Anonimo romano

Vita di Cola di Rienzo



Prologo e primo capitolo

dove se demostra le rascione per le quale questa opera fatta fu

Dice lo glorioso dottore missore santo Isidoro, nello livro delle Etimologie, che lo primo omo de Grecia che trovassi lettera fu uno Grieco lo quale abbe nome Cadmo. 'Nanti lo tiempo de questo non era lettera. Donne, quanno faceva bisuogno de fare alcuna cosa memorabile, scrivere non se poteva. Donne le memorie se facevano con scoiture in sassi e pataffii, li quali se ponevano nelle locora famose dove demoravano moititudine de iente, overo se ponevano là dove state erano le cose fatte: como una granne vattaglia overo vettoria [...] tristezze, disconfitte inscolpivano [...] e aitri animali in sassi overo iente armata, in segno de tale memoria. E queste sassa fonnavano in quelle locora dove le cose fatte erano, in segno de perpetua memoria. Livro non ne facevano, ché lettera non se trovava appo li Grieci. E questo muodo servaro li Romani per tutta Italia e in Francia e massimamente in Roma; ché, facenno asapere alli loro successori [...] loro fatti, fecero arcora triomfali in soli[i]s con vattaglie, uomini armati, cavalli e aitre cose, como se trova mo' in Persia e in Arimino. Da poi che Cadmo comenzao a trovare le lettere, la iente comenzao a scrivere le cose e·lli fatti loro per la devolezza della memoria, e massimamente li fatti avanzarani e mannifichi: como Tito Livio fece lo livro dello comenzamento de Roma fino allo tiempo de Ottaviano, como scrisse Lucano li fatti de Cesari, Salustio e moiti aitri scrittori non lassaro perire la memoria de moite cose antepassate de Roma. Dunqua io, lo quale [...] mea ientilezza, como piaciuto ène a Dio, aio vedute cose de moita memoria per la loro granne escellenzia de novitate in questo munno, lassaraio passare queste cose senza alcuna scrittura? Certo non fora convenevole che de esse remanga tenebre de ignoranzia per pigrizia de scrivere. Anche ne voglio fare speziale livro e narrazione. L'opera ène granne e bella. Questo affanno prenno per moite cascione. La prima, che omo trovarao alcuna cosa scritta la quale se revederao avenire in simile, donne conoscerao che·llo ditto de Salamone ène vero. Dice Salamone: "Non è cosa nova sotto lo sole, ché cosa che pare nova stata è". L'aitra cascione de questo ène che qui se trovarao moito belli e buoni esempî; donne porrao omo alcuna cosa pericolosa schifare, alcuna porrao eleiere e adoperare, sì che lo leiere de questa opera non passarao senza frutto de utilitate. La terza cascione ène che aio respietto alla magnificenzia de questa novitate, como de sopra ditto ène; ché cosa de poco essere omo non cura, lassala stare, cosa granne scrive. La quarta cascione ène quella che mosse Tito Livio. Dice Tito Livio nella prima decada e fao menzione de Alisantro de Macedonia: quanta iente abbe da pede e da cavallo, quanto tiempo durao soa signoria, quanto se stese per lo munno. E dice che soa grannezza fu nulla cosa in comparazione de Romani. Questo dicenno responne ad una questione la quale omo li potria fare e dicere: "Innello narrare le istorie de Romani como te impacci delli fatti de Alisantro?" Responne Tito Livio e dice: "Questo faccio per ponere requie allo animo mio". Quasi dica: "Lo animo mio ène stimolato de scrivere questa materia. Voglione toccare. Puoi me se posa consolato lo mio animo". Così dico io: "L'animo mio stimolato non posa finente dio che io non aio messe in scritto queste belle cose e novitati le quale vedute aio in mea vita". La quinta cascione ène anche quella che scrive Tito Livio nello proemio dello sio livro, nella prima decada. Dice: "Mentre che sto occupato a scrivere queste cose, so' remoto e non veggo le crudelitati le quale per tanti tiempi la nostra citate hao vedute". Così dico io: "Mentre che prenno diletto in questa opera, sto remoto e non sento la guerra e li affanni li quali curro per lo paese, li quali per la moita tribulazione siento tristi e miserabili non solamente chi li pate, ma chi li ascoita". Quello che io scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia testimonio Dio e quelli li quali mo' vivo con meco, ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille: massimamente alcuna cosa che fu in mio paiese intesi da perzone fidedegne, le quale concordavano ad uno. E de ciò io poneraio certi segnali, secunno la materia curze, li quali fuoro concurrienti con esse cose. Questi segnali farrao lo leiere essere certo e non suspietto de mio dicere. Anche questa cronica scrivo in vulgare, perché de essa pozza trare utilitate onne iente la quale simplicemente leiere sao, como soco vulgari mercatanti e aitra moita bona iente la quale per lettera non intenne. Dunqua per commune utilitate e diletto fo questa opera vulgare, benché io l'aia ià fatta per lettera con uno latino moito [...] Ma l'opera non ène tanto ordinata né tanto copiosa como questa. Anche questa opera destinguo per capitoli, perché volenno trovare cobelle, senza affanno se pozza trovare. [...]

Cap. II

Como Iacovo de Saviello senatore fu cacciato de Campituoglio per lo puopolo, e della cavallaria de missore Stefano della Colonna e missore Napolione delli Orsini.

Dunqua da quale novitate comenzaraio? Io comenzaraio dallo tiempo de Iacovo de Saviello. Essenno senatore solo per lo re Ruberto, fu cacciato da Campituoglio dalli scendichi. Li scendichi fuoro Stefano della Colonna, signore de Pelestrina, e Poncello de missore Orso, signore dello Castiello de Santo Agnilo. Questi se redussero nello Arucielo e, sonata la campana, fecero adunare lo puopolo, la moita cavallaria armata e li moiti pedoni. Tutta Roma stava armata. Bene me recordo como per suonno. Io stava in Santa Maria dello Piubico e viddi passare la traccia delli cavalieri armati li quali traievano a Campituoglio. Forte ivano regogliosi. Moiti erano, e bene a cavallo e bene armati. L'uitimo de quelli, se bene me recordo, portava una iuba de zannato roscio e una scuffia de zannato giallo in capo, una mazza a cavallo in mano. Passavano per la strada ritta, per la posana, donne demorano li ferrari, da canto a casa de Pavolo Iovinale. La traccia era longa. La campana sonava. Lo puopolo se armava. Io stava in Santa Maria dello Piubico. A queste cose poneva cura. Iacovo de Saviello senatore stava in Campituoglio. Erase stecconiato intorno. Non vaize niente sio infortellire, ché sallo su Stefano, sio zio, e Poncello scindichi de Roma, e doicemente lo presero per mano e miserollo a valle, acciò che non avessi pericolo nella perzona. Fu alcuno che penzao e disse: "Stefano, como puoi fare tanta onta a tio nepote?" La resposta de Stefano fu superva, disse: "Con doi denari de cerase lo rappagaraio". Mai questi denari non se trovaro. Anche comenzo io dallo tiempo che questi doi baroni fuoro fatti cavalieri per lo puopolo de Roma, bagnati de acqua rosata per li vintiotto Buoni Uomini in Santa Maria de l'Arucielo a granne onore. L'uno fu chiamato missore Stefano, l'aitro missore Napolione. Granne fu la festa, granne fu l'onore là in Campituoglio. Nella piazza de Santa Maria fuoro spase trabacche e paviglioni. Là erano tromme e ceramelle e onne instrumento. Vedesi rompere de aste, currere de cavalli e pettorali de sonaglie. Moite erano le banniere. Più erano le reconoscianze. Moita se faceva festa. Moito li fu fatto onore. Nella chiesia de Santa Maria de l'Arucielo stavano doi lietti, li più onorati. Ben pareva cosa reale. Queste cose me recordo como per suonno. Currevano anni Domini MCCC [...] li sopraditti cavalieri bagnati ne iero allo re Ruberto a Napoli, lo quale li cenze la spada; la quale cosa moito despiacque allo romano puopolo. Certo da queste cose io non comenzo; ca, benché così fosse, io era in tanta tenerezza de etate, che conoscimento non avea elettivo. Anco voglio comenzare da cosa de più aitezza. Incomenzaremo collo nome de Dio dalla sconfitta dello principe della Morea, la quale fu per questa via.

Cap. III

Como fu sconfitto lo principe della Morea a porta de Castiello Santo Agnilo, e como fu trovato Guelfo e Gebellino, e delle connizione de Dante e que fine abbe soa vita.

Currevano anni Domini MCCCXXVII, dello mese de settiembro, nella viilia de santo Agnilo de vennegne, quanno fatta fu la granne sconfitta per li Romani a porta de Castiello; la quale fu per questa via. Li elettori dello imperio nella Alamagna liessero Ludovico duce de Bavaria in imperatore, lo quale non fu obediente a papa Ianni, como se dicerao. Quanno la venuta de questo elietto a Roma fu intesa, papa Ianni, lo quale era in quello tiempo, e Ruberto re de Apuglia se provedevano de pararese a soa venuta. Dunqua de loro commannamento missore Ianni della Rascione, principe della Morea, frate dello re Ruberto, e missore Ianni Gaietano, legato in Toscana, se muossero con iente moita a Roma per fare contrasto e reparo. La adunanza fu fatta nella citate de Nargne. La iente fu moito bella e bene acconcia. Setteciento fuoro li cavalieri, pedoni senza fine. Tutti li baroni de casa Orsina erano con essi: missore Napolione, cavaliero noviello dello puopolo, Bertollo de Francesco dello Monte, nepote dello legato, canfione della parte guelfa, missore Antrea de Campo de Fiore e moiti aitri. La iente ne veniva grossa e smesurata per occupare Roma. Romani, in semmiante de fare buono scudo, se 'nantipararo e fecero capitanio dello puopolo uno vertuosissimo barone de casa della Colonna - Sciarra fu sio nome -, lo quale fu delli più dotti e savii de guerra che in quello tiempo fussi. 'Nanti che lo legato approssimassi, Sciarra abbe tutte le fortezze de Roma. Bene abbe Castiello Santo Agnilo. Puoi ordinao lo puopolo e fece caporioni. Fece capo vinticinque, tutti romani. Ordinao tutti conestavili. Moito li teneva solliciti. Bene guardava le porte. Spesso faceva parlamento. Moite spie avea. Iacovo Saviello, Teballo Santo Stati e moita baronia collo puopolo era. Quanto la venuta dello legato più approssimava, tanto li Romani stavano più solliciti. Ecco che la notte della viilia de santo Agnilo fuoro ionti in Roma. E entraro nella citate Leonina, non per la porta, ché se guardava, ma entraro per lo muro rotto. Ruppero lo muro quale stao sotto le Incarcerate e, dato quello muro per terra, fecero uno granne guado in fronte allo pozzo e per quella così fatta via tradussero loro banniere, loro legioni de iente. Entrati, occuparo da porta de Castiello fi' a Santo Pietro. Tutto era copierto de iente armata. Bene sonavano tromme e trommette, naccari e cerammelle. Gran festa facevano. Bene scrissero lettere della entrata de Roma. Fra tanto la porta dello brunzo stava enzerrata. Quanno Sciarra, lo franco capitanio, sappe che la iente era ionta, non se dubitao niente, anco se armao e fece sonare la campana a stormo. Mesa notte era e forza lo primo suonno. Uno vanno con tromme mannao per la terra, che onne perzona fosse armata, ca·lli nemici erano entrati in Puortica, e che traiessino a Campituoglio. La iente che dormiva subitamente se sviglia. Ciascuno prenne arme. Coscia abbe nome lo vannitore. La campana sonava terribilemente. La iente trasse a Campituoglio. Là traie la baronia e·lli populari. Lo buono capitanio parlao e disse ca venuti erano per entrare in Roma, per mozzare le zinne delli pietti delle donne de Roma. Moito inanimao la iente. Poi partìo la iente in doi parte. De l'una parte fu capo esso, dell'aitra fu capo Iacovo de Saviello, lo quale fu mannato alla porta de Santo Ianni, quale se dice porta Maiure. E questo perché sapeva ca quella iente se era partuta e veniva da doi porte, parte da porta Castiello, parte da porta Maiure. Ma non venne così, ca, como Dio voize, fu dato lo dìe de santo Agnilo. Quelli intesero lo dìe po' santo Agnilo. Donne la cosa venne falluta, ca non vennero alle porte ad uno ponto né ad uno dìe. Quanno Iacovo ìo alla porta, non trovao alcuno. Là se tenne senza alcuno impaccio conestavilito. Dall'aitra parte cavalca Sciarra con sio confallone. Granne ène la cavallaria. Sette rioni se abiaro denanti armati. Esmesurato era lo puopolo. Ionze a ponte de Santo Pietro. Io me recordo che in quella notte uno cavalieri romano armato, essenno cavalcato a ponte, odìo una trommetta de nimici. Volenno fuire tramazzao da cavallo. Lassao lo cavallo e vennesene a pede. Sacci ca non abbe carestia de paura! Quanno lo puopolo fu ionto a ponte, allora se faceva dìe. Era la aurora. Allora Sciarra commannao che·lla porta dello brunzo fossi operta. La folla era granne. Moito fuoro storditi li nimici, vedenno per lo ponte li moiti pennoncielli. Sapeno ca onne pennone avea venticinque uomini. Ora se opere la porta. Lo rione delli Monti vao denanti. Allocase lo puopolo per li puortichi, per la piazza de Castiello. Là erano schierati li sollati e l'aitre iente. Ora vedese currere de cavalli. L'uno lo broccia de sopra a l'aitro. Chi dao, chi tolle. Tromme sonavano de·llà e de cà. Granne è lo romore, granne è lo stormo. Chi dao, chi tolle. Sciarra e missore Antrea de Campo de Fiore se infrontano insiemmori e sì se villaniaro forte. Puoi se ruppero aduosso le aste. Puoi se colpiavano delle spade. Non ne voleva la vita l'uno de lo aitro. Intanto se departiero e tornaro a loro iente. Vedese ferire, lanciare e prete iettare. Ben pare che fossi stormo crudele. Lo puopolo de Roma vao 'nanti e reto como onna de mare. Ma li nimici daienno lato, li Romani se allocaro fi' a mesa la piazza. Là fu fatta una novitate così. Uno, lo quale avea nome Ianni Manno de Colonna, portava lo confallone dello puopolo de Roma. Como ionze allo pozzo lo quale stao in quella piazza denanti alle Incarcerate, donne era rotto lo muro, prese questo confallone e iettaolo nello pozzo. E questo fece per dare uitima sconfitta allo puopolo de Roma. Bene debbe lo traditore perdire la vita. Non perciò perdìo vigore lo Romano, ché ià lo principe dava a reto. Ora vedese fuire, ora vedese commattere. Là se pare chi ène figlio de bona mamma. Sciarra della Colonna forte conforta soa iente e fece una notabile cosa, che la soa sopravesta cagnao in poca ora. Granne senno lillo fece fare. Granne parte dello puopolo passao canto lo fiume, dallo lato de Santo Spirito. Là per la folla affocati fuoro cinque pedoni romani. Anco là fu un'aitra novitate. Uno granne omo de Roma - Cola de madonna Martomea delli Aniballi avea nome - fu perzona assai ardita, iovine como acqua. Coize audacia de volere prennere per la perzona lo principe. Speronao lo destrieri e ruppe la forte schiera dove stava affasciato lo principe. Venneli denanti e destese la mano per pigliarlo. Bene se ne·llo credeva menare; ma non respusero le mesure, ca·llo principe li menao de una mazza de fierro e ferìo lo cavallo. La potenzia dello destrieri dello principe fu tanta che recessava a reto Nicola e recessannose a reto Nicola, non abbe sufficiente spazio lo sio cavallo. Donne li piedi dereto li vennero meno e cadde in quello fossato lo quale stao in fronte alla porta dello spidale de Santo Spirito, lo quale ène fatto per defesa de l'uorto. In quello fossato lo cavallo e esso, credennose retornare, caddero menati a forza dalli cavalli dello principe, e là fu occiso. Granne fu la tristizia che Roma abbe de così inclito barone. Allora se fiariao lo puopolo. Lo principe deo a reto. Inchinao soa schiera. Comenzaro a fuire. Lo luoco donne se partiro fu porta Veredara. Quella fu la via che li campao. Ora se aiza la terza. Lo fuire ène granne. Maiure è lo maciello. Così se macellavano como le pecora. Nulla resistenzia faco. Moita iente ce fu occisa. Moita preda Romani guadagnaro. Alquanti baroni romani della parte Orsina, li quali fecero resistenzia, fuoro presoni. In presone stettero tanto quanto lo capitanio voize. Infra li quali fu Bertollo capo de parte Orsina, capitanio della Chiesia e della parte guelfa. E se non fusse che Sciarra lo portava in groppa, li Romani lo àbberano muorto. Aitra iente non fece defesa, cioène Napoletani, Provenzali, Franceschi, Pugliesi. Tante fuoro le corpora morte che nude iacevano, che non se pote dicere. Per tutta piazza de Castiello fi' a Santo Pietro, da Santa Maria in Trespadina, da piazza de Santo Spirito, per tutte puortica, dalli Armeni, per onne strada iacevano como la semmola seminati, tagliati, nudi e muorti. Là fra questa iente iaceva lo conte de Santo Severino e moita aitra bona iente: la vista lo mustrava. Ora se delequa lo principe con quella soa iente che potéo cogliere. Po' moiti dìe fuoro trovati uomini muorti per le vigne, armati, nelle capanne e nelli cupi delli arbori, li quali nello stormo erano stati feruti. Per la via lo spirito li avea abannonati. Sciarra tornao a Campituoglio con granne triomfo. Bello pallio mannao a Santo Agnilo Pescivennolo e uno bello calice per merito e onore de questa romana vittoria. In questo tiempo fuoro fatte quelle maladette parte, Guelfi e Gebellini, li quali non erano stati 'nanti, anco erano stati Bianchi e Neri. Una sera, quanno la iente lassa opera, appriesso allo cenare nella citate de Fiorenza se appicciaro doi cani. L'uno abbe nome Guelfo, l'aitro Gebellino. Forte se stracciavano. A questo romore de doi cani la moita iovinaglia trasse. Parte favorava allo Guelfo, parte allo Gebellino. Quanno se fuoro li cani [...]

