Storia dei Mille
Giorni Pericolosi
Nei dieci mesi che volsero dalla
pace di Villafranca alla spedizione dei Mille, l'Italia di mezzo
diede prove di virtù civili meravigliose, ma col Piemonte corse
dei pericoli gravi forse quanto quelli che il Piemonte stesso
aveva corsi, prima della guerra del 1859. I duchi, gli arciduchi,
i legati pontifici fuggiti dalle loro sedi, fin da prima di
quella guerra, non avevano più osato tornarvi; e allora Parma,
Modena, Bologna con la Romagna fino alla Cattolica, si strinsero
in un solo Stato, che nel bel ricordo della gran via romana da
Piacenza a Rimini, chiamarono l'Emilia. Spento così d'un tratto
ogni vecchio sentimento di gelosia, conferirono la Dittatura al
Farini, romagnolo venuto su, da giovane, nelle cospirazioni, e
poi maturo ed esule fattosi alla vita dell'uomo di stato vicino
al Cavour, in Piemonte. Si crearono un esercito proprio, con
gioventù propria e d'ogni parte d'Italia; e il loro governo
procedeva d'accordo con quello di Toscana, libera anche essa, e
col suo grande statista Bettino Ricasoli risoluta d'unirsi al
regno di Vittorio Emanuele. Intanto quelle regioni si chiamavano,
tutte insieme, Italia centrale.
Quello Stato provvisorio era tranquillo come se non ci fosse in
aria nessuna minaccia, ma senza mostrarne paura, conosceva i
pericoli tra i quali viveva. L'Austria, che non aveva potuto
aiutar con l'armi i principi fuggiti a tornare, dichiarava caso
di guerra l'ingresso anche d'un solo soldato piemontese nell'Italia
centrale: la Russia era apertamente ostile non soltanto a che
Toscana e Ducati e Legazioni si unissero al regno di Vittorio
Emanuele, ma ancora a che si scegliessero un Sovrano: la Prussia
consigliava il Piemonte di rimetter esso stesso in trono i
principi fuggiti. I diplomatici italiani avevano un bel dire fin
da allora ai prussiani che la Germania mostrava desiderio di
rompere i legami posti anche a lei dai trattati del 1815: quegli
uomini di Stato, sebbene sapessero che presto la Germania avrebbe
fatto ciò che già faceva l'Italia, insistevano perché il
Piemonte si contentasse della Lombardia, si consolidasse bene e
lasciasse tempo al tempo. In quanto a Napoleone III, questi
diceva di non voler correre i rischi di una nuova guerra che l'Austria
avrebbe immancabilmente intrapresa se fosse avvenuta l'annessione
dell'Emilia e della Toscana al nuovo regno; ed erano avversi all'Italia
la Spagna, la Baviera, persino il Belgio.
Sola l'Inghilterra si mostrava amica al nuovo Stato, che si
veniva formando; sola suggeriva agli Italiani dell'Emilia e della
Toscana di stare saldi nella loro risoluzione. Al Piemonte
consigliava di fare, di osare senza domandare e di non darsi
briga né dell'Austria né della Francia, né di nessuno. E il
Ricasoli e il Farini erano uomini da sentir bene il consiglio,
perché stavano al governo di popolazioni che sapevano ragionare
il loro diritto. Come s'erano formate le grandi potenze, esse che
mormoravano e minacciavano perché Piemontesi e Lombardi volevano
aiutare i loro fratelli del centro a divenir com'essi liberi, e
tutti insieme Italiani? L'Austria, la Francia, la Prussia, la
Russia si erano costituite in secoli di violenze e di usurpazioni,
calpestando popoli, che due o tre di esse ritenevano ancora con
la forza; gli Italiani non conquistavano, non usurpavano nulla;
non abbattevano se non delle dinastie che loro erano state
imposte. Ora perché esse, le grandi potenze, volevano impedirli?
Si ragionava così, e così stavano le cose nel principio del
1860, quando appunto Cavour, che dopo la pace di Villafranca,
sdegnato contro Napoleone e fin contro il Re, si era ritirato dal
governo, tornava alla presidenza dei Ministri. Egli allora osò
da uomo che sapeva di aver dei collaboratori potenti, e un popolo
pronto a tutto. E d'accordo con lui, il Ricasoli per la Toscana e
il Farini per l'Emilia, pubblicarono il Decreto che convocava i
Comizi, in tutta l'Italia centrale, pel plebiscito. In quei
Comizi, i votanti dovevano dichiarare se volessero l'unione alla
Monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele, ovvero il regno
separato. E nell'Emilia su 2,916,104 abitanti, comprese donne e
fanciulli, 426,006 voti furono per l'unione; contrari, solo 756.
Nella Toscana, su 1,806,940 abitanti votarono per l'unione 366,871,
pel regno separato 54,925. Così l'Europa, che tante sciagure
aveva versate o lasciato versare sull'Italia, da secoli, vide
meravigliata Emiliani e Toscani concordi ed entusiasti fondersi
con Piemontesi e Lombardi; e i duchi e gli arciduchi - parole di
Cavour - "sepolti in perpetuo sotto il cumulo di schede
deposte nelle urne."
Protestarono i principi che vedevano levati via per sempre i
pretesi loro diritti; protestò l'Austria, protestò quasi tutta
l'Europa, ma nessuno si mosse: e un regno dell'Alta Italia, di
undici milioni, fu fatto.
*
Allora, anche a uomini molto
arditi, parve di aver avuto tanta fortuna, che pensare ad altro
sembrava temerità e follia. L'Europa poteva, alla fine, saltar
su e dire di aver tollerato anche troppo. Infatti mostrò ancora
il suo broncio il 2 aprile, nella seduta inaugurale del nuovo
Parlamento in Torino; nella qual seduta, con manifesta avversione,
non si fecero vedere i rappresentanti diplomatici di Russia,
Prussia, Spagna e del Belgio. E se i limiti del nuovo regno
fossero stati segnati dalla valle del Po, forse il Governo
avrebbe potuto facilmente persuadere lo spirito pubblico a
mantenersi cheto per alcuni anni, aspettando e preparando altri
eventi. Ma i confini erano già di là dall'Appennino; e aver a
far parte del regno la Toscana, la gran maestra antica della vita
civile italiana, voleva dire esser costretti a continuare l'impresa
nazionale. Napoleone III lo aveva ben capito, e di malumore aveva
già detto ad un suo ministro che l'unione della Toscana al regno
di Vittorio Emanuele portava di conseguenza l'unità italiana.
Però al Conte di Cavour l'unità non pareva ancora possibile. L'idea
sua era sempre di dar assetto al nuovo regno; promuoversi tutte
le libertà; svolgerne le forze già così rigogliose e omogenee;
farlo ricco, colto, solcarlo di strade ferrate e di canali;
dotarlo di ogni sorta di opere pubbliche; farne insomma il Belgio
in grande dell'Europa meridionale. Così, intanto gli Italiani
dello Stato Pontificio e delle Due Sicilie, avrebbero sentito e
desiderato la prosperità dello Stato settentrionale anche per
sé; e forse, prima che passasse un decennio, si sarebbero mossi
spontaneamente per unirsi a goderla. Egli aveva allora appena
cinquant'anni, e poteva ripromettersi di vivere ancora tanto da
guidare quel movimento.
Senonchè Mazzini sin dal 2 marzo aveva scritto: "Non si
tratta più di repubblica o di monarchia, si tratta di unità
nazionale; d'essere o non essere. Se l'Italia vuole essere
monarchica sotto la Casa di Savoia, sia pure: se dopo la riscossa
vuol acclamare liberatori e non so che altro il Re e Cavour, sia
pure. Ciò che ora vogliamo è che l'Italia si faccia." Il
gesto era preciso, diritto; Sicilia, Napoli, Roma tutto doveva
venire nell'unità nazionale: per Mazzini, pel suo partito, che
era anche fatto di uomini di guerra, l'ora era buona; o coglierla,
quali che si fossero i pericoli, o non vederla tornar mai più.
Egli fin dal 1856 aveva rivolta la sua azione al Mezzodì per far
procedere di laggiù in su la propaganda rivoluzionaria: nel '57,
per tentarvi una rivoluzione, d'intesa con lui era andato a morir
colà Pisacane: nel '59, temendo che la pace di Villafranca e le
sue conseguenze portassero a far guarentire dall'Europa l'intangibilità
delle Due Sicilie, egli Mazzini, aveva mandato Crispi in Sicilia
a promuovervi agitazioni e a prepararvi l'insurrezione. Ora
dunque bisognava gettare il dado, e cominciare appunto dalla
Sicilia.
*
Certo la convinzione di Mazzini l'aveva
in parte, almeno nel cuore, anche il Cavour. Egli dopo
Villafranca, in uno scatto di magnanima ira, aveva detto: "Mi
hanno troncato la via a fare l'Italia con la diplomazia dal Nord;
ebbene, la farò dal Sud con la rivoluzione!" Ma poi si era
frenato. E se Mazzini vedeva le cose da credente che subordinava
tutto alla propria fede, e andava incontro ai fatti, fosse pure
per trovare il martirio, Cavour col suo tatto del possibile
guardava da uomo di Stato che misura le probabilità e vi
conforma l'azione. Il regno delle Due Sicilie gli pareva un
organismo da lasciar vivere ancora; le idee sue rispetto a quello
non si erano peranche mutate.
L'anno avanti, nel maggio, appena salito al trono Francesco II,
egli lo aveva invitato a unirsi al Piemonte contro l'Austria. Ma
Francesco aveva preferito la neutralità, sperando che Russia,
Prussia, Inghilterra si sarebbero messe dalla parte dell'Austria,
e che la guerra del '59 sarebbe finita come quella del '48.
Cavour il 25 giugno, cioè dopo la battaglia di Solferino e San
Martino, sempre sperando di convincere quel Re a divenir italiano,
gli aveva mandato il conte Ruggero Gabaleone di Salmour come
inviato straordinario, con l'istruzione di dirgli che il concetto
dell'indipendenza italiana aveva informato sempre il Governo
piemontese; che perciò da anni, consigliando con l'esempio e con
la voce agli altri principi d'Italia quelle interne riforme che
dessero soddisfazione ai legittimi desiderii dei popoli, aveva
mirato soprattutto a consociarli nello stesso intento di
nazionalità, unico mezzo per disarmare le fazioni. Quel
diplomatico doveva ricordare al Re avere il Piemonte ammonito
sempre che, seguendo altra via, i governi avrebbero dovuto
combattere non più le sette, ma il sentimento universale della
nazione, e che nella funesta lotta non essi sarebbero stati
vincitori. L'inviato doveva anche dire che mentre la guerra era
guerreggiata in Lombardia, l'ostinata neutralità del re di
Napoli sarebbe considerata come una diserzione o un segreto
patteggiamento coll'inimico. In quanto alle Due Sicilie, poi,
doveva dire essere noto che colà più che altrove fremevano
passioni ardenti, rancori profondi, ire lungamente compresse che
aspettavano ansiosamente l'occasione di prorompere terribili e
irrefrenate: che le occasioni non tarderebbero, e con esse gli
incitamenti e le seduzioni entro e fuori del regno: che confidare
nella sola forza, far puntello al trono d'armi mercenarie, era
partito che non solamente doveva ripugnare all'animo onesto del
giovane Re, a partito mal sicuro e pieno di pericoli. Pensasse il
Re che la presenza di un esercito francese in Italia doveva
commuovere il paese dove aveva regnato Gioachino Murat; e dove
era morto compianto: ci pensasse, e collegandosi sinceramente col
Piemonte, dichiarasse pronta guerra all'Austria e mandasse parte
dell'esercito sul Po e sull'Adige, a combattere a fianco di
Vittorio Emanuele e di Napoleone. L'inviato doveva anche pregare
il Re di far vuotare le carceri politiche, di riaprire le vie del
ritorno ai proscritti, di sanar le piaghe della Sicilia; ma su
questo e su tutto il resto aveva trovato sordi i cuori.
Tuttavia Cavour non si era stancato. Al principio del 1860,
appena tornato al governo, quando temeva ancora l'intervento dell'Austria
nell'Italia centrale, aveva ritentato di condurre il re di Napoli
ad allearsi col nuovo regno di Vittorio Emanuele. Ma Francesco II
e il suo governo si erano messi invece a cospirargli contro,
istigati dal Nunzio Pontificio, dalla Spagna, dalla regina Sofia
di Baviera stessa sposa del Re, fantasticanti tutti insieme una
lega cattolica. E assoldavano austriaci per Napoli e pel Papa,
concentravano soldati negli Abruzzi, miravano a suscitar tumulti
nella Romagna.
Allora Cavour cambiò tono, e fece avvertire badassero bene a non
far mettere piede di soldato borbonico nel pontificio. Essi,
cocciuti, non ascoltavano consigli neppur dall'Inghilterra. La
quale alla fine diceva loro tirannia, ingiustizia, oppressione
essere le caratteristiche del governo dell'Italia meridionale;
quelle dell'Italia settentrionale, libertà e giustizia; e che in
tutti i paesi del mondo, la gente anche la più volgare capiva la
differenza esistente tra un governo giusto e umano e un governo
ingiusto e spietato. Ostinato ognor più, non ascoltavano nemmeno
la Russia loro amicissima, che per bocca del suo primo Ministro
diceva a Napoli che la polizia del Regno, spiaceva fino al capo
della polizia russa; e questi era allora Kakoskine, uomo
addirittura feroce. Anche la Francia consigliava invano minori
asprezze.
Pareva tempo da non usar più nessun riguardo, ma forse il
giovane Re ispirava ancora a Vittorio Emanuele una certa pietà:
Era figlio di Maria Cristina di Savoia, sposata nel 1832 al
grossolano e cattivo Ferdinando II, trattata male nella reggia e
morta consunta nel 1836. Essa aveva avuto quell'unico figlio. E
si sapeva che quando era nato, non volendo concedere a lei di
allattarlo, le avevano fatto entrare in camera per nutrice una
donna di Santa Lucia, piagata a una gamba, con le tracce della
scrofola al collo, con pochi capelli in testa, quasi tignosa e
con figli rachitici o che non si reggevano in piedi. Aveva
rivelate queste miserie un abate Terzi, che Maria Cristina aveva
condotto con sé dal Piemonte per confessore. E l'abate aveva
anche narrato che vicina a morte, avendo chiamato il Re, la
infelice regina s'era sentita rispondere che il Re dormiva. Così
era spirata soletta come una povera, con al capezzale un oscuro
frate; e il popolo napoletano l'aveva chiamata santa.
Per disgrazia sua, quel povero bambino, orfano di madre, mal
visto erede al trono, non aveva potuto morire anch'esso, era
stato educato a odiare ogni cosa italiana. Ed ora regnava. Se
Vittorio Emanuele aveva voluto che il suo Governo usasse dei
riguardi a quel parente nato e vissuto infelice, come uomo di
cuore aveva fatto bene.
L'agitazione per la Sicilia | |||||||||||||||||
Ma la
Nazione non aveva nessun dovere di sentimenti pietosi. E
allora la voce di Mazzini che dopo la pace di Villafranca
aveva gridato: "Al Centro mirando al sud," si
mise a gridare: "Al Sud mirando al Centro, Roma:"
e infiammò i cuori, e diresse le aspirazioni degli
italiani del Nord verso la Sicilia. Egli e i Comitati
suoi e il partito repubblicano che nel 1859 aveva saputo
lealmente servire in guerra la monarchia, s'accinsero al
preparar un'impresa che pareva folle, e che invece doveva
riuscire a fini meravigliosi. L'uomo per condurla, tutti
lo designavano: Garibaldi. Intanto Mazzini aveva fatto partir per la Sicilia Rosolino Pilo. Era questi un uomo di quarant'anni, nato in Palermo dalla famiglia dei conti Capeci, sangue d'Angiò, tutta devota ai Borboni. Egli unico di quella famiglia aveva dato il suo cuore alla patria. Dal '49 era esule; nell'esiglio aveva conosciuto Mazzini e n'era divenuto l'apostolo. Nel 1857, doveva andar compagno di Pisacane alla impresa finita in Sapri; ma i barcaroli coi quali aveva aspettato il passaggio del vapore Cagliari, lo avevan mal servito, il vapore era passato, ed egli era ridisceso a Genova, a sentir poi la tragica fine dell'amico. Da allora aveva vissuto con quella spina nel cuore. Ora, d'intesa con Mazzini e con Garibaldi, partiva il 26 marzo su di un povero legno viareggino per l'isola sua. Garibaldi gli aveva detto che qual si fosse il suo destino laggiù, rammentasse che tutto vi si doveva fare in nome dell'Italia e di Vittorio Emanuele. Pilo, repubblicano, aveva accettato il motto, ed era partito con Giovanni Corrao, anche questi siciliano, arditissimo uomo del popolo. Avevano navigato quattordici giorni, erano riusciti a sbarcar presso Messina, e s'eran messi a percorrere l'isola, annunziando Garibaldi. Anche Cavour era ormai quasi convinto che non si poteva più lasciar la questione napolitana al tempo, ma gli doleva che Garibaldi e Mazzini si pigliassero col loro partito l'onore d'essere i primi. E perciò d'accordo col Fanti, Ministro della guerra non amico di Garibaldi, avea già fatto profferire al nizzardo generale Ribotti d'andar in Sicilia a capitanarvi l'insurrezione. Ribotti gli pareva uomo da ciò. Era stato al servizio della rivoluzione siciliana del '48; per essa aveva tentato di portar l'armi in Calabria, era stato preso e condannato, e aveva sofferto anni di carcere dai Borboni. Ma Ribotti non aveva accettato. Forse indovinava che laggiù, solo il gran nome di Garibaldi e l'ingegno suo di guerra e la sua figura, avrebbero potuto trovar la vittoria. * In quei giorni venne come
la folgore una lieta notizia: a Palermo era scoppiata l'insurrezione.
E si diceva che all'alba del 4 aprile, da un convento
chiamato della Gancia, un Francesco Riso, giovane di 28
anni, aveva con alcuni compagni data la mossa, e che un
Salvatore La Placa s'era azzuffato con la milizia, in
certi quartieri della città abitati da pescatori e
retaioli. Ma la gioia si cambiò in ira quando, subito
appresso, oggi una voce, domani l'altra, si seppe che
quei generosi erano stati oppressi; che le squadre di
campagna, già scese vicino a Palermo, s'erano ritirate
nei monti; che tredici compagni di Riso, oltre quelli
morti combattendo, erano stati fucilati; che egli giaceva
pieno di ferite e prigioniero; che lo stato d'assedio era
proclamato, e che erano arrestati il padre di Riso con
altri cittadini cospicui di Palermo. Dunque la
rivoluzione era domata! No, non doveva essere: l'Italia
superiore la faceva sua propria. * Non si vuol mica dire che
nel settentrione i liberali bruciassero tutti dal
desiderio di vedere andar gente ad aiutar la Sicilia e
Napoli a liberarsi dai Borboni, a unirsi al resto d'Italia.
V'erano allora i ragionatori che trovavano gli argomenti
forti in contrario. Ma come mai si voleva fare un solo
stato di quest'Italia così lunga e sottile, senza un
centro, e nel napoletano senza strade né nulla? Eh già,
rispondevano altri, ragionatori anch'essi, queste cose le
diceva pure Napoleone I. Diceva che se tutta la parte d'Italia
dal Monte Velino in giù e con essa la Sicilia fosse
stata gettata dalla natura tra la Sardegna e la Corsica
la Toscana e Genova, la Penisola avrebbe avuto un centro
quasi egualmente distante da tutti i punti della sua
circonferenza: ma così come era fatta, quella parte dal
Velino che formava il Regno di Napoli, gli pareva di
clima, d'interessi, di bisogni, diversi da quelli di
tutta la valle del Po e di quella dell'Arno. Però non
avrebbe detto così se a' suoi tempi avesse avuto il
telegrafo, la navigazione a vapore, le strade ferrate.
