La musica secondo... Herbert von Karajan
Da Salisburgo, Karajan parla con Richard Osborne (1988)
Quando arrivai a Salisburgo nei primi
giorni di marzo per incontrare Herbert von Karajan, al
Festspielhaus erano già iniziati i preparativi per il Festival
di Pasqua. Di sicuro la vita musicale di una città non è mai
stata così profondamente trasformata come quella di Salisburgo
da Karajan, almeno da quando Wagner fece di Bayreuth un luogo di
pellegrinaggio per i cultori della sua opera.
Karajan fa ancora qualche tournée con i Berliner Philharmoniker
oltre ai suoi impegni direttoriali e filmici a Berlino e Vienna,
ma la maggior parte del suo lavoro si svolge oramai a Salisburgo.
Uno dei suoi impegni più importanti rimane naturalmente il
festival estivo, che ha conosciuto fin dalla sua fondazione nel
1920. Nel 1922 Richard Strauss vi diresse Don Giovanni,
la prima di una celebre serie di produzioni operistiche
mozartiane; e nel 1991 il Festival presenterà, come omaggio del
bicentenario, sette opere di Mozart. La sola amministrazione del
progetto è scoraggiante, mi dice Karajan - «soltanto il
problema di trovare gli interpreti per tanti ruoli importanti»
ma, lentamente, il ciclo sta prendendo forma. Karajan ha già
messo a punto una nuova produzione di Don Giovanni e fra
poco ve ne aggiungerà una completamente nuova delle Nozze di
Figaro; quest'estate, invece, sarà il turno della Clemenza
di Tito, diretta da Riccardo Muti con la regia di Peter
Brenner.
Tornando a Salisburgo prima di ogni festival di Pasqua, Karajan
riprende il controllo di un'équipe esperta al pari di qualsiasi
orchestra che abbia mai guidato. Come mi ha confessato, e
cosciente delle critiche riguardo le proporzioni e i costi di un'operazione
che, fuori di ogni consuetudine, è iniziativa di un solo uomo;
comunque è contento poiché sa che sono soldi suoi (nel primo
anno fece un profitto di circa 18.000 lire) investiti in un'iniziativa
che ha per solo scopo quello di creare musica, spesso a un
livello senza pari, ed indipendentemente da governi, uomini
politici e amministratori. Allo stesso modo, mi fa notare, è
sicuro di essere indipendente anche da registi che lasciati
liberi di fare quello che vogliono infrangono spesso quella che
Karajan ritiene la regola principale di una produzione operistica:
e cioè che la scenografia e la impostazione drammatica devono
nascere esclusivamente dalla musica e solo da quella.
«Per fortuna non sono nato per obbedire», mi disse accennando
un sorriso sornione e disarmante, mentre stavamo seduti nella sua
casa ad Anif che dà su prati coperti di neve, fino al
torreggiante Untersberg che Karajan conosce fin da bambino. Era
un giorno pieno di sole e così per me è stata una sorpresa
molto piacevole andare ad Anif con quel tempo splendido, anche
perché avevo pensato che la nostra conversazione si sarebbe
svolta al Festspielhaus tra una prova e l'altra. La casa di
Karajan - una casa colonica - è di dimensioni modeste, situata
in un grande prato non troppo distante dal paese. Il sottosuolo e
le dépendances nascondono una piscina e uno studio di montaggio
cinematografico, ma la casa in sé non è affatto pretenziosa.
Visto che la casa era piena di telecamere, di cavi e di tecnici -
la BBC era li a filmare una breve intervista con Karajan per una
trasmissione televisiva - Eliette von Karajan se n'era fuggita in
paese, anche se con scarso vantaggio visto che più tardi si è
ritrovata insieme a noi per pranzo al Goldener Hirsch.
Pur avendo avuto una troupe televisiva in casa fino dall'ora di
colazione, Karajan sembrava molto rilassato. Si scusò per i
ritardi, fece una battuta sul "pessimo" mixaggio della
BBC, e ordinò del caffè per noi tutti che aspettavamo. Nel
tempo che abbiamo trascorso insieme durante l'intervista, potei
constatare che dopo due o tre anni estremamente difficili, di
grandi sofferenze (i suoi problemi spinali risalgono con tutta
probabilità ad una rovinosa caduta da un albero quando aveva
appena dodici anni), Karajan fortunatamente era ancora lui, se
possibile più vitale che mai, ancora lo stesso instancabile
programmatore di sempre. Il calore che manifestava per il
Festival di Mozart del 1991 e per il suo ritorno al Ballo in
Maschera nel Festival dell'Estate 1989, assieme ai suoi
progetti di altri ritorni a un importante repertorio (l'Oedipus
Rex di Stravinsky, per esempio), tutto faceva pensare agli
entusiasmi di una volta. Forse l'inverno del 1986/87 è stato un
periodo critico per lui; e certamente lo si può pensare a
giudicare dai suoi commenti che leggerete nell'intervista sullo
storico concerto di Capodanno a Vienna del 1987.
Karajan mi disse che adesso era anche più contento del suo
grande progetto nel campo della videoriproduzione: la
presentazione di film di altissima qualità del suo repertorio
sinfonico e operistico più essenziale per una nuova generazione
di collezionisti di video-disc. C'erano state battute d'arresto
ormai irreparabili, come il rifiuto definitivo delle autorità
cinesi a concedere a Karajan il permesso di girare un film della
Turandot di Puccini all'interno della Città Proibita; ma la
registrazione di tutto il resto del repertorio è a uno stadio
già molto avanzato e Karajan afferma che adesso si sente
completamente sicuro che sarà portata a termine. «Sono stato
sotto pressione nei primi due anni quando iniziammo questa cosa,
poiché non sapevo se sarei vissuto abbastanza per portarla a
termine», ma oramai i problemi tecnici sono tutti sotto
controllo, la linea di programmazione è stabilita, e la sua
fiducia nell'équipe solida. L'impegno richiesto è eccezionale:
Karajan spiega che ogni film è programmato da lui e per la fase
iniziale si serve di un'orchestra di studenti per due giorni e
poi gira con i Berliner o i Wiener usando tre postazioni di
ripresa, ognuna delle quali è fornita di cinque camere. Il suo
metodo d'impostare le riprese è "tradizionale". Prima
stabilisce quali siano le strutture musicali e quindi cerca di
tradurle in immagini con una serie di inquadrature incrociate del
direttore, degli strumenti e dei gruppi strumentali, tutti
ripresi in primo piano. Karajan, infatti, detesta la musica
filmata a media distanza o in campo lungo. L'idea è di guidare l'occhio
e l'orecchio a penetrare nella musica che l'orchestra sta
suonando.
