Dante Alighieri
Convivio
TRATTATO I
Capitolo I
Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia,
tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di
che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di
propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria
perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de
la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade,
tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da
questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse
cagioni, che dentro a l'uomo e di fuori da esso lui rimovono da l'abito
di scienza. Dentro da l'uomo possono essere due difetti e
impedimenti: l'uno da la parte del corpo, l'altro da la parte de
l'anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono
indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come
sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l'anima è quando
la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose
delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle
ogni cosa tiene a vile. Di fuori da l'uomo possono essere
similemente due cagioni intese, l'una de le quali è induttrice
di necessitade, l'altra di pigrizia. La prima è la cura
familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene de li
uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser
non possono. L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è
nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente
privato, ma da gente studiosa lontano.
Le due di queste
cagioni, cioè la prima da la parte di dentro e la prima da la
parte di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di
perdono degne; le due altre, avvegna che l'una più, sono degne
di biasimo e d'abominazione. Manifestamente adunque può vedere
chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l'abito da
tutti desiderato possano pervenire, e innumerevoli quasi sono li
'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati
quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li
angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune
cibo! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è
amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama,
coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia
sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e
ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di
beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la
loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo,
de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è
nominata. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma,
fuggito de la pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono
ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di
quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in
quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non
me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale
a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li
ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro
apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch'i' ho
loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta
vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. E
questo è quello convivio, di quello pane degno, con tale vivanda
qual io intendo indarno non essere ministrata. E però ad esso
non s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, però che né
denti né lingua ha né palato; né alcuno settatore di vizii,
perché lo stomaco suo è pieno d'omori venenosi contrarii, sì
che mai vivanda non terrebbe. Ma vegna qua qualunque è per cura
familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li
altri simili impediti s'assetti; e a li loro piedi si pongano
tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni
di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda
col pane, che la farà loro e gustare e patire. La vivanda di
questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè
quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate, le quali
sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì che
a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. Ma
questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la
quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.
E se ne la
presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più
virilmente si trattasse che ne la Vita Nuova, non intendo però a
quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per
questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e
passionata, questa temperata e virile esser conviene. Ché altro
si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; perché
certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono
sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto io
in quella dinanzi, a l'entrata de la mia gioventute parlai, e in
questa dipoi, quella già trapassata. E con ciò sia cosa che la
vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano
le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo
mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una
ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono
convitati. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse
tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al mio
volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la
mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.
Capitolo II
Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li
sergenti prendere lo pane apposito, e quello purgare da ogni
macula. Per che io, che ne la presente scrittura tengo luogo di
quelli, da due macule mondare intendo primieramente questa
esposizione, che per pane si conta nel mio corredo. L'una, è che
parlare alcuno di se medesimo pare non licito; l'altra è, che
parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo
illicito e 'l non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga
in questa forma. Non si concede per li retorici alcuno di se
medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò è l'uomo
rimosso, perché parlare d'alcuno non si può che il parladore
non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla; le quali due
cagioni rusticamente stanno, a far dire di sé, ne la bocca di
ciascuno. E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio
sta biasimare che lodare, avvegna che l'uno e l'altro non sia da
fare. La ragione è che qualunque cosa è per sé da biasimare,
è più laida che quella che è per accidente. Dispregiar se
medesimo è per sé biasimevole, però che a l'amico dee l'uomo
lo suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico che l'uomo
a sé; onde ne la camera de' suoi pensieri se medesimo riprender
dee e piangere li suoi difetti, e non palese. Ancora: del non
potere e del non sapere ben sé menare le più volte non è l'uomo
vituperato, ma del non volere è sempre, perché nel volere e nel
non volere nostro si giudica la malizia e la bontade; e però chi
biasima se medesimo appruova sé conoscere lo suo difetto,
appruova sé non essere buono: per che, per sé, è da lasciare
di parlare sé biasimando. Lodare sé è da fuggire sì come male
per accidente, in quanto lodare non si può, che quella loda non
sia maggiormente vituperio. È loda ne la punta de le parole, è
vituperio chi cerca loro nel ventre: ché le parole sono fatte
per mostrare quello che non si sa, onde chi loda sé mostra che
non creda essere buono tenuto; che non li incontra sanza
maliziata conscienza, la quale, sé lodando, discuopre e,
discoprendo, si biasima.
E ancora la
propria loda e lo proprio biasimo è da fuggire per una ragione
igualmente, sì come falsa testimonianza fare; però che non è
uomo che sia di sé vero e giusto misuratore, tanto la propria
caritate ne 'nganna. Onde avviene che ciascuno ha nel suo
giudicio le misure del falso mercatante, che compera con l'una e
vende con l'altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal
fare e con piccola cerca lo bene; sì che 'l numero e la
quantità e 'l peso del bene li pare più che se con giusta
misura fosse saggiato, e quello del male meno. Per che, parlando
di sé con loda o col contrario, o dice falso per rispetto a la
cosa di che parla; o dice falso per rispetto a la sua sentenza, c'ha
l'una e l'altra falsitate. E però, con ciò sia cosa che lo
consentire è uno confessare, villania fa chi loda o chi biasima
dinanzi al viso alcuno, perché né consentire né negare puote
lo così estimato sanza cadere in colpa di lodarsi o di biasimare:
salva qui la via de la debita correzione, che essere non può
sanza improperio del fallo che correggere s'intende; e salva la
via del debito onorare e magnificare, la quale passar non si può
sanza far menzione de l'opere virtuose, o de le dignitadi
virtuosamente acquistate.
Veramente, al
principale intendimento tornando, dico, come è toccato di sopra,
per necessarie cagioni lo parlare di sé è conceduto: e intra l'altre
necessarie cagioni due sono più manifeste. L'una è quando sanza
ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare; e
allora si concede, per la ragione che de li due sentieri prendere
lo men reo è quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse
Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di
consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio,
mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si
levava. L'altra è quando, per ragionare di sé, grandissima
utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione
mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di sé, ché per
lo processo de la sua vita, lo quale fu di non buono in buono, e
di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo
e dottrina, la quale per sì vero testimonio ricevere non si
potea. Per che se l'una e l'altra di queste ragioni mi scusa,
sufficientemente lo pane del mio formento è purgato de la prima
sua macula. Movemi timore d'infamia, e movemi desiderio di
dottrina dare la quale altri veramente dare non può. Temo la
infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge
le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata; la quale
infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo
quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente
cagione. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che
per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è
nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solamente darà
diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a così
parlare e a così intendere l'altrui scritture.
Capitolo III
Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un'altra. E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l'altra, per fuggire questa riprensione, che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sé ha forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l'universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d'essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato - , per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m'aveano imaginato, nel conspetto de' quali non solamente mia persona invilìo, ma di minor pregio si fece ogni opera, si già fatta, come quella che fosse a fare. La ragione per che ciò incontra - non pur in me, ma in tutti - brievemente or qui piace toccare: e prima, perché la stima oltre la veritade si sciampia; e poi, perché la presenzia oltre la veritade stringe. La fama buona principalmente è generata da la buona operazione ne la mente de l'amico, e da quella è prima partorita; ché la mente del nemico, avvegna che riceva lo seme, non concepe. Quella mente che prima la partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per la caritade de l'amico che lo riceve, non si tiene a li termini del vero, ma passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra conscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra essa. La seconda mente che ciò riceve, non solamente a la dilatazione de la prima sta contenta, ma 'l suo riportamento, sì come quasi suo effetto, procura d'adornare; e sì, che per questo fare e per lo 'nganno che riceve de la caritade in lei generata, quella più ampia fa che a lei non viene, e con concordia e con discordia di conscienza come la prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito si dilata. E così, volgendo le cagioni sopra dette ne le contrarie, si può vedere la ragione de la infamia, che simigliantemente si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che la Fama vive per essere mobile, e acquista grandezza per andare. Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa imaginata nel vero stato.
Capitolo IV
Mostrata ragione innanzi per che la fama dilata lo bene e lo male
oltre la vera quantità, resta in questo capitolo a mostrar
quelle ragioni che fanno vedere perché la presenza ristringe per
opposito; e mostrate quelle, si verrà lievemente al principale
proposito, cioè de la sopra notata scusa.
Dico adunque che
per tre cagioni la presenza fa la persona di meno valore ch'ella
non è: l'una de le quali è puerizia, non dico d'etate ma d'animo;
la seconda è invidia, - e queste sono ne lo giudicatore -; la
terza è l'umana impuritade, e questa è ne lo giudicato. La
prima si può brievemente così ragionare. La maggiore parte de
li uomini vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di
pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non
semplicemente di fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine
è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi de
la ragione, li quali passano a veder quello. Onde tosto veggiono
tutto ciò che ponno, e giudicano secondo la loro veduta. E però
che alcuna oppinione fanno ne l'altrui fama per udita, da la
quale ne la presenza si discorda lo imperfetto giudicio che non
secondo ragione ma secondo senso giudica solamente, quasi
menzogna reputano ciò che prima udito hanno, e dispregiano la
persona prima pregiata. Onde appo costoro, che sono, ohmè, quasi
tutti, la presenza ristringe l'una e l'altra qualitade. Questi
cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e
spesso tristi di brievi dilettazioni e tristizie, tosto amici e
tosto nemici; ogni cosa fanno come pargoli, sanza uso di ragione.
La seconda si vede per queste ragioni: che paritade ne li viziosi
è cagione d'invidia, e invidia è cagione di mal giudicio, però
che non lascia la ragione argomentare per la cosa invidiata, e la
potenza giudicativa è allora quel giudice che ode pur l'una
parte. Onde quando questi cotali veggiono la persona famosa,
incontanente sono invidi, però che veggiono a sé pari membra e
pari potenza, e temono, per la eccellenza di quel cotale, meno
esser pregiati. E questi non solamente passionati mal giudicano,
ma, diffamando, fanno a li altri mal giudicare; per che appo
costoro la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno
appresentato: e dico lo male, perché molti, dilettandosi ne le
male operazioni, hanno invidia a' mali operatori. La terza si è
l'umana impuritade, la quale si prende da la parte di colui ch'è
giudicato, e non è sanza familiaritade e conversazione alcuna.
Ad evidenza di questa, è da sapere che l'uomo è da più parti
maculato, e, come dice Agustino, nullo è sanza macula. Quando è
l'uomo maculato d'una passione, a la quale tal volta non può
resistere; quando è maculato d'alcuno disconcio membro; e quando
è maculato d'alcuno colpo di fortuna; e quando è maculato d'infamia
di parenti o d'alcuno suo prossimo: le quali cose la fama non
porta seco ma la presenza, e discuoprele per sua conversazione. E
queste macule alcuna ombra gittano sopra la chiarezza de la
bontade, sì che la fanno parere men chiara e men valente. E
questo è quello per che ciascuno profeta è meno onorato ne la
sua patria; questo è quello per che l'uomo buono dee la sua
presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che
'l nome suo sia ricevuto, ma non spregiato. E questa terza
cagione può essere così nel male come nel bene, se le cose de
la sua ragione si volgano ciascuna in suo contrario. Per che
manifestamente si vede che per impuritade, sanza la quale non è
alcuno, la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno più
che 'l vero non vuole.
Onde con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia
quasi a tutti li Italici appresentato, per che fatto mi sono più
vile forse che 'l vero non vuole non solamente a quelli a li
quali mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri, onde le
mie cose sanza dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più
alto stilo dea, ne la presente opera, un poco di gravezza, per la
quale paia di maggiore autoritade. E questa scusa basti a la
fortezza del mio comento.
Capitolo V
Poi che purgato è questo pane da le macule accidentali, rimane
ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l'essere vulgare e
non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di
frumento. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che
mossero me ad eleggere innanzi questo che l'altro: l'una si muove
da cautela di disconvenevole ordinazione; l'altra da prontezza di
liberalitade; la terza da lo naturale amore a propria loquela. E
queste cose per sue ragioni, a sodisfacimento di ciò che
riprendere si potesse per la notata ragione, intendo per ordine
ragionare in questa forma.
Quella cosa che più adorna e commenda l'umana operazione, e che
più dirittamente a buon fine la mena, si è l'abito di quelle
disposizioni che sono ordinate a lo inteso fine; sì com'è
ordinata al fine de la cavalleria franchezza d'animo e fortezza
di corpo. E così colui che è ordinato a l'altrui servigio dee
avere quelle disposizioni che sono a quello fine ordinate, sì
come subiezione, conoscenza e obedienza, sanza le quali è
ciascuno disordinato a ben servire; perché, s'elli non è
subietto in ciascuna condizione, sempre con fatica e con gravezza
procede nel suo servigio e rade volte quello continua; e se elli
non è conoscente del bisogno del suo signore e a lui non è
obediente, non serve mai se non a suo senno e a suo volere, che
è più servigio d'amico che di servo. Dunque, a fuggire questa
disordinazione, conviene questo comento, che è fatto invece di
servo a le 'nfrascritte canzoni, esser subietto a quelle in
ciascuna sua condizione, ed essere conoscente del bisogno del suo
signore e a lui obediente. Le quali disposizioni tutte li
mancavano, se latino e non volgare fosse stato, poi che le
canzoni sono volgari. Ché, primamente, non era subietto ma
sovrano, e per nobilità e per vertù e per bellezza. Per
nobilità, perché lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo
volgare è non stabile e corruttibile. Onde vedemo ne le
scritture antiche de le comedie e tragedie latine, che non si
possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non
avviene del volgare, lo quale a piacimento artificiato si
transmuta. Onde vedemo ne le cittadi d'Italia, se bene volemo
agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti
e nati e variati; onde se 'l picciol tempo così transmuta, molto
più transmuta lo maggiore. Sì ch'io dico, che se coloro che
partiron d'esta vita già sono mille anni tornassero a le loro
cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente
strana, per la lingua da loro discordante. Di questo si parlerà
altrove più compiutamente in uno libello ch'io intendo di fare,
Dio concedente, di Volgare Eloquenza.
Ancora, non era
subietto ma sovrano per vertù. Ciascuna cosa è virtuosa in sua
natura che fa quello a che ella è ordinata; e quanto meglio lo
fa tanto è più virtuosa. Onde dicemo uomo virtuoso che vive in
vita contemplativa o attiva, a le quali è ordinato naturalmente;
dicemo del cavallo virtuoso che corre forte e molto, a la qual
cosa è ordinato; dicemo una spada virtuosa che ben taglia le
dure cose, a che essa è ordinata. Così lo sermone, lo quale è
ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando
quello fa, e più virtuoso quello che più lo fa; onde, con ciò
sia cosa che lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente
che lo volgare far non può, sì come sanno quelli che hanno l'uno
e l'altro sermone, più è la vertù sua che quella del volgare.
Ancora, non era
subietto ma sovrano per bellezza. Quella cosa dice l'uomo essere
bella cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro
armonia resulta piacimento. Onde pare l'uomo essere bello, quando
le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto,
quando le voci di quello, secondo debito de l'arte, sono intra
sé rispondenti. Dunque quello sermone è più bello ne lo quale
più debitamente si rispondono le parole; e più debitamente si
rispondono in latino che in volgare, però che lo volgare seguita
uso, e lo latino arte: onde concedesi esser più bello, più
virtuoso e più nobile. Per che si conchiude lo principale
intendimento, cioè che non sarebbe stato subietto a le canzoni,
ma sovrano.
Capitolo VI
Mostrato come lo presente comento non sarebbe stato subietto a le
canzoni volgari se fosse stato latino, resta a mostrare come non
sarebbe stato conoscente, né obediente a quelle; e poi sarà
conchiuso come per cessare disconvenevoli disordinazioni fu
mestiere volgarmente parlare. Dico che 'l latino non sarebbe
stato servo conoscente al signore volgare per cotal ragione. La
conoscenza del servo si richiede massimamente a due cose
perfettamente conoscere. L'una si è la natura del signore: onde
sono signori di sì asinina natura che comandano lo contrario di
quello che vogliono, e altri che sanza dire vogliono essere
intesi, e altri che non vogliono che 'l servo si muova a fare
quello ch'è mestiere se nol comandano. E perché queste
variazioni sono ne li uomini non intendo al presente mostrare,
che troppo multiplicherebbe la digressione; se non in tanto, che
dico in genere che cotali sono quasi bestie, a li quali la
ragione fa poco prode. Onde, se 'l servo non conosce la natura
del suo signore, manifesto è che perfettamente servire nol può.
L'altra cosa è, che si conviene conoscere al servo, li amici del
suo signore, ché altrimenti non li potrebbe onorare né servire,
e così non servirebbe perfettamente lo suo signore; con ciò sia
cosa che li amici siano quasi parti d'un tutto, però che 'l
tutto loro è uno volere e uno non volere.
Né lo comento
latino avrebbe avuta la conoscenza di queste cose, che l'ha 'l
volgare medesimo. Che lo latino non sia conoscente del volgare e
de' suoi amici, così si pruova. Quelli che conosce alcuna cosa
in genere, non conosce quella perfettamente: sì come, se conosce
da lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perché
non sa se s'è cane o lupo o becco. Lo latino conosce lo volgare
in genere, ma non distinto: che se esso lo conoscesse distinto,
tutti li volgari conoscerebbe, perché non è ragione che l'uno
più che l'altro conoscesse; e così in qualunque uomo fosse
tutto l'abito del latino, sarebbe l'abito di conoscenza distinto
de lo volgare. Ma questo non è; ché uno abituato di latino non
distingue, s'elli è d'Italia, lo volgare inghilese da lo tedesco;
né lo tedesco, lo volgare italico dal provenzale. Onde è
manifesto che lo latino non è conoscente de lo volgare. Ancora,
non è conoscente de' suoi amici, però ch'è impossibile
conoscere li amici, non conoscendo lo principale; onde, se non
conosce lo latino lo volgare, come provato è di sopra,
impossibile è a lui conoscere li suoi amici. Ancora, sanza
conversazione o familiaritade impossibile è a conoscere li
uomini: e lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna
lingua con quanti ha lo volgare di quella, al quale tutti sono
amici; e per consequente non può conoscere li amici del volgare.
E non è contradizione ciò che dire si potrebbe, che lo latino
pur conversa con alquanti amici de lo volgare: ché però non è
familiare di tutti, e così non è conoscente de li amici
perfettamente; però che si richiede perfetta conoscenza, e non
difettiva.
Capitolo VII
Provato che lo comento latino non sarebbe stato servo conoscente,
dirò come non sarebbe stato obediente. Obediente è quelli che
ha la buona disposizione che si chiama obedienza. La vera
obedienza conviene avere tre cose, sanza le quali essere non può:
vuole essere dolce, e non amara; e comandata interamente, e non
spontanea; e con misura, e non dismisurata. Le quali tre cose era
impossibile ad avere lo latino comento, e però era impossibile
ad essere obediente. Che a lo latino fosse stato impossibile,
come detto è, si manifesta per cotale ragione. Ciascuna cosa che
da perverso ordine procede è laboriosa, e per consequente è
amara e non dolce, sì come dormire lo die e vegghiare la notte,
e andare indietro e non innanzi. Comandare lo subietto a lo
sovrano procede da ordine perverso - ché ordine diritto è lo
sovrano a lo subietto comandare -, e così è amaro, e non dolce.
E però che a l'amaro comandamento è impossibile dolcemente
obedire, impossibile è, quando lo subietto comanda, la obedienza
del sovrano essere dolce. Dunque se lo latino è sovrano del
volgare, come di sopra per più ragioni è mostrato, e le canzoni,
che sono in persona di comandatore, sono volgari, impossibile è
la sua obedienza esser dolce.
Ancora: allora
è la obedienza interamente comandata e da nulla parte spontanea,
quando quello che fa chi fa obediendo non averebbe fatto sanza
comandamento, per suo volere, né tutto né in parte. E però se
a me fosse comandato di portare due guarnacche in dosso, e sanza
comandamento io mi portasse l'una, dico che la mia obedienza non
è interamente comandata, ma in parte spontanea. E cotale sarebbe
stata quella del comento latino; e per consequente non sarebbe
stata obedienza comandata interamente. Che fosse stata cotale,
appare per questo: che lo latino sanza lo comandamento di questo
signore averebbe esposite molte parti de la sua sentenza - ed
espone, chi cerca bene le scritture latinamente scritte - che non
lo fa lo volgare in parte alcuna.
Ancora: è l'obedienza con misura, e non dismisurata, quando al
termine del comandamento va, e non più oltre; sì come la natura
particulare è obediente a la universale, quando fa trentadue
denti a l'uomo, e non più né meno, e quando fa cinque dita ne
la mano, e non più né meno; e l'uomo è obediente a la
giustizia quando fa pagar lo debito de la pena, e non più né
meno che la giustizia comanda, al peccatore. Né questo averebbe
fatto lo latino, ma peccato averebbe non pur nel difetto, e non
pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non sarebbe stata la
sua obedienza misurata, ma dismisurata, e per consequente non
sarebbe stato obediente. Che non fosse stato lo latino empitore
del comandamento del suo signore, e che ne fosse stato
soperchiatore, leggermente si può mostrare. Questo signore,
cioè queste canzoni, a le quali questo comento è per servo
ordinato, comandano e vogliono essere esposte a tutti coloro a li
quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando parlano
elle siano intese; e nessuno dubita, che s'elle comandassero a
voce, che questo non fosse lo loro comandamento. E lo latino non
l'averebbe esposte se non a' litterati, ché li altri non l'averebbero
inteso. Onde con ciò sia cosa che molti più siano quelli che
desiderano intendere quelle non litterati che litterati,
seguitasi che non averebbe pieno lo suo comandamento come 'l
volgare, che da li litterati e non litterati è inteso. Anche, lo
latino l'averebbe esposte a gente d'altra lingua, sì come a
Tedeschi e Inghilesi e altri, e qui averebbe passato lo loro
comandamento; ché contra loro volere, largo parlando dico,
sarebbe essere esposta la loro sentenza colà dov'elle non la
potessero con la loro bellezza portare. E però sappia ciascuno
che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua
loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e
armonia. E questa è la cagione per che Omero non si mutò di
greco in latino come l'altre scritture che avemo da loro. E
questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza
dolcezza di musica e d'armonia; ché essi furono transmutati d'ebreo
in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta
quella dolcezza venne meno. E così è conchiuso ciò che si
promise nel principio del capitolo dinanzi a questo
immediate.
Capitolo VIII
Quando è mostrato per le suficienti ragioni come, per cessare
disconvenevoli disordinamenti, converrebbe, a le nominate canzoni
aprire e mostrare, comento volgare e non latino, mostrare intendo
come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l'altro
lasciare. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose
notare, le quali seguitano questo volgare, e lo latino non
averebbero seguitato. La prima è dare a molti; la seconda è
dare utili cose; la terza è, sanza essere domandato lo dono,
dare quello. Ché dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a
molti e giovare a molti è pronto bene, in quanto prende
simiglianza da li benefici di Dio, che è universalissimo
benefattore. E ancora, dare a molti è impossibile sanza dare a
uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma dare a uno si può
bene, sanza dare a molti. Però chi giova a molti fa l'uno bene e
l'altro; chi giova a uno, fa pur un bene: onde vedemo li ponitori
de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tenere
confissi li occhi, quelle componendo. Ancora, dare cose non utili
al prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno
sé essere amico; ma non è perfetto bene, e così non è pronto:
come quando uno cavaliere donasse ad uno medico uno scudo, e
quando uno medico donasse a uno cavaliere scritti li Aphorismi d'Ipocràs,
ovvero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la faccia
del dono dee essere simigliante a quella del ricevitore, cioè a
dire che si convegna con lui, e che sia utile: e in quello è
detta pronta liberalitade di colui che così dicerne donando. Ma
però che li morali ragionamenti sogliono dare desiderio di
vedere l'origine loro, brievemente in questo capitolo intendo
mostrare quattro ragioni per che di necessitade lo dono, acciò
che in quello sia pronta liberalitade, conviene essere utile a
chi riceve.
Primamente,
però che la vertù dee essere lieta, e non trista in alcuna sua
operazione; onde se 'l dono non è lieto nel dare e nel ricevere,
non è in esso perfetta vertù, non è pronta. Questa letizia non
può dare altro che utilitade, che rimane nel datore per lo dare,
e che viene nel ricevitore per ricevere. Nel datore adunque dee
essere la providenza in far sì che de la sua parte rimagna l'utilitade
de l'onestate, ch'è sopra ogni utilitade, e far sì che a lo
ricevitore vada l'utilitade de l'uso de la cosa donata; e così
sarà l'uno e l'altro lieto, e per consequente sarà più pronta
la liberalitade. Secondamente, però che la vertù dee muovere le
cose sempre al migliore. Ché così come sarebbe biasimevole
operazione fare una zappa d'una bella spada o fare un bel nappo d'una
bella chitarra, così è biasimevole muover la cosa d'un luogo
dove sia utile e portarla in parte dove sia meno utile. E però
che biasimevole è invano adoperare, biasimevole è non solamente
a porre la cosa in parte dove sia meno utile, ma eziandio in
parte ove sia igualmente utile. Onde, acciò che sia laudabile lo
mutare de le cose, conviene sempre essere al migliore, per ciò
che dee massimamente essere laudabile: e questo non si può fare
nel dono se 'l dono per transmutazione non viene più caro; né
più caro può venire, se esso non è più utile ad usare al
ricevitore che al datore. Per che si conchiude che 'l dono
conviene essere utile a chi lo riceve, acciò che sia in esso
pronta liberalitade. Terziamente, però che la operazione de la
vertù per sé dee essere acquistatrice d'amici; con ciò sia
cosa che la nostra vita di quello abbisogni, e lo fine de la
vertù sia la nostra vita essere contenta. Onde acciò che 'l
dono faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere utile,
però che l'utilitade sigilla la memoria de la imagine del dono,
la quale è nutrimento de l'amistade; e tanto più forte, quanto
essa è migliore. Onde suole dire Martino: "Non caderà de
la mia mente lo dono che mi fece Giovanni". Per che, acciò
che nel dono sia la sua vertù, la quale è liberalitade, e che
essa sia pronta, conviene essere utile a chi riceve. Ultimamente,
però che la vertù dee avere atto libero e non sforzato. Atto
libero è quando una persona va volentieri ad alcuna parte, che
si mostra nel tener volto lo viso in quella; atto sforzato è
quando contra voglia si va, che si mostra in non guardare ne la
parte dove si va. E allora sì guarda lo dono a quella parte,
quando si dirizza al bisogno de lo ricevente. E però che
dirizzarsi ad esso non si può se non sia utile, conviene, acciò
che sia con atto libero la vertù, essere utile lo dono a la
parte ov'elli vae, ch'è lo ricevitore; e per consequente
conviene essere ne lo dono l'utilità de lo ricevitore, acciò
che quinci sia pronta liberalitade.
La terza cosa,
ne la quale si può notare la pronta liberalitade, si è dare non
domandato: acciò che 'l domandato è da una parte non vertù ma
mercatantia, però che lo ricevitore compera, tutto che 'l datore
non venda. Per che dice Seneca che "nulla cosa più cara si
compera che quella dove i prieghi si spendono". Onde acciò
che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso
notare, allora, se conviene esser netto d'ogni atto di
mercatantia, conviene esser lo dono non domandato. Perché sì
caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare,
perché sufficientemente si ragionerà ne l'ultimo trattato di
questo libro.
Capitolo IX
Da tutte le tre sopra notate condizioni, che con vegnono
concorrere acciò che sia nel beneficio la pronta liberalitade,
era lo comento latino lontano, e lo volgare è con quelle, sì
come si può manifestamente così contare. Non avrebbe lo latino
così servito a molti: ché se noi reducemo a memoria quello che
di sovra è ragionato, li litterati fuori di lingua italica non
averebbono potuto avere questo servigio, e quelli di questa
lingua, se noi volemo bene vedere chi sono, troveremo che de'
mille l'uno ragionevolmente non sarebbe stato servito; però che
non l'averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da
ogni nobilitade d'animo li rimuove, la quale massimamente
desidera questo cibo. E a vituperio di loro dico che non si deono
chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo
suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate;
sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in
casa per prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare.
Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente
si può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo
beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti. Ché la
bontà de l'animo, la quale questo servigio attende, è in coloro
che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la
litteratura a coloro che l'hanno fatta di donna meretrice; e
questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt'altra
nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e
molte in questa lingua, volgari e non litterati.
Ancora, non
sarebbe lo latino stato datore d'utile dono, che sarà lo volgare.
Però che nulla cosa è utile, se non in quanto è usata, né è
la sua bontade in potenza, che non è essere perfettamente; sì
come l'oro, le margarite e li altri tesori che sono sotterrati...;
però che quelli che sono a mano de l'avaro sono in più basso
loco che non è la terra là dove lo tesoro è nascosto. Lo dono
veramente di questo comento è la sentenza de le canzoni a le
quali fatto è, la qual massimamente intende inducere li uomini a
scienza e a vertù, sì come si vedrà per lo pelago del loro
trattato. Questa sentenza non possono non avere in uso quelli ne
li quali vera nobilità è seminata per lo modo che si dirà nel
quarto trattato; e questi sono quasi tutti volgari, sì come sono
quelli nobili che di sopra, in questo capitolo, sono nominati. E
non ha contradizione perché alcuno litterato sia di quelli; ché,
sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica,
"una rondine non fa primavera". È adunque manifesto
che lo volgare darà cosa utile, e lo latino non l'averebbe data.
Ancora, darà lo
volgare dono non dimandato, che non l'averebbe dato lo latino:
però che darà se medesimo per comento, che mai non fu domandato
da persona; e questo non si può dire de lo latino, che per
comento e per chiose a molte scritture è già stato domandato,
sì come ne' loro principii si può vedere apertamente in molte.
E così è manifesto che pronta liberalitade mi mosse al volgare
anzi che a lo latino.
Capitolo IX
Da tutte le tre sopra notate condizioni, che con vegnono
concorrere acciò che sia nel beneficio la pronta liberalitade,
era lo comento latino lontano, e lo volgare è con quelle, sì
come si può manifestamente così contare. Non avrebbe lo latino
così servito a molti: ché se noi reducemo a memoria quello che
di sovra è ragionato, li litterati fuori di lingua italica non
averebbono potuto avere questo servigio, e quelli di questa
lingua, se noi volemo bene vedere chi sono, troveremo che de'
mille l'uno ragionevolmente non sarebbe stato servito; però che
non l'averebbero ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da
ogni nobilitade d'animo li rimuove, la quale massimamente
desidera questo cibo. E a vituperio di loro dico che non si deono
chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo
suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o dignitate;
sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in
casa per prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare.
Tornando dunque al principale proposito, dico che manifestamente
si può vedere come lo latino averebbe a pochi dato lo suo
beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti. Ché la
bontà de l'animo, la quale questo servigio attende, è in coloro
che per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la
litteratura a coloro che l'hanno fatta di donna meretrice; e
questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt'altra
nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e
molte in questa lingua, volgari e non litterati.
Ancora, non
sarebbe lo latino stato datore d'utile dono, che sarà lo volgare.
Però che nulla cosa è utile, se non in quanto è usata, né è
la sua bontade in potenza, che non è essere perfettamente; sì
come l'oro, le margarite e li altri tesori che sono sotterrati...;
però che quelli che sono a mano de l'avaro sono in più basso
loco che non è la terra là dove lo tesoro è nascosto. Lo dono
veramente di questo comento è la sentenza de le canzoni a le
quali fatto è, la qual massimamente intende inducere li uomini a
scienza e a vertù, sì come si vedrà per lo pelago del loro
trattato. Questa sentenza non possono non avere in uso quelli ne
li quali vera nobilità è seminata per lo modo che si dirà nel
quarto trattato; e questi sono quasi tutti volgari, sì come sono
quelli nobili che di sopra, in questo capitolo, sono nominati. E
non ha contradizione perché alcuno litterato sia di quelli; ché,
sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica,
"una rondine non fa primavera". È adunque manifesto
che lo volgare darà cosa utile, e lo latino non l'averebbe data.
Ancora, darà lo
volgare dono non dimandato, che non l'averebbe dato lo latino:
però che darà se medesimo per comento, che mai non fu domandato
da persona; e questo non si può dire de lo latino, che per
comento e per chiose a molte scritture è già stato domandato,
sì come ne' loro principii si può vedere apertamente in molte.
E così è manifesto che pronta liberalitade mi mosse al volgare
anzi che a lo latino.
Capitolo X
Grande vuole essere la scusa, quando a così nobile convivio per
le sue vivande, a così onorevole per li suoi convitati, s'appone
pane di biado e non di frumento; e vuole essere evidente ragione
che partire faccia l'uomo da quello che per li altri è stato
servato lungamente, sì come di comentare con latino. E però
vuole essere manifesta la ragione, che de le nuove cose lo fine
non è certo; acciò che la esperienza non è mai avuta onde le
cose usate e servate sono e nel processo e nel fine commisurate.
Però si mosse la Ragione a comandare che l'uomo avesse diligente
riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che "ne lo
statuire le nuove cose evidente ragione dee essere quella che
partire ne faccia da quello che lungamente è usato". Non si
maravigli dunque alcuno se lunga è la digressione de la mia
scusa, ma, sì come necessaria, la sua lunghezza paziente
sostenga. La quale proseguendo, dico che - poi ch'è manifesto
come per cessare disconvenevole disordinazione e come per
prontezza di liberalitade io mi mossi al volgare comento e
lasciai lo latino - l'ordine de la intera scusa vuole ch'io
mostri come a ciò mi mossi per lo naturale amore de la propria
loquela; che è la terza e l'ultima ragione che a ciò mi mosse.
Dico che lo naturale amore principalmente muove l'amatore a tre
cose: l'una si è a magnificare l'amato; l'altra è ad esser
geloso di quello; l'altra è a difendere lui, sì come ciascuno
può vedere continuamente avvenire. E queste tre cose mi fecero
prendere lui, cioè lo nostro volgare, lo qual naturalmente e
accidentalmente amo e ho amato. Mossimi prima per magnificare lui.
E che in ciò io lo magnifico, per questa ragione vedere si può;
avvegna che per molte condizioni di grandezze le cose si possono
magnificare, cioè fare grandi, e nulla fa tanto grande quanto la
grandezza de la propia bontade, la quale è madre e conservatrice
de l'altre grandezze; onde nulla grandezza puote avere l'uomo
maggiore che quella de la virtuosa operazione, che è sua propia
bontade, per la quale le grandezze de le vere dignitadi, de li
veri onori, de le vere potenze, de le vere ricchezze, de li veri
amici, de la vera e chiara fama, e acquistate e conservate sono:
e questa grandezza do io a questo amico, in quanto quello elli di
bontade avea in podere e occulto, io lo fo avere in atto e palese
ne la sua propria operazione, che è manifestare conceputa
sentenza.
Mossimi
secondamente per gelosia di lui. La gelosia de l'amico fa l'uomo
sollicito a lunga provedenza. Onde pensando che lo desiderio d'intendere
queste canzoni, a alcuno illitterato avrebbe fatto lo comento
latino transmutare in volgare, e temendo che 'l volgare non fosse
stato posto per alcuno che l'avesse laido fatto parere, come fece
quelli che transmutò lo latino de l'Etica - ciò fu Taddeo
ipocratista -, providi a ponere lui, fidandomi di me di più che
d'un altro. Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi
accusatori, li quali dispregiano esso e commendano li altri,
massimamente quello di lingua d'oco, dicendo che è più bello e
migliore quello che questo; partendose in ciò da la veritade.
Ché per questo comento la gran bontade del volgare di sì si
vedrà; però che si vedrà la sua vertù, sì com'è per esso
altissimi e novissimi concetti convenevolemente, sufficientemente
e acconciamente, quasi come per esso latino, manifestare; la
quale non si potea bene manifestare ne le cose rimate, per le
accidentali adornezze che quivi sono connesse, cioè la rima e lo
ritimo e lo numero regolato: sì come non si può bene
manifestare la bellezza d'una donna, quando li adornamenti de l'azzimare
e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. Onde
chi vuole ben giudicare d'una donna, guardi quella quando solo
sua naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale
adornamento discompagnata: sì come sarà questo comento, nel
quale si vedrà l'agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de
le sue costruzioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le
quali chi bene agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e d'amabilissima
bellezza. Ma però che virtuosissimo è ne la 'ntenzione mostrare
lo difetto e la malizia de lo accusatore, dirò, a confusione di
coloro che accusano la italica loquela, perché a ciò fare si
muovono; e di ciò farò al presente speziale capitolo, perché
più notevole sia la loro infamia.
Capitolo XI
A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d'Italia
che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano,
dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La
prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata
escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta,
argomento d'invidia; la quinta e ultima, viltà d'animo, cioè
pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta,
che pochi sono quelli che siano da esse liberi.
De la prima si
può così ragionare. Sì come la parte sensitiva de l'anima ha
suoi occhi, con li quali apprende la differenza de le cose in
quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha
suo occhio, con lo quale apprende la differenza de le cose in
quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è la discrezione.
E sì come colui che è cieco de li occhi sensibili va sempre
secondo che li altri il guidano, o male o bene, così colui che
è cieco del lume de la discrezione sempre va nel suo giudicio
secondo il grido, o diritto o falso; onde qualunque ora lo
guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch'a
lui s'appoggia vegnano a mal fine. Però è scritto che "'l
cieco al cieco farà guida, e così cadranno ambedue ne la fossa".
Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare, per le
ragioni che di sotto si ragioneranno, appresso di questa. E li
ciechi sopra notati, che sono quasi infiniti, con la mano in su
la spalla a questi mentitori, sono caduti ne la fossa de la falsa
oppinione, de la quale uscire non sanno. De l'abito di questa
luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate;
però che, occupate dal principio de la loro vita ad alcuno
mestiere, dirizzano sì l'animo loro a quello per forza de la
necessitate, che ad altro non intendono. E però che l'abito di
vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si
può, ma conviene che per usanza s'acquisti, ed ellino la loro
usanza pongono in alcuna arte e a discernere l'altre cose non
curano, impossibile è a loro discrezione avere. Per che incontra
che molte volte gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita,
pur che alcuno cominci; e quest'è pericolosissimo difetto ne la
loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana,
perché la vede sanza discrezione. Questi sono da chiamare pecore,
e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille
passi, tutte l'altre l'andrebbero dietro; e se una pecora per
alcuna cagione al passare d'una strada salta, tutte l'altre
saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. E io ne vidi già
molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse
credendo saltare uno muro, non ostante che 'l pastore, piangendo
e gridando, con le braccia e col petto dinanzi a esse si parava.
La seconda setta
contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono
che amano più d'essere tenuti maestri che d'essere, e per fuggir
lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre danno colpa a la
materia de l'arte apparecchiata, o vero a lo strumento; sì come
lo mal fabbro biasima lo ferro appresentato a lui, e lo malo
citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal
coltello e del mal sonare al ferro e a la cetera, e levarla a sé.
Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l'uomo li
tegna dicitori; e per scusarsi dal non dire o dal dire male
accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio, e
commendano l'altro lo quale non è loro richesto di fabbricare. E
chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che
opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia di
costoro che, biasimando lui, sé credono scusare. Contra questi
cotali grida Tullio nel principio d'un suo libro che si chiama
Libro di Fine de' Beni, però che al suo tempo biasimavano lo
latino romano e commendavano la gramatica greca per simiglianti
cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso
quello di Provenza.
La terza setta
contro nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono
molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare
quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la
sua. E sanza dubbio non è sanza loda d'ingegno apprendere bene
la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la
verità, per farsi glorioso di tale acquisto.
La quarta si fa
da uno argomento d'invidia. Sì come è detto di sopra, la
invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d'una
lingua è la paritade del volgare; e perché l'uno quella non sa
usare come l'altro, nasce invidia. Lo invidioso poi argomenta,
non biasimando colui che dice di non saper dire, ma biasima
quello che è materia de la sua opera, per torre, dispregiando l'opera
da quella parte, a lui che dice onore e fama; sì come colui che
biasimasse lo ferro d'una spada, non per biasimo dare al ferro,
ma a tutta l'opera del maestro.
La quinta e
ultima setta si muove da viltà d'animo. Sempre lo magnanimo si
magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario,
sempre si tiene meno che non è. E perché magnificare e
parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa per comparazione
a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo,
avviene che 'l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono,
e lo pusillanimo sempre maggiori. E però che con quella misura
che l'uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono quasi
parte di se medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre
paiono migliori che non sono, e l'altrui men buone: lo
pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui
assai; onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio
volgare, e l'altrui pregiano. E tutti questi cotali sono li
abominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo prezioso
volgare, lo quale, s'è vile in alcuna cosa, non è se non in
quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo
cui condutto vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci
menzione.
Capitolo XII
Se manifestamente per le finestre d'una casa uscisse fiamma di
fuoco, e alcuno dimandasse se là dentro fosse il fuoco, e un
altro rispondesse a lui di sì, non saprei bene giudicare qual di
costoro fosse da schernire di più. E non altrimenti sarebbe
fatta la dimanda e la risposta di colui e di me, che mi
domandasse se amore a la mia loquela propria è in me e io li
rispondesse di sì, appresso le su proposte ragioni. Ma tuttavia,
e a mostrare che non solamente amore ma perfettissimo amore di
quella è in me, e a biasimare ancora li suoi avversarii ciò
mostrando a chi bene intenderà, dirò come a lei fui fatto amico,
e poi come l'amistà è confermata. Dico che, sì come vedere si
può che scrive Tullio in quello De Amicitia, non discordando da
la sentenza del Filosofo aperta ne l'ottavo e nel nono de l'Etica,
naturalmente la prossimitade e la bontade sono cagioni d'amore
generative; lo beneficio, lo studio e la consuetudine sono
cagioni d'amore accrescitive. E tutte queste cagioni vi sono
state a generare e a confortare l'amore ch'io porto al mio
volgare, sì come brievemente io mosterrò.
Tanto è la cosa
più prossima quanto, di tutte le cose del suo genere, altrui è
più unita: onde di tutti li uomini lo figlio è più prossimo al
padre; di tutte l'arti la medicina è la più prossima al medico,
e la musica al musico, però che a loro sono più unite che l'altre;
di tutta la terra è più prossima quella dove l'uomo tiene se
medesimo, però che è ad esso più unita. E così lo volgare è
più prossimo quanto è più unito, che uno e solo è prima ne la
mente che alcuno altro, e che non solamente per sé è unito, ma
per accidente, in quanto è congiunto con le più prossime
persone, sì come con li parenti e con li propri cittadini e con
la propria gente. E questo è lo volgare proprio; lo quale è non
prossimo, ma massimamente prossimo a ciascuno. Per che, se la
prossimitade è seme d'amistà, come detto è di sopra, manifesto
è ch'ella è de le cagioni stata de l'amore ch'io porto a la mia
loquela, che è a me prossima più che l'altre. La sopra detta
cagione, cioè d'essere più unito quello ch'è solo prima in
tutta la mente, mosse la consuetudine de la gente, che fanno li
primogeniti succedere solamente, sì come più propinqui e
perché più propinqui, più amati.
Ancora, la
bontade fece me a lei amico. E qui è da sapere che ogni bontade
propria in alcuna cosa, è amabile in quella: sì come ne la
maschiezza essere ben barbuto, e nella femminezza essere ben
pulita di barba in tutta la faccia; sì come nel bracco bene
odorare, e sì come nel veltro ben correre. E quanto ella è più
propria, tanto ancora è più amabile; onde, avvegna che ciascuna
vertù sia amabile ne l'uomo, quella è più amabile in esso che
è più umana, e questa è la giustizia, la quale è solamente ne
la parte razionale o vero intellettuale, cioè ne la volontade.
Questa è tanto amabile, che, sì come dice lo Filosofo nel
quinto de l'Etica, li suoi nimici l'amano, sì come sono ladroni
e rubatori; e però vedemo che 'l suo contrario, cioè la
ingiustizia, massimamente è odiata, sì come è tradimento,
ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno e loro simili.
Li quali sono tanto inumani peccati, che ad iscusare sé de l'infamia
di quelli, si concede da lunga usanza che uomo parli di sé, sì
come detto è di sopra, e possa dire sé essere fedele e leale.
Di questa vertù innanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo
trattato; e qui lasciando, torno al proposito. Provato è adunque
la bontà de la cosa più propria più essere amabile in quella;
per che, a mostrare quale in essa è più propria, è da vedere
quella che più in essa è amata e commendata, e quella è essa.
E noi vedemo che in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare
del concetto sì è più amato e commendato: dunque è questa la
prima sua bontade. E con ciò sia cosa che questa sia nel nostro
volgare, sì come manifestato è di sopra in altro capitolo,
manifesto è ched ella è de le cagioni stata de l'amore ch'io
porto ad esso; poi che, sì come detto è, la bontade è cagione
d'amore generativa.
Capitolo XIII
Detto come ne la propria loquela sono quelle due cose per le
quali io sono fatto a lei amico, cioè prossimitade a me e bontà
propria, dirò come per beneficio e concordia di studio e per
benivolenza di lunga consuetudine l'amistà è confermata e fatta
grande.
Dico, prima, ch'io
per me ho da lei ricevuto dono di grandissimi benefici. E però
è da sapere che intra tutti i benefici è maggiore quello che
più è prezioso a chi riceve; e nulla cosa è tanto preziosa,
quanto quella per la quale tutte l'altre si vogliono; e tutte l'altre
cose si vogliono per la perfezione di colui che vuole. Onde con
ciò sia cosa che due perfezioni abbia l'uomo, una prima e una
seconda - la prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono -,
se la propria loquela m'è stata cagione e de l'una e de l'altra,
grandissimo beneficio da lei ho ricevuto. E ch'ella sia stata a
me d'essere cagione, e ancora di buono essere se per me non
stesse, brievemente si può mostrare.
Non è secondo
lo Filosofo impossibile, sì come dice ne la Fisica al libro
secondo a una cosa esser più cagioni efficienti, avvegna che una
sia massima de l'altre; onde lo fuoco e lo martello sono cagioni
efficienti de lo coltello, avvegna che massimamente è il fabbro.
Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti, che con
esso parlavano, sì come 'l fuoco è disponitore del ferro al
fabbro che fa lo coltello; per che manifesto è lui essere
concorso a la mia generazione, e così essere alcuna cagione del
mio essere. Ancora, questo mio volgare fu introduttore di me ne
la via di scienza, che è ultima perfezione, in quanto con esso
io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino
poi mi fu via a più innanzi andare. E così è palese, e per me
conosciuto, esso essere stato a me grandissimo benefattore.
Anche, è stato
meco d'uno medesimo studio, e ciò posso così mostrare. Ciascuna
cosa studia naturalmente a la sua conservazione: onde, se lo
volgare per sé studiare potesse, studierebbe a quella; e quella
sarebbe acconciare sé a più stabilitade, e più stabilitade non
potrebbe avere che in legar sé con numero e con rime. E questo
medesimo studio è stato mio, sì come tanto è palese che non
dimanda testimonianza. Per che uno medesimo studio è stato lo
suo e 'l mio; per che di questa concordia l'amistà è confermata
e accresciuta. Anche c'è stata la benivolenza de la consuetudine,
ché dal principio de la mia vita ho avuta con esso benivolenza e
conversazione, e usato quello diliberando, interpetrando e
questionando. Per che, se l'amistà s'accresce per la
consuetudine, sì come sensibilmente appare, manifesto è che
essa in me massimamente è cresciuta, che sono con esso volgare
tutto mio tempo usato. E così si vede essere a questa amistà
concorse tutte le cagioni generative e accrescitive de l'amistade:
per che si conchiude che non solamente amore, ma perfettissimo
amore sia quello ch'io a lui debbo avere e ho.