Tutte queste cose levavano via dall'Italia un bel po'
degli inconvenienti della sua configurazione. Del resto,
Napoleone aveva soggiunto che nonostante tutto, l'Italia
era una sola nazione, una di costumi, di lingua e di
letteratura; affermava che in un tempo più o meno
lontano i suoi abitanti si unirebbero sotto un solo
governo; e passate in rassegna le condizioni storiche di
tutte le grandi città, dichiarava solennemente di
pensare che Roma sarebbe senz'altro quella che gli
Italiani si sceglierebbero per capitale. |
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Garibaldi e Cavour | |||||||||||||||||
Garibaldi
stava in Torino alle prese col Conte di Cavour, perché
avvenuta la cessione di Nizza alla Francia, credeva che
egli la avesse patteggiata fin dal '57, quando aveva
concertato con Napoleone l'aiuto militare del '59. Invece
la cessione era seguita per una soperchieria di Napoleone,
che oltre la Savoia, per non opporsi all'annessione dell'Emilia
e della Toscana al regno di Vittorio Emanuele, aveva
voluto anche Nizza. Cavour aveva fatto di tutto per
salvarla, ma non v'era riuscito; e Garibaldi pareva
contro di lui implacabile. Ma il 7 aprile gli capitarono
a Torino il Bixio e il Crispi, i quali "a nome degli
amici comuni per l'onor della rivoluzione, per carità
della povera isola, per la salute della patria intera,"
lo pregarono di mettersi a capo di una spedizione e di
condurla in Sicilia. E Garibaldi che forse meditava un
moto popolare in Nizza stessa, per salvarla lui se Cavour
non aveva potuto; messo in disparte questo e ogni suo
pensiero, accettò e decise di far l'impresa. Par quasi certo che Egli n'abbia parlato con Vittorio Emanuele e che n'abbia avuti incoraggiamenti. Però il Re, il 15 aprile, volle ancora scrivere al Cugino di Napoli che era "giunto il tempo in cui l'Italia poteva esser divisa in due stati potenti, uno del Settentrione l'altro del Mezzogiorno: che Egli pel bene suo lo consigliava di abbandonare la via fino allora tenuta: e che se ripudiasse il consiglio, presto egli, Vittorio Emanuele, sarebbe posto nella terribile alternativa o di mettere a pericolo gli interessi più urgenti della stessa sua propria dinastia, o di essere il principale strumento della rovina di lui. Qualche mese che passasse ancora senza che egli si attenesse all'amichevole suggerimento, egli, il Re di Napoli, sperimenterebbe l'amarezza delle terribili parole: troppo tardi." E scritto così, Vittorio Emanuele partì lo stesso giorno 15 aprile pel suo viaggio trionfale in Toscana e nell'Emilia, dove andava per la prima volta da Re. * La sera di quel 15 aprile
Garibaldi si presentò improvviso alla Villa Spinola nel
territorio di Quarto, allora ignoto borgo poco discosto
da Genova, sulla riviera orientale. In quella villa se ne
stava Augusto Vecchi esule Ascolano, suo antico ufficiale
di dieci anni avanti, alla difesa di Roma. |
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Genova nel gran giorno | |||||||||||||||||
In Genova,
sin dagli ultimi di aprile, stavano già molti dei più
vogliosi di partire per la Sicilia, e altri ve ne furono
chiamati nei primi tre giorni di maggio. Per le vie di
quella città tutta lavoro, dove la gente va attorno
sempre con l'aria di chi non ha tempo da perdere, quei
forestieri che riempivano i caffè e le passeggiate
stonavano alquanto. Ma forse nessuna città era adatta
come Genova a farvi quell'adunata e a servir di copertura
al Governo. Il quale così, negli ultimi momenti, poté
far bene le viste di non accorgersi di nulla, proprio
come se nulla vi fosse, e tutto pareva inteso, consentito,
voluto dalla città intera, ma con somma prudenza. Il 5 maggio ogni cosa era pronta. Allora Garibaldi scrisse al Re cominciando: "Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie, ha commosso il mio cuore e quelle d'alcune centinaia dei miei vecchi compagni d'arme." Pareva che volesse rammentare a Vittorio Emanuele che l'anno avanti egli per il primo, nel suo discorso del 10 gennaio in Parlamento, aveva trovato la espressione giusta come un'eco delle "grida di dolore" giunte a lui da ogni parte d'Italia. E soggiungeva di saper bene a quale impresa pericolosa si sobbarcava, ma che poneva confidenza in Dio e nella devozione dei suoi compagni. Prometteva che grido di guerra sarebbe l'unità nel nome di Lui, Vittorio; e sperava che se mai l'impresa fallisse, l'Italia e l'Europa liberale non dimenticherebbero che era stata determinata da motivi puri affatto da egoismo. Disse, che riuscendo, un nuovo e brillantissimo gioiello avrebbe ornato la corona di Lui; ma non celava l'amarezza sua per la cessione della sua terra natale. E, certo per non compromettere il Re, finiva scusandosi di non avergli detto il suo disegno, per tema che egli lo dissuadesse dal fare quel passo. Mesta e solenne lettera, nella quale era serenamente espresso il dubbio e la speranza e il sentimento dell'ora. Spiace in essa quel tanto che c'è di finzione: ma insomma, i tempi erano tali, da giustificare questo ed altro. Il Generale scriveva pure all'Esercito italiano, esortando ufficiali e soldati a star saldi nella disciplina, a non abbandonare le fila per seguir lui. Scriveva all'Esercito napolitano per ricordare ai figli dei Sanniti e dei Marsi che erano fratelli dei soldati di Varese e di San Martino. E anche non dimenticava i Direttori della Società dei Vapori Nazionali, cui nella notte doveva menar via il Piemonte e il Lombardo, scusandosi di quell'atto di violenza, e raccomandandoli al paese perché rimettesse qualunque danno, avaria o perdita che loro potesse seguirne. In tutte quelle lettere e in parecchie altre di quel giorno, una frase qua un'altra là rivelavano un sentimento sicuro ma anche una misteriosa tristezza. |
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Il 5 maggio 1860 | |||||||||||||||||
La sera di
quel 5 maggio, coloro che erano destinati a partire,
ricevuto un ordine aspettato tanto, quale da solo quale
con qualche amico, come se andassero a diporto, così
consigliati per non dar nell'occhio alla polizia,
cominciarono a uscir da Genova per la Porta Pila, sulla
via del Bisagno. Andavano alla Foce o a Quarto, secondo
che loro era stato detto. E trovavano sul loro cammino
folle di cittadini di ogni classe, donne, uomini, che
senza parere davano loro l'augurio, e ciascuno un poco
dell'anima sua. Nino Bixio scese al porto. "Là - scrive il Guerzoni - in una andana tra il Lombardo e il Piemonte e proprio costa a costa tanto da toccarsi coi due vapori, riposava una vecchia carcassa di nave condannata da tempo, che chiamavano "Nave Joseph". Bixio nella sua mente ne aveva fatta la prima base di operazione di tutta la mossa. Già da parecchi giorni la Joseph andava ricevendo a poco per volta delle casse misteriose, degli involti sospetti, che avevano le più strane somiglianze di casse da munizioni e d'involti di fucili... Bixio aveva ordinato che per la sera del 5 maggio tra le nove e le dieci, una quarantina d'uomini si raccogliessero in silenzio su quella nave, e stessero ad aspettare la sua venuta e i suoi ordini. Gli uomini erano parte marinai fedeli, parte volontari ma del fiore. Alle nove e mezzo arrivarono sulla Joseph Bixio e lo scrittore di queste pagine. Appena a bordo Bixio cavò di tasca un berretto da tenente-colonnello, se lo calò sulle orecchie, e disse: - Signori, da questo momento comando io, attenti ai miei ordini. - E gli ordini furono: buttarsi col revolver in pugno sui vicini vapori, fingere di svegliarvi la gente di guardia, fingere di costringere i fochisti ad accendere, i marinai a salpar l'ancora, i macchinisti a prepararsi al loro mestiere, sgombrare, pulire il bastimento, allestirlo in fretta per la partenza. E così fu fatto nel massimo ordine e silenzio, e non senza accompagnare di molti sorrisi quella farsa con cui quella epopea esordiva. Fra tutte queste operazioni se ne andarono quattro o cinque ore, e già i primi chiarori dell'alba cominciavano a rompere dalla punta di Portofino. Bixio era inquieto e principiava a perdere anche quell'ultimo avanzo di pazienza che in quei giorni di febbre e rabbia gli era restato. Finalmente, verso le quattro del mattino tutto era pronto, e i due piroscafi uscirono dal porto, girando verso Quarto, punto designato dell'imbarco." Ma prima di tirar avanti per Quarto, i due piroscafi si pigliarono su una parte dei Mille, che stava alla foce del Bisagno. Ivi erano avvenute delle scene pietose di questa sorte. Tra quei giovani c'era un Luzzatto da Udine, cui fu detto che tra la folla si aggirava la madre sua, venuta così da lontano a cercarlo. Voleva benedirlo o tirarselo via da quel cimento? Il giovanetto le si fece incontro, e le andò tra le braccia; ma la sua prima parola fu di pregarla a non gli dir di tornarsene, perché a lui sarebbe stato mortale il dolore di partir lo stesso dopo averla disubbidita. Altri padri, madri sorelle andavano tra quei gruppi, pregando, scongiurando, incuorando, e alla fine dando il bacio quasi della morte; e quando i due vapori apparvero e accolsero quei giovani, chi aveva assistito a quelle scene dovè tornarsene nella città col cuore quasi sollevato. Uguali cose avvenivano a Quarto. Là verso le dieci c'era folla anche più fitta che alla foce. Tutta la via che si svolge intorno a quel piccolo seno di acque era stipata. Nella villa Spinola entravano, dalla villa uscivano frettolosi uno dopo l'altro incessanti messaggeri; a ogni momento si faceva tra la folla gran silenzio, si udiva dire: "Eccolo!" No, non era ancora Garibaldi. Poi la folla fece un'ultima volta largo più agitata, tacquero tutti: finalmente era Lui! Garibaldi attraversò la strada seguìto da Turr e da Sirtori, allora già colonnelli, e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della Villa, discese franco giù per gli scogli. E cominciarono i commiati. Tra gli altri bello e forte è narrare quello di uno Stefano Dapino cui suo padre, vecchio amico di Mazzini e dei fratelli Ruffini, aveva accompagnato fino a quel passo. Quel padre aveva con sé anche un altro figliuolo più giovane. Conversavano tranquilli come se il figlio partisse per una caccia; poi senza parole, senza sospiri il padre abbracciò il figlio, stettero un poco stretti prima essi due, poi tutti e tre, finché Stefano che aveva alla spalla la carabina, baciò il fratello, gli fece segno come a raccomandargli il padre, si staccò da loro e discese per dove scendevano alle barche i suoi compagni. E quel padre e quell'altro figlio si persero fra la folla, portando alla casa lieta di altre gioie, ricchezza, bellezza, onore, quell'amara gioia d'esser stati a quella fortissima prova. Piccole cose tra le grandi, nelle ore dell'attesa, qua e là per e vie di Quarto, sugli usci delle casupole, quelli che dovevano partire si sentivano dare dai pescatori, dai marinai, certi consigli semplici, ma d'amore. Avete mai navigato? - No. - Se temete di avere il mal di mare, appena a bordo, coricatevi supino e state sempre così, non patirete. - Se vi daranno del biscotto mangiatene poco, e bevete poi pochissimo, se no guai! - Sbarcherete in Sicilia, oh sbarcherete! Ma,... vini traditori laggiù! - E la gente? - Come noi... però molto facili a tirare... Ma chi la rispetta... Soprattutto la famiglia bisogna rispettare laggiù... Ma voi avrete altro pel capo... Coraggio! - A poco a poco tutti discesero nelle barche, queste presero il largo. Verso le undici, d'una di queste già più in alto, si udì una voce limpida e bella chiamare "La Masa!" E un'altra voce rispose: "Generale!" Poi non si udì più nulla. E su quell'acqua stetterro le barche a cullarsi aspettando. Quelli che v'erano su parlavano del Governo, di Cavour, di Vittorio Emanuele, dell'accordo, del disaccordo tra loro e Garibaldi e della finzione; e siccome le ore passavano, i più cominciavano a temere che i vapori non venissero, e che si dovesse tornare a terra mortificati, fors'anche a farsi arrestare. Oh quel Cavour! La voleva vincer lui! Ma quando furon visti i segnali rossi e verdi dei due legni, e poi i legni stessi venir con già a bordo la gente che v'era stata imbarcata alla foce: quelle barche scoppiarono di grida di gioia. In un lampo vogarono ai due legni; e in meno di mezz'ora, chi sul Lombardo, chi sul Piemonte, quell'altro mezzo migliaio di uomini furono su, come ognuno seppe ingegnandosi; braccia, ganci, scale, corde, tutto fu buono a salirvi. |
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La Partenza | |||||||||||||||||
Bellissima
fu l'alba di quella domenica 6 maggio 1860. Il mare, un
po' mosso durante la notte, si era chetato. Da bordo, a
guardare indietro, si vedevano la collina del Bisagno,
là, cupa nella fredda ombra; e lontano, profilati nell'azzurro,
azzurro anch'essi, i monti lungo la riviera d ponente che
sfumavano via via verso Savona fin dove se ne perdevano
le forme. Le cittadette e le borgate di quella riva
biancheggiavano appena, e mettevano degli strani sensi di
desiderio domestico nella gioia della partenza. Ma quando i due vapori sbuffarono e i mossero, a vederselo dinanzi, là a prua, il promontorio di Portofino pareva dire: "Venite pure, oltre me lontana, molto lontana, sta la terra misteriosa, che andate a cercare." Dalle navi, rispondevano all'invito quelle mille anime; vecchi amici, compagni d'armi che, cercandosi un posto a bordo, s'incontravano, si abbracciavano e: - Anche tu? E tu? E tu? - gioia d'amarsi meglio per aver sentito e voluto fare una stessa gran cosa. Ma ci fu un momento che dai due vapori Garibaldi e Bixio si scambiarono coi portavoce delle non liete parole. Diceva Garibaldi a Bixio: - Quanti fucili avete a bordo? - Mille e cento. - E di munizioni? - Nulla - E le barche di Bogliasco? Per guardar che si guardasse non si scoprivano da nessuna parte le barche di cui il Generale chiedeva, e che si dovevano trovare in quelle acque ad aspettare i due vapori. Eppure quelle barche avevano nella notte imbarcate le armi e le munizioni raccolte a Bogliasco! Dunque si doveva star là tanto che comparissero? E se in Genova il Governo, destato a forza dalle grida di qualche Console, dovesse di necessità accorgersi che dal porto erano stati menati via i due vapori? Se fosse costretto a spedir una delle sue navi da guerra a catturarli, a ricondurli nel porto, quando mai si potrebbe poi ritentare l'impresa? Non era di quelle che si fanno due volte. Il generale Turr che in quel momento stava vicino a Garibaldi, narra che questi "rimase qualche tempo meditabondo, che poi alzò verso il cielo il capo dicendo: 'Anderemo avanti egualmente!' E che, stato un altro poco, ordinò di navigare verso Piombino." * Ora ecco ciò che era
avvenuto. La sera avanti un manipolo di giovani genovesi,
scelti dal Bixio e dall'Acerbi, erano stati mandati al
ponte di Sori. - Là - aveva lor detto Bixio - troverete
due uomini coi quali vi riconoscerete questa parola d'ordine
che vi do. Essi vi consegneranno le casse raccolte a
Bogliasco; con quelle vi metteranno nelle barche, e vi
condurranno, come siamo intesi, a trovarci. - |
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L'Ordine del giorno | |||||||||||||||||
Dunque i due
vapori navigarono via verso Piombino. E tutto il 6 e la notte appresso e la mattina del 7, non ebbero incontri. I volontari che a poco a poco si erano messi al posto che ognuno aveva saputo trovarsi, e sopra coperta o sotto nelle sale dei vapori, passavano le ore dormendo, conversando, leggendo. Ma a mezza mattina quelli che stavano sul Lombardo, furono chiamati in coperta, dove dal ponte di comando fu loro letto l'ordine del giorno. Diceva così: "La missione di questo corpo sarà, come fu, basata sull'abnegazione la più completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi Cacciatori delle Alpi servirono e serviranno il loro paese con la devozione e la disciplina dei migliori militanti, senz'altra speranza, senz'altra pretesa che la soddisfazione della loro intemerata coscienza. Non gradi, non onori, non ricompense allettarono questi bravi; essi si rannicchiarono nella modestia della vita privata, allorché scomparve il pericolo; suonando l'ora della pugna, l'Italia li rivede ancora in prima fila, ilari, volenterosi, e pronti a versare il sangue loro per essa. Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò sulle sponde del Ticino, or sono dodici mesi: 'Italia e Vittorio Emanuele', e questo grido pronunciato da voi metterà spavento ai nemici d'Italia." Quella lettura destò qualche mormorio qua e là tra le gente del Lombardo; ma la nobiltà dei certe frasi e il nome del Generale che le parlava, imponevano silenzio ad ogni passione. Il motto 'Italia e Vittorio Emanuele' scontentava moltissimi, i quali, repubblicani di fede, non avrebbero voluto sentirsi legare da quelle parole. Ma non vi furono gravi rimostranze. A quell'ora stessa, lo stesso ordine del giorno era letto sul Piemonte e vi faceva lo stesso effetto. |
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A Talamone | |||||||||||||||||
Intanto i
due vapori costeggiavano quasi la terra. Pareva già
passato tanto tempo dalla partenza, che i meno esperti,
vedendo una torre su cui sventolava la bandiera tricolore,
credettero di esser già in Sicilia, e che quella fosse
la bandiera della rivoluzione trionfante. Ma non erano
che in Toscana. Quella torre e quel gruppo di case che le
stavano intorno, si chiamavano Talamone. E quando le navi
furono là vicinissime, fu vista una barca vogare loro
incontro: e nella barca stava un ufficiale con in capo un
enorme cappello a feluca, che non lasciava quasi vedere
un altro ufficiale che quello aveva seco. Erano i
comandanti del forte e del porto. Scambiarono dei saluti
col Piemonte, vi montarono su, vi si trattennero un poco
con Garibaldi, poi tornarono nella loro barca; e poco
appresso i due vapori gettavano l'ancora in quel porto.
Ivi, alla lesta, Garibaldi discese a terra col suo stato
maggiore, vestito da generale dell'esercito piemontese,
come l'anno avanti in Lombardia, e come se fosse in terra
sua fece sbarcare i Mille. Il villaggio fu invaso. Quei poveri abitanti, marinai, pescatori, carbonai della Maremma, si trovarono con le case messe sossopra da quella gente che pagava, ma voleva mangiare. Forse pensavano che anticamente così s'erano visti invasi i loro padri dai corsari; ma saputo chi erano quei forestieri e l'uomo che li conduceva, si sbrigavano con gioia per contentarli. Garibaldi undici anni avanti era passato per la Maremma, e vi aveva lasciato la sua leggenda. Intanto, tra quei volontari, i più vaghi delle cose belle contemplavano il paesaggio. A guardare il mare vedevano l'Elba, la Pianosa, Montecristo, il Giglio, quasi in vasto semicerchio come a una gran danza: a guardar verso terra, vedevano il monte Amiata, e i più colti indovinavano in quelle lontananze Santafiora e Sovana, nomi pieni di storia. Tra l'Amiata e il mare, faceva tristezza un lembo della Maremma infelice. Là doveva essere Orbetello, fortezza dell'antico Stato dei Presidii fondato da Carlo V, quando spenta la repubblica di Siena e dato il suo territorio a Cosimo de' Medici, volle tenere per sé quel lembo di dominio, diffidando certo del popolo senese e più del fiorentino che aveva fatto la meravigliosa difesa nel 1530 contro le sue milizie. Ora quel lembo di terra, dopo vicende molte, era toscano, italiano, libero. Era stato anche del Re di Napoli fino al 1805. Ecco che ora vi faceva sosta Garibaldi, per pigliarvi, se si può dir così, l'abbrivio, a levar via dal trono gli eredi di quei Re. In faccia a Talamone verso sud, forse a dieci chilometri di mare, i contemplatori ammiravano il monte Argentaro selvoso sulle sue cime, che guardate da quell'umile spiaggia parevano eccelse. Gli stava ai piedi la cittadetta di Santo Stefano. Ricordo allora quasi fresco, ivi, nel 1849, s'era fatto portare da Talamone in una barca da pescatori Leopoldo II, fuggito da Firenze con la sua famiglia. Da Santo Stefano con ignobili infingimenti, ingannati i toscani, era poi partito per Gaeta, dove aveva cospirato per far venire gli Austriaci in Toscana. E gli Austriaci lo avevano servito a rimetterlo in trono. Ma adesso erano appena passati undici anni, si era avverata la minaccia fattagli dai più nobili uomini del paese; ed egli da un anno se n'era dovuto andar via per sempre. In un gruppo d'eruditi raccolti all'ombra di un ciuffo di olivi, a ridosso di Talamone, si parlava d'una battaglia vinta là attorno dai Romani contro i Galli Cesati. Quarantamila morti! Ma come mai tanta strage con l'armi d'allora? Certo doveva avvenire nell'inseguimento dei vinti. E dai Galli passavano a dir di Mario. Anche Mario reduce da Cartagine per tornarsene a Roma, era sbarcato lì a Talamone. Ora Garibaldi non era quasi un Mario buono? E Roma non era il suo pensiero? Se gli fosse venuto in mente di andare anch'egli di là a Roma! Non era egli il Generale della repubblica romana? Erano ardenti discorsi. Ma, a questo proposito, nascevano in quello e anche in altri gruppi discussioni vive sull'ordine del giorno udito a bordo il mattino. Molti non si sapevano liberare da certo scontento che aveva lasciato loro il motto monarchico; ma la disciplina volontaria era forte. Difatti si staccarono poi dalla spedizione e se ne tornarono di là alle loro case, soltanto sei o sette giovani cari. Seguivano il sardo Brusco Onnis che del motto 'Italia e Vittorio Emanuele' era rimasto quasi offeso. Repubblicano inflessibile, si era imbarcato a Genova sperando forse che Garibaldi, una volta in mare, si ricordasse d'essere anche egli repubblicano; ma deluso, ora se ne andava, e se ne andavano con lui quei pochi, però senza che fosse fatto a loro nessun raffaccio. Rinunciavano per la loro idea ad una delle più grandi soddisfazioni che cuor d'allora potesse avere, e il sacrificio meritava rispetto. |
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I Mille | |||||||||||||||||
Ma cosa si
stava a perder tempo in Talamone, mentre in Sicilia la
rivoluzione pericolava, e si poteva, giungendovi,
trovarla spenta? Questo lo sapeva Garibaldi. Intanto su quella spiaggia i Mille si vedevano bene tra loro la prima volta, come in una rassegna. Ora, chi parla di quei tempi e di quelle cose, dice presto: il 1860, la Sicilia insorta, il gran nome di Garibaldi, quello di alcuni suoi illustri, la partenza da Quarto, la traversata maravigliosa, lo sbarco a Marsala, Calatafimi, Palermo e la liberazione finale; due o tre date e un numero d'uomini, pochi più di Mille, e per la storia in grande è quasi tutto. Ma quei Mille chi erano? Che cosa erano? Non certo una specie di compagnia di ventura all'antica; non una parte di vecchio esercito costituito, staccata a scelta o per caso; nessuna legge li obbligava, non erano soldati di professione, non avevano tutti quella media di età che di solito hanno i soldati; non una cultura comune ed uguale, e nemmeno una divisa uniforme. Vestivano quasi tutti alla borghese e alle diverse fogge, dalle quali, a quei tempi, si riconoscevano ancora a qual regione d'Italia e a qual classe sociale uno appartenesse. E parlavano quasi tutti i dialetti della penisola. Erano, per dir così, parte dell'esercito popolare militante di cuore nel partito rivoluzionario: vecchi, figliuoli di giacobini, di napoleonidi, di Murattisiti; uomini di mezza età, educati dalla Giovane Italia, tra le congiure e le insurrezioni; giovani nei quali la letteratura classica e la romantica s'erano fuse in una bella temperanza a fecondare l'amor di patria. Con essi, degli artigiani che dalle diverse scuole politiche e dai fatti belli dell'ultimo decennio, erano stati destati al concetto della nazione. Di loro fu subito detto che erano eroi favolosi, pazzi sublimi, ed altre simili iperboli, e anche delle ingiurie. Invece di volenterosi com'essi ve n'erano in Italia a migliaia; ma ad essi intanto era toccata quella fortuna. Uno che vi era e dei migliori, scrivendone poi nella vita di Garibaldi, con quattro pennellate alla brava disse che erano un popolo misto "di tutte le età e di tutti i ceti, di tutte le parti e di tutte le opinioni, di tutte le ombre e di tutti gli splendori, di tutte le miserie e di tutte le virtù" e vi notò "il patriota sfuggito per prodigio alle forche austriache e alle galere borboniche, il siciliano in cerca della patria, il poeta in cerca d'un romanzo, l'innamorato in cerca dell'oblio, il notaio in cerca di un'emozione, il miserabile in cerca d'un pane, l'infelice in cerca della morte: mille teste, mille cuori, mille vite diverse, ma la cui lega purificata dalla santità dell'insegna, animata dalla volontà unica di quel Capitano, formava una legione formidabile e quasi fatata." Così li ritrasse il Guerzoni, caro al Generale e vivido ingegno, e fu felice pittore. Narrar di loro, descriverne gli aspetti, farne rivivere la fisionomia morale, resuscitare coi ricordi i loro sentimenti e quelli dell'epoca ora quasi estinti, è un giusto servigio che vuole essere reso alla storia. La quale si avvia a non più fermarsi solo nelle reggie per trovarvi le dinastie, o nei campi per descriver battaglie e celebrare capitani; ma già accoglie nelle sue pagine il personaggio popolo, che ai fatti col proprio sangue e col proprio danaro dà il cuore. E il cuore governa il mondo, e il sentimento fa i veri miracoli della storia. * A colpo d'occhio, si
poteva dire che per un quarto quei Mille erano uomini fra
i trenta e i quarant'anni e per un altro bel numero tra i
quaranta e i cinquanta; forse dugento stavano tra i
venticinque e i trenta. Gli altri, i più, erano tra i
diciotto e i venticinque. Di adolescenti ce n'erano una
ventina, quasi tutti bergamaschi. Alcuni qua e là tra
quei gruppi parevano trovarvisi per curiosità,
perché vecchi oltre i sessanta; e invece vi
stavano a spendere le ultime forze di una vita tutta
vissuta nell'amore della patria. Il vecchissimo passava i
sessantanove, aveva guerreggiato sotto Napoleone e si
chiamava Tommaso Parodi da Genova; il giovanissimo aveva
undici anni, si chiamava Giuseppe Marchetti da Chioggia,
fortunato fanciullo cui toccava nella vita un mattino
così bello! Seguiva il medico Marchetti padre suo, che
se l'era tirato dietro in quell'avventura. * I giovani dai venti ai venticinque anni quasi tutti sentivano in sé vivi e presenti i fratelli Bandiera con la loro storia, intesa nella prima adolescenza, tra le pareti domestiche, dai padri e dalle madri angosciate. Quell'Emilio di 25 anni, quell'Attilio di 23, disertati a Corfù di sulle navi austriache; la loro madre corsa invano colà, per supplicarli di smettere il loro disegno d'andar a morire; le loro risposte a Mazzini che li consigliava di serbarsi a tempi migliori; e poi l'imbarco, il tragitto nell'Ionio e lo sbarco sulla spiaggia di Crotone, presso la foce del Neto, - che nomi! - e il primo scontro a San Benedetto coi gendarmi borbonici, e le plebi sollevate a suon di campane a stormo contro di loro gridati Turchi; e il secondo scontro a San Giovani in Fiore, - poesia, poesia di nomi! - e l'inutile eroismo contro il numero, e la cattura e la Corte marziale e le risposte ai giudici vili e la condanna e la fucilazione nel Vallo di Rovito; tutto sapevano, tutto come canti di epopea studiati per puro amore. E suonava nei loro cuori la strofa amara ed eroica del canto di Mameli:
Un po' più in qua negli
anni, quei giovani avevano sentito il grido di Pio IX:
"Gran Dio, benedite l'Italia!" andato a suonare
fin nei più riposti tugurii. Avevano viste le
rivoluzioni nelle quali, troppo fanciulli, non avevano
potuto cacciarsi; e le guerre del '48 e del '49, e le
cadute, e le disperazioni, e le speranze rinate; e nel '57
la gran tragedia di Carlo Pisacane coi suoi trecento, tra
plebi mutatesi anche allora in furie contro di loro
andati per redimerle, combattuti, accerchiati, oppressi,
morti. se mai fosse venuta l'ora di levar quella tirannide dal mondo. |
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Seconda parte | |||||||||||||||||
La formazione del piccolo esercito | |||||||||||||||||
Sapeva
Garibaldi ciò che faceva, nè in Talamone stava certo a
perdere tempo. Ivi doveva trovare le munizioni da guerra
o andar avanti lo stesso a pigliarle in Sicilia al nemico.
