anche alcune incisioni avanguardistiche, come la Quarta Sinfonia di Roussel o la Prima di Balakirev (neanche Beecham ha mai superato la lettura di Karajan di questa composizione), nonché l'indimenticabile interpretazione del commiato di Strauss, le Metamorphosen, o della Musica per archi, percussioni e celesta di Bartok, che Karajan ha inciso due volte. Nel 1983, quando uscì l'ultima delle sue registrazioni delle Metamorphosen (DG 410 892-2), accolta con una pioggia di superlativi, riascoltai quella vecchia interpretazione con gli archi dei Wiener Philharmoniker e devo ammettere che, come molte prime incisioni, essa ha tutta l'intensità della scoperta. È assai più vicina al mondo elegiaco di un'Europa dilaniata dalla guerra di quanto non lo siano invece le sontuose letture che egli ne ha dato in seguito nel 1969 e nel 1983; il sentimento di dolore è molto più vero e c'è un'intensità difficilmente ripetibile. E che dire delle sue Fontane di Roma di Respighi sul podio della Philharmonia alla fine degli anni Cinquanta! Di questa partitura indistruttibile, abbiamo i dischi delle indimenticabili interpretazioni che ne hanno dato Toscanini e Reiner, ma neanche l'orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia sotto la bacchetta di De Sabata è riuscita a far scorrere le sue acque in modo più risplendente di Karajan.
Senza dubbio, la cifra dei suoi dischi migliori è data dalla determinatezza e dal deciso senso d'orientamento: l'impeto è sempre irresistibile, e, pur volendolo, sarebbe impossibile arrestare il progredire sinfonico. Inoltre, per Karajan, come egli stesso ha ripetutamente affermato, la pura bellezza del suono è un elemento insostituibile, mentre essa non era certamente una preoccupazione primaria per direttori come Klemperer. Questa bellezza epidermica è stata raramente eguagliata e non è stata mai superata da nessuno; Beecham, Koussevitzky e Mravinsky erano artisti del suo calibro. Eppure, la bellezza è vista con diffidenza e con un certo disagio da quei puritani del Nord i quali credono che quando la musica ha un suono sontuoso non possa assolutamente essere "edificante". Per quel che concerne questo linguaggio molto "karajanesco", io stesso devo confessare di non essere stato sempre corretto nei confronti del maestro. Mi pento della mia disinvolta reazione alla Quarta Sinfonia di Sibelius (DG 415 108-2), al momento della sua prima apparizione, quando scrissi in una recensione che «la perfetta bellezza del suono serve soltanto ad attutire l'impatto sgradevole di questa composizione straordinaria, e a smorzare l'intensità della sua desolazione. Questa musica non porge mezzi di consolazione fasulli e, come molte grandi opere d'arte, ha una superficie aspra ed impervia che non si cura di rivolgersi a chi ascolta [...] L'opulenza orchestrale non è il mezzo più adatto a svelare i recessi di questa composizione bizzarra: di fronte al suono ricco e modulato degli archi berlinesi, si rimpiange il suono freddo ed incorporeo che Beecham riusciva a trarre dalla sua orchestra nelle sue celebri esecuzioni di Sibelius». Mi pare di aver perfino detto che Karajan isola l'ascoltatore dall'algida realtà di quella musica, in modo analogo a chi osserva un paesaggio ghiacciato dall'interno di una comoda e riscaldata limousine. Dopo venticinque anni, mi auguro di esser riuscito a modificare questo mio approccio piuttosto superficiale. Nel corso degli anni, sono giunto a distinguere le profondità dell'esecuzione di Karajan; la bellezza del suono accresce la forza della musica e, dopo essersi accostati ad essa, ci si rende conto che, in effetti, non c'è alcun tentativo di isolamento cautelativo: la bellezza delle sonorità non serve a polarizzare l'attenzione di chi ascolta, ma ad avvicinarlo il più possibile alla concezione ideale della Quarta Sinfonia. Nessuno che abbia ascoltato questo disco può dubitare dell'eccellenza e del pieno successo dei suoi risultati.