Così rivolgendo
li occhi a dietro, e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi
vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte
canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule e da l'essere
di biado; per che tempo è d'intendere a ministrare le vivande.
Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno
migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo sarà
luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato
tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in
oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.
TRATTATO II
Canzone Prima |
Capitolo I
Poi che proemialmente ragionando, me ministro, è lo mio pane ne
lo precedente trattato con sufficienza preparato, lo tempo chiama
e domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato l'artimone
de la ragione a l'òra del mio desiderio, entro in pelago con
isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile ne
la fine de la mia cena. Ma però che più profittabile sia questo
mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare come
mangiare si dee.
Dico che, sì
come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene
essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol
sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere
massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, e
questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de
le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro
si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto 'l
manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella
menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la
cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere;
che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce
faria mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a
la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: e
coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come
pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi,
nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo
senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia
intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso
allegorico secondo che per li poeti è usato.
Lo terzo senso
si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono
intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di
loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo
Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che
de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si
può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca
compagnia.
Lo quarto senso
si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando
spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera
eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa
de le superne cose de l'etternal gloria, sì come vedere si può
in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo
d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Ché avvegna
essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero
quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima
dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in
dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì
come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo
quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e
massimamente a lo allegorico. È impossibile, però che in
ciascuna cosa che ha dentro e di fuori, è impossibile venire al
dentro se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò sia cosa
che ne le scritture la litterale sentenza sia sempre lo di fuori,
impossibile è venire a l'altre, massimamente a l'allegorica,
sanza prima venire a la litterale. Ancora, è impossibile però
che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile
procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto
sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l'oro
è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e
apparecchiata; e la forma de l'arca venire, se la materia, cioè
lo legno, non è prima disposta e apparecchiata. Onde con ciò
sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia
de l'altre, massimamente de l'allegorica, impossibile è prima
venire a la conoscenza de l'altre che a la sua. Ancora, è
impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale,
è impossibile procedere, se prima non è fatto lo fondamento,
sì come ne la casa e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia
cosa che 'l dimostrare sia edificazione di scienza, e la
litterale dimostrazione sia fondamento de l'altre, massimamente
de l'allegorica, impossibile è a l'altre venire prima che a
quella.
Ancora, posto
che possibile fosse, sarebbe inrazionale, cioè fuori d'ordine, e
però con molta fatica e con molto errore si procederebbe. Onde,
sì come dice lo Filosofo nel primo de la Fisica, la natura vuole
che ordinatamente si proceda ne la nostra conoscenza, cioè
procedendo da quello che conoscemo meglio in quello che conoscemo
non così bene: dico che la natura vuole, in quanto questa via di
conoscere è in noi naturalmente innata. E però se li altri
sensi dal litterale sono meno intesi - che sono, sì come
manifestamente pare -, inrazionabile sarebbe procedere ad essi
dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato. Io
adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone
ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella
ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e
talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo
e a tempo si converrà.
Capitolo II
Cominciando adunque, dico che la stella di Venere due fiate
rivolta era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e
matutina, secondo diversi tempi, appresso lo trapassamento di
quella Beatrice beata che vive in cielo con li angeli e in terra
con la mia anima, quando quella gentile donna, cui feci menzione
ne la fine de la Vita Nuova, parve primamente, accompagnata d'Amore,
a li occhi miei e prese luogo alcuno ne la mia mente. E sì come
è ragionato per me ne lo allegato libello, più da sua
gentilezza che da mia elezione venne ch'io ad essere suo
consentisse; ché passionata di tanta misericordia si dimostrava
sopra la mia vedovata vita, che li spiriti de li occhi miei a lei
si fero massimamente amici. E così fatti, dentro me lei poi fero
tale, che lo mio beneplacito fu contento a disposarsi a quella
imagine. Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande
e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri,
massimamente là dove sono pensieri contrari che lo 'mpediscano,
convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta
battaglia intra lo pensiero del suo nutrimento e quello che li
era contraro, lo quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora
la rocca de la mia mente. Però che l'uno era soccorso de la
parte de la vista dinanzi continuamente, e l'altro de la parte de
la memoria di dietro. E lo soccorso dinanzi ciascuno die crescea,
che far non potea l'altro, contro quello, ché impediva in alcuno
modo a dare indietro il volto; per che a me parve sì mirabile, e
anche duro a sofferire, che io nol potei sostenere. E quasi
esclamando, e per iscusare me de la varietade ne la quale parea
me avere manco di fortezza, dirizzai la voce mia in quella parte
onde procedeva la vittoria del nuovo pensiero, ch'era
virtuosissimo sì come vertù celestiale; e cominciai a dire: Voi
che 'ntendendo il terzo ciel movete.
A lo 'ntendimento
de la quale canzone bene imprendere, conviene prima conoscere le
sue parti, sì che leggiero sarà poi lo suo intendimento a
vedere. Acciò che più non sia mestiere di predicere queste
parole per le sposizioni de l'altre, dico che questo ordine, che
in questo trattato si prenderà, tenere intendo per tutti li
altri.
Adunque dico che
la canzone proposta è contenuta da tre parti principali. La
prima è lo primo verso di quella: ne la quale s'inducono a udire
ciò che dire intendo certe Intelligenze, o vero per più usato
modo volemo dire Angeli, le quali sono a la revoluzione del cielo
di Venere, sì come movitori di quello. La seconda è li tre
versi che appresso del primo sono: ne la quale si manifesta quel
che dentro spiritualmente si sentiva intra' diversi pensieri. La
terza è lo quinto e l'ultimo verso: ne la quale sì vuole l'uomo
parlare a l'opera medesima, quasi a confortare quella. E queste
tutte e tre parti, per ordine sono, come è detto di sopra, a
dimostrare.
Capitolo III
A più latinamente vedere la sentenza litterale, a la quale ora s'intende,
de la prima parte sopra divisa, è da sapere chi e quanti sono
costoro che son chiamati a l'audienza mia, e quale è questo
terzo cielo lo quale dico loro muovere: e prima dirò del cielo,
poi dirò di loro a cu' io parlo. E avvegna che quelle cose, per
rispetto de la veritade, assai poco sapere si possano, quel
cotanto che l'umana ragione ne vede ha più dilettazione che 'l
molto e 'l certo de le cose de le quali si giudica secondo lo
senso, secondo la sentenza del Filosofo in quello de li Animali.
Dico adunque,
che del numero de li cieli e del sito diversamente è sentito da
molti, avvegna che la veritade a l'ultimo sia trovata. Aristotile
credette, seguitando solamente l'antica grossezza de li astrologi,
che fossero pure otto cieli, de li quali lo estremo, e che
contenesse tutto, fosse quello dove le stelle fisse sono, cioè
la spera ottava; e che di fuori da esso non fosse altro alcuno.
Ancora credette che lo cielo del Sole fosse immediato con quello
de la Luna, cioè secondo a noi. E questa sua sentenza così
erronea può vedere chi vuole nel secondo De Celo et Mundo, ch'è
nel secondo de' libri naturali. Veramente elli di ciò si scusa
nel duodecimo de la Metafisica, dove mostra bene sé avere
seguito pur l'altrui sentenza là dove d'astrologia li convenne
parlare.
Tolomeo poi,
accorgendosi che l'ottava spera si movea per più movimenti,
veggendo lo cerchio suo partire da lo diritto cerchio, che volge
tutto da oriente in occidente, costretto da li principii di
filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile
semplicissimo, puose un altro cielo essere fuori de lo Stellato,
lo quale facesse questa revoluzione da oriente in occidente: la
quale dico che si compie quasi in ventiquattro ore, cioè in
ventitrè ore e quattordici parti de le quindici d'un'altra,
grossamente assegnando. Sì che secondo lui, secondo quello che
si tiene in astrologia ed in filosofia poi che quelli movimenti
furon veduti, sono nove cieli mobili; lo sito de li quali è
manifesto e diterminato, secondo che per un'arte che si chiama
perspettiva, e per arismetrica e geometria, sensibilmente e
ragionevolmente è veduto, e per altre esperienze sensibili: sì
come ne lo eclipsi del sole appare sensibilmente la luna essere
sotto lo sole e sì come per testimonianza d'Aristotile, che vide
con li occhi (secondo che dice nel secondo De Celo et Mundo) la
luna, essendo nuova, entrare sotto a Marte da la parte non
lucente, e Marte stare celato tanto che rapparve da l'altra parte
lucente de la luna, ch'era verso occidente.
Ed è l'ordine
del sito questo, che lo primo che numerano è quello dove è la
Luna; lo secondo è quello dov'è Mercurio; lo terzo è quello
dov'è Venere; lo quarto è quello dove è lo Sole; lo quinto è
quello di Marte; lo sesto è quello di Giove; lo settimo è
quello di Saturno; l'ottavo è quello de le Stelle; lo nono è
quello che non è sensibile se non per questo movimento che è
detto di sopra; lo quale chiamano molti Cristallino, cioè
diafano, o vero tutto trasparente. Veramente, fuori di tutti
questi, li cattolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire
cielo di fiamma o vero luminoso; e pongono esso essere immobile
per avere in sé, secondo ciascuna parte, ciò che la sua materia
vuole. E questo è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo
movimento; ché per lo ferventissimo appetito ch'è 'n ciascuna
parte di quello nono cielo, che è immediato a quello, d'essere
congiunta con ciascuna parte di quello divinissimo ciel quieto,
in quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua velocitade
è quasi incomprensibile. E quieto e pacifico è lo luogo di
quella somma Deitade che sola sé compiutamente vede. Questo loco
è di spiriti beati, secondo che la Santa Chiesa vuole, che non
può dire menzogna; e Aristotile pare ciò sentire, a chi bene lo
'ntende, nel primo De Celo et Mundo. Questo è lo soprano
edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s'inchiude, e di
fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo ma formato fu
solo ne la prima Mente, la quale li Greci dicono Protonoè.
Questa è quella magnificenza de la quale parlò il Salmista
quando dice a Dio: "Levata è la magnificenza tua sopra li
cieli". E così ricogliendo ciò che ragionato è, pare che
diece cieli siano, de li quali quello di Venere sia lo terzo, del
quale si fa menzione in quella parte che mostrare intendo.
Ed è da sapere
che ciascuno cielo di sotto al Cristallino ha due poli fermi,
quanto a sé; e lo nono li ha fermi e fissi, e non mutabili
secondo alcuno respetto. E ciascuno, sì lo nono come li altri,
hanno un cerchio, che si può chiamare equatore del suo cielo
proprio; lo quale igualmente in ciascuna parte de la sua
revoluzione è rimoto da l'uno polo e da l'altro, come può
sensibilmente vedere chi volge un pomo, o altra cosa ritonda. E
questo cerchio ha più rattezza nel muovere che alcuna parte del
suo cielo, in ciascuno cielo, come può vedere chi bene considera.
E ciascuna parte, quant'ella più è presso ad esso, tanto più
rattamente si muove; quanto più n'è remota e più presso al
polo, più è tarda, però che la sua revoluzione è minore, e
conviene essere in uno medesimo tempo, di necessitade, con la
maggiore. Dico ancora, che quanto lo cielo più è presso al
cerchio equatore tanto è più nobile per comparazione a li suoi
poli, però che ha più movimento e più attualitade e più vita
e più forma, e più tocca di quello che è sopra sé, e per
consequente più è virtuoso. Onde le stelle del Cielo Stellato
sono più piene di vertù tra loro quanto più sono presso a
questo cerchio.
E in sul dosso
di questo cerchio, nel cielo di Venere, del quale al presente si
tratta, è una speretta che per se medesima in esso cielo si
volge; lo cerchio de la quale li astrologi chiamano epiciclo. E
sì come la grande spera due poli volge, così questa picciola, e
così ha questa picciola lo cerchio equatore, e così è più
nobile quanto è più presso di quello; e in su l'arco, o vero
dosso, di questo cerchio è fissa la lucentissima stella di
Venere. E avvegna che detto sia essere diece cieli secondo la
stretta veritade, questo numero non li comprende tutti; ché
questo di cui è fatta menzione, cioè l'epiciclo nel quale è
fissa la stella, è uno cielo per sé, o vero spera, e non ha una
essenza con quello che 'l porta, avvegna che più sia connaturato
ad esso che li altri; e con esso è chiamato uno cielo, e
dinominasi l'uno e l'altro da la stella. Come li altri cieli e l'altre
stelle siano, non è al presente da trattare: basti ciò che
detto è de la veritade del terzo cielo, del quale al presente
intendo e del quale compiutamente è mostrato quello che al
presente n'è mestiere.
Capitolo IV
Poi ch'è mostrato nel precedente capitolo quale è questo terzo
cielo e come in se medesimo è disposto, resta di dimostrare chi
sono questi che 'l muovono. È adunque da sapere primamente che
li movitori di quelli sono sustanze separate da materia, cioè
intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E di
queste creature, sì come de li cieli, diversi diversamente hanno
sentito, avvegna che la veritade sia trovata. Furono certi
filosofi, de' quali pare essere Aristotile ne la sua Metafisica (avvegna
che nel primo di Cielo incidentemente paia sentire altrimenti),
che credettero solamente essere tante queste, quante circulazioni
fossero ne li cieli, e non più, dicendo che l'altre sarebbero
state etternalmente indarno, sanza operazione; ch'era impossibile,
con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione. Altri
furono, sì come Plato, uomo eccellentissimo, che puosero non
solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti del cielo,
ma eziandio quante sono le spezie de le cose (cioè le maniere de
le cose): sì come è una spezie tutti li uomini, e un'altra
tutto l'oro, e un'altra tutte le larghezze, e così di tutte. E
volsero che sì come le Intelligenze de li cieli sono generatrici
di quelli, ciascuna del suo, così queste fossero generatrici de
l'altre cose ed essempli, ciascuna de la sua spezie; e chiamale
Plato a "idee", che tanto è a dire quanto forme e
nature universali. Li gentili le chiamano Dei e Dee, avvegna che
non così filosoficamente intendessero quelle come Plato, e
adoravano le loro imagini, e faceano loro grandissimi templi: sì
come a Giuno, la quale dissero dea di potenza; sì come a Pallade
o vero Minerva, la quale dissero dea di sapienza; sì come a
Vulcano, lo quale dissero dio del fuoco, ed a Cerere, la quale
dissero dea de la biada. Le quali cose e oppinioni manifesta la
testimonianza de' poeti, che ritraggono in parte alcuna lo modo
de' gentili e ne li sacrifici e ne la loro fede; e anco si
manifesta in molti nomi antichi rimasi o per nomi o per sopranomi
a lochi e antichi edifici, come può bene ritrovare chi vuole.
E avvegna che
per ragione umana queste oppinioni di sopra fossero fornite, e
per esperienza non lieve, la veritade ancora per loro veduta non
fue e per difetto di ragione e per difetto d'ammaestramento; ché
pur per ragione veder si può in molto maggiore numero esser le
creature sopra dette, che non sono li effetti che da li uomini si
possono intendere. E l'una ragione è questa. Nessuno dubita, né
filosofo né gentile né giudeo né cristiano né alcuna setta,
ch'elle non siano piene di tutta beatitudine, o tutte o la
maggior parte, e che quelle beate non siano in perfettissimo
stato. Onde, con ciò sia cosa che quella che è qui l'umana
natura non pur una beatitudine abbia, ma due, sì com'è quella
de la vita civile, e quella de la contemplativa, inrazionale
sarebbe se noi vedemo quelle avere la beatitudine de la vita
attiva, cioè civile, nel governare del mondo, e non avessero
quella de la contemplativa, la quale è più eccellente e più
divina. E con ciò sia cosa che quella che ha la beatitudine del
governare non possa l'altra avere, perché lo 'ntelletto loro è
uno e perpetuo, conviene essere altre fuori di questo ministerio
che solamente vivano speculando. E perché questa vita è più
divina, e quanto la cosa è più divina è più di Dio
simigliante, manifesto è che questa vita è da Dio più amata; e
se ella è più amata, più le è la sua beatanza stata larga; e
se più l'è stata larga, più viventi le ha dato che a l'altrui.
Per che si conchiude che troppo maggior numero sia quello di
quelle creature che li effetti non dimostrano. E non è contra
quello che par dire Aristotile nel decimo de l'Etica, che a le
sustanze separate convegna pure la speculativa vita. Come pure la
speculativa convegna loro, pure a la speculazione di certe segue
la circulazione del cielo, che è del mondo governo; lo quale è
quasi una ordinata civilitade, intesa ne la speculazione de li
motori.
L'altra ragione
si è che nullo effetto è maggiore de la cagione, poi che la
cagione non può dare quello che non ha; ond'è, con ciò sia
cosa che lo divino intelletto sia cagione di tutto, massimamente
de lo 'ntelletto umano, che lo umano quello non soperchia, ma da
esso è improporzionalmente soperchiato. Dunque se noi, per le
ragioni di sopra e per molt'altre, intendiamo Iddio aver potuto
fare innumerabili quasi creature spirituali, manifesto è lui
questo avere fatto maggiore numero. Altre ragioni si possono
vedere assai, ma queste bastino al presente.
Né si meravigli
alcuno se queste e altre ragioni che di ciò avere potemo, non
sono del tutto dimostrate; che però medesimamente dovemo
ammirare loro eccellenza - la quale soverchia gli occhi de la
mente umana, sì come dice lo Filosofo nel secondo de la
Metafisica -, e affermar loro essere. Poi che non avendo di loro
alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure
risplende nel nostro intelletto alcuno lume de la vivacissima
loro essenza, in quanto vedemo le sopra dette ragioni, e molt'altre;
sì come afferma chi ha li occhi chiusi l'aere essere luminoso,
per un poco di splendore, o vero raggio, come passa per le
pupille del vispistrello: ché non altrimenti sono chiusi li
nostri occhi intellettuali, mentre che l'anima è legata e
incarcerata per li organi del nostro corpo.
Capitolo V
Detto è che per difetto d'ammaestramento li antichi la veritade
non videro de le creature spirituali, avvegna che quello popolo d'Israel
fosse in parte da li suoi profeti ammaestrato, "ne li quali,
per molte maniere di parlare e per molti modi, Dio avea loro
parlato", sì come l'Apostolo dice. Ma noi semo di ciò
ammaestrati da colui che venne da quello, da colui che le fece,
da colui che le conserva, cioè da lo Imperatore de l'universo,
che è Cristo, figliuolo del sovrano Dio e figliuolo di Maria
Vergine, femmina veramente e figlia di Ioacchino e d'Adamo: uomo
vero, lo quale fu morto da noi, per che ci recò vita. "Lo
qual fu luce che allumina noi ne le tenebre", sì come dice
Ioanni Evangelista, e disse a noi la veritade di quelle cose che
noi sapere sanza lui non potavamo, né veder veramente.
La prima cosa e
lo primo secreto che ne mostrò, fu una de le creature predette:
ciò fu quello suo grande legato che venne a Maria, giovinetta
donzella di tredici anni, da parte del Sanator celestiale. Questo
nostro Salvatore con la sua bocca disse che 'l Padre li potea
dare molte legioni d'angeli; questi non negò, quando detto li fu
che 'l Padre avea comandato a li angeli che li ministrassero e
servissero. Per che manifesto è a noi quelle creature essere in
lunghissimo numero; per che la sua sposa e secretaria Santa
Ecclesia - de la quale dice Salomone: "Chi è questa che
ascende del diserto, piena di quelle cose che dilettano,
appoggiata sopra l'amico suo?" - dice, crede e predica
quelle nobilissime creature quasi innumerabili. E partele per tre
gerarchie, che è a dire tre principati santi o vero divini, e
ciascuna gerarchia ha tre ordini; sì che nove ordini di creature
spirituali la Chiesa tiene e afferma. Lo primo è quello de li
Angeli, lo secondo de li Arcangeli, lo terzo de li Troni; e
questi tre ordini fanno la prima gerarchia: non prima quanto a
nobilitade, non a creazione (ché più sono l'altre nobili e
tutte furono insieme create), ma prima quanto al nostro salire a
loro altezza. Poi sono le Dominazioni; appresso le Virtuti; poi
li Principati: e questi fanno la seconda gerarchia. Sopra questi
sono le Potestati e li Cherubini, e sopra tutti sono li Serafini:
e questi fanno la terza gerarchia. Ed è potissima ragione de la
loro speculazione e lo numero in che sono le gerarchie e quello
in che sono li ordini. Ché con ciò sia cosa che la Maestà
divina sia in tre persone, che hanno una sustanza, di loro si
puote triplicemente contemplare. Ché si può contemplare de la
potenza somma del Padre; la quale mira la prima gerarchia, cioè
quella che è prima per nobilitade e che ultima noi annoveriamo.
E puotesi contemplare la somma sapienza del Figliuolo; e questa
mira la seconda gerarchia. E puotesi contemplare la somma e
ferventissima caritade de lo Spirito Santo; e questa mira l'ultima
gerarchia, la quale, più propinqua, a noi porge de li doni che
essa riceve. E con ciò sia cosa che ciascuna persona ne la
divina Trinitade triplicemente si possa considerare, sono in
ciascuna gerarchia tre ordini che diversamente contemplano.
Puotesi considerare lo Padre, non avendo rispetto se non ad esso;
e questa contemplazione fanno li Serafini, che veggiono più de
la Prima Cagione che nulla angelica natura. Puotesi considerare
lo Padre secondo che ha relazione al Figlio, cioè come da lui si
parte e come con lui sé unisce; e questo contemplano li
Cherubini. Puotesi ancora considerare lo Padre secondo che da lui
procede lo Spirito Santo, e come da lui si parte e come con lui
sé unisce; e questa contemplazione fanno le Potestadi. E per
questo modo si puote speculare del Figlio e de lo Spirito Santo:
per che convengono essere nove maniere di spiriti contemplativi,
a mirare ne la luce che sola se medesima vede compiutamente.
E non è qui da
tacere una parola. Dico che di tutti questi ordini si perderono
alquanti tosto che furono creati, forse in numero de la decima
parte; a la quale restaurare fu l'umana natura poi creata. Li
numeri, li ordini, le gerarchie narrano li cieli mobili, che sono
nove, e lo decimo annunzia essa unitade e stabilitade di Dio. E
però dice lo Salmista: "Li cieli narrano la gloria di Dio,
e l'opere de le sue mani annunzia lo fermamento". Per che
ragionevole è credere che li movitori del cielo de la Luna siano
de l'ordine de li Angeli, e quelli di Mercurio siano li Arcangeli,
e quelli di Venere siano li Troni; li quali, naturati de l'amore
del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi,
cioè lo movimento di quello cielo, pieno d'amore, dal quale
prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso per lo quale
le anime di qua giuso s'accendono ad amore, secondo la loro
disposizione. E perché li antichi s'accorsero che quello cielo
era qua giù cagione d'amore, dissero Amore essere figlio di
Venere, sì come testimonia Vergilio nel primo de lo Eneida, ove
dice Venere ad Amore: "Figlio, vertù mia, figlio del sommo
padre, che li dardi di Tifeo non curi"; e Ovidio, nel quinto
di Metamorphoseos, quando dice che Venere disse ad Amore: "Figlio,
armi mie, potenzia mia". E sono questi Troni, che al governo
di questo cielo sono dispensati, in numero non grande, de lo
quale per li filosofi e per li astrologi diversamente è sentito,
secondo che diversamente sentiro de le sue circulazioni; avvegna
che tutti siano accordati in questo, che tanti sono quanti
movimenti esso fae. Li quali, secondo che nel libro de l'Aggregazioni
de le Stelle epilogato si truova da la migliore dimostrazione de
li astrologi, sono tre: uno, secondo che la stella si muove per
lo suo epiciclo; l'altro, secondo che lo epiciclo si muove con
tutto il cielo igualmente con quello del Sole; lo terzo, secondo
che tutto quello cielo si muove seguendo lo movimento de la
stellata spera, da occidente a oriente, in cento anni uno grado.
Sì che a questi tre movimenti sono tre movitori. Ancora si muove
tutto questo cielo e rivolgesi con lo epiciclo da oriente in
occidente, ogni dì naturale una fiata: lo qual movimento, se
esso è da intelletto alcuno, o se esso è da la rapina del Primo
Mobile, Dio lo sa; che a me pare presuntuoso a giudicare. Questi
movitori muovono, solo intendendo, la circulazione in quello
subietto propio che ciascuno muove. La forma nobilissima del
cielo, che ha in sé principio di questa natura passiva, gira,
toccata da vertù motrice che questo intende: e dico toccata, non
corporalmente, per tatto di vertù la quale si dirizza in quello.
E questi movitori sono quelli a li quali s'intende di parlare, ed
a cui io fo mia dimanda.
Capitolo VI
Secondo che di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, si
disse, ch'a bene intendere la prima parte de la proposta canzone
convenia ragionare di quelli cieli e de li loro motori, ne li tre
precedenti capitoli è ragionato. Dico adunque a quelli ch'io
mostrai sono movitori del cielo di Venere: O voi che 'ntendendo
- cioè con lo intelletto solo, come detto è di sopra, - lo
terzo cielo movete, Udite il ragionare; e non dico udite
perch'elli odano alcuno suono, ch'elli non hanno senso, ma dico udite,
cioè con quello udire ch'elli hanno, ch'è intendere per
intelletto. Dico: Udite il ragionar lo quale è nel mio
core: cioè dentro da me, ché ancora non è di fuori
apparito. E da sapere è che in tutta questa canzone, secondo l'uno
senso e l'altro, lo "core" si prende per lo secreto
dentro, e non per altra spezial parte de l'anima e del corpo.
Poi li ho
chiamati ad udire quello ch'io voglio, assegno due ragioni per
che io convenevolemente deggio loro parlare. L'una si è la
novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li
altri uomini esperta, non sarebbe così da loro intesa come da
coloro che 'ntendono li loro effetti ne la loro operazione; e
questa ragione tocco quando dico: Ch'io nol so dire altrui,
sì mi par novo. L'altra ragione è: quand'uomo riceve
beneficio, o vero ingiuria, prima de' quello retraere a chi liele
fa, se può, che ad altri; acciò che se ello è beneficio, esso
che lo riceve si mostri conoscente inver lo benefattore; e s'ella
è ingiuria, induca lo fattore a buona misericordia con le dolci
parole. E questa ragione tocco, quando dico: El ciel che segue
lo vostro valore, Gentili creature che voi sete, Mi tragge ne lo
stato ov'io mi trovo. Ciò è a dire: l'operazione vostra,
cioè la vostra circulazione, è quella che m'ha tratto ne la
presente condizione. Però conchiudo e dico che 'l mio parlare a
loro dee essere, sì come detto è; e questo dico qui: Onde 'l
parlar de la vita ch'io provo, Par che si drizzi degnamente a vui.
E dopo queste ragioni assegnate, priego loro de lo 'ntendere
quando dico: Però vi priego che li mi 'ntendiate. Ma
però che in ciascuna maniera di sermone lo dicitore massimamente
dee intendere a la persuasione, cioè a l'abbellire, de l'audienza,
sì come a quella ch'è principio di tutte l'altre persuasioni,
come li rettorici sanno; e potentissima persuasione sia, a
rendere l'uditore attento, promettere di dire nuove e grandissime
cose; seguito io, a la preghiera fatta de l'audienza, questa
persuasione, cioè, dico, abbellimento, annunziando loro la mia
intenzione, la quale è di dire nuove cose, cioè la divisione ch'è
ne la mia anima, e grandi cose, cioè lo valore de la loro stella.
E questo dico in quelle ultime parole di questa prima parte: Io
vi dirò del cor la novitate, Come l'anima trista piange in lui,
E come un spirto contra lei favella, Che vien pe' raggi de la
vostra stella.
E a pieno
intendimento di queste parole, dico che questo spirito non è
altro che uno frequente pensiero a questa nuova donna commendare
e abbellire; e questa anima non è altro che un altro pensiero
accompagnato di consentimento, che, repugnando a questo, commenda
e abbellisce la memoria di quella gloriosa Beatrice. Ma però che
ancora l'ultima sentenza de la mente, cioè lo consentimento, si
tenea per questo pensiero che la memoria aiutava, chiamo lui anima
e l'altro spirito; sì come chiamare solemo la cittade
quelli che la tengono, e non coloro che la combattono, avvegna
che l'uno e l'altro sia cittadino. Dico anche che questo spirito
viene per li raggi de la stella: per che sapere si vuole che li
raggi di ciascuno cielo sono la via per la quale discende la loro
vertude in queste cose di qua giù. E però che li raggi non sono
altro che uno lume che viene dal principio de la luce per l'aere
infino a la cosa illuminata, e luce non sia se non ne la parte de
la stella, però che l'altro cielo è diafano, cioè transparente,
non dico che vegna questo spirito, cioè questo pensiero, dal
loro cielo in tutto, ma da la loro stella. La quale per la
nobilità de li suoi movitori è di tanta vertute, che ne le
nostre anime e ne le altre nostre cose ha grandissima podestade,
non ostante che essa ci sia lontana, qual volta più c'è presso,
cento sessanta sette volte tanto quanto è, e più, al mezzo de
la terra, che ci ha di spazio tremilia dugento cinquanta miglia.
E questa è la litterale esposizione de la prima parte de la
canzone.
Capitolo VII
Inteso può essere sofficientemente, per le prenarrate parole, de
la litterale sentenza de la prima parte; per che a la seconda è
da intendere, ne la quale si manifesta quello che dentro io
sentia de la battaglia. E questa parte ha due divisioni: che in
prima, cioè nel primo verso, narro la qualitade di queste
diversitadi secondo la loro radice, ch'erano dentro a me; poi
narro quello che dicea l'una e l'altra diversitade, e però,
prima, quello che dicea la parte che perdea, cioè nel verso ch'è
lo secondo di questa parte e lo terzo de la canzone.
Ad evidenza
dunque de la sentenza de la prima divisione, è da sapere che le
cose deono essere denominate da l'ultima nobilitade de la loro
forma; sì come l'uomo da la ragione, e non dal senso né d'altro
che sia meno nobile. Onde, quando si dice l'uomo vivere, si dee
intendere l'uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e
atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si
parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive
bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio: "Asino
vive". Dirittamente dico, però che lo pensiero è propio
atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l'hanno:
e non dico pur de le minori bestie, ma di quelle che hanno
apparenza umana e spirito di pecora o d'altra bestia abominevole.
Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio dentro, suole
essere un pensiero soave ("soave" è tanto quanto
"suaso", cioè abbellito, dolce, piacente e dilettoso),
questo pensiero, che se ne gia spesse volte a' piedi del sire di
costoro a cu' io parlo, ch'è Iddio: ciò è a dire, che io
pensando contemplava lo regno de' beati. E dico la final cagione
incontanente per che là su io saliva pensando, quando dico: Ove
una donna gloriar vedia; a dare a intendere ch'è perché io
era certo, e sono, per sua graziosa revelazione, che ella era in
cielo. Onde io pensando spesse volte come possibile m'era, me n'andava
quasi rapito.
Poi
sussequentemente dico l'effetto di questo pensiero, a dare a
intendere la sua dolcezza, la quale era tanta che mi facea
disioso de la morte, per andare là dov'elli gia; e ciò dico
quivi: Di cui parlava me sì dolcemente, Che l'anima dicea: Io
men vo' gire. E questa è la radice de l'una de le
diversitadi ch'era in me. Ed è da sapere, che qui si dice "pensiero"
e non "anima", di quello che salia a vedere quella
beata, perché era spezial pensiero a quello atto. L'anima s'intende,
come detto è nel precedente capitolo, per lo generale pensiero
col consentimento.
Poi quando dico:
Or apparisce chi lo fa fuggire, narro la radice de l'altra
diversitade, dicendo, sì come questo pensiero di sopra suol
esser vita di me, così un altro apparisce che fa quello cessare.
E dico "fuggire", per mostrare quello essere contrario,
ché naturalmente l'uno contrario fugge l'altro, e quello che
fugge mostra per difetto di vertù di fuggire. E dico che questo
pensiero, che di nuovo apparisce, è poderoso in prender me e in
vincere l'anima tutta, dicendo che esso segnoreggia sì che 'l
cuore, cioè lo mio dentro, triema, e lo mio di fuori lo dimostra
in alcuna nuova sembianza.
Sussequentemente mostro la potenza di questo pensiero nuovo per
suo effetto, dicendo che esso mi fa mirare una donna, e dicemi
parole di lusinghe, cioè ragiona dinanzi a li occhi del mio
intelligibile affetto per meglio inducermi, promettendomi che la
vista de li occhi suoi è sua salute. E a meglio fare ciò
credere a l'anima esperta, dice che non è da guardare ne li
occhi di questa donna per persona che tema angoscia di sospiri.
Ed è bel modo rettorico, quando di fuori pare la cosa
disabbellirsi, e dentro veramente s'abbellisce. Più non potea
questo novo pensero d'amore inducere la mia mente a consentire,
che 'n ragionare de la vertù de li occhi di costei profondamente.
Capitolo VIII
Ora ch'è mostrato come e perché nasce amore, e la diversitade
che mi combattea, procedere si conviene ad aprire la sentenza di
quella parte ne la quale contendono in me diversi pensamenti.
Dico che prima si conviene dire de la parte de l'anima, cioè de
l'antico pensiero, e poi de l'altro, per questa ragione, che
sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore sì dee
riservare di dietro; però che quello che ultimamente si dice,
più rimane ne l'animo de lo uditore. Onde con ciò sia cosa che
io intenda più a dire e a ragionare quello che l'opera di
costoro a cu' io parlo fa, che quello che essa disfà,
ragionevole fu prima dire e ragionare la condizione de la parte
che si corrompea, e poi quella de l'altra che si generava.
Veramente qui
nasce un dubbio, lo qual non è da trapassare sanza dichiarare.
Potrebbe dire alcuno: "Con ciò sia cosa che amore sia
effetto di queste intelligenze a cu' io parlo, e quello di prima
fosse amore così come questo di poi, perché la loro vertù
corrompe l'uno e l'altro genera? con ciò sia cosa che innanzi
dovrebbe quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama
lo suo effetto e, amando quello, salva quell'altro". A
questa questione si può leggermente rispondere che lo effetto di
costoro è amore, com'è detto; e però che salvare nol possono
se non in quelli subietti che sono sottoposti a la loro
circulazione, esso transmutano di quella parte che è fuori di
loro podestade in quella che v'è dentro, cioè de l'anima
partita d'esta vita in quella ch'è in essa. Sì come la natura
umana transmuta, ne la forma umana, la sua conservazione di padre
in figlio, perché non può in esso padre perpetualmente tal suo
effetto conservare. Dico "effetto", in quanto l'anima
col corpo, congiunti, sono effetto di quella; ché l'anima, poi
che è partita, perpetualmente dura in natura più che umana. E
così è soluta la questione.
Ma però che de
la immortalità de l'anima è qui toccato, farò una digressione,
ragionando di quella; perché, di quella ragionando, sarà bello
terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, de la quale
più parlare in questo libro non intendo per proponimento. Dico
che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima
e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita;
però che, se noi rivolgiamo tutte le scritture, sì de' filosofi
come de li altri savi scrittori, tutti concordano in questo, che
in noi sia parte alcuna perpetuale. E questo massimamente par
volere Aristotile in quello de l'Anima; questo par volere
massimamente ciascuno Stoico; questo par volere Tullio,
spezialmente in quello libello de la Vegliezza; questo par volere
ciascuno poeta che secondo la fede de' Gentili hanno parlato;
questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini, Tartari, e
qualunque altri vivono secondo alcuna ragione. Che se tutti
fossero ingannati, seguiterebbe una impossibilitade, che pure a
ritraere sarebbe orribile. Ciascuno è certo che la natura umana
è perfettissima di tutte l'altre nature di qua giù; e questo
nullo niega, e Aristotile l'afferma quando dice nel duodecimo de
li Animali che l'uomo è perfettissimo di tutti li animali. Onde
con ciò sia cosa che molti che vivono interamente siano mortali,
sì come animali bruti, e siano sanza questa speranza tutti
mentre che vivono, cioè d'altra vita; se la nostra speranza
fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro difetto che di nullo altro
animale, con ciò sia cosa che molti già sono stati che hanno
data questa vita per quella; e così seguiterebbe che lo
perfettissimo animale, cioè l'uomo, fosse imperfettissimo - ch'è
impossibile -, e che quella parte, cioè la ragione, che è sua
perfezione maggiore, fosse a lui cagione di maggiore difetto -
che del tutto diverso pare a dire -. Ancora, seguiterebbe che la
natura contra se medesima questa speranza ne la mente umana posta
avesse, poi che detto è che molti a la morte del corpo sono
corsi, per vivere ne l'altra vita; e questo è anche impossibile.
Ancora, vedemo
continua esperienza de la nostra immortalitade ne le divinazioni
de' nostri sogni, le quali essere non potrebbono se in noi alcuna
parte immortale non fosse; con ciò sia cosa che immortale
convegna essere lo rivelante, o corporeo o incorporeo che sia, se
bene si pensa sottilmente - e dico "corporeo o incorporeo"
per le diverse oppinioni ch'io truovo di ciò -, e quello ch'è
mosso o vero informato da informatore immediato debba proporzione
avere a lo informatore, e da lo mortale a lo immortale nulla sia
proporzione. Ancora, n'accerta la dottrina veracissima di Cristo,
la quale è via, verità e luce: via, perché per essa sanza
impedimento andiamo a la felicitade di quella immortalitade;
verità, perché non soffera alcuno errore; luce, perché
allumina noi ne la tenebra de la ignoranza mondana. Questa
dottrina dico che ne fa certi sopra tutte altre ragioni, però
che quello la n'hae data che la nostra immortalitade vede e
misura. La quale noi non potemo perfettamente vedere mentre che 'l
nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede
perfettamente, e per ragione lo vedemo con ombra d'oscuritade, la
quale incontra per mistura del mortale con l'immortale. E ciò
dee essere potentissimo argomento che in noi l'uno e l'altro sia;
e io così credo, così affermo e così certo sono ad altra vita
migliore dopo questa passare, là dove quella gloriosa donna vive
de la quale fu l'anima mia innamorata quando contendea, come nel
seguente capitolo si ragionerà.
Capitolo IX
Tornando al proposito, dico che in questo verso che comincia: Trova
contraro tal che lo distrugge, intendo manifestare quello che
dentro a me l'anima mia ragionava, cioè l'antico pensiero contra
lo nuovo. E prima brievemente manifesto la cagione del suo
lamentevole parlare, quando dico: Trova contraro tal che lo
distrugge L'umil pensero, che parlar mi sole D'un'angela che 'n
cielo è coronata. Questo è quello speziale pensiero, del
quale detto è di sopra che solea esser vita de lo cor dolente.
Poi quando dico: L'anima piange, sì ancor len dole,
manifesto l'anima mia essere ancora da la sua parte, e con
tristizia parlare: e dico che dice parole lamentandosi, quasi
come si maravigliasse de la subita transmutazione, dicendo: Oh
lassa a me, come si fugge Questo piatoso che m'ha consolata!
Ben può dire "consolata", ché ne la sua grande
perdita questo pensiero, che in cielo salia, le avea data molta
consolazione. Poi appresso, ad iscusa di sé dico che si volge
tutto lo mio pensiero, cioè l'anima, de la quale dico questa
affannata, e parla contra gli occhi; e questo si manifesta
quivi: De li occhi miei dice questa affannata. E dico ch'ella
dice di loro e contra loro tre cose. La prima è che bestemmia l'ora
che questa donna li vide. E qui si vuol sapere che avvegna che
più cose ne l'occhio a un'ora possano venire, veramente quella
che viene per retta linea ne la punta de la pupilla, quella
veramente si vede, e ne la imaginativa si suggella solamente. E
questo è però che 'l nervo per lo quale corre lo spirito visivo,
è diritto a quella parte; e però veramente l'occhio l'altro
occhio non può guardare, sì che esso non sia veduto da lui;
ché, sì come quello che mira riceve la forma ne la pupilla per
retta linea, così per quella medesima linea la sua forma se ne
va in quello ch'ello mira: e molte volte, nel dirizzare di questa
linea, discocca l'arco di colui al quale ogni arme è leggiere.
Però quando dico che tal donna li vide, è tanto a dire
quanto che li occhi suoi e li miei si guardaro.
La seconda cosa
che dice, si è che riprende la sua disobedienza, quando dice: E
perché non credeano a me di lei? Poi procede a la terza cosa,
e dice che non dee sé riprendere di provvedimento, ma loro di
non ubbidire; però che dice che alcuna volta, di questa donna
ragionando, dicesse: Ne li occhi di costei doverebbe esser virtù
sopra me, se ella avesse aperta la via di venire; e questo dice
quivi: Io dicea: Ben ne li occhi di costei. E ben si dee
credere che l'anima mia conoscea la sua disposizione atta a
ricevere l'atto di questa donna, e però ne temea; ché l'atto de
l'agente si prende nel disposto paziente, sì come dice lo
Filosofo nel secondo de l'Anima. E però se la cera avesse
spirito da temere, più temerebbe di venire a lo raggio del sole
che non farebbe la pietra, però che la sua disposizione riceve
quello per più forte operazione.
Ultimamente
manifesta l'anima nel suo parlare la presunzione loro pericolosa
essere stata, quando dice: E non mi valse ch'io ne fossi
accorta Che non mirasser tal, ch'io ne son morta. Non là mirasser,
dice, colui di cui prima detto avea: Colui che le mie pari
ancide. E così termina le sue parole, a le quali risponde lo
novo pensiero, sì come nel seguente capitolo si dichiarerà.
Capitolo X
Dimostrata è la sentenza di quella parte ne la qual parla l'anima,
cioè l'antico pensiero che si corruppe. Ora seguentemente si dee
mostrare la sentenza de la parte ne la qual parla lo pensiero
nuovo avverso; e questa parte si contiene tutta nel verso che
comincia: Tu non se' morta. La qual parte, a bene
intendere, si vuole in due partire: che ne la prima lo pensiero
avverso riprende l'anima di viltade; e appresso comanda quello
che far dee quest'anima ripresa, cioè ne la seconda parte, che
comincia: Mira quant'ell'è pietosa.
Dice adunque,
continuandosi a l'ultime sue parole: Non è vero che tu sie morta;
ma la cagione per che morta ti pare essere, si è uno smarrimento
nel quale se' caduta vilmente per questa donna che è apparita: -
e qui è da notare che, sì come dice Boezio ne la sua
Consolazione, "ogni subito movimento di cose non avviene
sanza alcuno discorrimento d'animo" -; e questo vuol dire lo
riprendere di questo pensiero. Lo quale si chiama "spiritello
d'amore" a dare a intendere che lo consentimento mio piegava
inver di lui; e così si può questo intendere maggiormente, e
conoscere la sua vittoria, quando dice già "anima nostra",
facendosi familiare di quella. Poi, com'è detto, comanda quello
che far dee quest'anima ripresa per venir lei a sé, e lei dice: Mira
quant'ell'è pietosa e umile; ché sono proprio rimedio a la
temenza, de la qual parea l'anima passionata, due cose, e sono
queste che, massimamente congiunte, fanno de la persona bene
sperare, e massimamente la pietade, la quale fa risplendere ogni
altra bontade col lume suo. Per che Virgilio, d'Enea parlando, in
sua maggiore loda pietoso lo chiama. E non è pietade quella che
crede la volgar gente, cioè dolersi de l'altrui male, anzi è
questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è
passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile
disposizione d'animo, apparecchiata di ricevere amore,
misericordia e altre caritative passioni.
Poi dice: Mira
anco quanto è saggia e cortese ne la sua grandezza. Or
dice tre cose, le quali, secondo quelle che per noi acquistar si
possono, massimamente fanno la persona piacente. Dice "saggia":
or che è più bello in donna che savere? Dice "cortese":
nulla cosa sta più bene in donna che cortesia. E non siano li
miseri volgari anche di questo vocabulo ingannati, che credono
che cortesia non sia altro che larghezza; e larghezza è una
speziale, e non generale, cortesia! Cortesia e onestade è tutt'uno:
e però che ne le corti anticamente le vertudi e li belli costumi
s'usavano, sì come oggi s'usa lo contrario, si tolse quello
vocabulo da le corti, e fu tanto a dire cortesia quanto uso di
corte. Lo qual vocabulo se oggi si togliesse da le corti,
massimamente d'Italia, non sarebbe altro a dire che turpezza.
Dice ne la sua grandezza. La grandezza temporale, de la
quale qui s'intende, massimamente sta bene accompagnata con le
due predette bontadi, però ch'ell'apre lume che mostra lo bene e
l'altro de la persona chiaramente. E quanto savere e quanto abito
virtuoso non si pare per questo lume non avere! e quanta matteria
e quanti vizii si discernono per aver questo lume! Meglio sarebbe
a li miseri grandi, matti, stolti e viziosi, essere in basso
stato, ché né in mondo né dopo la vita sarebbero tanto
infamati. Veramente per costoro dice Salomone ne lo Ecclesiaste:
"E un'altra infermitade pessima vidi sotto lo sole, cioè
ricchezze conservate in male del loro signore". Poi
sussequentemente impone a lei, cioè a l'anima mia, che chiami
omai costei sua donna, promettendo a lei che di ciò assai si
contenterà, quando ella sarà de le sue adornezze accorta; e
questo dice quivi: Ché se tu non t'inganni, tu vedrai.
Né altro dice infino a la fine di questo verso. E qui termina la
sentenza litterale di tutto quello che in questa canzone dico,
parlando a quelle intelligenze celestiali.
Capitolo XI
Ultimamente, secondo che di sopra disse la littera di questo
commento quando partio le parti principali di questa canzone, io
mi rivolgo con la faccia del mio sermone a la canzone medesima, e
a quella parlo. E acciò che questa parte più pienamente sia
intesa, dico che generalmente si chiama in ciascuna canzone
"tornata", però che li dicitori che prima usaro di
farla, fenno quella perché, cantata la canzone, con certa parte
del canto ad essa si ritornasse. Ma io rade volte a quella
intenzione la feci, e, acciò che altri se n'accorgesse, rade
volte la puosi con l'ordine de la canzone, quanto è a lo numero
che a la nota è necessario; ma fecila quando alcuna cosa in
adornamento de la canzone era mestiero a dire, fuori de la sua
sentenza, sì come in questa e ne l'altre veder si potrà. E
però dico al presente che la bontade e la bellezza di ciascuno
sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è ne
la sentenza, e la bellezza è ne l'ornamento de le parole; e l'una
e l'altra è con diletto, avvegna che la bontade sia massimamente
dilettosa. Onde con ciò sia cosa che la bontade di questa
canzone fosse malagevole a sentire per le diverse persone che in
essa s'inducono a parlare, dove si richeggiono molte distinzioni,
e la bellezza fosse agevole a vedere, parvemi mestiero a la
canzone che per li altri si ponesse più mente a la bellezza che
a la bontade. E questo è quello che dico in questa parte.
Ma però che
molte fiate avviene che l'ammonire pare presuntuoso, per certe
condizioni suole lo rettorico indirettamente parlare altrui,
dirizzando le sue parole non a quello per cui dice, ma verso un
altro. E questo modo si tiene qui veramente; ché a la canzone
vanno le parole, e a li uomini la 'ntenzione. Dico adunque: Io
credo, canzone, che radi sono, cioè pochi, quelli che intendano
te bene. E dico la cagione, la quale è doppia. Prima: però che
faticosa parli - "faticosa" dico per la cagione che
detta è -; poi: però che forte parli - "forte" dico
quanto a la novitade de la sentenza -. Ora appresso ammonisco lei
e dico: Se per avventura incontra che tu vadi là dove persone
siano che dubitare ti paiano ne la tua ragione, non ti smarrire,
ma dì loro: Poi che non vedete la mia bontade, ponete mente
almeno la mia bellezza. Che non voglio in ciò altro dire,
secondo ch'è detto di sopra, se non: O uomini, che vedere non
potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate però; ma
ponete mente la sua bellezza, ch'è grande sì per construzione,
la quale si pertiene a li gramatici, sì per l'ordine del sermone,
che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue parti,
che si pertiene a li musici. Le quali cose in essa si possono
belle vedere, per chi ben guarda. E questa è tutta la litterale
sentenza de la prima canzone, che è per prima vivanda intesa
innanzi.