Ma frattanto vi faceva dar forma alla spedizione,
comporre le compagnie combattenti e tutti i corpi che
deve avere un esercito per entrar in guerra. Non poteva
già scendere in Sicilia alla testa di uno stormo
disordinato! Al suo quartier generale diede per capo il colonnello Stefano Turr che allora aveva trentacinque anni. Da giovane tenente dell'esercito austriaco, il Turr era passato in Piemonte l'anno '49; sapeva cos'era stato il dolore della sua Ungheria e dell'Italia quell'anno; sapeva cosa voleva dire essersi trovato condannato a morte e liberato quasi nell'ora del supplizio, e cos'erano le gioie e le ansie del cospiratore nell'impaziente attesa della riscossa. Aveva combattuto l'anno avanti sotto Garibaldi in Lombardia, e a Tre Ponti aveva sparso il suo sangue tra i Cacciatori delle Alpi. Bellissimo uomo, alto e diritto, con due gran baffi e un gran pizzo scuri, e occhi pensosi ma vigili e mobilissimi sotto la fronte quadrata a torre. Novecento anni avanti sarebbe stato un fiero capo di quegli Ungheri che vennero a turbare il regno di Berengario; ma ora, con la gentilezza acquistata dalla sua gente nei secoli e la sua nativa, era un cavaliero che poteva tenere scuola d'ogni cortesia. Finita quella guerra divenne diplomatico, apostolo di lavoro e di pace. Scavò canali di navigazione nella sua Ungheria, tagliò l'istmo di Corinto; va ancora pel mondo gridando all'umanità la concordia, l'amore e il bene. Ungherese come il Turr, un po' più giovane di lui, aiutante anch'esso del Generale, v'era il Tukory, che veniva ad offrir l'ingegno e la vita a quest'Italia, la quale, nel Cinquantanove, in certa guisa aveva disdetto la fratellanza di sventure e di speranze, che l'avevano legata fino allora alla patria sua. Diceva egli così senza raffaccio, ma con dolore. Egli aveva militato per la Turchia contro la Russia durante la guerra di Crimea, e s'era trovato a difendere la fortezza di Kars contro quei soldati dello Czar che nel '49 gli avevano rovinato la patria. Servire un barbaro per odio contro un altro barbaro gli doveva essere stato grande strazio; ma con Garibaldi a faticare per l'Italia era quasi felice. Però s'indovinava che era molto deluso del mondo, e morire come morì poi a Palermo non gli dovette parere amaro. Poi c'era il Cenni di Comacchio, uomo di quarantatré anni, avanzo di Roma e della ritirata di San Marino; uno tutto fremiti, che ad averlo vicino pareva di camminar col fuoco in mano presso una polveriera. Amico del Cenni v'era l'ingegnere Montanari di Mirandola, anch'egli avanzo di Roma, che aveva trentott'anni e ne mostrava cinquanta per la tetraggine che gli avevano impressa le meditate sventure del paese. Anche aveva molto patito nelle carceri di Mantova e di Rubiera. Ma contrasto quasi d'arte gli stava a lato un senese, che da giovane aveva fatto versi, sembrati al Niccolini degni del Foscolo. Nei suoi ventisei anni bellissimo e forte, era sempre gaio come se gli cantasse un'allodola in core. Era quel povero Bandi, che cinque ferite di piombo non poterono poi uccidere sul colle di Calatafimi; e doveva campare ancora trentacinque anni, per essere ucciso quasi vecchio e a ghiado, da uno a lui sconosciuto. E v'era Giovanni Basso, nizzardo, ombra più che segretario del Generale, ch'egli aveva visto sublime a Roma, umile ma ancora più sublime da povero candelaio alla Nuova York. E c'erano il Crispi, allora poco conosciuto, e l'Elia anconitano, che poi a Calatafimi fu quasi ucciso mentre si lanciava a coprir Garibaldi. C'erano il Griziotti pavese di trentott'anni, matematico di bella mente ma di cuore più bello ancora; e il Gusmaroli di cinquanta, antico parroco del Mantovano, che come l'eroe dell'Henriade andava tra quelli che uccidevano, senza difendersi e senza mai pensare ad uccidere. Ma il tocco michelangiolesco lo metteva in quel gruppo Simone Schiaffino, bel capitano di mare, che pareva andasse studiando Garibaldi, per divenire simile a lui nell'anima come gli somigliava già un po' nel volto; biondo come lui, assai più aitante di lui, con un petto da contenervi cento cuori d'eroe. Allo Stato Maggiore generale presiedeva il colonnello Sirtori. Antico sacerdote, aveva chiuso per sempre il suo breviario, portandone scolpito il contenuto nel cuore casto, e serbando nella vita la severità e la povertà dell'asceta claustrale. Spirito rigido, cuore intrepido, ingegno poderoso, nel Quarantanove con l'Ulloa napoletano, era stato ispiratore del generale Pepe nella difesa di Venezia. Poi esule in Parigi, aveva visto indignato trionfare sull'uccisa repubblica Napoleone III. E la vita gli si era fatta un lutto. Non aveva perdonato all'Imperatore il 2 dicembre, neppure vedendolo poi scendere nel Cinquantanove con centocinquantamila francesi a liberargli la sua Lombardia; anzi, antico soldato della patria s'era astenuto dal venire a quella guerra imperiale. Ma la guerra stessa, com'era seguita, gli aveva insegnato a non illudersi più. Non aveva guari speranze che quell'impresa si potesse far bene; consultato, l'aveva sconsigliata, ma dichiarando che se Garibaldi ci si fosse risolto, lo avrebbe seguito. Ed ora a quarantasette anni, era lì con quella sua faccia patita, incorniciata da una strana barba ancor bionda, esile alquanto della persona, silenzioso, guardato come se portasse in sé qualcosa di sacro, forse le promesse dell'oltretomba. Pareva il Turpino di quella gesta. Da lui dipendevano, come capitani, un Bruzzesi romano di trentasette anni; il matematico Calvino esule trapanese di quarant'anni, onore dell'emigrazione siciliana; Achille Maiocchi milanese di trentanove, e Giorgio Manin, figlio del gran Presidente della repubblica veneziana, che non ne aveva ancor trenta. Ufficiali minori seguivano Ignazio Calona palermitano, un gran bel sessagenario che a guardargli in viso pareva di leggere la poesia del Meli; il mantovano ingegner Borchetta di trentadue anni gran repubblicano; ultimo v'era un giovane tenente dell'esercito piemontese, disertato a portar tra i Mille il suo cuore. Questi doveva morire a Calatafimi sotto il nome di De Amicis, ma veramente si chiamava Costantino Pagani. * E poi veniva il grosso del
piccolo esercito. La seconda compagnia, detta dei livornesi perché di Livorno era Jacopo Sgarallino, il più popolare dei suoi ufficiali, e di Livorno erano i suoi sergenti, fu affidata al colonnello Vincenzo Orsini. Questi non veniva dalla storica famiglia Orsini di Roma e neppure da quella romagnola da cui uscì Felice Orsini, uomo allora di recente terribilità, per le bombe che aveva lanciate in Parigi contro Napoleone III, e rimpianto per la nobile vita così sacrificata e per la rassegnata morte sul patibolo. Il colonnello garibaldino era di famiglia palermitana, uomo già di quarantacinque anni, ufficiale dell'artiglieria borbonica da giovane, poi affiliato alla Giovane Italia, passato al servizio dell'isola sua nella rivoluzione del '48, cresciuto con essa, con essa caduto nel '49. Da quell'anno era vissuto esule negli eserciti di Turchia, salendovi a colonnello dell'arma ne' cui studi era stato allevato. Venuto il '59, era tornato in Italia, e adesso era lì a riportar il braccio alla sua Sicilia. Prevalevano nella compagnia per numero gli operai, anch'essi però uomini intelligenti, che sapevano bene qual passo avevano fatto: e i più erano toscani, e portavano nomi i nobiltà popolaresca antica. Per la stessa ragione per cui la seconda compagnia fu chiamata dei livornesi, la terza poteva dirsi dei calabresi perché di Calabria erano il barone Stocco che la comandava, verde vecchio di cinquantaquattro anni, e Francesco Sprovieri, Stanislao Lamensa, Raffaele Piccoli, Antonio Santelmo suoi ufficiali. V'erano inquadrati degli uomini insigni come Cesare Braico, Vincenzo Caronelli, Domenico Damis, Domenico e Raffaele Mauro fratelli, Nicolò Mignogna, Antonio Plutino, Luigi Miceli; e avvocati e medici e ingegneri, e futuri deputati, senatori, ministri e generali, tutti fra i trentacinque e i cinquant'anni, tutti di Calabria e di Puglia. Pareva la compagnia dei savi! La quarta toccò a Giuseppe La Masa, siciliano di Trabia, antico all'esilio, già quarantenne. Era un singolarissimo uomo. Biondo quasi ancora come un giovinetto e di carnagione che doveva essere stata rosea, finissimo nei lineamenti del volto, più che un siciliano sembrava uno scandinavo. Certo aveva nelle vene sangue normanno. Poeta improvvisatore, giureconsulto, agitatore d'idee, s'era fatto mandar via presto dall'isola natia, e a Firenze nel '47 aveva stretto amicizia col fiore dei patriotti. Doveva aver sentito di sé grandi cose e grandissime averne agognate; e fino a un certo segno le aveva conseguite. Si diceva che nel gennaio del '48 avesse decretato lui la rivoluzione di Palermo, per il 12 di quel mese preciso, genetliaco del Re, firmando audacemente un proclama di sfida col proprio nome per un Comitato che non esisteva. Ma non era vero. Però la rivoluzione era scoppiata, ed egli nella guerra che n'era venuta tra Napoli e la sua Sicilia era stato Capo dello Stato maggiore dell'esercito. In un intermezzo di quella aveva condotto i Cento Crociati isolani alla guerra di Lombardia; poi, finita male ogni cosa nell'isola come altrove, si era rifugiato in Piemonte, aveva scritto libri di guerra, infaticabile. Pochi giorni avanti la spedizione dei Mille, quando Garibaldi esitava a fare la impresa, egli si era offerto di condurla, e l'avrebbe condotta con grande animo, se non forse con grande fortuna. Però non lo avevano voluto lasciar fare neppure i siciliani. Pareva ambizioso. Un po' di quell'avversione che poi lo tribolò, già gli si manifestava contro, e forse per questa non ebbe sotto di sé in quella sua compagnia ufficiali di nome. Ma aveva nel quadro de' suoi sott'ufficiali dei giovani eminenti. Vi aveva Adolfo Azzi da Trecenta, di ventitré anni, che con Simone Schiaffino si era diviso l'onore di far da timoniere a Bixio; vi aveva l'avvocato Antonio Semenza, monzasco, che nell'animo aveva tutta l'opera di Mazzini, e Francesco Bonafini, di Mantova, che riassumeva in sé tutta la vigorosa gentilezza della sua regione. E nella compagnia s'erano concentrati quasi tutti i bresciani, forse perché del bresciano egli aveva preso qualche cosa. Nel '57 aveva sposata la duchessa Felicita Bevilacqua sua fidanzata fin da prima del '48, donna che lo aveva fatto signore del proprio destino, delle proprie ricchezze sterminate, quasi fatto re d'un piccolo regno. Ora egli abbandonava quegli splendori, per tornare all'amore della sua terra. Ed era un prezioso elemento, e doveva presto mostrarlo in Sicilia, dove raccolse le squadre paesane dei Picciotti, e le tenne ordinate per Garibaldi. Alla testa della quinta compagnia sonava il nome nizzardo degli Anfossi, glorioso pel caduto delle cinque giornate di Milano. Ma ahimè! Il vivo non era del valore del morto. Però la inquadravano degli ufficiali subalterni che bastavano a raccoglier l'anima della compagnia come un'arma corta nel pugno. V'era tra essi Faustino Tanara del parmigiano, una specie di Rinaldo combattente per la giustizia in un mondo che a lui fu ingiusto e che non seppe mai il cuore che egli ebbe. In quella compagnia, nulla di regionale. C'erano un centinaio di uomini di tutte le terre italiane, vi si sentivano tutte le nostre parlate, vi si vedevano delle teste di tutte le tinte, e di grigie e di bianche parecchie. Mesto a pensarsi, vi si trovavano parecchi trentini tra i quali Giuseppe Fontana, Attilio Zanoli, Camillo Zancani, che morirono poi vecchi, senza la gioia di aver visto libera la loro bella terra di Trento. Ma ecco alla sesta il più
bello degli otto capitani. Era un biondo di trentatrè
anni, alto, snello, elegante. Si sarebbe detto che se
avesse voluto volare, subito gli si sarebbero aperte al
dorso due ali di cherubino. Parlava un bell'italiano con
leggero accento meridionale, gestiva sobrio e grazioso
come un parigino; nel portamento pareva un soldato di
mestiere, negli atti e nei discorsi un Creso vissuto tra
le delizie dell'arte, in qualche gran palazzo da Mecenate.
Si chiamava Giacinto Carini, nome di borghesi e nome
anche di principi siciliani che a lui, già nobilissimo
della persona, dava un'aria alta e singolarmente
aristocratica. In lui v'era il generale che sei anni dopo
avrebbe comandata una brigata italiana all'attacco di
Borgoforte. E da lui fu detto un giorno che se alla morte
di Pio IX fosse venuto, come venne, al seggio di San
Pietro il Vescovo di Perugia, ch'ei ben conosceva, l'Italia
avrebbe avuto il Papa italiano iniziatore di quella vita
che poi non ebbe. Sfilava la settima
compagnia, la più numerosa e la più signorile, quasi
tutta di studenti dell'Università pavese, lombardi di
ogni provincia, milanesi eleganti, veneti che la grazia
natìa temperavano alla baldanza dei compagni nati tra l'Adda
e il Ticino. E l'ultima era l'ottava. L'aveva
raccolta quasi tutta nella sua Bergamo Francesco Nullo,
che la dava bell'e fatta ad Angelo Bassini pavese, certo
di darla a chi l'avrebbe condotta da bravo. Era il
Bassini un uomo che se avesse lanciato il suo cuore in
aria, quel cuore avrebbe mandato luce come il sole; e se
lo avesse lanciato nell'inferno, avrebbe fatto divenir
buono Satana stesso. Così dicevano coloro che avevano
già lette sin da allora queste immagini nelle poesie di
Petofi. A Roma il 3 giugno del '49, nell'ora dello
sterminio, s'era avventato quasi solo contro i francesi
di Villa Corsini, percotendo, insultando, gridando a chi
volesse ammazzarlo, e nessuno lo aveva ucciso. Aveva una
testa che sembrava una mazza d'armi, ma l'espressione
della sua faccia ricordava quella di certi santi
anacoreti. Sapeva poco, discorreva poco; ostinato nell'idea
che gli si piantava nel capo, a chi lo vinceva di prove
gridava: "Appiccati!" ma lo abbracciava e gli
dava subito ragione, intenerito e devoto. Per tutte
queste sue doti, e perché aveva già quarantacinque anni,
gli si erano lasciati volentieri metter sotto Vittore
Tasca, Luigi Dall'Ovo, Daniele Piccinini, coi loro
bergamaschi, quasi un centinaio e mezzo di quella gente
Orobia, quadrata e intrepida sempre, sia che scelga la
patria per suo culto, sia che ad altri ideali volga il
pensiero: quella che parve ai siciliani formidabile per
gli ardimenti sulle barricate, e per la serena fidanza
nei vini dell'isola, bevuti ai banchetti liberamente,
senza perdere dignità né d'atti né di parole. |
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I Carabinieri genovesi | |||||||||||||||||
Ora ecco i
Carabinieri genovesi, quasi tutti di Genova, o in Genova
vissuti a lungo, mazziniani ardenti, armati di carabine
loro proprie, esercitati nel tiro a segno da otto o nove
anni i più, gente che s'era già fatta ammirare nel 1859,
ben provveduta, colta, elegante. Li comandava Antonio Mosto, tutto di Mazzini, uomo non molto sopra i trent'anni, ma che ne mostrava di più: barba piena, lunga, sguardo acuto, ficcato lontano come per guardare se al mondo esistesse il bene quale ei lo sentiva in sé. Quanto al coraggio, era per lui cosa tanto naturale, che non poteva credere vi fosse altri che non ne avesse. In tutta la campagna i borbonici non ebbero per lui una palla, ma il cuore glielo straziarono uccidendogli il fratello Carlo, che piantato lo studio all'Università di Pisa, aveva ripreso la carabina. E la fortuna gli serbava di tornare illeso anche dalla guerra del 1866. Ma l'anno appresso, a Mentana, una palla francese lo colpì di tale ferita, che lo rese invalido fin che nel 1880 morì. Suo luogotenente era Bartolomeo Savi, un fierissimo repubblicano, tutto nudrito di studi classici, e già ben sopra la quarantina; uomo austero e cruccioso, che guardava sempre con un certo piglio di rimprovero Garibaldi, perché s'era lasciato tirare dalla parte del Re. Ma lo seguiva perché gli pareva di non aver diritto di negar il suo braccio alla patria, soltanto pel motivo che la patria si andava rifacendo nel nome di un re. E lo seguì poi fino al giorno che, dopo Aspromonte, tutto gli parve falsato, e, poco appresso, tediato della vita si uccise. Inquadravano la compagnia Canzio, Burlando, Uziel, Sartorio, Belleno, dei quali i tre ultimi non tornarono più; e tra tutti, quei trentasette carabinieri dovevano pagare un gran tributo fin dal primo scontro di Calatafimi, dove cinque morirono, dieci furono feriti. Ma la vittoria fu dovuta in gran parte alle loro infallibili carabine. |
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Le Guide | |||||||||||||||||
Mancavano i
cavalli, né c'era tempo di far una corsa nella vicina
Maremma a pigliarne un branco al laccio, ma le Guide
furono ordinate lo stesso. Erano ventitré. Le comandava
il Missori, l'elegantissimo milanese, passato dal culto
delle eleganze a quello delle armi, e come da prode lo
seppero tutti. Basti che in quella guerra l'Italia
dovette a lui e a pochi altri se a Milazzo Garibaldi non
fu sopraffatto e ucciso da un branco di cavalieri
napoletani, che essi a rivoltella sgominarono, mentre il
Generale che si trovava a piedi poté, uccidendolo,
liberarsi dal capitano di quelli ruinatogli addosso
furioso, menando fendenti. Sergente delle Guide era Francesco Nullo, il più bell'uomo della spedizione. Aveva trentaquattro anni, era mercante come Francesco Ferrucci. Allora gli entrò la passione di cavalier di ventura dell'umanità, e non ebbe più requie finché non gliela diede tre anni di poi, nel cimitero di Miekov, il generale russo che ve lo seppellì con onori militari da generale pari suo. Sapeva quel russo di dover andare punito nel Caucaso, ma nonostante, a quella nobile figura di morto volle mostrare il suo nobile cuore di uomo. Compagni più che sottoposti al Missori e al Nullo, erano certi degni uomini come Giovan Maria Damiani da Piacenza, che a sedici anni aveva combattuto a Novara, dove gli era morto un fratello; e Giuseppe Nuvolari da Roncoferraro nel Mantovano ricchissimo di possessioni e già sui quaranta; due puritani, niente allegri, provati nell'esilio, pensierosi sempre, quasi scontrosi. Semplice guida era Emilio Zasio da Pralboino, di ventinove anni, che uscito di modesta casa pareva figlio di principi, tanto ambiva le cose signorili; fantastico, impetuoso, temerario e nell'amare e nel volere sempre grandioso. Luigi Martignoli, da Lodi come Fanfulla, che a trentatré anni doveva morire a Calatafimi, somigliava un po' al Zasio nel portamento non nella bellezza; ma bello ancor più di Zasio era il conte Filippo Manci da Poro nel Trentino, giovinetto di ventun anni. Tutti e due furono infelici. Sopravvissuti a quelle guerre e alle altre venute dopo, dovevano finire quasi insieme nel 1869, col raggio della mente già spento per dolori così crudeli, specie quelli del Manci, che chi li conobbe ingiuriò la morte perché non se li aveva presi quando le andavano incontro sani d'anima e lieti. E poi tra quelle Guide erano scritti l'avvocato Filippo Tranquillini e Egisto Bezzi trentini anch'essi come il Manci; Domenico Cariolato da Vicenza, che di ventiquattro anni era già un veterano della difesa di Roma; il medico Camillo Chizzolini da Marcaria e l'ingegnere Luigi Daccò da Marcignano giovanissimi tutti, che parevano figli del sessagenario Alessandro Fasola novarese, già carbonaro nel 1821 col Santarosa, profugo, poi soldato di tutte le guerre sino a quella del 1859, e che ora correva a quell'impresa romanzesca con la baldanza d'un giovanetto che fa la sua prima volata fuori casa. |
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L'Intendenza | |||||||||||||||||
Poiché la spedizione doveva avere una Intendenza, questa fu formata sul serio, benché in verità, la cassa di guerra non contenesse che trentamila povere lire. E vi fu messo a capo Giovanni Acerbi, avanzo dei martirii di Mantova, il quale andava rivendicando nelle cospirazioni e nelle guerre l'onor del nome, macchiato da uno del casato che aveva venduto l'ingegno e le lettere all'Austria, prima ch'egli nascesse. Aveva compagni Ippolito Nievo, Paolo Bovi, Francesco De Maestri e Carlo Rodi, tre veterani questi ultimi, mutilati ciascuno d'un braccio, che parevano intervenuti per dire ai giovani: "Vedete che cosa ci si guadagna? Eppure non fa male!" In quanto al Nievo andava tra quella gente, per dir così, come Orfeo tra gli Argonauti. Chi lo guardava indovinava che era già grande, o che era destinato a divenirlo. Egli era noto per due suoi romanzi sentimentali: 'Angelo di bontà' e 'Il conte pecoraio'; e anche si sapeva da qualche amico suo che ei stava lavorando alle sue maravigliose 'Confessioni d'un Ottuagenario', e che le lasciava imperfette per accorrere alla grande impresa. Diceva egli stesso che gli sarebbe tanto rincresciuto morire senza averle finite! Nel 1859 aveva cantati gli 'Amori garibaldini', liriche scintillanti come spade, scritte sull'arcione cavalcando alla guerra di Lombardia, e stampate sul punto di partire per la Sicilia. E, 'Partendo per la Sicilia', fu appunto il titolo che egli dava all'ultima, non uscita dal suo petto ma rappresentata nella pagina da una fila di interrogativi. Forse egli presentiva che non sarebbe più ritornato? Difatti spariva dal mondo nel marzo del 1861, in una notte di tempesta nel Tirreno, con un vapore che fu ingoiato, passeggeri e tutto, dalle acque. Perì in lui il poeta che avrebbe cantato davvero l'Epopea garibaldina; e un cadavere che fu creduto lui, venne poi trovato sulla riva d'Ischia, l'isola dei poeti. | |||||||||||||||||
Il corpo sanitario | |||||||||||||||||
Più
necessario allora che non l'Intendenza, fu ordinato anche
il Corpo sanitario, sotto il vecchio dottor Pietro Ripari
da Solarolo Rainiero, che de' suoi cinquantott'anni ne
aveva passati molti nelle carceri dell'Austria e del Papa.