Cap. IV

De papa Ianni e della venuta dello Bavaro a Roma e della soa partenza e dello antipapa lo quale fece. .........

Cap. V

Dello mostro che nacque in Roma e dello legato dello papa lo quale fu cacciato de Bologna.

[...] una citate, da priesso a Bologna vinti miglia: Ferrara hao nome. De questa Ferrara so' cacciati alquanti citadini nuobili, li quali se chiamano quelli da Fontana. E questo avenne perché venniero Ferrara a Veneziani. Ora ne soco signori in luoco loro li marchesi da Este. Questi de Fontana pregaro lo legato che li tornassi in loro casa per anni tre. Li marchesi de Ferrara respusero allo legato fiorini quattordici milia per anno, acciò che non tornassino quelli li quali vennuta avevano la loro patria a Veneziani. Po' li quattro anni dello tributo, lo anno settimo dello sio dominio, lo legato non li pareva essere signore se non aveva la signoria libera. Fece una oste generale e sì·lla mannao sopra Ferrara. Ferrara ène una longa terra, miglio uno, e iace sopra la ripa de uno nobile e granne fiume lo quale hao nome Po. Da l'aitro lato li stao un aitro vraccio de Po. Questa citate, como ditto ène, è signoriata dalli marchesi da Este, li quali so' nuobili uomini, moito amati dalli tiranni de Lommardia. L'oste dello legato fu potentissima. De colpo abbe tutto lo contado de Ferrara. Puoi passao lo Po e fece uno ponte de lename a soa posta. Puoi toize lo borgo de Ferrara, lo quale vao invierzo Venezia. Poca cosa era da fare. La terra era perduta. Per acqua e per terra staieva assediata. Erance da fare uno bottone. Lo capitanio dell'oste era lo conte de Armeniac, lo quale sparlava contra li baroni de Romagna e dicevali traditori, lo quale per grannezza soa non curava de fare quella guardia la quale aveva de bisuogno. Anco ce fu lo puopolo de Bologna, lo quale non stava volentieri fore de casa. Anco ce fu la moita sollaria, li quali non erano pacati, ca·lle pache che se·lli mannavano non se·lli daievano. Anco ce fu li signori de Romagna. Lo legato li teneva moito poveri. Nulla provisione li daieva. Quanno ademannavano alcuna grazia, responneva: "Bene. Faciemus ". Vedi que doveano penzare quelli che suoglio essere signori e non haco cobelle! Drento in questa Ferrara ionzero da doi milia varvute. Lo marchese Rainaldo non demorao. Su nell'ora della terza essìo de Ferrara e deose sopra l'oste. L'oste pranzava. Ora vedese occidere de iente, vedese fuire, vedese strilla e pianto. Lo conte Armeniac fu presone e revennuto LXXX milia fiorini. Li signori de Romagna se lassaro prennere de loro spontanea voluntate. La moita iente fu morta e presa. Moita robba fu guadagnata. Senza defesa fu guadagnato uno esmesurato trabocco lo quale aveva nome asino. Lo puopolo de Bologna se recuverao in su lo ponte. Lo ponte era legato de stroppe. Cadde in fiume. Quanta iente morìo bene puoi sapere. Alcune perzone fuoro che se appennicaro alle funi delle mole e per l'acqua campavano. Venne uno con una accetta e tagliao quella fune. Tutta quella iente, la quale campava, annegao in Po. Vedi se figlio fu de demonio quello omo! Vinti milia perzone pericolaro nella rotta. Lo carroccio tame a Bologna tornao. Quanno la novella fu ionta a Bologna, lo pianto fu grannissimo e·lla tristezze granne. Lo legato non se dubitao niente. In prima scrisse lettere a missore Malatesta, lo quale colli aitri tiranni era lassato. La sentenzia della lettera era: perché se era rebellato alla Chiesia romana? Missore Malatesta rescrisse una lettera. Aitro non conteneva se non questo: "Bene. Faciemus ". Po' questo lo legato se apparecchiava de fare un'aitra oste moito più pericolosa. Fece venire da sio paiese cinqueciento iannetti vestuti de giallo con longhe gamme, con garavellotti in mano. Puoi mise coite grannissime per cogliere moneta, per l'oste fare. Quanno lo puopolo de Bologna se sentìo agravato sì per le coite sì per la iente morta, forte ne mormorava. Uno dottore de leie - missore Brandelisio delli Gozadini abbe nome - su nella piazza dello Communo se mosse con una spada in mano. Leva puopolo e caccia dello palazzo della Biada lo menescalco dello legato e occise alquanti e derobao. Ora fu puosto lo assedio allo bello e nobile castiello dello legato, dello quale de sopra ditto ène. Lo assedio stette dìe quinnici. L'acqua li fu toita, perché lo curzo li fu rotto. Dentro era fodero de pane, vino, carne inzalata e moite cose. Li Bolognesi traboccavano lo sterco dentro dello castiello e valestravano. Vedenno lo legato che tutto lo munno se·lli era rebellato, fu sollicito de campare soa perzona. Là trasse lo vescovo de Fiorenza. Lo legato se mise in mano de Fiorentini. Li Fiorentini lo trassero fòra allo castiello. Canto le mura ne iva la strada la quale vao alla porta de Fiorenza. Tutto lo puopolo de Bologna li gridava e facevanolli le ficora e dicevanolli villania. Le peccatrice li facevano le ficora e sì·lli gridavano dicennoli moita iniuria. Bene se aizavano li panni dereto e mostravanolli lo primo delli Decretali e lo sesto delle Clementine. Moita onta li fecero. Ben lo àbberano manicato a dienti se non fussi stato in balìa de Fiorentini. Lo legato fece la via delle Alpe con povera compagnia e con poche some. Ionze a Pisa, da Pisa in Avignone. Bolognesi derobaro tutta iente de Lengua de oca. Moiti ne occisero. Puoi deruparo a terra quello nobile castiello de che ditto ène. Aitro non lassaro se non la chiesia. Fi' dalli fonnamenti trassero le mura. Quanno questo fu, currevano anni Domini MCCCXXXIV, de mese [...] La campana dello legato àbbero li Eremitani; la nobilissima cona dello aitare li frati predicatori de santo Domenico, la quale ène de alabastro, opera pisana, valore de X milia fiorini. La lampana cerchiata d'aoro, la quale ardeva nello coro dello legato, àbbero li frati menori. Anco àbbero tutta la carne secca, tanto potessino deluviare. In questo tiempo era in Bologna missore Ianni de Antrea, dottore de Decretali, omo de tanta escellenzia de senno, de scienzia e cortesia, che passava. Questo fu quello lo quale fece lo livro lo quale se dice la Novella.

Cap. VI

Como frate Venturino venne a Roma colle palommelle e dello campanile de Santo Pietro lo quale fu arzo.

Currevano anni Domini MCCCXXXIIII, dello mese de marzo, in quaraiesima uno frate predicatore, lo quale avea nome frate Venturino de Bergamo de Lommardia, dello ordine de santo Domenico, commosse con soie predicazioni devote la maiure parte de Lommardia a devozione e penitenza e connusse questa iente in Roma allo perdono. Erano Bergamaschi, Bresciani, Comani, Milanesi, Mantovani. Una parte fuoro ientili e buoni, ma le dieci parte fuoro delle vescovata. Questa iente, la quale venne con frate Venturino, fu innumerabile. E tanto fu più cosa maravigliosa, quanto arrecavano abito. L'abito, lo quale questo frate Venturino li avea dato, era che questi portavano una gonnella bianca, longa, passata mesa gamma. Sopra la gonnella portavano uno tabarretto de biado corto fino allo inuocchio. In gamme portavano caize de bianco. De sopra le caize portavano calzaroni de corame fi' a mesa gamma. In capo portavano una capelluzza de panno de lino bianca e de sopra portavano una capelluzza de panno de lana biada, nella quale dalla fronte portavano uno tau. La parte de sopra era bianca, la parte de mieso era roscia. In pietto portavano una palomma bianca, la quale teneva in vocca uno ramo de oliva in segno de pace. Nella mano ritta portavano lo vordone, nella manca li paternostri. Con questa iente frate Venturino descenne per Lommardia predicanno. Moita iente lo sequita. Veone in Fiorenza. Fiorentini graziosamente recipiero cotale iente. Fuoro divisi per le case caritativamente e dato a loro da magnare, buono lietto, lavati piedi, fatta moita caritate per tre dìe senza premio. Puoi se muossero li moiti Fiorentini e presero quello medesimo abito e sequitano frate Venturino. Viengo a Vitervo. Da Vitervo entrano in Roma. Ora la fama de frate Venturino de Bergamo forte ventava a Roma. Dicevase ca voleva aconvertire Romani. Quanno fu ionto, fu receputo in Santo Sisto. Là predicao. Soa iente moito pareva ordinata e bona. La sera cantavano le laode. Bene ivano ad ordine. Uno confallone de zannato arrecavano, lo quale donao alla Minerva. Allo dìe de presente penne nella voita della Minerva sopre la cappella de missore Latino. Ène de zannato verde, luongo e ampio. Drento stao penta la figura de santa Maria. De·llà e de cà staco penti agnili, li quali sonano viole, santo Domenico e santo Pietro martire e aitri profeta. Quello segnale lassao. Puoi predicao in Santa Maria Minerva lo dìe della Annunziazione. Puoi predicao in Campituoglio, nello parlatorio. Tutta Roma trasse per odire soa predica. Forte tenevano mente Romani. Queti stavano. Ponevano cura se peccava in faizo latino. Allora predicao e disse ca sciogliessino le calzamenta delli piedi loro, ca la terra dove stavano era santa. E disse che Roma era terra de moita santitate per le corpora le quale in essa iaccio. Ma Romani so' mala iente. Allora li Romani se ne risero. Puoi se domannao una grazia e uno dono a Romani. Da vero che·llo ioco de Nagoni non era fatto. Disse frate Venturino: "Signori, voi devete fare una vostra festa la quale gosta moita moneta. Non vao né per Dio né per santi; anche se fao per idolatria, in servizio de demonio. Questa pecunia datela a mi. Io la despenzaraio per Dio alli uomini necessitosi, li quali non puoco fornire lo tiempo fi' allo sudario vedere". Allora li Romani se comenzaro a fare gabe de esso e dissero ca era pascio. Così dicenno non più demoraro, anche se levaro in pede e partirose e lassarolo solo. Puoi predicao in Santo Ianni. Romani non lo volevano odire, anche ne facevano la caccia. Allora se desperava dell'ira e sì·lli maledisse e disse ca mai non vidde più perverza iente. Non comparze più. Anche se partìo de secreto e gìone fòra de Roma. Ionze in Avignone. Lo papa lo privao dello predicare. In questo tiempo uno folgoro ferìo lo campanile de Santo Pietro e tutto lo cucurullo arze. Le campane non toccao. Anche in questo tiempo morìo papa Ianni, dello quale ditto ène. Quanno approssimao a morte, revocao lo errore de chi diceva ca·lle anime delli beati non veiono Dio de faccia. E disse ca ciò che avea ditto avea ditto per disputazione fare.

Cap. VII

De papa Benedetto e dello tetto de Santo Pietro de Roma lo quale fu renovato.

Currevano anni Domini MCCCXXXIIII quanno fu creato papa Benedetto. Fu oitramontano, vascone e fu monaco bianco de l'ordine de Cistella de santo Bernardo. Avea nome lo cardinale bianco quanno fu eletto. La soa elezzione fu più divina che umana, perché li cardinali li diero la voce per lo quarto, sì che chi hao la voce per lo quarto ène nella più infima connizione. Ora tutti li cardinali se concordavano in esso per lo quarto, sì che tutti l'àbbero per desperato. Ma puoi che·lle voce fuoro tutte dello bianco, soa elezzione fu divina, ca la concordia de tutti fu che fussi papa; lo quale essere papa ciascheuno assemmotì: l'abbe per desperato. Questo abbe nome lo cardinale bianco e fu omo moito corpulento e grasso e gruosso, roscio. La soa figura de ponto stao in Santo Pietro, dentro alla chiesia, sopre la porta maiure della nave maiure. Questo papa fu omo santissimo e servao questa connizione, che non voize mai despenzare nelli matrimonii li quali se faco intra li parienti. Moito li despiaceva cutale parentezze. Mai non li voize consentire. Anche fu omo moito scarzo e retenente dello tesauro della Chiesia; non solamente dello tesauro, ma delle beneficia. Moito bene voleva vedere a chi le daieva e voleva vedere de que vita fussi e volevali forte esaminare. Moiti ne esaminao esso medesimo. Non voleva idiote. Quanno li veniva innanti alcuno prelato indegno overo idiota, de non convenevile fama, li tolleva parte delle prebenne e sì·lle presentava alli sufficienti e buoni. Moito iva cercanno li buoni chierichi sufficienti. Moito li onorava. E perché ne trovava pochi, destrenze le grazie a sì e non voleva provedere. Denanti a questo papa Benedetto venne uno monaco de Santo Pavolo de Roma - frate Manosella avea nome -, lo quale per la morte dello antecessore sio era elietto abbate. Questo era omo lo quale se delettava de ire per Roma la notte facenno le matinate, sonanno lo leguto, ca era bello sonatore e cantatore de ballate. E iva per le corte alle nozze e per le vigne alle calate. Così dico Romani. Quanto ne poteva essere tristo santo Benedetto, quanno lo sio monaco saitava e ballava! Quanno questo elietto fu denanti alla santitate de papa Benedetto, disse: "Santo patre, io so' lo elietto de Santo Pavolo de Roma". Ora lo papa sao tutte le connizioni de chi li veo denanti. Disse: "Sai cantare?" Respuse lo elietto: "Saccio". Lo papa: "Io dico la cantilena". Disse lo elietto: "Le canzoni saccio". Disse lo papa: "Sai sonare?" Disse lo eletto: "Saccio". Disse lo papa: "Io dico se tu sai toccare l'organi e·llo leguto". Respuse quello: "Troppo bene". Allora mutao favella lo papa e disse: "E conveose allo abbate dello venerabile monistero de Santo Pavolo essere buffone? Va' per li fatti tuoi!" Così tornao collo capo lavato. Questo papa Benedetto reconfermao tutto lo prociesso lo quale avea fatto lo antecessore sio contra lo Bavaro. Puoi fece fornire tutto lo tetto de Santo Ianni de Laterani, lo quale fi' alla mitate era descopierto. Puoi fece renovare tutto lo tetto de Santo Pietro Maiure de Roma de una bella opera nobile e pulita. Currevano anni Domini MCCC[...], dello mese [...], quanno quella opera fornita fu. Gustao LXXX milia fiorini d'aoro. Lo capomastro de tutta l'opera abbe nome mastro Ballo de Colonna, escellentissimo falename, lo quale fu de tanta escellenzia, che sappe 'nanti dicere lo dìe, l'ora, lo ponto nello quale quello tetto fu in tutto fornito. E per sio sapere posava li travi viecchi e tirava li nuovi suso aito, più prestamente che se fussi uno ciello. Uno omo stava cavalcato nell'uno capo, uno aitro nello aitro. Io non vòizera essere stato uno de quelli. Quanno lo tetto viecchio se posava, fonce trovato uno esmesuratissimo trave de mirabile grossezze. Io lo viddi. Dieci piedi era gruosso. Tutto era affasciato de funi per la moita antiquitate. Per la granne grossezza era tanto durato questo trave. Era de abeto como li aitri. E fonce trovato scritto de lettere cavate CON, quasi dica: "Questo ène de quelli travi li quali puse in questo tetto lo buono Constantino". Era antiquo quanto che l'aleluia. Questo trave ne fu posato e dentro de esso fuoro trovate caverne e cupaine, fatte sì per l'antiquitate sì per fere le quale avevano rosicato e fatta drento avitazione; ca ce fuoro trovati drento sorici esmesuratissimi a nidate e fuoronce trovate fi' alle martore e, che più ène, golpi colli loro nidi. Chi lo vidde non lo poteva credere. Questo nobile trave fu spezzato e de esso fuoro fatte tavole necessarie per la opera novella. E moiti ientili uomini de Roma ne àbbero tavole da manicare. Una maraviglia voglio contare. Per fare questo tetto fuoro adunati tutti li savii mastri li quali avere se potiero drento de Roma e fòra. Intra li quali fu uno delli buoni dello munno, lo quale abbe nome Nicola de Agniletto de Vetralla. Questo stava suso in uno arcotrave a lavorare. Lo trave era puosto su nello muro aito. Con uno secure in mano faceva questo mastro lavorieri lo quale bisognava. Lo mastro stava in pede. Forza lo trave non stava oguale, anche stava pennente. Lo peso era granne. Lo trave sbinchiao e nello sbinchiare aizaricao e nello aizaricare se mosse de luoco e revoltaose. Poco fu che lo mastro non cadde a terra. Deo uno adatto saito e remase puro in pede. Granne paura abbe lo mastro de cadere a terra esso collo trave. E·lla soa paura non potéo nasconnere, ca subitamente la mesa della varva li deventao canuta. Spesse voite da puoi se·lla radeva. Spesso diceva ca quella canutezza fu per paura che abbe che non venisse a balle esso e·llo trave aizaricato. Lo simigliante avenne a Corradino re. Da puoi che fu sconfitto alla vittoria e preso ad Astura, lo re Carlo li fece tagliare la testa. Suoi capelli erano tanto belli che, quanno crullava la testa, pareva che fili de aoro se movessino atorno ad una colonna d'ariento. In quella notte, la quale demorao in presone, li capelli d'aoro fuoro deventati canuti. La dimane, quanno fu decollato, moito pareva mutato de bionno in canuto. E questa mutazione fu in una notte. Alcuno me pòtera adimannare perché per la paura se fao la canutezze. In questo responne Avicenna e dice ca, quanno l'omo stao in luoco moito aito, tutta la virtute se reduce a confortare la virtute animale dello cerebro, che non [...] E imperciò le membra tremano, perché·sse denudano della virtute regitiva. Così, in simile caso, lo calore della cotica se parte dalla circonferenzia e vao allo spesso de mieso per salvarese, così la cotica se denuda de sio vigore in tale muodo che lo pelo non recipe la soa tentura. E segno de ciò ène che sente omo quella parte formicolare. E questo moito incontra a quelli li quali usano per mare. Anco adomannarao alcuno perché questo fu canuto più da uno lato che dall'aitro. Dirraio ca quello movimento fu subito in quella subitezza. Quella parte che fu più presso allo pericolo, quella recipéo la impressione; l'aitra fu più desposta a salute, perciò non fu canuta.