Capitolo XII
Poi che la litterale sentenza è sufficientemente dimostrata, è da procedere a la esposizione allegorica e vera. E però, principiando ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, de la quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né 'l mio né l'altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s'avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l'Amistade, avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v'entrai tanto entro, quanto l'arte di gramatica ch'io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere. E sì come essere suole che l'uomo va cercando argento e fuori de la 'ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza divino imperio; io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d'autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso; per che sì volontieri lo senso di vero la mirava, che appena lo potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov'ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d'altre cose: però che de la donna di cu' io m'innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente poetare; né li uditori erano tanto bene disposti, che avessero sì leggiere le non fittizie parole apprese; né sarebbe data loro fede a la sentenza vera, come a la fittizia, però che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo. Cominciai dunque a dire: Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete. E perché, sì come detto è, questa donna figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questi movitori, e questo terzo cielo. E prima del cielo, secondo l'ordine trapassato. E non è qui mestiere di procedere dividendo, e a littera esponendo; ché, volta la parola fittizia di quello ch'ella suona in quello ch'ella 'ntende, per la passata sposizione questa sentenza ha sufficientemente palese.
Capitolo XIII
A vedere quello che per lo terzo cielo s'intende, prima si vuol
vedere che per questo solo vocabulo "cielo" io voglio
dire; e poi si vedrà come e perché questo terzo cielo ci fu
mestiere. Dico che per cielo io intendo la scienza e per cieli le
scienze, per tre similitudini che li cieli hanno con le scienze
massimamente; e per l'ordine e numero in che paiono convenire,
sì come trattando quello vocabulo, cioè "terzo", si
vedrà.
La prima
similitudine si è la revoluzione de l'uno e de l'altro intorno a
uno suo immobile. Ché ciascuno cielo mobile si volge intorno al
suo centro, lo quale, quanto per lo suo movimento, non si muove;
e così ciascuna scienza si muove intorno al suo subietto, lo
quale essa non muove, però che nulla scienza dimostra lo proprio
subietto, ma suppone quello. La seconda similitudine si è lo
illuminare de l'uno e de l'altro; ché ciascuno cielo illumina le
cose visibili, e così ciascuna scienza illumina le intelligibili.
E la terza similitudine si è lo inducere perfezione ne le
disposte cose. De la quale induzione, quanto a la prima
perfezione, cioè de la generazione sustanziale, tutti li
filosofi concordano che li cieli siano cagione, avvegna che
diversamente questo pongano: quali da li motori, sì come Plato,
Avicenna e Algazel; quali da esse stelle, spezialmente l'anime
umane, sì come Socrate, e anche Plato e Dionisio Academico; e
quali da vertude celestiale che è nel calore naturale del seme,
sì come Aristotile e li altri Peripatetici. Così de la
induzione de la perfezione seconda le scienze sono cagione in noi;
per l'abito de le quali potemo la veritade speculare, che è
ultima perfezione nostra, sì come dice lo Filosofo nel sesto de
l'Etica, quando dice che 'l vero è lo bene de lo intelletto. Per
queste, con altre similitudini molte, si può la scienza "cielo"
chiamare. Ora perché "terzo" cielo si dica è da
vedere. A che è mestiere fare considerazione sovra una
comparazione che è ne l'ordine de li cieli a quello de le
scienze. Sì come adunque di sopra è narrato, li sette cieli
primi a noi sono quelli de li pianeti; poi sono due cieli sopra
questi, mobili, e uno sopra tutti, quieto. A li sette primi
rispondono le sette scienze del Trivio e del Quadruvio, cioè
Gramatica, Dialettica, Rettorica, Arismetrica, Musica, Geometria
e Astrologia. A l'ottava spera, cioè a la stellata, risponde la
scienza naturale, che Fisica si chiama, e la prima scienza, che
si chiama Metafisica; a la nona spera risponde la scienza morale;
ed al cielo quieto risponde la scienza divina, che è Teologia
appellata. E ragione per che ciò sia, brievemente è da vedere.
Dico che 'l
cielo de la Luna con la Gramatica si somiglia per due proprietadi,
per che ad esso si può comparare. Che se la Luna si guarda bene,
due cose si veggiono in essa proprie, che non si veggiono ne l'altre
stelle: l'una sì è l'ombra che è in essa, la quale non è
altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono
terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l'altre
parti; l'altra si è la variazione de la sua luminositade, che
ora luce da uno lato, e ora luce da un altro, secondo che lo sole
la vede. E queste due proprietadi hae la Gramatica: ché, per la
sua infinitade, li raggi de la ragione in essa non si terminano,
in parte spezialmente de li vocabuli; e luce or di qua or di là
in tanto quanto certi vocabuli, certe declinazioni, certe
construzioni sono in uso che già non furono, e molte già furono
che ancor saranno: sì come dice Orazio nel principio de la
Poetria quando dice: "Molti vocabuli rinasceranno che già
caddero".
E lo cielo di
Mercurio si può comparare a la Dialettica per due proprietadi:
che Mercurio è la più picciola stella del cielo, ché la
quantitade del suo diametro non è più che di dugento trentadue
miglia, secondo che pone Alfagrano, che dice quello essere de le
ventotto parti una del diametro de la terra, lo quale è sei
milia cinquecento miglia: l'altra proprietade si è che più va
velata de li raggi del Sole che null'altra stella. E queste due
proprietadi sono ne la Dialettica: ché la Dialettica è minore
in suo corpo che null'altra scienza, ché perfettamente è
compilata e terminata in quello tanto testo che ne l'Arte vecchia
e ne la Nuova si truova; e va più velata che nulla scienza, in
quanto procede con più sofistici e probabili argomenti più che
altra.
E lo cielo di
Venere si può comparare a la Rettorica per due proprietadi: l'una
sì è la chiarezza del suo aspetto, che è soavissima a vedere
più che altra stella; l'altra sì è la sua apparenza, or da
mane or da sera. E queste due proprietadi sono ne la Rettorica:
ché la Rettorica è soavissima di tutte le altre scienze, però
che a ciò principalmente intende; e appare da mane, quando
dinanzi al viso de l'uditore lo rettorico parla, appare da sera,
cioè retro, quando da lettera, per la parte remota, si parla per
lo rettorico.
E lo cielo del
Sole si può comparare a l'Arismetrica per due proprietadi: l'una
si è che del suo lume tutte l'altre stelle s'informano; l'altra
si è che l'occhio nol può mirare. E queste due proprietadi sono
ne l'Arismetrica: ché del suo lume tutte s'illuminano le scienze,
però che li loro subietti sono tutti sotto alcuno numero
considerati, e ne le considerazioni di quelli sempre con numero
si procede. Sì come ne la scienza naturale è subietto lo corpo
mobile, lo quale corpo mobile ha in sé ragione di continuitade,
e questa ha in sé ragione di numero infinito; e la sua
considerazione principalissima è considerare li principii de le
cose naturali, li quali sono tre, cioè materia, privazione e
forma, ne li quali si vede questo numero. Non solamente in tutti
insieme, ma ancora in ciascuno è numero, chi ben considera
sottilmente; per che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel
primo de la Fisica, poneva li principii de le cose naturali lo
pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero. L'altra
proprietade del Sole ancor si vede nel numero, del quale è l'Arismetrica:
che l'occhio de lo 'ntelletto nol può mirare; però che 'l
numero, quant'è in sé considerato, è infinito, e questo non
potemo noi intendere.
E lo cielo di
Marte si può comparare a la Musica per due proprietadi: l'una si
è la sua più bella relazione, ché, annumerando li cieli mobili,
da qualunque si comincia o da l'infimo o dal sommo, esso cielo di
Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè de li primi,
de li secondi, de li terzi e de li quarti. L'altra si è che esso
Marte, sì come dice Tolomeo nel Quadripartito, dissecca e arde
le cose, perché lo suo calore è simile a quello del fuoco; e
questo è quello per che esso pare affocato di colore, quando
più e quando meno, secondo la spessezza e raritade de li vapori
che 'l seguono: li quali per lor medesimi molte volte s'accendono,
sì come nel primo de la Metaura è diterminato. E però dice
Albumasar che l'accendimento di questi vapori significa morte di
regi e transmutamento di regni; però che sono effetti de la
segnoria di Marte. E Seneca dice però, che ne la morte d'Augusto
imperadore vide in alto una palla di fuoco; e in Fiorenza, nel
principio de la sua destruzione, veduta fu ne l'aere, in figura d'una
croce, grande quantità di questi vapori seguaci de la stella di
Marte. E queste due proprietadi sono ne la Musica, la quale è
tutta relativa, sì come si vede ne le parole armonizzate e ne li
canti, de' quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la
relazione è bella: la quale in essa scienza massimamente è
bella, perché massimamente in essa s'intende. Ancora, la Musica
trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori
del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì è l'anima
intera, quando l'ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo
spirito sensibile che riceve lo suono.
E lo cielo di
Giove si può comparare a la Geometria per due proprietadi: l'una
sì è che muove tra due cieli repugnanti a la sua buona
temperanza, sì come quello di Marte e quello di Saturno; onde
Tolomeo dice, ne lo allegato libro, che Giove è stella di
temperata complessione, in mezzo de la freddura di Saturno e de
lo calore di Marte; l'altra sì è che intra tutte le stelle
bianca si mostra, quasi argentata. E queste cose sono ne la
scienza de la Geometria. La Geometria si muove intra due
repugnanti a essa, sì come 'l punto e lo cerchio - e dico "cerchio"
largamente ogni ritondo, o corpo o superficie -; ché, sì come
dice Euclide, lo punto è principio di quella, e, secondo che
dice, lo cerchio è perfettissima figura in quella, che conviene
però avere ragione di fine. Sì che tra 'l punto e lo cerchio
sì come tra principio e fine si muove la Geometria, e questi due
a la sua certezza repugnano; ché lo punto per la sua
indivisibilitade è immensurabile, e lo cerchio per lo suo arco
è impossibile a quadrare perfettamente, e però è impossibile a
misurare a punto. E ancora la Geometria è bianchissima, in
quanto è sanza macula d'errore e certissima per sé e per la sua
ancella, che si chiama Perspettiva.
E lo cielo di
Saturno hae due proprietadi per le quali si può comparare a l'Astrologia:
l'una sì è la tardezza del suo movimento per li dodici segni,
ché ventinove anni e più, secondo le scritture de li astrologi,
vuole di tempo lo suo cerchio; l'altra sì è che sopra tutti li
altri pianeti esso è alto. E queste due proprietadi sono ne l'Astrologia:
ché nel suo cerchio compiere, cioè ne lo apprendimento di
quella, volge grandissimo spazio di tempo, sì per le sue
dimostrazioni, che sono più che d'alcuna de le sopra dette
scienze, sì per la esperienza che a ben giudicare in essa si
conviene. E ancora è altissima di tutte le altre, però che, sì
come dice Aristotile nel cominciamento de l'Anima, la scienza è
alta di nobilitade per la nobilitade del suo subietto e per la
sua certezza; e questa più che alcuna de le sopra dette è
nobile e alta per nobile e alto subietto, ch'è de lo movimento
del cielo; e alta e nobile per la sua certezza, la quale è sanza
ogni difetto, sì come quella che da perfettissimo e
regolatissimo principio viene. E se difetto in lei si crede per
alcuno, non è da la sua parte, ma, sì come dice Tolomeo, è per
la negligenza nostra, e a quella si dee imputare.
Capitolo XIV
Appresso le comparazioni fatte de li sette primi cieli, è da
procedere a li altri, che sono tre, come più volte s'è narrato.
Dico che lo Cielo stellato si puote comparare a la Fisica per tre
proprietadi, e a la Metafisica per altre tre: ch'ello ci mostra
di sé due visibili cose, sì come le molte stelle, e sì come la
Galassia, cioè quello bianco cerchio che lo vulgo chiama la Via
di Sa'Iacopo; e mostraci l'uno de li poli, e l'altro tiene ascoso;
e mostraci uno suo movimento, da oriente ad occidente, e un altro,
che fa da occidente ad oriente, quasi ci tiene ascoso. Per che
per ordine è da vedere prima la comparazione de la Fisica, e poi
quella de la Metafisica.
Dico che lo
Cielo stellato ci mostra molte stelle: ché, secondo che li savi
d'Egitto hanno veduto, infino a l'ultima stella che appare loro
in meridie, mille ventidue corpora di stelle pongono, di cui io
parlo. Ed in questo ha esso grandissima similitudine con la
Fisica, se bene si guardano sottilmente questi tre numeri, cioè
due e venti e mille. Ché per lo due s'intende lo movimento
locale, lo quale è da uno punto ad un altro di necessitade. E
per lo venti significa lo movimento de l'alterazione; ché, con
ciò sia cosa che, dal diece in su, non si vada se non esso diece
alterando con gli altri nove e con se stesso, e la più bella
alterazione che esso riceva sia la sua di se medesimo, e la prima
che riceve sia venti, ragionevolemente per questo numero lo detto
movimento significa. E per lo mille significa lo movimento del
crescere; ché in nome, cioè questo "mille", è lo
maggiore numero, e più crescere non si può se non questo
multiplicando. E questi tre movimenti soli mostra la Fisica, sì
come nel quinto del primo suo libro è provato.
E per la
Galassia ha questo cielo similitudine grande con la Metafisica.
Per che è da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno
avute diverse oppinioni. Ché li Pittagorici dissero che 'l Sole
alcuna fiata errò ne la sua via e, passando per altre parti non
convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e
rimasevi quella apparenza de l'arsura: e credo che si mossero da
la favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del
secondo di Metamorfoseos. Altri dissero, sì come fu Anassagora e
Democrito, che ciò era lume di sole ripercusso in quella parte,
e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro. Quello che
Aristotile si dicesse non si può bene sapere di ciò, però che
la sua sentenza non si truova cotale ne l'una translazione come
ne l'altra. E credo che fosse lo errore de li translatori; ché
ne la Nuova pare dicere che ciò sia uno ragunamento di vapori
sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli: e
questo non pare avere ragione vera. Ne la Vecchia dice che la
Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella
parte, tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo,
ma di loro apparisce quello albore, lo quale noi chiamiamo
Galassia: e puote essere, ché lo cielo in quella parte è più
spesso, e però ritiene e ripresenta quello lume. E questa
oppinione pare avere, con Aristotile, Avicenna e Tolomeo. Onde,
con ciò sia cosa che la Galassia sia uno effetto di quelle
stelle le quali non potemo vedere, se non per lo effetto loro
intendiamo quelle cose, e la Metafisica tratti de le prime
sustanzie, le quali noi non potemo simigliantemente intendere se
non per li loro effetti, manifesto è che 'l Cielo stellato ha
grande similitudine con la Metafisica.
Ancora: per lo
polo che vedemo significa le cose sensibili, de le quali,
universalmente pigliandole, tratta la Fisica; e per lo polo che
non vedemo significa le cose che sono sanza materia, che non sono
sensibili, de le quali tratta la Metafisica: e però ha lo detto
cielo grande similitudine con l'una scienza e con l'altra. Ancora:
per li due movimenti significa queste due scienze. Ché per lo
movimento ne lo quale ogni die si rivolve, e fa nova circulazione
di punto a punto, significa le cose naturali corruttibili, che
cotidianamente compiono loro via, e la loro materia si muta di
forma in forma; e di queste tratta la Fisica. E per lo movimento
quasi insensibile che fa da occidente in oriente per uno grado in
cento anni, significa le cose incorruttibili, le quali ebbero da
Dio cominciamento di creazione e non averanno fine: e di queste
tratta la Metafisica. Però dice che questo movimento significa
quelle, che essa circulazione cominciò e non averebbe fine; ché
fine de la circulazione è redire ad uno medesimo punto, al quale
non tornerà questo cielo, secondo questo movimento. Ché dal
cominciamento del mondo poco più de la sesta parte è volto; e
noi siamo già ne l'ultima etade del secolo, e attendemo
veracemente la consummazione del celestiale movimento. E così è
manifesto che lo Cielo stellato, per molte proprietadi, si può
comparare a la Fisica e a la Metafisica.
Lo Cielo
cristallino, che per Primo Mobile dinanzi è contato, ha
comparazione assai manifesta a la Morale Filosofia; ché Morale
Filosofia, secondo che dice Tommaso sopra lo secondo de l'Etica,
ordina noi a l'altre scienze. Ché, sì come dice lo Filosofo nel
quinto de l'Etica, "la giustizia legale ordina le scienze ad
apprendere, e comanda, perché non siano abbandonate, quelle
essere apprese e ammaestrate"; e così lo detto cielo ordina
col suo movimento la cotidiana revoluzione di tutti li altri, per
la quale ogni die tutti quelli ricevono e mandano qua giù la
vertude di tutte le loro parti. Che se la revoluzione di questo
non ordinasse ciò, poco di loro vertude qua giù verrebbe o di
loro vista. Onde ponemo che possibile fosse questo nono cielo non
muovere, la terza parte del cielo stellato sarebbe ancora non
veduta in ciascuno luogo de la terra; e Saturno sarebbe
quattordici anni e mezzo a ciascuno luogo de la terra celato, e
Giove sei anni quasi si celerebbe, e Marte uno anno quasi, e lo
Sole centottantadue dì e quattordici ore (dico dì, cioè tanto
tempo quanto misurano cotanti dì), e Venere e Mercurio quasi
come lo Sole si celerebbe e mosterrebbe, e la Luna per tempo di
quattordici dì e mezzo starebbe ascosa ad ogni gente. E da vero
non sarebbe qua giù generazione né vita d'animale o di piante:
notte non sarebbe né die, né settimana né mese né anno, ma
tutto l'universo sarebbe disordinato, e lo movimento de li altri
sarebbe indarno. E non altrimenti, cessando la Morale Filosofia,
l'altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe
generazione né vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e
per antico trovate. Per che assai è manifesto, questo cielo per
sé avere a la Morale Filosofia comparazione.
Ancora: lo Cielo
empireo per la sua pace simiglia la Divina Scienza, che piena è
di tutta pace; la quale non soffera lite alcuna d'oppinioni o di
sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza del suo
subietto, lo quale è Dio. E di questa dice esso a li suoi
discepoli: "La pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi",
dando e lasciando a loro la sua dottrina, che è questa scienza
di cu' io parlo. Di costei dice Salomone: "Sessanta sono le
regine, e ottanta l'amiche concubine; e de le ancille adolescenti
non è numero: una è la colomba mia e la perfetta mia".
Tutte scienze chiama regine e drude e ancille; e questa chiama
colomba perché è sanza macula di lite, e questa chiama perfetta
perché perfettamente ne fa il vero vedere nel quale si cheta l'anima
nostra. E però, ragionata così la comparazione de li cieli a le
scienze, vedere si può che per lo terzo cielo io intendo la
Rettorica, la quale al terzo cielo è simigliata, come di sopra
pare.
Capitolo XV
Per le ragionate similitudini si può vedere chi sono questi
movitori a cu' io parlo, che sono di quello movitori, sì come
Boezio e Tullio, li quali con la dolcezza di loro sermone
inviarono me, come è detto di sopra, ne lo amore, cioè ne lo
studio, di questa donna gentilissima Filosofia, con li raggi de
la stella loro, la quale è la scrittura di quella: onde in
ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale
quella scienza dimostra. E, manifesto questo, vedere si può la
vera sentenza del primo verso de la canzone proposta, per la
esposizione fittizia e litterale. E per questa medesima
esposizione si può lo secondo verso intendere sufficientemente,
infino a quella parte dove dice: Questi mi face una donna
guardare. Ove si vuole sapere che questa donna è la
Filosofia; la quale veramente è donna piena di dolcezza, ornata
d'onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade, sì come
nel terzo trattato, dove la sua nobilitade si tratterà, ha
manifesto. E là dove dice: Chi veder vuol la salute, Faccia
che li occhi d'esta donna miri, li occhi di questa donna sono
le sue demonstrazioni, le quali, dritte ne li occhi de lo 'ntelletto,
innamorano l'anima, liberata da le contradizioni. O dolcissimi e
ineffabili sembianti, e rubatori subitani de la mente umana, che
ne le mostrazioni de li occhi de la Filosofia apparite, quando
essa con li suoi drudi ragiona! Veramente in voi è la salute,
per la quale si fa beato chi vi guarda, e salvo da la morte de la
ignoranza e da li vizii. Ove si dice: Sed e' non teme angoscia
di sospiri, qui si vuole intendere "se elli non teme
labore di studio e lite di dubitazioni", le quali dal
principio de li sguardi di questa donna multiplicatamente surgono,
e poi, continuando la sua luce, caggiono, quasi come nebulette
matutine a la faccia del sole; e rimane libero e pieno di
certezza lo familiare intelletto, sì come l'aere da li raggi
meridiani purgato e illustrato.
Lo terzo verso
ancora s'intende per la sposizione litterale infino là dove dice:
L'anima piange. Qui si vuole bene attendere ad alcuna
moralitade, la quale in queste parole si può notare: che non dee
l'uomo, per maggiore amico, dimenticare li servigi ricevuti dal
minore; ma se pur seguire si conviene l'uno e lasciar l'altro, lo
migliore è da seguire, con alcuna onesta lamentanza l'altro
abbandonando, ne la quale dà cagione, a quello che segue, di
più amore. Poi dove dice: De li occhi miei, non vuole
altro dire, se non che forte fu l'ora che la prima demonstrazione
di questa donna entrò ne li occhi de lo 'ntelletto mio, la quale
fu cagione di questo innamoramento propinquissima. E là dove
dice: le mie pari, s'intende l'anime libere de le misere e
vili delettazioni e de li vulgari costumi, d'ingegno e di memoria
dotate. E dice poi: ancide; e dice poi: son morta;
che pare contro a quello che detto è di sopra de la salute di
questa donna. E però è da sapere che qui parla l'una de le
parti, e là parla l'altra; le quali diversamente litigano,
secondo che di sopra è manifesto. Onde non è maraviglia se là
dice "sì", e qui dice "no", se bene si
guarda chi discende e chi sale.
Poi nel quarto
verso, dove dice: uno spiritel d'amore, s'intende uno
pensiero che nasce del mio studio. Onde è da sapere che per
amore, in questa allegoria, sempre s'intende esso studio, lo
quale è applicazione de l'animo innamorato de la cosa a quella
cosa. Poi quando dice: tu vedrai Di sì alti miracoli
adornezza, annunzia che per lei si vedranno li adornamenti de
li miracoli: e vero dice, ché li adornamenti de le maraviglie è
vedere le cagioni di quelle; le quali ella dimostra, sì come nel
principio de la Metafisica pare sentire lo Filosofo, dicendo che,
per questi adornamenti vedere, cominciaro li uomini ad innamorare
di questa donna. E di questo vocabulo, cioè "maraviglia",
nel seguente trattato più pienamente si parlerà. Tutto l'altro
che segue poi di questa canzone, sofficientemente è per l'altra
esposizione manifesto. E così, in fine di questo secondo
trattato, dico e affermo che la donna di cu' io innamorai
appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de
lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome
Filosofia. E qui si termina lo secondo trattato, che è ordinato
a sponere la canzone che per prima vivanda è messa innanzi.
adornamenti vedere, cominciaro li uomini ad innamorare di questa donna. E di questo vocabulo, cioè "maraviglia", nel seguente trattato più pienamente si parlerà. Tutto l'altro che segue poi di questa canzone, sofficientemente è per l'altra esposizione manifesto. E così, in fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu' io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia. E qui si termina lo secondo trattato, che è ordinato a sponere la canzone che per prima vivanda è messa innanzi.
TRATTATO III
Canzone |
Capitolo I
Così come nel precedente trattato si ragiona, lo mio secondo
amore prese cominciamento da la misericordiosa sembianza d'una
donna. Lo quale amore poi, trovando la mia disposta vita al suo
ardore, a guisa di fuoco, di picciolo in grande fiamma s'accese;
sì che non solamente vegghiando, ma dormendo, lume di costei ne
la mia testa era guidato. E quanto fosse grande lo desiderio che
Amore di vedere costei mi dava, né dire né intendere si
potrebbe. E non solamente di lei era così disidiroso, ma di
tutte quelle persone che alcuna prossimitade avessero a lei, o
per familiaritade o per parentela alcuna. Oh quante notti furono,
che li occhi de l'altre persone chiusi dormendo si posavano, che
li miei ne lo abitaculo del mio amore fisamente miravano! E sì
come lo multiplicato incendio pur vuole di fuori mostrarsi, che
stare ascoso è impossibile, volontade mi giunse di parlare d'amore,
la quale del tutto tenere non potea. E avvegna che poca podestade
io potesse avere di mio consiglio, pure in tanto, o per volere d'Amore
o per mia prontezza, ad esso m'accostai per più fiate, che io
deliberai e vidi che, d'amor parlando, più bello né più
profittabile sermone non era che quello nel quale si commendava
la persona che s'amava.
E a questo
deliberamento tre ragioni m'informaro: de le quali l'una fu lo
proprio amore di me medesimo, lo quale è principio di tutti li
altri, sì come vede ciascuno. Ché più licito né più cortese
modo di fare a se medesimo altri onore non è, che onorare l'amico.
Ché con ciò sia cosa che intra dissimili amistà essere non
possa, dovunque amistà si vede similitudine s'intende; e
dovunque similitudine s'intende corre comune la loda e lo
vituperio. E di questa ragione due grandi ammaestramenti si
possono intendere: l'uno si è di non volere che alcuno vizioso
si mostri amico, perché in ciò si prende oppinione non buona di
colui cui amico si fa; l'altro sì è, che nessuno dee l'amico
suo biasimare palesemente, però che a se medesimo dà del dito
ne l'occhio, se ben si mira la predetta ragione. La seconda
ragione fu lo desiderio de la durazione di questa amistade. Onde
è da sapere che, sì come dice lo Filosofo nel nono de l'Etica,
ne l'amistade de le persone dissimili di stato conviene, a
conservazione di quella, una proporzione essere intra loro che la
dissimilitudine a similitudine quasi reduca. Sì com'è intra lo
signore e lo servo: ché, avvegna che lo servo non possa simile
beneficio rendere a lo signore quando da lui è beneficiato, dee
però rendere quello che migliore può con tanta sollicitudine di
prontezza, che quello che è dissimile per sé si faccia simile
per lo mostramento de la buona volontade; la quale manifesta, l'amistade
si ferma e si conserva. Per che io, considerando me minore che
questa donna, e veggendo me beneficiato da lei, proposi di lei
commendare secondo la mia facultade, la quale, se non simile è
per sé, almeno la pronta volontade mostra; ché, se più potesse,
più farei: e così si fa simile a quella di questa gentil donna.
La terza ragione fu uno argomento di provedenza; ché, sì come
dice Boezio, "non basta di guardare pur quello che è
dinanzi a li occhi", cioè lo presente, e però n'è data la
provedenza che riguarda oltre, a quello che può avvenire. Dico
che pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato
ripreso di levezza d'animo, udendo me essere dal primo amore
mutato; per che, a torre via questa riprensione, nullo migliore
argomento era che dire quale era quella donna che m'avea mutato.
Ché, per la sua eccellenza manifesta, avere si può
considerazione de la sua virtude; e per lo 'ntendimento de la sua
grandissima virtù si può pensare ogni stabilitade d'animo
essere a quella mutabile e però me non giudicare lieve e non
stabile. Impresi dunque a lodare questa donna, e se non come si
convenisse, almeno innanzi quanto io potesse; e cominciai a dire:
Amor che ne la mente mi ragiona.
Questa canzone
principalmente ha tre parti. La prima è tutto lo primo verso,
nel quale proemialmente si parla. La seconda sono tutti e tre li
versi seguenti, ne li quali si tratta quello che dire s'intende,
cioè la loda di questa gentile; lo primo de li quali comincia: Non
vede il sol, che tutto 'l mondo gira. La terza parte è lo
quinto e l'ultimo verso, nel quale, dirizzando le parole a la
canzone, purgo lei d'alcuna dubitanza. E di queste tre parti per
ordine è da ragionare.
Capitolo II
Faccendomi dunque da la prima parte, che proemio di questa
canzone fu ordinata, dico che dividere in tre parti si conviene.
Che prima si tocca la ineffabile condizione di questo tema;
secondamente si narra la mia insufficienza a questo perfettamente
trattare: e comincia questa seconda parte: E certo e' mi
convien lasciare in pria; ultimamente mi scuso da
insufficienza, ne la quale non si dee porre a me colpa: e questo
comincio quando dico: Però, se le mie rime avran difetto.
Dice adunque: Amor
che ne la mente mi ragiona; dove principalmente è da vedere
chi è questo ragionatore, e che è questo loco nel quale dico
esso ragionare. Amore, veramente pigliando e sottilmente
considerando, non è altro che unimento spirituale de l'anima e
de la cosa amata; nel quale unimento di propia sua natura l'anima
corre tosto e tardi, secondo che è libera o impedita. E la
ragione di questa naturalitade può essere questa. Ciascuna forma
sustanziale procede da la sua prima cagione, la quale è Iddio,
sì come nel libro Di Cagioni è scritto, e non ricevono
diversitade per quella, che è semplicissima, ma per le
secondarie cagioni e per la materia in che discende. Onde nel
medesimo libro si scrive, trattando de la infusione de la bontà
divina: "E fannosi diverse le bontadi e li doni per lo
concorrimento de la cosa che riceve". Onde, con ciò sia
cosa che ciascuno effetto ritegna de la natura de la sua cagione
- sì come dice Alpetragio quando afferma che quello che è
causato da corpo circulare ne ha in alcuno modo circulare essere
-, ciascuna forma ha essere de la divina natura in alcun modo:
non che la divina natura sia divisa e comunicata in quelle, ma da
quelle è participata per lo modo quasi che la natura del sole è
participata ne l'altre stelle. E quanto la forma è più nobile,
tanto più di questa natura tiene; onde l'anima umana, che è
forma nobilissima di queste che sotto lo cielo sono generate,
più riceve de la natura divina che alcun'altra. E però che
naturalissimo è in Dio volere essere - però che, sì come ne lo
allegato libro si legge, "prima cosa è l'essere, e anzi a
quello nulla è" -, l'anima umana essere vuole naturalmente
con tutto desiderio; e però che 'l suo essere dipende da Dio e
per quello si conserva, naturalmente disia e vuole essere a Dio
unita per lo suo essere fortificare. E però che ne le bontadi de
la natura e de la ragione si mostra la divina, viene che
naturalmente l'anima umana con quelle per via spirituale si
unisce, tanto più tosto e più forte quanto quelle più appaiono
perfette: lo quale apparimento è fatto secondo che la conoscenza
de l'anima è chiara o impedita. E questo unire è quello che noi
dicemo amore, per lo quale si può conoscere quale è dentro l'anima,
veggendo di fuori quelli che ama. Questo amore, cioè l'unimento
de la mia anima con questa gentil donna, ne la quale de la divina
luce assai mi si mostrava, è quello ragionatore del quale io
dico; poi che da lui continui pensieri nasceano, miranti e
esaminanti lo valore di questa donna che spiritualmente fatta era
con la mia anima una cosa.
Lo loco nel
quale dico esso ragionare sì è la mente; ma per dire che sia la
mente, non si prende di ciò più intendimento che di prima, e
però è da vedere che questa mente propriamente significa. Dico
adunque che lo Filosofo nel secondo de l'Anima, partendo le
potenze di quella, dice che l'anima principalmente hae tre
potenze, cioè vivere, sentire e ragionare: e dice anche muovere;
ma questa si può col sentire fare una, però che ogni anima che
sente, o con tutti i sensi o con alcuno solo, si muove; sì che
muovere è una potenza congiunta col sentire. E secondo che esso
dice, è manifestissimo che queste potenze sono intra sé per
modo che l'una è fondamento de l'altra; e quella che è
fondamento puote per sé essere partita, ma l'altra, che si fonda
sopra essa, non può da quella essere partita. Onde la potenza
vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra 'l quale si
sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e questa vegetativa
potenza per sé puote essere anima, sì come vedemo ne le piante
tutte. La sensitiva sanza quella essere non puote, e non si
truova in alcuna cosa che non viva; e questa sensitiva potenza è
fondamento de la intellettiva, cioè de la ragione: e però ne le
cose animate mortali la ragionativa potenza sanza la sensitiva
non si truova, ma la sensitiva si truova sanza questa, sì come
ne le bestie, ne li uccelli, ne' pesci e in ogni animale bruto
vedemo. E quella anima che tutte queste potenze comprende, e è
perfettissima di tutte l'altre, è l'anima umana, la quale con la
nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la
divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l'anima
è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da
materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e
però è l'uomo divino animale da li filosofi chiamato. In questa
nobilissima parte de l'anima sono più vertudi, sì come dice lo
Filosofo massimamente nel sesto de l'Etica; dove dice che in essa
è una vertù che si chiama scientifica, e una che si chiama
ragionativa, o vero consigliativa: e con queste sono certe
vertudi - sì come in quello medesimo luogo Aristotile dice - sì
come la vertù inventiva e giudicativa. E tutte queste
nobilissime vertudi, e l'altre che sono in quella eccellentissima
potenza, sì chiama insieme con questo vocabulo del quale si
volea sapere che fosse, cioè mente. Per che è manifesto che per
mente s'intende questa ultima e nobilissima parte de l'anima.
E che ciò fosse
lo 'ntendimento, si vede: ché solamente de l'uomo e de le divine
sustanze questa mente si predica, sì come per Boezio si puote
apertamente vedere, che prima la predica de li uomini, ove dice a
la Filosofia: "Tu e Dio, che ne la mente te de li uomini
mise"; poi la predica di Dio, quando dice a Dio: "Tutte
le cose produci da lo superno essemplo, tu, bellissimo, bello
mondo ne la mente portante". Né mai d'animale bruto
predicata fue, anzi di molti uomini, che de la parte
perfettissima paiono defettivi, non pare potersi né doversi
predicare; e però quelli cotali sono chiamati ne la gramatica
"amenti" e "dementi", cioè sanza mente. Onde
si puote omai vedere che è mente: che è quella fine e
preziosissima parte de l'anima che è deitade. E questo è il
luogo dove dico che Amore mi ragiona de la mia donna.
Capitolo III
Non sanza cagione dico che questo amore ne la mente mia fa la sua
operazione; ma ragionevolemente ciò si dice, a dare a intendere
quale amore è questo, per lo loco nel quale adopera. Onde è da
sapere che ciascuna cosa, come detto è di sopra, per la ragione
di sopra mostrata ha 'l suo speziale amore. Come le corpora
simplici hanno amore naturato in sé a lo luogo proprio, e però
la terra sempre discende al centro; lo fuoco ha amore a la
circunferenza di sopra, lungo lo cielo de la luna, e però sempre
sale a quello. Le corpora composte prima, sì come sono le minere,
hanno amore a lo luogo dove la loro generazione è ordinata, e in
quello crescono e acquistano vigore e potenza; onde vedemo la
calamita sempre da la parte de la sua generazione ricevere vertù.
Le piante, che sono prima animate, hanno amore a certo luogo più
manifestamente, secondo che la complessione richiede; e però
vedemo certe piante lungo l'acque quasi cansarsi, e certe sopra
li gioghi de le montagne, e certe ne le piagge e dappiè monti:
le quali se si transmutano, o muoiono del tutto o vivono quasi
triste, sì come cose disgiunte dal loro amico. Li animali bruti
hanno più manifesto amore non solamente a li luoghi, ma l'uno l'altro
vedemo amare. Li uomini hanno loro proprio amore a le perfette e
oneste cose. E però che l'uomo, avvegna che una sola sustanza
sia tutta sua forma, per la sua nobilitade ha in sé natura di
tutte queste cose, tutti questi amori puote avere e tutti li ha.
Ché per la
natura del simplice corpo, che ne lo subietto signoreggia,
naturalmente ama l'andare in giuso; e però quando in su muove lo
suo corpo, più s'affatica. Per la natura seconda, del corpo
misto, ama lo luogo de la sua generazione, e ancora lo tempo; e
però ciascuno naturalmente è di più virtuoso corpo ne lo luogo
dove è generato e nel tempo de la sua generazione che in altro.
Onde si legge ne le storie d'Ercule, e ne l'Ovidio Maggiore e in
Lucano e in altri poeti, che combattendo con lo gigante che si
chiamava Anteo, tutte volte che lo gigante era stanco, e elli
ponea lo suo corpo sopra la terra disteso o per sua volontà o
per forza d'Ercule, forza e vigore interamente de la terra in lui
resurgea, ne la quale e de la quale era esso generato. Di che
accorgendosi Ercule, a la fine prese lui; e stringendo quello e
levatolo da la terra, tanto lo tenne sanza lasciarlo a la terra
ricongiugnere, che lo vinse per soperchio e uccise. E questa
battaglia fu in Africa, secondo le testimonianze de le scritture.
E per la natura
terza, cioè de le piante, ha l'uomo amore a certo cibo, non in
quanto è sensibile, ma in quanto è notribile, e quello cotale
cibo fa l'opera di questa natura perfettissima, e l'altro non
così, ma falla imperfetta. E però vedemo certo cibo fare li
uomini formosi e membruti e bene vivacemente colorati, e certi
fare lo contrario di questo. E per la natura quarta, de li
animali, cioè sensitiva, hae l'uomo altro amore, per lo quale
ama secondo la sensibile apparenza, sì come bestia; e questo
amore ne l'uomo massimamente ha mestiere di rettore per la sua
soperchievole operazione, ne lo diletto massimamente del gusto e
del tatto. E per la quinta e ultima natura, cioè vera umana o,
meglio dicendo, angelica, cioè razionale, ha l'uomo amore a la
veritade e a la vertude; e da questo amore nasce la vera e
perfetta amistade, de l'onesto tratta, de la quale parla lo
Filosofo ne l'ottavo de l'Etica, quando tratta de l'amistade.
Onde, acciò che
questa natura si chiama mente, come di sopra è mostrato, dissi
"Amore ragionare ne la mente", per dare ad intendere
che questo amore era quello che in quella nobilissima natura
nasce, cioè di veritade e di vertude, e per ischiudere ogni
falsa oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore
essere per sensibile dilettazione. Dico poi disiosamente,
a dare ad intendere la sua continuanza e lo suo fervore. E dico
"move sovente cose che fanno disviare lo 'ntelletto". E
veramente dico; però che li miei pensieri, di costei ragionando,
molte fiate voleano cose conchiudere di lei che io non le potea
intendere, e smarrivami, sì che quasi parea di fuori alienato:
come chi guarda col viso contra una retta linea, prima vede le
cose prossime chiaramente; poi, procedendo, meno le vede chiare;
poi, più oltre, dubita; poi, massimamente oltre procedendo, lo
viso disgiunto nulla vede.
E quest'è l'una
ineffabilitade di quello che io per tema ho preso; e
consequentemente narro l'altra, quando dico: Lo suo parlare.
E dico che li miei pensieri - che sono parlare d'Amore - "sonan
sì dolci", che la mia anima, cioè lo mio affetto, arde di
potere ciò con la lingua narrare; e perché dire nol posso, dico
che l'anima se ne lamenta dicendo: lassa! ch'io non son
possente. E questa è l'altra ineffabilitade; cioè che la
lingua non è di quello che lo 'ntelletto vede compiutamente
seguace. E dico l'anima ch'ascolta e che lo sente: "ascoltare",
quanto a le parole, e "sentire", quanto a la dolcezza
del suono.
Capitolo IV
Quando ragionate sono le due ineffabilitadi di questa matera,
conviensi procedere a ragionare le parole che narrano la mia
insufficienza. Dico adunque che la mia insufficienza procede
doppiamente, sì come doppiamente trascende l'altezza di costei,
per lo modo che detto è. Ché a me conviene lasciare per
povertà d'intelletto molto di quello che è vero di lei, e che
quasi ne la mia mente raggia, la quale come corpo diafano riceve
quello, non terminando: e questo dico in quella seguente
particula: E certo e' mi conven lasciare in pria. Poi
quando dico: E di quel che s'intende, dico che non pur a
quello che lo mio intelletto non sostiene, ma eziandio a quello
che io intendo sufficiente non sono, però che la lingua mia non
è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio
se ne ragiona; per che è da vedere che, a rispetto de la
veritade, poco fia quello che dirà. E ciò risulta in grande
loda di costei, se bene si guarda, ne la quale principalmente s'intende;
e quella orazione si può dir bene che vegna da la fabrica del
rettorico, ne la quale ciascuna parte pone mano a lo principale
intento. Poi quando dice: Però, se le mie rime avran difetto,
escusomi da una colpa de la quale non deggio essere colpato,
veggendo altri le mie parole essere minori che la dignitade di
questa; e dico che se difetto fia ne le mie rime, cioè ne le mie
parole che a trattare di costei sono ordinate, di ciò è da
biasimare la debilitade de lo 'ntelletto e la cortezza del nostro
parlare, lo quale per lo pensiero è vinto, sì che seguire lui
non puote a pieno, massimamente là dove lo pensiero nasce da
amore, perché quivi l'anima profondamente più che altrove s'ingegna.
Potrebbe dire
alcuno: "tu scusi e accusi te insiememente". Ché
argomento di colpa è, non purgamento, in quanto la colpa si dà
a lo 'ntelletto e al parlare che è mio; ché, sì come, s'elli
è buono, io deggio di ciò essere lodato in quanto così è,
così, s'elli è defettivo, deggio essere biasimato. A ciò si
può brievemente rispondere che non m'accuso, ma iscuso veramente.
E però è da sapere, secondo la sentenza del Filosofo nel terzo
de l'Etica, che l'uomo è degno di loda e di vituperio solo in
quelle cose che sono in sua podestà di fare o di non fare; ma in
quelle ne le quali non ha podestà non merita né vituperio né
loda, però che l'uno e l'altro è da rendere ad altrui, avvegna
che le cose siano parte de l'uomo medesimo. Onde noi non dovemo
vituperare l'uomo perché sia del corpo da sua nativitade laido,
però che non fu in sua podestà farsi bello; ma dovemo
vituperare la mala disposizione de la materia onde esso è fatto,
che fu principio del peccato de la natura. E così non dovemo
lodare l'uomo per biltade che abbia da sua nativitade ne lo suo
corpo, ché non fu ello di ciò fattore, ma dovemo lodare l'artefice,
cioè la natura umana, che tanta bellezza produce ne la sua
materia quando impedita da essa non è. E però disse bene lo
prete a lo 'mperadore, che ridea e schernia la laidezza del suo
corpo: "Dio è segnore: esso fece noi e non essi noi";
e sono queste parole del Profeta, in uno verso del Saltero
scritte né più né meno come ne la risposta del prete. E però
veggiano li cattivi malnati che pongono lo studio loro in
azzimare la loro persona, e non in adornare la loro operazione,
che dee essere tutta con onestade, che non è altro a fare che
ornare l'opera d'altrui e abbandonare la propria.
Tornando adunque
al proposito, dico che nostro intelletto, per difetto de la
vertù da la quale trae quello ch'el vede, che è virtù organica,
cioè la fantasia, non puote a certe cose salire (però che la
fantasia nol puote aiutare, ché non ha lo di che), sì come sono
le sustanze partite da materia; de le quali se alcuna
considerazione di quella avere potemo, intendere non le potemo
né comprendere perfettamente. E di ciò non è l'uomo da
biasimare, ché non esso, dico, fue di questo difetto fattore,
anzi fece ciò la natura universale, cioè Iddio, che volse in
questa vita privare noi da questa luce; che, perché elli lo si
facesse, presuntuoso sarebbe a ragionare. Sì che, se la mia
considerazione mi transportava in parte dove la fantasia venia
meno a lo 'ntelletto, se io non potea intendere non sono da
biasimare. Ancora, è posto fine al nostro ingegno, a ciascuna
sua operazione, non da noi ma da l'universale natura; e però è
da sapere che più ampi sono li termini de lo 'ngegno a pensare
che a parlare, e più ampi a parlare che ad accennare. Dunque se
'l pensiero nostro, non solamente quello che a perfetto
intelletto non viene ma eziandio quello che a perfetto intelletto
si termina, è vincente del parlare, non semo noi da biasimare,
però che non semo di ciò fattori. E però manifesto me
veramente scusare quando dico: Di ciò si biasimi il debole
intelletto E 'l parlar nostro, che non ha valore Di ritrar tutto
ciò che dice Amore; ché assai si dee chiaramente vedere la
buona volontade, a la quale aver si dee rispetto ne li meriti
umani. E così omai s'intenda la prima parte principale di questa
canzone, che corre mo per mano.
Capitolo V
Quando, ragionando per la prima parte, aperta è la sentenza di
quella, procedere si conviene a la seconda; de la quale per
meglio vedere, tre parti se ne vogliono fare, secondo che in tre
versi si comprende: che ne la prima parte io commendo questa
donna interamente e comunemente, sì ne l'anima come nel corpo;
ne la seconda discendo a laude speziale de l'anima; ne la terza a
laude speziale del corpo. La prima parte comincia: Non vede il
sol, che tutto 'l mondo gira; la seconda comincia: In lei
discende la virtù divina; la terza comincia: Cose
appariscon ne lo suo aspetto; e queste parti secondo ordine
sono da ragionare.
Dice adunque: Non
vede il sol, che tutto il mondo gira; dove è da sapere, a
perfetta intelligenza avere, come lo mondo dal sole è girato.
Prima dico che per lo mondo io non intendo qui tutto 'l corpo de
l'universo, ma solamente questa parte del mare e de la terra,
seguendo la volgare voce, ché così s'usa chiamare: onde dice
alcuno, "quelli hae tutto lo mondo veduto", dicendo
parte del mare e della terra. Questo mondo volse Pittagora - e li
suoi seguaci - dicere che fosse una de le stelle e che un'altra a
lei fosse opposita, così fatta, e chiamava quella Anticthona; e
dicea ch'erano ambe in una spera che si volvea da occidente in
oriente, e per questa revoluzione si girava lo sole intorno a noi,
e ora si vedea e ora non si vedea. E dicea che 'l fuoco era nel
mezzo di queste, ponendo quello essere più nobile corpo che l'acqua
e che la terra, e ponendo lo mezzo nobilissimo intra li luoghi de
li quattro corpi simplici: e però dicea che 'l fuoco, quando
parea salire, secondo lo vero al mezzo discendea. Platone fu poi
d'altra oppinione, e scrisse in uno suo libro che si chiama Timeo,
che la terra col mare era bene lo mezzo di tutto, ma che 'l suo
tondo tutto si girava a torno al suo centro, seguendo lo primo
movimento del cielo; ma tarda molto per la sua grossa matera e
per la massima distanza da quello. Queste oppinioni sono
riprovate per false nel secondo De Celo et Mundo da quello
glorioso filosofo al quale la natura più aperse li suoi segreti;
e per lui quivi è provato, questo mondo, cioè la terra, stare
in sé stabile e fissa in sempiterno. E le sue ragioni, che
Aristotile dice a rompere costoro e affermare la veritade, non è
mia intenzione qui narrare, perché assai basta a la gente a cu'
io parlo, per la sua grande autoritade sapere che questa terra è
fissa e non si gira, e che essa col mare è centro del cielo.