Ma per tormenti che vi avesse durati, non si era mai
stancato di adorare la propria idea, e tant'era che per
essa, con l'età che aveva, lì si metteva al caso d'andare
a sperimentare anche le galere del Borbone e a finir la
vita tra i ferri. Aveva con sé Cesare Boldrini,
mantovano, uomo di quarantaquattro anni, e Francesco
Ziliani del bresciano, di ventotto, valenti medici e
bravi soldati. Il Boldrini, nel seguito della guerra,
volle poi essere soltanto ufficiale combattente. E il 1°
ottobre cadde a Maddaloni, comandante di un battaglione
rimasto celebre col suo nome; consolazione grande questa
al prode nei dolori che durarono due mesi a consumarlo e
a farlo morire. Il Ziliani bellissimo, robustissimo e
giocondo, per qualche cosa che aveva nel far suo metteva
la soggezione, e temperava solo con la sua presenza anche
i più spensierati e chiassosi. Dove egli capitava,
fossero pur allegri i discorsi, tutti diventavano serii,
le lingue si facevano caste, di cose frivole nessuno
sapeva più dirne. Crebbe su agli alti gradi, ma non se
ne volle giovare: tornò modestamente alle case
patriarcali da dove non uscì che per le altre guerre; vi
si chiuse alla fine a farsi crescere intorno una famiglia
secondo il suo cuore, e in mezzo ad essa invecchiò,
ricordando ed amando i campi e le plebi. Altri medici in quel piccolo corpo erano Oddo-Tedeschi d'Alimena e Gaetano Zen di Adria; e del resto se ne trovavano sparsi in tutte le compagnie, combattenti dei migliori e da combattenti infermieri. A Calatafimi ne furono visti tra un assalto e l'altro deporre il fucile, tirar fuori ferri e bende, curare qualche ferito; ripigliar su l'arma, e andar a farsi ferire. * La storia dovrebbe aver
già detto e dirà che quella spedizione fu più che per
metà composta d'uomini di studio e d'intelletto. Ne
contava più d'un centinaio e mezzo che erano già o
divennero poi avvocati; e così come questi un centinaio
di medici, un mezzo centinaio di ingegneri, una ventina
di farmacisti, trenta capitani marittimi, dieci pittori o
scultori, parecchi scrittori o professori di lettere e di
scienze, tre sacerdoti, alcuni seminaristi. V'era anche
una donna, Rosalia Montmasson savoiarda, moglie di Crispi,
che volle seguir il marito in quel pericolo; poi
centinaia di commercianti e centinaia di artefici, operai
il resto, contadini quasi nessuno. |
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L'Artiglieria e il Genio | |||||||||||||||||
Perché fu
allora cosa inaspettata, si narra qui un po' fuor di
posto che in Talamone fu pur formata l'Artiglieria. Fin
dalla prima ora della sua discesa a terra, Garibaldi
aveva visto nel vecchio castello una colubrina, lunga
come la fame, montata su di un cattivo affusto, a ruote
di legno non cerchiate, e pel logoro di chi sa quanti
anni divenute poligonali. Portava in rilievo sulla
culatta l'anno del suo getto, 1600, e il nome del
fonditore Cosimo Cenni, certo un toscano. Una delle
maniglie in forma di delfino le era stata rotta, ma due
segni di cannonate ricevute le facevano onore. Forse non
aveva mai più tuonato dal 9 maggio 1646, quando novemila
francesi condotti da Tommaso di Savoia erano giunti in
quel golfo su d'una flotta di galee e tartane. Adesso là
nel castello non faceva più nulla, e Garibaldi se la
prese. Il giorno appresso, vennero da Orbetello tre altri cannoni, uno dei quali non guari migliore della colubrina, ma due erano di bronzo bellissimi, alla francese, fusi nel 1802. Sulla fascia della culatta d'uno si leggeva "L'Ardito" su quella dell'altro "Il Giocoso". I nomi piacquero; convenivano agli umori di quella gente. Quei cannoni non avevano affusto, ma laggiù in Sicilia qualcuno avrebbe saputo incavarseli, e per questo c'erano tra i Mille i palermitani Giuseppe Orlando e Achille Campo, macchinisti valenti, i quali difatti fecero poi tutto alla meglio sei giorni appresso. Ma chi aveva dato quei cannoni? Garibaldi aveva mandato il colonnello Turr, al comandante della fortezza di Orbetello con questo scritto:
Il comandante, che era un
tenente-colonnello Giorgini, quando lesse quel foglio si
dovette sentire un grande schianto al cuore. L'aiutante
di campo di Garibaldi gli chiedeva delle munizioni!
Impossibile.
Porgendo la lettera al Comandante, il Turr gli disse che siccome la risposta non verrebbe se non forse in una settimana, su di lui Comandante peserebbero tutte le incalcolabili conseguenze di quel ritardo; lo informò della spedizione; lo accertò dell'intesa tra il Re e Garibaldi; insomma seppe far tanto che quell'ufficiale, solo facendosi promettere che l'impresa non sarebbe volta contro gli Stati del Papa, diede tutte le cartucce che aveva pronte, e casse di polvere e quei tre cannoni e quant'altre cose poté. E tutto fu caricato e condotto a Talamone, dov'egli stesso volle recarsi per veder Garibaldi e la spedizione. Vollero accompagnarlo due suoi ufficiali, e insieme il maggior Pinelli che comandava un battaglione di bersaglieri, diviso tra Orbetello e Santo Stefano. Temeva questi che quei soldati gli scappassero mezzi per imbarcarsi con Garibaldi, e voleva pregarlo di non riceverli a bordo. Il Generale accolse tutti con grato animo, ma non senza pensare che al Giorgini dovevano seguire de' guai. E gliene seguirono, perché il povero Comandante fu poi tenuto a lungo nella fortezza di Alessandria sottoposto a Consiglio di guerra; ma alcuni mesi dopo, nel tripudio della patria, fu mandato sciolto di pena. Ora dunque la spedizione possedeva anche delle artiglierie, e bisognava formare il corpo dei Cannonieri. A ordinarli e comandarli venne messo il colonnello Vincenzo Orsini, che per questo dovette lasciare la 2° Compagnia cui si era appena presentato. Egli chiamò a sé quanti avessero già militato nell'artiglieria, e ne trovò una ventina. Ai quali ne aggiunse dieci altri, inesperti nell'arma, ma studenti quasi tutti di matematica nell'Università di Pavia. E fu di questo numero Oreste Baratieri, giovinetto sui diciannove, pigliato appunto allora dalla fortuna che non lo abbandonò più per trentasei anni, e doveva elevarlo tanto da farlo brillar come un astro e spegnerlo poi in un giorno, come nulla, nel buio. Egli aveva allora compagni in quell'artiglieria strana, giovani come lui, Luigi Premi da Casalnovo, Arturo Termanini da Casorate, saliti poi anche essi nell'esercito nazionale e assai alti, ma senza clamori. Vi aveva Domenico Sampieri di Adria, uomo di trentadue anni, avanzo della difesa di Venezia e degli esigli di Smirne e d'Epiro, e divenuto anch'egli Generale dell'esercito nazionale. Rimasto oscuro e modesto, vi si trovava insieme ad essi Giuseppe Nodari, da Castiglione delle Stiviere, anima d'artista, che dappertutto laggiù avea sempre la matita in mano a schizzare dal vero bivacchi, fatti d'arme e figure caratteristiche, delle quali s'ornò poi la casa dove morì medico, trentott'anni di poi. E giovane mistico, nato per ogni sacrificio, vi stava bene col Nodari l'ingegnere Antonio Pievani da Tirano, che già deliberato a farsi frate, solo quando fu finita l'opera di rifar la patria, entrò nei Francescani, per andar missionario nel mondo barbaro. E invece, tradito dalla salute, morì nel 1880, in una cella del convento di Lovere, sul lago d'Iseo, sulle cui rive deliziose eran nati quattro compagni suoi nei Mille, Zebo Arcangeli, Gian Maria Archetti, Carlo Bonardi e Giuseppe Volpi, questi ultimi due a lui carissimi e morti in guerra. Poiché ormai quel piccolo
esercito aveva tutte le sue membra fuorché il Genio, fu
ordinato anche questo: una dozzina e mezza di operai, di
macchinisti, d'ingegneri, con Filippo Minutilli da Grumo
d'Appula per Comandante, uomo di quarantasette anni,
severo, di poche parole, cui si leggeva in viso, e certo
lo aveva dentro, qualche profondo dolore. Pativa l'esilio
dal 1849; era stato in Oriente, in Malta, in Piemonte;
lasciava in Genova coi figliuoli la moglie, eroica donna
messinese, che si era sentita il cuore di cucire per lui
la camicia rossa, e di scendere alle porte di Genova, a
dirgli addio, mentre egli passava per andar a Quarto ad
imbarcarsi. |
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La diversione | |||||||||||||||||
Tutto
cominciava ad andare per bene: solo sembrava strano che
la spedizione continuasse a stare a perdere un tempo
prezioso. Ma nel pomeriggio dell'8 corse vagamente la voce che Garibaldi avesse deliberato di gettarsi nel Pontificio, per marciare senz'altro su Roma. Una sessantina di uomini, presi qua e là nelle campagne e raccolti in drappello, erano partiti sin dalla sera avanti, per la strada che, girando il golfo, mena da Talamone in Maremma. Marciava alla loro testa un Zambanchi. Era un forlivese già sulla cinquantina, quadrato, barbuto, di poca testa, assai rozzo e millantatore. E aveva fama d'esser uomo di sangue, perché nel '49, a Roma, era stato crudo contro tre preti, i quali, volendo entrare nelle città travestiti da contadini, avevano dato del capo nei suoi avamposti. Egli li aveva tenuti prigionieri; poi, senza averne ordine dal Governo, gli aveva fatti fucilare. Per tal suo fatto gli pesava addosso l'accusa di sterminatore di preti e frati, e sin d'averne colmato un pozzo. A chi non sapeva tutto, pareva che quella compagnia fosse l'avanguardia, e che la spedizione dovesse tenerle dietro. E i più giovani lo credevano, ma gli anziani no. Delle otto compagnie, Garibaldi ne aveva affidate tre a comandanti siciliani, una ad un calabrese; ora come poteva darsi che egli volesse far loro il torto di non andare in Sicilia? Però il fatto che quel piccolo drappello se n'era andato per entrare nel Pontificio a farvisi distruggere forse ai primi passi, se tutta la spedizione non lo volesse seguire, non si capiva. Vi era chi diceva che Garibaldi avesse fatto così, per levarsi dai piedi quel Zambianchi che gli era odioso: ma altri faceva osservare che forse si esagerava perché non a un uomo così fatto Garibaldi avrebbe dato da condurre quel manipolo, in cui si erano trovati a dover andare dei giovani come il Guerzoni, il Leardi, il Locatelli, il Ferrari, il Fumagalli, il Pittaluga, e avvocati, scrittori, scultori, e quattro medici come Fochi, Bandini e Soncini da Parma, e Cantoni da Pavia, e tanti altri, proprio gente già di conto. Pensavano forse meglio quelli che dicevano che il Generale aveva mandato quel manipolo nel Pontificio affinché n'andasse la voce a Roma e a Napoli, a generar confusione in quei governi; e che quanto al Zambianchi qualcuno, forse il Guerzoni, avesse l'ordine di levargli il comando, se mai venisse l'occasione di doversene liberare per qualche suo sproposito o qualche violenza. Verso sera le trombe suonarono, le compagnie si ordinarono, scesero al porto, tornarono a imbarcarsi sui due vapori. Quella tornata a bordo levò via ogni dubbio. E allora nacque negli animi una generosa pietà per i compagni partiti. Che brava gente! Avevano compìto il più duro sacrificio che si potesse ideare: perdevano la vista di Lui e l'epopea che s'erano sentita nel pensiero, per andar a crearne un episodio oscuro, non sapevano dove, pochi, bene armati, ma condotti da un uomo disamato. Parlando d'essi, molti confessavano che comandati a quel passo non avrebbero ubbidito; ma i più lodavano l'ubbidienza di quei sessanta come indizio di gran virtù, e testimonianza del più alto valore. |
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A Santo Stefano | |||||||||||||||||
Garibaldi
aveva fretta di partire, ma non aveva fatto imbarcare le
compagnie per questo. Alcuni dei suoi uomini per
cattiveria o per braveria, avevano dato noia a qualcuno
di Talamone, ond'egli, sdegnato, si era risolto a levar
tutti da terra. Così i due vapori stettero carichi all'ancora
tutta la notte dall'8 al 9; e solo all'alba salparono pel
golfo a Santo Stefano, breve tratto. La cittadetta si
svegliava. Viste dal porto, le sue case parevano
edificate l'una a inseguir l'altra su su, per arrivare in
alto a trovar i giardini, i vigneti, gli oliveti pensili
tra le rocce. Vi scesero Bixio, Schiaffino e Bandi, per andare ai magazzini del governo, e in qualche modo farsi dare carbone, perché la traversata della Sicilia era ancora lunga, e poteva anche capitare di dover andare chi sa quanti giorni, fuggendo di qua e di là pel Mediterraneo, perseguitati dalle navi napoletane. Il Bandi s'accostò al custode dei magazzini e cominciò colle buone a tentarlo. Ormai sapevano tutti colà che Orbetello aveva dato armi, e in quei giorni quel custode poteva fare uno strappo anch'egli ai regolamenti. Ma colui nicchiava, e il Bandi non riusciva a convincerlo. Allora gli cadde là Bixio, che preso al petto il custode fedele, lo scosse un poco, e, miracoli di quell'uomo, il carbone andò a bordo per dir così da sé. E andarono a bordo e viveri e barili d'acqua. V'andarono anche per imbarcarsi stormi di bersaglieri, ma Garibaldi aveva promesso all maggior Pinelli di respingerli, e non li volle. Tre soli che poterono salire a nascondersi sul Lombardo, seguirono la spedizione, e divennero poi ufficiali dei migliori nella bella compagnia. |
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Le armi | |||||||||||||||||
Durante la sosta a Santo Stefano furono distribuite le armi alle compagnie; solenne momento! Faceva pensare a un altro ancor più solenne, quello di quando vicina l'ora della battaglia, i reggimenti d'allora caricavano i fucili con quell'indescrivibile ronzio di bacchette tutte piantate a un tempo nelle canne, che dava il raccapriccio e il cupo sentimento della morte. Quelle armi erano vecchi fucili di avanti il '48, trasformati da pietra focaia a percussione, lunghi, pesanti, rugginosi, tetri. Stava legata a ciascun fucile una baionetta nel fodero cucito a un cinturone di cuoio nero, con certa piastra da fermarselo alla vita e certa cartucciera proprio da far malinconia a provarsela. Oggi non se ne vorrebbe servire, per così dire, neppure un bandito. Eppure nessuno se ne lagnò. Insieme con quell'arma, ognuno ricevette venti cartucce, e se le mise a posto con gran cura. Quelle povere cose erano tutte le risorse di cui Garibaldi poteva disporre. Povero Garibaldi! Nell'ultimo momento che stette in quelle acque, un suo compagno d'altri tempi che lo aveva seguito nei mari della Cina e che poi aveva perduto una gamba combattendo pei liberali del Perù, bel soldato, vivacissimo ingegno, voleva seguirlo così mutilato com'era anche a quella sua bella guerra. Egli dovette supplicarlo di andarsene, e infine comandarglielo. Furono lagrime! Ma Stefano Siccoli dovè ubbidire, discendere, veder da terra salpare l'ancora, stringersi il cuore perché non gli scoppiasse. Però aveva già il suo proposito bell'e formato: egli avrebbe raggiunto Zambianchi. | |||||||||||||||||
Di nuovo in mare | |||||||||||||||||
Era quasi il
tocco dopo mezzodì, quando il Piemonte e il Lombardo si
mossero verso l'isola del Giglio. Finalmente! Garibaldi era stato tutti quei due giorni in angustia. Certo egli ignorava ciò che si seppe poi, e cioè che il Ricasoli, governatore della Toscana, aveva telegrafato al prefetto di Grosseto di "tenersi estraneo a quanto succedeva" nel golfo di Talamone. Ma lo avesse anche saputo, temeva del Farini, temeva del Cavour, né avrebbe potuto giustamente lagnarsi di loro, se gli avessero fatto giungere addosso la squadra di Persano a pigliarselo. Il momento era ben più cruccioso che quello di Genova. Nei tre giorni della sua partenza, tutta l'Europa avea avuto tempo di mettere il Governo di Torino alla stretta o di catturare lui o di prepararsi alla guerra. E allora che rovina! Le genti del mezzodì deluse e cadute nell'accasciamento; egli e il suo partito umiliati; Vittorio Emanuele costretto a rinnegare il pensiero unitario! Ci sarebbero voluti molti anni a rimetter su gli animi; e intanto, prima che tornasse un'occasione, sarebbero divenuti vecchi, sarebbero forse morti il Re, Cavour, Mazzini, lui, tutta quella generazione; e non si sapeva che cosa sarebbe poi avvenuto. Ora dunque egli e tutti sulle due navi respiravano contenti. Girata la punta dell'Argentaro, ecco a destra l'isola del Giglio con la sua costa erta e rocciosa e col suo borgo su in cima. Una freschezza, una pace! Quanti di quei naviganti già vecchi e stanchi avranno pensato di venirvi un dì a trovarsi un posticino lassù, per invecchiarvi del tutto e morirvi, pensando alla loro odissea! Ma ora l'odissea non era finita, anzi andavano a crearne forse l'ultimo canto. Più in là del Giglio, Montecristo, l'isola dei sogni; e lungo la costa occidentale dell'Argentaro a guardare in su torri, torri e torri. Che strano arnese da guerra doveva essere stato quel monte! E poi a sinistra Giannutri, luogo da capre selvatiche e da conigli. Di là da quelle isolette i due vapori pigliarono il largo; dunque alle coste romane non c'era proprio più da pensarci, e presto sarebbero entrati nelle acque napolitane. Veniva ai Mille la sera e la malinconia. Cosa si pensava di loro nelle loro città, nei loro villaggi, nelle loro case? Davvero tutta l'Italia doveva stare in grande ansietà. Ormai la spedizione era via da quattro giorni; ogni istante poteva esser quello di una grande tragedia, in qualche punto del Tirreno. Se i due vapori si fossero imbattuti nella crociera napolitana, avrebbero dovuto arrendersi o avventarsi cannoneggiati contro le navi borboniche, lanciarsi all'arrembaggio da disperati, e farsi saltar in aria con esse o pigliarsele. Chi sapeva mai! Con Garibaldi e con Bixio alla testa, tutto era possibile. Ma se invece fossero stati catturati e menati nel porto di Napoli, dove quel Re potesse veder Garibaldi e i suoi là, sotto le finestre della reggia, prima di farli morire forse tutti, o empirne le sue galere? Chi amava, pensava così e temeva e sperava; e forse non sarà mancato chi anche peggio della cattura avrà augurato una tempesta di cannonate sui due vapori e il fondo del mare a chi vi era su, per tomba. Ma i due vapori andavano ancora sicuri. E andarono tutta la notte e tutto il giorno dipoi, che era il 10, senza veder che cielo ed acqua come se fossero nell'Oceano. A bordo, i pavesi cantavano. Tutto era quieto. Solo a una cert'ora prima del mezzodì, ci fu un po' di trambusto, perché uno del Lombardo si era gettato in mare, pel dolore di non essere riuscito a farsi inscrivere nei Carabinieri genovesi. Fu subito fermato il vapore; una lancia vogò come saetta, giunse dove quell'uomo si dibatteva tra le onde, e uno della lancia si chinò, lo tirò su mezzo morto ma come fosse un gingillo. Quel forte dalle braccia così gagliarde doveva essere, era certo il figlio di Garibaldi. A bordo si diceva così, perché così le moltitudini fanno la loro poesia, e infatti quel forte era proprio Menotti. Dopo, sul meriggio, il Piemonte cominciò a filar via più spedito e il Lombardo a rimanere indietro. La distanza s'allungava ora per ora... Dove voleva andare il Generale così solo? Forse aveva pensato di dividere in due la spedizione, per non correre tutti la stessa sorte, se mai fosse stata avversa? Chi lo sapeva! Divisi, Piemonte e Lombardo, l'uno o l'altro sarebbero riusciti ad approdare, e riuscendo tutt'e due, una volta sbarcati, facile sarebbe stato riunirsi nell'isola. Era un nuovo dolore per quei del Lombardo, poiché se Bixio era Bixio, ben più fortunati erano coloro che si trovavano a correr le sorti del Generale, ora che la prova era così vicina. Finire con lui come che fosse, ognuno se lo poteva augurare. In un certo momento, mentre gli animi erano agitati così, Bixio chiamò tutti a poppa. Era furioso: Aveva scaraventato un piatto in viso a uno che s'era lamentato dei superiori, e aveva perduto a lui il rispetto. - Tutti a poppa! - E Bixio di lassù, dal ponte del comando, fremente come un'aquila librata sull'ali, già per piombare sulla preda, parlò: "Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato naufrago, prigioniero, ma son qui e qui comando io. Qui io sono tutto, lo Czar, il Sultano, il Papa, sono Nino Bixio. Dovete ubbidirmi tutti: guai chi osasse un'alzata di spalle, guai chi pensasse d'ammutinarsi. Uscirei col mio uniforme, colla mia sciabola, con le mie decorazioni, e vi ucciderei tutti. Il Generale mi ha lasciato, comandandomi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi impiccherete al primo albero che troveremo, ma in Sicilia, ve lo giuro, vi sbarcheremo." Veramente esagerava, perché l'atto di colui che lo aveva offeso era affatto individuale, e non meritava quel suo fiero discorso. Però quand'egli ebbe finito e voltò le spalle, forse per non farsi vedere commosso, tutte le braccia erano alzate a lui, tra grida di lode. Ma da quel suo discorso parve a tutti di aver indovinato che il disegno di Garibaldi era proprio di tentar lo sbarco, egli e Bixio, ognuno da sé. Difatti il Piemonte era già quasi fuori della lor vista, sicché prima che fosse notte fatta, non ne scorgevano neppur più il fumo. E passò sul Lombardo un soffio di gran malinconia. Erano congetture. Di certo vi era che cominciava la notte dei pericoli veri. Ormai la marineria napoletana doveva sapere da un pezzo che la spedizione era in mare, e che si era forse già tesa tutta davanti all'isola ad aspettarla. Garibaldi andava ad esplorare. Egli, prudentissimo e in guerra sempre geloso del proprio segreto, soltanto dopo salpato da Santo Stefano, poiché allora nessuno avrebbe più potuto propalar nulla, aveva detto al suo aiutante Turr di chiamargli Crispi, Castiglia e Orsini siciliani, per determinare il punto di sbarco. E in quella conferenza, abbandonato il suo primo pensiero di scendere a Castellamare del Golfo, aveva deliberato di tentarlo a Porto Palo, sulla costa tra Sciacca e Mazzara, dove è fama che il 16 giugno dell'827 siano sbarcati i primi Saraceni che invasero l'isola, chiamati e guidati da Eufemio di Messina. Ma certamente questo fatto di mille anni avanti non entrò per nulla nella scelta di Garibaldi: perché né egli, né quegli uomini che stavano con lui, se anche lo sapevano, erano teste da fissarvisi su. Comunque sia, per andare a Porto Palo, i due vapori dovevano fare falsa rotta verso la Berberia, e poi, se le acque parevano libere, voltar di colpo verso Sicilia a trovarlo. Ma assai dopo il mezzo di quella notte dal 10 all'11, Garibaldi giunto presso l'isoletta di Maretimo, che nel gruppo delle Egadi è la più lontana dalla costa di Sicilia, deliberò di fermarsi celato dall'isoletta e a lumi spenti, per aspettare il Lombardo. Da ponente e da tramontana vedeva i fanali delle navi napolitane in crociera, e in quei momenti doveva parergli d'esser ne' suoi tempi quasi favolosi di Rio Grande d'America. Stato un pezzo in quel silenzio come in agguato, inquieto pel Lombardo che non appariva, tornò indietro per cercarlo. E coloro che stavano sul Lombardo e che a quell'ora vegliavano, quando rividero il Piemonte lo credettero una nave nemica che corresse loro incontro a investirli. Lo credette lo stesso Bixio. Piantato sul suo ponte, egli fece levar su tutti e inastar le baionette; comandò al macchinista di dar tutto il vapore, e al timoniere di voltar tutto a sinistra, per andare alla disperata addosso a quel legno. A prora Simone Schiaffino, capitan Carlo Burattini d'Ancona, Jacopo Sgaralino di Livorno, con dietro una folla, stavano pronti per lanciarsi all'arrembaggio, tutto il ponte del Lombardo fremeva, e mancava poco al grand'urto. Ma allora sonò la voce di Garibaldi: - Capitan Bixio! - Generale! - urlò Bixio. - Indietro! Macchina indietro! Generale, non vedevo i fanali. - E non vedete che siamo in mezzo alla crociera nemica? - La commozione era stata così grande, il passaggio dallo sgomento, dall'ira, dalla ferocia alla gioia così repentino, che la parola 'crociera' non fece quasi niun senso, e tutto fino a un certo segno tornò quieto. Intanto Garibaldi e Bixio si concertarono, poi i due vapori ripresero la via l'un presso l'altro verso l'Africa, sempre però il Piemonte un po' avanti. Così andarono fino all'alba, e per le prime ore del mattino, in quell'acque tra la Sicilia e le coste di Barberia, ma senza mai perder di vista il gruppo delle Egadi; Levanzo lontana, Maretimo più in qua, ancor più in qua verso loro la Favignana. A bordo del Lombardo un Galigarsia, nativo di quell'isoletta, povero milite che doveva morire quattro giorni dipoi a Calatafimi, diceva ad un gruppo di quei suoi compagni che in quell'isoletta così bella v'era un carcere profondissimo sotto il livello del mare, dove stavano chiusi sette compagni di Pisacane sopravvissuti all'eccidio di Sapri. Condannati al patibolo e poi graziati, morivano ogni ora un po' in quella fossa maledetta. Ma il sentimento del pericolo presente, la maravigliosa vista delle cose in contrasto col disgustoso stato in cui tutti si trovavano, pigiati da tanto tempo su quel legno, non lasciavano quasi posto alla pietà per chi dolorava altrove. Del resto, l'ora era decisiva: o presto quei miseri sarebbero usciti liberi, o avrebbero avuto dei nuovi compagni. |