Cap. VIII

Della cometa la quale apparze nelle parte de Lommardia e della abassazione de missore Mastino tiranno per li Veneziani.

Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle parte de Lommardia una cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi desparze. Questa cometa pareva che fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva dereto a sé una coma destinta, pezzuta a muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma stava da uno delli lati. Non iva né su né io', ma ritta se stenneva como fossi una fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad ammirazione, que voleva dicere questa novitate. Dice Aristotile, nella Metaora, ca questa non è verace stella; anche ène una [...] fatta nella sovrana parte de l'airo, e faose de materia umida e calla, la quale salle su e accennese e dura tanto quanto la materia donne se fao. Anche dice ca questa mai non appare, che non significhi novitati granni, spezialmente sopra li principi della terra, e commozioni de reami e morte e caduta de potienti. In bona fe', ca così fu; ca, como questa desparze, così per Lommardia se destese la novella che Padova fu perduta. E sì·lla àbbero Veneziani e presero drento missore Alberto della Scala de Verona; e fu mannato in Venezia, in presone. Anco sequitao la destruzzione e·lla ruvina de missore Mastino della Scala, lo quale fu tanto potente e tiranno che se voize fare rege de corona. E puoi perdìo onne cosa e venne a convenevile stato. La quale novitate fu per questa via. Po' la morte de missore Cane della Scala remase un sio nepote: missore Mastino abbe nome. Questo missore Mastino della Scala fu delli maiuri tiranni de Lommardia: quello che più citate abbe, più potenzia, più castella, più communanze, più grannia. Abbe Verona, Vicenza, Trevisi, Padova, Civitale, Crema, Brescia, Reggio, Parma. In Toscana abbe Lucca, la Lunisciana. De XV grosse citate fu signore. Parma venze a forza de guerra. Mentre che soa oste se posava sopra alcuna citate, derizzavali sopre quaranta trabocchi. Mai non se partiva, finente che non era signore. Voleva essere signore sì per forza sì per amore. Puoi mise pede in Toscana. Abbe Lucca e ingannao Fiorentini, donne Fiorentini li ordinaro quella ruvina la quale li venne de sopra. Puoi menacciava de volere Ferrara e Bologna. Una cosa faceva alli nuobili li quali li davano le citate, che·lli teneva con seco e davali granne provisione. Moiti erano li baroni, moiti erano li sollati da pede e da cavallo, moiti li buffoni, moiti so' li falconi, palafreni, pontani, destrieri da iostra. Granne era lo armiare. Vedesi levare cappucci de capo, vedesi Todeschi inchinare, conviti esmesurati; tromme e cerammelle, cornamuse e naccare sonare. Vedese tributi venire, muli con some scaricare, iostre e tornii e bello armiare, cantare, danzare, saitare, onne bello e doice deletto fare. Drappi franceschi, tartareschi [...] velluti intagliare, panni lavorati, smaitati, 'naorati portare. Quanno questo signore cavalcava, tutta Verona crullava. Quanno menacciava, tutta Lommardia tremava. Infra le aitre magnificenzie soie se racconta che LXXX taglieri de credenza abbe una voita che voize pranzare in cammora. E onne tagliero abbe uno deschetto, onne deschetto abbe doi baroni. Iudici, miedici, letterati, virtuosi de onne connizione avea provisione in soa terra. La soa fama sonava in corte de Roma. Non hao simile in Italia. Ora se mannifica missore Mastino. E considerannose essere tanto potente, gloriavase, non conosce la frailitate umana. Quanno se vidde in tanta aitezza, fece fare palazza esmesurate in Verona. E per fare le fonnamenta guastao una chiesia: Santo Salvato' abbe nome. Mai bene non li prese da puoi. Puoi comenzao a desprezzare li tiranni de Lommardia. Non curava de ire a parlamento con essi. Puoi fece fare una corona [...] tutta adornata de perne, zaffini, balasci, robini e smaralli, valore de fiorini XX milia. Questa corona fece fare, perché abbe intenzione de farse incoronare re de Lommardia, e de fierro la fece de fatto, per industria e per sagacitate de sio pietto, a dare a intennere che per fierro de arme avea guadagnato sio reame. Quanno questo abbe fatto, l'animi delli tiranni de Lommardia furono forte turvati: bene penzano via de non essere subietti a loro paro. Questo missore Mastino fu cavaliero dello Bavaro, e fu omo assai savio de testa e iusto signore. Per tutto sio renno ivi securo con aoro in mano. Granne iustizia faceva. Fu un omo bruno, peloso, varvuto, con uno grannissimo ventre. Mastro de guerra. Cinquanta palafreni avea da soa cossa. Onne dìe mutava robba. Doi milia cavalieri cavalcavano con esso, quanno cavalcava. Doi milia fanti da pede armati, elietti, colle spade in mano ivano intorno a soa perzona. Mentre che sequitao la vertute, crebbe. Puoi che insuperbìo, comenzao a deluviare, anche comenzao a corromperese de lussuria. Forte deventao lussurioso. Che avesse detoperate cinquanta poizelle in una quaraiesima se avantao. Questi vizii lo fecero cadere de sio onorato stato. Puoi manicava la carne lo venerdìe e·llo sabato e·lla quaraiesima. Non curava de scommunicazione. Lo muodo che cadde de soa aitezza fu questo. Avea un sio frate, lo quale avea nome missore Alberto della Scala. Questo missore Alberto fu mannato a reiere Padova, ché·llo mannao a muodo reale. Conti, baroni, sollati e aitra moita iente abbe con seco. Bellissima fu soa compagnia. Questo missore Alberto teneva questa via. Entrava nelle monistera delle donne religiose. Demoravance tre o quattro dìe. Puoi visitava l'aitro. Donqua era alcuna bella monaca detuperava. Puoi usava paravole laide sempre e detoperose. Missore Marsilio da Carrara e missore Ubertiello da Carrara erano li maiuri de Padova, quelli li quali li aveano data la signoria, e suoi parienti erano. Questo missore Ubertiello avea una soa bella donna. Per tutta dìe, per tutte ore non finava missore Alberto de spaziare e dicere: "O missore Ubertiello, mannuca bene, ca te aio fatto doi voite revaglio questa notte". Mai non finava. Ad onne tratto questo diceva. Missore Ubertiello rideva. Collo riso passava. Lo ridere non descegneva. Missore Alberto avea con seco una compagnia desordinata, iente valorda e sboccata. Ciarloni non guardavano que·sse facessino e dicessino. Li simiglianti costumi conveniva che avessi lo signore. Ora continua missore Alberto lo desordinato favellare e non se ne sao remanere. Tuttavia dice: "O missore Ubertiello, tre voite t'aio fatto cocozzo in questa notte". Questa villania dicere non lassava né per soa ientilezza né per soa onoranza dello consorte né per parentezze né per bene volere né per onestate né per alcuna via Missore Ubertiello de ciò crepava. Più non poteva sostenere [...] Marsilio fu un savio cavalieri e moito scaitrito e secreto. De colpo cavalcao a Verona e parlao con missore Mastino. E deoli ad intennere che poteva essere lo più granne omo che fussi mai nella contrada e che poteva domare lo regoglio e·lla grannezze de Veneziani. E deoli lo muodo e l'ordine per questa via: "Missore Mastino, tu hai nello tio terreno de Padova una villa la quale se dice Bovolenta. Questa Bovolenta se destenne nelli paludi canto la marina. Antiquamente ce stavano fila e facevacese lo sale. Tu, omo granne, se fai lo sale in tio terreno, nullo te porrao vetare de usare toa rascione. Quanno Veneziani vederanno che tu farrai lo sale, overo te farraco tributo de moita moneta overo lo loro sale non tanto valerao. E quella moneta, la quale hao la Cammora de Venezia per lo sale, l'averai, donne serrai maiure allo doppio e·lli puorci veneziani verraco alla vostra mercede. Anche in toa scusa manna là una ambasciata, dicenno che questo non aiano Veneziani per iniuria: con ciò sia cosa che voi usete vostra rascione nettamente, non volete perdire le rascioni dello padovano. Non esforzete alcuno. Nello luoco usato volete fare lo sale in vostro terreno per avere la dovana e·lla granne pecunia per le spese le quale occurreno per li sollati e aitre grannezze fare". Questo uosso mise in canna missore Marsilio a missore Mastino. Crese lo tiranno alli fallaci ditti, credennose volare più aito che Dio non consentiva. Allora incontinente commannao che nella villa de Bovolenta, canto la marina, alli staini fosse fatto uno bello castiello de lename, lo quale dilientemente fosse guardiato per guardia delli salinari. E fé fare le fila e mise li operari. E liberamente fu comenzato a fare lo sale bello e assai buono dello munno. Deh, como l'opera preziosa veniva! Li fatti ivano de ponto. Intanto, como ordinato era, ionze a Venezia missore Marsilio, informato dello fatto, e gìo per ambasciatore, como aveva demannato. Fu denanti allo duce e alli maiurienti, e disse quella ambasciata in quelle paravole; ma li mutao li ponti, ché·lli fece sonare de aitro suono e deoli aitra sentenzia, e disse: "Signori veneziani, missore Mastino intenne de fare lo sale nello sio terreno per avere quella pecunia la quale voi avete e tollereve de mano per signoriarve e per abassare vostre saline. Se queste perdite, non site cobelle. Lo frutto della Cammora de Venezia è lo sale. Moito bene operate l'uocchi in li vostri fatti". Più non disse. Assai abbe fatto e ditto, che abbe acceso lo fuoco tra Veneziani e missore Mastino. Allora Veneziani fecero una ambasciata preziosa, moito adorna. Dodici maiurienti de Venezia fuoro, grannissimi mercatanti e ricchissime perzone, savii e descreti, tutti vestuti de una robba, panni devisati de scarlatti e de velluti verdi, e aitri lavorieri forrati de vari, moito assettati. La gonnella era longa fi' alli piedi, la guarnaccia corta fi' a mesa gamma [...] corto fi' allo inuocchio, le cappuccia con piccoli pizzi in capo, la capella della seta de sotto, appistigliati de pistiglioni de ariento 'naorati, correie smaitate in centa. Ben pargo adornati de straniera devisanza. Con donzielli assai e aitra famiglia passano lo mare, e in terra ferma montano in loro piccoli palafrenotti e vengone a Verona. Venivano trottanno l'uno dereto a l'aitro como fussino miedici. Moita iente loro trasse a vedere. Granne maraviglia se fao omo de così nova devisanza. Parevate vedere lo ioco de Testaccia de Roma. Quanno li ambasciatori fuoro entrati in Verona, tutta Verona curre a vederli. Così li guardava omo fitto como fussino lopi. E questo perché l'abito loro era moito devisato dallo abito delli cortisciani; imperciò che portavano cotte de nuobili panni, strette alla catalana, forrate de frigolane endisine de sopra, cappe alamanne forrate de vari, cappucci alle gote con fresi de aoro intorno alle spalle, correie in centa con spranche d'ariento 'naorato, in piedi de caize. Moito vaco destri per la sala. Moito cavalcano adatti per la citate. Puoi se ne iro li dodici ambasciatori denanti a missore Mastino. Naturalmente la favella de Veneziani è regogliosa, e così regoglioso, senza umanitate, parlaro a missore Mastino e dissero: "Missore Mastino, lo Communo de Venezia te prega che non te vogli perdere Venezia per lo sale e non vogli fare quello che tuoi antecessori non fecero e quello che non è stato fatto in nostri dìe. Lo sale ène de Veneziani, non ène de Padovani. De fare cutale sale te conveo remanere, se non vòi turbare li uomini de Venezia e se vòi remanere nuostro amico". A questa ammasciata respuse lo Mastino e disse: "Verrete crai a pranzare in mea corte con meco e là averete la resposta". Lo sequente dìe lo convito fu apparecchiato grannissimo. In quella sala fu apparecchiato per più de ottociento perzone. Alla prima tavola aitre scudelle non ce fuoro, se non de buono ariento, né aitre vascella. A questo convito Veneziani vennero, li quali tutti a dodici fuoro puosti ad una tavola in pede della sala, in veduta de tutta la corte per là venuta. Lavate che àbbero le mano, non se despogliaro loro larghi tabarretti, anche con essi se misero a tavola. Granne era lo ridere che omo faceva de essi. Così stavano assemmoti como fussino Patarini overo scommunicati. Tutta la iente li resguardava como alocchi. Stava missore Mastino in capo della sala, più aito che tutta l'aitra baronia, servuto a tavola como re. Tutta soa nobilitate de corte vedeva. A soa veduta cosa nulla era celata. Ora vedesi vivanne venire. Cavalieri a speroni de aoro servivano denanti. Leguti, viole, cornamuse, ribeche e aitri instrumenti moito facevano doice sonare. Bene pareva in paradiso demorare. Po' le vivanne viengo buffoni riccamente vestuti. Tal cantava, tal ballava, tal mottiava. Onneuno se sforza [...] Non se lassano dallo muro cacciare. Mustrano de avere core. Non curano de valestra né de menacce. Lo romore era granne. Lance e saiette volavano. Deh, quanto ène cosa orribile! Allora missore Pietro Roscio con soie belle masnate se tenne secreto e queto de fòra ad una porta la quale se dice porta de ponte Cuorvo. E là stette, mentre che la vattaglia era alla porta de Santa Croce. Questa porta de ponte Cuorvo avea in guardia missore Marsilio da Carrara. Su nella mesa terza lo fattore de missore Marsilio operze la porta e abassao li ponti, e mise drento missore Pietro Roscio senza colpo de spada. Ora ne veo per la strada alla piazza lo capitanio de Veneziani con moita grossa pedonaglia e cavallaria. Ià l'ora de terza era. In esso ponto missore Alberto se era levato da dormire. Cavalcava uno bello palafreno, vestuto con solo un guarnello, accompagnato con solo missore Marsilio. Una vastoncella in mano teneva. Per la terra iva trastullanno. Omnis armatorum eius multitudo pugnans resistebat ad portam. Como missore Alberto accapitao in capo della strada, vidde che nella piazza iogneva granne stuolo, granne masnate de iente. Odìo tromme e ceramelle. Vidde lo grannissimo confallone de Santo Marco de Venezia. Maravigliaose forte e disse a missore Marsilio: "Que iente ène questa?" A ciò respuse missore Marsilio e disse: "Questo ène missore Pietro Roscio, lo quale hao auta gola de vederte". Disse missore Alberto: "Moreraio io?" Disse missore Marsilio: "No. Torna in reto. Va' in la mea cammora". Così fu fatto. Tornao missore Alberto e misese nella cammora de missore Marsilio, e là fu enzerrato con una chiave. Veneziani la piazza presero e toizero l'arme e·lli cavalli a tutta la forestaria de missore Alberto. E presero esso con soa baronia e sì·llo mannaro in presone a Venezia. E là stette fi' che la guerra fu finita. Allora apparze quella cometa della quale de sopra ditto ène. E presero Veneziani guardia delle porte de Padova. Sine mora iescono fòra e faco terribile guerra a quello della Scala. Vao missore Pietro Roscio ardenno e consumanno le terre. Prese per forza Monsilice, e là fu occiso. Non per tanto lassano Veneziani de fare la dura guerra. Allora perdìo la citate de Brescia. Onne perzona se·lli rebella. Nulla resistenzia fao. Missore Mastino consideranno la soa desaventura, desperato, con soie mano occise lo vescovo de Verona, lo quale era de soa iente, e occiselo su sopra le scale dello vescovato. Albuino, vastardo de missore Cane, lo scannao. Sotto lo capitale dello lietto de questo vescovo fu trovato uno spiecchio de acciaro con moite divise carattere. Nello manico era una figura. La lettera diceva: "Questo ène Fiorone". Puoi li fu trovato un livricciuolo, nello quale stava pento un nimico de Dio, lo quale abracciava uno omo, e un aitro demonio li dava una cortellata in pietto, in quello luoco nello quale esso relevata avea la feruta. Questo fece missore Mastino avenno paura che·llo vescovo non li togliessi la signoria. La guerra durao bene anni doi. Uitimamente missore Mastino era stanco né poteva più. Venne a pace con Veneziani e a patti. Li patti fuoro questi: lo primo, che esso fece refutanza della moneta la quale avea in Verona, la quale avevano despesa Veneziani; lo secunno, che mannao le robbe dello Communo de Venezia, le quale buttaro XXIIII migliara de fiorini, per onne robba fiorini doi milia; lo terzo, che Veneziani voizero Trevisi, sì che convenne che per la fatica de Veneziani missore Mastino li donassi Trevisi. Verona e Vicenza li lassaro per l'amore de Dio e per misericordia. Le aitre terre, como Padova e Civitale, remasero a puopolo. Allora Veneziani li remannaro missore Alberto, lo frate, con quelli nuobili li quali tenevano presoni. A tutta questa guerra Fiorentini tennero mano e fecero con loro denari quello aiutorio che bastao. Ora è tornato lo Mastino della Scala de granne aitezze ad umile stato. Non perciò in tanta umilitate, che in soa veteranezza non morisse granne signore de Verona e de Vicenza. Omo de guerra fece fare in soa vita uno monimento de marmo, dove fu sepellito, in casa de frati minori, là dove posano le donne. In quello monimento non ce stao inscritto né Dio né santi, anche ce stao inscuite cacciascioni, cavalli, cani, astori e aitre paganie. L'opera de Veneziani con questo tiranno fu como l'opera de Romani, li quali mannaro la ambasciata a Benevento. Beneventani sparzero aduosso alli ambasciatori la orina. Per la quale cosa Romani fuoro turbati, e per essi fu destrutta la provincia de Sannio e fu suiugata allo Communo de Roma, como Tito Livio dice.