Questo cielo si
gira intorno a questo centro continuamente, sì come noi vedemo;
ne la cui girazione conviene di necessitade essere due poli fermi,
e uno cerchio equalmente distante da quelli, che massimamente
giri. Di questi due poli, l'uno è manifesto quasi a tutta la
terra discoperta, cioè questo settentrionale; l'altro è quasi a
tutta la discoperta terra celato, cioè lo meridionale. Lo
cerchio che nel mezzo di questi s'intende, si è quella parte del
cielo sotto la quale si gira lo sole quando va con l'Ariete e con
la Libra. Onde è da sapere, che se una pietra potesse cadere da
questo nostro polo, ella cadrebbe là oltre nel mare Oceano, a
punto in su quel dosso del mare dove, se fosse uno uomo, la
stella li sarebbe sempre in sul mezzo del capo; - e credo che da
Roma a questo luogo, andando diritto per tramontana, sia spazio
quasi di dumila secento miglia, o poco dal più al meno -.
Imaginando adunque, per meglio vedere, in questo luogo ch'io
dissi sia una cittade e abbia nome Maria, dico ancora che se da l'altro
polo, cioè meridionale, cadesse una pietra, ch'ella caderebbe in
su quel dosso del mare Oceano ch'è a punto in questa palla
opposito a Maria; - e credo che da Roma là dove caderebbe questa
seconda pietra, diritto andando per lo mezzogiorno, sia spazio di
settemila cinquecento miglia, o poco dal più al meno -. E qui
imaginiamo un'altra cittade, che abbia nome Lucia - ed è spazio,
da qualunque lato si tira la corda, di diecimila dugento miglia
-: èli, tra l'una e l'altra, mezzo lo cerchio di tutta questa
palla, sì che li cittadini di Maria tengono le piante contra le
piante di quelli di Lucia. Imaginisi anco uno cerchio in su
questa palla, che sia in ciascuna parte sua tanto lungi da Maria
quanto da Lucia. Credo che questo cerchio - secondo ch'io
comprendo per le sentenze de li astrologi, e per quella d'Alberto
de la Magna nel libro de la Natura de' luoghi e de le proprietadi
de li elementi, e anco per la testimonianza di Lucano nel nono
suo libro - dividerebbe questa terra discoperta dal mare Oceano,
là nel mezzodie, quasi per tutta l'estremità del primo climate,
dove sono intra l'altre genti li Garamanti, che stanno quasi
sempre nudi; a li quali venne Catone col popolo di Roma, la
segnoria di Cesare fuggendo.
Segnati questi
tre luoghi sopra questa palla, leggiermente si può vedere come
lo sole la gira. Dico adunque che 'l cielo del sole si rivolge da
occidente in oriente, non dirittamente contra lo movimento diurno,
cioè del die e de la notte, ma tortamente contra quello; sì che
'l suo mezzo cerchio, che equalmente è 'ntra li suoi poli, nel
quale è lo corpo del sole, sega in due parti opposite lo mezzo
cerchio de li due primi poli, cioè nel principio de l'Ariete e
nel principio de la Libra, e partesi per due archi da esso, uno
ver settentrione e un altro ver mezzogiorno. Li punti di mezzo de
li quali archi si dilungano equalmente dal primo cerchio, da ogni
parte, per ventitrè gradi e uno punto più; e l'uno punto è lo
principio del Cancro, e l'altro è lo principio del Capricorno.
Però conviene che Maria veggia nel principio de l'Ariete, quando
lo sole va sotto lo mezzo cerchio de li primi poli, esso sole
girar lo mondo intorno giù a la terra, o vero al mare, come una
mola de la quale non paia più che mezzo lo corpo suo; e questa
veggia venire montando a guisa d'una vite dintorno, tanto che
compia novanta e una rota e poco più. E quando queste rote sono
compiute, lo suo montare è a Maria quasi tanto quanto esso monta
a noi ne la mezza terra, quando 'l giorno è de la mezza notte
iguale; e se uno uomo fosse dritto in Maria e sempre al sole
volgesse lo viso, vederebbesi quello andare ver lo braccio destro.
Poi per la medesima via par discendere altre novanta e una rota e
poco più, tanto ch'elli gira intorno giù a la terra, o vero al
mare, sé non tutto mostrando; e poi si cela, e comincialo a
vedere Lucia, lo quale montare e discendere intorno a sé allor
vede con altrettante rote quante vede Maria. E se uno uomo fosse
in Lucia dritto, sempre che volgesse la faccia in ver lo sole,
vedrebbe quello andarsi nel braccio sinistro. Per che si può
vedere che questi luoghi hanno un dì l'anno di sei mesi; e una
notte d'altrettanto tempo; e quando l'uno ha lo giorno e l'altro
ha la notte. Conviene anche che lo cerchio dove sono li Garamanti,
come detto è, in su questa palla, veggia lo sole a punto sopra
sé girare, non a modo di mola, ma di rota; la quale non può in
alcuna parte vedere se non mezza, quando va sotto l'Ariete. E poi
lo vede partire da sé e venire verso Maria novanta e uno die e
poco più, e per altrettanti a sé tornare; e poi, quando è
tornato, va sotto la Libra, e anche si parte e va ver Lucia
novanta e uno dì e poco più, e in altrettanti ritorna. E questo
luogo, lo quale tutta la palla cerchia, sempre ha lo die iguale
con la notte, o di qua o di là che 'l sole li vada; e due volte
l'anno ha la state grandissima di calore, e due piccioli verni.
Conviene anche
che li due spazii, che sono in mezzo de le due cittadi imaginate
e lo cerchio del mezzo, veggiano lo sole disvariatamente, secondo
che sono remoti e propinqui questi luoghi; sì come omai, per
quello che detto è, puote vedere chi ha nobile ingegno, al quale
è bello un poco di fatica lasciare. Per che vedere omai si puote,
che per lo divino provedimento lo mondo è si ordinato che, volta
la spera del sole e tornata a uno punto, questa palla dove noi
siamo in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto
di tenebre. O ineffabile sapienza che così ordinasti, quanto è
povera la nostra mente a te comprendere! E voi a cui utilitade e
diletto io scrivo, in quanta cechitade vivete, non levando li
occhi suso a queste cose, tenendoli fissi nel fango de la vostra
stoltezza!
Capitolo VI
Nel precedente capitolo è mostrato per che modo lo sole gira;
sì che omai si puote procedere a dimostrare la sentenza de la
parte a la quale s'intende. Dico adunque che in questa parte
prima comincio a commendare questa donna per comparazione a l'altre
cose; e dico che 'l sole, girando lo mondo, non vede alcuna cosa
così gentile come costei: per che segue che questa sia, secondo
le parole, gentilissima di tutte le cose che 'l sole allumina. E
dice: in quell'ora; onde è da sapere che "ora"
per due modi si prende da li astrologi. L'uno si è, che del die
e de la notte fanno ventiquattr'ore, cioè dodici del die e
dodici de la notte, quanto che 'l die sia grande o picciolo; e
queste ore si fanno picciole e grandi nel dì e ne la notte,
secondo che il dì e la notte cresce e menoma. E queste ore usa
la Chiesa, quando dice Prima, Terza, Sesta e Nona, e chiamansi
ore temporali. L'altro modo si è, che faccendo del dì e de la
notte ventiquattr'ore, tal volta ha lo die le quindici ore, e la
notte le nove; tal volta ha la notte le sedici e lo die le otto,
secondo che cresce e menoma lo die e la notte: e chiamansi ore
equali. E ne lo equinozio sempre queste e quelle che temporali si
chiamano sono una cosa; però che, essendo lo dì equale de la
notte, conviene così avvenire.
Poi quando dico:
Ogni Intelletto di là su la mira, commendo lei, non
avendo rispetto ad altra cosa. E dico che le Intelligenze del
cielo la mirano, e che la gente di qua giù gentile pensano di
costei, quando più hanno di quello che loro diletta. E qui è da
sapere che ciascuno Intelletto di sopra, secondo ch'è scritto
nel libro de le Cagioni, conosce quello che è sopra sé e quello
che è sotto sé. Conosce adunque Iddio sì come sua cagione,
conosce quello che è sotto sé sì come suo effetto; e però che
Dio è universalissima cagione di tutte le cose, conoscendo lui,
tutte le cose conosce in sé, secondo lo modo de la Intelligenza.
Per che tutte le Intelligenze conoscono la forma umana in quanto
ella è per intenzione regolata ne la divina mente; e
massimamente conoscono quella le Intelligenze motrici, però che
sono spezialissime cagioni di quella e d'ogni forma generata, e
conoscono quella perfettissima, tanto quanto essere puote, sì
come loro regola ed essemplo. E se essa umana forma, essemplata e
individuata, non è perfetta, non è manco de lo detto essemplo,
ma de la materia la quale individua. Però quando dico: Ogni
Intelletto di là su la mira, non voglio altro dire se non ch'ella
è così fatta come l'essemplo intenzionale che de la umana
essenzia è ne la divina mente e, per quella, in tutte l'altre,
massimamente in quelle menti angeliche che fabbricano col cielo
queste cose di qua giuso.
E a questo
affermare, soggiungo quando dico: E quella gente che qui s'innamora.
Dove è da sapere che ciascuna cosa massimamente desidera la sua
perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio, e per quella
ogni cosa è desiderata: e questo è quello desiderio che sempre
ne fa parere ogni dilettazione manca; ché nulla dilettazione è
si grande in questa vita che a l'anima nostra possa torre la sete,
che sempre lo desiderio che detto è non rimagna nel pensiero. E
però che questa è veramente quella perfezione, dico che quella
gente che qua giù maggiore diletto riceve quando più hanno di
pace, allora rimane questa ne' loro pensieri, per questa, dico,
tanto essere perfetta quanto sommamente essere puote l'umana
essenzia. Poi quando dico: Suo esser tanto a Quei che lel dà
piace, mostro che non solamente questa donna è perfettissima
ne la umana generazione, ma più che perfettissima in quanto
riceve de la divina bontade oltre lo debito umano. Onde
ragionevolmente si puote credere che, sì come ciascuno maestro
ama più la sua opera ottima che l'altre, così Dio ama più la
persona umana ottima che tutte l'altre; e però che la sua
larghezza non si stringe da necessitade d'alcuno termine, non ha
riguardo lo suo amore al debito di colui che riceve, ma soperchia
quello in dono e in beneficio di vertù e di grazia. Onde dico
qui che esso Dio, che dà l'essere a costei, per caritade de la
sua perfezione infonde in essa de la sua bontade oltre li termini
del debito de la nostra natura.
Poi quando dico:
La sua anima pura, pruovo ciò che detto è per sensibile
testimonianza. Ove è da sapere che, sì come dice lo Filosofo
nel secondo de l'Anima, l'anima è atto del corpo: e se ella è
suo atto, è sua cagione; e però che, sì come è scritto nel
libro allegato de le Cagioni, ogni cagione infonde nel suo
effetto de la bontade che riceve da la cagione sua, infonde e
rende al corpo suo de la bontade de la cagione sua, ch'è Dio.
Onde, con ciò sia cosa che in costei si veggiano, quanto è da
la parte del corpo, maravigliose cose, tanto che fanno ogni
guardatore disioso di quelle vedere, manifesto è che la sua
forma, cioè la sua anima, che lo conduce sì come cagione
propria, riceva miracolosamente la graziosa bontade di Dio. E
così si pruova, per questa apparenza, che è oltre lo debito de
la natura nostra (la quale in lei è perfettissima come detto è
di sopra) questa donna da Dio beneficiata e fatta nobile cosa. E
questa è tutta la sentenza litterale de la prima parte de la
seconda parte principale.
Capitolo VII
Commendata questa donna comunemente, sì secondo l'anima come
secondo lo corpo, io procedo a commendare lei spezialmente
secondo l'anima; e prima la commendo secondo che 'l suo bene è
grande in sé, poi la commendo secondo che 'l suo bene è grande
in altrui e utile al mondo. E comincia questa parte seconda
quando dico: Di costei si può dire. Dunque dico prima: In
lei discende la virtù divina. Ove è da sapere che la divina
bontade in tutte le cose discende, e altrimenti essere non
potrebbero; ma avvegna che questa bontade si muova da
simplicissimo principio, diversamente si riceve, secondo più e
meno, da le cose riceventi. Onde scritto è nel libro de le
Cagioni: "La prima bontade manda le sue bontadi sopra le
cose con uno discorrimento". Veramente ciascuna cosa riceve
da quello discorrimento secondo lo modo de la sua vertù e de lo
suo essere; e di ciò sensibile essemplo avere potemo dal sole.
Vedemo la luce del sole, la quale è una, da uno fonte derivata,
diversamente da le corpora essere ricevuta; sì come dice Alberto
in quello libro che fa de lo Intelletto. Ché certi corpi, per
molta chiaritade di diafano avere in sé mista, tosto che 'l sole
li vede diventano tanto luminosi, che per multiplicamento di luce
in quelle e ne lo loro aspetto, rendono a li altri di sé grande
splendore, sì come è l'oro e alcuna pietra. Certi sono che, per
esser del tutto diafani, non solamente ricevono la luce, ma
quella non impediscono, anzi rendono lei del loro colore colorata
ne l'altre cose. E certi sono tanto vincenti ne la purità del
diafano, che divengono sì raggianti, che vincono l'armonia de l'occhio,
e non si lasciano vedere sanza fatica del viso, sì come sono li
specchi. Certi altri sono tanto sanza diafano, che quasi poco de
la luce ricevono, si com'è la terra. Così la bontà di Dio è
ricevuta altrimenti da le sustanze separate, cioè da li Angeli,
che sono sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità
de la loro forma, e altrimenti da l'anima umana, che, avvegna che
da una parte sia da materia libera, da un'altra è impedita, sì
come l'uomo ch'è tutto ne l'acqua fuor del capo, del quale non
si può dire che tutto sia ne l'acqua né tutto fuor da quella; e
altrimenti da li animali, la cui anima tutta in materia è
compresa, ma alquanto è nobilitata; e altrimenti da le piante, e
altrimenti da le minere; e altrimenti da la terra che da li altri
elementi, però che è materialissima, e però remotissima e
improporzionalissima a la prima simplicissima e nobilissima
vertude, che sola è intellettuale, cioè Dio.
E avvegna che
posti siano qui gradi generali, nondimeno si possono porre gradi
singulari; cioè che quella riceve, de l'anime umane, altrimenti
una che un'altra. E però che ne l'ordine intellettuale de l'universo
si sale e discende per gradi quasi continui da la infima forma a
l'altissima e da l'altissima a la infima, sì come vedemo ne l'ordine
sensibile; e tra l'angelica natura, che è cosa intellettuale, e
l'anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l'uno a l'altro
continuo per li ordini de li gradi, e tra l'anima umana e l'anima
più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia; e
noi veggiamo molti uomini tanto vili e di sì bassa condizione,
che quasi non pare essere altro che bestia; e così è da porre e
da credere fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta
condizione che quasi non sia altro che angelo: altrimenti non si
continuerebbe l'umana spezie da ogni parte, che esser non può. E
questi cotali chiama Aristotile, nel settimo de l'Etica, divini;
e cotale dico io che è questa donna, sì che la divina virtude,
a guisa che discende ne l'angelo, discende in lei.
Poi quando dico:
E qual donna gentil questo non crede, pruovo questo per la
esperienza che aver di lei si può in quelle operazioni che sono
proprie de l'anima razionale, dove la divina luce più
espeditamente raggia; cioè nel parlare e ne li atti che
reggimenti e portamenti sogliono essere chiamati. Onde è da
sapere che solamente l'uomo intra li animali parla, e ha
reggimenti e atti che si dicono razionali però che solo elli ha
in sé ragione. E se alcuno volesse dire contra, dicendo che
alcuno uccello parli, sì come pare di certi, massimamente de la
gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti o vero
reggimenti, sì come pare de la scimia e d'alcuno altro, rispondo
che non è vero che parlino né che abbiano reggimenti, però che
non hanno ragione, da la quale queste cose convegnono procedere;
né è in loro lo principio di queste operazioni, né conoscono
che sia ciò, né intendono per quello alcuna cosa significare,
ma solo quello che veggiono e odono ripresentare. Onde, secondo
la imagine de le corpora in alcuno corpo lucido si ripresenta,
sì come ne lo specchio, e si la imagine corporale che lo
specchio dimostra non è vera; così la imagine de la ragione,
cioè li atti e lo parlare che l'anima bruta ripresenta, o vero
dimostra, non è vera.
Dico che "qual
donna gentile non crede quello ch'io dico, che vada con lei, e
miri li suoi atti" - non dico "qual uomo", però
che più onestamente di donna per le donne si prende esperienza
che per l'uomo -; e dico quello che di lei colei sentirà,
dicendo quello che fa lo suo parlare, e che fanno li suoi
reggimenti. Ché il suo parlare, per l'altezza e per la dolcezza
sua, genera ne la mente di chi l'ode uno pensiero d'amore, lo
quale io chiamo spirito celestiale, però che là su è lo
principio e di là su viene la sua sentenza, sì come di sopra è
narrato; del qual pensiero si procede in ferma oppinione che
questa sia miraculosa donna di vertude. E suoi atti, per la loro
soavitade e per la loro misura, fanno amore disvegliare e
risentire là dovunque è de la sua potenza seminata per buona
natura. La quale natural semenza si fa come nel sequente trattato
si mostra.
Poi quando dico:
Di costei si può dire, intendo narrare come la bontà e
la vertù de la sua anima è a li altri buona e utile. E prima,
com'ella è utile a l'altre donne, dicendo: Gentile è in
donna ciò che in lei si trova, dove manifesto essemplo rendo
a le donne, nel quale mirando possano sé far parere gentili,
quello seguitando. Secondamente narro come ella è utile a tutte
le genti, dicendo che l'aspetto suo aiuta la nostra fede, la
quale più che tutte l'altre cose è utile a tutta l'umana
generazione, sì come quella per la quale campiamo da etternale
morte e acquistiamo etternale vita. E la nostra fede aiuta; però
che, con ciò sia cosa che principalissimo fondamento de la fede
nostra siano miracoli fatti per colui che fu crucifisso - lo
quale creò la nostra ragione, e volle che fosse minore del suo
potere -, e fatti poi nel nome suo per li santi suoi; e molti
siano sì ostinati che di quelli miracoli per alcuna nebbia siano
dubbiosi, e non possano credere miracolo alcuno sanza
visibilmente avere di ciò esperienza; e questa donna sia una
cosa visibilmente miraculosa, de la quale li occhi de li uomini
cotidianamente possono esperienza avere, ed a noi faccia
possibili li altri; manifesto è che questa donna, col suo
mirabile aspetto, la nostra fede aiuta. E però ultimamente dico
che da etterno, cioè etternamente, fu ordinata ne
la mente di Dio in testimonio de la fede a coloro che in questo
tempo vivono. E così termina la seconda parte de la seconda
parte, secondo la litterale sentenza.
Capitolo VIII
Intra li effetti de la divina sapienza l'uomo è mirabilissimo,
considerato come in una forma la divina virtute tre nature
congiunse, e come sottilmente armoniato conviene esser lo corpo
suo, a cotal forma essendo organizzato per tutte quasi sue
vertudi. Per che, per la molta concordia che 'ntra tanti organi
conviene a bene rispondersi, pochi perfetti uomini in tanto
numero sono. E se così è mirabile questa creatura, certo non
pur con le parole è da temere di trattare di sue condizioni, ma
eziandio col pensiero, secondo quelle parole de lo Ecclesiastico:
"La sapienza di Dio, precedente tutte le cose, chi cercava?",
e quelle altre dove dice: "Più alte cose di te non
dimanderai e più forti cose di te non cercherai; ma quelle cose
che Dio ti comandò, pensa, e in più sue opere non sie curioso",
cioè sollicito. Io adunque, che in questa terza particola d'alcuna
condizione di cotal creatura parlare intendo, in quanto nel suo
corpo, per bontade de l'anima, sensibile bellezza appare,
temorosamente non sicuro comincio, intendendo, e se non a pieno,
almeno alcuna cosa di tanto nodo disnodare. Dico adunque che, poi
che aperta è la sentenza di quella particola ne la quale questa
donna è commendata da la parte de l'anima, da procedere e da
vedere è come, quando dico Cose appariscon ne lo suo aspetto,
io commendo lei da la parte del corpo. E dico che ne lo suo
aspetto appariscono cose le quali dimostrano de' piaceri di
Paradiso. E intra li altri di quelli lo più nobile e quello che
è inizio e fine di tutti li altri, sì è contentarsi, e questo
si è essere beato; e questo piacere è veramente, avvegna che
per altro modo, ne l'aspetto di costei. Ché, guardando costei,
la gente si contenta, tanto dolcemente ciba la sua bellezza li
occhi de' riguardatori; ma per altro modo che per lo contentare
in Paradiso che è perpetuo, ché non può ad alcuno essere
questo.
E però che
potrebbe alcuno aver domandato dove questo mirabile piacere
appare in costei, distinguo ne la sua persona due parti, ne le
quali l'umana piacenza e dispiacenza più appare. Onde è da
sapere che in qualunque parte l'anima più adopera del suo
officio, che a quella più fissamente intende ad adornare, e più
sottilmente quivi adopera. Onde vedemo che ne la faccia de l'uomo,
là dove fa più del suo officio che in alcuna parte di fuori,
tanto sottilmente intende, che, per sottigliarsi quivi tanto
quanto ne la sua materia puote, nullo viso ad altro viso è
simile; perché l'ultima potenza de la materia, la qual è in
tutti quasi dissimile, quivi si riduce in atto. E però che ne la
faccia massimamente in due luoghi opera l'anima - però che in
quelli due luoghi quasi tutte e tre le nature de l'anima hanno
giurisdizione - cioè ne li occhi e ne la bocca, quelli
massimamente adorna e quivi pone lo 'ntento tutto a fare bello,
se puote. E in questi due luoghi dico io che appariscono questi
piaceri dicendo: ne li occhi e nel suo dolce riso. Li
quali due luoghi, per bella similitudine, si possono appellare
balconi de la donna che nel dificio del corpo abita, cioè l'anima;
però che quivi, avvegna che quasi velata, spesse volte si
dimostra. Dimostrasi ne li occhi tanto manifesta, che conoscer si
può la sua presente passione, chi bene là mira. Onde, con ciò
sia cosa che sei passioni siano propie de l'anima umana, de le
quali fa menzione lo Filosofo ne la sua Rettorica, cioè grazia,
zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna, di nulla di queste
puote l'anima essere passionata che a la finestra de li occhi non
vegna la sembianza, se per grande vertù dentro non si chiude.
Onde alcuno già si trasse li occhi, perché la vergogna d'entro
non paresse di fuori; sì come dice Stazio poeta del tebano Edipo,
quando dice che "con etterna notte solvette lo suo dannato
pudore". Dimostrasi ne la bocca, quasi come colore dopo
vetro. E che è ridere se non una corruscazione de la
dilettazione de l'anima, cioè uno lume apparente di fuori
secondo sta dentro? E però si conviene a l'uomo, a dimostrare la
sua anima ne l'allegrezza moderata, moderatamente ridere, con
onesta severitade e con poco movimento de la sua faccia; sì che
donna, che allora si dimostra come detto è, paia modesta e non
dissoluta. Onde ciò fare ne comanda lo Libro de le quattro
vertù cardinali: "Lo tuo riso sia sanza cachinno",
cioè sanza schiamazzare come gallina. Ahi mirabile riso de la
mia donna, di cui io parlo, che mai non si sentia se non de l'occhio!
E dico che Amore
le reca queste cose quivi, sì come a luogo suo; dove si può
amore doppiamente considerare. Prima l'amore de l'anima, speziale
a questi luoghi; secondamente l'amore universale che le cose
dispone ad amare e ad essere amate, che ordina l'anima ad
adornare queste parti. Poi quando dico: Elle soverchian lo
nostro intelletto, escuso me di ciò, che di tanta eccellenza
di biltade poco pare che io tratti sovrastando a quella; e dico
che poco ne dico per due ragioni. L'una si è che queste cose che
paiono nel suo aspetto soverchiano lo 'ntelletto nostro, cioè
umano: e dico come questo soverchiare è fatto, che è fatto per
lo modo che soverchia lo sole lo fragile viso, non pur lo sano e
forte; l'altra si è che fissamente in esse guardare non può,
perché quivi s'inebria l'anima, sì che incontanente, dopo di
sguardare, disvia in ciascuna sua operazione.
Poi quando dico:
Sua bieltà piove fiammelle di foco, ricorro a ritrattare
del suo effetto, poi che di lei trattare interamente non si può.
Onde è da sapere che di tutte quelle cose che lo 'ntelletto
nostro vincono, sì che non può vedere quello che sono,
convenevolissimo trattare è per li loro effetti: onde di Dio, e
de le sustanze separate, e de la prima materia, così trattando,
potemo avere alcuna conoscenza. E però dico che la biltade di
quella piove fiammelle di foco, cioè ardore d'amore e di
caritade; animate d'un spirito gentile, cioè informato
ardore d'un gentile spirito, cioè diritto appetito, per lo quale
e del quale nasce origine di buono pensiero. E non solamente fa
questo, ma disfà e distrugge lo suo contrario - de li buoni
pensieri -, cioè li vizii innati, li quali massimamente sono di
buoni pensieri nemici. E qui è da sapere che certi vizii sono ne
l'uomo a li quali naturalmente elli è disposto - sì come certi
per complessione collerica sono ad ira disposti -, e questi
cotali vizii sono innati, cioè connaturali. Altri sono vizii
consuetudinarii, a li quali non ha colpa la complessione ma la
consuetudine, sì come la intemperanza, e massimamente del vino:
e questi vizii si fuggono e si vincono per buona consuetudine, e
fassi l'uomo per essa virtuoso, sanza fatica avere ne la sua
moderazione, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Etica.
Veramente questa differenza è intra le passioni connaturali e le
consuetudinarie, che le consuetudinarie per buona consuetudine
del tutto vanno via; però che lo principio loro, cioè la mala
consuetudine, per lo suo contrario si corrompe; ma le connaturali,
lo principio de le quali è la natura del passionato, tutto che
molto per buona consuetudine si facciano lievi, del tutto non se
ne vanno quanto al primo movimento, ma vannosene bene del tutto
quanto a durazione; però che la consuetudine non è equabile a
la natura, ne la quale è lo principio di quelle. E però è più
laudabile l'uomo che dirizza sé e regge sé mal naturato contra
l'impeto de la natura, che colui che ben naturato si sostiene in
buono reggimento o disviato si rinvia; sì come è più laudabile
uno mal cavallo reggere che un altro non reo. Dico adunque che
queste fiammelle che piovono da la sua biltade, come detto è,
rompono li vizii innati, cioè connaturali, a dare a intendere
che la sua bellezza ha podestade in rinnovare natura in coloro
che la mirano; ch'è miracolosa cosa. E questo conferma quello
che detto è di sopra ne l'altro capitolo, quando dico ch'ella è
aiutatrice de la fede nostra.
Ultimamente
quando dico: Però qual donna sente sua bieltate,
conchiudo, sotto colore d'ammonire altrui, lo fine a che fatta
fue tanta biltade; e dico che qual donna sente per manco la sua
biltade biasimare, guardi in questo perfettissimo essemplo. Dove
s'intende che non pur a migliorare lo bene è fatta, ma eziandio
a fare de la mala cosa buona cosa. E soggiugne in fine: Costei
pensò chi mosse l'universo, cioè Dio, per dare a intendere
che per divino proponimento la natura cotale effetto produsse. E
così termina tutta la seconda parte principale di questa canzone.
Capitolo IX
L'ordine del presente trattato richiede - poi che le due parti di
questa canzone per me sono, secondo che fu la mia intenzione,
ragionate - che a la terza si proceda, ne la quale io intendo
purgare la canzone da una riprensione, la quale a lei potrebbe
essere istata contraria, e a questo che io parlo. Ché io, prima
che a la sua composizione venisse, parendo a me questa donna
fatta contra me fiera e superba alquanto, feci una ballatetta ne
la quale chiamai questa donna orgogliosa e dispietata: che pare
esser contra quello che qui si ragiona di sopra. E però mi volgo
a la canzone, e sotto colore d'insegnare a lei come scusare la
conviene, scuso quella: ed è una figura questa, quando a le cose
inanimate si parla, che si chiama da li rettorici prosopopeia; e
usanla molto spesso li poeti. E comincia questa parte terza: Canzone,
e' par che tu parli contraro. Lo 'ntelletto de la quale a
più agevolmente dare a intendere, mi conviene in tre particole
dividere: che prima si propone a che la scusa fa mestiere; poi si
produce con la scusa, quando dico: Tu sai che 'l cielo;
ultimamente parlo a la canzone sì come a persona ammaestrata di
quello che dee fare, quando dico: Così ti scusa, se ti fa
mestero.
Dico dunque in
prima: "O canzone, che parli di questa donna cotanta loda, e'
par che tu sii contraria ad una tua sorella". Per
similitudine dico "sorella"; ché sì come sorella è
detta quella femmina che da uno medesimo generante è generata,
così puote l'uomo dire "sorella" de l'opera che da uno
medesimo operante è operata; ché la nostra operazione in alcuno
modo è generazione. E dico che par che parli contrara a quella,
dicendo: tu fai costei umile, e quella la fa superba, cioè fera
e disdegnosa, che tanto vale. Proposta questa accusa, procedo
a la scusa per essemplo, ne lo quale, alcuna volta, la veritade
si discorda da l'apparenza, e, altra, per diverso rispetto si
puote transmutare. Dico: Tu sai che 'l ciel sempr'è lucente e
chiaro, cioè sempr'è con chiaritade; ma per alcuna cagione
alcuna volta è licito di dire quello essere tenebroso. Dove è
da sapere che, propriamente, è visibile lo colore e la luce, sì
come Aristotile vuole nel secondo de l'Anima, e nel libro del
Senso e Sensato. Ben è altra cosa visibile, ma non propriamente,
però che anche altro senso sente quello, si che non si può dire
che sia propriamente visibile, né propriamente tangibile; sì
come è la figura, la grandezza, lo numero, lo movimento e lo
stare fermo, che sensibili comuni si chiamano: le quali cose con
più sensi comprendiamo. Ma lo colore e la luce sono propriamente;
perché solo col viso comprendiamo ciò, e non con altro senso.
Queste cose visibili, sì le proprie come le comuni in quanto
sono visibili, vengono dentro a l'occhio - non dico le cose, ma
le forme loro - per lo mezzo diafano, non realmente ma
intenzionalmente, sì quasi come in vetro transparente. E ne l'acqua
ch'è ne la pupilla de l'occhio, questo discorso, che fa la forma
visibile per lo mezzo, sì si compie, perché quell'acqua è
terminata - quasi come specchio, che è vetro terminato con
piombo -, sì che passar più non può, ma quivi, a modo d'una
palla, percossa si ferma; sì che la forma, che nel mezzo
transparente non pare, ne l'acqua pare lucida e terminata. E
questo è quello per che nel vetro piombato la imagine appare, e
non in altro. Di questa pupilla lo spirito visivo, che si
continua da essa, a la parte del cerebro dinanzi, dov'è la
sensibile virtude sì come in principio fontale, subitamente
sanza tempo la ripresenta, e cosa vedemo. Per che, acciò che la
visione sia verace, cioè cotale qual è la cosa visibile in sé,
conviene che lo mezzo per lo quale a l'occhio viene la forma sia
sanza ogni colore, e l'acqua de la pupilla similemente:
altrimenti si macolerebbe la forma visibile del color del mezzo e
di quello de la pupilla. E però coloro che vogliono far parere
le cose ne lo specchio d'alcuno colore, interpongono di quello
colore tra 'l vetro e 'l piombo, sì che 'l vetro ne rimane
compreso. Veramente Plato e altri filosofi dissero che 'l nostro
vedere non era perché lo visibile venisse a l'occhio, ma perché
la virtù visiva andava fuori al visibile: e questa oppinione è
riprovata per falsa dal Filosofo in quello del Senso e Sensato.
Veduto questo
modo de la vista, vedere si può leggermente che, avvegna che la
stella sempre sia d'un modo chiara e lucente, e non riceva
mutazione alcuna se non di movimento locale, sì come in quello
De Celo et Mundo è provato, per più cagioni puote parere non
chiara e non lucente. Però puote parere così per lo mezzo che
continuamente si transmuta. Transmutasi questo mezzo di molta
luce in poca luce, sì come a la presenza del sole e a la sua
assenza; e a la presenza lo mezzo, che è diafano, è tanto pieno
di lume che è vincente de la stella, e però non pare più
lucente. Transmutasi anche questo mezzo di sottile in grosso, di
secco in umido, per li vapori de la terra che continuamente
salgono: lo quale mezzo, così transmutato, transmuta la immagine
de la stella che viene per esso, per la grossezza in oscuritade,
e per l'umido e per lo secco in colore. Però puote anche parere
così per l'organo visivo, cioè l'occhio, lo quale per infertade
e per fatica si transmuta in alcuno coloramento e in alcuna
debilitade; sì come avviene molte volte che per essere la tunica
de la pupilla sanguinosa molto, per alcuna corruzione d'infertade,
le cose paiono quasi tutte rubicunde, e però la stella ne pare
colorata. E per essere lo viso debilitato, incontra in esso
alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite
ma disgregate, quasi a guisa che fa la nostra lettera in su la
carta umida: e questo è quello per che molti, quando vogliono
leggere, si dilungano le scritture da li occhi, perché la
imagine loro vegna dentro più lievemente e più sottile; e in
ciò più rimane la lettera discreta ne la vista. E però puote
anche la stella parere turbata: e io fui esperto di questo l'anno
medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso
molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi
che le stelle mi pareano tutte d'alcuno albore ombrate. E per
lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo
corpo de l'occhio con l'acqua chiara, riuni' sì la vertù
disgregata che tornai nel primo buono stato de la vista. E così
appaiono molte cagioni, per le ragioni notate, per che la stella
puote parere non com'ella è.
Capitolo X
Partendomi da questa disgressione, che mestiere è stata a vedere
la veritade, ritorno al proposito e dico che sì come li nostri
occhi "chiamano", cioè giudicano, la stella talora
altrimenti che sia la vera sua condizione, così quella
ballatetta considerò questa donna secondo l'apparenza,
discordante dal vero per infertade de l'anima, che di troppo
disio era passionata. E ciò manifesto quando dico: Ché l'anima
temea, sì che fiero mi parea ciò che vedea ne la sua
presenza. Dov'è da sapere che quanto l'agente più al paziente
sé unisce, tanto più forte è però la passione, sì come per
la sentenza del Filosofo in quello De Generatione si può
comprendere; onde, quanto la cosa desiderata più appropinqua al
desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l'anima, più
passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più
abbandona la ragione. Sì che allora non giudica come uomo la
persona, ma quasi come altro animale pur secondo l'apparenza, non
discernendo la veritade. E questo è quello per che lo sembiante,
onesto secondo lo vero, ne pare disdegnoso e fero; e secondo
questo cotale sensuale giudicio parlò quella ballatetta. E in
ciò s'intende assai che questa canzone considera questa donna
secondo la veritade, per la discordanza che ha con quella. E non
sanza cagione dico: là 'v'ella mi senta, e non là dov'io
la senta; ma in ciò voglio dare a intendere la grande virtù
che li suoi occhi aveano sopra me: ché, come s'io fosse stato
diafano, così per ogni lato mi passava lo raggio loro. E quivi
si potrebbero ragioni naturali e sovranaturali assegnare; ma
basti qui tanto avere detto: altrove ragionerò più
convenevolemente.
Poi quando dico:
Così ti scusa, se ti fa mestero, impongo a la canzone
come per le ragioni assegnate "sé iscusi là dov'è
mestiero", cioè là dove alcuno dubitasse di questa
contrarietade; che non è altro a dire se non che qualunque
dubitasse in ciò, che questa canzone da quella ballatetta si
discorda, miri in questa ragione che detta è. E questa cotale
figura in rettorica è molto laudabile, e anco necessaria, cioè
quando le parole sono a una persona e la 'ntenzione è a un'altra;
però che l'ammonire è sempre laudabile e necessario, e non
sempre sta convenevolemente ne la bocca di ciascuno. Onde, quando
lo figlio è conoscente del vizio del padre, e quando lo suddito
è conoscente del vizio del segnore, e quando l'amico conosce che
vergogna crescerebbe al suo amico quello ammonendo o menomerebbe
suo onore, o conosce l'amico suo non paziente ma iracundo a l'ammonizione,
questa figura è bellissima e utilissima, e puotesi chiamare
"dissimulazione". Ed è simigliante a l'opera di quello
savio guerrero che combatte lo castello da uno lato per levare la
difesa da l'altro, che non vanno ad una parte la 'ntenzione de l'aiutorio
e la battaglia.
E impongo anche
a costei che domandi parola di parlare a questa donna di lei.
Dove si puote intendere che l'uomo non dee essere presuntuoso a
lodare altrui, non ponendo bene prima mente s'elli è piacere de
la persona laudata; perché molte volte credendosi a alcuno dar
loda, si dà biasimo, o per difetto de lo dicitore o per difetto
di quello che ode. Onde molta discrezione in ciò avere si
conviene; la qual discrezione è quasi uno domandare licenzia,
per lo modo ch'io dico che domandi questa canzone. E così
termina tutta la litterale sentenza di questo trattato; per che l'ordine
de l'opera domanda a l'allegorica esposizione omai, seguendo la
veritade, procedere.
Capitolo XI
Sì come l'ordine vuole ancora dal principio ritornando, dico che
questa donna è quella donna de lo 'ntelletto che Filosofia si
chiama. Ma però che naturalmente le lode danno desiderio di
conoscere la persona laudata; e conoscere la cosa sia sapere
quello che ella è, in sé considerata e per tutte le sue cause,
sì come dice lo Filosofo nel principio de la Fisica; e ciò non
dimostri lo nome, avvegna che ciò significhi, sì come dice nel
quarto de la Metafisica (dove si dice che la diffinizione è
quella ragione che 'l nome significa), conviensi qui, prima che
più oltre si proceda per le sue laude mostrare, dire che è
questo che si chiama Filosofia, cioè quello che questo nome
significa. E poi dimostrata essa, più efficacemente si tratterà
la presente allegoria. E prima dirò chi questo nome prima diede;
poi procederò a la sua significanza.
Dico adunque che
anticamente in Italia, quasi dal principio de la costituzione di
Roma, che fu settecento cinquanta anni innanzi, poco dal più al
meno, che 'l Salvatore venisse, secondo che scrive Paulo Orosio,
nel tempo quasi che Numa Pompilio, secondo re de li Romani, vivea
uno filosofo nobilissimo, che si chiamò Pittagora. E che ello
fosse in quel tempo, pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio ne
la prima parte del suo volume incidentemente. E dinanzi da costui
erano chiamati li seguitatori di scienza non filosofi ma sapienti,
sì come furono quelli sette savi antichissimi, che la gente
ancora nomina per fama: lo primo de li quali ebbe nome Solon, lo
secondo Chilon, lo terzo Periandro, lo quarto Cleobulo, lo quinto
Lindio, lo sesto Biante, e lo settimo Prieneo. Questo Pittagora,
domandato se egli si riputava sapiente, negò a sé questo
vocabulo, e disse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza.
E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse
"amatore di sapienza" chiamato, cioè "filosofo";
ché tanto vale in greco "philos" com'è a dire "amore"
in latino, e quindi dicemo noi: "philos" quasi amore, e
"sophos" quasi sapiente. Per che vedere si può che
questi due vocabuli fanno questo nome di "filosofo",
che tanto vale a dire quanto "amatore di sapienza": per
che notare si puote che non d'arroganza, ma d'umilitade è
vocabulo. Da questo nasce lo vocabulo del suo proprio atto,
Filosofia, sì come de lo amico nasce lo vocabulo del suo proprio
atto, cioè Amicizia. Onde si può vedere, considerando la
significanza del primo e del secondo vocabulo, che Filosofia non
è altro che amistanza a sapienza, o vero a sapere; onde in
alcuno modo si può dicere catuno filosofo secondo lo naturale
amore che in ciascuno genera lo desiderio di sapere.
Ma però che l'essenziali
passioni sono comuni a tutti, non si ragiona di quelle per
vocabulo distinguente alcuno participante quella essenza; onde
non diciamo Gianni amico di Martino, intendendo solamente la
naturale amistade significare per la quale tutti a tutti semo
amici, ma l'amistà sopra la naturale generata, che è propria e
distinta in singulari persone. Così non si dice filosofo alcuno
per lo comune amore al sapere. Ne la 'ntenzione d'Aristotile, ne
l'ottavo de l'Etica, quelli si dice amico la cui amistà non è
celata a la persona amata e a cui la persona amata è anche amica,
sì che la benivolenza sia da ogni parte: e questo conviene
essere o per utilitade, o per diletto, o per onestade. E così,
acciò che sia filosofo, conviene essere l'amore a la sapienza,
che fa l'una de le parti benivolente; conviene essere lo studio e
la sollicitudine, che fa l'altra parte anche benivolente: sì che
familiaritade e manifestamento di benivolenza nasce tra loro. Per
che sanza amore e sanza studio non si può dire filosofo, ma
conviene che l'uno e l'altro sia. E sì come l'amistà per
diletto fatta, o per utilitade, non è vera amistà ma per
accidente, sì come l'Etica ne dimostra, così la filosofia per
diletto o per utilitade non è vera filosofia ma per accidente.
Onde non si dee dicere vero filosofo alcuno che, per alcuno
diletto, con la sapienza in alcuna sua parte sia amico; sì come
sono molti che si dilettano in intendere canzoni ed istudiare in
quelle, e che si dilettano studiare in Rettorica o in Musica, e l'altre
scienze fuggono e abbandonano, che sono tutte membra di sapienza.
Né si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza
per utilitade, sì come sono li legisti, li medici e quasi tutti
li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare
moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare
intendono, non sovrastarebbero a lo studio. E sì come intra le
spezie de l'amistà quella che per utilitade è, meno amistà si
può dicere, così questi cotali meno participano del nome del
filosofo che alcuna altra gente; per che, sì come l'amistà per
onestade fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia
è vera e perfetta che è generata per onestade solamente, sanza
altro rispetto, e per bontade de l'anima amica, che è per
diritto appetito e per diritta ragione. Sì ch'omai qui si può
dire, come la vera amistà de li uomini intra sé è che ciascuno
ami tutto ciascuno, che 'l vero filosofo ciascuna parte de la sua
sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del filosofo, in
quanto tutto a sé lo riduce, e nullo suo pensiero ad altre cose
lascia distendere. Onde essa Sapienza dice ne li Proverbi di
Salomone: "Io amo coloro che amano me". E sì come la
vera amistade, astratta de l'animo, solo in sé considerata, ha
per subietto la conoscenza de l'operazione buona, e per forma l'appetito
di quella; così la filosofia, fuori d'anima, in sé considerata,
ha per subietto lo 'ntendere, e per forma uno quasi divino amore
a lo 'ntelletto. E sì come de la vera amistade è cagione
efficiente la vertude, così de la filosofia è cagione
efficiente la veritade. E sì come fine de l'amistade vera è la
buona dilezione, che procede dal convivere secondo l'umanitade
propriamente, cioè secondo ragione, sì come pare sentire
Aristotile nel nono de l'Etica; così fine de la Filosofia è
quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna
intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per
contemplazione de la veritade s'acquista. E così si può vedere
chi è omai questa mia donna, per tutte le sue cagioni e per la
sua ragione, e perché Filosofia si chiama, e chi è vero
filosofo, e chi è per accidente.
Ma però che,
per alcuno fervore d'animo, talvolta l'uno e l'altro termine de
li atti e de le passioni si chiamano e per lo vocabulo de l'atto
medesimo e de la passione (sì come fa Virgilio nel secondo de lo
Eneidos, che chiama Enea a Ettore: "O luce", ch'è atto,
e "speranza de' Troiani", che è passione, ché non era
esso luce né speranza, ma era termine onde venia loro la luce
del consiglio, ed era termine in che si posava tutta la speranza
de la loro salute; e sì come dice Stazio nel quinto del
Thebaidos, quando Isifile dice ad Archimoro: "O consolazione
de le cose e de la patria perduta, o onore del mio servigio";
sì come cotidianamente dicemo, mostrando l'amico, "vedi l'amistade
mia", e 'l padre dice al figlio "amor mio"), per
lunga consuetudine le scienze ne le quali più ferventemente la
Filosofia termina la sua vista, sono chiamate per lo suo nome;
sì come la Scienza Naturale, la Morale, e la Metafisica, la
quale, perché più necessariamente in quella termina lo suo viso
e con più fervore, Prima Filosofia è chiamata. Onde vedere si
può come secondamente le scienze sono Filosofia appellate.
Poi che è
veduto come la primaia e vera filosofia è in suo essere - la
quale è quella donna di cu' io dico - e come lo suo nobile nome
per consuetudine è comunicato a le scienze, procederò oltre con
le sue lode.
Capitolo XII
Nel primo capitolo di questo trattato è sì compiutamente
ragionata la cagione che mosse me a questa canzone, che non è
più mestiere di ragionare; ché assai leggermente a questa
esposizione ch'è detta ella si può riducere. E però secondo le
divisioni fatte la litterale sentenza transcorrerò, per questa
volgendo lo senso de la lettera là dove sarà mestiere.
Dico: Amor
che ne la mente mi ragiona. Per Amore intendo lo studio lo
quale io mettea per acquistare l'amore di questa donna: ove si
vuole sapere che studio si può qui doppiamente considerare. E
uno studio lo quale mena l'uomo a l'abito de l'arte e de la
scienza; e un altro studio lo quale ne l'abito acquistato adopera,
usando quello. E questo primo è quello ch'io chiamo qui Amore,
lo quale ne la mia mente informava continue, nuove e altissime
considerazioni di questa donna che di sopra è dimostrata: sì
come suole fare lo studio che si mette in acquistare un'amistade,
che di quella amistade grandi cose prima considera, desiderando
quella. Questo è quello studio e quella affezione che suole
procedere ne li uomini la generazione de l'amistade, quando già
da una parte è nato amore, e desiderasi e procurasi che sia da l'altra;
ché, sì come di sopra si dice, Filosofia è quando l'anima e la
sapienza sono fatte amiche, sì che l'una sia tutta amata da l'altra,
per lo modo che detto è di sopra. Né più è mestiere di
ragionare per la presente esposizione questo primo verso, che per
proemio fu ne la litterale ragionato, però che per la prima sua
ragione assai di leggiero a questa seconda si può volgere lo 'ntendimento.
Onde al secondo
verso, lo quale è cominciatore del trattato, è da procedere,
là ove io dico: Non vede il sol, che tutto 'l mondo gira.
Qui è da sapere che sì come trattando di sensibile cosa per
cosa insensibile, si tratta convenevolemente, così di cosa
intelligibile per cosa inintelligibile trattare si conviene. E
però sì come ne la litterale si parlava cominciando dal sole
corporale e sensibile, così ora è da ragionare per lo sole
spirituale e intelligibile, che è Iddio. Nullo sensibile in
tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che 'l sole.
Lo quale di sensibile luce sé prima e poi tutte le corpora
celestiali e le elementali allumina: così Dio prima sé con luce
intellettuale allumina, e poi le creature celestiali e l'altre
intelligibili. Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e
se alcuna ne corrompe, non è de la 'ntenzione de la cagione, ma
è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in
bontade, e se alcuna n'è rea, non è de la divina intenzione, ma
conviene quello per accidente essere ne lo processo de lo inteso
effetto. Che se Iddio fece li angeli buoni e li rei, non fece l'uno
e l'altro per intenzione, ma solamente li buoni. Seguitò poi
fuori d'intenzione la malizia de' rei, ma non sì fuori d'intenzione,
che Dio non sapesse dinanzi in sé predire la loro malizia; ma
tanta fu l'affezione a producere la creatura spirituale, che la
prescienza d'alquanti che a malo fine doveano venire non dovea
né potea Iddio da quella produzione rimuovere. Ché non sarebbe
da laudare la Natura se, sappiendo prima che li fiori d'un'arbore
in certa parte perdere si dovessero, non producesse in quella
fiori, e per li vani abbandonasse la produzione de li fruttiferi.