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La Sicilia! | |||||||||||||||||
Tutti
intanto sui due legni stavano accovacciati per ordine
severissimo dei Comandanti, ma tutti guatavano dall'orlo
dei parapetti certi monti che dapprima parevano
nuvolaglia e che svolgevano via nell'aria vaporosa i loro
profili sempre più netti. Quei monti per quei cuori eran
già tutta la Sicilia che si animava, che esultava, che
cantava alla loro venuta. E poco appresso, quando
cominciò ad apparire una striscia bianca tra mare e
terra, si diffuse la voce che là fosse Marsala. Marsala! Tra quella e i due vapori erano libere le acque. Che fortuna! Pareva che quella striscia bianca e tutta la terra movesse loro incontro, tanto la distanza si stringeva, tanto i due legni filavano agili, aiutati anche da un po' di ponente che appunto allora si era messo. Dunque ancora forse qualche breve ora, e i due vapori avrebbero atterrato. Tutto dipendeva da questo, che non si staccassero da Marsala navi da guerra a incontrarli a cannonate. Ma la speranza era grande. Sul ponte del Piemonte che andava sempre avanti, quei del Lombardo vedevano Garibaldi circondato da un gruppo dei suoi, coi cannocchiali all'occhio. Guardavano due legni da guerra bianchi, ancorati nel porto. Ad un tratto il Piemonte rallentò, si fermò quasi, pigliò su qualcuno da una barca peschereccia che veniva da Marsala. E da colui Garibaldi seppe che quei due legni erano inglesi; che dal porto di Marsala, nella notte, n'erano partiti due napolitani per Sciacca e Girgenti; che in quella mattina stessa delle milizie venute il dì avanti eran tornate via dalla città, dirette a Trapani. La fortuna, dunque, era proprio tutta dalla parte di Garibaldi! E il Piemonte filava e il Lombardo dietro con Bixio, che non sapendo ciò che Garibaldi sapeva, tempestava i suoi di star giù, minacciava ira ai marinai se gli sbagliassero manovra: Ma di sbarcare era anch'egli sicuro: anzi a un certo momento che passò vicino al suo un piccolo legno inglese, egli gridò: "Dite a Genova che il general Garibaldi è sbarcato a Marsala oggi 11 maggio, alle una pomeridiana!" Quella sicurezza di Bixio passò in tutti i cuori. Perciò non fece quasi senso l'apparizione di due pennacchi neri, lontani, in giù a destra; fumo di due navi da guerra certo, che dovevano venire a furia. Fulmini se mai giungessero in tempo! Ma esse quel tanto spazio non potevano divorarselo; la terra era ormai vicinissima: si distingueva già il molo e fino la gente. Un altro po' di ansietà, poi... |
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Lo sbarco | |||||||||||||||||
E poco
appresso il Piemonte imboccava il porto, e vi si andava a
posare in mezzo come in luogo suo. Bixio, nella rapina
dell'animo tempestosa, lanciò il Lombardo come un
cavallo sfrenato, andasse pure ad investire, a spaccarsi,
magari a sommergersi, tanto meglio! Così, una volta
sbarcati, quelli che vi stavan su avrebbero capito che
non v'era più via di ritorno. E si fermò così fuori
del molo destro, a poche braccia da quella riva. Era il
tocco dopo mezzodì. Nessuna poesia potrà mai dire l'anima
di quella gente in quell'ora. Ecco il momento degli uomini di mare. Benedetto Castiglia, capo della marineria da guerra sicula nel 1848; capitano Andrea Rossi da Diano Marina, capitan Giuseppe Gastaldi da Porto Maurizio, Burattini, Assi, Sgarallino, Schiaffino e tutti quelli che com'essi erano marinai, scesero a raccoglier nel porto quante barche vi si trovavano. E per amore o per forza le fecero lavorare. Bisognava far presto a levar la gente e le poche cose da guerra e le artiglierie dai due vapori, perché in men di due ore quelle navi che si vedevano sempre più vicine potevano giungere a tiro e fare una strage. Intorno al Lombardo e al Piemonte parve un finimondo. Intanto Turr con Missori, Pentasuglia, Argentino, Bruzzesi, Manin, Miocchi, discesi primi, salirono alla città, su cui cominciavano a sventolare bandiere d'altre nazioni, ma le più inglesi. E dalla città alcuni cittadini calavano al porto timidamente. Dei ragazzi li precedevano a corsa; sopraggiungevano frati bianchi, che davano poderose strette di mano a quegli strani forestieri sbarcati in armi e tutti vestiti alla borghese, salvo pochi in qualche divisa piemontese o in camicia rossa, forse una cinquantina. E quei frati facevano delle domande strane, da curiosi ma semplici; e udendo da uno dir che era di Venezia, da un altro di Genova, di Milano, di Roma, di Bergamo, inarcavano le ciglia, maravigliati come se l'esser essi potuti giungere nella loro Sicilia da quelle città, fosse cosa quasi fuori del naturale. In un'ora o in un'ora e mezzo al più, tutta la spedizione fu a terra. Qualcuno si ricordò che quel giorno era venerdì, malaugurio; qualcun altro disse che era pur venerdì il giorno in cui Colombo partì da Palos, e che andassero al vento le superstizioni...! Ma a un tratto tuonò una prima cannonata. Le navi borboniche giungevano a tiro. Erano tre: due a vapore più vicine, la terza a vela tirata a rimorchio da una di esse e lasciata poi indietro per far più alla lesta. Ma anche quella si avvicinava. E avrebbe potuto tirar qualche poco prima, ma avevano indugiato alquanto i lor fuochi, perché i due legni inglesi Argus e Intrepid ancorati nel porto avevano pregato a segnali di bandiere di non tirare, finché i loro uffiiciali da terra non fossero tornati a bordo. Difatti dei marinai in calzoni bianchi uscivano da Marsala e scendevano frettolosi al mare. E allora quelle navi cominciarono a sfogarsi contro gli sbarcati, le due a vapore con tiri quasi in cadenza, quella a vela addirittura a fiancate. Però i loro proiettili o davano in acqua, sguisciando poi a rotolar sulla riva già mezzi morti, o non oltrepassavano guari la linea del molo. Cadde qualche granata in mezzo alle compagnie già ordinate, ma queste pronte, si gettarono a terra e lasciarono scoppiare: una di quelle colpì e sfasciò mezzo un casotto da doganieri del molo; un'altra fece tremare la settima Compagnia, passandole parallela alla fronte, così che due braccia più a sinistra la mieteva tutta. "Alte le teste!" gridò Cairoli; e la Compagnia stette salda. Alfine fu dato il comando di salire alla città. Manin e Maiocchi regolavano la corsa a gruppi. Un po' curvi, un po' carponi, un po' ritti, regolandosi alle vampate dei cannoni nemici, correvano quei gruppi su per il pendio verso la porta della città e vi entravano. Cara Marsala! E di qua e di là si spandevano per le vie traverse, perché in faccia a quella maestra era andata a porsi una delle fregate, e tentava, coi suoi tiri, d'infilare la porta. Poca gente per quelle vie; degli usci si chiudevano; dalle soglie d'altri usci e dalle finestre donne e uomini guardavano paurosi; e ve n'erano che applaudivano, i più parevano gente trasognata. Garibaldi, sbarcato degli ultimi,
saliva anch'egli ma lento alla città, portando la
sciabola sulla spalla come un contadino la zappa. E ogni
poco si volgeva a guardar il porto. Gusmaroli e altri
pochi che lo seguivano, avrebbero voluto portarlo via di
peso dal pericolo d'essere ucciso o soltanto ferito in
quel primo istante. Senza di lui non si sapeva cosa
sarebbe stato di quel gruppo d'uomini, fossero pur molti
i grandi e i forti tra loro. Egli da solo era un esercito.
Ma nessuno osava dirgli che si guardasse, nessuno, neppur
Bixio, venuto via addirittura l'ultimo da bordo. Egli
aveva voluto prima far portare a terra tutto ciò che gli
era parso buono a qualcosa, poi non avendo più nulla da
farvi, aperti egli stesso i rubinetti delle macchine
affinché il Lombardo s'empisse d'acqua, era disceso. |
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Il proclama | |||||||||||||||||
A guardia
del porto, se mai dalle navi borboniche sbarcasse della
gente, rimasero la 7° Compagnia e i Carabinieri genovesi.
Con le loro infallibili carabine, quei genovesi, che, per
dir così, davano in una capocchia di chiodo a trecento
metri, avrebbero presto levato ogni voglia di sbarcare a
chi l'avesse tentato. Da mare dunque Garibaldi non aveva
da temere. Da terra sì. Per questo mandò ricognizioni
verso Trapani e verso Sciacca, fece uscire dalla città
quanto poté più delle Compagnie, fors'anche non si
fidando dei vini del paese pei loro effetti sulle teste
di quei suoi uomini, i quali in cinque giorni non avevano
mangiato che poco biscotto e bevuto acqua di botte quasi
imputridita. Per esplorare il paese montò egli stesso
sulla cupola della Cattedrale, cui passarono subito ben
vicine due granate delle navi che avevano visto gente
lassù. Disceso andò al Municipio, e di là disse alla
Sicilia la sua prima parola:
Di questo proclama,
affisso alle cantonate di Marsala, furono mandati
esemplari alle città vicine, e lontano alle squadre che
tenevano i monti. Bisognava che la gran voce andasse, e
infiammasse la rivoluzione già quasi vinta. * Dunque la gran notizia era
andata, e a quell'ora la avevano già a Napoli nella
reggia. Ivi che sgomento e che collera! Se ne aspettavano
ben altra. Il giorno 6 avevano saputo della partenza di
Garibaldi da Genova, e protestato col telegrafo a tutte
le Corti d'Europa contro il Pirata e contro chi lo doveva
aver favorito. La mattina del 7, il Re era andato a far
le sue divozioni a San Gennaro, e il Governo aveva
mandato ordini alla flotta "d'impedire a ogni costo
lo sbarco dei filibustieri; di respingere con la forza;
di catturare i legni." Poi erano stati quattro
giorni d'angoscia mortale. E ora lo sbarco era avvenuto!
Ma ancora assai che l'invasore era andato a mettersi dal
punto più lontano dalla Capitale! Tempo e spazio per
schiacciarlo non sarebbe mancato. Pure il colpo era
tremendo. |
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Parte terza | |||||||||||||||||
Alla
chiamata non mancava neppure un uomo. Ed era naturale.
Ognuno sentiva in sé il pericolo di rimaner isolato;
ognuno, per quanto piccolo, aveva coscienza della propria
responsabilità. Quasi staccati dal mondo, ridotti per
dir così in un campo chiuso dove erano discesi a
mettersi da sé, comprendevano, chi più chi meno, molti
forse confusamente, che trovarvisi non voleva dire
soltanto essere in guerra contro altri soldati ne' quali
da un'ora all'altra si sarebbero imbattuti; e che quella
che erano venuti a cercare non era una guerra come tutte
le altre. Vincere dovevano ad ogni costo, perché dall'isola
non potevano più uscire che vincitori; ma soprattutto
bisognava non lasciar perire Garibaldi. Era coscienza
dunque che ognuno desse tutto sé stesso, e che tutti
insieme si facessero amare dal popolo siciliano per
virtù e purezza in tutte le azioni. Perciò si udirono
fieramente rimproverar dai compagni certi pochi che nella
notte s'erano dati bel tempo. Diceva Enrico Moneta da
Milano, piccolo soldatino della 6° Compagnia, di
diciannove anni, uno dei quattro fratelli che l'anno
avanti erano stati Cacciatori delle Alpi, diceva che chi
era là per aiutare quel mondo a mutarsi, doveva badare
ad essere austero ancor più che prode. - Per di più,
quella che stava per accendersi era sotto un certo
aspetto una vera guerra civile. E se per quella trafila
doveva passare l'Italia a divenire nazione, bisognava
badare a farsi onore e a far onore anche al nemico pur
vincendolo, per lasciargli possibile l'oblio della
sconfitta senza viltà, e facile e pronto il ritorno all'amore. Tali spiriti si venivano formando negli animi anche di quelli che non avrebbero saputo spiegarsi a manifestarli, così come uno quasi senza che se ne avveda si ritempra d'aria pura. Schierate fuor
di Marsala sulla via che mena a Sciacca, stavano tutte le
compagnie con gli altri piccoli corpi. Il tempo era bello
e fresco, la guazza sull'erbe magre di quello spiazzo
pareva quasi una brinata. Il mare dormiva: lontani, già
verso l'Egadi, i legni napolitani rimorchiavano il
Piemonte. E per tutto era una quiete diffusa, anche nella
città che pareva avesse già dimenticato il turbamento
del giorno innanzi. Pochi cittadini si aggiravano intorno
alle compagnie. Qualcheduno armato di doppietta era là
per seguirle. Faceva senso tra gli altri un signore,
forse di trentacinque o quaranta anni, taciturno e
pensoso. Si chiamava Gerolamo Italia. Egli di là fino
all'ultimo di quella guerra nel Regno, marciò poi, fido
alla 6° Compagnia, semplice milite, sempre pensoso e
modesto. * Finalmente quando già si
faceva sera, apparve lontano un corpo di casa massiccio e
scuro, su di un rilievo un po' più spiccato di quella
campagna. Era il maniero di Rampagallo, quello che si
chiamava bellamente feudo, come se là il feudalesimo
fosse ancora una cosa viva. E tutto, dai muri massicci,
alle finestre, alla gran porta, ai cortili dentro, ai
contadini che vi si aggiravano, tutto vi aveva infatti
una fisionomia d'antichità corrucciata. |
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A Salemi | |||||||||||||||||
A levata di
sole, il giorno appresso che era domenica, la colonna si
mise in cammino. Andava alla testa la 1° Compagnia con
Bixio, il quale aveva l'ordine d'avanzarsi fino a Salemi,
grosso borgo che fu presto veduto apparire lontano in
cima a un monte. Bella vista a guardarlo, ma poveri petti!
La salita lassù fu faticosissima e lunga; però, quando
le compagnie vi giunsero, provarono un forte
compiacimento. Tutta la gente aspettava gridando: "Garibaldi!
Garibaldi!" storpiandone il nome con alterazioni
strane; ma insomma era un vero delirio. E le campane
squillavano a festa; e una banda suonava delle arie
eroiche. Via via che le compagnie giungevano nella piazza,
si trovavano avvolte da uomini, da donne, persin da preti;
e tutti abbracciavano, molti baciavano, molti porgevano
boccali di vino e cedri meravigliosi. Ma v'erano anche
dei poveretti, troppi! i quali stendevano la mano per dar
a capire d'aver fame, facevano certi segni da parer
nemici se non fossero stati i loro occhi pieni di umiltà.
- E noi pure abbiamo fame! - rispondevano quei soldati
stizziti, ma parecchi davano degli spiccioli a quella
povera gente, che largiva loro dell'Eccellenza. E Garibaldi qual è? Domandava la folla. Passava Turr. E' questo? No. Passava Carini. Dunque sarà questo? No. Ognuno dei più belli e prestanti tra i grandi della spedizione, per essa doveva essere Garibaldi. Chi sa quale se lo immaginavano! Ma quando lo videro, quei siciliani quasi quasi si inginocchiarono. Oh che viso, che testa, che santo! Egli sorridendo si levò come poté dalla turba, e andò a mettersi al suo lavoro. Cominciava così a formarsi intorno a lui la leggenda che pigliò poi tante forme; da quella che un angelo gli parasse le schioppettate, a quell'altra che fosse parente di Santa Rosalia e fin suo fratello. Stettero poco a giungere delle cavalcate da tutte le parti, e poi drappelli di insorti come quei della notte avanti, a cento, ducento, trecento; e chi portava lo schioppo ancora a pietra focaia, chi la doppietta, chi fino il trombone. I più erano armati di picche, e tutti insieme, per quelle viuzze a salite e discese ripide, facevano un chiasso più da sagra che da rivoluzione. Ma si udivano anche delle grida ingiuriose ai Borboni, e delle canzoni che ferivano il nome di Sofia regina. E spiacevano. Dopo mezzodì fu affisso alle cantonate un proclama. Ah! Ora dunque tutto è nelle mani sue! - dicevano i militi, e pareva loro che quel titolo di Dittatore infondesse una forza di disciplina superba. E pensavano al nemico. Non si sarebbe fatto vedere! O bisognava andare a trovarlo? Già, di salir lassù a Salemi per trovar loro, non avrebbe certo tentato. Chi sapeva mai! Ma a buon conto, già dalle prime ore, erano partiti per gli avamposti i Carabinieri genovesi, e più lontano ancora era andata una mezza squadra della Compagnie di Bixio. In quella squadra, comandata dal giovanissimo Ettore Filippini veneziano, si trovavano da semplici militi Raniero Taddei ingegnere e Antonio Ottavi tutt'e due da Reggio Emilia, ufficiali esperti e considerati nelle guerre passate; e così da quella parte il servizio di campo era bene affidato. Intanto gli artiglieri avevano già piantato alla meglio una sorta di officina, dove lavoravano a costruir gli affusti pei canoni di Orbetello. Giuseppe Orlando e Achille Campo, coi soli e primitivi strumenti che avevano potuto trovare dai carrai di Salemi riuscivano a far miracoli di meccanica; e il giorno dipoi i tre cannoni e la colubrina, rimessa un po' a nuovo anch'essa sul suo carretto, facevano buona promessa che nello sparo non si sarebbero, rimboccandosi indietro, avventati addosso ai loro serventi. E quel giorno fu veduto giungere in Salemi un giovane monaco, raggiante di quell'allegrezza che ognuno ricorda d'aver letto in viso ai sacerdoti del '48. Chi non aveva udito benedire la patria da qualche pulpito, in quell'anno che pareva ancora tanto vicino? E poi appresso, dall'oggi al domani, le chiese erano divenute mute. Pio IX s'era disdetto, e la coscienza delle moltitudini tra la patria e la religione s'era confusa. Pure, a non lungo andare, le moltitudini avevano poi ripreso lume da sé, e poiché la patria doveva a ogni modo rifarsi, o s'erano messe ad aiutar la grand'opera, o se non altro avevano lasciato che si andasse svolgendo, spettatrici non ostili né indifferenti. Ma laggiù nell'isola, dove il clero viveva ancora delle passioni civili del popolo, i sacerdoti in generale erano caldi patriotti. Quel monaco si chiamava fra Pantaleo. Era un bello e robusto giovane di forse trent'anni, che parlava come se fosse uscito allora da un cenacolo miracoloso, donde avesse portato via il fuoco degli apostoli nell'anima e nella lingua. Piacque ma non a tutti. Tra quella gente dell'alta Italia, v'erano i diffidenti e gli avversi per sistema agli uomini di chiesa; ma poiché Garibaldi accolse bene il monaco, e lo chiamò l'Ugo Bassi delle sue nuove legioni, anche quelli rispettarono il frate e lo lasciarono predicare. Intanto riconoscevano che la parola di lui immaginosa e ardente era una forza di più. Continuavano ad arrivare squadre alla spicciolata, e tra quello scorcio di giornata e tutta l'altra appresso si poté calcolare alla grossa che quegli insorti fossero già due migliaia. Non dovevano essersi mossi da lontanissimo, anzi era da presumersi che fossero tutti della estrema parte occidentale dell'isola; dunque una volta che Garibaldi si fosse avanzato verso il centro, si sarebbe trovato tra popoli che avrebbero fatto levar su il fiore della gioventù pronta a seguirlo. Frattanto quelli che erano già lì si mostravano ossequenti, guatavano con occhio cupido i fucili del Mille, che per quanto meschini erano sempre armi da guerra; ma discorrendo di fatti d'arme, essi così saldi a star al fuoco e a sparar da fermi contro il nemico, essi così destri e fieri nei loro duelli ad armi corte, se sentivano parlar d'attacchi alla baionetta, quasi raccapricciavano. Piovve dirotto tutta la notte tra il 13 e il 14, e poi tutto quanto questo giorno con tedio grande e grande stizza di tutti, perché il mal tempo li faceva indugiar lassù in quell'ozio. Ed essi erano tormentati da un desiderio inquieto di trovarsi alla prima prova, per esperimentare il nemico con cui avevano da fare, e di cui, non sapendo nulla di preciso, sentivano dir le cose più stravaganti. Neppur dagli avamposti avevano segno che fosse in movimento. Che faceva? |
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Il nemico | |||||||||||||||||
Da Palermo,
sin dall'alba del 6, era partita una colonna comandata
dal generale Landi, vecchio di settant'anni, promosso di
fresco a quel grado. Da soldato egli aveva combattuto
contro le rivoluzioni siciliane, sin da quella del 1820,
ed era venuto su grado grado in quella milizia stagnante,
che sentiva d'essere mantenuta più per assicurare il Re
contro i sudditi che per difendere il Regno. Questo se ne
stava infatti sicuro, coperto com'era dallo Stato
pontificio e protetto dal mare. Quel Landi era un uomo pio. In marcia si era fermato a sentir messa a Monreale, per santificare la domenica, proprio quella domenica in cui Garibaldi con la spedizione faceva il suo primo giorno di mare. Poi, continuando la sua via molto adagio, andando in carrozza alla testa della sua colonna, il 12 aveva fatto sosta in Alcamo. Di là partito la notte per Calatafimi, v'era giunto la mattina del 13, appunto mentre Garibaldi saliva a Salemi. Da Calatafimi aveva scritto lettere dogliose al Comandante in capo dell'isola, annunziando che prima di marciar su Salemi, dove sapeva trovarsi una banda di 'gente raccogliticcia', voleva aspettare un battaglione del 10° di linea che gli avevano promesso. Ignorava ancora lo sbarco di Garibaldi, ignorava che quelle genti raccogliticce erano i Mille con Garibaldi in persona. Ma, il 14 sapeva già qualche cosa di più, e scrivendo parlava di 'emigrati sbarcati'. Si proponeva d'andare il 15 ad attaccarli. Poi risolse d'aspettar a Calatafimi, "posizione tutta militare, molto vantaggiosa all'offensiva ed alla difensiva ed essenzialmente necessaria ad impedire che le bande si scaricassero su Palermo da quel lato della Consolare". E il 15, fermo nel suo proposito, scriveva che "tentare un assalto a Salemi sarebbe un'imprudenza ed un avventurare la colonna fra la imboscata nemica." Mostrava dunque di ignorare il numero degli avversari ma di temerli: e veramente spie la Sicilia non ne diede a lui allora, né ad altri dopo; però egli li chiamava già 'Garibaldesi'. Tuttavia non nominava Garibaldi quasi che a scriver quel nome temesse di vedersi apparir lì innanzi il terribile uomo. Forse ripensando al passato, rammentava che quel giorno stesso cadeva l'anniversario di due grandi fatti: il 15 maggio del 1848, re Ferdinando spergiuro aveva fatta far la strage nelle vie di Napoli, chiuso il Parlamento, tradita la nazione; il 15 maggio del 1849, oppressa la rivoluzione in tutta la Sicilia, il generale Filangeri era entrato in Palermo vittorioso. E rammentando, forse quel povero Landi sperava. * Non si potrebbe dire se
Garibaldi, pensando anche egli a quelle date, abbia
aspettato quel giorno 15 come una scadenza di buon
augurio. Un po' preso da certi fili era egli pure, e
spesso la sua bella stella Arturo guardata da lui gli
aveva fatto venir su dal cuore il consiglio buono.
Comunque sia, all'alba del 15 maggio, fatto leggere alle
compagnie un suo ordine del giorno che piantava nei cuori
le risoluzioni supreme, mise il suo piccolo esercito in
marcia. |
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La bandiera | |||||||||||||||||
Durante una
breve sosta, che fu fatta fare alla colonna, passò l'ordine
di mandar la bandiera al centro della 7° Compagnia,
quella del Cairoli. Da Marsala fin là, quella bandiera l'aveva
custodita la 6° del Carini. E la portava Giuseppe Campo
palermitano, uno che nell'ottobre avanti aveva tentato la
rivoluzione a Bagheria presso Palermo, e che lasciato
quasi solo era fuggito dall'isola a Genova. Ma ora
tornava portabandiera dei Mille. Egli dunque con sei
militi della 6° andò al centro della 7° salutato da
questa con molto onore. E allora alla bandiera fu tolto
per la prima volta l'incerato da Stefano Gatti mantovano.