Cap. IX

Della aspera e crudele fame e della vattaglia de Parabianco in Lommardia e delli novielli delle vestimenta muodi.

Po' questa cometa, della quale de sopra ditto ène, fu uno anno moito umido, moito piovoso. Abunnaro moite reume, moiti catarri nelle iente. E per tre vernate durao tanta neve, che esmesuratamente coperiva le citate. Moite case, moiti tetti in Bologna caddero per lo granne peso che·lla neve faceva. Anche le estate erano umide, sì che omo non poteva essire fòra de casa a fare sio mestieri e procaccio. Li campi non fuoro lavorati. Li grani e onne legume che fuoro seminati fuoro perduti, perché se affocavano per la soperchia umiditate, non se potevano procurare. Donne sequitao sterilitate e mala recoita. E per quella mala recoita sequitao la fame sì orribile che forte cosa pare a contare, a credere. Questa fame fu per tutto lo munno generale. Lo grano fu vennuto in Roma XXI libre de provesini lo ruio. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII. Scrive Tito Livio che nello tiempo fu una fame nella contrada de Roma sì terribile che moita iente, presure perzone, 'nanti volevano perdire la vita, che vivere in fame. Donne abolveano lo cappuccio innanti delli occhi per non vedere loro morte e sì se iettavano nello fiume de Tevere e là affocati perivano, e collo perire remediavano la fame. In bona fe', questo non viddi avenire in quello tiempo. Ma infinite femine fuoro le quale iettaro loro onore per avere dello pane. Moita iente vennéo soa franchia per lo pane. Fuoro vennute palazza, possessioni de campi e vigne, e dati per poca cosa, per avere dello pane. Granne era la pecunia che se numerava per poca de annona avere. Moita iente manicava li cavoli cuotti senza pane. La povera iente manicava li cardi cuotti collo sale e l'erve porcine. Tagliavano la gramiccia e·lle radicine delli cardi marini e cocevanolle colla mentella e manicavanolle. Anche ivano per li campi mennicanno le rape e manicavanolle. Anche fu tale patre che onne dimane a ciascheduno delli figli una rapa per manicare in semmiante de pane daieva. Anche manicavano la carne, chi ne aveva, senza pane. De vino fu bona derrata. Incresceme de contare tante tristezze. Le donne pusero ioso delle alegrezze e·lle cegnimenta e·lle adornamenta, vedenno la fame la quale sì terribilmente bussava. Chi abbe grano abbe tutte le adornamenta delle donne. In quello tiempo io me retrovai in Bologna e vedeva che quelli delle ville venivano in citate a comparare dello pane della gabella. Deh, como tornavano tristi, quanno non ne portavano! Manicava la iente pera secche e tritate, misticate colla farina, capora e vientri, anche lo sangue delli animali. E moite perzone fuoro trovate morte de fame. Moite perzone ivano gridanno de notte: "Pane, pane". De notte ivano, consideranno che erano perzone de alcuno lenaio; per la vergogna non volevano apparere; de dìe non volevano essere conosciute. Nella citate de Roma, se non fusse stata una nave de grano la quale succurze - per mare da Pisa venne -, tutta Roma periva. Doi miracoli granni incontraro in tiempo de così fatta carestia. Innella citate de Piacenza, in Lommardia, fu uno nobile omo de casa delli Visconti de Castiello Nuovo lo quale se trovava da vinti milia corve de grano. Era lo tiempo de maio, che la fava dao suso. Lo lunedìe fue che tutta Piacenza curze a soa casa, domannanno dello grano. Respuse lo nobile: "Sei livre voglio della corva". Lo martedìe venne la iente con sei livre. Quello li remannao senza grano e disse: "Sette livre ne voglio". Lo mercordìe tornao la iente per grano con sette livre. Quello disse: "Otto livre ne voglio". Lo iovedìe la iente veniva con otto livre. Quello ne domannava nove. Lo venardìe quelli ne vennero con nove livre de bolognini. Lo iniquo omo favellao e disse così: "Tornete a casa, iente molestiosa. Questo mio grano mai non venno, se de esso non aio dieci livre". Con granne tristezze fé tornare lo puopolo e·lla carovana a casa a sostenere fame. Ma lo buono e cortese Dio non voize così, ché·llo sabato ionze uno cavalieri, citatino de Piacenza - missore Manfredo de Lando avea nome -, con una nave de grano. Lo grano valeva livre cinque. La fava comenzava ad ingranare. L'aitro dìe lo grano fu a livre quattro. Lo terzo dìe fu a livre tre. Quanno lo nobile delli Visconti vidde questo, forte fu turvato. E incontinente tornao a casa e entrao in quello luoco dove sio grano era. E considerao la moita moneta la quale de quello grano àbbera auta, se avessi allargata la mano alli necessitosi. Puro favellao e disse: "Ahi grano mio, io so' destrutto". E avenno la mente più a l'avarizia che alla pietate, iettao nello trave de mieso dello tetto, sopra lo sio grano, uno capestro e là, in mieso dello sio grano, se appese per la canna. Nella contrada de Roma, in uno castiello lo quale se dice Castiglione delli Alberteschi, incontrao un aitro miracolo, como io intesi da perzone fidedegne. Essenno questa terribile carestia, tutta la poveraglia de Roma, femine e uomini e zitielli, ne fuiro per le castella. Là se ne sparzero. In questo Castiglione fu uno che abbe nome Ianni Macellaro. E fu lo primo che a Santo Spirito de Roma donasse massaria de vestiame. Questo fu ricco massaro. Figlioli non avea, ricchezze moita: fanti, fantesche assai, pecora, vuovi, iumente, campi seminati, pozzi pieni de grano. Tutte queste cose Dio li consentìo. Quanno venne lo tiempo che la fava era verde in erva, onne massaro mannava uno vanno, che nulla perzona montassi in soa fava. Questo Ianni per contrario mannao lo vanno, che onne chivielli isse a sio campo de fava, aitro non sparagnassi che li fusti delle fave, manicassino allo piacere. Ora vedesi traiere de iente affamata. Corvinam servant pauperes famelici. L'oste pusero in quello campitiello. Per tutto dìe là demoravano a manicare. Lo patrone a cavallo in soa iumenta bene li visitava onne dìe e sì·lli salutava. Puoi li diceva che manicassino bene e portassino della fava a casa a loro piacere. Puoi dava uno panetto per omo. Allora tornava. In quello muodo consolava li bisognosi. Ora passao la carestia e venne lo tiempo della leta fertilitate. Li poveri a Roma tornaro. La fava de questo castiello fu carpita. Puoi fu vattuta. Li fusti della fava de questo buono omo fuoro puosti nella ara, nelli quali cosa nulla de frutto era. Mentre che li fusti se battevano, Dio immise la soa granne abunnanzia e frutto in quelli fusti. Ora vedesi fava abunnare. Tanta fu la fava, la quale da quelle gamme fu coita, che parze veracemente che la fava delli aitri castellani se partisse delle proprie are e venisse nella ara dove li fusti se vattevano. Così Dio liberamente mustrao che bene li piace la elemosina de buono core nello bisuogno e che esso cortesia fao a chi soveo alle necessitati aitrui e che per uno ne renne ciento, como nello Vagnelio dice. In questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de frebaro, la prima domenica de quaraiesima, quanno fu la orribile sconfitta in Lommardia, fra Como e Milano, nelli campi de Parabianco. La quale novitate fu per questa via. Puoi che Veneziani àbbero ottenuta la vittoria sopra missore Mastino della Scala de Verona e àbbero Trevisi e sì cassaro tutti li sollati da pede e da cavallo, questi sollati, partennose e non avenno suollo, fecero la granne compagnia. Loro capo e connuttore era uno famoso Todesco - Malerva avea nome -, prode de perzona, saputo de guerra. Cavalieri a speroni de aoro ce erano assai. Erance lo conte Olando e lo conte Guarnieri, li quali da puoi fuoro capora de compagnia. Erano da tre milia cavalieri e da quattro milia pedoni, fanti, masnadieri, senza aitra innumerabile iente la quale sequitava. Uno cacciato da Milano - missore Lodrisi Visconte avea nome - penzao de tornare in Milano, avenno questa compagnia e aitro sio esfuorzo. Così fece. Fece granne promissioni allo Malerva e quetamente mosse soie masnate. Ordinatamente passa per lo padovano, canto lo veronese, per mesa Lommardia. Nullo contradicente, ne vennero fra Milano e Brescia, puoi a Bergamo. E passaro ad uno luoco lo quale hao nome la Colomma de Chiaravalle. Lo luoco ène granne e ricco, luoco de frati bianchi de santo Bennardo. Là se posaro. Là li trassero per succurzo suoi amici, suoi benvoglienti. Là, de fòra alli maiuri campi, stenne paviglioni. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de frebaro. Mentre questa granne moititudine per la contrada passava, forte tremavano le citati. Granne era la guardia la quale dìe e notte se faceva. Puoi che là, alla Colomma, fu ionta questa brigata, allora dechiarato fu che missore Lodrisi voleva tornare in casa per forza. Allora missore Azo Visconte era signore de Milano e della casa delli Visconti. Questo missore Azo subitamente sollicitao tutte le citati de Lommardia le quale stavano suiette a Milano. Puoi sollicitao tutti li suoi parienti. Puoi sollicitao tutti suoi amici. Non fina de mannare lettere e ambasciatori. Puoi sollicita lo puopolo de Milano. Puoi trasse fòra sio granne esfuorzo de cavalieri e de pedoni e puseli in campo. Là erano Bresciani, Trentini, Bergamaschi, Comani, Lodesani. Granne era la turba. La maiure parte erano villani. In campo iaccio doi uosti, quella de missore Lodrisi e quella de missore Azo Visconte. In mieso de questi doi uosti staco li campi de una villa la quale se dice Parabianco. Lo tiempo era de vierno e era quella neve granne con quella umiditate della quale ditto ène de sopra. E era sì esmesuratamente granne la neve, che non lassava fare vattaglia ordinata. Fi' allo inuocchio omo se affonnava nella neve. Granne era lo infango. Le arme e le soprainsegne stavano imbrattate. Spesse voite se battevano questi uosti insiemmora. Puoi tornano a loro paviglioni. Tre dìe duraro questi tumuiti. La banniera dell'una parte e dell'aitra era lo campo bianco e·llo serpente nero, lo quale aveva in canna uno omo nudo. Una notte fu tanta la stanchezze delli uomini dell'oste de missore Azo, che più de setteciento ne fuoro scannati dormenno. Allora la dimane non fu demoranza nulla. L'una parte e l'aitra se acconcia. Vedese tromme sonare, vedese guarnire de capitanii. Ora se fiero insiemmora. Tutto lo campo de Parabianco stao pieno de commattenti. Tutto dìe durao la vattaglia. Vedese ferire de lance, spade e mazze. Mortale ène quella vattaglia. Granne suono fao. In quella vattaglia fu sconfitto missore Lucchino, zio de missore Azo, capo della iente, e preso per la perzona e fu vincitore missore Lodrisi con sio capitanio, lo Malerva. Quarantaquattro centinara de uomini fuoro occisi, senza li affocati in fiume e nelli gorgi della neve: Comasini, Trentini, Bergamaschi, iente de villa, da pede la maiure parte, li quali per lo impedimento della neve non potevano la voita dare. Trentasei centinara de cavalli fuoro stempanati, senza li moiti feruti. Ora vedi como succurze la ventura a missore Lucchino! Stava drento da Milano missore Azo armato con tutto lo puopolo. Per via nulla voleva essire. Stava reservato alli bisuogni dereto un sio parente, missore Ianni dello Fiesco de Genova, sio quinato, con cinqueciento Borgognoni de bona taglia in soa compagnia. Como la novella ionze della sconfitta, così essìo fòra de Milano con cinqueciento Borgognoni e con CCCC Todeschi e ionze alli campi de Parabianco. La prima cosa, raccoize tutti quelli li quali fuiti erano dello stormo. Così li aionze ad uno, quelli che potéo. La secunna cosa, provise como stava l'oste e vidde che la iente della compagnia non stava ordinata, anche stava sparza per lo campo, chi de qua, chi de là, sopra la guadagna dello spogliare. La terza cosa, compusese con Malerva e ordinao che non commattessi, e in precio li donao dieci fiaschi pieni de ducati, in semmiante de presentarli buono vino de Malvascia. Granne capestro ène la moneta. Allora prestamente sonao soie tromme e deose sopra ad essi. Poca resistenzia abbe. E deo per terra lo confallone de missore Lodrisi e de Malerva e prese missore Lodrisi per la perzona. In quella resistenzia fu occiso missore Ianni dello Fiesco de Genova. Puoi che fu fatto presone missore Lodrisi e fu rotta soa schiera, tutto lo campo fu vento senza aitra contradizzione. Tornao in Milano con triomfo e granne danno; ca, como ditto de sopra ène, quarantaquattro centinara de perzone moriero, senza li aitri pericolati delle ferute. Vedesi caricare che·sse faceva. Avevano le carra piene de queste corpora morte e sì·lle traievano dello campo e sì·lle portavano a loro sepoiture. Missore Lodrisi la vita non perdìo, ma fu renchiuso in perpetuo carcere in un castiello lo quale se dice Santo Columbano. Là dato li fu onne diletto lo quale demannava: de sonare, cantare, magnare, de femine; salvo che essire non poteva de presone. Quelli sollati della compagnia fuoro tutti derobati. Perdiero arme e cavalli. Io ne viddi venire de questi bene da doiciento cinquanta a pede. Tale avea speroni alla correia, tale una targetta, tale uno cimiero e alcuno menava ronzino, secunno le connizione. Alli Borgognoni fu data paca doppia e granni doni. Malerva fu lassato. Pochi dìe stette che missore Azo Visconte, signore de Milano, morìo e succedéo innella signoria missore Lucchino, sio zio. Ora comenza a signoriare missore Lucchino Visconte, lo quale abbe la maiure parte de Lommardia: Parma, Piacenza, Lode, Bergamo, Brescia, Milano, Crema e Civitale. E visse in signoria anni [...] in tanta pace e iustizia, che non se trovava in terreno chi se crullasse. Coll'aoro in mano iva l'omo franco. Fu omo severo senza alcuna pietate. Mai non perdonava. Secunno lo peccato, secunno la fallenza puniva. Questo fu de tanta crudelitate che fece manicare alli suoi cani uno guarzone todesco lo quale li aveva presentate cerase, perché aveva feruto un sio cane lo quale li aveva abaiato. E non abbe remissione né per puerizia né per caritate dello patre, lo quale era conestavile, sio amico, né per moneta. Questo missore Lucchino, benché guardie avessi de uomini da pede e da cavallo a muodo regale, nientedemeno abbe una speziale e nova guardia con seco. La guardia soa erano doi cani alani granni e terribili, gruossi como lioni, lanuti como pecora. L'uocchi avevano rosci e terribili. Questi doi cani alani sempre lo sequitavano per la corte, l'uno dalla parte ritta, l'aitro dalla parte manca. In mieso dello palazzo avea una forte torre. dentro dalla torre era una spaziosa cammora. Quanno missore Lucchino se posava in quella cammora, li cani staievano descioiti. Sempre circondavano la torre. Nulla perzona a l'uscio se poteva accostare. Denanti alla torre stava la granne sala. Alla porta stava la guardia. L'aitra guardia stava alla porta generale della corte nello terrio. L'aitra guardia staieva nella piazza. Quanno missore Lucchino manicava solo, staieva a tavola, li cani tuttavia con esso, granni quarti de carne dao ora a l'uno, ora a l'aitro. Quanno missore Lucchino staieva in pede, la moita baronia li faceva intorno piazza con silenzio per temenza delli cani. Nullo se crulla, nullo parla; ca se per ventura lo signore un poco guardasse alcuno con malo esguardo, sùbito li cani li forano sopra in canna, derannolo per terra. De tale guardia canina nullo se maravigli, ca questa cosa nova non ène. Scrive Valerio Massimo che Massinissa fu rege de Numidia e fu moito amico e fidele serviziale dello puopolo de Roma. Questo re Massinissa sempre avea in guardia de soa perzona doi granni cani, granni mastini, e non se renneva securo senza essi, benché avessi guardie de pedoni e de cavalieri, avesse lo potente e ricco reame de Numidia, sopra tutto questo avesse la bona amicizia de Romani, per li quali era signore, era salvo, securo e temuto. Alcuna voita fu demannato questo perché faceva. Respuse e disse: "L'omo, che vole essere libero naturalmente, non sao mantenere fidelitate. Lo cane, lo quale non conosce libertate, è fidele a sio patrone". Anche questo missore Lucchino fu omo moito iusto. Né per aoro né per ariento lassava de fare iustizia, sì che soa terra era franca. Abbe uno sio figlio vastardo: missore Bruzo avea nome. A questo missore Bruzo donao la signoria de Lodi. A quella citatella lo mannao a regnare. Accadde che uno ientile omo occise un aitro. Fu preso e devease decollare. Li parienti de questo malefattore parlaro con missore Bruzo e dissero così: "Missore Bruzo, a ti bisognano denari. Non perda la perzona lo presonieri vuostro. Ecco quinnici milia fiorini apparecchiati". Questo odenno missore Bruzo de colpo fu mollato. Cavalcao da Lode a Milano. Fu denanti allo patre, sì se inninocchiao e domannao grazia, perché esso era povero cavalieri. Poteva guadagnare quinnici milia fiorini, se allo malefattore salvava la vita. Questo odenno lo patre, missore Lucchino, deo de cenno a un sio donziello, che li portassi dalla cammora un sio elmo. L'elmo era moito forbito e relucente. De sopre era uno bello cimiero, de velluto vermiglio copierto. Eranonce scritte lettere de aoro. Quanno l'elmo fu venuto, disse: "Bruzo, lieii queste lettere". Le lettere fuoro lesse. Dicevano: "Iustizia". Disse: "Dunqua noi in apparenzia la iustizia portemo, in effetto no? Che vòi che quinnici milia fiorini pesino più che·llo elmo mio, lo quale pesa più che·lla mea signoria? Va' e torna a Lode e fa' la iustizia. E se questa non fai, io la farraio de ti". Moito voleva che issi omo netto in sio terreno. Moito amao lo puopolo menuto. Resse anni [...] e in soa signoria morìo e rassenao la bacchetta megliore e maiure che non la prese. In questo tiempo comenzao la iente esmesuratamente a mutare abito, sì de vestimenta sì della perzona. Comenzaro a fare li pizzi delli cappucci luonghi [...] comenzaro a portare panni stretti alla catalana e collati, portare scarzelle alle correie e in capo portare capelletti sopre lo cappuccio. Puoi portavano varve granne e foite, como bene iannetti e Spagnuoli voco sequitare. Denanti a questo tiempo queste cose non erano, anche se radevano le perzone la varva e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portata varva, fora stato auto in sospietto de essere omo de pessima rascione, salvo non fusse Spagnuolo overo omo de penitenza. Ora ène mutata connizione, che a deletto portano capelletto in capo per granne autoritate, varva foita a muodo de eremitano, scarzella a muodo de pellegrino. Vedi nova devisanza! E che più ène, chi non portassi capelletto in capo, varva foita, scarzella in centa, non ène tenuto cobelle, overo poco, overo cosa nulla. Granne capitagna ène la varva. Chi porta varva ène temuto. Qui me voglio un poco stennere. In uno paiese fu uno rege lo quale moito onorava li filosofi e l'uomini li quali soco savii e dico bone paravole. Questo re moito cercava de avere compagnia de uomini virtuosi. In soa corte accadde un granne filosofo. Moito fu alegro lo re della presenzia de questo buono omo e tanto maiuremente quanto questo filosofo aveva buono aspietto e pienamente responneva ad onne questione che ad esso se faceva. Ora vole lo re onorare la bontate, la scienzia, la vertute, la quale in questo filosofo se trovava. Invitaolo ad uno solenne convito de diverzi civi delicati e buoni, allo quale convito fu tutta soa baronia. La sala, dove lo magnare se faceva, fu granne e larga. Le tavole messe atorno atorno. Tutto lo palmento della sala era copierto de tappiti, li quali tappiti erano de pura e netta seta. Le mura intorno erano ammantate de celoni riccamente lavorati a babuini messi a seta ed aoro filato. Lo cielo de sopra era de cortina, fatto a stelle d'aoro. Moiti panni tartareschi là sparzi erano. Voleva lo re che quello convito solenne fussi. In capo della sala stava una tavola piccola. A questa tavola sedevano lo re e lo filosofo soli. Viengo li serviziali, delicato portano manicare. Mentre che·sse manicava, lo re non perdeva tiempo, anche dilientemente domannava lo filosofo che li rennessi rascione de certi dubii. Lo filosofo, como prudente perzona, sufficientemente responneva. Soie resposte fortemente cadevano nello animo dello re, ca·sse accostavano allo vero. Donne lo re spesse fiate diceva: "Bene dicesti. Piaceme". Infra tanto allo filosofo venne voluntate de sputare. Teneva in vocca una granne spurgata una ora grossa. Più tenere non lo poteva. Fore conveniva che uscissi. Guardava lo filosofo intorno allo muro e per terra, cercava lo luoco dove potessi sputare. Non vede luoco da ciò; ca, como ditto ène, onne cosa era coperta de nuobili tappiti. Allora voize lo filosofo lo capo e abbe veduta la faccia dello re. Lo re aveva una varva moito nera, granne e larga; la longhezza fi' a mieso lo pietto, le banne fi' nelle ionte delle spalle. Pareva uno varvassore. Considerao lo filosofo che quella varva fussi lo più brutto luoco de quella sala e più atto a recipere lo sio sputo. Fermaose lo savio filosofo e sputao in mieso della varva dello re. Quanno lo re se sentìo ciò, fortemente stette turbato e regoglioso e disse: "Questo perché hai fatto?" Respuse lo filosofo e disse: "De sotto, da lato, de sopre, da onne canto me staco panni messi ad aoro. Non ce ène luoco alcuno laido da sputare potere, salvo questa toa varva: è lo più laido luoco che nce sia. Perciò ce aio sputato, ca omo deo sputare nello più laido luoco". A queste paravole lo re non responneva, ma stava muto. Allora lo filosofo lo toccava in la spalla e disse: "Di' ca bene dico. Di' ca te piace". Ora se questi, li quali portano la varva, staiessino a lato a questo filosofo, recìperano quello che recipéo lo re.