Dico adunque che Iddio, che tutto intende (ché suo "girare"
è suo "intendere"), non vede tanto gentil cosa quanto
elli vede quando mira là dove è questa Filosofia. Ché avvegna
che Dio, esso medesimo mirando, veggia insiememente tutto; in
quanto la distinzione de le cose è in lui per lo modo che lo
effetto è ne la cagione, vede quelle distinte. Vede adunque
questa nobilissima di tutte assolutamente, in quanto
perfettissimamente in sé la vede e in sua essenzia. Ché se a
memoria si reduce ciò che detto è di sopra, filosofia è uno
amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è in Dio, però
che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto; che non
può essere altrove, se non in quanto da esso procede. E` adunque
la divina filosofia de la divina essenza, però che in esso non
può essere cosa a la sua essenzia aggiunta; ed è nobilissima,
però che nobilissima è la essenzia divina; ed è in lui per
modo perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio. Ne l'altre
intelligenze è per modo minore, quasi come druda de la quale
nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan
la loro vaghezza. Per che dire si può che Dio non vede, cioè
non intende, cosa alcuna tanto gentile quanto questa: dico cosa
alcuna, in quanto l'altre cose vede e distingue, come detto è,
veggendosi essere cagione di tutto. Oh nobilissimo ed
eccellentissimo cuore che ne la sposa de lo Imperadore del cielo
s'intende, e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima!
Capitolo XIII
Veduto come, nel principio de le laude di costei, sottilmente si
dice essa essere de la divina sustanza, in quanto primieramente
si considera, da procedere e da vedere è come secondamente dico
essa essere ne le causate intelligenze. Dico adunque: Ogni
Intelletto di là su la mira: dove è da sapere che "di
là su" dico, facendo relazione a Dio che dinanzi è
menzionato; e per questo escludo le Intelligenze che sono in
essilio de la superna patria, le quali filosofare non possono,
però che amore in loro è del tutto spento, e a filosofare, come
già detto è, è necessario amore. Per che si vede che le
infernali Intelligenze da lo aspetto di questa bellissima sono
private. E però che essa è beatitudine de lo 'ntelletto, la sua
privazione è amarissima e piena d'ogni tristizia.
Poi quando dico:
E quella gente che qui s'innamora, discendo a mostrare
come ne l'umana intelligenza essa secondariamente ancora vegna;
de la quale filosofia umana seguito poi per lo trattato, essa
commendando. Dico adunque che la gente che s'innamora "qui",
cioè in questa vita, la sente nel suo pensiero, non sempre, ma
quando Amore fa de la sua pace sentire. Dove sono da vedere tre
cose che in questo testo sono toccate. La prima si è quando si
dice: la gente che qui s'innamora, per che pare farsi
distinzione ne l'umana generazione. E di necessitate far si
conviene, ché, secondo che manifestamente appare, e nel seguente
trattato per intenzione si ragionerà, grandissima parte de li
uomini vivono più secondo lo senso che secondo ragione; e quelli
che secondo lo senso vivono di questa innamorare è impossibile,
però che di lei avere non possono alcuna apprensione. La seconda
si è quando dice: Quando Amor fa sentire, dove si par
fare distinzione di tempo. La qual cosa anco far si conviene,
ché, avvegna che le intelligenze separate questa donna mirino
continuamente, la umana intelligenza ciò fare non può; però
che l'umana natura - fuori de la speculazione, de la quale s'appaga
lo 'ntelletto e la ragione - abbisogna di molte cose a suo
sustentamento: per che la nostra sapienza è talvolta abituale
solamente, e non attuale, che non incontra ciò ne l'altre
intelligenze, che solo di natura intellettiva sono perfette. Onde
quando l'anima nostra non hae atto di speculazione, non si può
dire veramente che sia in filosofia, se non in quanto ha l'abito
di quella e la potenza di poter lei svegliare; e però tal volta
è con quella gente che qui s'innamora, e tal volta no. La terza
è quando dice l'ora che quella gente è con essa, cioè quando
Amore de la sua pace fa sentire; che non vuole altro dire se non
quando l'uomo è in ispeculazione attuale, però che de la pace
di questa donna non fa lo studio sentire se non ne l'atto de la
speculazione. E così si vede come questa è donna primamente di
Dio e secondariamente de l'altre intelligenze separate, per
continuo sguardare; e appresso de l'umana intelligenza per
riguardare discontinuato. Veramente, sempre è l'uomo che ha
costei per donna da chiamare filosofo, non ostante che tuttavia
non sia ne l'ultimo atto di filosofia, però che da l'abito
maggiormente è altri da denominare. Onde dicemo alcuno virtuoso,
non solamente virtute operando, ma l'abito de la virtù avendo; e
dicemo l'uomo facundo eziandio non parlando, per l'abito de la
facundia, cioè del bene parlare. E di questa filosofia in quanto
da l'umana intelligenza è participata, saranno omai le seguenti
commendazioni, a mostrare come grande parte del suo bene a l'umana
natura è conceduto.
Dico dunque
appresso: "Suo essere piace tanto a chi liele dà" (dal
quale, sì come da fonte primo, si diriva), "che in lei la
sua virtute infonde sempre, oltra la capacitade de la nostra
natura", la quale fa bella e virtuosa. Onde, avvegna che a l'abito
di quella per alquanti si vegna, non vi si viene sì per alcuno,
che propriamente abito dire si possa; però che 'l primo studio,
cioè quello per lo quale l'abito si genera, non puote quella
perfettamente acquistare. E qui si vede s'umil è sua loda; che,
perfetta e imperfetta, nome di perfezione non perde. E per questa
sua dismisuranza si dice che l'anima de la filosofia lo
manifesta in quel ch'ella conduce, cioè che Iddio mette
sempre in lei del suo lume. Dove si vuole a memoria reducere che
di sopra è detto che amore è forma di Filosofia, e però qui si
chiama anima di lei. Lo quale amore manifesto è nel viso de la
Sapienza, ne lo quale esso conduce mirabili bellezze, cioè
contentamento in ciascuna condizione di tempo e dispregiamento di
quelle cose che li altri fanno loro signori. Per che avviene che
li altri miseri che ciò mirano, ripensando lo loro difetto, dopo
lo desiderio de la perfezione caggiono in fatica di sospiri; e
questo è quello che dice: Che li occhi di color dov'ella luce
Ne mandan messi al cor pien di desiri, Che prendon aire e
diventan sospiri.
Capitolo XIV
Sì come ne la litterale esposizione dopo le generali laude a le
speziali si discende, prima da la parte de l'anima, poi da la
parte del corpo, così ora intende lo testo, dopo le generali
commendazioni, a speziali discendere. Sì come detto è di sopra,
Filosofia per subietto materiale qui ha la sapienza, e per forma
ha amore, e per composto de l'uno e de l'altro l'uso di
speculazione. Onde in questo verso che seguentemente comincia: In
lei discende la virtù divina, io intendo commendare l'amore,
che è parte de la filosofia. Ove è da sapere che discender la
virtude d'una cosa in altra non è altro che ridurre quella in
sua similitudine; sì come ne li agenti naturali vedemo
manifestamente che, discendendo la loro virtù ne le pazienti
cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto possibili
sono a venire. Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo
qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse
per loro disposizione possono da la sua virtude lume ricevere.
Così dico che Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto
esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade de la
reduzione, dicendo: Sì come face in angelo che 'l vede.
Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la
sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo
di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la
divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste
Intelligenze prima illuminate. Ma però che qui è fatta menzione
di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò
differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico
che l'usanza de' filosofi è di chiamare "luce" lo lume,
in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare "raggio",
in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove
si termina; di chiamare "splendore", in quanto esso è
in altra parte alluminata ripercosso. Dico adunque che la divina
virtù sanza mezzo questo amore tragge a sua similitudine. E ciò
si può fare manifesto massimamente in ciò, che sì come lo
divino amore è tutto etterno, così conviene che sia etterno lo
suo obietto di necessitate, sì che etterne cose siano quelle che
esso ama; e così face a questo amore amare; ché la sapienza, ne
la quale questo amore fere, etterna è. Ond'è scritto di lei:
"Dal principio dinanzi da li secoli creata sono, e nel
secolo che dee venire non verrò meno"; e ne li Proverbi di
Salomone essa Sapienza dice: "Etternalmente ordinata sono";
e nel principio di Giovanni, ne l'Evangelio, si può la sua
etternitade apertamente notare. E quinci nasce che là dovunque
questo amore splende, tutti li altri amori si fanno oscuri e
quasi spenti, imperò che lo suo obietto etterno
improporzionalmente li altri obietti vince e soperchia. Per che
li filosofi eccellentissimi ne li loro atti apertamente lo ne
dimostraro, per li quali sapemo essi tutte l'altre cose, fuori
che la sapienza, avere messe a non calere. Onde Democrito, de la
propria persona non curando, né barba né capelli né unghie si
togliea; Platone, de li beni temporali non curando, la reale
dignitade mise a non calere, che figlio di re fue; Aristotile, d'altro
amico non curando, contra lo suo migliore amico, fuori di quella,
combatteo, sì come contra lo nomato Platone. E perché di questi
parliamo, quando troviamo li altri che per questi pensieri la
loro vita disprezzaro, sì come Zeno, Socrate, Seneca, e molti
altri? E però è manifesto che la divina virtù, a guisa che in
angelo, in questo amore ne li uomini discende. E per dare
esperienza di ciò, grida sussequentemente lo testo: E qual
donna gentil questo non crede, Vada con lei e miri. Per donna
gentile s'intende la nobile anima d'ingegno e libera ne la sua
propia potestate, che è la ragione. Onde l'altre anime dire non
si possono donne, ma ancille, però che non per loro sono ma per
altrui; e lo Filosofo dice, nel secondo de la Metafisica, che
quella cosa è libera che per sua cagione è, non per altrui.
Dice: Vada
con lei e miri li atti sui, cioè accompagnisi di questo
amore, e guardi a quello che dentro da lui troverà. E in parte
ne tocca, dicendo: Quivi dov'ella parla, si dichina, cioè,
dove la filosofia è in atto, si dichina un celestial pensiero,
nel quale si ragiona questa essere più che umana operazione: e
dice "del cielo" a dare a intendere che non solamente
essa, ma li pensieri amici di quella sono astratti da le basse e
terrene cose. Poi sussequentemente dice com'ell'avvalora e
accende amore dovunque ella si mostra, con la suavitade de li
atti, ché sono tutti li suoi sembianti onesti, dolci e sanza
soverchio alcuno. E sussequentemente, a maggiore persuasione de
la sua compagnia fare, dice: Gentile è in donna ciò che in
lei si trova, E bello è tanto quanto lei simiglia. Ancora
soggiugne: E puossi dir che 'l suo aspetto giova: dove è
da sapere che lo sguardo di questa donna fu a noi così
largamente ordinato, non pur per la faccia che ella ne dimostra
vedere, ma per le cose che ne tiene celate desiderare ed
acquistare. Onde, sì come per lei molto di quello si vede per
ragione, e per consequente essere per ragione, che sanza lei pare
maraviglia, così per lei si crede ch'ogni miracolo in più alto
intelletto puote avere ragione, e per consequente può essere.
Onde la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la
speranza, de lo proveduto desiderare; e per quella nasce l'operazione
de la caritade. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a
quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e
Epicurii, per la luce de la veritade etterna, in uno volere
concordevolemente concorrono.
Capitolo XV
Ne lo precedente capitolo questa gloriosa donna è commendata
secondo l'una de le sue parti componenti, cioè amore. Ora in
questo, ne lo quale io intendo esponere quel verso che comincia: Cose
appariscon ne lo suo aspetto, si conviene trattare
commendando l'altra parte sua, cioè sapienza. Dice adunque lo
testo "che ne la faccia di costei appariscono cose che
mostrano de' piaceri di Paradiso"; e distingue lo loco dove
ciò appare, cioè ne li occhi e ne lo riso. E qui si conviene
sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni,
con le quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso
sono le sue persuasioni, ne le quali si dimostra la luce
interiore de la Sapienza sotto alcuno velamento: e in queste due
cose si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è
massimo bene in Paradiso. Questo piacere in altra cosa di qua
giù essere non può, se non nel guardare in questi occhi e in
questo riso. E la ragione è questa: che, con ciò sia cosa che
ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza quella
essere non può l'uomo contento, che è essere beato; ché
quantunque l'altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui
desiderio; lo quale essere non può con la beatitudine, acciò
che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio sia cosa
defettiva; ché nullo desidera quello che ha, ma quello che non
ha, che è manifesto difetto. E in questo sguardo solamente l'umana
perfezione s'acquista, cioè la perfezione de la ragione, de la
quale, sì come di principalissima parte, tutta la nostra essenza
depende; e tutte l'altre nostre operazioni - sentire, nutrire, e
tutto - sono per quella sola, e questa è per sé, e non per
altri; sì che, perfetta sia questa, perfetta è quella, tanto
cioè che l'uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni
desiderio, e così è beato. E però si dice nel libro di
Sapienza: "Chi gitta via la sapienza e la dottrina, è
infelice": che è privazione de l'essere felice. Per l'abito
de la sapienza seguita che s'acquista essere felice - che è
essere contento - secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si
vede come ne l'aspetto di costei de le cose di Paradiso appaiono.
E però si legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando:
"Essa è candore de la etterna luce e specchio sanza macula
de la maestà di Dio".
Poi, quando si
dice: Elle soverchian lo nostro intelletto, escuso me di
ciò, che poco parlar posso di quelle, per la loro soperchianza.
Dov'è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto
abbagliano, in quanto certe cose si affermano essere che lo
intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e
la prima materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta
fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non
potemo; e nullo se non cose negando si può appressare a la sua
conoscenza, e non altrimenti. Veramente può qui alcuno forte
dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l'uomo beato,
non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia
cosa che 'l naturale desiderio sia a l'uomo di sapere, e sanza
compiere lo desiderio beato essere non possa. A ciò si può
chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa
è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante:
altrimenti andrebbe in contrario di se medesimo, che impossibile
è; e la Natura l'avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile.
In contrario andrebbe: ché, desiderando la sua perfezione,
desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé
sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo
errore cade l'avaro maladetto, e non s'accorge che desidera sé
sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a
giugnere). Avrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non
sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l'umano desiderio è
misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e
quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di
naturale intenzione. E così è misurato ne la natura angelica, e
terminato in quanto a quella sapienza che la natura di ciascuno
può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non
hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del
suo desiderio, lo quale desiderio è con la bontà de la natura
misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe
altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura,
quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per
questo è la dubitazione soluta.
Poi quando dice:
Sua bieltà piove fiammelle di foco, discende ad un altro
piacere di Paradiso, cioè de la felicitade secondaria a questa
prima, la quale de la sua biltade procede. Dove è da sapere che
la moralitade è bellezza de la filosofia; ché così come la
bellezza del corpo resulta da le membra in quanto sono
debitamente ordinate, così la bellezza de la sapienza, che è
corpo di Filosofia come detto è, resulta da l'ordine de le
virtudi morali, che fanno quella piacere sensibilmente. E però
dico che sua biltà, cioè moralitade, piove fiammelle di foco,
cioè appetito diritto, che s'ingenera nel piacere de la morale
dottrina: lo quale appetito ne diparte eziandio da li vizii
naturali, non che da li altri. E quinci nasce quella felicitade,
la quale diffinisce Aristotile nel primo de l'Etica, dicendo che
è operazione secondo vertù in vita perfetta. E quando dice: Però
qual donna sente sua bieltate, procede in loda di costei,
gridando a la gente che la seguiti dicendo loro lo suo beneficio,
cioè che per seguitare lei diviene ciascuno buono. Però dice: qual
donna, cioè quale anima, sente sua biltate biasimare per non
parere quale parere si conviene, miri in questo essemplo.
Ove è da sapere
che li costumi sono beltà de l'anima, cioè le vertudi
massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per superbia si
fanno men belle e men gradite, sì come ne l'ultimo trattato
vedere si potrà. E però dico che, a fuggire questo, si guardi
in costei, cioè colà dov'ella è essemplo d'umiltà; cioè in
quella parte di sé che morale filosofia si chiama. E soggiungo
che, mirando costei - dico la sapienza - in questa parte, ogni
viziato tornerà diritto e buono; e però dico: Questa è
colei ch'umilia ogni perverso, cioè volge dolcemente chi
fuori di debito ordine è piegato. Ultimamente, in massima laude
di sapienza, dico lei essere di tutto madre e di moto qualunque
principio, dicendo che con lei Iddio cominciò lo mondo e
spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose
genera e dal quale ogni movimento è principiato e mosso, dicendo:
Costei pensò chi mosse l'universo. Ciò è a dire che nel
divino pensiero, ch'è esso intelletto, essa era quando lo mondo
fece; onde seguita che ella lo facesse. E però disse Salomone in
quello de' Proverbi in persona de la Sapienza: "Quando Iddio
apparecchiava li cieli, io era presente; quando con certa legge e
con certo giro vallava li abissi, quando suso fermava l'etera e
suspendeva le fonti de l'acque, quando circuiva lo suo termine al
mare e poneva legge a l'acque che non passassero li suoi confini,
quando elli appendeva li fondamenti de la terra, con lui e io era,
disponente tutte le cose, e dilettavami per ciascuno die".
O peggio che
morti che l'amistà di costei fuggite, aprite li occhi vostri e
mirate: che, innanzi che voi foste, ella fu amatrice di voi,
acconciando e ordinando lo vostro processo; e, poi che fatti
foste, per voi dirizzare, in vostra similitudine venne a voi. E
se tutti al suo conspetto venire non potete, onorate lei ne' suoi
amici e seguite li comandamenti loro, sì come quelli che
nunziano la volontà di questa etternale imperadrice - non
chiudete li orecchi a Salomone che ciò vi dice, dicendo che
"la via de' giusti è quasi luce splendiente, che procede e
cresce infino al die de la beatitudine" -; andando loro
dietro, mirando le loro operazioni, che essere debbono a voi luce
nel cammino di questa brevissima vita.
E qui si può
terminare la vera sentenza de la presente canzone. Veramente l'ultimo
verso, che per tornata è posto, per la litterale esposizione
assai leggermente qua si può ridurre, salvo in tanto quanto dice
che io sì chiamai questa donna fera e disdegnosa. Dove è
da sapere che dal principio essa filosofia pareva a me, quanto da
la parte del suo corpo, cioè sapienza, fiera, ché non mi ridea,
in quanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa,
ché non mi volgea l'occhio, cioè ch'io non potea vedere le sue
dimostrazioni: e di tutto questo lo difetto era dal mio lato. E
per questo, e per quello che ne la sentenza litterale è dato, è
manifesta l'allegoria de la tornata; sì che tempo è, per più
oltre procedere, di porre fine a questo trattato.
TRATTATO IV
Canzone |
Capitolo I
Amore, secondo la concordevole sentenza de li savi di lui
ragionanti, e secondo quello che per esperienza continuamente
vedemo, è che congiunge e unisce l'amante con la persona amata;
onde Pittagora dice: "Ne l'amistà si fa uno di più".
E però che le cose congiunte comunicano naturalmente intra sé
le loro qualitadi, in tanto che talvolta è che l'una torna del
tutto ne la natura de l'altra, incontra che le passioni de la
persona amata entrano ne la persona amante, sì che l'amore de l'una
si comunica ne l'altra, e così l'odio e lo desiderio e ogni
altra passione. Per che li amici de l'uno sono da l'altro amati,
e li nemici odiati; per che in greco proverbio è detto: "De
li amici essere deono tutte le cose comuni". Onde io, fatto
amico di questa donna, di sopra ne la verace esposizione nominata,
cominciai ad amare e odiare secondo l'amore e l'odio suo.
Cominciai adunque ad amare li seguitatori de la veritade e odiare
li seguitatori de lo errore e de la falsitade, com'ella face. Ma
però che ciascuna cosa per sé è da amare, e nulla è da odiare
se non per sopravenimento di malizia, ragionevole e onesto è,
non le cose, ma le malizie de le cose odiare e procurare da esse
di partire. E a ciò s'alcuna persona intende, la mia
eccellentissima donna intende massimamente: a partire, dico, la
malizia de le cose, la qual cagione è d'odio; però che in lei
è tutta ragione e in lei è fontalemente l'onestade. Io, lei
seguitando ne l'opera sì come ne la passione quanto potea, li
errori de la gente abominava e dispregiava, non per infamia o
vituperio de li erranti, ma de li errori; li quali biasimando
credea far dispiacere, e, dispiaciuti, partire da coloro che per
essi eran da me odiati. Intra li quali errori uno io massimamente
riprendea, lo quale non solamente è dannoso e pericoloso a
coloro che in esso stanno, ma eziandio a li altri, che lui
riprendano, porta dolore e danno. Questo è l'errore de l'umana
bontade in quanto in noi è da la natura seminata e che "nobilitade"
chiamare si dee; che per mala consuetudine e per poco intelletto
era tanto fortificato, che l'oppinione, quasi di tutti, n'era
falsificata; e de la falsa oppinione nascevano li falsi giudicii,
e de' falsi giudicii nascevano le non giuste reverenze e
vilipensioni; per che li buoni erano in villano dispetto tenuti,
e li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima
confusione del mondo; sì come veder puote chi mira quello che di
ciò può seguitare, sottilmente. Per che, con ciò fosse cosa
che questa mia donna un poco li suoi dolci sembianti transmutasse
a me, massimamente in quelle parti dove io mirava e cercava se la
prima materia de li elementi era da Dio intesa, - per la qual
cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto mi sostenni -, quasi
ne la sua assenzia dimorando, entrai a riguardare col pensiero lo
difetto umano intorno al detto errore. E per fuggire oziositade,
che massimamente di questa donna è nemica, e per istinguere
questo errore, che tanti amici le toglie, proposi di gridare a la
gente che per mal cammino andavano, acciò che per diritto calle
si dirizzassero; e cominciai una canzone nel cui principio dissi:
Le dolci rime d'amor ch'i' solia. Ne la quale io intendo
riducer la gente in diritta via sopra la propia conoscenza de la
verace nobilitade; sì come per la conoscenza del suo testo, a la
esposizione del quale ora s'intende, vedere si potrà. E però
che in questa canzone s'intese a rimedio così necessario, non
era buono sotto alcuna figura parlare, ma conveniesi per via
tostana questa medicina, acciò che fosse tostana la sanitade; la
quale corrotta, a così laida morte si correa.
Non sarà dunque
mestiere ne la esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma
solamente la sentenza secondo la lettera ragionare. Per mia donna
intendo sempre quella che ne la precedente ragione è ragionata,
cioè quella luce virtuosissima, Filosofia, li cui raggi fanno ne
li fiori rifronzire e fruttificare la verace de li uomini
nobilitade, de la quale trattare la proposta canzone pienamente
intende.
Capitolo II
Nel principio de la impresa esposizione, per meglio dare a
intendere la sentenza de la proposta canzone, conviensi quella
partire prima in due parti, che ne la prima parte proemialmente
si parla, ne la seconda si seguita lo trattato; e comincia la
seconda parte nel cominciamento del secondo verso, dove dice: Tale
imperò che gentilezza volse. La prima parte ancora in tre
membra si può comprendere: nel primo si dice perché da lo
parlare usato mi parto; nel secondo dico quello che è di mia
intenzione a trattare; nel terzo domando aiutorio a quella cosa
che più aiutare mi può, cioè a la veritade. Lo secondo membro
comincia: E poi che tempo mi par d'aspettare. Lo terzo
comincia: E, cominciando, chiamo quel signore.
Dico adunque che
"a me conviene lasciare le dolci rime d'amore le quali
solieno cercare li miei pensieri"; e la cagione assegno,
perché dico che ciò non è per intendimento di più non rimare
d'amore, ma però che ne la donna mia nuovi sembianti sono
appariti li quali m'hanno tolto materia di dire al presente d'amore.
Ov'è da sapere che non si dice qui li atti di questa donna
essere "disdegnosi e fieri" se non secondo l'apparenza;
sì come nel decimo capitolo del precedente trattato si può
vedere come altra volta dico che l'apparenza de la veritade si
discordava. E come ciò può essere, che una medesima cosa sia
dolce e paia amara, o vero sia chiara e paia oscura, quivi
sufficientemente vedere si può.
Appresso, quando
dico: E poi che tempo mi par d'aspettare, dico, sì come
detto è, questo che trattare intendo. E qui non è da trapassare
con piede secco ciò che si dice in "tempo aspettare",
imperò che potentissima cagione è de la mia mossa; ma da vedere
è come ragionevolemente quel tempo in tutte le nostre operazioni
si dee attendere, e massimamente nel parlare. Lo tempo, secondo
che dice Aristotile nel quarto de la Fisica, è "numero di
movimento, secondo prima e poi"; e "numero di movimento
celestiale", lo quale dispone le cose di qua giù
diversamente a ricevere alcuna informazione. Ché altrimenti è
disposta la terra nel principio de la primavera a ricevere in sé
la informazione de l'erbe e de li fiori, e altrimenti lo verno; e
altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che un'altra;
e così la nostra mente in quanto ella è fondata sopra la
complessione del corpo, che a seguitare la circulazione del cielo
altrimenti è disposto un tempo e altrimenti un altro. Per che le
parole, che sono quasi seme d'operazione, si deono molto
discretamente sostenere e lasciare, sì perché bene siano
ricevute e fruttifere vegnano, sì perché da la loro parte non
sia difetto di sterilitade. E però lo tempo è da provedere, sì
per colui che parla come per colui che dee udire: ché se 'l
parladore è mal disposto, più volte sono le sue parole dannose;
e se l'uditore è mal disposto, mal sono quelle ricevute che
buone siano. E però Salomone dice ne lo Ecclesiaste: "Tempo
è da parlare, e tempo è da tacere". Per che io sentendo in
me turbata disposizione, per la cagione che detta è nel
precedente capitolo, a parlare d'Amore, parve a me che fosse d'aspettare
tempo, lo quale seco porta lo fine d'ogni desiderio, e appresenta,
quasi come donatore, a coloro a cui non incresce d'aspettare.
Onde dice santo Iacopo apostolo ne la sua Pistola: "Ecco lo
agricola aspetta lo prezioso frutto de la terra, pazientemente
sostenendo infino che riceva lo temporaneo e lo serotino". E
tutte le nostre brighe, se bene veniamo a cercare li loro
principii, procedono quasi dal non conoscere l'uso del tempo.
Dico: "poi
che da aspettare mi pare, diporroe", cioè lascierò stare,
"lo mio stilo", cioè modo, "soave" che d'Amore
parlando hoe tenuto; e dico di dicere di quello "valore"
per lo quale uomo è gentile veracemente. E avvegna che "valore"
intendere si possa per più modi, qui si prende "valore"
quasi potenza di natura, o vero bontade da quella data, sì come
di sotto si vedrà. E prometto di trattare di questa materia con
rima aspr'e sottile. Per che sapere si conviene che "rima"
si può doppiamente considerare, cioè largamente e strettamente:
strettamente, s'intende pur per quella concordanza che ne l'ultima
e penultima sillaba far si suole; quando largamente, s'intende
per tutto quel parlare che 'n numeri e tempo regolato in rimate
consonanze cade, e così qui in questo proemio prendere e
intendere si vuole. E però dice aspra quanto al suono de
lo dittato, che a tanta materia non conviene essere leno; e dice sottile
quanto a la sentenza de le parole, che sottilmente argomentando e
disputando procedono. E soggiungo: Riprovando 'l giudicio
falso e vile, ove si promette ancora di riprovare lo giudicio
de la gente piena d'errore; falso, cioè rimosso da la
veritade, e vile, cioè da viltà d'animo affermato e
fortificato. Ed è da guardare a ciò, che in questo proemio
prima si promette di trattare lo vero, e poi di riprovare lo
falso, e nel trattato si fa l'opposito; ché prima si ripruova lo
falso, e poi si tratta lo vero: che pare non convenire a la
promessione. Però è da sapere che tutto che a l'uno e a l'altro
s'intenda, al trattare lo vero s'intende principalmente; a
riprovare lo falso s'intende in tanto in quanto la veritade
meglio si fa apparire. E qui prima si promette lo trattare del
vero, sì come principale intento, lo quale a l'anima de li
auditori porta desiderio d'udire: nel trattato prima si ripruova
lo falso, acciò che, fugate le male oppinioni, la veritade poi
più liberamente sia ricevuta. E questo modo tenne lo maestro de
l'umana ragione, Aristotile, che sempre prima combatteo con li
avversari de la veritade e poi, quelli convinti, la veritade
mostroe.
Ultimamente,
quando dico: E, cominciando, chiamo quel signore, chiamo
la veritade che sia meco, la quale è quello signore che ne li
occhi, cioè ne le dimostrazioni de la filosofia dimora, e bene
è signore, ché a lei disposata l'anima è donna, e altrimenti
è serva fuori d'ogni libertade. E dice: Per ch'ella di se
stessa s'innamora, però che essa filosofia, che è, sì come
detto è nel precedente trattato, amoroso uso di sapienza, se
medesima riguarda, quando apparisce la bellezza de li occhi suoi
a lei; che altro non è a dire, se non che l'anima filosofante
non solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo
contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra
se stessa e di se stessa innamorando per la bellezza del suo
primo guardare. E così termina ciò che proemialmente per tre
membri porta lo testo del presente trattato.
Capitolo III
Veduta la sentenza del proemio, è da seguire lo trattato; e per
meglio quello mostrare, partire si conviene per le sue parti
principali, che sono tre: che ne la prima si tratta de la
nobilitade secondo oppinioni d'altri; ne la seconda si tratta di
quella secondo la propria oppinione; ne la terza si volge lo
parlare a la canzone, ad alcuno adornamento di ciò che detto è.
La seconda parte comincia: Dico ch'ogni vertù principalmente.
La terza comincia: Contra-li-erranti mia, tu te n'andrai.
E appresso queste tre parti generali, e altre divisioni fare si
convegnono, a bene prender lo 'ntelletto che mostrare s'intende.
Però nullo si maravigli se per molte divisioni si procede, con
ciò sia cosa che grande e alta opera sia per le mani al presente
e da li autori poco cercata, e che lungo convegna essere lo
trattato e sottile, nel quale per me ora s'entra, a distrigare lo
testo perfettamente secondo la sentenza che esso porta.
Dunque dico che
ora questa prima parte si divide in due: che ne la prima si
pongono le oppinioni altrui, ne la seconda si ripruovano quelle;
e comincia questa seconda parte: Chi diffinisce: "Omo è
legno animato". Ancora la prima parte che rimane sì ha
due membri: lo primo è la narrazione de l'oppinione de lo
imperadore; lo secondo è la narrazione de l'oppinione de la
gente volgare, che è d'ogni ragione ignuda. E comincia questo
secondo membro: E altri fu di più lieve savere. Dico
dunque: Tale imperò, cioè tale usò l'officio imperiale:
dov'è da sapere che Federigo di Soave, ultimo imperadore de li
Romani - ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante
che Ridolfo e Andolfo e Alberto poi eletti siano, appresso la sua
morte e de li suoi discendenti -, domandato che fosse gentilezza,
rispuose ch'era antica ricchezza e belli costumi. E dico che altri
fu di più lieve savere: che, pensando e rivolgendo questa
diffinizione in ogni parte, levò via l'ultima particula, cioè
li belli costumi, e tennesi a la prima, cioè a l'antica
ricchezza; e, secondo che lo testo pare dubitare, forse per non
avere li belli costumi non volendo perdere lo nome di gentilezza,
diffinio quella secondo che per lui facea, cioè possessione d'antica
ricchezza. E dico che questa oppinione è quasi di tutti, dicendo
che dietro da costui vanno tutti coloro che fanno altrui gentile
per essere di progenie lungamente stata ricca, con ciò sia cosa
che quasi tutti così latrano. Queste due oppinioni - avvegna che
l'una, come detto è, del tutto sia da non curare - due
gravissime ragioni pare che abbiano in aiuto: la prima è che
dice lo Filosofo che quello che pare a li più, impossibile è
del tutto essere falso; la seconda ragione è l'autoritade de la
diffinizione de lo imperadore. E perché meglio si veggia poi la
vertude de la veritade, che ogni autoritade convince, ragionare
intendo quanto l'una e l'altra di queste ragioni aiutatrice e
possente è. E, prima, poi che de la imperiale autoritade sapere
non si può se non si ritruovano le sue radici, di quelle per
intenzione in capitolo speziale è da trattare.
Capitolo IV
Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero,
è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è
ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo per sé è
sufficiente a venire sanza l'aiutorio d'alcuno, con ciò sia cosa
che l'uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare
non può. E però dice lo Filosofo che l'uomo naturalmente è
compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza
richiede compagnia dimestica di famiglia, così una casa a sua
sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti
sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che
una vicinanza a sé non può in tutto satisfare, conviene a
satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade
richiede a le sue arti e a le sue difensioni vicenda avere e
fratellanza con le circavicine cittadi; e però fu fatto lo regno.
Onde, con ciò sia cosa che l'animo umano in terminata
possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria d'acquistare,
sì come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene
surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni de le
cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le vicinanze de
le case, e per le case de l'uomo; e così s'impedisce la
felicitade. Il perché, a queste guerre e le loro cagioni torre
via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto a l'umana
generazione a possedere è dato, essendo Monarchia, cioè uno
solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo
e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti ne li
termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si
posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s'amino, in
questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l'uomo
viva felicemente; che è quello per che esso è nato. E a queste
ragioni si possono reducere parole del Filosofo ch'egli ne la
Politica dice, che quando più cose ad uno fine sono ordinate,
una di quelle conviene essere regolante, o vero reggente, e tutte
l'altre rette e regolate. Sì come vedemo in una nave, che
diversi offici e diversi fini di quella a uno solo fine sono
ordinati, cioè a prendere loro desiderato porto per salutevole
via: dove, sì come ciascuno officiale ordina la propria
operazione nel proprio fine, così è uno che tutti questi fini
considera, e ordina quelli ne l'ultimo di tutti; e questo è lo
nocchiero, a la cui voce tutti obedire deono. Questo vedemo ne le
religioni, ne li esserciti, in tutte quelle cose che sono, come
detto è, a fine ordinate. Per che manifestamente vedere si può
che a perfezione de la universale religione de la umana spezie
conviene essere uno, quasi nocchiero, che, considerando le
diverse condizioni del mondo, a li diversi e necessari offici
ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile officio di
comandare. E questo officio per eccellenza Imperio è chiamato,
sanza nulla addizione, però che esso è di tutti li altri
comandamenti comandamento. E così chi a questo officio è posto
è chiamato Imperadore, però che di tutti li comandamenti elli
è comandatore, e quello che esso dice a tutti è legge, e per
tutti dee essere obedito e ogni altro comandamento da quello di
costui prendere vigore e autoritade. E così si manifesta la
imperiale maiestade e autoritade essere altissima ne l'umana
compagnia.
Veramente
potrebbe alcuno gavillare dicendo che, tutto che al mondo officio
d'imperio si richeggia, non fa ciò l'autoritade de lo romano
principe ragionevolemente somma, la quale s'intende dimostrare;
però che la romana potenzia non per ragione né per decreto di
convento universale fu acquistata, ma per forza, che a la ragione
pare esser contraria. A ciò si può lievemente rispondere, che
la elezione di questo sommo officiale convenia primieramente
procedere da quello consiglio che per tutti provede, cioè Dio;
altrimenti sarebbe stata la elezione per tutti non iguale; con
ciò sia cosa che, anzi l'officiale predetto, nullo a bene di
tutti intendea. E però che più dolce natura in segnoreggiando,
e più forte in sostenendo, e più sottile in acquistando né fu
né fia che quella de la gente latina - sì come per esperienza
si può vedere - e massimamente di quello popolo santo nel quale
l'alto sangue troiano era mischiato, cioè Roma, Dio quello
elesse a quello officio. Però che, con ciò sia cosa che a
quello ottenere non sanza grandissima vertude venire si potesse,
e a quello usare grandissima e umanissima benignitade si
richiedesse, questo era quello popolo che a ciò più era
disposto. Onde non da forza fu principalmente preso per la romana
gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in
ciò s'accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in
persona di Dio parlando: "A costoro - cioè a li Romani -
né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio
sanza fine". La forza dunque non fu cagione movente, sì
come credeva chi gavillava, ma fu cagione instrumentale, sì come
sono li colpi del martello cagione del coltello, e l'anima del
fabbro è cagione efficiente e movente; e così non forza, ma
ragione, e ancora divina, conviene essere stata principio del
romano imperio. E che ciò sia, per due apertissime ragioni
vedere si può, le quali mostrano quella civitade imperatrice, e
da Dio avere spezial nascimento, e da Dio avere spezial processo.
Ma però che in questo capitolo sanza troppa lunghezza ciò
trattare non si potrebbe, e li lunghi capitoli sono inimici de la
memoria, farò ancora digressione d'altro capitolo per le toccate
ragioni mostrare; che non ha sanza utilitade e diletto grande.
Capitolo V
Non è maraviglia se la divina provedenza, che del tutto l'angelico
e lo umano accorgimento soperchia, occultamente a noi molte volte
procede, con ciò sia cosa che spesse volte l'umane operazioni a
li uomini medesimi ascondono la loro intenzione; ma da
maravigliare è forte, quando la essecuzione de lo etterno
consiglio tanto manifesto procede con la nostra ragione. E però
io nel cominciamento di questo capitolo posso parlare con la
bocca di Salomone, che in persona de la Sapienza dice ne li suoi
Proverbi: "Udite: però che di grandi cose io debbo parlare".
Volendo la 'nmensurabile
bontà divina l'umana creatura a sé riconformare, che per lo
peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e
disformata, eletto fu in quello altissimo e congiuntissimo
consistorio de la Trinitade, che 'l Figliuolo di Dio in terra
discendesse a fare questa concordia. E però che ne la sua venuta
nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia essere in
ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia
quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto
è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo
e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma.
E però che anche l'albergo dove il celestiale rege intrare dovea
convenia essere mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie
santissima, de la quale dopo molti meriti nascesse una femmina
ottima di tutte l'altre, la quale fosse camera del Figliuolo di
Dio: e questa progenie fu quella di David, del qual nascette la
baldezza e l'onore de l'umana generazione, cioè Maria. E però
è scritto in Isaia: "Nascerà virga de la radice di Iesse,
e fiore de la sua radice salirà"; e Iesse fu padre del
sopra detto David. E tutto questo fu in uno temporale, che David
nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia,
che fu origine de la cittade romana, sì come testimoniano le
scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del
romano imperio per lo nascimento de la santa cittade che fu
contemporaneo a la radice de la progenie di Maria. E
incidentemente è da toccare che, poi che esso cielo cominciò a
girare, in migliore disposizione non fu che allora quando di là
su discese Colui che l'ha fatto e che 'l governa; sì come ancora
per virtù di loro arti li matematici possono ritrovare. Né 'l
mondo mai non fu né sarà sì perfettamente disposto come allora
che a la voce d'un solo, principe del roman popolo e comandatore,
fu ordinato, sì come testimonia Luca evangelista. E però che
pace universale era per tutto, che mai, più, non fu né fia, la
nave de l'umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito
porto correa. Oh ineffabile e incomprensibile sapienza di Dio che
a una ora, per la tua venuta, in Siria suso e qua in Italia tanto
dinanzi ti preparasti! E oh stoltissime e vilissime
bestiuole che a guisa d'uomo voi pascete, che presummete contra
nostra fede parlare e volete sapere, filando e zappando, ciò che
Iddio, che con tanta prudenza hae ordinato! Maladetti siate voi,
e la vostra presunzione, e chi a voi crede!
E, come detto è
di sopra nel fine del precedente capitolo del presente trattato,
non solamente speziale nascimento, ma speziale processo ebbe da
Dio; ché brievemente, da Romolo incominciando, che fu di quella
primo padre, infino a la sua perfettissima etade, cioè al tempo
del predetto suo imperadore, non pur per umane ma per divine
operazioni andò lo suo processo. Che se consideriamo li sette
regi che prima la governaro, cioè Romolo, Numa, Tullo, Anco e li
re Tarquini, che furono quasi baiuli e tutori de la sua puerizia,
noi trovare potremo per le scritture de le romane istorie,
massimamente per Tito Livio, coloro essere stati di diverse
nature, secondo l'opportunitade del procedente tempo. Se noi
consideriamo poi quella per la maggiore adolescenza sua, poi che
da la reale tutoria fu emancipata, da Bruto primo consolo infino
a Cesare primo prencipe sommo, noi troveremo lei essaltata non
con umani cittadini, ma con divini, ne li quali non amore umano,
ma divino era inspirato in amare lei. E ciò non potea né dovea
essere se non per ispeziale fine, da Dio inteso in tanta
celestiale infusione. E chi dirà che fosse sanza divina
inspirazione, Fabrizio infinita quasi moltitudine d'oro rifiutare,
per non volere abbandonare sua patria? Curio, da li Sanniti
tentato di corrompere, grandissima quantità d'oro per carità de
la patria rifiutare, dicendo che li romani cittadini non l'oro,
ma li possessori de l'oro possedere voleano? e Muzio la sua mano
propria incendere, perché fallato avea lo colpo che per liberare
Roma pensato avea? Chi dirà di Torquato, giudicatore del suo
figliuolo a morte per amore del publico bene, sanza divino
aiutorio ciò avere sofferto? e Bruto predetto similemente? Chi
dirà de li Deci e de li Drusi, che puosero la loro vita per la
patria? Chi dirà del cattivato Regolo, da Cartagine mandato a
Roma per commutare li presi cartaginesi a sé e a li altri presi
romani, avere contra sé per amore di Roma, dopo la legazione
ritratta, consigliato, solo da umana, e non da divina natura
mosso? Chi dirà di Quinzio Cincinnato, fatto dittatore e tolto
da lo aratro, e dopo lo tempo de l'officio, spontaneamente quello
rifiutando a lo arare essere ritornato? Chi dirà di Cammillo,
bandeggiato e cacciato in essilio, essere venuto a liberare Roma
contra li suoi nimici, e dopo la sua liberazione, spontaneamente
essere ritornato in essilio per non offendere la senatoria
autoritade, sanza divina istigazione? O sacratissimo petto di
Catone, chi presummerà di te parlare? Certo maggiormente di te
parlare non si può che tacere, e seguire Ieronimo quando nel
proemio de la Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è
tacere che poco dire. Certo e manifesto esser dee, rimembrando la
vita di costoro e de li altri divini cittadini, non sanza alcuna
luce de la divina bontade, aggiunta sopra la loro buona natura,
essere tante mirabili operazioni state; e manifesto esser dee,
questi eccellentissimi essere stati strumenti con li quali
procedette la divina provedenza ne lo romano imperio, dove più
volte parve esse braccia di Dio essere presenti. E non puose
Iddio le mani proprie a la battaglia dove li Albani con li Romani,
dal principio, per lo capo del regno combattero, quando uno solo
Romano ne le mani ebbe la franchigia di Roma? Non puose Iddio le
mani proprie, quando li Franceschi, tutta Roma presa, prendeano
di furto Campidoglio di notte, e solamente la voce d'una oca fé
ciò sentire? E non puose Iddio le mani, quando, per la guerra d'Annibale
avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d'anella in Africa
erano portati, li Romani volsero abbandonare la terra, se quel
benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Africa
per la sua franchezza? E non puose Iddio le mani quando uno nuovo
cittadino di picciola condizione, cioè Tullio, contra tanto
cittadino quanto era Catellina la romana libertà difese? Certo
sì. Per che più chiedere non si dee, a vedere che spezial
nascimento e spezial processo, da Dio pensato e ordinato, fosse
quello de la santa cittade. Certo di ferma sono oppinione che le
pietre che ne le mura sue stanno siano degne di reverenzia, e lo
suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è
predicato e approvato.
Capitolo VI
Di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato, promesso fue di
ragionare de l'altezza de la imperiale autoritade e de la
filosofica; e però, ragionato de la imperiale, procedere oltre
si conviene la mia digressione, a vedere di quella del Filosofo,
secondo la promessione fatta. E qui è prima da vedere che questo
vocabulo vuole dire, però che qui è maggiore mestiere di
saperlo che sopra lo ragionamento de la imperiale, la quale per
la sua maiestade non pare esser dubitata. E` dunque da sapere che
"autoritade" non è altro che "atto d'autore".
Questo vocabulo, cioè "autore", sanza quella terza
lettera C, può discendere da due principii: l'uno si è d'uno
verbo molto lasciato da l'uso in gramatica, che significa tanto
quanto "legare parole", cioè "auieo". E chi
ben guarda lui, ne la sua prima voce apertamente vedrà che elli
stesso lo dimostra, che solo di legame di parole è fatto, cioè
di sole cinque vocali, che sono anima e legame d'ogni parole, e
composto d'esse per modo volubile, a figurare imagine di legame.
Ché, cominciando da l'A, ne l'U quindi si rivolve, e viene
diritto per I ne l'E, quindi si rivolve e torna ne l'O; sì che
veramente imagina questa figura: A, E, I, O, U, la quale è
figura di legame. E in quanto "autore" viene e discende
da questo verbo, si prende solo per li poeti, che con l'arte
musaica le loro parole hanno legate: e di questa significazione
al presente non s'intende. L'altro principio, onde "autore"
discende, sì come testimonia Uguiccione nel principio de le sue
Derivazioni, è uno vocabulo greco che dice "autentin",
che tanto vale in latino quanto "degno di fede e d'obedienza".
E così "autore", quinci derivato, si prende per ogni
persona degna d'essere creduta e obedita. E da questo viene
questo vocabulo del quale al presente si tratta, cioè "autoritade";
per che si può vedere che "autoritade" vale tanto
quanto "atto degno di fede e d'obedienza". Onde, quand'io
provi che Aristotile è dignissimo di fede e d'obedienza,
manifesto è che le sue parole sono somma e altissima autoritade.
Che Aristotile
sia dignissimo di fede e d'obedienza così provare si può. Intra
operarii e artefici di diverse arti e operazioni, ordinate a una
operazione od arte finale, l'artefice o vero operatore di quella
massimamente dee essere da tutti obedito e creduto, sì come
colui che solo considera l'ultimo fine di tutti li altri fini.
Onde al cavaliere dee credere lo spadaio, lo frenaio, lo sellaio,
lo scudaio, e tutti quelli mestieri che a l'arte di cavalleria
sono ordinati. E però che tutte l'umane operazioni domandano uno
fine, cioè quello de l'umana vita al quale l'uomo è ordinato in
quanto elli è uomo, lo maestro e l'artefice che quello ne
dimostra e considera, massimamente obedire e credere si dee.
Questi è Aristotile: dunque esso è dignissimo di fede e d'obedienza.
E a vedere come Aristotile è maestro e duca de la ragione umana,
in quanto intende a la sua finale operazione, si conviene sapere
che questo nostro fine, che ciascuno disia naturalmente,
antichissimamente fu per li savi cercato. E però che li
disideratori di quello sono in tanto numero e li appetiti sono
quasi tutti singularmente diversi, avvegna che universalmente
siano pur uno, malagevole fu molto a scernere quello dove
dirittamente ogni umano appetito si riposasse. Furono dunque
filosofi molto antichi, de li quali primo e prencipe fu Zenone,
che videro e credettero questo fine de la vita umana essere
solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza respetto
alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare
dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere
sentore. E diffiniro così questo onesto: "quello che, sanza
utilitade e sanza frutto, per sé di ragione è da laudare".