Sfavillarono al sole da una parte del drappo, ricchissimi
nei tre colori, emblemi d'argento e d'oro che figuravano
catene infrante e cannoni ed armi d'ogni sorta, con su un'Italia,
in forma d'una bellissima donna trionfante colla corona
turrita. E dall'altra parte, a lettere romane trapunte in
oro, spiccava questa leggenda: A Giuseppe Garibaldi Su tre grandi nastri
pendenti dalla cima dell'asta tutto bullettine d'oro,
brillavano pure d'oro tre parole che allora facevano
sospirare come roba da sogni impossibili ad avverarsi,
tre cose che ora perché si hanno pare siano sempre
esistite: 'Indipendenza, Unità, Libertà'.
Allora volevano esprimere semplicemente delle speranze e
dei voti, ma dicevano insieme che i donatori di quella
bandiera, in quelle terre d'America da dove veniva, tra i
nativi e gli stranieri, sentivano più amari che in
Italia il rammarico, la vergogna, il danno di non avere
un nome patrio come gli inglesi, i francesi, gli
spagnuoli, tutti gli europei emigrati come loro, pur
sentendosi, da lavoratori, pari e forse migliori. Ciò
forse avevano voluto significare a Garibaldi, mentre egli
dolente era passato pei porti del Pacifico: ed egli ora
in quell'angusta valletta siciliana, tra gente nata e
tenuta nell'ignoranza dell'esistenza d'un'Italia,
sventolava quella bandiera e gettava le sorti della
nazione. |
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Il combattimento | |||||||||||||||||
Dal 1814
quando i napolitani di Murat salirono fino al Po, senza
saper bene se si sarebbero incontrati amici o nemici coi
loro vecchi commilitoni dell'esercito italico del Viceré
Eugenio; e poi si offesero scambiando con essi delle
cannonate: da allora non si erano più trovati di fronte
italiani delle due parti estreme, armati per darsi
battaglia. L'ora dunque era solenne. I due piccoli eserciti stettero ancora un pezzo a guardarsi. Garibaldi su di una sporgenza del colle, tra certe rocce che gli facevano riparo dinanzi a mezzo la persona, stava con Turr, Sirtori, Tukory, osservando il nemico. Aveva dato l'ordine di tener chete le Compagnie che non sparassero, e queste stavano chete, anzi a terra sdraiate. I Carabinieri genovesi erano stati messi avanti a tutti, già un po' più giù nel pendio verso il nemico: dietro di loro la 8° e la 7° Compagnia giacevano stese in cacciatori a quadriglie, e così era formata da loro la prima linea. La 6° e la 5° Compagnia sul ciglio del colle, sdraiate anch'esse in ordine aperto formavano la seconda linea; tutto il battaglione di Bixio, e cioè la 4°, la 3° e la 2° Compagnia, stavano in riserva sul versante dalla parte di Vita, ma solo pochi passi dal ciglio; più in giù, quasi alla falda, era rimasta la 1° Compagnia, quella di Bixio, il quale la aveva lasciata al suo luogotenente Dezza. Egli si era portato avanti forse per trovarsi sempre vicino al Generale, per non perderlo di vista mai, quasi che in caso di sconfitta si sentisse di salvarlo, o, non lo potendo, volesse morirgli al lato. Passavano le ore, e Garibaldi, che di solito preferiva assalire, non si risolveva all'attacco. Sperava forse che nelle file nemiche si destasse qualche sentimento italiano? Chi lo sa! Ma si può crederlo perché aveva ordinato di portar nel punto più alto la bandiera tricolore, e di farla sventolare. Ad ogni modo sembrava che avesse risolto cavallerescamente di lasciar ai Napolitani il vanto d'assalir primi. E verso il tocco squillò una tromba napolitana. Uno dei garibaldini, certo Natale Imperatori della 6° Compagnia Carini, che conosceva quella sonata, disse subito: "Vengono i Cacciatori!" E difatti, contro il grigio e il verde del suolo, furono viste prima come un formicolio, poi più nette, spiccate le divise cilestrine discendere alla sfilata, agili, giù pei terrazzi del loro colle, serpeggiando tra i ciuffi di fichi d'India. Erano addirittura due Compagnie. Giunti all'ultima falda del colle, s'avanzarono pel po' di spazio che faceva la valletta, e cominciarono i loro fuochi di sotto in su contro i garibaldini della prima fronte. Questi erano i Genovesi. Chi li poteva tenere che non rispondessero al fuoco delle quadriglie? Pure durarono un pezzo senza sparare e peritissimi al tiro giudicavano impediti i nemici le cui palle passavano miagolando molto in alto: ma alla fine cominciarono anch'essi con le loro carabine di pochissimo scoppio, ma secco, acuto, e le palle andavano al segno. Allora quei Cacciatori si arrestarono a scambiare ancora pochi tiri, così da fermi, coi Genovesi. Ma subito le trombe garibaldine suonarono l'attacco alla baionetta. Bisognava levar le Compagnie dalla tentazione di sprecar di lassù le munizioni, perché i più non avevano che dieci cartucce, e i fucili non portavano più che a quattrocento metri. Le Compagnie, a quegli squilli, balzarono ritte come sorgessero dalla terra improvvise, e si rovesciarono giù dal colle una dietro l'altra, correndo scaglionate oblique giù per la china, ma mirabilmente composte, poi s'allargarono in ordine sparso, quando i cannoni napolitani cominciarono a trarre granate. Lo narrarono poi molti che stavano allora nelle file nemiche. Quel movimento, fatto così di lancio e con sicurezza da veterani, produsse in loro un effetto indicibile. Ma non si sgomentarono. E fu bene, perché per la loro mirabile resistenza meritarono d'esser lodati nell'ordine di Garibaldi il giorno appresso; e la lode poté forse sugli animi più della stessa vittoria riportata da chi li lodava. Così il bel fatto d'arme era cominciato. In un lampo le due Compagnie di Cacciatori furono spazzate via, lasciando esse alcuni caduti in quel fondo, bei giovani d'Abruzzo, di Calabria, di chi sa quale di quelle terre delle rivoluzioni gloriose e infelici. Sul berretto elegante a barchetta, portavano il numero 8 - 8° Cacciatori! - E indossavano delle divise di tela cilestrina, giubba corta, elegante, su cui s'incrociavano pittorescamente le corregge degli zaini e della fiaschetta a zucca, schiacciata e foderata di cuoio. La loro carabina, pei tempi d'allora, era perfettissima, e la daga baionetta faceva pensare a quelle terribili degli zuavi. Poveri ragazzi! Come fanno stringere il cuore l'eleganza delle divise indosso ai morti sui campi, e quelle cose e quei numeri e quei nomi dei corpi! Coloro che giacciono non hanno più né vita né nome, né paese né nulla: a casa loro i parenti non sapranno la zolla che beve il loro sangue, né l'erba su cui spirarono l'ultimo fiato. Solo non li vedranno mai più; essi son morti. Triste cosa la guerra! Ma allora pareva ancora bella perché vi si poteva patire, morire, per far trionfare un'idea, più che perché vi si potesse provar la gioia e la gloria di vincere. Rispettate i nemici, rispettate i feriti! - gridò Francesco Montanari di Mirandola, caduto per grave ferita su quel colle - sono italiani anch'essi! - E la sua faccia severa, quasi dura e in quel momento contratta dal dolore, parve trasfigurata da quella sua sublime pietà. A che ormai descrivere il fatto d'armi di Calatafimi? Le battaglie, da quelle che descrisse Omero all'ultima della storia moderna, si somigliano tutte. Sono furia d'uomini contro uomini che s'avventano gli uni agli altri, dandosi a vicenda da vicino o da lontano la morte, con più o meno arte, secondo i tempi. Cortesi fin che si vuole, i combattenti son sempre ancor poco diversi "dagli uomini sul vinto orso rissosi." Eppure leggiamo rapiti dalle narrazioni, ammirando fatti che in sé sono atroci, e ci esaltiamo e chiamiamo magnanimo tanto chi dà come chi riceve la morte in campo. Ci pare sovrumano il maresciallo Ney a Vaterloo, quando nella tragica ora della sconfitta già imminente, grida con voluttà disperata che vorrebbe tutti nel petto i proiettili dei cannoni inglesi rombanti nell'aria. Sublime ci pare quell'oscuro lanciere francese, che là, in una delle ultime cariche di cavalleria, gittò la sua lancia in mezzo a un quadrato inglese, per andare a raccattarla come per gioco in quel quadrato; e spronò e balzò e cadde egli e il suo cavallo sulle siepi di baionette, schiacciando altri e morendo. Chi mai ci pare più grande di lord Cardigan, quando ricevuto l'ordine di assalire la batterie russe a Balaclava, sa che vi morrà egli, l'ultimo di sua schiatta, forse con tutti i suoi seicento cavalieri; ma snuda la spada e gridando: "Avanti, ultimo dei Cardigan!" galoppa alla morte come se volasse al cielo? Ma quel Montanari e quel suo grido, son ben più degni di storia. Quello di Calatafimi fu fatto d'arme che appena potrebbe stare come frammento episodico di una di quelle grandi battaglie. Eppur e per l'importanza e per l'influenza sua sulla vita della nostra nazione, conta quanto e forse più di ciascuna d'esse per le altre. E il Generale? L'arte di Garibaldi, mirabile già nell'aver saputo creare in tutti i suoi un sentimento profondo, sicuro, superbo della loro situazione, nei tre giorni avanti; in quello del fatto d'armi, stette tutta nell'averseli tenuti stretti nel pugno come un fascio di folgori, fino al momento in cui, non essendo più possibile in nessun modo lasciare il campo non vincitori, poté abbandonar ognuno al comando di sé stesso, certo egli che da quel momento si sarebbero svolte le più recondite virtù e le forze e l'ingegno d'ognuno, dalla calma pontificale di Sirtori al furore di Bixio, all'impeto geniale di Schiaffino, all'audacia di Edoardo Herter, d'Achille Sacchi, di cento altri, e, si può dire di tutti, perché un codardo che è uno, in quell'ora, in quel luogo, non ci poté più essere. E il merito di questo miracolo fu tutto del Generale. L'anima sua era entrata, era presente in tutte quelle anime, fosse egli in qual si volesse punto del campo. Due momenti della pugna furono esclusivamente suoi: uno, quello di quando Bixio, che era Bixio, osò domandargli alla maniera sua se non gli paresse il caso di battere in ritirata, ed egli rispose che là si faceva l'Italia o si moriva: l'altro, quello dell'ultimo assalto, quando tutti rifiniti boccheggiavano sotto il ciglio del colle, su cui si erano ridotte via via risalendo le schiere nemiche scacciate da terrazzo a terrazzo in su. Là disperavano tutti, non egli, che parlando pacato andava per le file come un padre con gli occhi rilucenti di lagrime: "Riposate, figliuoli, poi un ultimo sforzo e abbiamo vinto." Fu in quel momento che lo colpì nella spalla destra uno dei sassi che i borbonici facevano rotolar giù; ma egli non degnò mostrare d'essersene accorto, e continuò a mantenere quell'aria sicura che creava la sicurezza altrui, in quel quarto d'ora in cui, se i borbonici avessero osato rovesciarsi giù alla baionetta, in più di duemila quanti erano ancora, la rotta era sua. Essi invece, raccolti lassù, urlavano: 'Viva lo Re'; rotolavano sassi, e tiravano schioppettate a chi si faceva su dal ciglio a guardare. Uno di questi fu Edoardo Herter da Treviso, medico di 26 anni. Pareva una damigella bionda vestita da uomo, tanto aveva esile l'aspetto, ma i suoi muscoli erano d'acciaio. Parlò con Garibaldi un istante, poi si lanciò su per un greppo. 'Ah piangerà tua madre!' fu cantato di lui, e appena su, cadde riverso colpito nel petto a morte. In quel momento l'artiglieria garibaldina tuonò di giù dalla strada, dove alla fine aveva potuto mettersi a tiro, e un suo proiettile andò a cadere tra i regii. Fu come il segno della ripresa, perché poco appresso si fece come un subbuglio, e fu gridato: "La bandiera, la bandiera in pericolo!" E la bella bandiera di Valparaiso fu veduta salire, come se andasse da sé, trascinando dietro ai lembi delle sue pieghe quanti vi s'affollavano presso. Passata dalle mani di Giuseppe Campo a Elia, a Menotti, a Schiaffino, ora Schiaffino la portava all'ultima prova. E giù, staccati dalla loro fronte, uno stormo di napolitani corsero per pigliarsela. Allora le si formò un viluppo intorno, cozzo breve, fiero, feroce, vera mischia; e la bandiera sparì, lasciando uno dei suoi nastri nel pugno di Gian Maria Damiani. E Schiaffino, il superbo nocchiero del Lombardo, giacque là morto. E' questo il momento d'annunziarmi una pubblica sciagura? - gridò Garibaldi a chi gli dava notizia di quella morte. Ma proprio in quel momento, in un altro punto della battaglia scoppiava un urlo di gioia... Un cannone era preso. Fumigava ancora la sua gola dell'ultimo colpo sparato contro quelli che vi s'erano lanciati su primi, primo Achille Sacchi da Pavia, giovanetto di diciassett'anni, che cadde già con le mani sulla volata di quel pezzo e giacque morto. "Ancora uno sforzo!" e lo sforzo era fatto. Erano balzati su fino i moribondi; l'ultimo assalto alla baionetta fu veramente meraviglioso. I napolitani non vi ressero, si volsero, rovinarono via. Non però tutti in fuga. Avevano cominciato i Cacciatori e i Cacciatori finivano. Mentre la fanteria e i Carabinieri napolitani si ritiravano confusi giù pel declivio del colle perduto; quei Cacciatori, come stessero in un campo a istruirsi, facevano le loro fucilate a quadriglie, allontanandosi lentamente. Fin Garibaldi stette a mirarli un pezzo, in quelle loro belle mosse; ma poi diede ordine di caricarli a una delle Compagnie che appena conquistato il colle, già si erano quasi riordinate intorno ai loro ufficiali. Corse la 6°, Carini. E quell'ultimo strascico del fatto d'arme fu presto levato. Tutta la colonna borbonica si sprofondò nel vallone, sparì un momento, poi ricomparve di là. Saliva l'erta per Calatafimi. La chiudeva un manipolo di cavalli, forse mezzo squadrone, che durante il combattimento s'era tenuto giù sullo stradale, certo aspettando di potersi gettare sui nemici vinti a sciabolarli. Invece ora proteggeva la ritirata ai suoi. Dal campo di battaglia fu vista quella gente serpeggiare su per l'erta lunga, stendersi e di nuovo sparire poi più su, a poco a poco, in Calatafimi. |
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Dopo la vittoria | |||||||||||||||||
Sul colle
conquistato riposarono i vincitori. E cominciò subito la
raccolta dei feriti gravi, che non avevano più potuto
reggersi, e giacevano giù pei fianchi del colle, molti,
troppi, per un fatto di così pochi combattenti e di
così corta durata. Tra grave e non gravi erano 182, i
morti 31. Le ferite erano orribili, lacerate, larghe,
massime quelle fatte dalle palle ogivali cave dei
Cacciatori. Pochi napolitani che i loro non avevano
potuto portar via, si lasciavano pigliar su meravigliati
di vedersi trattati bene, mentre s'erano forse aspettati
d'essere uccisi. All'allegrezza della vittoria si
mescolava così quella grande malinconia. E s'era messo
un vento freddo che faceva frizzar la pelle. Calavano
intanto dalle montagne le squadre dei 'Picciotti', e
invadevano il campo di battaglia, meravigliati anch'essi
del combattimento contemplato dall'alto, come dai gradini
d'un anfiteatro una lotta di gladiatori. Garibaldi guardava sempre una strada che da ponente, per una gola, metteva in quella specie di conca da cui sorgevano su i due colli, quello della sua posizione del mattino e quello conquistato su cui si posava coi suoi. Forse temeva l'arrivo di un corpo nemico da Trapani. Ma aveva fatto mettere gli avamposti, e dato l'ordine a Bixio di collocare le artiglierie. Aveva anche già detto di voler salire a Calatafimi il giorno appresso, e sapeva lui per quali vie si sarebbe incamminato. Per quella fatta dai Napolitani nella ritirata no certo: e questo capivano tutti, perché tentar un attacco da quella parte sarebbe stata una follia. Ma egli era allegro in viso, e ciò bastava. Uno strano sentimento, che tutti dovettero provare, ma di cui si accorsero e se lo spiegarono per dir così solo i più raffinati allora e molto di poi anche gli altri, ripensando a quelle ore, fu quello dell'isolamento in cui si trovavano. Non erano passati che dieci giorni da quando avevano lasciato Genova, eppure pareva loro d'essere via da mesi e mesi, d'aver navigato molto, d'aver camminato molto, d'esser già quasi gente dimenticata. Si sapeva nell'Alta Italia che erano sbarcati, che erano stati accolti bene? Qualche spirituale forza dava almeno in quel momento un senso vago del dove si trovavano e della loro vittoria? A Milano, a Genova, a Torino e nella Venezia gemente in mani austriache, per tutti i borghi e i villaggi da dove qualcuno d'essi s'era mosso, cosa si pensava, cosa si sperava, cosa si temeva per loro? Ah! Un filo di telegrafo per mandare la gran notizia alla patria e riceverne una parola. Certo da Napoli sarebbe taciuta o mandata pel mondo svisata, falsata la notizia della battaglia a far piangere. E intanto erano scene di gioia, come a rivedersi dopo anni ed anni, nell'incontrarsi fra loro amici di casa, di scuola, di Compagnia che si erano perduti di vista durante il combattimento e che si ritrovavano sani e salvi. Ed erano lamenti per i caduti, il tale giù ai primi colpi, il tal altro a mezzo al colle, un altro addirittura in cima quasi in braccio ai nemici. Andavano a cercarli, a guardarli, a baciarli. E così i nomi dei morti e dei feriti, il modo, il come, il dove, il quando, tutti i particolari se li scambiavano, e parlavano commossi, ma tuttavia ancora con un po' del sentimento egoistico d'essere usciti salvi dal pericolo in cui altri aveva lasciato la vita. Si sa; il vero dolore, quello grande e sincero viene dopo, quando il sangue si è rimesso in calma e la pietà si ridesta. Tra le Compagnie che si erano
riordinate, si faceva un gran parlare dell'importanza del
fatto; qua e là in quel campo ci parevano dei piccoli
Parlamenti. Quelli che avevano sentito Garibaldi, quando
aveva detto a Bixio: "Qui si fa l'Italia o si muore,"
commentavano le solenni parole, e pareva proprio a tutti
di sentirsi piantato in cuore che il fatto d'armi,
piccolo in sé, era già come un'ultima battaglia
risolutiva, da combattersi ancora sì, non si sapeva dove
né quando, ma già vittoriosi. E ciò voleva dire l'Italia
fatta sin da quel giorno, su quel colle. * La notte calò rapida come
nelle giornate più corte dell'anno. E in quel crepuscolo
fu commovente veder un gruppo di sei o sette Francescani,
i quali dopo aver combattuto fino con tromboni, partivano
per tornare al loro convento. Erano accorsi là da
Castelvetrano. A quell'ora se ne andavano giù dal colle
nei loro tonaconi grossi, con le loro armi in spalla,
seri e tranquilli, come se tornassero da aver fatto la
questua tra quei soldati che avevano fame, e stavano
divorando pane e cacio distribuito in fretta già quasi
nel buio. Poi le Compagnie si addormentarono. * Nel brivido che dà l'alba,
prima ancora che le trombe suonassero le sveglie, molti
di quei militi, mezzo intirizziti dalla gran guazza,
giravano già pel campo a rivedere i morti. Di questi ve
n'erano che parevano dormirsene sicurissimi d'essere
svegliati a lor tempo, tanta era la pace che avevano nel
volto. Così Giuseppe Belleno, così Giuseppe Sartoriio,
tutti e due Carabinieri genovesi; questo colpito nel
petto proprio nel momento che fulminava un gran fante
borbonico, mirato a prova da lui. Aveva data e ricevuta
la morte in un punto. Poco discosto giaceva Ferdinando
Cadei di Caleppio, bel giovane di ventun'anno, che
adagiato sul fianco destro pareva sogguardasse
timidamente. Carlo Bonardi da Iseo non si trovava più
nel luogo dov'era caduto e rimasto morto bocconi, né per
quanto gli amici suoi cercassero là attorno vedevano le
sue larghe spalle da atleta, né il mantello che portava
rotolato a bandoliera ancora nell'ultimo istante. Cosa n'era
mai stato? Invece il gran Schiaffino copriva ancora la
terra là dove l'anima sua lo aveva lasciato. Era solo un
po' scolorito in viso. In uno dei punti, dove la
resistenza del nemico era stata più forte, giaceva
Luciano Marchesini da Vicenza, col capo su d'un sasso
nero che pareva un libro. "Come il Battaglia l'anno
scorso a San Fermo!" diceva Odoardo Rienti da Como.
E narrava di Giacomo Battaglia poeta, che combattendo tra
i Cacciatori delle Alpi cadde a San Fermo colpito in
fronte, e tratto di tasca un suo Dantino se lo pose sotto
il capo e sul poema divino spirò. Un po' più in su, e
proprio sulla cima del colle, dove erano stati fatti gli
ultimi colpi, giaceva come un assiderato Eugenio Sartori
da Sacile. La morte che, toccandolo quasi per saggiarlo a
Venezia nel '49, lo aveva lasciato tornare alle mense
patriarcali di casa sua, se l'era preso lì. Egli no, non
pareva in pace! Gli occhi non gli si erano ancora chiusi,
e, dopo tante ore, il suo viso esprimeva sempre una gran
collera da battaglia. * Le compagnie partirono. E
per la stessa china e poi per la stessa erta fatta dai
Napolitani la sera avanti, marciarono a Calatafimi. Ivi
trovarono la gente ancora scompigliata. Quei poveri
abitanti avevano visto dalle loro case, il combattimento
del Pianto Romano, e poi i borbonici tornare vinti tra
loro. Erano stati gran parte della notte tremando che il
mattino portasse loro uno scontro nelle stesse vie della
città tra le loro case: invece i borbonici erano partiti.
Ma potevano sopraggiungerne di nuovi. Insomma la
fisionomia generale era triste. Nella via maestra si
trovavano a ogni passo i segni della sosta fattavi dai
vinti; nelle poche botteghe, misere assai, non c'era più
nulla; quelli avevano portato via ogni cosa. |
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La marcia ad Alcamo | |||||||||||||||||
Garibaldi
non perdeva tempo: all'alba del 17 rimise la sua gente in
cammino. Da Calatafimi un'ultima occhiata d'addio al colle del Pianto Romano, poi via per Alcamo. E fu una marcia mattutina di poca fatica anche per quelli dei feriti che, sentendo di potersi reggere, piuttosto che starsene inoperosi, avevano voluto seguire la colonna, chi col braccio al collo, chi con la testa bendata, chi a piede nelle file, chi su quei carri di laggiù storiati di Madonne e di Santi, illustrati da sentenze e leggende paesane. Parlavano dei compagni rimasti a Vita nella chiesa o nelle case, dove mancavano di tutto e pativano, e qualcuno stava forse per morire, sebbene il vecchio Ripari e Ziliani e Boldrini e gli altri medici facessero prodigi d'amore. Erano cose meste; eppure la campagna meravigliosa metteva nei cuori il proprio rigoglio, onde si sentivano senza troppi rimpianti. Ah che paese! Se quel trionfo di verde fosse venuto crescendo così come pareva, la via doveva menare davvero alla terra promessa. Intanto qualche cosa di paradisiaco si vedeva già. La fama di Garibaldi era andata a rinnovare le fantasie già note altrove; onde, agli sbocchi delle stradicciole campestri che mettevano in quella via, gruppi di donne dinanzi ai loro uomini e coi bimbi al collo o per mano, gli gridavano dei saluti quasi religiosi. Alcune si inginocchiavano, altre dicevano "Beddi!" ai giovani soldati. Via via andando si scoprivano, tra le biade peste, arnesi militari dei borbonici; e quei villici li additavano imprecando agli 'schifiosi' che li avevano gettati nella ritirata. Poi, già nelle vicinanze di Alcamo, comparvero delle carrozze di signori che venivano incontro a Garibaldi, tirate da pariglie superbe. A un certo punto comparve il mare del Golfo così azzurro, sotto un cielo così terso, che tra per quella vista e la bella campagna e il tutt'insieme, fu un'ora di incanto. In qualche gruppo della colonna scoppiarono canti lombardi, di quelli della regione dei laghi. Quella era proprio la terra degna che vi fosse sbocciato uno dei primi fiori della nostra poesia, perché tutto ciò che vi si vedeva ricordava la 'Rosa fresca aulentissima' di Ciullo o di Cielo. Allora la variante non importava. E poi ecco Alcamo con le sue belle case e i suoi giardini coi muri passati dai palmizi, che si spandevano fuori torpidi nel caldo meriggio. Non poteva essersi dato che il delizioso 'Contrasto' fosse avvenuto davvero con di mezzo uno di quei muri o la siepe d'uno di quegli orti? Tutto vi pareva così antico! La città, quasi moresca d'aspetto, quasi mesta, era in festa religiosa, ma pareva allegrarsi a poco a poco, per l'arrivo di quegli ospiti d'oltremare. E poi si esaltò addirittura per un fatto quasi incredibile, di cui si parlava già sin dal giorno avanti in Calatafimi come di cosa avvenuta o da avvenire. Garibaldi si era lasciato indurre da fra Pantaleo a ricevervi la benedizione in chiesa. Egli schiettamente, semplicemente, in mezzo al popolo, si sottomise alla Croce che il frate gli impose sulla spalla, proclamandolo guerriero mandato da Dio. La scena fu un po' strana, ma il Generale stette con tanta sincerità di spirito, che neppure i più filosofanti della spedizione trovarono nulla a ridire. Fu un lampo di misticismo sprigionato dall'anima di lui, formata d'un po' di tutte le anime grandi che furono, e anche di quella di Francesco d'Assisi, dietro al quale, nato nel suo tempo, egli si sarebbe scalzato dei primi a seguirlo. |
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A Partinico | |||||||||||||||||
Fu dunque un
giorno lieto quello d'Alcamo; ma l'altro appresso, quando
la colonna partì acclamata e marciò a Partinico, qual
diverso mondo le si apprestava a così breve distanza!