Cap. X

Della morte dello re Ruberto e della venuta che fece la reina de Ongaria a Roma.

Anni Domini currevano MCCCXLII[I] quanno finìo li suoi dìe lo inclito e glorioso omo Ruberto rege de Cecilia e de Ierusalem. E fu sotterrato onorabilemente nella citate de Napoli, in Santa Chiara. Iace nello luoco dove duormo suoi antecessori. Per la cui morte lo renno de Puglia fu desolato, como ioso se dicerao. Questo re Ruberto fu omo moito savio, e tanto savio che per sio sapere acquistao la corona, ca non dovea essere re. Esso anche ordinao che Carlo sio frate consobrino, a chi spettava la corona, fussi chiamato re de Ongaria; e così fu, donne puoi fu coronato esso. Questo re Ruberto fu omo che mantenne sio reame in tanta pace, che per tutta Puglia, tutta Terra de Lavoro, tutta Calavria e Abruzzo la iente delle ville arme non portava, né conoscevano arme. Anche portavano in mano una mazza de leno per defennerse dalli cani. Anche questa tale usanza in parte se serva. Questo re, quanno li iogneva la novella che diceva: "Cinqueciento dell'oste toa soco perduti nella vattaglia", responneva e diceva: "Cinqueciento carlini so' perduti". Questo re fu tanto industrioso che forza de imperio in soa vita non se potéo accostare a sio renno. Doi imperatori consumao drento le mura de Roma: como fu Errigo conte de Luzoinborgo e Lodovico duce de Baviera, como de sopra ditto ène. Anche questo re fu conte de Provenza e fu omo granne litterato, e spezialmente fu espierto nella arte della medicina. Granne fisico fone e filosofo fone. Alcuna cosa avaro voleva vedere como soa moneta despenneva. E che più, le pene perzonale convertiva in pecuniarie. Abbe questo re un sio figlio lo quale fu duca de Calavria. Fu omo moito iustiziale e diceva: "Lo re Carlo, nuostro visavo, acquistao e mantenne questo reame per prodezze, mio avo per larghezze, mio patre per sapienzia. Dunqua io lo voglio mantenere per iustizia". Forte se studiava lo duca de servare somma iustizia. Accadde che uno barone dello renno occise uno cavalieri. Fu citato a corte dello re in Napoli. Là fu tenuto in presone e fu connannato alla testa. Puoi lo re commutao la sentenzia in pecunia de perzonale, ché lo connannao in quinnici milia once. La moneta pacata fu. L'omo tratto dallo dubioso luoco e fu messo in un aitro libero e largo. Quanno lo duca questo sentìo, incontinente entrao quella presone donne questo era stato essito. Li fierri se fece mettere alle gamme. Miserabilemente stava como volessi perdere la perzona. De là non vole iessire. Quanno lo patre sentìo questo, conoscenno la voluntate dello figlio, condescese alla iustizia contra soa voluntate. L'omicidiario la testa perdìo. Da puoi se fece venire denanti lo duca sio figlio, allo quale disse queste paravole: "Duca, noi simo condescesi a toa voluntate a bona fede; ché·lla troppo granne iustizia, dove non se trova remissione, ène pessima crudelitate". Questo re sempre teneva galea apparecchiata per fuire in Provenza, se faceva mestieri; la quale galea se chiamava la galea roscia. Questo re, como abbe receputa la corona, voize reacquistare la Cecilia, la quale sio patre per lussuria perduta avea. Granne esfuorzo de iente fece. Ciento milia perzone abbe. Armao sio navilio per passare a recuperare la Cecilia. 'Nanti che issi, iettao suoi arti, la sorte della geomanzia. Fuolli respuosto che dovea prennere la Cecilia. Ora ne vao lo navilio, e·llo stuolo se calao a Trapani. Là a Trapani, facennose alcuna curreria, fu subitamente presa una donna la quale ne iva a marito. Fu demannata como avessi nome. Respuse: "Io so' la triste Cecilia". Questo odenno lo re fu forte turvato. Disse ca era ingannato dalli suoi arti. La promessa adempita era. Sio stare non era utile. Procacciava dello tornare; ma tornare non poteva, né avere fodero poteva, perché lo mare era turvato. Granne bussa, granne tempestate faceva. La fortuna no·lli lassava partire, non li lassava portare foraggio. In terra de nemici li conveniva morire de fame. Vedi crudelitate che li convenne usare per scampare con soa oste. Lo pane aveano poco. Davase a mesura. Penzao de mancare iente, perché·lli bastasse più lo pane che avea. Eadem actio prava fuit et studiosa, como Aristotile dice. Era drento, fra mare, una isoletta con selve, forza da longa dall'oste miglia dieci. Abbe galee e mise in esse forza da sei milia perzone, e deoli ferramenta da tagliare lena, accette e ronche, e mannaoli a quella isola sotto spezie de lena fare. Puoi che li sei milia fuoro portati là, fuoro lassati. Li legni tornaro. Là li lassaro senza pane. Là moriero de pura fame. Vedi crudelitate! Per passare tiempo sei milia perzone moriero de fame. Nullo li visitao, nullo li confortao. A questi fora stato de bisuogno la cappa de santo Alberto, la quale se li faceva tavola, per tornare a casa. Mancata che abbe lo re questa soa oste de queste perzone, esso cercava de tornare. Como le navi fuoro descioite, subitamente la tempestate desiettao lo navilio là e cà. Tutta notte viddero li pericoli de mare. Dodici legni, dove lo re stava, per violenzia de fortuna vennero in puorto de Messina. Era l'aurora, lo dìe se faceva. Lo romore delli marinari era granne. Don Federico, cunato de re Ruberto, excitato per tale romore, lo quale non mustrava opera de mercatanti, se levao da lietto e fecese alli balconi e guardanno vidde insegne regale. Conubbe ca re Ruberto, sio cunato, era iettato per la fortuna, lo quale venne per la Cecilia recuperare. La reina sequitao lo re e, ciò conoscenno, disse: "Ahi re, que farrete a mio frate?" Lo re abbe misericordia e non curao ca quelle dodici galee erano perdute. De soie mano non potevano campare. In quello stante, in su la mesa terza, acquetao la fortuna. Lo re con soie galee se trasse alquanto a reto, puoi tanto più che tornao a Napoli. In sio palazzo entrao. Mai non gìo più in armata, né per mare né per terra. Avea un sio ogliardino allato dello palazzo e là sempre stava a valestrare. Mentre che valestrava, penzava li fatti de sio reame. Mentre che iva de segnale a segnale, dava le resposte e·lle odienzie alle iente, commetteva li fatti e·lle cose le quali devea. In questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXLIII, venne a Roma a visitare le corpora delli santi e·lle basiliche sante la reina de Ongaria, matre de Lodovico re de Ongaria e de Antrea re de Puglia, sio frate. Stette dìe tre in Roma e visitao tutte le santuarie e fece granni doni a tutte le chiesie. Frate Acuto, uno fraticiello de Ascisci lo quale fece lo spidale della Croce a Santa Maria Rotonna, fu lo primo che·lli domannassi elemosina per acconciare ponte Muolli, lo quale era per terra. La reina li donao tanta moneta, che lo ponte se refaceva con alcuno aiuto. Donne fuoro fatte le cosse nove e·lla torre e forano fatte le arcora, se non avessi auto impedimento. Puoi incomenzao a muitiplicare la poveraglia de Roma e tanto era lo petire, che non bastava lo sio dare. Per la importunitate delli petitori se abivacciao la reina e convenneli partire. Nam pauperes habent mores corvinos. Rustici montani mores habent lupinos. Moito la onoraro le donne de Roma. Moito ammirava l'abito de Romane. Partìose e gìo a Napoli a visitare sio figlio re Antrea, e visitaolo e là recipéo per la reina Iuvanna e per li conti dello renno quelle onoranze le quale diceraio là dove se tocca della morte de re Antrea. Questa reina veniva sopra una carretta. Quattro palafreni tiravano quella. Otto contesse sedevano con essa. Tutte guardavano ad essa. Nella aitra carretta venivano aitre damiscelle con veli ongareschi e con coronette d'aoro puro in capo. Cinquanta cavalieri a speroni d'aoro intorno, e aitri serviziali. Questa donna avea mozze quattro deta della soa mano ritta. E mozzaolille uno barone de Ongaria: Feliciano abbe nome. La novella fu così. Feliciano abbe una figlia, nome Elisabetta, la quale per compagnia della reina usava in corte regale. Lo cunato dello re carnaliter illam mediante regina cognovit. Venne lo tiempo che·llo patre la retrasse dallo servizio della reina e disse ca·lla voleva maritare. Disse Elisabetta: "Non se conveo che marito aia quella a chi sotto ombra de re è tuoito sio onore". Questo odenno Feliciano fu turbato. Più non disse. Anche ne gìo con un sio iovinetto figlio, cavalieri, a parlare collo re. Lo re era in una oste. Entra Feliciano l'oste e passa onne iente. Passa lo steccato intorno allo re e ionze allo paviglione regale. Là, 'nanti la porta dello paviglione, trovao uno frate, lo quale era confessore dello re, piecaose in terra e sì se confessao e disse: "Io dego condescennere ad uno caso collo megliore cavalieri dello munno, donne è pericolo de morte de doi perzone. Pregote che me assolvi". Lo frate no·llo intese. Imbrattao la porta, fece soa croce, sio miserere, e abbe assoluto de quello che non intenneva. Intra tanto le guardie nunziaro allo re che Feliciano era venuto. Lo re stava a tavola e pranzava esso e·lla reina e sio figlio Lodovico, mode re, lo quale era in etate de infanzia. Deo licenzia lo re che Feliciano entrasse. Feliciano, auto commiato, disse allo figlio: "Sta' qui. Non entrare. Se odissi romore, cavalca e vattene. Lo cavallo bene te portarao". Entra Feliciano. Quanno lo re lo vidde, aizao la voce e disse: "Ahi pazzo, haime trovata drento la Boemia quella bona spada la quale me promettesti?" Respuse Feliciano e disse: "No. Io la trovaraio. Volete che aia tale fierro, tale tagliare, quale hao questa mea cortellessa?" E ditto questo, aizao la cortellessa sopra lo capo dello re più de doi piedi. Lo re levao l'uocchi per guardare alla accia de questo fierro. Allora Feliciano abassava la mano e lassao cadere de fortuna. Ìo lo colpo per partire la testa dello re in doi parte. Lo re, temenno e tremanno, sùbito se mise sotto la tavola. La reina parao la mano. Lo fierro coize quattro deta, le quale sùbito caddero in terra. La cosa era nova. Lo romore granne. Li donzielli, li quali servivano, colle cortella da servire occisero Feliciano. Puoi curzero sopra lo figlio e sì·llo occisero. Patre e figlio morìo in uno ponto per la lengua de Elisabetta. La reina ne perdìo mesa mano.

Cap. XI

Della sconfitta de Spagna e della toita della Zinzera e dello assedio de Iubaltare.