Finora quasi nessuno ha visto i nastri delle riprese e ho chiesto
a Karajan quando i film sarebbero stati in commercio. Secondo lui,
si dovrebbe iniziare a mettere i nastri su disco fra sei o sette
mesi. Ma è impossibile affrettare i tempi di Karajan; se
qualcosa non riesce come la desidera, la mette da parte e ci
ritorna sopra dopo qualche mese a mente fresca, secondo il suo
modo consueto di fare in tutte le cose. Karajan non si nasconde
il fatto che i film saranno molto cari, ma è confortato da
segnali evidenti che vengono dagli Stati Uniti e che indicano che
la gente che vuole una buona resa sonora si sta già orientando
verso la fascia più costosa del mercato. Se il progetto non
avrà successo, dice che rimarrà comunque contento a sapere che
i film resteranno come un documento.
La nostra conversazione, tuttavia, si è concentrata maggiormente
sulla musica e sui musicisti. Tra le tante ristampe su CD che
questo mese vedono Karajan protagonista (le celebri produzioni
operistiche su etichetta EMI a partire dal classico Hänsel
und Gretel, i 25 CD della «Karajan Edition» - ce ne sono
di interessantissime delle prime registrazioni fatte da lui fra
il 1938 e il 1943. Comprendono, fra l'altro, alcune esecuzioni
dell'Orchestra Sinfonica della Radio di Torino sconnesse in modo
tale da far rizzare i capelli in testa.
- Lei aveva gia diretto con molto successo grandi
orchestre come i Berliner Philharmoniher e il Concertgebouw. Come
ha fatto a tollerare cattive orchestre che chiaramente non davano
i risultati che Lei desiderava?
Glielo posso dire con franchezza. Io sentivo nel
mio orecchio interiore quello che volevo sentire e per il resto...
beh, il pubblico rimase contento! Ma sa, poi viene un momento in
cui l'orecchio interiore si meraviglia di quello che esce fuori.
Con una grande orchestra dopo un certo tempo, e se sono abituati
a te e suonano veramente al massimo delle loro forze, ti danno
qualche volta qualcosa di molto più bello di quello che pensavi
di poter sentire; e da quel momento inizia il vero
lavoro per portarla a dei livelli sempre più alti, e questo
sicuramente non può accadere che dopo aver lavorato quindici o
venti anni con la stessa orchestra. È per questa ragione che
dissi che volevo l'orchestra per tutta la mia vita, altrimenti
non avrei firmato il contratto. E questo paga con risultati che
si possono ottenere solo dopo un lunghissimo periodo di tempo.
- Abbiamo avuto molte prove di questo, ma mi
ricordo in particolare le esecuzioni che Lei diede nel 1982 della
Nona di Mahler con i Berliner. Lei aveva fatto una bellissima
registrazione su LP e poi volle che il concerto live del 1982 a
Berlino fosse pubblicato a parte su CD. Per quale motivo?
Avemmo la sensazione che se non ci fosse stato
rumore in sala avremmo potuto ottenere un risultato ancora
migliore. E io so che ero davvero follemente preso dalla sinfonia
a tal punto che una volta finita - ed è uno dei pochi lavori di
cui posso dire questo - non avrei più osato avvicinarmici.
- Aveva esaurito l'opera?
Si, completamente.
- Mi ricordo il concerto qui a Salisburgo al
Festival di Pasqua del 1982. Avevamo prenotato un tavolo per cena
dopo il concerto - Lei inizia i suoi concerti del festival presto,
quando possiamo ancora concentrarci sulla musica! - e siamo stati
costretti a disdirlo perché non avremmo potuto mangiare.
Lo so. A me accadeva lo stesso. Una cosa così
succede una volta nella vita.
- Perché è tornato a questa musica proprio in
questo momento della sua vita?
Posso rispondere con precisione. Passai tre anni a
Vienna da studente. Ascoltavamo questa musica - Mahler, Webern,
Schönberg - molto spesso; era il nostro pane quotidiano. Poi
venne la guerra e dopo la guerra gli organizzatori di concerti mi
offrirono l'opportunità di eseguire tutte le sinfonie di Mahler.
Chiesi loro su quante prove avrei potuto contare. «Due prove per
ogni concerto». Io dissi: «Gentili signori, vi prego di
scordarvelo». Mahler è molto difficile per un'orchestra. Prima
di tutto devi, come direbbe un pittore, preparare la tua paletta.
Le difficoltà sono enormi e il pericolo è più grande proprio
in quei punti dove la musica diventa banale. Dirigo molta musica
"leggera" e può essere molto difficile per un'orchestra
realizzarla bene. Una volta passai tutta una prova sulla
«Barcarolle» dei Contes d'Hoffmann, che per me è una delle
cose più tragiche del repertorio operistico; non è gioiosa; un
uomo passa dalla vita alla morte. E in Mahler c'è molto di
questo.
- La Nona di Mahler mi sembra un lavoro a cui Lei
è musicalmente molto vicino.
È particolarmente difficile arrivare alla fine
della sinfonia. È uno dei lavori più difficili da dirigere.
- Mi viene in mente un'intervista che Lei diede alla
televisione austriaca nel 1977 nella quale l'intervistatore
commentò che Lei non dirigeva abbastanza musica del ventesimo
secolo. Lei invece ha diretto tantissima musica del ventesimo
secolo, addirittura anche Ligeti, Penderecki; ma forse non la
guarda con particolare attenzione.
Sì, ma riesco a farla solo se sono veramente convinto. A volte
è molto facile, ma con altri lavori è difficile se hai davanti
una partitura e non sia cosa pensa il compositore.