Per Alcamo la milizia borbonica battuta a Calatafimi era
passata senza che nessuno le si fosse fatto contro per
impedirla; ma Partinico la aveva affrontata, e per le vie
e per le case era stato un combattimento da selvaggi. A
entrare in quella città, parve di affacciarsi a uno
degli orrendi spettacoli di strage fra Greci e Turchi
della rivoluzione ellenica di quarant'anni avanti. Proprio sulle soglie della cittadetta, stavano mucchi di morti bruciacchiati, enfiati, in cento modi straziati. E tenendosi per mano a catena e cantando, vi danzavano attorno fanciulle scapigliate come furie, cui faceva da quadro e da sfondo la via maestra nera d'incendi non ancora ben spenti. Le campane sonavano a stormo; preti, frati, popolo d'ogni ceto, urlavano gloria ai militi correnti dietro a Garibaldi, che traversò rapido la città col cappello calato sugli occhi, e andò a posarsi all'altro capo, in un bosco d'olivi, mesto come non era ancor parso in quei giorni. E là gli furono condotti alcuni sodatucci borbonici, rimasti prigionieri in mano dei Partinicotti e salvati a stento da qualche buono; poveri giovani disfatti dal terrore di due giorni passati con la morte alla gola. Consegnati a lui si sentirono sicuri, e piansero e risero come fanciulli. Sprazzo di sereno nella tempesta, chi si potrebbe tenere dal narrarlo! Garibaldi sedeva in quel momento a pie' d'un olivo. Aveva appena finito di confortare quei poveri soldati, che gli fu presentato dal capitano Cenni suo carissimo uno dei giovani della spedizione, il quale portava una manata di fragole in un canestrino fatto di foglie. "Generale," disse il Cenni, "questo cacciatore delle Alpi vi offre le fragole." Garibaldi guardò Cenni, guardò il giovane, poi sorrise un poco, crollò la sua bella testa e gli domandò: "Di dove siete?" - "Genovese" rispose il giovane quasi tremando. E allora il Generale in dialetto genovese. "E avete ancora la madre?" "Generale sì;" e gli occhi del giovane videro allora molto lontano. "Cosa direbbe - continuò Garibaldi - se fosse qui a vedere che mi piglio le vostre fragole?" Ma intanto tese la mano e ne levò due o tre per gradire, soggiungendo: "Andate, andate, godetevele voi, che vi parranno più buone che a me." Dopo non lungo riposo, le Compagnie si rimisero in marcia, allontanandosi quasi con gioia da quel luogo di sangue. Alcuni Partinicotti le seguirono armati di doppiette e di pugnali. Ve n'era uno che pareva di bronzo, tutto vestito di velluto biancastro, con a cintola due pistole. Il Sampieri dell'artiglieria diceva che erano dell'aria di colui i Palicari e i Clefti dei quali egli, nell'esilio suo in Grecia, ne aveva conosciuti alcuni, vecchi ancora di quei di Bozzaris. Si sarebbe detto che quell'uomo non fosse fatto che ad uccidere, e invece a parlargli era buono e anche grazioso. Raccontava quasi scusandosi l'eccidio cui aveva partecipato; e diceva con poesia di Palermo, bella, grande: "Vedrete, vedrete! Il palazzo reale!" E forse tutto il suo patriottismo era per l'isola sua, pel regno, pel piccolo regno di Sicilia, indipendente da tutto il mondo. Seguì la marcia di Garibaldi senza più staccarsi, divenne amico di qualcuno in tutte le Compagnie, portava la letizia in tutti i crocchi e le buone promesse. Nove giorni di poi, il mattino del 27, nell'assalto di Palermo, fu visto l'ultima volta, sotto il Ponte dell'Ammiraglio, disteso morto presso un Cacciatore borbonico, che moribondo egli stesso lo guardava. Forse lo aveva ucciso lui. |
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Al Passo di Renda | |||||||||||||||||
Sul vespro
di quel giorno la colonna garibaldina entrò nell'ombra
di un anfiteatro di monti, dove si immerse quasi a
celarsi. In quell'ora, tutto là intorno pareva
minaccioso, dalle falde ronchiose ai profili di quei
monti dentati in alto e taglienti. Il po' di piano
traversato dalla strada consolare dava un senso di freddo.
E il luogo, al dire dei Siciliani, era infame per istorie
truci di masnadieri. Passo di Renda voleva dire pericolo
di non uscirne vivo chi vi si avventurasse da solo. Le Compagnie, rifinite dalla stanchezza e dalla fame, si gettarono in terra ciascuna, per dir così, dove fu fermata; e per un po' fu silenzio profondo. Ma poi qua e là furono accesi dei fuochi con gli arbusti raccolti per quelle ripe, e intorno ai fuochi quei militi si misero come al solito a sgranocchiare il loro pane. Da otto giorni non si cibavano quasi d'altro che di pane e cacio come il Generale, semplice uomo che faceva divenir semplici tutti e senza voglie, senza bisogni. Quella sera si mise a dormire in un cantuccio di quell'accampamento, tra corte rocce ferrigne, dove i più novelli tra i suoi andavano timidamente a passargli vicino per guardarlo. Ma era veramente Garibaldi quell'uomo coricato su quella povera coperta, sotto quel mantello, con la sella del suo cavallo per origliere? Ed era Dittatore, e voleva levar via dal trono il Re delle Due Sicilie, egli così povero e che riposava così tranquillo, senza guardie né nulla? Pareva un sogno. Contemplatolo un poco, quei giovinetti se ne tornavano alle Compagnie, a dire che egli dormiva e che perciò tutto doveva andar bene. Ma tutti sentivano di trovarsi a una breve camminata da Palermo, da dove un generale un po' ardito avrebbe potuto condurre una colonna a sorprenderli; e guai se anche un'altra colonna mandata a sbarcare a Castellamare, per Alcamo e Partinico, per la via stessa che essi avevano fatta, fosse giunta alle loro spalle. Invece quella notte passò quieta, senz'altra noia che d'un po' di pioggia. ma all'alba, che bella sveglia! Da un'altura di quell'anfiteatro scese sul campo improvviso un suon di banda, che parve venuta dall'infinito a far una melodia nota, ma tal quale come laggiù non gustata mai da nessuno in nessun teatro del mondo, e nemmeno in cuore dal Verdi, che l'aveva creata. Era il suo bolero dei 'Vespri Siciliani'. Benedetto lui! L'anima sua tornava a soffiare l'entusiasmo in quei cuori, in quel luogo, come già sul mare da Quarto a Marsala coi canti dei 'Masnadieri', col coro del 'Nabucco' "Va' pensiero sull'ali dorate." Una voce di tenore limpida e potente s'accordò subito ai suoni, adattandovi i bei versi del 'Giovanni da Procida' del Niccolini "Le Siciliane Vergini," e qualche parte del campo applaudiva. Ripetuta tre o quattro volte, quell'aria dei 'Vespri' mise una grande agitazione. E non era più lo scoppio di gioia idillica d'Elena, che nel melodramma scende dalla scalea incontro al coro di fanciulle, che le portano fiori; ma passava come un vento eroico di martirio, che invitasse amici e nemici a morir insieme per la pace del mondo. Il piccolo esercito si levò tutto; e allora fu un andare verso un punto dove la strada consolare mette da quell'orrido passo alla vista della Conca d'Oro. Tutti si fermavano là incantati. Vedevano giù in basso quel paradiso; e in fondo Palermo che pareva infinita; e nel tremolare della marina un fitto di antenne, navi da guerra certo le più, navi di tutta Europa e forse d'America, corse là per vedervi la gran scena che vi doveva avvenire. Di quella scena essi dovevano essere poi attori! Ma quando, come, con quali sorti? Sapevano che laggiù tra quelle mura stavano ventimila soldati, ma insomma v'erano pure dugentomila cittadini. E alcuni, quasi col sentimento dei diecimila di Senofonte quando scopersero il mare, gridavano: Palermo, Palermo! Di là, il vecchio Ignazio Calona mostrava gli sbocchi dei monti da dove erano discesi i Napolitani di Florestano Pepe e di Filangeri, nel 1820 e nel 1849. A quelle due rivoluzioni egli aveva partecipato di venticinque anni e di cinquantatré, e si poteva immaginare con qual animo se tanto glie ne avanzava adesso, che ne aveva sessantacinque. E diceva con foco giovanile che nel maggio del 1849, quando Palermo si preparava all'ultimo sforzo per respingere Filangeri già vincitore del resto dell'isola, laggiù nella pianura che si vedeva tra la città e il Monte Grifone, ogni giorno accorreva gente d'ogni ceto a scavar fossati, ad alzar ripari, e che tutti lavoravano insieme signori e plebe, anche le dame e le più nobili fanciulle. A quei discorsi i giovani si esaltavano. Così per tutta la mattinata fu una grande vivezza nell'accampamento, dove quei militi si facevano giocondamente ognuno da sé le più umili cose; si lavavano le camicie a una gran cisterna, si rattoppavano le scarpe, si ricucivano gli strappi dei panni così mal ridotti, che coloro che avevano indosso i più signorili parevano ormai i peggio vestiti. Ma alle belle persone, al portamento elegante, quella miseria dava quasi maggior risalto. Altri davano una ripulita ai fucili o si ingegnavano di raccomodarne i guasti. I cannonieri stavano intorno ai loro pezzi. Appoggiato alla gran colubrina, Antonio Pievani da Sondrio leggeva il Vangelo, e lo spiegava ad alcuni che aveva intorno. Tutti ascoltavano raccolti e pensosi, e facevano venire in mente i Puritani di Cromwell. Passava qualche scettico, stava un istante, poi se n'andava compreso di rispetto per quel soldato credente. Ma in un canto dell'accampamento v'era qualcuno che, per dir così, teneva il posto che nei poemi cavallereschi hanno le Orche e i mostri. Sdraiato in terra, legato mani e piedi, vestito alla siciliana con certa eleganza, custodito da alcuni 'Picciotti' delle squadre del barone Sant'Anna, stava un uomo grande e forte, di viso cattivo. Guardava sprezzante e taceva. I garibaldini che andavano a vederlo, sentivano dire che egli era un tal Santo Mele, il quale sin dallo scoppio della rivoluzione aveva principiato a correre la campagna con alcuni ribaldi, rubando le casse pubbliche e assassinando gente. Aveva fino incendiato il villaggio di Calamina. E tutto aveva fatto in nome di certa sua giustizia che gli pareva d'aver diritto d'esercitare; anzi, se ne gloriava. I Siciliani che dall'esiglio erano tornati nell'isola con Garibaldi, dicevano che colui doveva essere 'Maffioso'; e spiegavano ai compagni la natura d'una tenebrosa società, che aveva le sue fila per tutta l'isola, in alto, in basso, nelle città, nelle campagne, dappertutto. Piace rammentare che i continentali scusavano l'isola, narrando che anche da loro vi erano state compagnie di malfattori che avevano esercitato una giustizia di loro genio, favoriti dalle plebi delle campagne e anche dai ricchi delle città, quando le leggi parevano torte contro la giustizia vera; e dicevano che quelli erano passati e che sarebbe passata anche la 'Maffia'. Quel Santo Mele il giorno appresso sparì. Forse la 'Maffia' potentissima gli aveva dato aiuto fino in quell'accampamento. Noiosissima cosa, nel pomeriggio di quel giorno cominciò a piovere. Senza tende, senza coperte era un gran brutto stare; ma il campo non si attristò per questo; anzi, vi fu un momento di gaiezza fin troppa. Era stato macellato un gran bove donato da un Comune là presso, e in certi pentoloni mandati pure da quel Comune, cuochi improvvisati cuocevano di quel bove a pezzi, e del riso. Ma quando si fu sul punto di scodellare, e tutti si sentivano già quasi nello stomaco quel ristoro, s'accorsero di non avere né gamelle né cucchiai, e una risata generale empì l'aria di chiasso. Però vi fu l'ingegnoso che si prese la parte sua di riso in una foglia di fico d'India, e allora tutti ai fichi, e nel cavo di quelle foglie coriacee un po' di quel cibo poterono gustarlo tutti. Quanto a vino ce n'era nel campo a botti. Seguitò la pioggia tutto il resto del giorno e anche quella notte, sicché la dimane quella gente, fradicia fino alla pelle, faceva un brutto vedere. Garibaldi guardava mesto. Egli nella notte aveva fatto levar via una specie di baldacchino che alcuni di quei suoi militi gli avevano formato sopra con dei mantelli sostenuti da pali, mentre dormiva. Ma alfine anche quel giorno venne il sole, e ognuno tornò a sentirsi bene. Intanto Garibaldi aveva meditato una mossa. Voleva piantar nella mente dei difensori di Palermo che egli avesse deliberato di assalirli da Renda per la via di Monreale, e creare in essi l'illusione che egli potesse scendere a farsi pigliare come in una trappola su quella via. Così la sera del 20, messo in marcia il battaglione Carini, lo fece calare nel villaggio di Pioppo, a pie' dei monti e già sul lembo della Conca d'oro. Ivi tenne quelle Compagnie tutta la notte. All'alba del 21 si spinse avanti egli stesso dove erano già i Carabinieri genovesi, con le compagnie del battaglione Bixio passate anch'esse durante la notte. Quasi subito l'avanguardia venne alle schioppettate con gli avamposti napolitani, mentre che a sinistra, su pei fianchi dei monti, si svolgeva una loro ala, certo per aggirare la gente garibaldina, calarle addosso e metterla in rotta tra gli aranceti del piano. Quel mattino i napolitani parevano di buon umore. Ma la loro ala girante s'abbatté nelle squadre di Rosolino Pilo, che stava a mezza costa, e dovette arrestarsi. Allora s'impegnò lassù un fuoco vivissimo di fucileria, a cui le squadre ressero bravamente, per più di due ore, finché i borbonici furono costretti a ritirarsi. E giù nel piano le Compagnie garibaldine, menate avanti, indietro e poi ancora avanti per modo che esse stesse non ci capivano più nulla, verso il mezzodì ricevettero l'ordine di ritirarsi. Videro Garibaldi tornar dalla fronte col suo Stato maggiore in sì gran fretta, che avrebbero potuto credere di doversi sentir dietro i compagni dell'avanguardia fuggenti; ma bastò loro guardar in faccia il Generale, e la breve ritirata di ritorno al Passo di Renda fu fatta con calma. Risalite lassù trovarono sul ciglio del passo i cannoni in posizione con le gole chinate verso la pianura, dove, volgendosi a guardarla, vedevano brillar non lontano le armi dei nemici distesi. Forse questi si apparecchiavano a farsi avanti. E allora pareva di capire che Garibaldi avesse mirato a tirar fuori di Palermo una parte di difensori per piombarle addosso, e se la fortuna lo secondasse, romperli, ed entrare con essi in Palermo, che sarebbe insorta. Invece seguì una gran quiete. Ma in quella quiete si sparse una notizia dolorosa. Rosolino Pilo, che su quei colli di San Martino, con le sue squadre, aveva così ben rintuzzato l'attacco dei regii, era stato colpito al capo da una palla di rimbalzo, mentre scriveva un biglietto a Garibaldi. Ed era morto, povero prode, con in vista la sua Palermo laggiù, sospirata dall'esilio per undici anni. Alla testa delle sue squadre rimaneva l'amico suo Corrao, uomo di gran coraggio ma incolto e di poco prestigio; e così con la gran figura di Pilo veniva a mancare una delle forze più vive della rivoluzione. Perciò si diffuse una gran mestizia, Garibaldi fu visto afflittissimo; e facilmente il pensiero de' suoi passava da Pilo a lui, che da una palla poteva essere spento da un'ora all'altra. E allora? |
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Marcia notturna | |||||||||||||||||
Venne
intanto la sera, una sera cupa che minacciava una notte
di pioggia. Eppure le Compagnie furono fatte mettere
sotto le armi e in marcia, di nuovo come il giorno avanti
sulla via per discendere a Pioppo. Dunque Garibaldi si
ostinava davvero a tentar Palermo da quella parte e con
un attacco notturno? Fosse pure! Gli animi erano ben
disposti, perché quello stare con la gran città alle
viste e con le spalle mal sicure cominciava a diventar
fastidioso. E marciarono. Ma là dove la via chinava,
dove sul mezzodì avevano visto i cannoni in batteria, i
cannoni non c'erano più, e le Compagnie invece di
scendere, si videro fatte girar a destra per entrare in
un sentiero che non poteva menare se non sulle creste di
certi monti, dei quali nei due giorni passati nel campo
di Renda avevano potuto considerare l'asprezza. All'imbocco
di quel sentiero, soldato per soldato ricevevano tre pani
da alcuni uomini, che agli ordini del capitano Bovi,
bolognese, facevano fretta ai passanti che pigliassero e
andassero. Quei tre pani volevano dire tre giorni forse
di marcia per le montagne. Erano dunque preziosi; onde i
più dei soldati non sapendo dove se li mettere, inastate
le baionette ve li infilzavano, e tiravano via col fucile
in spalla sbilanciato a quel modo, celiando. Ma come fu
notte chiusa e il sentiero venne a mutarsi in sterpeto,
si fecero alquanto tristi. Sennonché a un certo punto
trovarono Garibaldi che tribolava a mandare avanti dei
contadini, i quali curvi sotto lunghe stanghe portavano a
spalle appesi a quelle i cannoni smontati, dieci o dodici
per ciascun pezzo. E li esortava, e li metteva sul gioco
di moversi ognuno con tutte le sue forze, li aiutava
persino, e per insegnar loro come dovevano stare sotto la
stanga ci si metteva egli stesso. In quel mestiere lo
secondavano il Castiglia, il Rossi, il Burattini, i
marinai del Lombardo e del Piemonte, già sin da Salemi
formati in una piccola Compagnia. Con quell'esempio la colonna sfilava, un uomo dietro l'altro oramai, ché per due non c'era più luogo. E cominciò una pioggerella che presto divenne fitta tra quelle tenebre, dando alla gente il senso di camminare nelle nubi. Ah le belle vie di Milano, di Venezia, di Genova, tutte inondate di luce, a quell'ora! I pani, inzuppandosi, cascavano giù dalle baionette, cascava qualche uomo a ogni passo; tuttavia si rideva ancora, ma, per dir così, d'un malinconico riso interiore. Metteva un po' di sgomento il non veder più nulla, salvo dei gran fuochi indietro nel campo di Renda abbandonato, e un altro gran fuoco solitario avanti, lontano, verso il quale si accorgevano di marciare; mentre dal fondo, sulla sinistra, salivano a intervalli i gridi d'allerta delle sentinelle napolitane. Dalla testa della colonna veniva il nitrito d'un cavallo, insistente, selvaggio. A un tratto s'udirono due colpi di fuoco. Fu un fremito per tutta quella sfilata: forse l'avanguardia s'era imbattuta nel nemico. Ma poi non si udì più nulla. E sempre tirando avanti, passò la voce che quei colpi erano stati scaricati da Bixio nella testa del suo cavallo, per farlo smetter di nitrire; atto proprio da Bixio che aveva voluto far quella marcia del diavolo in sella. Era vero. Andando avanti, i soldati passavano vicino a un cavallo spianato là morto fuori de' piedi. Quando fu quasi l'alba, le Compagnie si trovarono a calare dalle ultime falde di quei monti su d'una grossa borgata. Pioveva ancora. Credevano d'aver camminato lontano, e invece la Conca d'oro era ancora lì davanti ad essi come quando stavano a Renda, solo che adesso la vedevano da oriente. Mirabile marcia! Garibaldi che per natura si ricordava così poco delle cose fatte, ebbe ragione quando, riparlandone dopo molti anni, disse che neppure in America si era trovato a farne fare una a' suoi, somigliante a quella del Parco. E non un uomo si era perduto; qualche ritardatario aveva saputo serrarsi presto alla colonna; anche i cannoni erano venuti per quelle balze. Ma in quale stato, povera gente! Il borgo di Parco sia lodato sempre pel modo come la accolse. Non ci fu casa che non si aprisse a ristorare qualcuno, a rasciugare i panni, a rifornirne che non poteva più tener indosso i propri, ridotti in cenci, a rincalzare chi non aveva più scarpe in piede. Ma ancora più da lodarsi quel borgo, perché si prese in seno tutta quella gente, e se la tenne celata tutto quel giorno e la notte appresso, senza che nulla ne trapelasse ai borbonici, campeggianti nella Conca d'oro. |
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Un frate strano | |||||||||||||||||
Cotesto
giorno, uno di quei soldati fu fermato da un giovane
monaco che egli avea già veduto girare pel borgo, e
soffermarsi qua e là a parlare coi suoi compagni. E
capì subito che era un'anima tormentata da qualche gran
cruccio. Avviato il discorso, il monaco si spiegò:
avrebbe voluto gettarsi nella rivoluzione, ma qualcosa lo
tratteneva. Seduti a pie' d'una delle tre grandi croci
che sorgevano su d'un poggio a figurarvi il Calvario;
quei due parlavano già come vecchi amici. E il
garibaldino diceva al frate che se avesse voluto entrare
nella sua Compagnia, vi avrebbe trovato il Comandante e
gli ufficiali e molti militi siciliani tornati dall'esilio;
e che l'esser frate non voleva dire; che già altri frati
avevano combattuto per Garibaldi a Calatafimi e che anzi,
un francescano lo seguiva già da Salemi. Il monaco
rispondeva che pur ammirando Garibaldi gli pareva che
quella ch'egli combatteva non fosse la guerra di cui la
Sicilia aveva bisogno. L'unità d'Italia e la libertà
pel vero popolo siciliano erano quasi nulla. Che potevano
farsene quelle plebi ancora oppresse da tutte le
ingiustizie, altrove, in Piemonte, in Lombardia, levate
da un secolo? Non avevano visto essi venuti da fuori, per
quel poco che avevano già corso dell'isola, quanta era
la miseria e quanta l'abiezione di quelle plebi? La
libertà non era pane per lo stomaco e nemmeno per lo
spirito; anzi sarebbe poi per i già prepotenti un mezzo
per opprimere di più. In Sicilia era necessaria una
guerra che trasformasse la società e la vita, facendo
guadagnare al popolo il tempo che per forza gli era stato
fatto perdere. Non vedeva Garibaldi che la Sicilia era
ancora quasi come doveva essere stata ai tempi delle
guerre servili di venti secoli avanti? Insomma quel
monaco voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma
contro tutti gli oppressori grandi e piccoli, che si
trovavano laggiù dappertutto. Il garibaldino cui pareva di non capir quasi come un monaco parlasse a quel modo, gli diceva che allora quella guerra ch'egli voleva avrebbe dovuto esser fatta anche contro i frati ricchissimi, e molti. E il monaco ardente rispondeva che sì, che anche contro i frati si doveva farla, contro di essi prima che contro d'ogni altro, ma col Vangelo in mano e con la Croce: che allora anch'egli ci si sarebbe messo, ma che così come era fatta e per quel che era fatta, gli pareva inutile. Se Garibaldi avesse guardato bene, si sarebbe accorto che le plebi lo lasciavano solo coi suoi. Allora il garibaldino accennò alle squadre che numerose tenevano i monti qua e là. - E chi vi dice - esclamò il monaco con voce risoluta - chi vi dice che non si aspettino qualche cosa di più? - Il discorso era stringente. Il garibaldino che non si voleva dar vinto, sentiva tuttavia che il monaco ne sapeva più di lui. Mirava quel volto illuminato da una fiamma che non era la sua di mazziniano, taceva un po' confuso e anche alquanto impicciolito. Poi egli e il monaco si levarono di là, si abbracciarono, e questi se n'andò. Egli discese tra i suoi con l'animo turbato e scontento. Gli pareva d'aver imparato molto in quel colloquio, e vagamente sentiva che l'unità della patria non era tutto, che la libertà avrebbe scoperto molte piaghe, alle quali poi col tempo altri avrebbe dovuto pensare. E se ne ricordò e pensò a quel monaco trent'anni dipoi, quando proprio da quella parte dell'isola parlò più alto l'antico dolore che quegli sin da quel tempo remoto sentiva. |
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Parte quarta | |||||||||||||||||
Tornando ai
fatti allora presenti, i borbonici si erano svegliati la
mattina del 25 maggio, certi di avere ancora in faccia
Garibaldi su al passo di Renda, dove tutta la notte erano
stati tenuti accesi dei grandi fuochi. Ma allo schiarirsi
s'accorsero che egli non era più là. Dove mai poteva
essere andato? Forse la prima supposizione fu ch'egli si
fosse ritirato indietro. Non passò loro neppur per la
mente che avesse fatto quella marcia inverosimile per
andarsi a porre sul loro fianco in quel nascondiglio di
Parco. E non ne seppero nulla tutto quel giorno, perché
la Sicilia non dava spie, non ne seppero fino al mattino
appresso, quando videro coronarsi d'armati il poggio che
sorge sopra quel borgo. Certo là era lui; quelle che si
vedevano non potevano essere squadre. E deliberarono di
andare a trovarlo. Il dì stesso sul vespro mossero, e parve per assalire Garibaldi in due colonne a tenaglia. Ma non era che un movimento per saggiarlo o forse per tirarselo giù nel piano. Egli aveva scelta bene la sua posizione; piantato Bixio a mezza costa col suo battaglione, il battaglione Carini aveva schierato lungo la strada che sale per quel dosso ed entra poi tra i monti verso Piana de' Greci. I cannoni erano in batteria. Tutto era pronto per ricevere i borbonici. Ma la loro ala sinistra si avanzò appena a tiro di fucile, e scambiò qualche colpo con alcuni 'Picciotti' che stavano sulle più basse falde, l'altra non si inoltrò neppur tanto. Erano dunque soltanto ricognizioni, ma volevano dire che per l'indomani si preparava qualche cosa di grosso. E avvenne. Alla levata del sole, un gran tratto della via da Palermo a Monreale fu visto dal Campo di Garibaldi sfavillar tutto d'armi. Pareva che i ventimila uomini del presidio fossero usciti tutti alla campagna, tanto era lunga quella traccia, la cui testa entrò nei fitti pomari e continuò a marciarvi nascosta, come s'indovinava dall'accorciarsi delle sue code. Garibaldi, fermo nelle sue posizioni, faceva lavorar di zappa il suo Genio e la sua Artiglieria, come se si preparasse a ricevere l'assalto. Aveva già mandati i Carabinieri genovesi alla posta, là dove il primo incontro degli assalitori doveva naturalmente seguire, certo che contro le loro carabine il nemico si sarebbe sentito cader la baldanza. Antonio Mosto doveva pensare a reggervi quanto fosse possibile a brava gente qual era la sua, e alla fine ritirarsi la via che tutta la Colonna avrebbe pigliata, perché Garibaldi, contro ogni apparenza data da principio alle proprie intenzioni, aveva deliberato un'altra volta la ritirata, quasi la fuga. Infatti, quando i primi colpi dei Carabinieri genovesi annunziarono che la colonna nemica attaccava, egli mise le sue Compagnie in marcia con l'artiglieria già avviata; passò egli stesso avanti a cavallo, disse qualche parola d'incoraggiamento, e un po' di gran passo e un po' di corsa, in una stretta lunga parecchie miglia, la marcia fu gagliardamente condotta. Va' e va', anche quella volta le Compagnie furono messe a una dura prova, perché quando trafelate giunsero a veder la Piana de' Greci, e idealmente già vi si riposavano, con quel sentimento che devono avere sin gli uccelli migratori di oltremare all'apparire della terra; ecco le Guide a sbarrar loro la via e additare la salita a un monte. Uno sgomento! Ma lassù era già il Generale, di lassù chiamavano con alte grida ben note i più rotti alle fatiche; bisognava raggiungerli perché il nemico tentava di precederli alla Piana de' Greci varcando quel monte. Chi non era addirittura spossato ubbidiva. Veramente il Comandante nemico che aveva ideato quel movimento, si era ingannato sulla possibilità d'eseguirlo, data la mobilità delle compagnie garibaldine. Contro altra gente forse gli sarebbe riuscito. Ma esso non aveva ancor guadagnata la prima, e già Garibaldi gli appariva sulla seconda delle cime che credeva di aver tempo a varcare, avanti che i garibaldini avessero percorso la via da Parco alla Piana. Così non ci fu che uno scambio di fucilate lassù da gola a gola; poi i borbonici se ne tornarono indietro giù pel versante verso Parco; Garibaldi, ridisceso dalla parte sua, andò a occupare la Piana de' Greci. Si chiama così la città degli Albanesi, adagiata in mezzo a una campagna grigia, grigia essa stessa e tetti e muri e tutto. Almeno aveva tale aspetto quel giorno, vista traverso l'aria infiammata del mezzodì, che tremolava come una sottilissima rete di fil d'argento, sì che uno avrebbe detto di poterla palpare solo a far quattro passi avanti. Oh che sole! Che refrigerio sarebbe stato sdraiarsi appena giunti tra quelle case! Ma la gente della città fuggiva. Cosa le avevano fatto credere di quei forestieri, di quel Garibaldi di cui anche i preti, i frati e le monache dicevano bene? Sapeva quella gente che i garibaldini avevano i borbonici alle spalle, e temeva che in quella sua città volessero far fronte al nemico e aspettarlo a battaglia? Certo non era cosa che dovesse incuorarla a stare. Il fatto è che fuggiva. Ed era proprio il 24 maggio, giorno che per costume di secoli gli Albanesi della Piana salgono al Monte delle Rose, a cantarvi con le fronti volte a oriente, verso l'antica patria, lamentose parole nella loro antichissima lingua.