MCCC[...] anni Domini currevano, de mese de [...], quanno fu fatta la granne e orribile vattaglia infra Cristiani e Saracini. Duce Deo Cristiani fuoro vincitori. Saracini fuoro sconfitti in Spagna in uno campo lo quale se dice Cornacervina, nello terreno della citate de Sibilia, dove moriero sessanta milia Mori. La quale novitate fu per questa via. Uno nobile e glorioso re fu in Spagna. A nostri dìi megliore non fu. Abbe nome donno Alfonzo, figlio dello re Duranno re de Castelle. Questo re Alfonzo fu moito vittorioso. Continuamente resse la frontiera contra delli Saracini. In una rotta sconfisse uno grannissimo duca de Saracini, lo quale avea nome Picazzo, e sì·llo prese per la perzona. Questo Picazzo avea uno uocchio. Non più consideranno lo re Alfonso la nobilitate e·lla potenzia de Picazzo, deliverao de perdonarli la vita, se voleva recipere lo battesimo e prennere soa figlia per moglie. Le cose fuoro promesse e venivano ad effetto. Quanno Picazzo venne alla fonte dello battesimo, fu pentuto. Desprezzanno lo battesimo e lo cristianesimo sputao orribilmente nella conca. Questo vedenno lo buono re Alfonzo fu turvato. Niente tarda. Impuina mano a soa spada e senza misericordia li partìo la testa dallo vusto. Quello cuorpo fu iettato fra li cani. Questo iovine Picazzo avea una sia matre reina: la Ricciaferra avea nome. La Ricciaferra avea un re per marito, lo quale avea nome Salim re de Bellamarina, nato de una citate che se dice Trebesten. Questa Ricciaferra, sentenno occiso lo bello sio figlio Picazzo per la mano dello re Alfonzo, penzao de fare la vennetta sopre li Cristiani e sopra lo re Alfonzo. E perché ciò fare non se poteva senza granne esfuorzo, penzao de fare lo passaio sopre la Cristianitate, e così fece. Abbe ordinato collo loro papa, lo quale in quello tiempo avea nome Galiffa de Baldali, soldano de Babillonia, che fecessi uno commannamento generale e indulgenzia per tutta Saracinia - Partia, Media, Turchia - a fare lo passaio e·lla granne armata per prennere terre de Cristiani e occupare e destruiere le chiesie de Cristo e relevare tiempi a Macometto. Così fu fatto. Per tutta Saracinia vanno predicanno li alfaquecqui, cioène prieiti, e portano lettere espresse da parte de Galiffa loro papa che·sse faccia lo passo sopra Cristiani. La iente fu adunata grannissima da pede e da cavallo. Fuoro da quattrociento milia perzone da vattaglia. Fuoro tutte con mazze in mano e fionne: Perziani, Arabi, Saracini neri, Parti, Dulciani. Queste fuoro le ienerazioni commosse a questa adunanza per lo passo fare de cà da mare. Quattro fuoro li regi de corona li quali questa iente guidavano. Lo primo fu lo re dello Garbo, lo re de Marocco, lo re de Bellamarina, in aitro nome de Trebesten, e lo re de Granata. Questi fuoro li regi de Saracinia. Vero ène che·llo re de Granata non venne con questi, ché sio reame ène drento della Spagna; ma quanno sentìo la forza passata de Saracini, sì se rebellao e mosse, guerra drento nella Spagna. Questi quattro regi con tanta iente muossero e passaro lo mare e liberamente se posaro in terra ferma. Sei iornate de terreno occuparo de Cristiani con cavalli, asini, muli, camielli, femine infinite, siervi, arme, fodero de pane e aitro arnese da guerra. Francamente passano e pono l'oste sopra una citate de Spagna la quale se dice Taliffa, e dicono che quella ène cammora loro. Nelli lati e spaziosi campi destienno li paviglioni e iaccio in campo. Per fermo assedio fare portano ignegni e trabocchetta. Grossa era la iente. Non dubitano. Alquanto magnano, bevo. Loro tammuri sonano. Deh, como granne romore faco! Haco ignegni da aizare scale, da iettare macine. Loro campo, dove posaro, avea nome Cornacervina, campo spazioso, abunnevole de acqua, lena e erva, anche forte, ca·llo fortificava uno fiume lo quale se dice Rigo Salato. Questo fiume desparte Taliffa da Sibilia. Da vero che in questo campo non forano venuti né potuti venire per la stretta valle la quale passaro canto la costa, se non fussi che nella entrata dello paiese se pattiaro con un granne e potente barone dello reame: don Ianni Manuelle avea nome. Questo don Ianni Manuelle era delle più potente colonne de Spagna. La montagna era in sia balìa. Era questo don Ianni in errore collo re Alfonzo, ché no·lli favellava e derobare faceva, perché reprenneva lo re, lo quale con soa reina stare non voleva, anche stava con una badascia - madonna Leonora avea nome -, como io' diceremo. A questo don Ianni Manuello donaro li Saracini granne quantitate de doppie de aoro, perché·lli concedessi lo passo; e così fu. De licenzia dello re Alfonzo don Ianni Manuello concedéo lo passo a Saracini, e vennero nelli campi de Cornacervina, como ditto ène, e là stavano ad oste a fermo assedio. Derizzaro trabocchi e fecero ignegni da ponere scale, con rote e funi. L'oste stette ben mesi tre. Taliffa se perdeva in tutto, se non se succurreva. Non se poteva recuperare. Quanno lo buono re Alfonzo se sentìo sopre l'oste e·llo esfuorzo granne, non dottao, anche se puse alla frontiera in Sibilia, la citate reale. Dicese che madonna santa Maria fussi nata in questa citate. Ora non dorme lo re Alfonzo. Manna per succurzo allo papa. Manna alli regi li quali staco intorno ad esso, cioène a sio zio, don Dionisi de Lisvona canto mare, re de Puortogallo, allo re de Navarra, allo re de Aragona. Manna commannamenta espresse a tutti suoi baroni che sequitinolo. A don Ianni Manuello fao commannamento tanto che non se parta, anche stea e chiuda la essuta e fera dereto, quanno lo stormo oderao. Ben se sollicita lo re. Ben chiama tutta la Spagna. Questi regi non fecero resposta, ma cavalcaro de sùbito con loro espediti cavalieri e pedoni. Mustrano lo loro buono volere e forza. Lo primo aiutorio fu quello de papa Benedetto: setteciento uomini d'arme de buono apparecchio, Todeschi e Franceschi, cavalli gruossi, bene armati, vennero crociati, assoluti de pena e de colpa. Lo secunno aiutorio fu lo re de Navarra con quelli de Pampalona, con cinque milia cavalieri adorni, buono capiello de acciaro in testa, bona targia in vraccio, tagliente guisarina da lato, lucente zagaglia in mano. Anche venne con pedoni vinti milia. Lo terzo aiutorio fu lo re de Aragona con cinque milia cavalieri fra Provenzani e Franceschi. Con esso fuoro quelli de Tolosa. Anche menao pedoni vinti milia. Anche ce fu don Dionisi sio zio con quelli della citate de Lisvona. Lo quarto aiutorio fu lo re de Puortogallo con quinnici milia cavalieri spagnuoli, currienti cavalli e dardi in mano. Lo quinto fu esso re Alfonzo, re de Castiello, con trenta milia cavalieri buoni, adorni, con cavalli spagnuoli de quelli de Castiglia, li quali se contano li più nuobili destrieri che siano, pedoni senza fine. Mentre che lo assedio era sopra Taliffa, lo re Alfonzo era in Sibilia con soa baronia. La fame e·llo caro era granne in Sibilia. La iente, la quale era venuta a servire, non poteva tanto demorare. La moneta non bastava. Forte se mormorava la iente de tanta tardanza. Allora lo re Alfonzo, represo da suoi baroni, deliverao iessire fòra alla vattaglia e cercare soa ventura. Spene abbe in Dio, lo quale non li fallìo. Esse fòra vigorosamente. In questa forma soa iente conestavilìo. Trenta milia cavalieri abbe de buono guarnimento, non più, ciento milia de pedoni. Era in mieso, fra soa iente e l'oste de Saracini, lo fiume lo quale se dice Salato. De·llà da Salato stao Cornacervina, dove staco trabacche e paviglioni, alfaniche e confalloni, iente assai, como ditto ène, con moiti tammuri. Da lo lato ritto de l'oste stavano le montagne de Ilerda, la veglia terra. Dallo lato manco stavano le pianure spaziose. Dereto li stava una stretta valle, la quale avevano passata per forza de moneta, como ditto ène. De sopre dalla valle staievano le montagne le quale teneva don Ianni Manuello. Denanti aveano lo fiume e·lli nimici. Lo passo dello fiume curatamente se guardava. Lo re Alfonzo tenne questa via. Imprimamente mannao li setteciento cavalieri papali crociati a passare lo fiume. Treciento rompessino lo passo e commattessino colle guardie. Doiciento se ponessino dallo lato della currente dell'acqua a sostenere la forza dello fiume, che·lla pedonaglia potessi passare; li doiciento remanessino a guardare lo passo, aitro non facessino. Non era piccolo pericolo passare lo fiume, lo guado rompere. Tutti fuoro destrieri eletti. A questa iente aitro confallone dato non fu, se non uno confallone collo campo bianco e·lla croce vermiglia. Su la croce era lo crucifisso. Po' li setteciento crociati sequitao esso re Alfonzo a cavallo in uno cavallo ferrante liardo. Dicese che fussi lo più bello e megliore dello munno. In soa compagnia abbe cavalieri dieci milia, che, rotto lo passo, fossi lo primo lo re con soa iente alla vattaglia. Po' lo re Alfonzo sequitao lo re de Aragona con cinque milia cavalieri e pedoni vinti milia. Questo ìo dallo lato della montagna a ponere li impedimenti e occupare li passi e·lle selle, le entrate e·lle descese, perché Saracini per la montagna non avessino valore né redutto né fuga. Dallo lato manco, innella pianura, fu mannato lo re de Navarra con dieci milia cavalieri, con cinque milia pedoni, perché lo Saracino non potessi dare la fuga né destennersi per li campi. Po' queste iente sequitao lo re de Puortogallo con quaranta milia pedoni e tutto l'aitro esfuorzo a sostenere le spalle. Questa fu la schiera grossa. Dallo aitro lato dereto don Ianni Manuelle devea ferire colli montanari. Questa fu loro bella conestavilia. Così ne venne la lettera a Roma a missore Stefano della Colonna berbentana, a gran pena intesa. Dato l'ordine e·llo nome, li setteciento cavalieri ionzero allo fiume. Rompo l'acqua e passano. Non vaize reparo. Tre cavalieri, li quali erano sopranamente a cavallo, fuoro li primi che l'acqua passaro: uno arcivescovo e doi cavalieri a speroni de aoro, donzielli dello re Alfonzo, uomini li quali sapevano la contrada, usati dello passo. Questi fuoro li primi 'nanti all'aitra iente. Là nello passare fuoro presi dalli perfidi Saracini e prestamente loro teste dallo vusto fuoro troncate. Là in quello passo fuoro martiri gloriosi de Cristo. Ora iogne la cavallaria. Passa uno, passa l'aitro. Poco vale lo reparo. A una forza tutto lo stuolo de Cristiani fu puosto de·llà dallo fiume. Nullo ce pericolao nello passo, se non l'arcivescovo e li doi cavalieri, li quali lo glorioso martirio recipiero. Passato lo stuolo, Saracini, la perfida iente, non dottava per la granne loro moititudine. Anche stavano canto l'acqua e manicavano e godevano, loro cembali sonavano, granne stormo facevano. Alla fine se levano su. Prienno loro arme, arcora, mazze e fionne, e resisto forte e pienamente. L'ora era su la terza. Ora vedesi tromme e instrumenti sonare. Odese romore da parte in parte. Tamanto è lo strillare, che voce umana nulla se intenneva. Su in quelle coste rembombava lo crudele romore. Dieci miglia da longa fu odito. Odi pianto, odi gridare. A cuorpo a cuorpo se affrontano. Alle mano soco. Chi dao, chi tolle."Dae, dae, dae" odivi; aitro no, per granne ferire su nelle teste armate. Vedese iettare de lance, aizare de spade, saiette volare. Le prete, vrecce de fiume, de piena mano fioccavano como neve. Là erano la maiure parte Turchi, li quali aitro non aveano se non fionne e prete. Moita iente pericolaro. Io ademannai uno pellegrino spagnuolo se de questa rotta alcuna cosa sapeva. Quello disse ca nce fu, e trassese sio capiello de capo e scoperze la fronte e mustrao una sanice rotonna in mieso della fronte, e disse ca quello fu colpo de preta. Un aitro, lo quale similemente adimannai, scoperze lo capo de sio cappuccio e mustraome tre sanici de colpo de spada e una nella fronte de preta. Puoi bene sapere ca se maniavano Saracini, ca·sse aiutavano. Vedese travoccare da cavallo, teste fennere, saiette e sbiedi pietti passare. Passano li cavalli sopra le corpora. Granne ène lo pianto e·llo guamentare. Così curre lo sangue como rigo de acqua. Là se pare chi ène figlio de bona mamma. Ora vedesi lo bello commattere e·llo delettevole armiare che·lli iannetti facevano. Currevano per lo campo commattenno, ferenno e lancianno. Non era chi li potessi adetare, tanta era la loro velocitate e leierezze. Una targetta in vraccio portavano longa doi piedi, lata uno, coperta de lino, so·lla quale da capo a pede se coperivano, staffe corte [...] vestimento de lino incerato, in capo scuffia de fierro. In mano portavano dardi. Questi dardi lanciavano. Chi ne leva uno piùne non ne vole. Quanno li dardi mancavano, lo iannetto currenno con sio curzieri se piecava fino a terra. Coglie sio dardo e destramente lo lancia denanti, dereto, abasso, in aito secunno soa voluntate. Granne ène loro leierezze. Questo ène lo iocare della iannettia. Questi iannetti soco li scoperitori regali. Durao la vattaglia fi' alla nona, più no, perché la iente saracina sentìo don Ianni Manuello, lo quale della montagna descenneva per ferire dereto e per lo passo parare. Quanno fu questo sentuto e conubbero la fumiera, lo splennore delle lance e delle insegne, subitamente li venne meno lo core e·lla vertute. Tutti fuoro rotti. Non puoco resistere. Ora se voitano, dacose alla fuga. Terribile cosa è loro fuire. Fugo senza alcuna remissione. Non è speranza se non nelle gamme. Ora vedesi occidere, ora vedesi maciello fare. Granne tagliare se fao de quella canaglia della iente saracina. Questa sì ène la nobile sconfitta de Spagna, infra moite poche memorabile. LX milia corpora de Saracini fuoro morte, XL milia li presoni. A queste cose lo re non fu, né·lle sentìo, per lo poco dubio lo quale avea nella soa forte schiera. Commattéo puoi che la novitate pervenne alla forte schiera e·llo dubio fu palesato. Stava in guardia della porta dello regale paviglione uno omo - Serafin avea nome - più granne che li aitri tre piedi, macro, tutto nervoso, longhe le gamme, nero lo voito, vestuto de uno perponto de iuba de seta. In mano teo una mazza de fierro 'naorata. Questo Serafin, a cui era fidata la perzona dello re, dubitao de nunziare la mala novella. Puro la manifestao alla reina. Mossese la reina: Ricciaferra avea nome. Passa denanti allo re. Delli suoi uocchi fontana de lacrime descenneva. E disse: "Su re, ca·lla ventura ène de donno Alfonzo". Lo re iocava a scacchi. Questo odenno fu turbato. Più non disse, più non odìo. Bastaro doi paravole. Vestuto de una [...] de aoro longa fi' alli piedi, barretta de aoro in capo con prete preziose, bacchetta d'aoro in mano, salle a cavallo, prenne lo camino de casa soa. Era intorno affasciato da sette milia Turchi con vastoni de fierro inaorati in mano, vestuti de iube de sannato sopre ponte de ballacchino, armati alla imperiale. Anche ivano aitri cavalieri con lance, con fierri lati, lucienti. Denanti a questi ivano assai cembali sonanti e aitri strumenti senza fine. Regale pareva la forza e lo suono. Più denanti vaco dieci milia iannetti currenno e sparienno da onne lato dardi, como fao la spinosa alli cani. Nulla perzona ad essi se accosta, sì granne ène lo fioccare delli dardi. E moita aitra iente da pede e da cavallo con granne fortezze, con sole armature lo sequita. A