- Una cosa che io credo di aver capito riguardo
alle grandi registrazioni che Lei ha fatto di musica del
ventesimo secolo - i Tre pezzi per
orchestra di Berg, la Quinta
di Prokofiev, la Liturgique
di Honegger, la Decima
di Shostakovich - è che sono tutti lavori che in certo senso
esprimono la tragedia del nostro secolo. Lei aveva sei anni
quando scoppiò la Prima Guerra Mondiale. È qualcosa nella sua
coscienza questo senso della tragedia dei nostri tempi e delle
capacita salvifiche della musica?
Sì, sì, certamente. Ebbi degli ottimi rapporti
con Shostakovich. L'ultima volta che fui a Mosca diressi la
Decima Sinfonia. Lui era talmente timido e nello stesso tempo
rimase così colpito... disse «non riesco a parlare» ma era un
grandissimo compositore.
- Sentii dire una volta che Lei voleva dirigere la
sua Sesta Sinfonia ma disse che siccome Mravinsky l'aveva già
fatta talmente bene, Lei non ci si sarebbe avvicinato.
Sì, esatto.
- Disse proprio così?
Sì
- Era un grande direttore.
Sono un suo grande ammiratore. Rappresentava in
modo perfetto la sua vecchia generazione.
- Ha mai diretto l'Orchestra di Leningrado?
No, ma lo farei volentieri se ne avessi il tempo;
ma dicono sempre, se viene porti con sé la Sua orchestra.
-Ma Lei ha diretto altre grandi orchestre: la
Cleveland Orchestra di Szell, per esempio?
Sì, Szell ed io eravamo grandi amici. Lui
insisteva sempre che io dovevo dirigere la Quinta di Prokofiev, e
mi domandavo dove voleva arrivare. Così lo feci, e durante l'intervallo
delle prove venne a dirmi che aveva avuto uno shock nervoso
perché dal momento in cui avevo iniziato si era reso conto che
facevo l'esatto contrario di tutto quello che lui aveva già
insegnato all'orchestra. Sembrava un grosso problema; ma dopo
pochi minuti suonavano come se avessero sempre suonato in quella
maniera. E sa che c'è un passaggio all'inizio del finale con i
violoncelli... Nell'intervallo del mio concerto Szell
andò a lavorare con i musicisti per assicurarsi che tutto, poi,
fosse perfetto - ora questa è vera dedizione e generosità!
- Klemperer disse una volta che Szell era una
macchina, ma comunque un'ottima macchina.
No, non si può dire questo. Era un uomo di grande
cuore. Quando avevi l'occasione di incontrarlo a casa sua con
tutti i suoi invitati, era un uomo straordinariamente
affascinante e intelligente. No, non riesco a capire quella
battuta.
- Quest'anno lei sta preparando un allestimento di
Tosca per il Festival
di Pasqua.
Sì, e sono estremamente entusiasta dei bozzetti di
Schneider-Siemssen. Con il nostro palcoscenico e i nostri
laboratori, che sono migliori di quelli di qualsiasi altro teatro
al mondo, riusciamo a realizzare scene che sono davvero
sensazionali, e che non hanno niente a che vedere con queste
produzioni moderne che fanno tutto il contrario di quello che la
musica richiede. Puccini scrive nella partitura un accenno, o un
consiglio, oppure semplicemente un ordine. Noi seguiamo tutte
queste cose.
- Lei ha fatto due incisioni memorabili di Tosca.
È un'opera emozionante, ma i personaggi non sono del tutto
simpatici: Tosca, Scarpia...
No, non sono affatto simpatici! Ma Tosca mi ha
sempre affascinato. Goethe disse una volta: «Sarei stato capace
di commettere qualsiasi crimine nella mia vita, se non avessi
avuto la possibilità di raccontarlo». Bisogna dirigerla,
qualche volta, altrimenti prima o poi potresti ammazzare qualcuno!
Ogni singola battuta mi affascina.
- John Culshaw, che produsse l'incisione RCA di
Tosca con Leontyne Price, disse che Lei non aveva paura del
"melodramma" in Puccini.
Sì.
- Raccontò anche un aneddoto commovente di quando
Lei ascoltò la registrazione di De Sabata e disse che quello era
vero genio, ma che non poteva farla nel modo in cui la faceva lui.
Era un direttore che ammirava molto?
Probabilmente era l'unica persona che non abbia mai
parlato male di un altro direttore. I tempi nei quali visse
furono molto difficili; lo volevano di nuovo alla Scala, ma c'era
sempre la possibilità che ci ritornasse Toscanini. Una volta gli
chiesi: «Cosa senti mentre dirigi?» e lui disse: «Ho milioni
di note nella testa, e ogni nota che non è perfetta mi fa
impazzire di rabbia». Soffriva molto quando dirigeva. In questo,
devo dirlo, l'ho superato.
- Abbiamo appena visto uscire la ristampa di Madama
Butterfly che Lei registrò per la EMI con
la Callas. Ha dei ricordi di quando lavorò con lei? Senz'altro
deve essere stata un'artista straordinaria.
Se la si prendeva per il verso giusto era molto
facile. Era sempre preparata fino al minimo dettaglio e quando
era convinta che un consiglio era giusto, ne teneva subito conto.
Ma a volte poteva anche fare la Diva. Mi ricordo che una volta
stavo sperimentando un sipario velato, era alla Scala da un
centinaio di anni ed era pieno di polvere e lei era molto miope e
non vedeva bene la platea. Venne alla prova e sulla ribalta sopra
l'Orchestra dove dirigevo disse al direttore artistico: «Se
questo velo rimane, non canto». Allora io non feci niente, la
lasciai semplicemente passare, e dissi: «Oh, cara, sto cercando
un nuovo "elemento"...» e dopo mezz'ora il direttore
artistico venne a dirmi che Maria se ne stava seduta da sola,
piagnucolando. Così le dissi: «Maria, stavo facendo un
esperimento e quando dico che "sto sperimentando"
significa che voglio vedere che effetto fa. Ma non so se l'adopreremo».