E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro
quello glorioso Catone di cui non fui di sopra oso di parlare.
Altri filosofi furono, che videro e credettero altro che costoro;
e di questi fu primo e prencipe uno filosofo che fu chiamato
Epicuro; ché, veggendo che ciascuno animale, tosto che nato è,
quasi da natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e
domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine essere
voluptade (non dico "voluntade", ma scrivola per P),
cioè diletto sanza dolore. E però che tra 'l diletto e lo
dolore non ponea mezzo alcuno, dicea che "voluptade"
non era altro che "non dolore", sì come pare Tullio
recitare nel primo di Fine di Beni. E di questi, che da Epicuro
sono Epicurei nominati, fu Torquato, nobile romano, disceso del
sangue del glorioso Torquato del quale feci menzione di sopra.
Altri furono, e cominciamento ebbero da Socrate e poi dal suo
successore Platone, che, agguardando più sottilmente, e veggendo
che ne le nostre operazioni si potea peccare e peccavasi nel
troppo e nel poco, dissero che la nostra operazione sanza
soperchio e sanza difetto, misurata col mezzo per nostra elezione
preso, ch'è virtù, era quel fine di che al presente si ragiona;
e chiamaronlo "operazione con virtù". E questi furono
Academici chiamati, sì come fue Platone e Speusippo suo nepote:
chiamati per luogo così dove Plato studiava, cioè Academia; né
da Socrate presero vocabulo, però che ne la sua filosofia nulla
fu affermato. Veramente Aristotile, che Stagirite ebbe sopranome,
e Zenocrate Calcedonio, suo compagnone, e per lo studio loro, e
per lo 'ngegno singulare e quasi divino che la natura in
Aristotile messo avea, questo fine conoscendo per lo modo
socratico quasi e academico, limaro e a perfezione la filosofia
morale redussero, e massimamente Aristotile. E però che
Aristotile cominciò a disputare andando in qua e in lae,
chiamati furono - lui, dico, e li suoi compagni - Peripatetici,
che tanto vale quanto "deambulatori". E però che la
perfezione di questa moralitade per Aristotile terminata fue, lo
nome de li Academici si spense, e tutti quelli che a questa setta
si presero Peripatetici sono chiamati; e tiene questa gente oggi
lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e puotesi
appellare quasi cattolica oppinione. Per che vedere si può,
Aristotile essere additatore e conduttore de la gente a questo
segno. E questo mostrare si volea.
Per che, tutto
ricogliendo, è manifesto lo principale intento, cioè che l'autoritade
del filosofo sommo di cui s'intende sia piena di tutto vigore. E
non repugna a la imperiale autoritade; ma quella sanza questa è
pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sé,
ma per la disordinanza de la gente; sì che l'una con l'altra
congiunta utilissime e pienissime sono d'ogni vigore. E però si
scrive in quello di Sapienza: "Amate lo lume de la sapienza,
voi tutti che siete dinanzi a' populi". Ciò è a dire:
Congiungasi la filosofica autoritade con la imperiale, a bene e
perfettamente reggere. Oh miseri che al presente reggete! e oh
miserissimi che retti siete! ché nulla filosofica autoritade si
congiunge con li vostri reggimenti né per proprio studio né per
consiglio, sì che a tutti si può dire quella parola de lo
Ecclesiaste: "Guai a te, terra, lo cui re è fanciullo, e li
cui principi la domane mangiano!"; e a nulla terra si può
dire quella che seguita: "Beata la terra lo cui re è nobile
e li cui principi cibo usano in suo tempo, a bisogno e non a
lussuria!". Ponetevi mente, nemici di Dio, a' fianchi, voi
che le verghe de' reggimenti d'Italia prese avete - e dico a voi,
Carlo e Federigo regi, e a voi altri principi e tiranni -; e
guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate quante
volte lo die questo fine de l'umana vita per li vostri
consiglieri v'è additato! Meglio sarebbe a voi come rondine
volare basso, che come nibbio altissime rote fare sopra le cose
vilissime.
Capitolo VII
Poi che veduto è quanto è da reverire l'autoritade imperiale e
la filosofica, che paiono aiutare le proposte oppinioni, è da
ritornare al diritto calle de lo inteso processo. Dico dunque che
questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata, che sanza
altro respetto, sanza inquisizione d'alcuna ragione, gentile è
chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d'alcuno valente uomo,
tutto che esso sia da niente. E questo è quello che dice: Ed
è tanto durata La così falsa oppinion tra nui, Che l'uom chiama
colui Omo gentil che può dicere: "Io fui nepote, o figlio,
di cotal valente", Benché sia da niente. Per che è da
notare che pericolosissima negligenza è lasciare la mala
oppinione prendere piede; che così come l'erba multiplica nel
campo non cultato, e sormonta, e cuopre la spiga del frumento sì
che, disparte agguardando, lo frumento non pare, e perdesi lo
frutto finalmente; così la mala oppinione ne la mente, non
gastigata e corretta, sì cresce e multiplica sì che le spighe
de la ragione, cioè la vera oppinione si nasconde e quasi
sepulta si perde. Oh com'è grande la mia impresa in questa
canzone, a volere omai così trifoglioso campo sarchiare come
quello de la comune sentenza, sì lungamente da questa cultura
abbandonato! Certo non del tutto questo mondare intendo, ma solo
in quelle parti dove le spighe de la ragione non sono del tutto
sorprese: cioè coloro dirizzare intendo ne' quali alcuno lumetto
di ragione per buona loro natura vive ancora, ché de li altri
tanto è da curare quanto di bruti animali; però che non minore
maraviglia mi sembra reducere a ragione colui in cui è la luce
di ragione del tutto spenta, che reducere in vita colui che
quattro dì è stato, nel sepulcro.
Poi che la mala
condizione di questa populare oppinione è narrata, subitamente,
quasi come cosa orribile, quella percuoto fuori di tutto l'ordine
de la riprovagione, dicendo: Ma vilissimo sembra, a chi 'l ver
guata, a dare a intendere la sua intollerabile malizia,
dicendo costoro mentire massimamente; però che non solamente
colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è
malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del cammino
mostrato e poscia errato. Dove, a ciò mostrare, far mi conviene
una questione, e rispondere a quella, in questo modo. Una pianura
è con certi sentieri: campo con siepi, con fossati, con pietre,
con legname, con tutti quasi impedimenti, fuori de li suoi
stretti sentieri. Nevato è sì, che tutto cuopre la neve e rende
una figura in ogni parte, sì che d'alcuno sentiero vestigio non
si vede. Viene alcuno da l'una parte de la campagna e vuole
andare a una magione che è da l'altra parte; e per sua industria,
cioè per accorgimento e per bontade d'ingegno, solo da sé
guidato, per lo diritto cammino si va là dove intende, lasciando
le vestigie de li suoi passi diretro da sé. Viene un altro
appresso costui, e vuole a questa magione andare, e non li è
mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e, per suo difetto,
lo cammino che altri sanza scorta ha saputo tenere, questo scorto
erra, e tortisce per li pruni e per le ruine, e a la parte dove
dee non va. Quale di costoro si dee dicere valente? Rispondo:
quegli che andò dinanzi. Questo altro come si chiamerà?
Rispondo: vilissimo. Perché non si chiama non valente, cioè
vile? Rispondo: perché non valente, cioè vile, sarebbe da
chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse ben
camminato; ma però che questi l'ebbe, lo suo errore e lo suo
difetto non può salire, e però è da dire non vile, ma
vilissimo. E così quelli che dal padre o d'alcuno suo maggiore
buono è disceso ed è malvagio, non solamente è vile, ma
vilissimo, e degno d'ogni dispetto e vituperio più che altro
villano. E perché l'uomo da questa infima viltade si guardi,
comanda Salomone a colui che 'l valente antecessore hae avuto,
nel vigesimo secondo capitolo de li Proverbi: "Non
trapasserai li termini antichi che puosero li padri tuoi"; e
dinanzi dice, nel quarto capitolo del detto libro: "La via
de' giusti", cioè de' valenti, "quasi luce splendiente
procede, e quella de li malvagi è oscura. Elli non sanno dove
rovinano". Ultimamente, quando si dice: E tocca a tal, ch'è
morto e va per terra, a maggiore detrimento dico questo
cotale vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere
che veramente morto lo malvagio uomo dire si puote, e
massimamente quelli che da la via del buono suo antecessore si
parte. E ciò si può così mostrare. Sì come dice Aristotile
nel secondo de l'Anima, "vivere è l'essere de li viventi";
e per ciò che vivere è per molti modi (sì come ne le piante
vegetare, ne li animali vegetare e sentire e muovere, ne li
uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero intelligere),
e le cose si deono denominare da la più nobile parte, manifesto
è che vivere ne li animali è sentire - animali, dico, bruti -,
vivere ne l'uomo è ragione usare. Dunque, se 'l vivere è l'essere
dei viventi e vivere ne l'uomo è ragione usare, ragione usare è
l'essere de l'uomo, e così da quello uso partire è partire da
essere, e così è essere morto. E non si parte da l'uso del
ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita? e non si parte
da l'uso de la ragione chi non ragiona il cammino che fare dee?
Certo si parte; e ciò si manifesta massimamente con colui che ha
le vestigie innanzi, e non le mira. E però dice Salomone nel
quinto capitolo de li Proverbi: "Quelli muore che non ebbe
disciplina, e ne la moltitudine de la sua stoltezza sarà
ingannato". Ciò è a dire: Colui è morto che non si fé
discepolo, che non segue lo maestro; e questo vilissimo è quello.
Potrebbe alcuno dicere: Come è morto e va? Rispondo che è morto
uomo e rimaso bestia. Ché, sì come dice lo Filosofo nel secondo
de l'Anima, le potenze de l'anima stanno sopra sé come la figura
de lo quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo, cioè
la figura che ha cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così
la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra
la sensitiva. Dunque, come levando l'ultimo canto del pentangulo
rimane quadrangulo e non più pentangulo, così levando l'ultima
potenza de l'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma
cosa con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto. E questa
è la sentenza del secondo verso de la canzone impresa, nel quale
si pongono l'altrui oppinioni.
Capitolo VIII
Lo più bello ramo che de la radice razionale consurga si è la
discrezione. Ché, sì come dice Tommaso sopra lo prologo de l'Etica,
"conoscere l'ordine d'una cosa ad altra è proprio atto di
ragione", e è questa discrezione. Uno de' più belli e
dolci frutti di questo ramo è la reverenza che dee lo minore a
lo maggiore. Onde Tullio, nel primo de li Offici, parlando de la
bellezza che in su l'onestade risplende, dice la reverenza essere
di quella; e così come questa è bellezza d'onestade, così lo
suo contrario è turpezza e menomanza de l'onesto, lo quale
contrario inreverenza, o vero tracotanza dicere in nostro volgare
si può. E però esso Tullio nel medesimo luogo dice: "Mettere
a negghienza di sapere quello che li altri sentono di lui, non
solamente è di persona arrogante, ma di dissoluta"; che non
vuole altro dire, se non che arroganza e dissoluzione è se
medesimo non conoscere, ch'è principio ed è la misura d'ogni
reverenza. Per che io volendo, con tutta reverenza e a lo
Principe e al Filosofo portando, la malizia d'alquanti de la
mente levare, per fondarvi poi suso la luce de la veritade, prima
che a riprovare le proposte oppinioni proceda, mostrerò come,
quelle riprovando, né contra l'imperiale maiestade né contra lo
Filosofo si ragiona inreverentemente. Che se in alcuna parte di
tutto questo libro inreverente mi mostrasse, non sarebbe tanto
laido quanto in questo trattato; nel quale, di nobilitade
trattando, me nobile e non villano deggio mostrare. E prima
mostrerò me non presummere contra l'autorità del Filosofo; poi
mostrerò me non presummere contra la maiestade imperiale.
Dico adunque che
quando lo Filosofo dice: "Quello che pare a li più,
impossibile è del tutto essere falso", non intende dicere
del parere di fuori, cioè sensuale, ma di quello dentro, cioè
razionale; con ciò sia cosa che 'l sensuale parere secondo la
più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente ne li
sensibili comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato.
Onde sapemo che a la più gente lo sole pare di larghezza, nel
diametro, d'un piede, e sì è ciò falsissimo. Ché, secondo lo
cercamento e la invenzione che ha fatto l'umana ragione con l'altre
sue arti, lo diametro del corpo del sole è cinque volte quanto
quello de la terra, e anche una mezza volta; onde, con ciò sia
cosa che la terra per lo diametro suo sia semilia cinquecento
miglia, lo diametro del sole, che a la sensuale apparenza appare
di quantità d'un piede, è trentacinque milia settecento
cinquanta miglia. Per che manifesto è Aristotile non avere
inteso de la sensuale apparenza; e però, se io intendo solo a la
sensuale apparenza riprovare, non faccio contra la intenzione del
Filosofo, e però né la reverenza che a lui si dee non offendo.
E che io sensuale apparenza intenda riprovare è manifesto. Ché
costoro, che così giudicano, non giudicano se non per quello che
sentono di queste cose che la fortuna può dare e torre; che
perché veggiono fare le parentele e li alti matrimonii, li
edifici mirabili, le possessioni larghe, le signorie grandi,
credono quelle essere cagioni di nobilitade, anzi essa nobilitade
credono quelle essere. Che s'elli giudicassero con l'apparenza
razionale, dicerebbero lo contrario, cioè la nobilitade essere
cagione di questo, sì come di sotto in questo trattato si vedrà.
E come io,
secondo che vedere si può, contra la reverenza del Filosofo non
parlo ciò riprovando, così non parlo contra la reverenza de lo
Imperio: e la ragione mostrare intendo. Ma però che, dinanzi da
l'avversario se ragiona, lo rettorico dee molta cautela usare nel
suo sermone, acciò che l'avversario quindi non prenda materia di
turbare la veritade, io, che al volto di tanti avversarii parlo
in questo trattato, non posso brievemente parlare; onde, se le
mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli. Dico adunque che,
a mostrare me non essere inreverente a la maiestade de lo Imperio,
prima è da vedere che è "reverenza". Dico che
reverenza non è altro che confessione di debita subiezione per
manifesto segno. E veduto questo, da distinguere è intra loro
"inreverente" e "non reverente". Lo
inreverente dice privazione, lo non reverente dice negazione. E
però la inreverenza è disconfessare la debita subiezione, per
manifesto segno, dico, e la non reverenza è negare la debita
subiezione. Puote l'uomo disdicere la cosa doppiamente: per uno
modo puote l'uomo disdicere offendendo a la veritade, quando de
la debita confessione si priva, e questo propriamente è "disconfessare";
per un altro modo puote l'uomo disdicere non offendendo a la
veritade, quando quello che non è non si confessa, e questo è
proprio "negare": sì come disdicere l'uomo sé essere
del tutto mortale, è negare, propriamente parlando. Per che se
io niego la reverenza de lo Imperio, non sono inreverente, ma
sono non reverente: che non è contro a la reverenza, con ciò
sia cosa che quella non offenda; sì come lo non vivere non
offende la vita, ma offende quella la morte, che è di quella
privazione. Onde altro è morte e altro è non vivere; che non
vivere è ne le pietre. E però che morte dice privazione, che
non può essere se non nel subietto de l'abito, e le pietre non
sono subietto di vita, per che non "morte", ma "non
vivere" dicere si deono; similemente io, che in questo caso
a lo Imperio reverenza avere non debbo, se la disdico,
inreverente non sono, ma sono non reverente, che non è
tracotanza né cosa da biasimare. Ma tracotanza sarebbe l'essere
reverente (se reverenza si potesse dicere), però che in maggiore
e in vera inreverenza si cadrebbe, cioè de la natura e de la
veritade, sì come di sotto si vedrà. E da questo fallo si
guardò quello maestro de li filosofi, Aristotile, nel principio
de l'Etica quando dice: "Se due sono li amici, e l'uno è la
verità, a la verità è da consentire". Veramente, perché
detto ho ch'i' sono non reverente, che è la reverenza negare,
cioè negare la debita subiezione per manifesto segno, da vedere
è come questo è negare e non disconfessare, cioè da vedere
come, in questo caso, io non sia debitamente a la imperiale
maiestà subietto. E perché lunga conviene essere la ragione,
per proprio capitolo immediatamente intendo ciò mostrare.
Capitolo IX
A vedere come in questo caso, cioè in riprovando o in approvando
l'oppinione de lo Imperadore, a lui non sono tenuto a subiezione,
reducere a la mente si conviene quello che de lo imperiale
officio di sopra, nel quarto capitolo di questo trattato, è
ragionato, cioè che a perfezione de l'umana vita la imperiale
autoritade fu trovata, e che ella è regolatrice e rettrice di
tutte le nostre operazioni, giustamente; che, pertanto, oltre
quanto le nostre operazioni si stendono tanto la maiestade
imperiale ha giurisdizione, e fuori di quelli termini non si
sciampia. Ma sì come ciascuna arte e officio umano da lo
imperiale è a certi termini limitato, così questo da Dio a
certo termine è finito: e non è da maravigliare, ché l'officio
e l'arte de la natura finito in tutte sue operazioni vedemo. Che
se prendere volemo la natura universale di tutto, tanto ha
giurisdizione quanto tutto lo mondo, dico lo cielo e la terra, si
stende; e questo è a certo termine, sì come per lo terzo de la
Fisica e per lo primo De Celo et Mundo è provato. Dunque la
giurisdizione de la natura universale è a certo termine finita -
e per consequente la particulare -; e anche di costei è
limitatore colui che da nulla è limitato, cioè la prima bontade,
che è Dio, che solo con la infinita capacitade infinito
comprende.
E a vedere li
termini de le nostre operazioni, è da sapere che solo quelle
sono nostre operazioni che subiacciono a la ragione e a la
volontade; che se in noi è l'operazione digestiva, questa non è
umana, ma naturale. Ed è da sapere che la nostra ragione a
quattro maniere d'operazioni, diversamente da considerare, è
ordinata: ché operazioni sono che ella solamente considera, e
non fa né può fare alcuna di quelle, sì come sono le cose
naturali e le sopranaturali e le matematice; e operazioni che
essa considera e fa nel proprio atto suo, le quali si chiamano
razionali, sì come sono arti di parlare; e operazioni sono che
ella considera e fa in materia di fuori di sé, sì come sono
arti meccanice. E queste tutte operazioni, avvegna che 'l
considerare loro subiaccia a la nostra volontade, elle per loro a
nostra volontade non subiacciono: ché, perché noi volessimo che
le cose gravi salissero per natura suso, e perché noi volessimo
che 'l silogismo con falsi principii conchiudesse veritade
dimostrando, e perché noi volessimo che la casa sedesse così
forte pendente come diritta, non sarebbe; però che di queste
operazioni non fattori propriamente, ma li trovatori semo. Altri
l'ordinò e fece maggior fattore. Sono anche operazioni che la
nostra ragione considera ne l'atto de la volontade, sì come
offendere e giovare, sì come star fermo e fuggire a la battaglia,
sì come stare casto e lussuriare, e queste del tutto
soggiacciono a la nostra volontade; e però semo detti da loro
buoni e rei perch'elle sono proprie nostre del tutto, perché,
quanto la nostra volontade ottenere puote, tanto le nostre
operazioni si stendono. E con ciò sia cosa che in tutte queste
volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e
iniquitade da fuggire (la quale equitade per due cagioni si può
perdere, o per non sapere quale essa si sia o per non volere
quella seguitare) trovata fu la Ragione scritta, e per mostrarla
e per comandarla. Onde dice Augustino: "Se questa - cioè
equitade - li uomini la conoscessero, e conosciuta servassero, la
Ragione scritta non sarebbe mestiere"; e però è scritto
nel principio del Vecchio Digesto: "La ragione scritta è
arte di bene e d'equitade". A questa scrivere, mostrare e
comandare, è questo officiale posto di cui si parla, cioè lo
Imperadore, al quale tanto quanto le nostre operazioni proprie,
che dette sono, si stendono, siamo subietti; e più oltre no. Per
questa ragione, in ciascuna arte e in ciascuno mestiere li
artefici e li discenti sono, ed esser deono, subietti al prencipe
e al maestro di quelle, in quelli mestieri ed in quella arte; e
fuori di quello la subiezione pere, però che pere lo principato.
Sì che quasi dire si può de lo Imperadore, volendo lo suo
officio figurare con una imagine, che elli sia lo cavalcatore de
la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo
cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la
misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è
rimasa!
E da considerare
è che quanto la cosa è più propia de l'arte o del maestro,
tanto è maggiore in quella la subiezione; ché, multiplicata la
cagione, multiplica l'effetto. Onde è da sapere che cose sono
che sono sì pure arti, che la natura è instrumento de l'arte:
sì come vogare con remo, dove l'arte fa suo instrumento de la
impulsione, che è naturale moto; sì come nel trebbiare lo
frumento, che l'arte fa suo instrumento del caldo, che è natural
qualitade; e in queste massimamente a lo prencipe e maestro de l'arte
esser si dee subietto. E cose sono dove l'arte è instrumento de
la natura, e queste sono meno arti; e in esse sono meno subietti
li artefici a loro prencipe; sì com'è dare lo seme a la terra (qui
si vuole attendere la volontà de la natura), sì come è uscire
di porto (qui si vuole attendere la naturale disposizione del
tempo). E però vedemo in queste cose spesse volte contenzione
tra li artefici, e domandare consiglio lo maggiore al minore.
Altre cose sono che non sono de l'arte, e paiono avere con quella
alcuna parentela, e quinci sono li uomini molte volte ingannati;
e in queste li discenti a lo artefice, o vero maestro, subietti
non sono, né credere a lui sono tenuti quanto è per l'arte: sì
come pescare pare aver parentela col navicare, e conoscere la
vertù de l'erbe pare aver parentela con l'agricoltura; che non
hanno insieme alcuna regola, con ciò sia cosa che 'l pescare sia
sotto l'arte de la venagione e sotto suo comandare, e lo
conoscere la vertù de l'erbe sia sotto la medicina o vero sotto
più nobile dottrina.
Queste cose
simigliantemente, che de l'altre arti sono ragionate, vedere si
possono ne l'arte imperiale; ché regole sono in quella che sono
pure arti, sì come sono le leggi de' matrimonii, de li servi, de
le milizie, de li successori in dignitade, e di queste in tutto
siamo a lo Imperadore subietti, sanza dubbio e sospetto alcuno.
Altre leggi sono che sono quasi seguitatrici di natura, sì come
constituire l'uomo d'etade sofficiente a ministrare, e di queste
non semo in tutto subietti. Altre molte sono che paiono avere
alcuna parentela con l'arte imperiale - e qui fu ingannato ed è
chi crede che la sentenza imperiale sia in questa parte autentica
-: sì come diffinire giovinezza e gentilezza, sovra le quali
nullo imperiale giudicio è da consentire, in quanto elli è
imperadore: però, quello che è di Cesare sia renduto a Cesare,
e quello che è di Dio sia renduto a Dio. Onde non è da credere
né da consentire a Nerone imperadore, che disse che giovinezza
era bellezza e fortezza del corpo, ma a colui che dicesse che
giovinezza è colmo de la naturale vita, che sarebbe filosofo. E
però è manifesto che diffinire di gentilezza non è de l'arte
imperiale; e se non è de l'arte, trattando di quella, a lui non
siamo subietti; e se non siamo subietti, reverire lui in ciò non
siamo tenuti: e questo è quello che cercando s'andava. Per che
omai con tutta licenza e con tutta franchezza d'animo è da
ferire nel petto a le usate oppinioni, quelle per terra versando,
acciò che la verace, per questa mia vittoria, tegna lo campo de
la mente di coloro per cui fa questa luce avere vigore.
Capitolo X
Poi che poste sono l'altrui oppinioni di nobilitade, e mostrato
è quelle riprovare a me esser licito, verrò a quella parte
ragionare che ciò ripruova; che comincia, sì come detto è di
sopra: Chi diffinisce: "Omo è legno animato". E
però è da sapere che l'oppinione de lo Imperadore - avvegna che
con difetto quella ponga - ne l'una particula, cioè là
dove disse belli costumi, toccò de li costumi di nobilitade, e
però in quella parte riprovare non s'intende. L'altra particula,
che di natura di nobilitade è del tutto diversa, s'intende
riprovare; la quale due cose pare dicere quando dice antica
ricchezza, cioè tempo e divizie, le quali a nobilitade sono
del tutto diverse, come detto è e come di sotto si mostrerà. E
però riprovando si fanno due parti: prima si ripruovano le
divizie, e poi si ripruova lo tempo essere cagione di nobilitade.
La seconda parte comincia: Né voglion che vil uom gentil
divegna. E da sapere è che, riprovate le divizie, è
riprovata non solamente l'oppinione de lo Imperadore in quella
parte che le divizie tocca, ma eziandio quella del vulgo
interamente che solo ne le divizie si fondava. La prima parte in
due si divide: che ne la prima generalmente si dice lo 'mperadore
essere stato erroneo ne la diffinizione di nobilitade;
secondamente si mostra ragione perché. E comincia questa seconda
parte: Ché le divizie, sì come si crede.
Dico adunque, Chi
diffinisce: "Omo è legno animato", che prima
dice non vero, cioè falso, in quanto dice "legno";
e poi parla non intero, cioè con difetto, in quanto dice
"animato", non dicendo "razionale", che è
differenza per la quale uomo da la bestia si parte. Poi dico che
per questo modo fu erroneo in diffinire quelli che tenne
impero: non dicendo "imperadore", ma "quelli
che tenne imperio", a mostrare (come detto è di sopra)
questa cosa determinare essere fuori d'imperiale officio. Poi
dico similemente lui errare, che puose de la nobilitade falso
subietto, cioè "antica ricchezza", e poi procedette a
"defettiva forma", o vero differenza, cioè "belli
costumi", che non comprendono ogni formalitade di nobilitade,
ma molto picciola parte, sì come di sotto si mostrerà. E non è
da lasciare, tutto che 'l testo si taccia, che messere lo
Imperadore in questa parte non errò pur ne le parti de la
diffinizione, ma eziandio nel modo di diffinire, avvegna che,
secondo la fama che di lui grida, elli fosse loico e clerico
grande: ché la diffinizione de la nobilitade più degnamente si
farebbe da li effetti che da' principii, con ciò sia cosa che
essa paia avere ragione di principio, che non si può notificare
per cose prime, ma per posteriori. Poi quando dico: Ché le
divizie, sì come si crede, mostro come elle non possono
causare nobilitade, perché sono vili; e mostro quelle non
poterla torre, perché son disgiunte molto da nobilitade. E
pruovo quelle essere vili per uno loro massimo e manifestissimo
difetto; e questo fo quando dico: Che siano vili appare.
Ultimamente conchiudo, per virtù di quello che detto è di sopra,
l'animo diritto non mutarsi per loro transmutazione; che è
pruova di quello che detto è di sopra, quelle essere da
nobilitade disgiunte, per non seguire l'effetto de la
congiunzione. Ove è da sapere che, sì come vuole lo Filosofo,
tutte le cose che fanno alcuna cosa, conviene essere prima quelle
perfettamente in quello essere; onde dice nel settimo de la
Metafisica: "Quando una cosa si genera da un'altra, generasi
di quella, essendo in quello essere". Ancora è da sapere
che ogni cosa che si corrompe, sì si corrompe, precedente alcuna
alterazione, e ogni cosa che è alterata conviene essere
congiunta con l'alterante cagione, sì come vuole lo Filosofo nel
settimo de la Fisica e nel primo De Generatione. Queste cose
proposte, così procedo, e dico che le divizie, come altri credea,
non possono dare nobilitade; e a mostrare maggiore diversitade
avere con quella, dico che non la possono torre a chi l'ha. Dare
non la possono, con ciò sia cosa che naturalmente siano vili, e
per la viltade siano contrarie a la nobilitade. E qui s'intende
viltade per degenerazione, la quale a la nobilitade s'oppone; con
ciò sia cosa che l'uno contrario non sia fattore de l'altro né
possa essere, per la prenarrata cagione la quale brevemente s'aggiugne
al testo, dicendo: Poi chi pinge figura. Onde nullo
dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non
si facesse prima tale, quale la figura essere dee. Ancora torre
non la possono, però che da lungi sono di nobilitade, e per la
ragione prenarrata che ciò che altera o corrompe alcuna cosa
convegna essere congiunto con quella. E però soggiugne: Né
la diritta torre Fa piegar rivo che da lungi corre; che non
vuole altro dire, se non rispondere a ciò che detto è dinanzi,
che le divizie non possono torre nobilitade, dicendo quasi quella
nobilitade essere torre diritta, e le divizie fiume da lungi
corrente.
Capitolo XI
Resta omai solamente a provare come le divizie sono vili, e come
disgiunte sono e lontane da nobilitade; e ciò si pruova in due
particulette del testo, a le quali si conviene al presente
intendere. E poi quelle esposte, sarà manifesto ciò che detto
ho, cioè le divizie essere vili e lontane da nobilitade; e per
questo saranno le ragioni di sopra contra le divizie
perfettamente provate. Dico adunque: Che siano vili appare ed
imperfette. E a manifestare ciò che dire s'intende, è da
sapere che la viltade di ciascuna cosa da la imperfezione di
quella si prende, e così la nobilitade da la perfezione: onde
tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile;
quanto imperfetta, tanto vile. E però se le divizie sono
imperfette, manifesto è che siano vili. E che elle siano
imperfette, brievemente pruova lo testo quando dice: Ché,
quantunque collette, Non posson quietar, ma dan più cura; in
che non solamente la loro imperfezione è manifesta, ma la loro
condizione essere imperfettissima, e però essere quelle
vilissime. E ciò testimonia Lucano, quando dice, a quelle
parlando: "Sanza contenzione periro le leggi; e voi
ricchezze, vilissima parte de le cose, moveste battaglia".
Puotesi brevemente la loro imperfezione in tre cose vedere
apertamente: e prima, ne lo indiscreto loro avvenimento;
secondamente, nel pericoloso loro accrescimento; terziamente, ne
la dannosa loro possessione. E prima ch'io ciò dimostri, è da
dichiarare un dubbio che pare consurgere: che, con ciò sia cosa
che l'oro, le margherite e li campi perfettamente forma e atto
abbiano in loro essere, non pare vero dicere che siano imperfette.
E però si vuole sapere che, quanto è per esse in loro
considerate, cose perfette sono, e non sono ricchezze, ma oro e
margherite; ma in quanto sono ordinate a la possessione de l'uomo,
sono ricchezze, e per questo modo sono piene d'imperfezione. Ché
non è inconveniente una cosa, secondo diversi rispetti, essere
perfetta e imperfetta.
Dico che la loro
imperfezione primamente si può notare ne la indiscrezione del
loro avvenimento, nel quale nulla distributiva giustizia
risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale iniquitade
è proprio effetto d'imperfezione. Che se si considerano li modi
per li quali esse vegnono, tutti si possono in tre maniere
ricogliere: ché o vegnono da pura fortuna, sì come quando sanza
intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna non pensata;
o vegnono da fortuna che è da ragione aiutata, sì come per
testamenti o per mutua successione; o vegnono da fortuna
aiutatrice di ragione, sì come quando per licito o per illicito
procaccio: licito dico, quando è per arte o per mercatantia o
per servigio meritante; illicito dico, quando è per furto o per
rapina. E in ciascuno di questi tre modi si vede quella
iniquitade che io dico, ché più volte a li malvagi che a li
buoni le celate ricchezze che si truovano o che si ritruovano si
rappresentano; e questo è sì manifesto, che non ha mestiere di
pruova. Veramente io vidi lo luogo, ne le coste d'un monte che si
chiama Falterona, in Toscana, dove lo più vile villano di tutta
la contrada, zappando, più d'uno staio di santalene d'argento
finissimo vi trovò, che forse più di dumilia anni l'aveano
aspettato. E per vedere questa iniquitade, disse Aristotile che
"quanto l'uomo più subiace a lo 'ntelletto, tanto meno
subiace a la fortuna". E dico che più volte a li malvagi
che a li buoni pervegnono li retaggi, legati e caduti; e di ciò
non voglio recare innanzi alcuna testimonianza, ma ciascuno volga
li occhi per la sua vicinanza, e vedrà quello che io mi taccio
per non abominare alcuno. Così fosse piaciuto a Dio che quello
che addomandò lo Provenzale fosse stato, che chi non è reda de
la bontade perdesse lo retaggio de l'avere! E dico che più volte
a li malvagi che a li buoni pervegnono a punto li procacci; ché
li non liciti a li buoni mai non pervegnono, però che li
rifiutano. E quale buono uomo mai per forza o per fraude
procaccerà? Impossibile sarebbe ciò, ché solo per la elezione
de la illicita impresa più buono non sarebbe. E li liciti rade
volte pervegnono a li buoni, perché, con ciò sia cosa che molta
sollicitudine quivi si richeggia, e la sollicitudine del buono
sia diritta a maggiori cose, rade volte sofficientemente quivi lo
buono è sollicito. Per che è manifesto in ciascuno modo quelle
ricchezze iniquamente avvenire; e però Nostro Segnore inique le
chiamò, quando disse: "Fatevi amici de la pecunia de la
iniquitade", invitando e confortando li uomini a
liberalitade di benefici, che sono generatori d'amici. E quanto
fa bello cambio chi di queste imperfettissime cose dà per avere
e per acquistare cose perfette, sì come li cuori de' valenti
uomini! Lo cambio ogni die si può fare. Certo nuova mercatantia
è questa de l'altre, che, credendo comperare uno uomo per lo
beneficio, mille e mille ne sono comperati. E cui non è ancora
nel cuore Alessandro per li suoi reali benefici? Cui non è
ancora lo buono re di Castella, o il Saladino, o il buono
Marchese di Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo
dal Bornio, o Galasso di Montefeltro? Quando de le loro messioni
si fa menzione, certo non solamente quelli che ciò farebbero
volentieri, ma quelli prima morire vorrebbero che ciò fare,
amore hanno a la memoria di costoro.
Capitolo XII
Come detto è, la imperfezione de le ricchezze non solamente nel
loro avvenimento si può comprendere, ma eziandio nel pericoloso
loro accrescimento; e però che in ciò più si può vedere di
loro difetto, solo di questo fa menzione lo testo, dicendo quelle,
quantunque collette, non solamente non quietare, ma dare
più sete e rendere altri più defettivo e insufficiente. E qui
si vuole sapere che le cose defettive possono aver li loro
difetti per modo, che ne la prima faccia non paiono, ma sotto
pretesto di perfezione la imperfezione si nasconde; e possono
avere quelli sì, che del tutto sono discoperti, sì che
apertamente ne la prima faccia si conosce la imperfezione. E
quelle cose che prima non mostrano li loro difetti sono più
pericolose, però che di loro molte fiate prendere guardia non si
può; sì come vedemo nel traditore, che ne la faccia dinanzi si
mostra amico, sì che fa di sé fede avere, e sotto pretesto d'amistade
chiude lo difetto de la inimistade. E per questo modo le
ricchezze pericolosamente nel loro accrescimento sono imperfette,
che, sommettendo ciò che promettono, apportano lo contrario.
Promettono le false traditrici sempre, in certo numero adunate,
rendere lo raunatore pieno d'ogni appagamento; e con questa
promissione conducono l'umana volontade in vizio d'avarizia. E
per questo le chiama Boezio, in quello De Consolatione,
pericolose, dicendo: "Ohmè! chi fu quel primo che li pesi
de l'oro coperto e le pietre che si voleano ascondere, preziosi
pericoli, cavoe?". Promettono le false traditrici, se bene
si guarda, di torre ogni sete e ogni mancanza, e apportare ogni
saziamento e bastanza; e questo fanno nel principio a ciascuno
uomo, questa promissione in certa quantità di loro accrescimento
affermando: e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e
di refrigerio danno e recano sete di casso febricante
intollerabile; e in loco di bastanza recano nuovo termine, cioè
maggiore quantitade a desiderio, e, con questa, paura grande e
sollicitudine sopra l'acquisto. Sì che veramente non quietano,
ma più danno cura, la qual prima sanza loro non si avea. E però
dice Tullio in quello De Paradoxo, abominando le ricchezze:
"Io in nullo tempo per fermo né le pecunie di costoro, né
le magioni magnifiche, né le ricchezze, né le signorie, né l'allegrezze
de le quali massimamente sono astretti, tra cose buone o
desiderabili esser dissi; con ciò sia cosa che certo io vedesse
li uomini ne l'abondanza di queste cose massimamente desiderare
quelle di che abondano. Però che in nullo tempo si compie né si
sazia la sete de la cupiditate; né solamente per desiderio d'accrescere
quelle cose che hanno si tormentano, ma eziandio tormento hanno
ne la paura di perdere quelle". E queste tutte parole sono
di Tullio, e così giacciono in quello libro che detto è. E a
maggiore testimonianza di questa imperfezione, ecco Boezio in
quello De Consolatione dicente: "Se quanta rena volve lo
mare turbato dal vento, se quante stelle rilucono, la dea de la
ricchezza largisca, l'umana generazione non cesserà di piangere".
E perché più testimonianza, a ciò ridurre per pruova, si
conviene, lascisi stare quanto contra esse Salomone e suo padre
grida; quanto contra esse Seneca, massimamente a Lucillo
scrivendo; quanto Orazio, quanto Iuvenale e, brievemente, quanto
ogni scrittore, ogni poeta; e quanto la verace Scrittura divina
chiama contra queste false meretrici, piene di tutti defetti; e
pongasi mente, per avere oculata fede, pur a la vita di coloro
che dietro a esse vanno, come vivono sicuri quando di quelle
hanno raunate, come s'appagano, come si riposano. E che altro
cotidianamente pericola e uccide le cittadi, le contrade, le
singulari persone, tanto quanto lo nuovo raunamento d'avere appo
alcuno? Lo quale raunamento nuovi desiderii discuopre, a lo fine
de li quali sanza ingiuria d'alcuno venire non si può. E che
altro intende di meditare l'una e l'altra Ragione, Canonica dico
e Civile, tanto quanto a riparare a la cupiditade che, raunando
ricchezze, cresce? Certo assai lo manifesta e l'una e l'altra
Ragione, se li loro cominciamenti, dico de la loro scrittura, si
leggono. Oh com'è manifesto, anzi manifestissimo, quelle in
accrescendo essere del tutto imperfette, quando di loro altro che
imperfezione nascere non può, quanto che accolte siano! E questo
è quello che lo testo dice.
Veramente qui
surge in dubbio una questione, da non trapassare sanza farla e
rispondere a quella. Potrebbe dire alcuno calunniatore de la
veritade che se, per crescere desiderio acquistando, le ricchezze
sono imperfette e però vili, che per questa ragione sia
imperfetta e vile la scienza, ne l'acquisto de la quale sempre
cresce lo desiderio di quella; onde Seneca dice: "Se l'uno
de li piedi avesse nel sepulcro, apprendere vorrei". Ma non
è vero che la scienza sia vile per imperfezione: dunque, per la
distruzione del consequente, lo crescere desiderio non è cagione
di viltade a le ricchezze. Che sia perfetta, è manifesto per lo
Filosofo nel sesto de l'Etica, che dice la scienza essere
perfetta ragione di certe cose.
A questa
questione brievemente è da rispondere; ma prima è da vedere se
ne l'acquisto de la scienza lo desiderio si sciampia come ne la
questione si pone, e se sia per ragione. Per che io dico che non
solamente ne l'acquisto de la scienza e de le ricchezze, ma in
ciascuno acquisto l'umano desiderio si sciampia, avvegna che per
altro e altro modo. E la ragione è questa: che lo sommo
desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo
ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le
nostre anime e fattore di quelle simili a sé (sì come è
scritto: "Facciamo l'uomo ad imagine e similitudine nostra"),
essa anima massimamente desidera di tornare a quello. E sì come
peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni
casa che da lungi vede crede che sia l'albergo, e non trovando
ciò essere, dirizza la credenza a l'altra, e così di casa in
casa, tanto che a l'albergo viene; così l'anima nostra,
incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita
entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però,
qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che
sia esso. E perché la sua conoscenza prima è imperfetta, per
non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi,
e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li
parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo,
desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel
vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza
non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché
in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela
trovare più oltre. Per che vedere si può che l'uno desiderabile
sta dinanzi a l'altro a li occhi de la nostra anima per modo
quasi piramidale, che 'l minimo li cuopre prima tutti, ed è
quasi punta de l'ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di
tutti. Sì che, quanto da la punta ver la base più si procede,
maggiori appariscono li desiderabili; e questa è la ragione per
che, acquistando, li desiderii umani si fanno più ampii, l'uno
appresso de l'altro. Veramente così questo cammino si perde per
errore come le strade de la terra. Che sì come d'una cittade a
un'altra di necessitade è una ottima e dirittissima via, e un'altra
che sempre se ne dilunga (cioè quella che va ne l'altra parte),
e molte altre quale meno allungandosi e quale meno appressandosi,
così ne la vita umana sono diversi cammini, de li quali uno è
veracissimo e un altro è fallacissimo, e certi meno fallaci e
certi meno veraci. E sì come vedemo che quello che dirittissimo
vae a la cittade, e compie lo desiderio e dà posa dopo la fatica,
e quello che va in contrario mai nol compie e mai posa dare non
può, così ne la nostra vita avviene: lo buono camminatore
giugne a termine e a posa; lo erroneo mai non l'aggiugne, ma con
molta fatica del suo animo sempre con li occhi gulosi si mira
innanzi. Onde avvegna che questa ragione del tutto non risponda a
la questione mossa di sopra, almeno apre la via a la risposta,
ché fa vedere non andare ogni nostro desiderio dilatandosi per
uno modo. Ma perché questo capitolo è alquanto produtto, in
capitolo nuovo a la questione è da rispondere, nel quale sia
terminata tutta la disputazione che fare s'intende al presente
contra le ricchezze.
Capitolo XIII
A la questione rispondendo, dico che propriamente crescere lo
desiderio de la scienza dire non si può, avvegna che, come detto
è, per alcuno modo si dilati. Ché quello che propriamente
cresce, sempre è uno: lo desiderio de la scienza non è sempre
uno, ma è molti, e finito l'uno, viene l'altro; sì che,
propriamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma
successione di picciola cosa in grande cosa. Che se io desidero
di sapere li principii de le cose naturali, incontanente che io
so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io
desidero di sapere che cosa e com'è ciascuno di questi principii,
questo è un altro desiderio nuovo, né per l'avvenimento di
questo non mi si toglie la perfezione a la quale mi condusse l'altro;
e questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma di
perfezione maggiore. Quello veramente de la ricchezza è
propriamente crescere, ché è sempre pur uno, sì che nulla
successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla
perfezione. E se l'avversario vuol dire che, sì come è altro
desiderio quello di sapere li principii de le cose naturali e
altro di sapere che elli sono, così altro desiderio è quello de
le cento marche e altro è quello de le mille, rispondo che non
è vero; che 'l cento sì è parte del mille, e ha ordine ad esso
come parte d'una linea a tutta linea, su per la quale si procede
per uno moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di
moto in parte alcuna. Ma conoscere che siano li principii de le
cose naturali, e conoscere quello che sia ciascheduno, non è
parte l'uno de l'altro, e hanno ordine insieme come diverse linee,
per le quali non si procede per uno moto, ma, perfetto lo moto de
l'una, succede lo moto de l'altra. E così appare che, dal
desiderio de la scienza, la scienza non è da dire imperfetta,
sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la questione
ponea; ché nel desiderare de la scienza successivamente
finiscono li desiderii e viensi a perfezione, e in quello de la
ricchezza no. Sì che la questione è soluta, e non ha luogo.
Ben puote ancora
calunniare l'avversario dicendo che, avvegna che molti desiderii
si compiano ne lo acquisto de la scienza, mai non si viene a l'ultimo:
che è quasi simile a la 'mperfezione di quello che non si
termina e che è pur uno. Ancora qui si risponde, che non è vero
ciò che si oppone, cioè che mai non si viene a l'ultimo: ché
li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo
trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello
de la scienza è naturale, sì che certo termine quello compie,
avvegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata. E
chi intende lo Commentatore nel terzo de l'Anima, questo intende
da lui. E però dice Aristotile nel decimo de l'Etica, contra
Simonide poeta parlando, che "l'uomo si dee traere a le
divine cose quanto può"; in che mostra che a certo fine
bada la nostra potenza. E nel primo de l'Etica dice che "'l
disciplinato chiede di sapere certezza ne le cose, secondo che ne
la loro natura di certezza si riceva"; in che mostra che non
solamente da la parte de l'uomo desiderante, ma deesi fine
attendere da la parte de lo scibile desiderato. E però Paulo
dice: "Non più sapere che sapere si convegna, ma sapere a
misura". Sì che, per qualunque modo lo desiderare de la
scienza si prende, o generalmente o particularmente, a perfezione
viene. E però la scienza ha perfetta e nobile perfezione, e per
suo desiderio sua perfezione non perde, come le maladette
ricchezze.
Le quali come ne
la loro possessione siano dannose, brievemente è da mostrare,
che è la terza nota de la loro imperfezione. Puotesi vedere la
loro possessione essere dannosa per due ragioni: l'una, che è
cagione di male; l'altra, che è privazione di bene. Cagione è
di male, ché fa, pur vegliando, lo possessore timido e odioso.
Quanta paura è quella di colui che appo sé sente ricchezza, in
camminando, in soggiornando, non pur vegliando ma dormendo, non
pur di perdere l'avere ma la persona per l'avere! Ben lo sanno li
miseri mercatanti che per lo mondo vanno, che le foglie che 'l
vento fa menare, li fa tremare, quando seco ricchezze portano; e
quando sanza esse sono, pieni di sicurtade cantando e sollazzando
fanno loro cammino più brieve. E però dice lo Savio: "Se
voto camminatore entrasse ne lo cammino, dinanzi a li ladroni
canterebbe". E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro,
quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo: "Oh
sicura facultà de la povera vita! oh stretti abitaculi e
masserizie! oh non ancora intese ricchezze de li Iddei! A quali
tempii o a quali muri poteo questo avvenire, cioè non temere con
alcuno tumulto, bussando la mano di Cesare?" E quello dice
Lucano quando ritrae come Cesare di notte a la casetta del
pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano. E quanto
odio è quello che ciascuno al possessore de la ricchezza porta,
o per invidia o per desiderio di prendere quella possessione!
Certo tanto è, che molte volte contra la debita pietade lo
figlio a la morte del padre intende: e di questo grandissime e
manifestissime esperienze possono avere li Latini, e da la parte
di Po e da la parte di Tevero! E però Boezio nel secondo de la
sua Consolazione dice: "Per certo l'avarizia fa li uomini
odiosi".
Anche è
privazione di bene la loro possessione. Ché, possedendo quelle,
larghezza non si fa, che è vertude ne la quale è perfetto bene
e la quale fa li uomini splendienti e amati; che non può essere
possedendo quelle, ma quelle lasciando di possedere. Onde Boezio
nel medesimo libro dice: "Allora è buona la pecunia, quando,
transmutata ne li altri per uso di larghezza, più non si
possiede". Per che assai è manifesto la loro viltade per
tutte le sue note. E però l'uomo di diritto appetito e di vera
conoscenza quelle mai non ama, e, non amandole, non si unisce ad
esse, ma quelle sempre di lungi da sé essere vuole, se non in
quanto ad alcuno necessario servigio sono ordinate. Ed è cosa
ragionevole, però che lo perfetto con lo imperfetto non si può
congiugnere; onde vedemo che la torta linea con la diritta non si
congiunge mai, e se alcuno congiungimento v'è, non è da linea a
linea, ma da punto a punto. E però seguita che l'animo che è diritto,
cioè d'appetito, e verace, cioè di conoscenza, per loro
perdita non si disface; sì come lo testo pone nel fine di questa
parte. E per questo effetto intende di provare lo testo che elle
siano fiume corrente di lungi da la diritta torre de la ragione,
o vero di nobilitade; e per questo, che esse divizie non possono
torre la nobilitade a chi l'ha. E per questo modo disputasi e
ripruovasi contra le ricchezze per la presente canzone.