Quella data, quell'ascesa,
quel canto ricordavano loro i dolori degli avi tre secoli
e mezzo indietro, che per non soggiacere ai Turchi s'erano
rassegnati a lasciar l'Albania, e col fior degli Epiroti
condotti da Giorgio Scanderberg avevano trovato rifugio
in Sicilia, portando seco loro le immagini e quanto
possedevano di più caro. Fiera e costumata gente,
orgogliosa della sua origine, che ne' suoi canti serba
vivo il sentimento di quattro secoli, e sogna ancora che
uno del suo sangue possa, quando che sia, ricondurla
nella vecchia patria lontana. |
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Gibilrossa | |||||||||||||||||
Su quella
sorta d'altopiano, se si può chiamar così la cima di
Gibilrossa, formicolava il campo dei 'Picciotti' di La
Masa, che vi facevano un sussurro come nelle selve il
vento. Erano forse quattromila, ma pochi gli armati
almeno di fucili da caccia. Tuttavia davano da sperare
che, avventati a tempo opportuno, anche gli armati
soltanto di picche avrebbero fatto da bravi. Aveva detto
Garibaldi che ogni arma era buona, purché impugnata da
un valoroso. I continentali si frammischiavano a quelle squadre, a farsi descrivere nelle belle e immaginose parlate sicule le parti dell'isola da cui erano venuti. E osservavano che anche i più rozzi di quei 'Picciotti' avevano pensieri e sentimenti elevati, e che riusciva loro d'esprimerli quasi con eloquenza. Ispidi all'aspetto, erano squisiti dentro come certi frutti maturati ai loro lunghi soli. Ma anche pareva che alcuni di essi parlassero dialetti che sapevano di lombardo e di monferrino! E di ciò si maravigliavano appunto i lombardi, tra i quali Telesforo Cattoni del Mantovano, angelico giovane a ventun'anni già dottore in legge e studioso di lettere, cui l'ingegno lampeggiava negli occhi. Ma Domenico Maura calabrese, dottissimo uomo sulla cinquantina, che sempre tra quei giovani parlava di Dante, diceva che se la fortuna avesse secondato Garibaldi, essi avrebbero poi trovato da maravigliarsi anche in Calabria, sentendo in certi villaggi parlar piemontese dai discendenti dei Valdesi scampati dalle persecuzioni. Quelli che lì in Sicilia avevano del lombardo e del monferrino, erano discendenti d'avventurieri e di favoriti tirati nell'isola dal gran Conte Ruggero, quando vi condusse sposa Adelaide di Monferrato. Dietro quella gentildonna uscita dal paese più cavalleresco d'Italia, erano corsi a frotte nell'isola gentiluomini d'ogni grado, e Ruggero aveva dato loro da abitare certi luoghi, che per il numero grande di quegli ospiti furono poi chiamati villaggi lombardi. E coloro vi si erano misti e fusi coi nativi, greci, arabi e normanni, pur conservando le loro consuetudini e i loro dialetti. Aidone, Piazza, Nicosia, altre cittadette erano di quei luoghi. Nel pomeriggio di quel giorno, apparvero lassù alcuni uomini di mare in calzoni bianchi, e si disse subito che erano ufficiali delle navi inglesi ancorate nel porto di Palermo, saliti per vaghezza a visitare quell'accampamento. Sapevano essi che v'avrebbero trovato Garibaldi? E se lo sapevano, poteva ignorarlo il Comandante generale borbonico di Palermo? Ciò dava dell'inquietudine. Essi intanto recavano che nella gran città tutti erano persuasi della fuga di Garibaldi, che anzi questo si leggeva stampato sulle cantonate, che l'ufficialità del presidio esultava, ma che n'era addolorato e sgomento il popolo, cui la sbirraglia raddoppiava gli insulti. Diedero per primi anche la notizia che il governo di Napoli aveva chiamato 'filibustieri' Garibaldi e i suoi appena partiti da Quarto, denunciandoli al mondo come pirati; e il nome di 'filibustieri' fu subito preso per titolo di vanto da quei giovani, come da altri in altri tempi altri nomi vituperosi. Aggirandosi nell'accampamento, quegli Inglesi si dilettavano di schizzare i profili dei più pittoreschi tra quei Garibaldini; si facevano scrivere nei loro taccuini i nomi di questo e di quello, davano delle strette di mano che parevano strappi; insomma sembravano in festa, e si facevano promettere una visita sulle loro navi. Ma i politici, e tra quei militi ve n'erano molti, mormoravano. Ah gli Inglesi? Sempre dove avevano toccato avevano lasciato l'ipoteca o fatto mercato. Berchet li aveva ben giudicati ne' suoi 'Profughi di Praga'! Essi forse agognavano che in Sicilia si versasse tanto sangue che non fosse più possibile nessuna pace coi Napolitani: e poi d'accordo con Napoleone si sarebbero presa l'isola, lasciando libero lui di farsi dar la Sardegna da Vittorio Emanuele, e questo di dargliela. Napoli con le sue provincie continentali sarebbe rimasto ai Borboni. E così salvi questi, salvato al Papa il resto del regno, l'Austria si sarebbe baciate le mani di veder questi contenti e di tenersi il Veneto; la Russia contentissima, avrebbe applaudito; e l'unità d'Italia, addio! Queste cose si dicevano a Gibilrossa dai mazziniani specialmente; e di quelli che le ascoltavano chi le credeva già quasi belle fatte; chi ci si arrabbiava a discuterle, a negarle, e chi crollava le spalle, ridendo. A buon conto, se era vero qualcosa d'altro che già si sussurrava, quegli Inglesi avevano portato a Garibaldi i piani delle fortificazioni di Palermo e dei posti occupati dal nemico alle porte. Questo era bene sapere, perché il tempo incalzava, si avvicinava qualche grand'ora, e con quella tal colonna andata dietro all'Orsini e che poteva da un'ora all'altra apparire alle spalle, bisognava far presto. * Potevano essere le sedici
all'italiana antica, come si contavano le ore laggiù,
quando si sentì dire che Garibaldi aveva chiamati a sé
tutti i suoi maggiori ufficiali e i Comandanti di tutte
le Compagnie. Grande commozione, grande attesa. Il campo
pareva stare tutto in ascolto. Si seppe poi subito che in
quel consiglio Garibaldi aveva fatti due casi: o
ritirarsi a Castrogiovanni e là in luogo forte attendere
che la rivoluzione ingagliardisse e giungessero dal
continente altre spedizioni; oppure gettarsi su Palermo.
Si diceva che tutti i Comandanti avevano gridato con
entusiasmo: "A Palermo!" e che anzi Bixio aveva
soggiunto: "o all'inferno!" Allora corse per
tutta quella gente un tal fremito, che parve s'animassero
fin le rocce. La gran risoluzione era presa: presa in
quel punto di Gibilrossa dove fu fatto poi sorgere l'obelisco
di marmo che vi si vede biancheggiare dal mare e dai
monti, a ricordanza di quell'ora suprema. |
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La calata a Palermo | |||||||||||||||||
Appena fu
buio, la colonna si mise in marcia e cominciò subito la
discesa. Allora, di là, fu veduto il vastissimo
semicerchio di monti, che serra la Conca d'oro, coronarsi
di fuochi, come se dappertutto vi fossero dei piccoli
accampamenti. Se si volesse così avvisare il popolo di
Palermo perché si preparasse, o confondere i borbonici
non si sapeva. Ma intanto quei fuochi empivano di una
forza misteriosa l'anima della colonna in marcia, fino a
crear l'illusione che da tutti quei punti movessero su
Palermo tante altre colonne di insorti, per assalirla da
tutte le porte, e trovarvisi dentro insieme con Garibaldi,
il giorno seguente, a celebrar la festa dello Spirito
Santo. Era proprio la vigilia della Pentecoste. L'anno
avanti, il 27 maggio, Garibaldi aveva vinto gli Austriaci
in Lombardia a San Fermo; il 27 maggio del 1849 aveva
messo piede sul territorio del Regno a Ceperano, dietro
il Borbone fugato da lui, generale della Repubblica
romana: anche una terza volta quel giorno poteva
segnargli forse una bella data. * L'ampia strada, che oggi
sale per agevoli giravolte a Gibilrossa, allora non
esisteva. Non era che un sentieruccio giù pel
ripidissimo pendio, dove bisognava camminare con l'olio
santo in mano, sull'orlo d'un borro tutto balzi e
sfasciume. Eppure, per quella traccia calò senza
disgrazie tutto quel mondo, anche Garibaldi che andava su
d'un cavallo molto tranquillo, che finì poi nelle mani
di Alberto Mario, cui fu donato. * I borbonici avevano
lasciato passare il momento buono ad invadere la città,
come avrebbero potuto. Quattro o cinque ufficiali audaci
che si fossero mossi ciascuno alla testa d'un mezzo
battaglione, e avessero marciato verso il centro tutti a
un tempo, pur seminando di morti e di feriti la via,
bastavano a schiacciar tutti. Ma forse nessuno aveva
osato cimentarvisi, per paura di entrare a farsi
seppellire sotto un po' di tutto, da tutte le case,
mobili, pietre, olio ardente. Adesso, dopo quattro ore
dall'entrata di Garibaldi, sarebbe già stato difficile
riuscire, anche se i borbonici ci si fossero provati; e
già si vedeva che prima di sera sarebbe divenuto
addirittura impossibile. Poiché nelle vie sorgevano come
per incanto barricate per tutto. Dagli usci venivano
fuori carri, carrozze, botti; dalle finestre piovevano
mobili, materasse, fin pianoforti. E tutto era subito
raccolto, ammontato, serrato insieme. Poi a forza di
picconi e di leve si spiantavano li lastre delle vie; e
queste sì, queste servivano bene! Parevano fatte apposta.
E con esse, visto o non visto, venivano alzate su delle
vere mura, una barricata a dieci metri dall'altra; fin
troppe, come disse poi Garibaldi. Vi lavoravano e uomini
e donne e fanciulli, che si rissavano tra loro facendo a
chi ubbidisse meglio, se dai panni, dai capelli, dall'accento,
riconoscevano un garibaldino in chi comandava. Le
popolane poi parevano furie. "Signuri, nui riciano
ca di li nostri trizzi un'avianu a fari ghiumazzo pi li
so mugghieri! Scillirati, infami!" E davano dentro
da disperate a portar pietre e sacchi di terra. * A notte, quel fuoco da
Castellamare cessò, e cessò anche quello della
fucileria quasi per tutto. Ma la veglia fu viva,
incessante. Le finestre delle case cominciarono a
illuminarsi, per le vie ci si vedeva quasi come di giorno.
Ed era un andirivieni dalle parti della città al Palazzo
pretorio e di lì alle parti; sicché pareva che i
combattenti si dessero il cambio nei posti che occupavano,
solo per andar un po' dal Generale, e rifare nella vista
di lui le speranze e le forze. Egli aveva fatto mettere
una materassa sulla gradinata della fontana di Piazza
Pretoria, rimpetto al gran portone del Palazzo, e là, a
pie' di una di quelle alte statue che la adornano,
riceveva notizie, dava ordini, riposava, Giovanni Basso
da Nizza, suo segretario e compagno sugli oceani,
Giovanni Froscianti da Collescipoli antico frate, Pietro
Stagnetti da Orvieto, veterani della Repubblica romana,
gli facevano guardia: dall'altra parte della piazza,
nelle scuderie di palazzo Serradifalco, stavano sellati i
cavalli delle Guide. E sul portone di quel palazzo si
vedeva Giovanni Damiani, vigile come un'aquila, pronto a
qualche partito supremo di Garibaldi, se forse fosse
venuta l'ora della disperazione. * Ma i mortai di
Castellamare suonarono presto la diana del 28, e presto
ricominciò il fuoco dappertutto. Dappertutto la
rivoluzione vinceva. Ma dolorose perdite si fecero fin
dalle prime ore di quel secondo giorno. Enrico Richiedei
da Salò ed Enrico Uziel da Venezia, furono uccisi da una
palla di cannone che li compì tutti e due al capo,
lasciandoli morti sfigurati l'uno vicino all'altro quei
due fiori di giovinezza. * La seconda giornata passò
dunque come la prima e peggio; ma la terza furono cose
indescrivibili. Tutte le vie erano ormai gremite di gente.
A cagione del bombardamento, lo stare in casa era più
pericoloso che lo star fuori; perché dove una bomba
cadeva su di un tetto, sprofondava giù fino a terreno,
scoppiava e faceva crollar tutto. Invece per quelle che
cadevano nelle piazze o nelle vie, la gente si gettava a
terra, le lasciva scoppiare, poi su, si levava gridando:
"Viva Santa Rosalia, Garibaldi, l'Italia!" E si
esaltava, e si lasciava pigliare da un certo cupo
entusiasmo della strage, senza neppur più inorridire
perché qualcuno restava a terra morto o ferito. Di tanto
in tanto si udiva uno scoppio di grida furiose qua e là;
erano donne del popolo che avevano fatto la posta a
qualche birro, e riuscite a pigliarlo, urlandogli "Sorcio,
Sorcio!" lo malmenavano, lo straziavano a brani.
Così dovevano aver urlato:"Mora! Mora!" le
loro antenate dei Vespri. Sennonché ora bastava che
capitasse in tempo un garibaldino a stender le mani sul
birro sciagurato, e quelle donne glielo cedevano vivo,
quasi contente, urlando ancora: "Viva Santa Rosalia!"
Di quei miseri servi della polizia ne furono salvati
parecchi in tal modo, e pel momento venivano messi nei
sotterranei del Palazzo pretorio, dove almeno nessuno
poteva più torturarli. * A quell'ora il generale in
capo Lanza, volendo tentare una disperata prova, mandò
il generale Sary a ripigliar la Cattedrale; e il generale
Colonna a ripigliare i Benedettini, l'Annunziata, Porta
Montalto. Inutile sforzo, inutile strage. Tutti gli
assalti furono respinti dai garibaldini, dai 'Picciotti'
e dai cittadini. I borbonici lasciarono più di cento
morti e forse quattrocento feriti, intorno alla
Cattedrale e per le vie percorse, ma ritirandosi
incendiavano le case, uccidevano gli inermi, violavano le
donne. Erano diventati selvaggi, furiosi. Forse facevano
così, per dare l'ultimo sfogo all'odio secolare
mantenuto vivo contro l'isola in loro, sudditi dell'altra
parte del regno; forse li faceva divenir più crudeli lo
spettacolo degli incendi, ardenti in più di sessanta
luoghi della città; tra i quali più grande e spaventoso
quello del quartiere intorno San Domenico, tutto in
fiamme. * Il giorno appresso, mentre
il fuoco, riacceso in tutti i punti sin dall'alba,
lasciava indovinare ne' regi una certa stanchezza, ma
teneva pur sempre in forse dell'esito finale, Garibaldi
ricevè un messaggio del generale Lanza. Questi che sin
dal 28 aveva chiesto all'Ammiraglio inglese d'intromettersi
per imporre una breve tregua, onde si potessero
raccogliere i feriti e seppellire i morti, ma però senza
trattare egli con Garibaldi; e dall'inglese aveva
ricevuto in risposta che appunto a Garibaldi doveva
rivolgersi: ora nel suo messaggio dava di Eccellenza al 'Filibustiere'!
E gli chiedeva un armistizio di ventiquattr'ore, e lo
invitava a un ritrovo con due suoi generali, per trattar
d'altre cose. Designava per luogo la nave ammiraglia
inglese. Garibaldi concesse subito l'armistizio, accettò
l'invito al ritrovo, e da una parte e dall'altra fu
subito dato l'ordine di cessare il fuoco. Queste erano esagerazioni
battagliere. Ma cosa grande davvero, che passa l'immaginazione,
fu sul tardi il ritorno di Garibaldi dal suo abboccamento
coi generali borbonici Letizia e Chrétien, avvenuto a
bordo della nave ammiraglia inglese. Egli vi era andato
lasciando in angoscia indicibile chi lo sapeva. Ed
essendo giunto a un luogo del porto detto la Sanità,
proprio nel momento in cui vi giungevano i generali
nemici, l'ufficiale della lancia inglese non sapendo che
far di meglio, lo aveva imbarcato insieme con quei due.
Come si sentissero in compagnia di quell'uomo in semplice
camicia rossa essi tutti galloni, non è facile
immaginare; ma narrava il capitano Cenni che parevano
aver voglia di far l'altezzoso. E difatti nelle
trattative, una volta a bordo e cominciata la conferenza,
il general Letizia affettava di non rivolgersi a
Garibaldi, e parlava con una certa alterigia. Ciò
dispiacque all'ammiraglio Mundy e ai comandanti navali
francese, americano e sardo, che egli aveva chiamati
sulla sua nave, perché assistessero al colloquio. E
questo si mutò presto quasi in un diverbio. Il Mundy,
ospite, ebbe anzi un bel da fare onde Garibaldi, pur con
ragione, non trascendesse. Il Letizia aveva tra l'altre
cose osato chiedergli che la rappresentanza cittadina di
Palermo facesse un atto di sottomissione al suo Re. E
allora Garibaldi proruppe che la rappresentanza cittadina
era in lui Dittatore, e rotta ogni trattativa si ritirò.
Ma nel partirsi da bordo si rivolse al Comandante
americano Palmer, confidandogli rapidamente e a bassa
voce che in Palermo non aveva quasi più munizioni, e
raccomandandosi a lui perché, se potesse, gliene
mandasse. Così tornò a terra. * Garibaldi, un di quei
giorni, verso sera, fece una passeggiata a cavallo per la
città, passando pei luoghi dove le barricate erano meno
fitte. Dire che accoglienze gli faceva il popolo parrebbe
ora poesia, ora che il mondo è tanto mutato. Miravano le
turbe quella figura dolce, e non sapendo ben capire come
ad essa convenisse il gran nome guerriero, chinavano
religiosamente la fronte, o gli si protendevano come ad
un essere sovrumano. Non era difficile immaginare le
folle deliranti di certi altri paesi prostrate per
voluttà di farsi schiacciare dai carri sacri. Egli
correggeva con lo sguardo quei fanatismi. |