Naturalmente poi l'adoprammo, ma lei ne capì la ragione. Io non
cerco mai di mettere in difficoltà una persona se non c'è un'idea
molto convincente che dobbiamo provare.
- Nei suoi corsi alla Juilliard, la Callas
consigliava sempre ai suoi allievi di lavorare sul rubato
consentito nei confronti del direttore. Ma è vero che lei aveva
un senso del ritmo davvero eccezionale?
Incredibile. Quando aveva l'opera dentro di sé le
dicevo: «Maria, tu puoi anche non guardarmi mentre canti, so che
non sarai in nessun momento, nemmeno per una piccolissima parte
di una battuta, fuori tempo; aveva un grande orecchio e cantava
sempre con l'orchestra. Mi dispiace tanto, tantissimo, che non
riuscii a persuaderla a fare un film di Tosca. Le dissi
che avevamo già il nastro e che lei non doveva fare altro che
essere lì e cantare la parte. Onassis mi invitò da lui - non lo
conoscevo allora, ma più tardi diventammo grandi amici -. Allora
Maria cominciò a fare le bizze e a insistere che avrebbe voluto
vedere tutto prima. E lui disse: «Maria, non sono abbastanza
ricco per pagare tutto questo». Io però continuai a pregarla,
ma lei aveva paura, sì, aveva paura; aveva abbandonato la parte
e se ne sentiva fuori...
- Siamo tutti molto eccitati all'idea che fra poco
Lei dirigerà e registrerà Un Ballo in
Maschera. L'ha mai diretto prima?
Sì, quarant'anni fa! Comunque per quanto riguarda
questa produzione, John Schlesinger ne curerà la regia; è un
regista molto noto, ma ha curato solo poche opere. In ogni modo
sono rimasto affascinato da quella che vidi, e così ci siamo
incontrati per parlare di una collaborazione. Quando ho ascoltato
i dischi di Un Ballo in Maschera mi è tornato subito
alla memoria, come succede quando si è giovani: le cose ti
rimangono sempre nella testa. Quindi sapevo precisamente perché
volevo dirigerlo. Mi interessa in modo particolare poiché - per
considerare un solo aspetto - ha una grande quantità di lunghi
pezzi d'insieme; un po' come Figaro. Dissi a Schlesinger
che dovevamo trovare delle soluzioni sia per rendere
efficacemente questo aspetto sia per mettere in evidenza i
rapporti complessi tra i personaggi.
- C'è nel Ballo
molta commedia "nera" così come c'è grande dramma?
Certamente!
- E quale versione adoprerà?
Quella svedese, naturalmente.
- E il suo cast?
Domingo e la ragazza inglese che cantò qui in Die
schwarze Maske di Penderecki - cioè Josephine Barstow. Una
volta le chiesi di cantare l'aria del Fidelio che avevo
molto desiderio di dirigere. Lei venne a cantare - ha un
bellissimo corpo, si muove bene, e canta con gusto e con
espressività; così quando dovetti scegliere per Un Ballo in
Maschera dissi che volevo lei.
- Ed il baritono?
Nucci. Così sono molto felice di farlo. A volte le
cose ti passano vicine e non le afferri, ma in questo caso capii
che c'era la possibilità di farlo con un bel cast.
- L'anno scorso (1987) Lei ha diretto il Concerto
di Capodanno a Vienna. È sempre un evento così meraviglioso;
una specie di messaggio di speranza all'inizio dell'anno. È
stata un'occasione speciale per lei?
È stata davvero un'occasione speciale. È stata
una svolta nella mia carriera.
- Una svolta?
Perché soffrivo molto. A volte non riuscivo a
dormire per delle notti di seguito. È stato un periodo
difficilissimo. Quando ebbi l'invito dissi: «Sì, volentieri».
Per tre settimane non avevo nient'altro da fare e così mi misi
lì e decisi - avevo già inciso tutti quei pezzi - di vedere se
ci fosse qualcos'altro in quella musica. Così per tre settimane,
sei ore al giorno, suonai quella musica. E ad un tratto mi sentii
cambiato dentro me stesso. Quando mi presentai davanti all'orchestra,
non avevo niente da spiegare. Accadde tutto molto naturalmente. E
da quel momento capii che dovevo rinunciare a tante cose - la
vela e così via - ma la musica tornò. Cento volte meglio di
prima.
- La musica però l'ha aiutato durante tutta la
vita. E ha detto che il dolore se n'è andato?
Sì, ma ho ancora dei problemi a camminare...
- Ma tutti dicono che quando Lei è sul podio e
comincia a fare musica...
Sì, lo so. E questo mi fa sentire completamente
felice.
© Richard Osborne
Le prime registrazioni di Herbert von Karajan: 1938 - 1943
«I pittori hanno il privilegio di poter
distruggere le tele mal riuscite, ma noi non possiamo bruciare i
dischi che non ci soddisfano più!» disse una volta Karajan
scherzando. Anche se però avesse mai avuto dei pentimenti a
proposito dei dischi del suo apprendistato (quelli incisi negli
ultimi anni Trenta e nei primi anni Quaranta), egli deve averli
messi a tacere giacché ha permesso la loro riedizione su questi
nitidissimi e limpidi trasferimenti digitali. Si tratta di un
gruppo stupendamente eterogeneo di registrazioni, nelle quali
vengono alla luce sfaccettature del giovane direttore alle quali
il Karajan maturo ha spesso fatto chiare e franche allusioni, che
non sarebbero però pienamente comprensibili senza l'ausilio di
queste testimonianze dirette. Vi riscopriamo quel "Wunder
Karajan" per assicurare un contratto al quale, una volta
finita la guerra mondiale, il giovane direttore Walter Legge ha
mosso mari e monti.