Capitolo XIV
Riprovato l'altrui errore quanto è in quella parte che a le
ricchezze s'appoggiava, seguita che si riprovi quanto è in
quella parte, che tempo diceva essere cagione di nobilitade,
dicendo antica ricchezza. E questa riprovagione si fa in
quella parte che comincia: Né voglion che vil uom gentil
divegna. E in prima si ripruova ciò per una ragione di
costoro medesimi che così errano; poi, a maggiore loro
confusione, questa loro ragione anche si distrugge: e ciò si fa
quando dice: Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo.
Ultimamente conchiude manifesto essere lo loro errore, e però
essere tempo d'intendere a la veritade: e ciò si fa quando dice:
Perché a 'ntelletti sani.
Dico adunque: Né
voglion che vil uom gentil divegna. Dove è da sapere che
oppinione di questi erranti è che uomo prima villano mai gentile
uomo dicer non si possa; né uomo che figlio sia di villano
similemente dicere mai non si possa gentile. E ciò rompe la loro
sentenza medesima, quando dicono che tempo si richiede a
nobilitade, ponendo questo vocabulo "antico"; però ch'è
impossibile per processo di tempo venire a la generazione di
nobilitade per questa loro ragione che detta è, la quale toglie
via che villano uomo mai possa esser gentile per opera che faccia,
o per alcuno accidente, e toglie via la mutazione di villano
padre in gentile figlio. Che se lo figlio del villano è pur
villano, e lo figlio fia pur figlio di villano e così fia anche
villano, e anche suo figlio, e così sempre, e mai non s'avrà a
trovare là dove nobilitade per processo di tempo si cominci. E
se l'avversario, volendosi difendere, dicesse che la nobilitade
si comincerà in quel tempo che si dimenticherà lo basso stato
de li antecessori, rispondo che ciò ha contra loro medesimi, che
pur di necessitade quivi sarà transmutazione di viltade in
gentilezza, d'un uomo in altro o di padre a figlio, ch'è contra
ciò che essi pongono.
E se l'avversario
pertinacemente si difendesse, dicendo che bene vogliono questa
transmutazione potersi fare quando lo basso stato de li
antecessori corre in oblivione, avvegna che 'l testo ciò non
curi, degno è che la chiosa a ciò risponda. E però rispondo
così: che di ciò che dicono seguitano quattro grandissimi
inconvenienti, sì che buona ragione essere non può. L'uno si è
che quanto la natura umana fosse migliore tanto sarebbe più
malagevole e più tarda generazione di gentilezza; che è massimo
inconveniente, con ciò sia cosa, com'ho notato, che la cosa
quanto è migliore tanto è più cagione di bene; e nobilitade
intra li beni sia commemorata. E che ciò fosse così si pruova.
Se la gentilezza o ver nobilitade, che per una cosa intendo, si
generasse per oblivione, più tosto sarebbe generata la
nobilitade quanto li uomini fossero più smemorati, ché tanto
più tosto ogni oblivione verrebbe. Dunque, quanto li uomini
smemorati più fossero, più tosto sarebbero nobili; e per
contrario, quanto con più buona memoria, tanto più tardi nobili
si farebbero.
Lo secondo si è,
che 'n nulla cosa, fuori de li uomini, questa distinzione si
potrebbe fare, cioè nobile o vile; che è molto inconveniente,
con ciò sia cosa che in ciascuna spezie di cose veggiamo l'imagine
di nobilitade e di viltade: onde spesse volte diciamo uno nobile
cavallo e uno vile, e uno nobile falcone e uno vile, e una nobile
margherita e una vile. E che non si potesse fare questa
distinzione, così si pruova. Se l'oblivione de li bassi
antecessori è cagione di nobilitade, e là ovunque bassezza d'antecessori
mai non fu, non può essere l'oblivione di quelli - con ciò sia
cosa che l'oblivione sia corruzione di memoria, e in questi altri
animali e piante e minere bassezza e altezza non si noti, però
che in uno sono naturati solamente ed iguale stato -, in loro
generazione di nobilitade essere non può; e così né viltade,
con ciò sia cosa che l'una e l'altra si guardi come abito e
privazione, che sono ad uno medesimo subietto possibili; e però
in loro de l'una e de l'altra non potrebbe essere distinzione. E
se l'avversario volesse dicere che ne l'altre cose nobilità s'intende
per la bontà de la cosa, ma ne li uomini s'intende perché di
sua bassa condizione non è memoria, rispondere si vorrebbe non
con le parole ma col coltello a tanta bestialitade, quanta è
dare a la nobilitade de l'altre cose bontade per cagione, e a
quella de li uomini principio di dimenticanza.
Lo terzo si è
che molte volte verrebbe prima lo generato che lo generante; che
è del tutto impossibile; e ciò si può così mostrare. Pognamo
che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano
che mai bevesse del Sile o del Cagnano, e la oblivione ancora non
fosse del suo avolo venuta: chi sarà oso di dire che Gherardo da
Cammino fosse vile uomo? e chi non parlerà meco, dicendo quello
essere stato nobile? Certo nullo, quanto vuole sia presuntuoso,
però che egli fu, e fia sempre la sua memoria. E se la oblivione
del suo basso antecessore non fosse venuta, sì come si suppone,
ed ello fosse grande di nobilitade e la nobilitade in lui si
vedesse così apertamente come aperta si vede, prima sarebbe
stata in lui che 'l generante suo fosse stato: e questo è
massimamente impossibile.
Lo quarto si è
che tale uomo sarebbe tenuto nobile morto che non fu nobile vivo;
che più inconveniente essere non potrebbe; e ciò così si
mostra. Pognamo che ne la etade di Dardano de' suoi antecessori
bassi fosse memoria, e pognamo che ne la etade di Laomedonte
questa memoria fosse disfatta, e venuta l'oblivione. Secondo l'oppinione
avversa, Laomedonte fu gentile e Dardano fu villano in loro vita.
Noi, a li quali la memoria de li loro anticessori, dico di là da
Dardano, anche non è rimasa, dir dovremmo che Dardano vivendo
fosse villano e morto sia nobile. E non è contro a ciò, che si
dice Dardano esser stato figlio di Giove, ché ciò è favola, de
la quale, filosoficamente disputando, curare non si dee; e pur se
volesse a la favola fermare l'avversario, di certo quello che la
favola cuopre disfà tutte le sue ragioni. E così è manifesto,
la ragione che ponea la oblivione causa di nobilitade essere
falsa ed erronea.
Capitolo XV
Da poi che, per la loro medesima sentenza, la canzone ha
riprovato tempo non richiedersi a nobilitade, incontanente
seguita a confondere la premessa loro oppinione, acciò che di
loro false ragioni nulla ruggine rimagna ne la mente che a la
verità sia disposta; e questo fa quando dice: Ancor, segue di
ciò che innanzi ho messo. Ove è da sapere che, se uomo non
si può fare di villano gentile o di vile padre non può nascere
gentile figlio, sì come messo è dinanzi per loro oppinione, che
de li due inconvenienti l'uno seguire conviene: l'uno sì è che
nulla nobilitade sia; l'altro sì è che 'l mondo sempre sia
stato con più uomini, sì che da uno solo la umana generazione
discesa non sia. E ciò si può mostrare. Se nobilitade non si
genera di nuovo, sì come più volte è detto che la loro
oppinione vuole (non generandosi di vile uomo in lui medesimo,
né di vile padre in figlio), sempre è l'uomo tale quale nasce,
e tale nasce quale è lo padre; e così questo processo d'una
condizione è venuto infino dal primo parente: per che tale quale
fu lo primo generante, cioè Adamo, conviene essere tutta l'umana
generazione, ché da lui a li moderni non si puote trovare per
quella ragione alcuna transmutanza. Dunque, se esso Adamo fu
nobile, tutti siamo nobili, e se esso fu vile, tutti siamo vili;
che non è altro che torre via la distinzione di queste
condizioni, e così è torre via quelle. E questo dice, che di
quello ch'è messo dinanzi seguita che siam tutti gentili o ver
villani. E se questo non è, e pur alcuna gente è da dire nobile
e alcuna è da dir vile, di necessitade, da poi che la
transmutazione di viltade in nobilitade è tolta via, conviene l'umana
generazione da diversi principii essere discesa cioè da uno
nobile e da uno vile. E ciò dice la canzone, quando dice: O
che non fosse ad uom cominciamento, cioè uno solo: non dice
"cominciamenti". E questo è falsissimo appo lo
Filosofo, appo la nostra Fede che mentire non puote, appo la
legge e credenza antica de li Gentili. Ché, avvegna che 'l
Filosofo non pogna lo processo da uno primo uomo, pur vuole una
sola essenza essere in tutti li uomini, la quale diversi
principii avere non puote; e Plato vuole che tutti li uomini da
una sola Idea dependano, e non da più, che è dare loro uno solo
principio. E sanza dubbio forte riderebbe Aristotile udendo fare
spezie due de l'umana generazione, sì come de li cavalli e de li
asini; che, perdonimi Aristotile, asini ben si possono dire
coloro che così pensano. Che appo la nostra fede, la quale del
tutto è da conservare, sia falsissimo, per Salomone si manifesta,
che là dove distinzione fa di tutti li uomini a li animali bruti,
chiama quelli tutti figli d'Adamo; e ciò fa quando dice: "Chi
sa se li spiriti de li figliuoli d'Adamo vadano suso, e quelli de
le bestie vadano giuso?". E che appo li Gentili falso fosse,
ecco la testimonianza d'Ovidio nel primo del suo Metamorfoseos,
dove tratta la mondiale constituzione secondo la credenza pagana,
o vero de li Gentili, dicendo: "Nato è l'uomo" - non
disse "li uomini"; disse "nato" e "l'uomo"
-, "o vero che questo l'artefice de le cose di seme divino
fece, o vero che la recente terra, di poco dipartita dal nobile
corpo sottile e diafano, li semi del cognato cielo ritenea. La
quale, mista con l'acqua del fiume, lo figlio di Iapeto, cioè
Prometeus, compuose in imagine de li Dei, che tutto governano".
Dove manifestamente pone lo primo uomo uno solo essere stato. E
però dice la canzone: Ma ciò io non consento, cioè che
cominciamento ad uomo non fosse. E soggiugne la canzone: Ned
ellino altressì, se son cristiani: e dice "cristiani"
e non "filosofi" o vero "Gentili", de li
quali le sentenze anco non sono in contro, però che la cristiana
sentenza è di maggiore vigore, ed è rompitrice d'ogni calunnia
mercé de la somma luce del cielo che quella allumina.
Poi quando dico:
Per che a 'ntelletti sani È manifesto i lor diri esser vani,
conchiudo lo loro errore essere confuso, e dico che tempo è d'aprire
li occhi a la veritade; questo dice quando dico: E dicer voglio
omai, sì com'io sento. Dico adunque che, per quello che detto è,
è manifesto a li sani intelletti che i detti di costoro sono
vani, cioè sanza midolla di veritade. E dico sani non sanza
cagione. Onde è da sapere che lo nostro intelletto si può dir
sano e infermo: e dico intelletto per la nobile parte de l'anima
nostra, che con uno vocabulo "mente" si può chiamare.
Sano dire si può, quando per malizia d'animo o di corpo impedito
non è ne la sua operazione; che è conoscere quello che le cose
sono, sì come vuole Aristotile nel terzo de l'Anima. Ché,
secondo la malizia de l'anima, tre orribili infermitadi ne la
mente de li uomini ho vedute. L'una è di naturale jattanza
causata: ché sono molti tanto presuntuosi, che si credono tutto
sapere, e per questo le non certe cose affermano per certe; lo
qual vizio Tullio massimamente abomina nel primo de li Offici e
Tommaso nel suo ContraliGentili dicendo: "Sono molti tanto
di suo ingegno presuntuosi, che credono col suo intelletto poter
misurare tutte le cose, estimando tutto vero quello che a loro
pare, falso quello che a loro non pare". E quinci nasce che
mai a dottrina non vegnono; credendo da sé sufficientemente
essere dottrinati, mai non domandano, mai non ascoltano, disiano
essere domandati e, anzi la domandagione compiuta, male
rispondono. E per costoro dice Salomone ne li Proverbii: "Vedesti
l'uomo ratto a rispondere? di lui stoltezza, più che correzione,
è da sperare". L'altra è di naturale pusillanimitade
causata: ché sono molti tanto vilmente ostinati, che non possono
credere che né per loro né per altrui si possano le cose sapere;
e questi cotali mai per loro non cercano né ragionano, mai
quello che altri dice non curano. E contra costoro Aristotile
parla nel primo de l'Etica, dicendo quelli essere insufficienti
uditori de la morale filosofia. Costoro sempre come bestie in
grossezza vivono, d'ogni dottrina disperati. La terza è da
levitade di natura causata: ché sono molti di sì lieve fantasia
che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino
hanno conchiuso, e di quella conclusione vanno transvolando ne l'altra,
e pare loro sottilissimamente argomentare, e non si muovono da
neuno principio, e nulla cosa veramente veggiono vera nel loro
imaginare. E di costoro dice lo Filosofo che non è da curare né
da avere con essi faccenda, dicendo nel primo de la Fisica, che
"contra quelli che niega li principii disputare non si
conviene". E di questi cotali sono molti idioti che non
saprebbero l'a.b.c., e vorrebbero disputare in geometria, in
astrologia e in fisica.
E secondo
malizia, o vero difetto di corpo, può essere la mente non sana:
quando per difetto d'alcuno principio da la nativitade, sì come
ne' mentecatti; quando per l'alterazione del cerebro, sì come
sono frenetici. E di questa infertade de la mente intende la
legge, quando lo Inforzato dice: "In colui che fa testamento,
di quel tempo nel quale lo testamento fa, sanitade di mente, non
di corpo, è a domandare". Per che a quelli intelletti che
per malizia d'animo o di corpo infermi non sono, liberi, espediti
e sani a la luce de la veritade, dico essere manifesto l'oppinione
de la gente, che detto è, essere vana, cioè sanza valore.
Appresso
soggiugne, che io così li giudico falsi e vani, e così li
ripruovo; e ciò si fa quando si dice: E io così per falsi li
riprovo. E appresso dico che da venire è a la veritade
mostrare; e dico che mostrare è quello, cioè che cosa è
gentilezza, e come si può conoscere l'uomo in cui essa è. E
ciò dico quivi: E dicer voglio omai, sì com'io sento.
Capitolo XVI
"Lo rege si letificherà in Dio, e saranno lodati tutti
quelli che giurano in lui, però che serrata è la bocca di
coloro che parlano le inique cose". Queste parole posso io
qui veramente proponere; però che ciascuno vero rege dee
massimamente amare la veritade. Ond'è scritto nel libro di
Sapienza: "Amate lo lume di sapienza, voi che siete dinanzi
a li populi"; e lume di sapienza è essa veritade. Dico
adunque che però si rallegrerà ogni rege che riprovata è la
falsissima e dannosissima oppinione de li malvagi e ingannati
uomini che di nobilitade hanno infino a ora iniquamente parlato.
Convienesi
procedere al trattato de la veritade, secondo la divisione fatta
nel terzo capitolo di questo trattato. Questa seconda parte
adunque, che comincia: Dico ch'ogni vertù principalmente,
intende diterminare d'essa nobilitade secondo la veritade; e
partesi questa parte in due: che ne la prima s'intende mostrare
che è questa nobilitade; ne la seconda s'intende mostrare come
conoscere si puote colui dov'ella è: e comincia questa parte
seconda: L'anima cui adorna esta bontate. La prima parte
ha due parti ancora: che ne la prima si cercano certe cose che
sono mestiere a veder la diffinizione di nobilitade; ne la
seconda si cerca de la sua diffinizione: e comincia questa
seconda parte: È gentilezza dovunqu'è vertute.
A perfettamente
entrare per lo trattato è prima da vedere due cose: l'una, che
per questo vocabulo "nobilitade" s'intende, solo
semplicemente considerato; l'altra è per che via sia da
camminare a cercare la prenominata diffinizione. Dico adunque che,
se volemo riguardo avere de la comune consuetudine di parlare,
per questo vocabulo "nobilitade" s'intende perfezione
di propria natura in ciascuna cosa. Onde non pur de l'uomo è
predicata, ma eziandio di tutte cose - ché l'uomo chiama nobile
pietra, nobile pianta, nobile cavallo, nobile falcone - qualunque
in sua natura si vede essere perfetta. E però dice Salomone ne
lo Ecclesiastes: "Beata la terra lo cui re è nobile",
che non è altro a dire, se non lo cui rege è perfetto, secondo
la perfezione de l'animo e del corpo; e così manifesta per
quello che dice dinanzi quando dice: "Guai a te, terra, lo
cui rege è pargolo", cioè non perfetto uomo: e non è
pargolo uomo pur per etade, ma per costumi disordinati e per
difetto di vita, sì come n'ammaestra lo Filosofo nel primo de l'Etica.
Bene sono alquanti folli che credono che per questo vocabulo
"nobile" s'intenda "essere da molti nominato e
conosciuto", e dicono che viene da uno verbo che sta per
conoscere, cioè "nosco". E questo è falsissimo; ché,
se ciò fosse, quali cose più fossero nomate e conosciute in
loro genere, più sarebbero in loro genere nobili: e così la
guglia di San Piero sarebbe la più nobile pietra del mondo; e
Asdente, lo calzolaio da Parma, sarebbe più nobile che alcuno
suo cittadino; e Albuino de la Scala sarebbe più nobile che
Guido da Castello di Reggio: che ciascuna di queste cose è
falsissima. E però è falsissimo che "nobile" vegna da
"conoscere", ma viene da "non vile"; onde
"nobile" è quasi "non vile". Questa
perfezione intende lo Filosofo nel settimo de la Fisica quando
dice: "Ciascuna cosa è massimamente perfetta quando tocca e
aggiugne la sua virtude propria, e allora è massimamente secondo
sua natura; onde allora lo circulo si può dicere perfetto quando
veramente è circulo", cioè quando aggiugne la sua propria
virtude; e allora è in tutta sua natura, e allora si può dire
nobile circulo. E questo è quando in esso è uno punto lo quale
equalmente distante sia da la circunferenza, sua virtute
particulare; però lo circulo che ha figura d'uovo non è nobile,
né quello che ha figura di presso che piena luna, però che non
è in quello sua natura perfetta. E così manifestamente vedere
si può che generalmente questo vocabulo, cioè nobilitade, dice
in tutte cose perfezione di loro natura: e questo è quello che
primamente si cerca, per meglio entrare nel trattato de la parte
che esponere s'intende.
Secondamente è
da vedere come da camminare è a trovare la diffinizione de l'umana
nobilitade, a la quale intende lo presente processo. Dico adunque
che, con ciò sia cosa che in quelle cose che sono d'una spezie,
sì come sono tutti li uomini, non si può per li principii
essenziali la loro ottima perfezione diffinire, conviensi quella
e diffinire e conoscere per li loro effetti. E però si legge nel
Vangelio di santo Matteo - quando dice Cristo: "Guardatevi
da li falsi profeti" -: "A li frutti loro conoscerete
quelli". E per lo cammino diritto è da vedere, questa
diffinizione che cercando si vae, per li frutti: che sono morali
vertù e intellettuali, de le quali essa nostra nobilitade è
seme, sì come ne la sua diffinizione sarà pienamente manifesto.
E queste sono quelle due cose che vedere si convenia prima che ad
altre si procedesse, sì come in questo capitolo di sopra si dice.
Capitolo XVII
Appresso che vedute sono quelle due cose che parevano utili a
vedere prima che sopra lo testo si procedesse, ad esso esponere
è da procedere. E dice e comincia adunque: Dico ch'ogni
vertù principalmente Vien da una radice: Vertute, dico, che fa l'uom
felice In sua operazione. E soggiungo: Questo è, secondo
che l'Etica dice, Un abito eligente, ponendo tutta la
diffinizione de la morale virtù, secondo che nel secondo de l'Etica
è per lo Filosofo diffinito. In che due cose principalmente s'intende:
l'una è che ogni vertù vegna d'uno principio; l'altra sì è
che queste ogni vertù siano le vertù morali, di cui si parla; e
ciò si manifesta quando dice: Questo è, secondo che l'Etica
dice. Dove è da sapere che propiissimi nostri frutti sono le
morali vertudi, però che da ogni canto sono in nostra podestade.
E queste diversamente da diversi filosofi sono distinte e
numerate; ma però che in quella parte dove aperse la bocca la
divina sentenza d'Aristotile da lasciare mi pare ogni altrui
sentenza, volendo dire quali queste sono, brevemente secondo la
sua sentenza trapasserò di quelle ragionando.
Queste sono
undici vertudi dal detto Filosofo nomate. La prima si chiama
Fortezza, la quale è arme e freno a moderare l'audacia e la
timiditate nostra, ne le cose che sono corruzione de la nostra
vita. La seconda è Temperanza, che è regola e freno de la
nostra gulositade e de la nostra soperchievole astinenza ne le
cose che conservano la nostra vita. La terza si è Liberalitade,
la quale è moderatrice del nostro dare e del nostro ricevere le
cose temporali. La quarta si è Magnificenza, la quale è
moderatrice de le grandi spese, quelle facendo e sostenendo a
certo termine. La quinta si è Magnanimitade, la quale è
moderatrice e acquistatrice de' grandi onori e fama. La sesta si
è Amativa d'onore, la quale è moderatrice e ordina noi a li
onori di questo mondo. La settima si è Mansuetudine, la quale
modera la nostra ira e la nostra troppa pazienza contra li nostri
mali esteriori. L'ottava si è Affabilitade, la quale fa noi ben
convenire con li altri. La nona si è chiamata Veritade, la quale
modera noi dal vantare noi oltre che siamo e da lo diminuire noi
oltre che siamo, in nostro sermone. La decima si è chiamata
Eutrapelia, la quale modera noi ne li sollazzi facendo, quelli
usando debitamente. L'undecima si è Giustizia, la quale ordina
noi ad amare e operare dirittura in tutte cose. E ciascuna di
queste vertudi ha due inimici collaterali, cioè vizii, uno in
troppo e un altro in poco; e queste tutte sono li mezzi intra
quelli, e nascono tutte da uno principio, cioè da l'abito de la
nostra buona elezione: onde generalmente si può dicere di tutte
che siano abito elettivo consistente nel mezzo. E queste sono
quelle che fanno l'uomo beato, o vero felice, ne la loro
operazione, sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica quando
diffinisce la Felicitade, dicendo che "Felicitade è
operazione secondo virtude in vita perfetta". Bene si pone
Prudenza, cioè senno, per molti, essere morale virtude, ma
Aristotile dinumera quella intra le intellettuali; avvegna che
essa sia conduttrice de le morali virtù e mostri la via per ch'elle
si compongono e sanza quella essere non possono.
Veramente è da
sapere che noi potemo avere in questa vita due felicitadi,
secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che a ciò ne menano:
l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa; la quale,
avvegna che per l'attiva si pervegna, come detto è, a buona
felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine, secondo
che pruova lo Filosofo nel decimo de l'Etica. E Cristo l'afferma
con la sua bocca, nel Vangelio di Luca, parlando a Marta, e
rispondendo a quella: "Marta, Marta, sollicita se' e turbiti
intorno a molte cose: certamente una cosa è necessaria",
cioè "quello che fai". E soggiugne: "Maria ottima
parte ha eletta, la quale non le sarà tolta". E Maria,
secondo che dinanzi è scritto a queste parole del Vangelio, a'
piedi di Cristo sedendo, nulla cura del ministerio de la casa
mostrava; ma solamente le parole del Salvatore ascoltava. Che se
moralemente ciò volemo esponere, volse lo nostro Segnore in ciò
mostrare che la contemplativa vita fosse ottima, tutto che buona
fosse l'attiva: ciò è manifesto a chi ben vuole porre mente a
le evangeliche parole. Potrebbe alcuno però dire, contra me
argomentando: "Poiché la felicitade de la vita
contemplativa è più eccellente che quella de l'attiva, e l'una
e l'altra possa essere e sia frutto e fine di nobilitade, perché
non anzi si procedette per la via de le virtù intellettuali che
de le morali?" A ciò si può brievemente rispondere che in
ciascuna dottrina si dee avere rispetto a la facultà del
discente, e per quella via menarlo che più a lui sia lieve. Onde,
perciò che le virtù morali paiano essere e siano più comuni e
più sapute e più richieste che l'altre e imitate ne lo aspetto
di fuori, utile e convenevole fu più per quello cammino
procedere che per l'altro; ché così bene non si verrebbe a la
conoscenza de le api per lo frutto de la cera ragionando come per
lo frutto del mele, tutto che l'uno e l'altro da loro procede.
Capitolo XVIII
Nel precedente capitolo è diterminato come ogni vertù morale
viene da uno principio, cioè buona e abituale elezione; e ciò
importa lo testo presente infino a quella parte che comincia: Dico
che nobiltate in sua ragione. In questa parte adunque si
procede per via probabile a sapere che ogni sopra detta virtude,
singularmente o ver generalmente presa, proceda da nobilitade sì
come effetto da sua cagione. E fondasi sopra una proposizione
filosofica, che dice che quando due cose si truovano convenire in
una, che ambo queste si deono riducere ad alcuno terzo, o vero l'una
a l'altra, sì come effetto a cagione; però che una cosa avuta
prima e per sé non può essere se non da uno: e se quelle non
fossero ambedue effetto d'un terzo, o vero l'una de l'altra,
ambedue avrebbero quella cosa prima e per sé, ch'è impossibile.
Dice adunque che nobilitade e vertute cotale, cioè morale,
convegnono in questo, che l'una e l'altra importa loda di colui
di cui si dice; e dico ciò quando dice: Per che in medesmo
detto Convegnono ambedue, ch'en d'uno effetto, cioè lodare e
rendere pregiato colui cui esser si dicono. E poi conchiude
prendendo la vertude de la sopra notata proposizione, e dice che
però conviene l'una procedere da l'altra, o vero ambe da un
terzo; e soggiunge che più tosto è da presummere l'una venire
da l'altra, che ambe da terzo, s'elli appare che l'una vaglia
quanto l'altra, e più ancora; e ciò dice: Ma se l'una val
ciò che l'altra vale. Ove è da sapere che qui non si
procede per necessaria dimostrazione, sì come sarebbe a dire, se
lo freddo è generativo de l'acqua, e noi vedemo li nuvoli
generare acqua, che lo freddo è generativo de li nuvoli; sì di
bella e convenevole induzione, che se in noi sono più cose
laudabili, e in noi è lo principio de le nostre lodi,
ragionevole è queste a questo principio riducere; e quello che
comprende più cose, più ragionevolemente si dee dire principio
di quelle, che quelle principio di lui. Ché lo piè de l'albero,
che tutti li altri rami comprende, si dee principio dire e
cagione di quelli, e non quelli di lui; e così nobilitade, che
comprende ogni vertude, sì come cagione effetto comprende, e
molte altre nostre operazioni laudabili, si dee avere per tale,
che la vertude sia da ridurre ad essa prima che ad altro terzo
che in noi sia.
Ultimamente dice,
che quello ch'è detto (cioè, che ogni vertù morale vegna da
una radice, e che vertù cotale e nobilitade convegnano in una
cosa, come detto è di sopra; e che però si convegna l'una
reducere a l'altra, o vero ambe ad uno terzo; e che se l'una vale
quello che l'altra e più, di quella questa proceda maggiormente
che d'altro terzo), tutto sia per sopposto, cioè ordito e
apparecchiato a quello che per innanzi s'intende. E così termina
questo verso e questa presente parte.
Capitolo XIX
Poi che ne la precedente parte sono pertrattate certe cose e
diterminate, ch'erano necessarie a vedere come diffinire si possa
questa buona cosa di che si parla, procedere si conviene a la
seguente parte, che comincia: È gentilezza dovunqu'è vertute.
E questa si vuole in due parti reducere: ne la prima si pruova
certa cosa che dinanzi è toccata e lasciata non provata; ne la
seconda, conchiudendo, si truova questa diffinizione che cercando
si va. E comincia questa seconda parte: Dunque verrà, come
dal nero il perso.
Ad evidenza de
la prima parte, da reducere a memoria è che di sopra si dice che
se nobilitade vale e si stende più che vertute, vertute più
tosto procederà da essa. La qual cosa ora in questa parte pruova,
cioè che nobilitade più si stenda; e rende essemplo del cielo,
dicendo che dovunque è vertude, quivi è nobilitade. E quivi si
vuole sapere che, sì come scritto è in Ragione e per regola di
Ragione si tiene, in quelle cose che per sé sono manifeste non
è mestiere di pruova; e nulla n'è più manifesta che nobilitade
essere dove è vertude, e ciascuna cosa volgarmente vedemo, in
sua natura virtuosa, nobile esser chiamata. Dice dunque: Sì
com'è 'l cielo dovunqu'è la stella, e non è questo vero e
converso, cioè rivolto, che dovunque è cielo sia la stella,
così è nobilitade dovunque è vertude, e non vertude dovunque
nobilitade: e con bello e convenevole essemplo, ché veramente è
cielo ne lo quale molte e diverse stelle rilucono. Riluce in essa
le intellettuali e le morali virtudi; riluce in essa le buone
disposizioni da natura date, cioè pietade e religione, e le
laudabili passioni, cioè vergogna e misericordia e altre molte;
riluce in essa le corporali bontadi, cioè bellezza, fortezza e
quasi perpetua valitudine. E tante sono le sue stelle, che nel
cielo si stendono, che certo non è da maravigliare se molti e
diversi frutti fanno ne la umana nobilitade; tante sono le nature
e le potenze di quella, in una sotto una semplice sustanza
comprese e adunate, ne le quali sì come in diversi rami
fruttifica diversamente. Certo da dovvero ardisco a dire che la
nobilitade umana, quanto è da la parte di molti suoi frutti,
quella de l'angelo soperchia, tutto che l'angelica in sua unitade
sia più divina. Di questa nobilitade nostra, che in tanti e tali
frutti fruttificava, s'accorse lo Salmista, quando fece quel
Salmo che comincia: "Segnore nostro Iddio, quanto è
ammirabile lo nome tuo ne l'universa terra!", là dove
commenda l'uomo, quasi maravigliandosi del divino affetto in essa
umana creatura, dicendo: "Che cosa è l'uomo, che tu, Dio,
lo visiti? Tu l'hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e
d'onore l'hai coronato, e posto lui sopra l'opere de le mani tue".
Veramente dunque bella e convenevole comparazione fu del cielo a
l'umana nobilitade.
Poi quando dice:
E noi in donna e in età novella, pruova ciò che dico,
mostrando che la nobilitade si stenda in parte dove virtù non
sia. E dice poi: vedem questa salute: e tocca nobilitade,
che bene è vera salute, essere là dove è vergogna, cioè tema
di disnoranza, sì come è ne le donne e ne li giovani, dove la
vergogna è buona e laudabile; la qual vergogna non è virtù, ma
certa passione buona. E dice: E noi in donna e in età novella,
cioè in giovani; però che, secondo che vuole lo Filosofo nel
quarto de l'Etica, "vergogna non è laudabile né sta bene
ne li vecchi e ne li uomini studiosi", però che a loro si
conviene di guardare da quelle cose che a vergogna li conducano.
A li giovani e a le donne non è tanto richesto di cautela, e
però in loro è laudabile la paura del disnore ricevere per la
colpa; che da nobilitade viene, e nobilitade si puote credere e
in loro chiamare, sì come viltade e ignobilitade la sfacciatezza.
Onde buono e ottimo segno di nobilitade è ne li pargoli e
imperfetti d'etade, quando dopo lo fallo nel viso loro vergogna
si dipinge, che è allora frutto di vera nobilitade.
Capitolo XX
Quando appresso seguita: Dunque verrà, come dal nero il perso,
procede lo testo a la diffinizione di nobilitade, la qual si
cerca, e per la quale si potrà vedere che è questa nobilitade
di che tanta gente erroneamente parla. Dice dunque, conchiudendo
da quello che dinanzi detto è: dunque ogni vertude, o vero il
gener loro, cioè l'abito elettivo consistente nel mezzo,
verrà da questa, cioè nobilitade. E rende essemplo ne li colori,
dicendo: sì come lo perso dal nero discende, così questa, cioè
vertude, discende da nobilitade. Lo perso è uno colore misto di
purpureo e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina; e
così la vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione; ma
perché la nobilitade vince in quella, è la vertù dinominata da
essa, e appellata bontade. Poi appresso argomenta, per quello che
detto è, che nessuno, per poter dire: "Io sono di cotale
schiatta", non dee credere essere con essa, se questi frutti
non sono in lui. E rende incontanente ragione, dicendo che quelli
che hanno questa grazia, cioè questa divina cosa, sono quasi
come dèi, sanza macula di vizio; e ciò dare non può se
non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, sì come le
divine Scritture manifestano. E non paia troppo alto dire ad
alcuno, quando si dice: Ch'elli son quasi dèi; ché, sì
come di sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si ragiona,
così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono
nobilissimi e divini, e ciò pruova Aristotile nel settimo de l'Etica
per lo testo d'Omero poeta. Sì che non dica quelli de li Uberti
di Fiorenza, né quelli de li Visconti da Melano: "Perch'io
sono di cotale schiatta, io sono nobile"; ché 'l divino
seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le
singulari persone, e, sì come di sotto si proverà, la stirpe
non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno
nobile la stirpe.
Poi, quando dice:
Ché solo Iddio a l'anima la dona, ragione è del
suscettivo, cioè del subietto dove questo divino dono discende:
ch'è bene divino dono, secondo la parola de l'Apostolo: "Ogni
ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal
Padre de' lumi". Dice adunque che Dio solo porge questa
grazia a l'anima di quelli cui vede stare perfettamente ne la sua
persona, acconcio e disposto a questo divino atto ricevere. Ché,
secondo dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, "le cose
convengono essere disposte a li loro agenti, e a ricevere li loro
atti"; onde se l'anima è imperfettamente posta, non è
disposta a ricevere questa benedetta e divina infusione: sì come
se una pietra margarita è male disposta, o vero imperfetta, la
vertù celestiale ricever non può, sì come disse quel nobile
Guido Guinizzelli in una sua canzone, che comincia: Al cor
gentil ripara sempre Amore. Puote adunque l'anima stare non
bene ne la persona per manco di complessione, o forse per manco
di temporale: e in questa cotale questo raggio divino mai non
risplende. E possono dire questi cotali, la cui anima è privata
di questo lume, che essi siano sì come valli volte ad aquilone,
o vero spelunche sotterranee, dove la luce del sole mai non
discende, se non ripercussa da altra parte da quella illuminata.
Ultimamente
conchiude, e dice che, per quello che dinanzi detto è (cioè che
le vertudi sono frutto di nobilitade, e che Dio questa metta ne l'anima
che ben siede), che ad alquanti, cioè a quelli che hanno
intelletto, che sono pochi, è manifesto che nobilitade umana non
sia altro che "seme di felicitade", messo da Dio ne
l'anima ben posta, cioè lo cui corpo è d'ogni parte
disposto perfettamente. Ché se le vertudi sono frutto di
nobilitade, e felicitade è dolcezza per quelle comparata,
manifesto è essa nobilitade essere semente di felicitade, come
detto è. E se bene si guarda, questa diffinizione tutte e
quattro le cagioni, cioè materiale, formale, efficiente e finale,
comprende: materiale in quanto dice: ne l'anima ben posta,
che è materia e subietto di nobilitade; formale in quanto dice
che è seme; efficiente in quanto dice: Messo da Dio ne
l'anima; finale in quanto dice: di felicità. E così
è diffinita questa nostra bontade, la quale in noi similemente
discende da somma e spirituale Virtude, come virtude in pietra da
corpo nobilissimo celestiale.
Capitolo XXI
Acciò che più perfettamente s'abbia conoscenza de la umana
bontade, secondo che in noi è principio di tutto bene, la quale
nobilitade si chiama, da chiarire è in questo speziale capitolo
come questa bontade discende in noi; e prima per modo naturale, e
poi per modo teologico, cioè divino e spirituale. In prima è da
sapere che l'uomo è composto d'anima e di corpo; ma ne l'anima
è quella; sì come detto è che è a guisa di semente de la
virtù divina. Veramente per diversi filosofi de la differenza de
le nostre anime fue diversamente ragionato: ché Avicenna e
Algazel volsero che esse da loro e per loro principio fossero
nobili e vili; e Plato e altri volsero che esse procedessero da
le stelle, e fossero nobili e più e meno secondo la nobilitade
de la stella. Pittagora volse che tutte fossero d'una nobilitade,
non solamente le umane ma con le umane quelle de li animali bruti
e de le piante, e le forme de le minere, e disse che tutta la
differenza è de le corpora e de le forme. Se ciascuno fosse a
difendere la sua oppinione, potrebbe essere che la veritade si
vedrebbe essere in tutte; ma però che ne la prima faccia paiono
un poco lontane dal vero, non secondo quelle procedere si
conviene, ma secondo l'oppinione d'Aristotile e de li
Peripatetici. E però dico che quando l'umano seme cade nel suo
recettaculo, cioè ne la matrice, esso porta seco la vertù de l'anima
generativa e la vertù del cielo e la vertù de li elementi
legati, cioè la complessione; e matura e dispone la materia a la
vertù formativa, la quale diede l'anima del generante; e la
vertù formativa prepara li organi a la vertù celestiale, che
produce de la potenza del seme l'anima in vita. La quale,
incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo
lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce
tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e
tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è.
Non si maravigli
alcuno, s'io parlo sì che par forte ad intendere; ché a me
medesimo pare maraviglia, come cotale produzione si può pur
conchiudere e con lo intelletto vedere. Non è cosa da
manifestare a lingua, lingua, dico, veramente volgare. Per che io
voglio dire come l'Apostolo: "O altezza de le divizie de la
sapienza di Dio, come sono incomprensibili li tuoi giudicii e
investigabili le tue vie!". E però che la complessione del
seme puote essere migliore e men buona, e la disposizione del
seminante puote essere migliore e men buona, e la disposizione
del Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore e ottima
(la quale si varia per le constellazioni, che continuamente si
transmutano); incontra che de l'umano seme e di queste vertudi
più pura e men pura anima si produce; e, secondo la sua puritade,
discende in essa la vertude intellettuale possibile che detta è,
e come detto è. E s'elli avviene che, per la puritade de l'anima
ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e assoluta
da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei multiplica, sì
come in cosa sufficiente a ricevere quella, e quindi sì
multiplica ne l'anima questa intelligenza, secondo che ricevere
puote. E questo è quel seme di felicitade del quale al presente
si parla. E ciò è concordevole a la sentenza di Tullio in
quello De Senectute, che, parlando in persona di Catone, dice:
"Imperciò celestiale anima discese in noi, de l'altissimo
abitaculo venuta in loco lo quale a la divina natura e a la
etternitade è contrario". E in questa cotale anima è la
vertude sua propria, e la intellettuale, e la divina, cioè
quella influenza che detta è: però è scritto nel libro de le
Cagioni: "Ogni anima nobile ha tre operazioni, cioè animale,
intellettuale e divina". E sono alcuni di tale oppinione che
dicono, se tutte le precedenti vertudi s'accordassero sovra la
produzione d'un'anima ne la loro ottima disposizione, che tanto
discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro
Iddio incarnato. E quasi questo è tutto ciò che per via
naturale dicere si puote.
Per via
teologica si può dire che, poi che la somma deitade, cioè Dio,
vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio,
tanto largamente in quella ne mette quanto apparecchiata è a
riceverne. E però che da ineffabile caritate vegnono questi doni,
e la divina caritate sia appropriata a lo Spirito Santo, quindi
è che chiamati sono doni di Spirito Santo. Li quali, secondo che
li distingue Isaia profeta, sono sette, cioè Sapienza,
Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietade e Timore di Dio.
Oh buone biade, e buona e ammirabile sementa! e oh ammirabile e
benigno seminatore, che non attende se non che la natura umana li
apparecchi la terra a seminare! e beati quelli che tale sementa
coltivano come si conviene! Ove è da sapere che 'l primo e lo
più nobile rampollo che germogli di questo seme, per essere
fruttifero, si è l'appetito de l'animo, lo quale in greco è
chiamato "hormen". E se questo non è bene culto e
sostenuto diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e
meglio sarebbe non essere seminato. E però vuole santo Augustino,
e ancora Aristotile nel secondo de l'Etica, che l'uomo s'ausi a
ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciò che questo tallo,
che detto è, per buona consuetudine induri, e rifermisi ne la
sua rettitudine, sì che possa fruttificare, e del suo frutto
uscire la dolcezza de l'umana felicitade.
Capitolo XXII
Comandamento è de li morali filosofi che de li benefici hanno
parlato, che l'uomo dee mettere ingegno e sollicitudine in
porgere li suoi benefici quanto puote utili più al ricevitore;
onde io, volendo a cotale imperio essere obediente, intendo
questo mio Convivio per ciascuna de le sue parti rendere utile
quanto più mi sarà possibile. E però che in questa parte
occorre a me di potere alquanto ragionare de l'umana felicitade,
de la sua dolcezza ragionare intendo; ché più utile
ragionamento fare non si può a coloro che non la conoscono. Ché,
sì come dice lo Filosofo nel primo de l'Etica e Tullio in quello
del Fine de' Beni, male tragge al segno quelli che nol vede; e
così male può ire a questa dolcezza chi prima non l'avvisa.
Onde, con ciò sia cosa che essa sia finale nostro riposo, per lo
quale noi vivemo e operiamo ciò che facemo, utilissimo e
necessario è questo segno vedere, per dirizzare a quello l'arco
de la nostra operazione. E massimamente è da gradire quelli che
a coloro che non veggiano l'addita.
Lasciando dunque
stare l'oppinione che di quello ebbe Epicuro filosofo, e di
quello ebbe Zenone, venire intendo sommariamente a la verace
oppinione d'Aristotile e de li altri Peripatetici. Sì come detto
è di sopra, de la divina bontade, in noi seminata e infusa dal
principio de la nostra generazione, nasce uno rampollo, che li
Greci chiamano "hormen", cioè appetito d'animo
naturale. E sì come ne le biade che, quando nascono, dal
principio hanno quasi una similitudine ne l'erba essendo, e poi
si vengono per processo dissimigliando; così questo naturale
appetito, che de la divina grazia surge, dal principio quasi si
mostra non dissimile a quello che pur da natura nudamente viene,
ma con esso, sì come l'erbate quasi di diversi biadi, si
simiglia. E non pur ne li uomini, ma ne li uomini e ne le bestie
ha similitudine; e 'n questo appare, che ogni animale, sì come
elli è nato, razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e
fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle odia.
Procedendo poi, sì come detto è, comincia una dissimilitudine
tra loro, nel procedere di questo appetito, ché l'uno tiene uno
cammino e l'altro un altro. Sì come dice l'Apostolo: "Molti
corrono al palio, ma uno è quelli che 'l prende", così
questi umani appetiti per diversi calli dal principio se ne vanno,
e uno solo calle è quello che noi mena a la nostra pace. E però,
lasciando stare tutti li altri, col trattato è da tenere dietro
a quello che bene comincia.
Dico adunque che
dal principio se stesso ama, avvegna che indistintamente; poi
viene distinguendo quelle cose che a lui sono più amabili e meno,
e più odibili e meno, e seguita e fugge e più e meno, secondo
la conoscenza distingue non solamente ne l'altre cose, che
secondamente ama, ma eziandio distingue in sé, che ama
principalmente. E conoscendo in sé diverse parti, quelle che in
lui sono più nobili, più ama quelle; e con ciò sia cosa che
più nobile parte de l'uomo sia l'animo che 'l corpo, quello più
ama. E così, amando sé principalmente, e per sé l'altre cose,
e amando di sé la migliore parte più, manifesto è che più ama
l'animo che 'l corpo o che altra cosa: lo quale animo
naturalmente più che altra cosa dee amare. Dunque, se la mente
si diletta sempre ne l'uso de la cosa amata, che è frutto d'amore,
e in quella cosa che massimamente è amata è l'uso massimamente
dilettoso, l'uso del nostro animo è massimamente dilettoso a noi.
E quello che massimamente è dilettoso a noi, quello è nostra
felicitade e nostra beatitudine, oltre la quale nullo diletto è
maggiore, né nullo altro pare; sì come veder si puote, chi bene
riguarda la precedente ragione.
E non dicesse
alcuno che ogni appetito sia animo; ché qui s'intende animo
solamente quello che spetta a la parte razionale, cioè la
volontade e lo intelletto; sì che se volesse chiamare animo l'appetito
sensitivo, qui non ha luogo, né instanza puote avere, ché nullo
dubita che l'appetito razionale non sia più nobile che 'l
sensuale, e però più amabile: e così è questo di che ora si
parla. Veramente l'uso del nostro animo è doppio, cioè pratico
e speculativo (pratico è tanto quanto operativo), l'uno e l'altro
dilettosissimo, avvegna che quello del contemplare sia più, sì
come di sopra è narrato. Quello del pratico si è operare per
noi virtuosamente, cioè onestamente, con prudenza, con
temperanza, con fortezza e con giustizia; quello de lo
speculativo si è non operare per noi, ma considerare l'opere di
Dio e de la natura. E questo come quell'altro è nostra
beatitudine e somma felicitade, sì come vedere si può; la quale
è la dolcezza del sopra notato seme, sì come omai
manifestamente appare, a la quale molte volte cotale seme non
perviene per male essere coltivato, e per essere disviata la sua
pullulazione. E similemente puote essere per molta correzione e
cultura; ché là dove questo seme dal principio non cade, si
puote inducere nel suo processo, sì che perviene a questo frutto;
ed è uno modo quasi d'insetare l'altrui natura sopra diversa
radice. E però nullo è che possa essere scusato; ché se da sua
naturale radice uomo non ha questa sementa, ben la puote avere
per via d'insetazione. Così fossero tanti quelli di fatto che s'insetassero,
quanti sono quelli che da la buona radice si lasciano disviare!
Veramente di
questi usi l'uno è più pieno di beatitudine che l'altro; sì
come è lo speculativo, lo quale sanza mistura alcuna è uso de
la nostra nobilissima parte, la quale, per lo radicale amore che
detto è, massimamente è amabile, sì com'è lo 'ntelletto. E
questa parte in questa vita perfettamente lo suo uso avere non
puote - lo quale è vedere in sé Iddio ch'è sommo intelligibile
-, se non in quanto considera lui e mira lui per li suoi effetti.
E che noi domandiamo questa beatitudine per somma, e non altra,
cioè quella de la vita attiva, n'ammaestra lo Vangelio di Marco,
se bene quello volemo guardare. Dice Marco che Maria Maddalena e
Maria Iacobi e Maria Salomè andaro per trovare lo Salvatore al
monimento, e quello non trovaro; ma trovaro uno giovane vestito
di bianco che disse loro: "Voi domandate lo Salvatore, e io
vi dico che non è qui; e però non abbiate temenza, ma ite, e
dite a li discepoli suoi e a Piero che elli li precederà in
Galilea; e quivi lo vedrete, sì come vi disse". Per queste
tre donne si possono intendere le tre sette de la vita attiva,
cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al
monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di
corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine,
e non la truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti,
lo quale, secondo la testimonianza di Matteo e anche de li altri,
era angelo di Dio. E però Matteo disse: "L'angelo di Dio
discese di cielo, e vegnendo volse la pietra e sedea sopra essa.