questo muodo ne vao fuienno dello stormo Salim, lo re de Bellamarina. Rompe e passa onne para per forza della nobilitate de soa cavallaria. Lassao Ricciaferra, la soa donna, la reina. Lassao onne cosa desperata. Sei dìe durao la fuga. Sei dìe durao la incaiza. Così iace seminata la iente morta como le pecora. Po' la partenza dello re la reina fece destennere panni bianchi de seta in terra. Là fece ponere tutta la moneta e·lle gioie regale. Là essa sedeva con cinquanta soie soffragane concubine dello sio re. Uno cavalieri spagnuolo - Arcilasso avea nome -, armato e bene a cavallo con una lancia in mano curreva per lo campo. In sio furore entrao lo Alfanic, cioène lo paviglione dello re. Occurzeli la reina. Quanno questo Spagnuolo vidde la reina sedere in figura de tristizia (puro la soa vista dignitate mustrava), lassase e deoli de una lancia. Da oitra in parte la passao. De colpo l'abbe morta. Torna in reto e per lo campo fao granne male. Una maraviglia fu, che·llo ferrante dello re Alfonzo, della cui bellezza alcuna cosa ditto ène, da puoi che fune in quello campo, mai non posao, mai non fu potuto tenere. Contra voluntate delli circustanti allo freno portao lo re nello paviglione dello re de Bellamarina e là restette de furiare. Così fece como avessi auto senno umano. Quanno lo re Alfonzo allo paviglione regale fu ionto, trovao la reina, la quale morta iaceva e in mieso de soie soffragane stava, le quale piagnevano e guardavano quello cuorpo. Erance una la quale era cristiana - avea nome Maria -, nata de una villa la quale hao nome Obeda. Questa Maria fu schiava, e per soa bellezza e suoi costumi era concubina de re. Parlao e disse allo re che avessi mercede; Arcilasso la donna avea esmattata. Quanno lo re intese che·lla reina era morta per le mano de Arcilasso, fu forte dolente e disse: "Ahi Arcilasso, como non te temperasti a tio furore? La mea vittoria era doppia". Puoi fece atti de tristezze sopre la donna. Era la donna grassa e grossa. Credere non se pò. Nelle gamme, nelle vraccia e in canna avea cierchi de aoro purissimo smaitati, ornati de prete preziose. Questa donna de commannamento dello re fu operta. Puoi fu inzalata e messa in una cassa piena de aloè e fu posta per dignitate in una aita torre. Puoi lo cuorpo de questa donna revennéo allo marito infinita quantitate de moneta. Po' questo lo re Alfonzo fece tollere lo tesauro dello re fuito, lo quale fu doppie [...], che milli muli ne fuoro fatigati a portare arme e aitro arnese, como se dicerao. Maria de Obeda, guardiana della reina, fu liberata. Disse ca quelle doppie non erano la quarta parte, le tre parte ne erano furate per la iente. Ora tornemo alla incaiza de Saracini. La incaiza durao dìe sei. Non era muodo allo macellare. Lo sesto dìe trovaro una citate canto mare che·lli recipéo: Ziziria hao nome. Quella Ziziria fisse lo Cristiano. Intanto daose la iente alla guadagna dello robare. LX milia fuoro le corpora delli Saracini morte. Quelle loro ossa fuoro adunate in uno campo e de esse fatta fu una grannissima montagna. Fine allo dìe de oie dura. Anche più, ché oie in questi dìe vao lo aratore e ara lo campo, e aranno trova teste, gamme, vraccia e ossa assai. No·lle poco capare. Anche più, che durao alcuno spazio de dìe che·lli viannanti sequitavano per loro mestieri, per le selve trovavano a pede delli arbori ossa iacere in forma de omo lo quale dormissi. Questo era che·lli feruti essivano dallo stormo e posavanose a pede delli arbori per accogliere lena, ca stanchi erano, e, como se posavano, lo spirito e·lla vita in un tiempo li abannonava. Così remanevano quelle ossa senza carne. Infra le gote vedeva omo resplennere aoro. Questo era ché Mori se metto le monete e loro doppie d'aoro in vocca. Queste doppie lucevano como aoro. Allora chi questo trovava percoteva la zucca dello capo con preta e bastoni, sì che spartiva le ganghe, e·lla coccia volava in terra. Lo viannante alegro la moneta prenneva. Granne fu lo guadagno de questo stormo. XL milia corpora de Saracini fuoro presi, maschi e femine, li quali fine nello dìe de oie staco siervi de Spagnuoli. Zappano, arano, filano, tiesso, cucinano e aitri mestieri secunno le connizioni. Onne artificio faco. Infiniti ne fuoro vennuti como se venno le crape. Per tutta Spagna fuoro vennuti colla corona in capo. Anche ce soco de quelli siervi. Onne servizio faco a Spagnuoli loro signori. Hortos et vineas colunt dominorum precepto solo victu contenti. Anco ce fu guadagnata la moita robba: denari, arnesi, arme, vestimenta, vascella de metallo de rame, cavalli, muli, somari, camielli, paviglioni, trabacche, tanto forag[g]io, tanto arnese. Estima quanta fu la iente! Lo re Alfonzo abbe lo paviglione regale con tutto quello drento. Lo paviglione avea nome Alfanic. Treciento cammore avea. Era de panno de lino attorniato de corame roscio con corde de seta invernicate d'aoro. Mai non vedesti più mirabile né più bella cosa. Nello fastigio de sopre, dalla parte de fòra, tutto stava puosto a lune, drento de diverzi colori. Non se pote quello lavoriero contare. Drento dallo Alfanic fu trovata la Ricciaferra, la reina morta per Arcilasso, como ditto ène, la quale fu vennuta a sio marito moito aoro inzalata in una cassa. Puoi ce fuoro trovati li tesauri regali, la quarta parte; le tre furate erano. Milli e doiciento muli portaro quelle, e fuoro doppie. Disseme chi le vidde, chi le despese che quelle doppie erano d'aoro e erano in forma de piattielli de ariento, poca cosa meno che·lle patelle dello calice dello aitare. Anche fra quello tesauro fu trovata la lettera della indulgenzia, la quale li avea conceduta lo loro granne papa - Galiffa de Baldali aveva nome -, nella quale prometteva a chi moriva in questo passo la resurezzione a terzo dìe. Puoi prometteva sette mogliere vergine nello santo paradiso. Puoi li prometteva de farli stare abbracciati con santo Macometto e con santo Elinason. Puoi li prometteva de satollareli de latte e de caso e lagane e vuturo e mele. Queste erano le promissioni dello soldano Galiffa de Baldali in soa lettera. Puoi li commannava che tutta Cristianitate sterminassino e occupassino lo munno. Anche ce fu trovato in quello Alfanic arme assai, guarnimenti regali de panni tartareschi e ballacchini ornati con aoro e prete preziose. De questo tesauro lo buono re Alfonzo mannao in Avignone a papa Benedetto, lo quale era vivo allora, la decima parte de queste doppie d'aoro. Vaize da ciento sessanta milia fiorini. Anche li mannao lo confallone reale collo quale abbe la vittoria, lo quale portao nello stormo. Anche li mannao lo bello cavallo ferrante lo quale lo re cavalcao nella vattaglia, lo quale ferrante papa Chimento, sio successore, lo donao e mannao a Filippo de Valosi re de Francia per lo moito bene che li voize. Anche li mannao vinti de quelli Saracini presonieri con quelle arme, con quello abito, con quelli cavalli colli quali fuoro presi. Così ionzero in Avignone questi vinti Mori. Per la mutazione dello paiese e per la perduta licenzia tutti moriero, salvo uno solo, lo quale se fece devoto cristiano, donziello dello papa. Fi' alli dìe nuostri vive. Anche li mannao vinti confalloni presi nella rotta de Turchi e Medi, li quali confalloni una collo granne confallone sio regale fuoro appesi nella cappella de papa Benedetto dello palazzo papale de Avignone. Allo dìe de mo' non ce staco. Fatta che fu questa sconfitta, lo re de Granata per tema de sio reame deventao tributario a re de Castelle. Io pozzo dicere in bona fede con veritate, ché delle arme de questi io viddi per questa via. Nella citate de Tivoli venne Carlo imperatore, anno Domini MCCC [...], como se dicerao. La iente era moita. Io stava in una pontica, là dove venne uno a comparare cannele de cera e confietti e spezie. Questo teneva una spada sotto vraccio. Lo pomo era tutto inaorato e lavorato a igli e fiori. Dissi io: "Vòi tu vennere questa spada?", e trassila fòra dello fodero. Era la spada como le nostre soco, in forma de mieso stuocco, mesa spada. Non era troppo granne né troppo lata, ma, como le nostre, bene convenevile, fatta allo muodo genovese. Lo pomo era luongo como uno prungo piano, l'ilzo como mesa luna, e era la maiure parte 'naorato lo fierro, l'ilzo e·llo pomo tutto. La vaina era curata con tenere de fierro bene lavorato e·llo caspiello con correie moito adorne. Parevame che·lla spada non era sempia como le nostre. Respuse lo buono omo e disse: "Io non la voglio vennere, né la dera per cinquanta fiorini". E ciò fermao con sacramento. La iente che intorno stava disse: "Perché?" Respuse e disse: "Questa spada fu guadagnata nella rotta de Spagna, nello granne stormo quanno fu sconfitto lo re de Bellamarina dallo re de Castiglia. Io me nce retrovai. Dunque, benché assai bona sia, aiola cara troppo. Non la dera per moneta alcuna". Fatta questa sconfitta e raccuoito lo campo e licenziati li regi e li aitri aiutorii, lo re Alfonzo non posa. Anche fece iente de sio reame e de crociata e sequitao la iniqua iente perfida. Moito li molesta. De loro terreno vole. Intanto morìo papa Benedetto, lo bianco, e fu creato papa Chimento, lo monaco nero. Era una nobile citate canto mare, nelli confini de Saracinia, la quale avea nome la Ginzera. Lo paese hao nome Gigizia. Questa era delle megliori e delle più nobile e più ricche de speziaria, seta e panni de Tuniso che in Saracinia fussi. Questa citate assediao lo buono re Alfonzo per mare e per terra. Lo assedio fu durissimo. Ciento trentacinque galee abbe per mare e per terra iente infinita da pede e da cavallo. Durao lo assedio mesi diciotto e fu auta per fame. In quella citate entrao lo re Alfonzo e soa iente. Prese chi voize, occise chi·lli parze e cacciaone tutta la perfida iente. Toize tutto loro arnese, lo quale fu tanto che ène inestimabile. Quella citate empìo de Cristiani. E fuoronce edificate chiesie, locora de religiosi e fonne fatte doi vescovata. Quella citate fi' allo dìe de oie serve a Cristo glorioso e benedetto. Ora poni cura alla novella. Puoi che·llo re abbe venta la Ginzera, non abbe bisuogno de tanta moititudine de iente. Licenziao li sollati. Granne spesa avea fatta. Fra li aitri licenziati fuoro trenta cuorpi de galee de Genovesi, le quale li aveano bene servuto. Queste galee tornaro a Genova. Quanno fuoro nello entrare dello puorto, como usanza ène, sonaro tromme e naccari e ceramelle. Troppo imperiale faco suono e alegrezze. Puoi entraro lo puorto e puserose ad ordine. Moito letamente dao in terra tutto lo stuolo, bene vestuti, bene adobati e riccamente. Forte aveano guadagnato. Fra le aitre cose per novitate pusero nello puorto, su lo passo dello puorto, sei de quelli Mori, li quali erano male vestuti. De gialle schiavine loro cuorpo era ammantato. Fierri tenevano in gamma. Mustravano ca erano presonieri. Tutta Genova curre e descegne allo puorto a vedere le galee venute. La moita iente se foice. La moita iente fao intorno rota a questi mori. Desidera omo vedere la iente della strania fede. Staievano li sei Mori miserabilemente timorosi fra tanta iente. Moito moito favellavano e po' lo favellare voitavano loro capora, aizavano la faccia e resguardavano, como ammaravigliassino, le belle edificia e palazza aitissime le quale staco intorno allo puorto de Genova. No·lli intenneva la iente. Era là uno siervo de Genovesi lo quale fu saracino. Era cristiano e nutricato in Genova. Latina lengua sapeva. Diceva la iente: "Que dico questi?" Responneva: "Questi dico così:"Non è maraviglia se noi Saracini simo sconfitti e perdienti, ca nce ène stata sopre tutta Cristianitate e Genova"". Quanno aiognevano Genova, allora volveano le facce maravigliannose a quelle palazza dello puorto de Genova. Credevano che Genova fussi tutta la fortezze e bellezze de Cristiani, non se ne trovassi simile. In questo potemo conoscere che loro avitazioni non soco così delicati como li nuostri. Anche ne venne della Gizera lo vescovo de Peroscia, lo quale fu delli crociati, e menao con seco otto de quelli Turchi. Fuoro da cavallo, fuoro uomini bianchi e belli como noi; calzamenta como noi, ronzini como noi. In capo portavano uno capiello fi' alle recchie como mitra de papa. Vero è che in mieso avea uno pizzo ritto, luongo, sottile como fussi cuollo de gruva, copierto de panno de lino bianco. Aduosso portavano uno farsetto de panno de lino bianco como noi. Vero è che·lle maniche erano longhe fi' alle deta della mano. Sopre lo farsetto portavano uno manto de panno de lino como piviale da preite. La ponta dello lato ritto se iettava dalla spalla manca e quella della manca se iettava dalla spalla ritta. Po' questo donno Alfonzo non posa. Anco fao iente de sio paiese, e abbe assediato lo bello e nobile castiello, uitima fortezze de Saracini. Iubaltare lo castiello hao nome. Lo paiese hao nome Alcacuc. In questo castiello Macometto scrisse la soa leie e deola a Saracini e fece lo livro lo quale se dice Alcorano. Sopre de questo castiello puse l'oste lo re e iurao per la maiestate de sio reame e per l'aitezza de soa corona mai da quello assedio non partire finente che quello castiello non avea. Ficcao sio stennardo in terra. Serrato era allo torno. Lì puse l'oste e guardie credennosello prennere per fame. Ène lo castiello bellissimo e fortissimo. Hao nome Iubaltare. Stao in una penna de preta viva aitissima. Su in quella preta l'aquile faco lo nido. Puoi l'aitezza veo abassanno alla piana. Là, canto la pianura, ène menato uno muro fortissimo con spessi torricielli. Picazzo, de chi ditto ène, lo fece fare su lo vivo sasso. Drento dallo muro hao una fontana de moita abunnanzia. Nella destesa della pianura hao la meschita. Haoce arbori de onne rascione. Mai non fu veduta sì piacevole fortezza. Cristiani per loro negligenzia la perdiero. Questa fortezze se crese recuperare donno Alfonzo per assedio; ma non li venne fatto, ca sopravenne la granne e orribile mortalitate, della quale se dicerao, e ferìolo con una iannuglia nella inguinaglia. Donne li convenne, levato campo, morire nello tiempo della granne mortalitate in Sibilia, la citate regale. Questo re donno Alfonzo fu lo più nobile, lo più glorioso, più iusto, più pietoso re che mai fusse in Spagna. Sempre mai Spagnuoli lo piagneraco. Onne vertute abbe. Non abbe defetto alcuno. Una sola cosa abbe reprensibile, ca esso non amava la soa reina, né con essa voleva stare, benché uno figlio ne abbe. Anche teneva una soa badascia - donna Leonora aveva nome - la quale amava sopra tutte cose, la quale era sio confuorto, della quale avea figlioli e figlie. Senza essa non poteva stare. Per moite voite lo papa sì·llo ammonìo e sì·llo scommunicao. Voleva che questa soa badascia, donna Leonora, iettasse via. E·llo re per la epistola li respuse doicemente, anche per una ambasciata, e disse: "Santo patre, se piace a voi che io mora e non viva più, io lasso stare; tutta fiata che io staiessi senza essa io non pòtera vivere". Così lo santo patre non lo molestava. Non voleva che soa vita fine breve avessi. Io demorava nella citate de Bologna allo Studio e imprenneva lo quarto della fisica, quanno odìo questa novella contare nella stazzone dello rettore de medicina da uno delli bidielli.