Alcune di queste esecuzioni sono eccezionali, e in particolare la
lettura della Patetica di Ciaikovsky, registrata con i
Berliner Philharmoniker nell'aprile del 1939, e quella della Prima
Sinfonia di Brahms, incisa nel settembre del 1943 con l'Orchestra
del Concertgebouw. D'altro canto, il Mozart del 1942 con l'Orchestra
Sinfonica di Torino è piuttosto strano. Lo stesso Karajan ha
talvolta notato come, da giovane, il suo modo di dirigere fosse
spesso troppo veloce ed irregolare. «Devo essere stato ubriaco»,
è il suo laconico commento. Se il finale della Haffner
è rapido e felino, caratteristiche che il Mozart di Karajan
avrebbe mantenuto ancora per molti anni, l'inizio della sinfonia
è invece veramente incerto e sembra che sia stato diretto da uno
che si è appena staccato da una bottiglia di brandy. Tuttavia,
si ha spesso la sensazione che Karajan non abbia avuto il tempo,
o la pazienza, o l'autorità di correggere i più elementari
errori di ritmo e d'accentazione (si ascolti, per esempio, il
barcollante accento sul secondo tempo della battuta 13 della Sinfonia
in sol minore, o il ritmo ineguale del trio). L'esecuzione
della Jupiter è nel complesso piuttosto buona; è come se
Karajan avesse escogitato il modo di sentire un'esecuzione che
non viene però puntualmente realizzata dall'orchestra. Senza
dubbio, egli deve essersi esercitato a questo tipo di direzione
quando si trovava ad Ulm; questa sua abitudine sembrerebbe anche
giustificare la sua conoscenza enciclopedica degli errori a cui
è incline la maggior parte degli orchestrali. In ogni modo, l'esilio
torinese dev'essere stato molto traumatico dopo gli inebrianti
giorni in cui aveva avuto libero accesso al podio dei Berliner
Philharmoniker nel 1938.
Il 1958 fu l'anno del celebre commento di Van der Nüll «Das
Wunder Karajan!», al quale Karajan ha sempre sardonicamente
risposto «Non ero affatto una meraviglia!», una smentita che è
contraddetta dalla splendida interpretazione della Patetica.
È vero che l'orchestra conosceva bene la sinfonia, e che ne
aveva appena completato una storica incisione sotto la bacchetta
di Furtwängler, ma la lettura porta l'inconfondibile cifra di
Karajan: un suono straordinario e maestoso (solo l'inizio della
Marcia sembra lievemente sconnesso), ritmi saldi e regolari,
grande impatto emotivo nei punti cruciali, ma anche una totale
assenza di falso sentimentalismo. Nella Nona di Dvorák,
registrata con l'orchestra berlinese nel marzo del 1940, Karajan
tende ad esagerare la tenerezza e l'introspezione del celebre
Largo; il finale della Patetica è invece suonato con
una dolcezza ed un'intensità esemplari e con una grande
spiritualità. Gli archi hanno più "portamento" di
quanto non ne abbiano oggi, ma senza mai strafare. Nel complesso,
si riesce ben a capire perché Karajan ambisse a fare sua questa
orchestra. È stato omesso un ritornello nel tema E del movimento
in 5/4, e il suono degli archi nei passaggi acuti più forti è
lievemente sbiadito, ma il suono è generalmente ottimo, e
riproduce alla perfezione le tonalità brunite dell'orchestra
berlinese e la sua limpida definizione dell'ordito ciaikovskiano.
La Prima di Brahms, anch'essa con un'orchestra di tutto
rispetto, il Concertgebouw di Mengelberg, è altrettanto buona,
con violini ed oboi del movimento lento che suonano in modo
squisito, e ovunque - fuorché nell'eccessivo rallentamento del
grande tema nel finale - c'è un grande senso di proporzione,
nonché un ammirevole equilibrio tra gli elementi drammatici e
quelli lirici. Nel corso degli anni, la sua lettura si è fatta
più corposa e si è arricchita di maggior slancio sonoro, ma è
rimasta immutata sotto altri aspetti particolarmente importanti.
Nel Don Juan di Strauss, il tempo è più fluttuante di
quanto Karajan ci lascerebbe oggi percepire. L'ottantenne
direttore fece il suo debutto con questo pezzo a Salisburgo nel
1929 e, ovviamente, lo conosceva bene; ma neanche il
Concertgebouw di Mengelberg poteva eseguirlo con la stessa
maestria con cui lo suonano oggi i Berliner Philharmoniker - una
testimonianza della saggezza di Karajan nel voler un'orchestra
tutta per sé, e per tutta la vita.
La registrazione della Nona di Dvorak è piuttosto
sgradevole. Il suono è crudo e, come sarebbe successo molte
altre volte negli anni successivi, i cambiamenti di livello
dinamico di Karajan sembrano mettere in grande imbarazzo i
tecnici del suono. Tuttavia, il suo Johann Strauss ha già tutto
il suo caratteristico fascino. In sostanza, si tratta dello
stesso approccio all'ouverture del Fledermaus che
ritroviamo nell'incisione del 1955 con la Philharmonia, una
lettura di grande verve e di tono aristocratico che i
berlinesi riproducono con una sensibilità lievemente inferiore a
quella dei loro colleghi inglesi. Nel 1941, l'interpretazione di
Karajan del Kaiserwalzer era già imperiosa (la prima
moglie di Karajan era la mitica stella dell'operetta tedesca Elmy
Holgerloef, e la peculiare sensibilità del direttore per questa
musica è sempre evidente).
Il disco di Beethoven, con dei riempitivi dai Meistersinger,
è interessante perché smentisce in parte le posteriori riserve
di Karajan circa il proprio Beethoven giovanile. Il movimento
lento è piuttosto noioso, come anche il Trio del terzo movimento,
dove l'ammirazione di Karajan per Toscanini non era riuscita a
persuaderlo ad evitare i peggiori eccessi della tradizione
tedesca. Il primo movimento è misurato, senza quell'esuberanza
che avrebbe acquisito in seguito, ma lo Scherzo ed il Finale sono
veramente esemplari. La lettura non si discosta molto da quella
dell'incisione con la Philharmonia Orchestra, effettuata nel
corso di più mesi a cavallo tra il 1951 e il 1952, una
registrazione della Columbia molto lodata, in cui un'interpretazione
intensa viene brillantemente realizzata dalla Philharmonia di
Legge. L'esecuzione della Staatskapelle di Berlino del 1941 è
talvolta fin troppo sforzata. La Leonora Ouverture e il
preludio dei Meistersinger sono più disuguali come
letture, con un Karajan che affretta e rilassa la musica in un
modo che, negli anni seguenti, tenderà invece ad evitare con la
massima cura.