E 'l suo aspetto era come folgore, e le sue vestimenta erano come
neve". Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio
viene, come detto è, che ne la nostra ragione parla, e dice a
ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando
beatitudine ne la vita attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo
a li discepoli e a Piero, cioè a coloro che 'l vanno cercando, e
a coloro che sono sviati, sì come Piero che l'avea negato, che
in Galilea li precederà: cioè che la beatitudine precederà noi
in Galilea, cioè ne la speculazione. Galilea è tanto a dire
quanto bianchezza. Bianchezza è uno colore pieno di luce
corporale più che nullo altro; e così la contemplazione è più
piena di luce spirituale che altra cosa che qua giù sia. E dice:
"Elli precederà"; e non dice: "Elli sarà con voi":
a dare a intendere che ne la nostra contemplazione Dio sempre
precede, né mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra
beatitudine somma. E dice: "Quivi lo vedrete, sì come disse":
cioè quivi avrete de la sua dolcezza, cioè de la felicitade,
sì come a voi è promesso qui; cioè, sì come stabilito è che
voi avere possiate. E così appare che nostra beatitudine (questa
felicitade di cui si parla) prima trovare potemo quasi imperfetta
ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e
poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali
due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la
somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare
pur per quello che detto è.
Capitolo XXIII
Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione di
nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile è stato,
è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lo nobile uomo,
da procedere pare a la parte del testo che comincia: L'anima
cui adorna esta bontate; ne la quale si mostrano li segni per
li quali conoscere si puote il nobile uomo che detto è. E
dividesi questa parte in due: che ne la prima s'afferma che
questa nobilitade luce e risplende per tutta la vita del nobile,
manifestamente; ne la seconda si dimostra specificamente ne li
suoi splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente,
soave e vergognosa.
Intorno de la
prima è da sapere che questo seme divino, di cui parlato è di
sopra, ne la nostra anima incontanente germoglia, mettendo e
diversificando per ciascuna potenza de l'anima, secondo la
essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la
sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di
quelle tutte, dirizzando quelle tutte a le loro perfezioni, e in
quelle sostenendosi sempre infino al punto che, con quella parte
de la nostra anima che mai non muore, a l'altissimo e
gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. E questo dice per
quella prima che detta è. Poi quando comincia: Ubidente,
soave e vergognosa, mostra quello per che potemo conoscere l'uomo
nobile a li segni apparenti, che sono, di questa bontade divina,
operazione; e partesi questa parte in quattro, secondo che per
quattro etadi diversamente adopera, sì come per l'adolescenza,
per la gioventute, per la senettute e per lo senio. E comincia la
seconda parte: In giovinezza, temperata e forte; la terza
comincia: E ne la sua senetta; la quarta comincia: Poi
ne la quarta parte de la vita. In questo è la sentenza di
questa parte in generale. Intorno a la quale si vuole sapere che
ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve la similitudine de
la sua cagione, quanto è più possibile di ritenere. Onde, con
ciò sia cosa che la nostra vita, sì come detto è, ed ancora d'ogni
vivente qua giù, sia causata dal cielo, e lo cielo a tutti
questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di
quello a loro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento
sia sopra essi come uno arco quasi, e tutte le terrene vite (e
dico terrene, sì de li uomini come de li altri viventi),
montando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco
assimiglianti. Tornando dunque a la nostra, sola de la quale al
presente s'intende, sì dico ch'ella procede a imagine di questo
arco, montando e discendendo.
Ed è da sapere
che questo arco di giù, come l'arco di su sarebbe eguale, se la
materia de la nostra seminale complessione non impedisse la
regola de la umana natura. Ma però che l'umido radicale è meno
e più, e di migliore qualitade e men buona, e più ha durare in
uno che in uno altro effetto - lo qual è subietto e nutrimento
del calore, che è nostra vita -, avviene che l'arco de la vita d'un
uomo è di minore e di maggiore tesa che quello de l'altro. E
alcuna morte è violenta, o vero per accidentale infertade
affrettata; ma solamente quella che naturale è chiamata dal
vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per lo
Salmista: "Ponesti termine, lo quale passare non si può".
E però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s'accorse di
questo arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita
non fosse altro che uno salire e uno scendere: però dice in
quello dove tratta di Giovinezza e di Vecchiezza, che giovinezza
non è altro se non accrescimento di quella. Là dove sia lo
punto sommo di questo arco, per quella disaguaglianza che detta
è di sopra, è forte da sapere; ma ne li più io credo tra il
trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li
perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. E
muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro
salvatore Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo
anno de la sua etade; ché non era convenevole la divinitade
stare in cosa in discrescere, né da credere è ch'elli non
volesse dimorare in questa nostra vita al sommo, poi che stato c'era
nel basso stato de la puerizia. E ciò manifesta l'ora del giorno
de la sua morte, ché volle quella consimigliare con la vita sua;
onde dice Luca che era quasi ora sesta quando morio, che è a
dire lo colmo del die. Onde si può comprendere per quello "quasi"
che al trentacinquesimo anno di Cristo era lo colmo de la sua
etade.
Veramente questo
arco non pur per mezzo si distingue da le scritture; ma, seguendo
le quattro combinazioni de le contrarie qualitadi che sono ne la
nostra composizione, a le quali pare essere appropriata, dico a
ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si
divide, e chiamansi quattro etadi. La prima è Adolescenza, che s'appropria
al caldo e a l'umido; la seconda si è Gioventute, che s'appropria
al caldo e al secco; la terza si è Senettute, che s'appropria al
freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s'appropria al
freddo e a l'umido, secondo che nel quarto de la Metaura scrive
Alberto. E queste parti si fanno simigliantemente ne l'anno, in
primavera, in estate, in autunno e in inverno; e nel die, ciò è
infino a la terza, e poi infino a la nona (lasciando la sesta,
nel mezzo di questa parte, per la ragione che si discerne), e poi
infino al vespero e dal vespero innanzi. E però li gentili,
cioè li pagani, diceano che 'l carro del sole avea quattro
cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo
Eton, lo quarto Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del
Metamorfoseos. Intorno a le parti del giorno è brievemente da
sapere che, sì come detto è di sopra nel sesto del terzo
trattato, la Chiesa usa, ne la distinzione de le ore, le ore del
dì temporali, che sono in ciascuno die dodici, o grandi o
piccole, secondo la quantitade del sole; e però che la sesta ora,
cioè lo mezzo die, è la più nobile di tutto lo die e la più
virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni parte, cioè da
prima e di poi, quanto puote. E però l'officio de la prima parte
del die, cioè la terza, si dice in fine di quella; e quello de
la terza parte e de la quarta si dice ne li principii. E però si
dice mezza terza, prima che suoni per quella parte; e mezza nona,
poi che per quella parte è sonato; e così mezzo vespero. E
però sappia ciascuno che, ne la diritta nona, sempre dee sonare
nel cominciamento de la settima ora del die: e questo basti a la
presente digressione.
Capitolo XXIV
Ritornando al proposito, dico che la umana vita si parte per
quattro etadi. La prima si chiama Adolescenzia, cioè "accrescimento
di vita"; la seconda si chiama Gioventute, cioè "etate
che puote giovare", cioè perfezione dare, e così s'intende
perfetta - ché nullo puote dare se non quello ch'elli ha -; la
terza si chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, sì come di
sopra detto è.
De la prima
nullo dubita, ma ciascuno savio s'accorda ch'ella dura in fino al
venticinquesimo anno; e però che infino a quel tempo l'anima
nostra intende a lo crescere e a lo abbellire del corpo, onde
molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puote
perfettamente la razionale parte discernere. Per che la Ragione
vuole che dinanzi a quella etade l'uomo non possa certe cose fare
sanza curatore di perfetta etade.
De la seconda,
la quale veramente è colmo de la nostra vita, diversamente è
preso lo tempo da molti. Ma, lasciando ciò che ne scrivono li
filosofi e li medici, e tornando a la ragione propria, dico che
ne li più, ne li quali prendere si puote e dee ogni naturale
giudicio, quella etade è venti anni. E la ragione che ciò mi
dà si è che, se 'l colmo del nostro arco è ne li trentacinque,
tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di scesa;
e quella salita e quella scesa è quasi lo tenere de l'arco, nel
quale poco di flessione si discerne. Avemo dunque che la
gioventute nel quarantacinquesimo anno si compie. E sì come l'adolescenzia
è in venticinque anni che precede, montando, a la gioventute,
così lo discendere, cioè la senettute, è in altrettanto tempo
che succede a la gioventute; e così si termina la senettute nel
settantesimo anno. Ma però che l'adolescenza non comincia dal
principio de la vita, pigliandola per lo modo che detto è, ma
presso a otto anni dopo quello; e però che la nostra natura si
studia di salire, e a lo scendere raffrena, però che lo caldo
naturale è menomato, e puote poco, e l'umido è ingrossato (non
però in quantitade, ma pur in qualitade, sì ch'è meno
vaporabile e consumabile), avviene che oltre la senettute rimane
de la nostra vita forse in quantitade di diece anni, o poco più
o poco meno: e questo tempo si chiama senio. Onde avemo di
Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse naturato e
per la sua perfezione e per la fisonomia che di lui prese Socrate
quando prima lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo
che testimonia Tullio in quello De Senectute. E io credo che se
Cristo fosse stato non crucifisso, e fosse vivuto lo spazio che
la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe a li
ottantuno anno di mortale corpo in etternale transmutato.
Veramente, sì
come di sopra detto è, queste etadi possono essere più lunghe e
più corte secondo la complessione nostra e la composizione; ma,
come elle siano in questa proporzione, come detto è, in tutti mi
pare da servare, cioè di fare l'etadi in quelli cotali e più
lunghe e meno secondo la integritade di tutto lo tempo de la
naturale vita. Per queste tutte etadi questa nobilitade, di cui
si parla, diversamente mostra li suoi effetti ne l'anima
nobilitata; e questo è quello che questa parte, sopra la quale
al presente si scrive, intende a dimostrare. Dov'è da sapere che
la nostra buona e diritta natura ragionevolmente procede in noi,
sì come vedemo procedere la natura de le piante in quelle; e
però altri costumi e altri portamenti sono ragionevoli ad una
etade più che ad altra, ne li quali l'anima nobilitata
ordinatamente procede per una semplice via, usando li suoi atti
ne li loro tempi ed etadi sì come a l'ultimo suo frutto sono
ordinati. E Tullio in ciò s'accorda in quello De Senectute. E
lasciando lo figurato che di questo diverso processo de l'etadi
tiene Virgilio ne lo Eneida, e lasciando stare quello che Egidio
eremita ne dice ne la prima parte de lo Reggimento de' Principi,
e lasciando stare quello che ne tocca Tullio in quello de li
Offici, e seguendo solo quello che la ragione per sé ne puote
vedere, dico che questa prima etade è porta e via per la quale s'entra
ne la nostra buona vita. E questa entrata conviene avere di
necessitade certe cose, le quali la buona natura, che non viene
meno ne le cose necessarie, ne dà; sì come vedemo che dà a la
vite le foglie per difensione del frutto, e li vignuoli con li
quali difende e lega la sua imbecillitade, sì che sostiene lo
peso del suo frutto.
Dà adunque la
buona natura a questa etade quattro cose, necessarie a lo entrare
ne la cittade del bene vivere. La prima si è obedienza; la
seconda soavitade; la terza vergogna; la quarta adornezza
corporale, sì come dice lo testo ne la prima particola. E`
dunque da sapere, che sì come quello che mai non fosse stato in
una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza insegnamento di
colui che l'hae usata; così l'adolescente, che entra ne la selva
erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se
da li suoi maggiori non li fosse mostrato. Né lo mostrare
varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse obediente; e però
fu a questa etade necessaria la obedienza. Ben potrebbe alcuno
dire così: dunque potrà essere detto quelli obediente che
crederà li malvagi comandamenti, come quelli che crederà li
buoni? Rispondo che non ha quella obedienza, ma transgressione:
ché se lo re comanda una via e lo servo ne comanda un'altra, non
è da obedire lo servo; ché sarebbe disobedire lo re, e così
sarebbe transgressione. E però dice Salomone, quando intende
correggere suo figlio (e questo è lo primo suo comandamento):
"Audi, figlio mio, l'ammaestramento del tuo padre". E
poi lo rimuove incontanente da l'altrui reo consiglio e
ammaestramento, dicendo: "Non ti possano quello fare di
lusinghe né di diletto li peccatori, che tu vadi con loro".
Onde, sì come, nato, tosto lo figlio a la tetta de la madre s'apprende,
così tosto, come alcuno lume d'animo in esso appare, si dee
volgere a la correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare. E
guardisi che non li dea di sé essemplo ne l'opera, che sia
contrario a le parole de la correzione: ché naturalmente vedemo
ciascuno figlio più mirare a le vestigie de li paterni piedi che
a l'altre. E però dice e comanda la Legge, che a ciò provede,
che la persona del padre sempre santa e onesta dee apparere a li
suoi figli; e così appare che la obedienza fue necessaria in
questa etade. E però scrive Salomone ne li Proverbi, che quelli
che umilemente e obedientemente sostiene dal correttore le sue
correttive riprensioni, "sarà glorioso"; e dice "sarà",
a dare ad intendere che elli parla a lo adolescente, che non
puote essere, ne la presente etade. E se alcuno calunniasse:
"Ciò che detto è, è pur del padre e non d'altri",
dico che al padre si dee riducere ogni altra obedienza. Onde dice
l'Apostolo a li Colossensi: "Figliuoli, obedite a li vostri
padri per tutte cose, per ciò che questo vuole Iddio". E se
non è in vita lo padre, riducere si dee a quelli che per lo
padre è ne l'ultima volontade in padre lasciato; e se lo padre
muore intestato, riducere si dee a colui cui la Ragione commette
lo suo governo. E poi deono essere obediti maestri e maggiori,
cui in alcuno modo pare dal padre, o da quelli che loco paterno
tiene, essere commesso. Ma però che lungo è stato lo capitolo
presente per le utili digressioni che contiene, per l'altro
capitolo l'altre cose sono da ragionare.
Capitolo XXV
Non solamente questa anima e natura buona in adolescenza è
obediente, ma eziandio soave; la quale cosa è l'altra ch'è
necessaria in questa etade a bene intrare ne la porta de la
gioventute. Necessaria è, poi che noi non potemo perfetta vita
avere sanza amici, sì come ne l'ottavo de l'Etica vuole
Aristotile; e la maggiore parte de l'amistadi si paiono seminare
in questa etade prima, però che in essa comincia l'uomo ad
essere grazioso, o vero lo contrario: la quale grazia s'acquista
per soavi reggimenti, che sono dolce e cortesemente parlare,
dolce e cortesemente servire e operare. E però dice Salomone a
lo adolescente figlio: "Li schernidori Dio li schernisce, e
a li mansueti Dio darà grazia". E altrove dice: "Rimuovi
da te la mala bocca, e li altri atti villani siano di lungi da te".
Per che appare, che necessaria sia questa soavitade, come detto
è.
Anche è
necessaria a questa etade la passione de la vergogna; e però la
buona e nobile natura in questa etade la mostra, sì come lo
testo dice. E però che la vergogna è apertissimo segno in
adolescenza di nobilitade, perché quivi è massimamente
necessaria al buono fondamento de la nostra vita, a lo quale la
nobile natura intende, di quella è alquanto con diligenza da
parlare. Dico che per vergogna io intendo tre passioni necessarie
al fondamento de la nostra vita buona: l'una si è stupore; l'altra
si è pudore; la terza si è verecundia; avvegna che la volgare
gente questa distinzione non discerna. E tutte e tre queste sono
necessarie a questa etade per questa ragione: a questa etade è
necessario d'essere reverente e disidiroso di sapere; a questa
etade è necessario d'essere rifrenato, sì che non transvada; a
questa etade è necessario d'essere penitente del fallo, sì che
non s'ausi a fallare. E tutte queste cose fanno le passioni sopra
dette, che vergogna volgarmente sono chiamate. Ché lo stupore è
uno stordimento d'animo per grandi e maravigliose cose vedere o
udire o per alcuno modo sentire: che, in quanto paiono grandi,
fanno reverente a sé quelli che le sente; in quanto paiono
mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle. E però li antichi
regi ne le loro magioni faceano magnifici lavorii d'oro e di
pietre e d'artificio, acciò che quelli che le vedessero
divenissero stupidi, e però reverenti, e domandatori de le
condizioni onore voli de lo rege. E però dice Stazio, lo dolce
poeta, nel primo de la Tebana Istoria, che quando Adrasto, rege
de li Argi, vide Polinice coverto d'un cuoio di leone, e vide
Tideo coverto d'un cuoio di porco selvatico, e ricordossi del
risponso che Apollo dato avea per le sue figlie, che esso divenne
stupido; e però più reverente e più disideroso di sapere.
Lo pudore è uno
ritraimento d'animo da laide cose, con paura di cadere in quelle;
sì come vedemo ne le vergini e ne le donne buone e ne li
adolescenti, che tanto sono pudici, che non solamente là dove
richesti o tentati sono di fallare, ma dove pure alcuna
imaginazione di venereo compimento avere si puote, tutti si
dipingono ne la faccia di palido o di rosso colore. Onde dice lo
sopra notato poeta ne lo allegato libro primo di Tebe, che quando
Aceste, nutrice d'Argia e di Deifile, figlie d'Adrasto rege, le
menò dinanzi da li occhi del santo padre ne la presenza de li
due peregrini, cioè Polinice e Tideo, le vergini palide e
rubicunde si fecero, e li loro occhi fuggiro da ogni altrui
sguardo, e solo ne la paterna faccia, quasi come sicuri, si
tennero. Oh quanti falli rifrena esto pudore! quante disoneste
cose e dimande fa tacere! quante disoneste cupiditati raffrena!
quante male tentazioni non pur ne la pudica persona diffida, ma
eziandio in quello che la guarda! quante laide parole ritene!
Ché, sì come dice Tullio nel primo de li Offici: Nullo atto è
laido, che non sia laido quello nominare; e però lo pudico e
nobile uomo mai non parla sì, che ad una donna non fossero
oneste le sue parole. Ahi quanto sta male a ciascuno nobile uomo
che onore vada cercando, menzionare cose che ne la bocca d'ogni
donna stean male!
La verecundia è
una paura di disonoranza per fallo commesso; e di questa paura
nasce un pentimento del fallo, lo quale ha in sé una amaritudine
che è gastigamento a più non fallire. Onde dice questo medesimo
poeta, in quella medesima parte, che quando Polinice fu domandato
da Adrasto rege del suo essere, ch'elli dubitò prima di dicere,
per vergogna del fallo che contra lo padre fatto avea, e ancora
per li falli d'Edippo suo padre, ché paiono rimanere in vergogna
del figlio; e non nominò suo padre, ma li antichi suoi e la
terra e la madre. Per che bene appare, vergogna essere necessaria
in quella etade.
E non pure
obedienza, soavitade e vergogna la nobile natura in questa etade
dimostra, ma dimostra bellezza e snellezza nel corpo; sì come
dice lo testo quando dice: E sua persona adorna. E questo
"adorna" è verbo e non nome: verbo, dico, indicativo
del tempo presente in terza persona. Ove è da sapere che anco è
necessaria questa opera a la nostra buona vita; ché la nostra
anima conviene grande parte de le sue operazioni operare con
organo corporale, e allora opera bene che 'l corpo è bene per le
sue parti ordinato e disposto. E quando elli è bene ordinato e
disposto, allora è bello per tutto e per le parti; ché l'ordine
debito de le nostre membra rende uno piacere non so di che
armonia mirabile, e la buona disposizione, cioè la sanitade,
getta sopra quelle uno colore dolce a riguardare. E così dicere
che la nobile natura lo suo corpo abbellisca e faccia conto e
accorto, non è altro a dire se non che l'acconcia a perfezione d'ordine,
e, così questa come l'altre cose che ragionate sono, appare
essere necessarie a l'adolescenza: le quali la nobile anima,
cioè la nobile natura, dà, e ad esse primamente intende, sì
come cosa che, come detto è, da la divina provedenza è seminata.
Capitolo XXVI
Poi che sopra la prima particola di questa parte, che mostra
quello per che potemo conoscere l'uomo nobile a li segni
apparenti, è ragionato, da procedere è a la seconda parte, la
quale comincia: In giovinezza, temperata e forte. Dice
adunque che sì come la nobile natura in adolescenza ubidente,
soave e vergognosa, e adornatrice de la sua persona si mostra,
così ne la gioventute si fa temperata, forte, amorosa, cortese e
leale: le quali cinque cose paiono, e sono, necessarie a la
nostra perfezione, in quanto avemo rispetto a noi medesimi. E
intorno di ciò si vuole sapere che tutto quanto la nobile natura
prepara ne la prima etade, è apparecchiato e ordinato per
provedimento di Natura universale, che ordina la particulare a
sua perfezione. Questa perfezione nostra si può doppiamente
considerare. Puotesi considerare secondo che ha rispetto a noi
medesimi: e questa ne la nostra gioventute si dee avere, che è
colmo de la nostra vita. Puotesi considerare secondo che ha
rispetto ad altri; e però che prima conviene essere perfetto, e
poi la sua perfezione comunicare ad altri, convienesi questa
secondaria perfezione avere appresso questa etade, cioè ne la
senettute, sì come di sotto si dicerà.
Qui adunque è
da reducere a mente quello che di sopra, nel ventiduesimo
capitolo di questo trattato, si ragiona de lo appetito che in noi
dal nostro principio nasce. Questo appetito mai altro non fa che
cacciare e fuggire; e qualunque ora esso caccia quello che e
quanto si conviene, e fugge quello che e quanto si conviene, l'uomo
è ne li termini de la sua perfezione. Veramente questo appetito
conviene essere cavalcato da la ragione; ché sì come uno
sciolto cavallo, quanto ch'ello sia di natura nobile, per sé,
sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo
appetito, che irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch'ello
sia nobile, a la ragione obedire conviene, la quale guida quello
con freno e con isproni, come buono cavaliere. Lo freno usa
quando elli caccia, e chiamasi quello freno temperanza, la quale
mostra lo termine infino al quale è da cacciare; lo sprone usa
quando fugge, per lui tornare a lo loco onde fuggire vuole, e
questo sprone si chiama fortezza, o vero magnanimitate, la quale
vertute mostra lo loco dove è da fermarsi e da pugnare. E così
infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse
Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la
quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo
Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da
Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si
dicerà, e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio,
per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto
de l'Eneida scritto è! Quanto spronare fu quello, quando esso
Enea sostenette solo con Sibilla a intrare ne lo Inferno a
cercare de l'anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli,
come nel sesto de la detta istoria si dimostra! Per che appare
che, ne la nostra gioventute, essere a nostra perfezione ne
convegna "temperati e forti". E questo fa e dimostra la
buona natura, sì come lo testo dice espressamente.
Ancora è a
questa etade, a sua perfezione, necessario d'essere amorosa;
però che ad essa si conviene guardare diretro e dinanzi, sì
come cosa che è nel meridionale cerchio: conviensi amare li suoi
maggiori, da li quali ha ricevuto ed essere e nutrimento e
dottrina, sì che esso non paia ingrato; conviensi amare li suoi
minori, acciò che, amando quelli, dea loro de li suoi benefici,
per li quali poi ne la minore prosperitade esso sia da loro
sostenuto e onorato. E questo amore mostra che avesse Enea lo
nomato poeta nel quinto libro sopra detto, quando lasciò li
vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad Aceste, e partilli da
le fatiche; e quando ammaestrò in questo luogo Ascanio, suo
figliuolo, con li altri adolescentuli armeggiando. Per che appare
a questa etade necessario essere amare, come lo testo dice.
Ancora è
necessario a questa etade essere cortese; ché, avvegna che a
ciascuna etade sia bello l'essere di cortesi costumi, a questa è
massimamente necessario; però che lievemente merita perdono l'adolescenza,
se di cortesia manchi, per minoranza d'etade, e però che, nel
contrario, non la puote avere la senettute, per la gravezza sua e
per la severitade che a lei si richiede; e così lo senio
maggiormente. E questa cortesia mostra che avesse Enea questo
altissimo poeta, nel sesto sopra detto, quando dice che Enea rege,
per onorare lo corpo di Miseno morto, che era stato trombatore d'Ettore
e poi s'era raccomandato a lui, s'accinse e prese la scure ad
aiutare tagliare le legne per lo fuoco che dovea ardere lo corpo
morto, come era di loro costume. Per che bene appare questa
essere necessaria a la gioventute, e però la nobile anima in
quella la dimostra, come detto è.
Ancora è
necessario a questa etade essere leale. Lealtade è seguire e
mettere in opera quello che le leggi dicono, e ciò massimamente
si conviene a lo giovane: però che lo adolescente, come detto è,
per minoranza d'etade lievemente merita perdono; lo vecchio per
più esperienza dee essere giusto, e non essaminatore di legge,
se non in quanto lo suo diritto giudicio e la legge è tutto uno
quasi e, quasi sanza legge alcuna, dee giustamente sé guidare:
che non può fare lo giovane. E basti che esso seguiti la legge,
e in quella seguitare si diletti: sì come dice lo predetto poeta,
nel predetto quinto libro, che fece Enea, quando fece li giuochi
in Cicilia ne l'anniversario del padre; che ciò che promise per
le vittorie, lealmente diede poi a ciascuno vittorioso, sì come
era di loro lunga usanza, che era loro legge. Per che è
manifesto che a questa etade lealtade, cortesia, amore, fortezza
e temperanza siano necessarie, sì come dice lo testo che al
presente è ragionato; e però la nobile anima tutte le dimostra.
Capitolo XXVII
Veduto e ragionato è assai sofficientemente sopra quella
particola che 'l testo pone, mostrando quelle probitadi che a la
gioventute presta la nobile anima; per che da intendere pare a la
terza parte che comincia: è ne la sua senetta, ne la
quale intende lo testo mostrare quelle cose che la nobile natura
mostra e dee avere ne la terza etade, cioè senettude. E dice che
l'anima nobile ne la senetta sì è prudente, sì è giusta,
sì è larga, e allegra di dir bene in prode d'altrui e d'udire
quello, cioè che è affabile. E veramente queste quattro vertudi
a questa etade sono convenientissime. E a ciò vedere, è da
sapere che, sì come dice Tullio in quello De Senectute, "certo
corso ha la nostra buona etade, e una via semplice è quella de
la nostra buona natura; e a ciascuna parte de la nostra etade è
data stagione a certe cose". Onde sì come a l'adolescenza
dato è, com'è detto di sopra, quello per che a perfezione e a
maturitade venire possa, così a la gioventute è data la
perfezione, e a la senettute la maturitade acciò che la dolcezza
del suo frutto e a sé e ad altrui sia profittabile; ché, sì
come Aristotile dice, l'uomo è animale civile, per che a lui si
richiede non pur a sé ma altrui essere utile. Onde si legge di
Catone che non a sé, ma a la patria e a tutto lo mondo nato
esser credea. Dunque appresso la propria perfezione, la quale s'acquista
ne la gioventute, conviene venire quella che alluma non pur sé
ma li altri; e conviensi aprire l'uomo quasi com'una rosa che
più chiusa stare non puote, e l'odore che dentro generato è
spandere: e questo conviene essere in questa terza etade, che per
mano corre. Conviensi adunque essere prudente, cioè savio: e a
ciò essere si richiede buona memoria de le vedute cose, buona
conoscenza de le presenti e buona provedenza de le future. E, sì
come dice lo Filosofo nel sesto de l'Etica, "impossibile è
essere savio chi non è buono", e però non è da dire savio
chi con sottratti e con inganni procede, ma è da chiamare astuto;
ché sì come nullo dicerebbe savio quelli che si sapesse bene
trarre de la punta d'uno coltello ne la pupilla de l'occhio,
così non è da dire savio quelli che ben sa una malvagia cosa
fare, la quale facendo, prima sé sempre che altrui offende.
Se bene si mira,
da la prudenza vegnono li buoni consigli, li quali conducono sé
e altri a buono fine ne le umane cose e operazioni; e questo è
quello dono che Salomone, veggendosi al governo del populo essere
posto, chiese a Dio, sì come nel terzo libro de li Regi è
scritto. Né questo cotale prudente non attende chi li domandi
"Consigliami", ma proveggendo per lui, sanza richesta
colui consiglia; sì come la rosa, che non pur a quelli che va a
lei per lo suo odore rende quello, ma eziandio a qualunque
appresso lei va. Potrebbe qui dire alcuno medico o legista:
"Dunque porterò io lo mio consiglio e darollo eziandio che
non mi sia chesto, e de la mia arte non averò frutto?"
Rispondo, sì come dice nostro Signore: "A grado riceveste,
a grado e date". Dico dunque, messer lo legista, che quelli
consigli che non hanno rispetto a la tua arte e che procedono
solo da quel buono senno che Dio ti diede (che è prudenza, de la
quale si parla), tu non li dei vendere a li figli di Colui che te
l'ha dato: quelli che hanno rispetto a l'arte, la quale hai
comperata, vendere puoi; ma non sì che non si convegnano alcuna
volta decimare e dare a Dio, cioè a quelli miseri a cui solo lo
grado divino è rimaso. Conviensi anche a questa etade essere
giusto, acciò che li suoi giudicii e la sua autoritade sia un
lume e una legge a li altri. E perché questa singulare vertù,
cioè giustizia, fue veduta per li antichi filosofi apparire
perfetta in questa etade, lo reggimento de le cittadi commisero
in quelli che in questa etade erano; e però lo collegio de li
rettori fu detto Senato. Oh misera, misera patria mia! quanta
pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual volta scrivo
cosa che a reggimento civile abbia rispetto! Ma però che di
giustizia nel penultimo trattato di questo volume si tratterà,
basti qui al presente questo poco avere toccato di quella.
Conviensi anche
a questa etade essere largo; però che allora si conviene la cosa
quando più satisface al debito de la sua natura, né mai a lo
debito de la larghezza non si può satisfacere così come in
questa etade. Che se volemo bene mirare al processo d'Aristotile
nel quarto de l'Etica, e a quello di Tullio in quello de li
Offici, la larghezza vuole essere a luogo e a tempo, tale che lo
largo non noccia a sé né ad altrui. La quale cosa avere non si
puote sanza prudenza e sanza giustizia; le quali virtudi anzi a
questa etade avere perfette per via naturale è impossibile. Ahi
malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli, che rapite a
li men possenti, che furate e occupate l'altrui ragioni; e di
quelle corredate conviti, donate cavalli e arme, robe e denari,
portate le mirabili vestimenta, edificate li mirabili edifici, e
credetevi larghezza fare! E che è questo altro a fare che levare
lo drappo di su l'altare e coprire lo ladro la sua mensa? Non
altrimenti si dee ridere, tiranni, de le vostre messioni, che del
ladro che menasse a la sua casa li convitati, e la tovaglia
furata di su l'altare, con li segni ecclesiastici ancora, ponesse
in su la mensa e non credesse che altri se n'accorgesse. Udite,
ostinati, che dice Tullio contro a voi nel libro de li Offici:
"Sono molti, certo desiderosi d'essere apparenti e gloriosi,
che tolgono a li altri per dare a li altri, credendosi buoni
essere tenuti, se li arricchiscono per qual ragione essere voglia.
Ma ciò tanto è contrario a quello che far si conviene, che
nulla è più".
Conviensi anche
a questa etade essere affabile, ragionare lo bene, e quello udire
volontieri: imperò che allora è buono ragionare lo bene, quando
esso è ascoltato. E questa etade pur ha seco un'ombra d'autoritade,
per la quale più pare che lei l'uomo ascolti che nulla più
tostana etade, e più belle e buone novelle pare dover savere per
la lunga esperienza de la vita. Onde dice Tullio in quello De
Senectute, in persona di Catone vecchio: "A me è
ricresciuto e volontà e diletto di stare in colloquio più ch'io
non solea".
E che tutte e
quattro queste cose convegnono a questa etade, n'ammaestra Ovidio
nel settimo Metamorfoseos, in quella favola dove scrive come
Cefalo d'Atene venne ad Eaco re per soccorso, ne la guerra che
Atene ebbe con Creti. Mostra che Eaco vecchio fosse prudente,
quando, avendo per pestilenza di corrompimento d'aere quasi tutto
lo popolo perduto, esso saviamente ricorse a Dio e a lui domandò
lo ristoro de la morta gente; e per lo suo senno, che a pazienza
lo tenne e a Dio tornare lo fece, lo suo popolo ristorato li fu
maggiore che prima. Mostra che esso fosse giusto, quando dice che
esso fu partitore a nuovo popolo e distributore de la terra
diserta sua. Mostra che fosse largo, quando disse a Cefalo dopo
la dimanda de lo aiuto: "O Atene, non domandate a me
aiutorio, ma toglietevelo; e non dite a voi dubitose le forze che
ha questa isola. E tutto questo è lo stato de le mie cose: forze
non ci menomano, anzi ne sono a noi di soperchio; e lo avversario
è grande, e lo tempo da dare è, bene avventuroso e sanza escusa".
Ahi quante cose sono da notare in questa risposta! Ma a buono
intenditore basti essere posto qui come Ovidio lo pone. Mostra
che fosse affabile, quando dice e ritrae per lungo sermone a
Cefalo la istoria de la pestilenza del suo popolo diligentemente,
e lo ristoramento di quello. Per che assai è manifesto a questa
etade essere quattro cose convenienti; per che la nobile natura
in essa le mostra, sì come lo testo dice. E perché più
memorabile sia l'essemplo che detto è, dice di Eaco re che
questi fu padre di Telamon, di Peleus e di Foco, del quale
Telamon nacque Aiace, e di Peleus Achilles.
Capitolo XXVIII
Appresso de la ragionata particola è da procedere a l'ultima,
cioè a quella che comincia: Poi ne la quarta parte de la vita;
per la quale lo testo intende mostrare quello che fa la nobile
anima ne l'ultima etade, cioè nel senio. E dice ch'ella fa due
cose: l'una, che ella ritorna a Dio, sì come a quello porto onde
ella si partio quando venne ad intrare nel mare di questa vita; l'altra
si è che ella benedice lo cammino che ha fatto, però che è
stato diritto e buono e sanza amaritudine di tempesta. E qui è
da sapere che, sì come dice Tullio in quello De Senectute, la
naturale morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo.
Ed è così: ché, come lo buono marinaio, come esso appropinqua
al porto, cala le sue vele, e soavemente, con debile conducimento,
entra in quello; così noi dovemo calare le vele de le nostre
mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro intendimento
e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavitade e
con tutta pace. E in ciò avemo da la nostra propria natura
grande ammaestramento di soavitade, ché in essa cotale morte non
è dolore né alcuna acerbitate, ma sì come uno pomo maturo
leggiermente e sanza violenza si dispicca dal suo ramo, così la
nostra anima sanza doglia si parte dal corpo ov'ella è stata.
Onde Aristotile in quello De Iuventute et Senectute dice che
"sanza tristizia è la morte ch'è ne la vecchiezza". E
sì come a colui che viene di lungo cammino, anzi ch'entri ne la
porta de la sua cittade li si fanno incontro li cittadini di
quella, così a la nobile anima si fanno incontro, e deono fare,
quelli cittadini de la etterna vita; e così fanno per le sue
buone operazioni e contemplazioni: ché, già essendo a Dio
renduta e astrattasi da le mondane cose e cogitazioni, vedere le
pare coloro che appresso di Dio crede che siano. Odi che dice
Tullio, in persona di Catone vecchio: "A me pare già vedere
e levomi in grandissimo studio di vedere li vostri padri, che io
amai, e non pur quelli che io stesso conobbi, ma eziandio quelli
di cui udi' parlare". Rendesi dunque a Dio la nobile anima
in questa etade, e attende lo fine di questa vita con molto
desiderio e uscir le pare de l'albergo e ritornare ne la propria
mansione, uscir le pare di cammino e tornare in cittade, uscir le
pare di mare e tornare a porto. O miseri e vili che con le vele
alte correte a questo porto, e là ove dovereste riposare, per lo
impeto del vento rompete, e perdete voi medesimi là dove tanto
camminato avete! Certo lo cavaliere Lancelotto non volse entrare
con le vele alte, né lo nobilissimo nostro latino Guido
montefeltrano. Bene questi nobili calaro le vele de le mondane
operazioni, che ne la loro lunga etade a religione si rendero,
ogni mondano diletto e opera disponendo. E non si puote alcuno
escusare per legame di matrimonio, che in lunga etade lo tegna;
ché non torna a religione pur quelli che a santo Benedetto, a
santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d'abito
e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può
tornare in matrimonio stando, ché Dio non volse religioso di noi
se non lo cuore. E però dice santo Paulo a li Romani: "Non
quelli ch'è manifestamente, è Giudeo, né quella ch'è
manifesta in carne è circuncisione; ma quelli ch'è in ascoso,
è Giudeo, e la circuncisione del cuore, in ispirito non in
littera, è circuncisione; la loda de la quale è non da li
uomini, ma da Dio".
E benedice anco
la nobile anima in questa etade li tempi passati; e bene li può
benedicere, però che, per quelli rivolvendo la sua memoria, essa
si rimembra de le sue diritte operazioni, sanza le quali al porto,
ove s'appressa, venire non si potea con tanta ricchezza né con
tanto guadagno. E fa come lo buono mercatante, che, quando viene
presso al suo porto, essamina lo suo procaccio e dice: "Se
io non fosse per cotal cammino passato, questo tesoro non avre'io,
e non avrei di ch'io godesse ne la mia cittade, a la quale io m'appresso";
e però benedice la via che ha fatta. E che queste due cose
convegnano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano
nel secondo de la sua Farsalia, quando dice che Marzia tornò a
Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere guasta:
per la quale Marzia s'intende la nobile anima. E potemo così
ritrarre la figura a veritade. Marzia fu vergine, e in quello
stato si significa l'adolescenza; poi si maritò a Catone, e in
quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per
li quali si significano le vertudi che di sopra si dicono a li
giovani convenire; e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio,
per che si significa che si partì la gioventute e venne la
senettute; fece figli di questo anche, per che si significano le
vertudi che di sopra si dicono convenire a la senettute. Morì
Ortensio; per che si significa lo termine de la senettute; e
vedova fatta - per lo quale vedovaggio si significa lo senio -
tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che
si significa la nobile anima dal principio del senio tornare a
Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che
Catone? Certo nullo.
E che dice
Marzia a Catone? "Mentre che in me fu lo sangue", cioè
la gioventute, "mentre che in me fu la maternale vertute",
cioè la senettute, che bene è madre de l'alte vertudi, sì come
di sopra è mostrato, "io" dice Marzia "feci e
compiei li tuoi comandamenti", cioè a dire che l'anima
stette ferma a le civili operazioni. Dice: "E tolsi due
mariti", cioè a due etadi fruttifera sono stata. "Ora"
dice Marzia "che 'l mio ventre è lasso, e che io sono per
li parti vota, a te mi ritorno, non essendo più da dare ad altro
sposo"; cioè a dire che la nobile anima, cognoscendosi non
avere più ventre da frutto, cioè li suoi membri sentendosi a
debile stato venuti, torna a Dio, colui che non ha mestiere de le
membra corporali. E dice Marzia: "Dammi li patti de li
antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio"; che è a
dire che la nobile anima dice a Dio: "Dammi, Signor mio,
omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta vita
sia chiamata tua". E dice Marzia: "Due ragioni mi
muovono a dire questo: l'una si è che dopo me si dica ch'io sia
morta moglie di Catone; l'altra, che dopo me si dica che tu non
mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti". Per queste
due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire d'esta vita
sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua
operazione. Oh sventurati e male nati, che innanzi volete
partirvi d'esta vita sotto lo titolo d'Ortensio che di Catone!
Nel nome di cui è bello terminare ciò che de li segni de la
nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa
nobilitade tutti li dimostra per tutte etadi.
Capitolo XXIX
Poi che mostrato ha lo testo quelli segni li quali per ciascuna
etade appaiono nel nobile uomo e per li quali conoscere si puote,
e sanza li quali essere non puote, come lo sole sanza luce e lo
fuoco sanza caldo, grida lo testo a la gente, a l'ultimo di ciò
che di nobilità è ritratto, e dice: "O voi che udito m'avete,
vedete quanti sono coloro che sono ingannati!": cioè coloro
che, per essere di famose e antiche generazioni e per essere
discesi di padri eccellenti, credono essere nobili, nobilitade
non avendo in loro. E qui surgono due quistioni, a le quali ne la
fine di questo trattato è bello intendere. Potrebbe dire ser
Manfredi da Vico che ora Pretore si chiama e Prefetto: "Come
che io mi sia, io reduco a memoria e rappresento li miei maggiori,
che per loro nobilitade meritaro l'officio de la Prefettura, e
meritaro di porre mano a lo coronamento de lo Imperio, meritaro
di ricevere la rosa dal romano Pastore: onore deggio ricevere e
reverenza da la gente". E questa è l'una questione. L'altra
è, che potrebbe dire quelli da Santo Nazzaro di Pavia, e quelli
de li Piscitelli da Napoli: "Se la nobilitade è quello che
detto è, cioè seme divino ne la umana anima graziosamente posto,
e le progenie, o vero schiatte, non hanno anima, sì come è
manifesto, nulla progenie, o vero schiatta, nobile dicere si
potrebbe: e questo è contra l'oppinione di coloro che le nostre
progenie dicono essere nobilissime in loro cittadi". A la
prima questione risponde Giovenale ne l'ottava satira, quando
comincia quasi esclamando: "Che fanno queste onoranze che
rimangono da li antichi, se per colui che di quelle si vuole
ammantare male si vive? se per colui che de li suoi antichi
ragiona e mostra le grandi e mirabili opere, s'intende a misere e
vili operazioni?" Avvegna che, "chi dicerà", dice
esso poeta satiro, "nobile per la buona generazione quelli
che de la buona generazione degno non è? Questo non è altro che
chiamare lo nano gigante". Poi appresso, a questo cotale
dice: "Da te a la statua fatta in memoria del tuo antico non
ha dissimilitudine altra, se non che la sua testa è di marmo, e
la tua vive". E in questo, con reverenza lo dico, mi
discordo dal Poeta, ché la statua di marmo, di legno o di
metallo, rimasa per memoria d'alcuno valente uomo, si dissimiglia
ne lo effetto molto dal malvagio discendente. Però che la statua
sempre afferma la buona oppinione in quelli che hanno udito la
buona fama di colui cui è la statua, e ne li altri genera: lo
malestruo figlio o nepote fa tutto lo contrario, ché l'oppinione
di coloro che hanno udito bene de li suoi maggiori, fa più
debile; ché dice alcuno loro pensiero: "Non può essere che
de li maggiori di costui sia tanto quanto si dice, poi che de la
loro semenza sì fatta pianta si vede". Per che non onore,
ma disonore dee ricevere quelli che a li buoni mala testimonianza
porta. E però dice Tullio che "lo figlio del valente uomo
dee procurare di rendere al padre buona testimonianza". Onde,
al mio giudicio, così come chi uno valente uomo infama è degno
d'essere fuggito da la gente e non ascoltato, così lo malestruo
disceso de li buoni maggiori è degno d'essere da tutti scacciato,
e de' si lo buono uomo chiudere li occhi per non vedere quello
vituperio vituperante de la bontade, che in sola la memoria è
rimasa. E questo basti, al presente, a la prima questione che si
movea.
A la seconda
questione si può rispondere, che una progenie per sé non hae
anima, e ben è vero che nobile si dice ed è per certo modo.
Onde è da sapere che ogni tutto si fa de le sue parti. E` alcuno
tutto che ha una essenza simplice con le sue parti, sì come in
uno uomo è una essenza di tutto e di ciascuna parte sua; e ciò
che si dice ne la parte, per quello medesimo modo si dice essere
in tutto. Un altro tutto è che non ha essenza comune con le
parti, sì come una massa di grano; ma è la sua una essenza
secondaria che resulta da molti grani, che vera e prima essenza
in loro hanno. E in questo tutto cotale si dicono essere le
qualitadi de le parti così secondamente come l'essere; onde si
dice una bianca massa, perché li grani onde è la massa sono
bianchi. Veramente questa bianchezza è pur ne li grani prima, e
secondariamente resulta in tutta la massa, e così
secondariamente bianca dicere si può; e per cotale modo si può
dicere nobile una schiatta, o vero una progenie. Onde è da
sapere che, sì come a fare una bianca massa convegnono vincere
li bianchi grani, così a fare una nobile progenie convegnono in
essa li nobili uomini vincere (dico "vincere" essere
più che li altri), sì che la bontade con la sua grida oscuri e
celi lo contrario che dentro è. E sì come d'una massa bianca di
grano si potrebbe levare a grano a grano lo formento, e a grano a
grano restituire meliga rossa, e tutta la massa finalmente
cangerebbe colore; così de la nobile progenie potrebbero li
buoni morire a uno a uno e nascere in quella li malvagi, tanto
che cangerebbe lo nome, e non nobile ma vile da dire sarebbe. E
così basti a la seconda questione essere risposto.
Capitolo XXX
Come di sopra nel terzo capitolo di questo trattato si dimostra,
questa canzone ha tre parti principali. Per che, ragionate le due
(de le quali la prima cominciò nel capitolo predetto, e la
seconda nel sestodecimo; sicché la prima per tredici e la
seconda per quattordici è determinata, sanza lo proemio del
trattato de la canzone, che in due capitoli si comprese), in
questo trentesimo e ultimo capitolo, de la terza parte principale
brievemente è da ragionare, la quale per tornata di questa
canzone fatta fu ad alcuno adornamento, e comincia: Contra-li-erranti
mia, tu te n'andrai. E qui primamente si vuole sapere che
ciascuno buono fabricatore, ne la fine del suo lavoro, quello
nobilitare e abbellire dee in quanto puote, acciò che più
celebre e più prezioso da lui si parta. E questo intendo, non
come buono fabricatore ma come seguitatore di quello, fare in
questa parte.
Dico adunque: Contra-li-erranti
mia. Questo Contra-li-erranti è tutto una parola, e
è nome d'esta canzone, tolto per essemplo del buono frate
Tommaso d'Aquino, che a uno suo libro, che fece a confusione di
tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose nome
ContraliGentili. Dico adunque che "tu andrai": quasi
dica: "Tu se' omai perfetta, e tempo è di non stare ferma,
ma di gire, ché la tua impresa è grande"; e quando tu
sarai In parte dove sia la donna nostra, dille lo tuo
mestiere. Ove è da notare che, sì come dice nostro Signore, non
si deono le margarite gittare innanzi a li porci, però che a
loro non è prode, e a le margarite è danno; e, come dice Esopo
poeta ne la prima Favola, più è prode al gallo uno grano che
una margarita, e però questa lascia e quello coglie. E in ciò
considerando, a cautela di ciò comando a la canzone che suo
mestiere discuopra là dove questa donna, cioè la filosofia, si
troverà. Allora si troverà questa donna nobilissima quando si
truova la sua camera, cioè l'anima in cui essa alberga. Ed essa
filosofia non solamente alberga pur ne li sapienti, ma eziandio,
come provato è di sopra in altro trattato, essa è dovunque
alberga l'amore di quella. E a questi cotali dico che manifesti
lo suo mestiere, perché a loro sarà utile la sua sentenza, e da
loro ricolta.
E dico ad essa:
Dì a questa donna, "Io vo parlando de l'amica vostra".
Bene è sua amica nobilitate; ché tanto l'una con l'altra s'ama,
che nobilitate sempre la dimanda, e filosofia non volge lo
sguardo suo dolcissimo a l'altra parte. Oh quanto e come bello
adornamento è questo che ne l'ultimo di questa canzone si dà ad
essa, chiamandola amica di quella la cui propria ragione è nel
secretissimo de la divina mente!