Nel corso della sua vita, Sibelius ha goduto dell'autorevole sostegno, su disco, di grandi maestri quali Koussevitzky, Barbirolli e Beecham, e tuttavia è possibile affermare che nessuno ha fatto di più per il grande musicista finlandese di Karajan, e in un periodo in cui Sibelius non sembrava incontrare giudizi molto favorevoli. Neanche gli anni Sessanta furono giorni congeniali a Sibelius: Adorno e Strobel facevano il bello e il cattivo tempo nella formazione del gusto musicale, e Adorno gli era apertamente ostile. Una volta, fui incaricato dalla BBC di organizzare e condurre un'intervista ad Adorno a Francoforte, dove abitava, e lo affrontai proprio su questo argomento: se era riuscito ad elogiare il genio dell'impresa Wagneriana, non poteva allo stesso modo riconoscere i meriti di Sibelius nel campo sinfonico? Nessuno è obbligato a farsi piacere un dato compositore, ma credo che sia ingiusto non riconoscerne la maestria. Per tutta risposta, Adorno mi fece un amabile sorriso e scosse le spalle!
È stata proprio la durevole e speciale affinità di Karajan con il compositore finlandese che mi ha portato in contatto col celebre direttore alcuni anni orsono, nel 1981 per essere precisi, quando ebbi la possibilità di assistere ad alcune sedute di registrazione a Berlino, dove Karajan stava incidendo la Prima Sinfonia di Sibelius. Fui molto sorpreso dall'atmosfera relativamente rilassata, ma sempre d'intensa concentrazione, che regnava in quelle sedute. A coloro i quali credono che tutti gli LP o i CD siano un semplice ma perfetto mosaico di scampoli di registrazioni, posso assicurare di aver visto coi miei occhi che ognuno dei quattro movimenti è stato prima provato per un'ora e mezzo circa, e soltanto in seguito registrato, e che le riprese sono state relativamente poche. L'atmosfera nella sala di controllo era rilassata e nessuno trattava Karajan con ossequio eccessivo. Più tardi, ebbi l'occasione di parlare al maestro nella sua stanza nell'auditorio dei Berliner Philharmoniker. All'inizio, egli parlava come se si trovasse ad una conferenza stampa, ma si riscaldò non appena gli mostrai la prima versione della Quinta Sinfonia (a quel tempo ancora poco conosciuta) e le uniche tre battute pervenuteci dell'Ottava (tanto eloquenti circa il carattere di quella composizione, quanto le note ripetute - Fa diesis, Sol e La - lo sono della natura della Seconda).
Durante il mio soggiorno in Svezia, ero venuto a conoscenza del fatto che Karajan era stato presentato a Sibelius da Pär Lindfors della Radio svedese. Karajan mi disse infatti che, negli anni Trenta, mentre si trovava ancora ad Aquisgrana, era stato invitato a Stoccohna per dirigere alcuni concerti con l'orchestra della Radio, e che gli era stato espressamente richiesto di dirigere la Sesta Sinfonia di Sibelius, che aveva allora appena dieci anni ed era musica molto nuova. Per un caso, anche l'Orchestra Filarmonica di Stoccolma aveva in programma, in quello stesso periodo, la stessa composizione, e Karajan mi disse che andò ad ascoltarla e che proprio questa esperienza sigillò per sempre la sua ammirazione per il compositore nordico. Negli anni che seguirono al conflitto mondiale, quando Walter Legge fece in modo di legarlo alla Columbia, Karajan ebbe la possibilità di registrare le ultime quattro sinfonie di Sibelius. Legge, mi disse Karajan, non lo incoraggiò a passare alle prime, e infatti mi ricordai che a quei tempi nei cataloghi non si trovavano numerosi cicli completi, come invece succede oggi (su LP Anthony Collins per la Decca dominava esclusivamente). Sebbene sostenesse di non averlo mai incontrato, Karajan mi disse d'aver sentito dire che «Sibelius aveva espresso un giudizio molto favorevole su quelle esecuzioni». Evitai di fargli notare che Sibelius parlava favorevolmente di quasi tutte le esecuzioni: la sua figlia maggiore, Eva Paloheheimo, mi disse che la Sesta di Beecham era una delle preferite dal compositore, ma, in seguito, venni a sapere che egli aveva un'altissima stima del ciclo di Karajan, e che riteneva che Karajan, tra tutti i direttori, fosse quello che aveva maggiormente penetrato la sua musica.. Avrei tanto voluto poterglielo dire. Quando incise il ciclo con la Philharmonia, Karajan non era ancora mai stato in Finlandia; egli definisce il suo primo incontro con il paesaggio finlandese in questi termini: «Beh! Il primo impatto fu semplicemente travolgente». Furono senz'altro la vivida atmosfera e la luce straordinaria tipiche di quelle latitudini a colpirlo in modo così indelebile.