È difficile non essere tentati dal Vol. VI di questo set,
giacché, oltre ad abbracciare un gran numero di orchestre e di
anni, essi presentano un Karajan alle prese con le composizioni
più note del suo repertorio, alle quali sarebbe tornato molte
volte, negli LP e nei CD di ouvertures, preludi e intermezzi. L'esecuzione
dell'ouverture dello Zigeunerbaron è forse quella di
maggior rilievo; altri pezzi, quali le ouvertures del Freischütz
e della Forza del destino, sono state invece
interpretate ed eseguite con più fantasia e maggior fascino da
Karajan e dai Berliner Philharmoniker negli anni successivi.
L'equipe dei tecnici del suono della Deutsche Grammophon ha fatto
un lavoro di alta qualità, su delle registrazioni generalmente
pulite e ben equilibrate, provenienti da ottimi dischi tedeschi a
78 giri.
SERIE DG «DOKUMENTE» - LE PRIME REGISTRAZIONI DI HERBERT VON KARAJAN 1938-1942
Vol. I: BEETHOVEN / WAGNER. Sinf. n. 7 (1941).
Leonora III Ouv. (1943) / Die Meistersinger, prel. atti I, III (1939).
Staatskapelle Berl.; Concertgebouw. 425 526-2.
Vol. II: BRAHMS / STRAUSS. Sinf. n. 1 (1943) / Don Giovanni.
Danza sette veli (1943). Concertgebouw. 423 527-2.
Vol. III: DVORAK / STRAUSS. Sinf. n. 9 (1940) / Pipistrello Ouv.
(1942). Vita d'artista (1940). Valzer dell'Imperatore (1941).
Berliner Philh. 423 528-2.
Vol. IV: MOZART. Sinf. nn. 35, 40, 41 (1942). Orch. sinf. della
RAI di Torino. 425 529-2.
Vol. V: CIAKOVSKY / SMETANA. Sinf. n.6 (1939) / La Moldava (1940).
Berliner Philh. 425 530-2.
Vol. VI: OUVERTURES E PRELUDI. Flauto magico (1938). Semiramide (1942).
Il franco cacciatore (1943). Anacreonte (1939). Lo zingaro barone
(1942). La Traviata (1942). La forza del destino (1939).
Staatskapelle Berlino; Orch. sinf. della RAI di Torino;
Concertgebouw. 425 531-2.
Karajan e Sibelius
In questo secolo, abbiamo assistito ad alcune collaborazioni
musicali di notevole importanza e di lunga durata: Mengelberg e
il Concertgebouw, Koussevitzky e la Boston Symphony, Ormandy e la
Philadelphia Orchestra, Barbirolli e la Halle, e seconda a nessun'altra
Arturo Toscanini e la NBC Orchestra. In tempi più recenti,
nessuna ha però avuto il rilievo della collaborazione tra
Karajan e i Berliner Philharmoniker.
Soltanto pochi direttori d'orchestra hanno suscitato controversie
maggiori: Toscanini e Mengelberg avevano i loro detrattori, ma
quelli di Karajan sono decisamente più accaniti e chiassosi -
forse questo fatto costituisce in sé una misura del suo successo.
Per parafrasare Hoffmansthal, «quanto maggiore è la solitudine
di un uomo, tanto più autorevole è il suo modo d'esprimersi»,
potremmo affermare che quanto più forti sono la sua personalità
e il suo profilo, tanto più formidabili sono le emozioni che
riesce a suscitare; tuttavia, è vero anche il contrario, ovvero
che la grandezza isola e rende invidiosi e distruttivi i mediocri.
Senza dubbio, Karajan ha avuto la sua dose di questi avversi
sentimenti! È sufficiente ricordare come il gusto musicale tra
gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta fosse dominato da figure
quali De Sabata e Furtwängler, e come Karajan soffrisse all'ombra
di quest'ultimo. Mi ricordo che ben presto cominciarono le
critiche, e Karajan fu improvvisamente giudicato specioso e
superficiale. Ciononostante, le sue esecuzioni di quel periodo
sul podio della Philharmonia Orchestra e su quello dei Wiener
Philharmoniker sono alquanto elettrizzanti. In quei giorni, le
sue scelte cadevano in genere su Brahms e Beethoven: la Nona
di Beethoven del 1947 con la Schwarzkopf, la Höngen, Patzak e
Hotter, e il Requiem di Brahms, anch'esso con la
Schwarzkopf e Hotter, furono universalmente acclamati, e
possiedono tuttora una loro particolare aura olimpica. A quel
periodo risalgono però anche alcune incisioni avanguardistiche,
come la Quarta Sinfonia di Roussel o la Prima
di Balakirev (neanche Beecham ha mai superato la lettura di
Karajan di questa composizione), nonché l'indimenticabile
interpretazione del commiato di Strauss, le Metamorphosen,
o della Musica per archi, percussioni e celesta di
Bartok, che Karajan ha inciso due volte. Nel 1983, quando uscì l'ultima
delle sue registrazioni delle Metamorphosen (DG 410 892-2),
accolta con una pioggia di superlativi, riascoltai quella vecchia
interpretazione con gli archi dei Wiener Philharmoniker e devo
ammettere che, come molte prime incisioni, essa ha tutta l'intensità
della scoperta. È assai più vicina al mondo elegiaco di un'Europa
dilaniata dalla guerra di quanto non lo siano invece le sontuose
letture che egli ne ha dato in seguito nel 1969 e nel 1983; il
sentimento di dolore è molto più vero e c'è un'intensità
difficilmente ripetibile. E che dire delle sue Fontane di
Roma di Respighi sul podio della Philharmonia alla fine
degli anni Cinquanta! Di questa partitura indistruttibile,
abbiamo i dischi delle indimenticabili interpretazioni che ne
hanno dato Toscanini e Reiner, ma neanche l'orchestra dell'Accademia
di Santa Cecilia sotto la bacchetta di De Sabata è riuscita a
far scorrere le sue acque in modo più risplendente di Karajan.
Senza dubbio, la cifra dei suoi dischi migliori è data dalla
determinatezza e dal deciso senso d'orientamento: l'impeto è
sempre irresistibile, e, pur volendolo, sarebbe impossibile
arrestare il progredire sinfonico. Inoltre, per Karajan, come
egli stesso ha ripetutamente affermato, la pura bellezza del
suono è un elemento insostituibile, mentre essa non era
certamente una preoccupazione primaria per direttori come
Klemperer. Questa bellezza epidermica è stata raramente
eguagliata e non è stata mai superata da nessuno; Beecham,
Koussevitzky e Mravinsky erano artisti del suo calibro. Eppure,
la bellezza è vista con diffidenza e con un certo disagio da
quei puritani del Nord i quali credono che quando la musica ha un
suono sontuoso non possa assolutamente essere "edificante".
Per quel che concerne questo linguaggio molto "karajanesco",
io stesso devo confessare di non essere stato sempre corretto nei
confronti del maestro. Mi pento della mia disinvolta reazione
alla Quarta Sinfonia di Sibelius (DG 415 108-2), al
momento della sua prima apparizione, quando scrissi in una
recensione che «la perfetta bellezza del suono serve soltanto ad
attutire l'impatto sgradevole di questa composizione
straordinaria, e a smorzare l'intensità della sua desolazione.
Questa musica non porge mezzi di consolazione fasulli e, come
molte grandi opere d'arte, ha una superficie aspra ed impervia
che non si cura di rivolgersi a chi ascolta [...] L'opulenza
orchestrale non è il mezzo più adatto a svelare i recessi di
questa composizione bizzarra: di fronte al suono ricco e modulato
degli archi berlinesi, si rimpiange il suono freddo ed incorporeo
che Beecham riusciva a trarre dalla sua orchestra nelle sue
celebri esecuzioni di Sibelius». Mi pare di aver perfino detto
che Karajan isola l'ascoltatore dall'algida realtà di quella
musica, in modo analogo a chi osserva un paesaggio ghiacciato
dall'interno di una comoda e riscaldata limousine. Dopo
venticinque anni, mi auguro di esser riuscito a modificare questo
mio approccio piuttosto superficiale. Nel corso degli anni, sono
giunto a distinguere le profondità dell'esecuzione di Karajan;
la bellezza del suono accresce la forza della musica e, dopo
essersi accostati ad essa, ci si rende conto che, in effetti, non
c'è alcun tentativo di isolamento cautelativo: la bellezza delle
sonorità non serve a polarizzare l'attenzione di chi ascolta, ma
ad avvicinarlo il più possibile alla concezione ideale della Quarta
Sinfonia. Nessuno che abbia ascoltato questo disco può
dubitare dell'eccellenza e del pieno successo dei suoi risultati.
Nel corso della sua vita, Sibelius ha goduto dell'autorevole
sostegno, su disco, di grandi maestri quali Koussevitzky,
Barbirolli e Beecham, e tuttavia è possibile affermare che
nessuno ha fatto di più per il grande musicista finlandese di
Karajan, e in un periodo in cui Sibelius non sembrava incontrare
giudizi molto favorevoli. Neanche gli anni Sessanta furono giorni
congeniali a Sibelius: Adorno e Strobel facevano il bello e il
cattivo tempo nella formazione del gusto musicale, e Adorno gli
era apertamente ostile. Una volta, fui incaricato dalla BBC di
organizzare e condurre un'intervista ad Adorno a Francoforte,
dove abitava, e lo affrontai proprio su questo argomento: se era
riuscito ad elogiare il genio dell'impresa Wagneriana, non poteva
allo stesso modo riconoscere i meriti di Sibelius nel campo
sinfonico? Nessuno è obbligato a farsi piacere un dato
compositore, ma credo che sia ingiusto non riconoscerne la
maestria. Per tutta risposta, Adorno mi fece un amabile sorriso e
scosse le spalle!
È stata proprio la durevole e speciale affinità di Karajan con
il compositore finlandese che mi ha portato in contatto col
celebre direttore alcuni anni orsono, nel 1981 per essere precisi,
quando ebbi la possibilità di assistere ad alcune sedute di
registrazione a Berlino, dove Karajan stava incidendo la Prima
Sinfonia di Sibelius. Fui molto sorpreso dall'atmosfera
relativamente rilassata, ma sempre d'intensa concentrazione, che
regnava in quelle sedute. A coloro i quali credono che tutti gli
LP o i CD siano un semplice ma perfetto mosaico di scampoli di
registrazioni, posso assicurare di aver visto coi miei occhi che
ognuno dei quattro movimenti è stato prima provato per un'ora e
mezzo circa, e soltanto in seguito registrato, e che le riprese
sono state relativamente poche. L'atmosfera nella sala di
controllo era rilassata e nessuno trattava Karajan con ossequio
eccessivo. Più tardi, ebbi l'occasione di parlare al maestro
nella sua stanza nell'auditorio dei Berliner Philharmoniker. All'inizio,
egli parlava come se si trovasse ad una conferenza stampa, ma si
riscaldò non appena gli mostrai la prima versione della Quinta
Sinfonia (a quel tempo ancora poco conosciuta) e le uniche
tre battute pervenuteci dell'Ottava (tanto eloquenti circa il
carattere di quella composizione, quanto le note ripetute - Fa
diesis, Sol e La - lo sono della natura della Seconda).