Il sostegno di Karajan alla musica di Sibelius continuò indefesso: dopo aver registrato le quattro ultime sinfonie negli anni Cinquanta, egli incise la Seconda per la prima volta, e la Quinta per la seconda volta con la Philharmonia, quindi una terza volta con i Berliner Philharmoniker, oltre alle reincisioni della Quarta, della Sesta e della Settima per la Deutsche Grammophon; le ripropose infine tutte insieme per la EMI, un decennio più tardi, negli anni Settanta - tuttavia, di quest'ultima serie, sono finora state pubblicate soltanto la Prima, la Seconda, la Quarta, la Quinta e la Sesta. Neanche Barbirolli o Beecham hanno mai fatto di più.
Di ritorno al suo albergo, Karajan mi dette un passaggio e mi parlò del suo enorme disprezzo per le città ed il loro inquinamento, e mi disse che proprio la sua enorme sensibilità per la natura lo aveva avvicinato alla musica di Sibelius. Parlammo anche dell'influenza ineludibile di Wagner: «Non c'erano solo quelli che lo adoravano come Chausson, ma anche quelli che gli volsero le spalle come Debussy e Sibelius», disse Karajan, «ma, in nessun modo, nessun compositore, neanche Beethoven, ha influenzato gli altri in maniera tanto profonda e radicale quanto Wagner - e la sua influenza è visibile anche in quelli che lo hanno consapevolmente rifiutato». Il rifiuto di Sibelius, espresso negli ultimi anni della sua vita, è in realtà una glossa che tenta di camuffare l'enorme influenza che Bayreuth ebbe sulla sua personalità nel corso del pellegrinaggio del 1894. È però significativo che Karajan mi abbia confessato di percepire piuttosto «un'influenza, un'affinità, una parentela assai più profonda con Bruckner. C'è questo senso dell'urWald, la selva primordiale, il senso di una forza elementare, la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di estremamente profondo. Sebbene si tratti di musicisti del tutto differenti, credo che sia possibile ravvisare in loro delle importanti somiglianze musicali». Le più ovvie sono i tremoli degli archi e i momenti di pedale, e ritroviamo echi bruckneriani anche nella giovanile sinfonia Kullervo. Sappiamo come Sibelius fosse rimasto affascinato dal Bruckner che ebbe occasione di ascoltare quando era studente a Vienna, e la sua ammirazione per quel compositore si mantenne sempre viva. Anche Tapiola, quella vigorosa e pensosa evocazione delle foreste settentrionali, composta in Italia, paese che Sibelius amava immensamente, secondo soltanto alla natia Finlandia, è stata incisa da Karajan in ben tre occasioni: Beecham l'ha registrata solo due volte. Trovo che la seconda di queste interpretazioni di Karajan sia formidabile, la migliore che sia mai apparsa su disco - e non mi sono dimenticato delle altre "Kappa": Koussevitzky e Kajanus. Rimpiango invece che Karajan abbia trascurato La figlia di Pohjola, cui accennammo nel corso della nostra conversazione e che il direttore ammise di non conoscere bene; tuttavia, alcuni mesi più tardi, ricevetti un messaggio da parte del suo produttore della Deutsche Grammophon il quale mi chiedeva alcuni suggerimenti circa il brano più appropriato da abbinare al Peer Gynt, che stava registrando allora per l'ennesima volta. Questo mi fece venire in mente, tra le altre cose, l'opportunità di prendere in considerazione tutta la musica per il Pelleas! Con mio grande piacere, la sua scelta fu proprio in quella direzione, e il risultato (DG 410 026-2) è più affascinante ed intenso perfino dello splendido disco di Beecham degli ultimi anni Cinquanta.
In un'intervista che ha concesso alla CBC Radio di Vancouver, Karajan ha parlato di tre composizioni che lo hanno sfinito spiritualmente: una era Elektra, la seconda i Pezzi Orchestrali, op. 6 di Berg, e la terza era proprio la Quarta Sinfonia di Sibelius, che, tra l'altro, egli insistette per dirigere al suo esordio sul podio dei Berliner Philharmoniker quando prese il posto che era stato di Furtwängler. La sua dedizione al mondo espressivo di Sibelius è perciò stata assoluta, e il gran numero di registrazioni delle opere del compositore finlandese dovrà senz'altro essere considerato come una parte essenziale dell'eredità discografica di Karajan.

Robert Layton


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