Durante il mio soggiorno in Svezia, ero venuto a conoscenza del
fatto che Karajan era stato presentato a Sibelius da Pär
Lindfors della Radio svedese. Karajan mi disse infatti che, negli
anni Trenta, mentre si trovava ancora ad Aquisgrana, era stato
invitato a Stoccohna per dirigere alcuni concerti con l'orchestra
della Radio, e che gli era stato espressamente richiesto di
dirigere la Sesta Sinfonia di Sibelius, che aveva allora
appena dieci anni ed era musica molto nuova. Per un caso, anche l'Orchestra
Filarmonica di Stoccolma aveva in programma, in quello stesso
periodo, la stessa composizione, e Karajan mi disse che andò ad
ascoltarla e che proprio questa esperienza sigillò per sempre la
sua ammirazione per il compositore nordico. Negli anni che
seguirono al conflitto mondiale, quando Walter Legge fece in modo
di legarlo alla Columbia, Karajan ebbe la possibilità di
registrare le ultime quattro sinfonie di Sibelius. Legge, mi
disse Karajan, non lo incoraggiò a passare alle prime, e infatti
mi ricordai che a quei tempi nei cataloghi non si trovavano
numerosi cicli completi, come invece succede oggi (su LP Anthony
Collins per la Decca dominava esclusivamente). Sebbene sostenesse
di non averlo mai incontrato, Karajan mi disse d'aver sentito
dire che «Sibelius aveva espresso un giudizio molto favorevole
su quelle esecuzioni». Evitai di fargli notare che Sibelius
parlava favorevolmente di quasi tutte le esecuzioni: la sua
figlia maggiore, Eva Paloheheimo, mi disse che la Sesta
di Beecham era una delle preferite dal compositore, ma, in
seguito, venni a sapere che egli aveva un'altissima stima del
ciclo di Karajan, e che riteneva che Karajan, tra tutti i
direttori, fosse quello che aveva maggiormente penetrato la sua
musica.. Avrei tanto voluto poterglielo dire. Quando incise il
ciclo con la Philharmonia, Karajan non era ancora mai stato in
Finlandia; egli definisce il suo primo incontro con il paesaggio
finlandese in questi termini: «Beh! Il primo impatto fu
semplicemente travolgente». Furono senz'altro la vivida
atmosfera e la luce straordinaria tipiche di quelle latitudini a
colpirlo in modo così indelebile.
Il sostegno di Karajan alla musica di Sibelius continuò
indefesso: dopo aver registrato le quattro ultime sinfonie negli
anni Cinquanta, egli incise la Seconda per la prima
volta, e la Quinta per la seconda volta con la
Philharmonia, quindi una terza volta con i Berliner
Philharmoniker, oltre alle reincisioni della Quarta,
della Sesta e della Settima per la Deutsche
Grammophon; le ripropose infine tutte insieme per la EMI, un
decennio più tardi, negli anni Settanta - tuttavia, di quest'ultima
serie, sono finora state pubblicate soltanto la Prima,
la Seconda, la Quarta, la Quinta e la Sesta.
Neanche Barbirolli o Beecham hanno mai fatto di più.
Di ritorno al suo albergo, Karajan mi dette un passaggio e mi
parlò del suo enorme disprezzo per le città ed il loro
inquinamento, e mi disse che proprio la sua enorme sensibilità
per la natura lo aveva avvicinato alla musica di Sibelius.
Parlammo anche dell'influenza ineludibile di Wagner: «Non c'erano
solo quelli che lo adoravano come Chausson, ma anche quelli che
gli volsero le spalle come Debussy e Sibelius», disse Karajan,
«ma, in nessun modo, nessun compositore, neanche Beethoven, ha
influenzato gli altri in maniera tanto profonda e radicale quanto
Wagner - e la sua influenza è visibile anche in quelli che lo
hanno consapevolmente rifiutato». Il rifiuto di Sibelius,
espresso negli ultimi anni della sua vita, è in realtà una
glossa che tenta di camuffare l'enorme influenza che Bayreuth
ebbe sulla sua personalità nel corso del pellegrinaggio del 1894.
È però significativo che Karajan mi abbia confessato di
percepire piuttosto «un'influenza, un'affinità, una parentela
assai più profonda con Bruckner. C'è questo senso dell'urWald,
la selva primordiale, il senso di una forza elementare, la
sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di estremamente
profondo. Sebbene si tratti di musicisti del tutto differenti,
credo che sia possibile ravvisare in loro delle importanti
somiglianze musicali». Le più ovvie sono i tremoli degli archi
e i momenti di pedale, e ritroviamo echi bruckneriani anche nella
giovanile sinfonia Kullervo. Sappiamo come Sibelius
fosse rimasto affascinato dal Bruckner che ebbe occasione di
ascoltare quando era studente a Vienna, e la sua ammirazione per
quel compositore si mantenne sempre viva. Anche Tapiola,
quella vigorosa e pensosa evocazione delle foreste settentrionali,
composta in Italia, paese che Sibelius amava immensamente,
secondo soltanto alla natia Finlandia, è stata incisa da Karajan
in ben tre occasioni: Beecham l'ha registrata solo due volte.
Trovo che la seconda di queste interpretazioni di Karajan sia
formidabile, la migliore che sia mai apparsa su disco - e non mi
sono dimenticato delle altre "Kappa": Koussevitzky e
Kajanus. Rimpiango invece che Karajan abbia trascurato La
figlia di Pohjola, cui accennammo nel corso della nostra
conversazione e che il direttore ammise di non conoscere bene;
tuttavia, alcuni mesi più tardi, ricevetti un messaggio da parte
del suo produttore della Deutsche Grammophon il quale mi chiedeva
alcuni suggerimenti circa il brano più appropriato da abbinare
al Peer Gynt, che stava registrando allora per l'ennesima volta.
Questo mi fece venire in mente, tra le altre cose, l'opportunità
di prendere in considerazione tutta la musica per il Pelleas!
Con mio grande piacere, la sua scelta fu proprio in quella
direzione, e il risultato (DG 410 026-2) è più affascinante ed
intenso perfino dello splendido disco di Beecham degli ultimi
anni Cinquanta.
In un'intervista che ha concesso alla CBC Radio di Vancouver,
Karajan ha parlato di tre composizioni che lo hanno sfinito
spiritualmente: una era Elektra, la seconda i Pezzi
Orchestrali, op. 6 di Berg, e la terza era proprio la Quarta
Sinfonia di Sibelius, che, tra l'altro, egli insistette per
dirigere al suo esordio sul podio dei Berliner Philharmoniker
quando prese il posto che era stato di Furtwängler. La sua
dedizione al mondo espressivo di Sibelius è perciò stata
assoluta, e il gran numero di registrazioni delle opere del
compositore finlandese dovrà senz'altro essere considerato come
una parte essenziale dell'eredità discografica di Karajan.
Robert Layton