Cap. XII

Como fu cacciato de Fiorenza lo duca de Atena, e como morìo papa Benedetto e fu creato papa Chimento.


Anni Domini MCCCXLII, uno fulguro nello campanile de Santo Pietro Maiure de Roma deo e arze tutto lo cucurullo. Fu nell'ora de vespero, quanno li calonici in coro cantavano lo offizio. Currevano anni Domini MCCCXLII quanno papa Benedetto lo bianco morìo e fu elietto papa Chimento sesto. Questo papa Chimento fu monaco nero e fu perzona de tanta sufficienzia che non avea paro. Era grannissimo teologo e fu bellissimo sermocinatore. Quanno esso teneva catreda per sermocinare overo desputare, tutto Parisci concurreva a vedere esso. Deh, como bello fu sermocinatore! Omo gallico moito largifluo, da si' che in Studio fu era tanta soa larghezza, che allo despennere no·lli iognevano soie prevenne. Questo abbe tutti li gradi de dignitate. In prima fu monaco nero de santo Benedetto, conventuale, sottopriore; puoi fu decano; puoi fu priore; puoi fu fatto abbate; puoi fu fatto vescovo; puoi arcivescovo de Ruen; puoi cardinale de titolo de santo Nereo e Achilleo; puoi, uitimo, fu creato papa. Que abbe a dicere? Ca se grado se trovasse alcuno maiure, anche l'àbbera desiderato. Como questo papa creato fu, così lo cucurullo dello campanile de Santo Pietro Maiure fu abrusciato, como ditto ène. A questo papa venne l'ambasciata de Roma moito onorabile, dodici perzone: sei secolari, sei clerici. Capo loro fu Stefano della Colonna e·llo commannatore de Santo Spirito. Questi dodici ambasciatori lo pregaro, da parte de Dio e dello puopolo de Roma, che·lli piacessi de venire a visitare la sede dello sio vescovato de Roma. Anche lo pregaro che·lli concedessi la indulgenzia generale dello iubileo, che tornassi ciento anni a numero de cinquanta; perché la etate ène breve, pochi ne viengo a numero de ciento. A questi ambasciatori a po' dìe lo papa respuse. E imprimamente provao che·lla petizione loro era iusta, e provao per dodici rascioni che esso era tenuto de venire a visitare lo sio vescovato, la citate romana. Quanto allo secunno, concedéo lo quinquagesimo iubileo in Roma, generale remissione de peccati, pena e colpa alli pentuti e confiessi; delle connizioni dello quale iubileo infra se dicerao. In tiempo de questo papa, anni Domini MCCCXLII[I], in dìe de santa Anna, fu cacciato de Fiorenza missore Gottifredo, conte de Brenna, duca de Atena, signore perpetuale de Fiorenza; e folli fatta moita onta e moito despiacere e detuperio e danno; e fuoro muorti uomini e loro carne fu manicata. La quale novitate fu per questa via. Fiorentini compararo Lucca da missore Mastino della Scala e entraro in possessione. Pisani, turbati de questo mercato, fecero intorno a Lucca uno esmesurato e memorabile assedio; iente da cavallo numero [...], iente da pede numero [...] Intorno all'oste fecero fossati e steccata, torri de lename spessi. Anche carvoniaro e stecconiaro la strada la quale vao da Pisa a Lucca; dura miglia dieci. E questo fecero perché liberamente omo isse a l'oste con fodero e con arnese, senza impedimento. Durao lo assedio mesi [...] Allora, per mantenere lo assedio, fecero la gabella che se chiama Seca. In breve sconfissero Fiorentini e levaroli de campo, e non lassaro succurrere missore Malatesta, capitanio de Fiorentini, con grascia. Anche fecero una cosa notabile; ché missore Malatesta ionze la sera con fodero e con granne iente ad uno fiume, lo quale se dice Serchio, appresso a Lucca. De notte Pisani fecero uno fossato esmesuratamente luongo e largo fra lo Serchio e·lla citate de Lucca, longhezze [...], latezze [...] Tutto questo lavoriero fu espedito in notte una. Quanno la matina missore Malatesta, paratis omnibus copiis tam ad pugnam quam etiam ad grasciam, transivit aquam diluculo, non potens transire ex impedimento valli, miratus stupefactusque retrocessit meavitque, per ripam fluminis ascendens, deditque circuitum miliaribus decem ferme, ibique improvise pisanum exercitum invasit. Tum vero, facta resistenzia factoque ingenti Florentinorum impetu, fessi Florentini terga dederunt. Multi cadunt, multi capiuntur. Vix Malatesta cum aliquibus evasit. Omnis eorum copia militibus preda fuit. Alla fine Pisani venzero Lucca per forza de fame. Fi' allo dìe presente la tiengo. Fiorentini, vedennosi così confusi, chiamaro per capitanio de guerra e signore missore Gottifredo, conte de Brenna, duca de Atena; imperciò che era omo savio e potente, della casa de Francia. Quanno missore Gottifredo abbe recepute lettere, forte fu alegro. Sallìo a cavallo con soa iente, da cinqueciento cavalieri, con salmaria e granne arnese. Ritto per lo camino ne veo. Entra nella citate de Fiorenza e a pacifico [...] senza tumuito, de concordia dello Consiglio, recipéo la signoria perpetuale. Ora comenza a reiere lo duca. Fortemente guida. La prima cosa che fecessi fu che esso trasse de presone missore Pietro Zaccone delli Tarlati, signore de Arezzo, e sì·llo liberao de cattivitate, là dove era perpetualmente deputato. Ora vedesi le granne e ricche ambasciate che li venivano per tutta Toscana. In Arezzo mise la signoria. Abbe Pistoia, San Miniato, Vulterra e Prato. Apparecchiavase tutta Toscana avere, duca essere voleva de Toscana. Con Pisani stette queto, sì che molesta de·llà non se sentiva. Resse assai aspero e bona spene a Fiorentini daieva. Puoi che abbe receputa la signoria, liberamente significao in diverzi paesi la soa gloria. Fra li quali mannao uno vescovo de Francia a Filippo re in Parisci, sio parente. Lo vescovo disse como lo duca avea la signoria de Fiorenza. A ciò respuse lo re Filippo e disse: "Piaceme assai". Puoi domannao e disse: "Hao fatta novitate alcuna Gottifredo lo duca?" Respuse lo vescovo e disse: "Hao mutate le porte, ca hao serrate le porte vecchie e fatte le nove, e sopre le novelle porte hao fatte belle torre e aite". Disse lo re: "Di' a Gottifredo conte de Brenna che Filippo de Valosi lo prega che esso se studii de essere signore delle coraiora delle iente e non delli torri". L'aitra ambasciata fece uno cavalieri, lo quale gìo allo re Ruberto in Napoli, de chi ditto ène de sopre. Anche non era de questa vita passato. Annunziao lo cavalieri allo re la nobile signoria de sio parente, lo duca Gottifredo. Respuse lo re e disse: "Noi bene vorramo che Gottifredo da tanto fussi". Puoi domannao: "Dove posa lo duca? Posa in Santa Croce?" Respuse lo cavalieri e disse: "No. Anche posa nello bello palazzo delli Anziani". Lo re scrullao la testa e disse: "Non fao bene. Va' e dilli che repona li priori de Fiorenza in sio palazzo e in soa nobilitate. Renna la onoranza allo puopolo". Questo duca fu signore mesi dieci, puoi fu de Fiorenza detoperosamente cacciato. Le cascioni perché fu cacciato fuoro queste. In prima usava grannissima crudelitate. Senza remedio occideva la iente. Avea con seco uno officiale, lo quale se diceva conservatore, missore Guiglielmo de Ascisci. Cavalieri e iudice era. Questo missore Guiglielmo era uno roscio venenoso. Quanno manicava, faceva denanzi a sé senza misericordia martoriare le perzone e facevale smembrare e morire dello martorio. Avea uno sio figlio cavalieri, iovine de dodici anni, moito agnelica creatura, ma semplice. Quanno l'omo era posato dello martorio, questo sio figlio lo faceva sostenere e diceva: "Deh, dalli un aitro crullo per mio amore! Aizalo su!" A moiti questo fece, donne moiti ne moriero. Peio era lo patre che Dionisi tiranno de Cecilia. Ora procede lo crudele conservatore e taglia teste, appenne, occide senza misericordia. E che più, li buoni populari de Fiorenza vestuti con vari e con panni onorati appiccava denanti alle loro case. Appiccao Nardo de Cenne vascellaro, lo quale fu delli più avanzarani populari de Fiorenza per soa ricchezza; ad onne tratto prestava allo Communo ciento milia fiorini. Moiti fuoro li aitri. Puoi questo signore usava moita avarizia. Onne moneta de iente struieva e consumava onne perzona. Tutta la moneta traieva de mano alli mercatanti. Aveva con seco uno pessimo e crudele omo, fiorentino de nativitate; ma era stato anticamente cacciato perpetuale per le soie faizitate e inganni. Questo fu ià sio compagnone in arme, in viaii. Avealo redutto in stato, in grazia soa e de Fiorentini. Sere Errigo Fegi avea nome. Questo sere Errigo Fegi era sopre la gabella e era tanto sottile spirito in trovare moneta, che là donne esso traieva lo fiorino aitri non poteva traiere lo vaco dello miglio. Tutta dìe devisava gabelle. Mai non vedesti sì diabolico spirito. Più era questo sottile nella gabella che non fu Aristotile nella filosofia. Per la cui introduzzione onne guadagno, onne capitagna entrava in Communo. Per questo li mercatanti se reputavano deserti. Puoi questo duca usava moita lentezza in fatti de Fiorentini. Sopre Pisa non faceva cosa nulla de novitate. Lassao perdere Lucca e l'onore de Fiorenza non recuperava. Li staii, li quali teneva missore Mastino per la compara de Lucca, non recoglieva, anche li lassava stare senza menzione. Suoi sollati facevano li moiti deviti per Fiorenza, non pacavano. Esso ne mannava tutta la moneta in sio paiese. Treciento milia fiorini ne fuoro tratti, li quali fuoro per mare derobati a Monaco, lo forte castiello fra Genova e Marzilia. Puoi se apparecchiava a fare uno nobile castiello. Forte faceva murare drento dalla citate. Lo palazzo delli priori voleva comprennere. Queste connizioni consideranno li citatini de Fiorenza forte se duoglio della signoria. Secretamente cercano via de darela per terra. Male se pò per la granne forestaria la quale avea. Lo primo che questa coniurazione fece sentire fu uno corazzaro, lo quale gìo allo duca, como cenava, e disse: "Voi devete essere muorto". Lo duca: "Da chi?" "Dallo puopolo". "Quanno?" "Lo dìe de santo Iacovo". "In que muodo?" "Quanno cavalcarete per la terra, verrao uno currieri contrafatto e porierao a voi lettere. Mentre che le leierete, verrao uno e stennerao sio arco turchesco e percoteraote de una frezza. Dallo lato starrao uno con uno spontone. Dallo aitro verrao uno con uno stuocco. Puoi se gridarao:"Puopolo, puopolo!"". Disse lo duca: "Questo da chi sai?" Disse lo corazzaro: "Da mea mogliera". La moglie lo sapeva da una femina de preite. La femina dello preite venne e·llo preite e stette presente lo corazzaro. No·llillo sappe provare. Lo corazzaro fu tenagliato per Fiorenza con tenaglie refocate. Puoi, po' esso, veniva lo preite a cavallo in una mula con chierica rasa, con corona de oliva in capo, con guanti de camoscio in mano. Vaco sonanno tromme e trommette. Lo corazzaro fu per la canna appeso. Onne iente temeva de tale ioco. La prima festa che venne, armao tutta soa forestaria e in mieso de doi suoi nepoti a bello galoppo tutta Fiorenza curze. Denanti a sé menava li nuobili de Fiorenza desarmati. Ora cresce l'opera dello castiello. Uno sabato, da vespero, currevano anni Domini MCCCXLII[I], appresso dello palazzo de priori fu fatta una meschia. Subitamente voce veo: "A l'arme, a l'arme! Puopolo, puopolo!" Tutto lo puopolo de Fiorenza fu armato. Fuoro alle mano lo puopolo colli sollati. Li sollati fuoro perdienti. Lassano li cavalli nello piazzale dello palazzo delli priori e per le valestra tutti ne entraro lo palazzo. Quattordici centinara de perzone se renchiusero in quello bello palazzo. Allo torno le strade fuoro sbancate de banche de macellari. La notte lo primo che·nne escìo de palazzo fu uno iudice sommoniaco - missore Simone de Norcia avea nome - solo, armato de tutte arme. Sentuto che fu dalle guardie, non li vaize sio defennere, fu occiso. Doiciento fiorini avea seco. Fu partuto in quattro parte. Ad onne Anziano ne fu presentata una parte. Erano fatti quattro Anziani populari, li quali fussino sopre tutte cose. Fatto dìe, lo puopolo commatte lo palazzo. Iettano fuoco alla porta. Non vaize loro reparo, né con acqua né con aitro argumento. Tutta la porta fiariava e fu consumata. Alquanti dìe se tenne lo duca renchiuso con soa iente in quello palazzo. Alla fine lo fetore dello sterco e della orina granne era. Meglio veniva de morire che morire de fetore. Non potevano campare. Granne mormorazione faco li sollati allo duca. In questo se tratta patti. Lo puopolo stao fore allo palazzo, armato; crudamente grida. Puoi chiamano che volevano lo conservatore in mano, lo crudele missore Guiglielmo de Ascisci. Ciò vedenno lo duca, che per aitra via non poteva campare, commannao che missore Guiglielmo essissi fòra. Poni cura que fece lo crudele patre per volere campare. Voize che sio figlio issi denanzi da esso per mitigare, muorto lo figlio, la ira dello puopolo sopre de si. Quanno lo iovinetto figlio patris precepto vao denanti, appriesso della porta, como l'aino allo maciello, bene conosce soa morte, bene conosce la poca pietate dello patre. Volve la testa e dice: "Ahi patre, dove me manni?" Dice lo patre: "Va' securamente". Como fu alla porta, fu receputo dallo irato puopolo nelle ponte delle spade. Uno preite fu lo primo che·lli smembrao lo vraccio colla spalla e disse: "Ecco la mea parte. Io non voglio più messa cantare". Sacci ca questo iovinetto despiacere allo preite fece. Tal taglia, tal mozza. Milli vocconi ne fuoro fatti. Po' lo figlio veo lo patre moito onoratamente vestuto con vari. Uno calice d'ariento avea 'naorato in mano colla ostia. Male volentieri veniva; ma quelli de drento lo premevano, quelli de fòra lo tiravano. Così lo tagliano como foglia menutelle. La carne soa e dello figlio fu portata per Fiorenza e fu vennuta a peso e fu arrostita; e fu chi ne manicao. Sacci ca forte aveano patiti questi, quanno recipeano cutale mesure. Allo duca non fu fatto male nella perzona, ca·llo conte Simone de Casentino collo Communo de Siena trattao li patti e sì·llo trasse, salva la perzona, de sio palazzo de notte con da cinquanta perzone. Questo fu lo dìe de santa Anna. Puoi lo menao in sio contado e sì·lli fece renunzare la signoria de Fiorenza. Allora cavalcao lo duca e venne a Bologna poveramente, tutto derobato. Da Bologna se partìo e gìone in sio paiese. Granne detoperio abbe, granne abbe danno. Più de CCCC perzone de suoi sollati ce fuoro morte e derobate. Missore Ianni de Braio e missore Caucassaso, doi suoi granni baroni e parienti, fuoro a fierro muorti. Missore Ceretieri delli Visdomini, sio consiglieri, fugìo e aizao la più corta. Sere Errigo Fegi, lo sottile gabellieri, fu preso in abito de frate bianco umiliato e sì fu spogliato nudo. Era grasso e gruosso più che uno terribile puorco. Fu sparato e fu appeso per li piedi. Granne destrazio li zitielli facevano de lui, iettavanolli prete e loto e percoteanollo con bastoni. Fiorenza fu retornata a puopolo, lo stato pacifico e communo. Lo duca ne gìo in Francia, in sio paiese. Alla fine morìo nella vattaglia la quale fu fatta fra lo re de Francia e·llo re de Egnilterra; nello quale stormo Iuvanni re de Francia fu presone, como se dicerao. Currevano anni Domini MCCC[...] Questo duca de Atena fu occiso in quella vattaglia. Tal fine abbe lo duca de Atena signore de Fiorenza.

Cap. XIII

Della crociata la quale fu fatta in Turchia alle Esmirre.

Quanno fu fatta la crociata sopre la Turchia ad uno luoco oitra mare lo quale se dice Esmirre, la quale crociata commosse tutta Cristianitate, la novella fu per questa via. Sapemo che la terra abitabile se divide in tre parte: Asia, Africa e Europa. Queste tre parti della terra divide lo mare, lo quale iace in mieso, a muodo de una mesa croce. In questa Asia ène una provincia piccola e moito bella e opulenta infra le aitre, la quale hao nome Turchia; que Turchia ène la prima delle aitre provincie de Asia e ène confinata con noi. Hao sette citati. La prima hao nome Esmirre. Questa stao canto mare nella ponta della terra e ène citate destrutta nella piana e ènese redutta nello monte, da longa dalla veglia citate miglia cinque. La secunna hao nome Aito Luoco, là dove stao la tomma dello biato santo Ianni vagnelista, là dove santo Ianni scrisse la Pocalissi. E veo tanto a dicere Aito Luoco quanto che aito favellare, ché santo Ianni aitamente parlao in soie profezie. La terza citate hao nome Pergamo, dove nato fu lo soprano miedico Galieno. La quarta hao nome Efeso. La quinta hao nome Filadelfia. La sesta hao nome Frigia. La settima hao nome Pamfilia. Queste sette citate fuoro de Cristiani e fuoro fatte bone vescovata ordinate per lo biato santo Ianni vagnelista. Ma allo dìe de oie per li peccati nuostri so' de infideli le sei. La settima, cioè Filadelfia, ène de Cristiani. Ène spartuta un poco dalle aitre per uno vraccio de mare. Serve a Cristo glorioso. Nella contrada de Romania era uno imperatore de Constantinopoli lo quale avea nome Parialoco. Sio figlio avea nome Catacucino. Questo Parialoco avea moito granne fede a uno Cristiano lo quale avea nome missore Martino Zaccaria de Genova, lo quale era nobile e valente mastro de guerra. Fecelo sio armiraglio de mare. Tutta la contrada dello mare guardiava in servizio de Parialoco. Granne onore renne a sio signore. Navi e iente avea a sio piacere. Puoi questo Parialoco donao a missore Martino per soa spenzaria una isola moito bella e nobile, de granne frutto, cioène l'isola de Chio. De quella isola veo la mastice, quanta ne ène. Là cresco li arbori delle lacrime, delli quali la mastice se fao. Granne era la baronia de missore Martino. Là demora con soa famiglia e masnata granne e manente. Accadde che Turchi tuolzero a Genovesi una terra canto mare, la quale se dice Fogliara Vecchia. Puoi li toizero Metellina, la quale stao dalli confini de Atena in Grecia, dove fu lo Studio. Puoi li assediaro per mare e per terra la citate de Pera. Per onne via la volevano. No·lli poteva campare. Missore Martino, consideranno l'onta de suoi citadini, anche lo danno, più no·llo poteva patere. Armao soie galee con suoi valestrieri e bella oste e destra iovinaglia. Vao per mare, e infoderao Pera, e leva dell'oste Turchi, e moito danno li fece. Puoi vetao che nullo mercatante turco usassi in sio terreno, nella isola de Chio. Nella ponta della provincia de Turchia signoriavano tre grannissimi baroni. Frati carnali erano. Lo primo avea nome Morbasciano, lo secunno avea nome Cherubino, lo terzo avea nome Orcano. Questi signoriavano la citate delle Esmirre e Aito Luoco e moite terre. Questo Morbasciano faceva cogliere lo passaio e la gabella delle mercatantie le quale passavano per mare canto sio terreno. E coglievase lo passaio in quella ponta dove oie Veneziani haco edificata la citate delle Esmirre, nella pianura canto mare dove fu la citate antica. Questi passaieri e gabellieri non reguardavano alcuno, spezialmente li mercatanti de Venezia. Quanto volevano aizare lo pedag[g]io, tanto lo aizavano. Onne Veneziano se reputava sforzato per questi passaieri. Non valeva rechiamo che facessino a Morbasciano. Accadde che in quella [...] Veneziani. Stava l'oste sopra Negroponte. Intorno intorno guastava lo paiese, olive, vigne, arbori fruttevili; serrano le strade. Per la moita iente Negroponte affamava. Era in Negroponte lo patriarca de Ierusalem - don Manuello Camorsino avea nome -, veneziano, frate de santo Francesco, omo mannifico, de granne senno e onesta vita. Forte se vergognava essere assediato con tanta bona iente. Non sao qual via prenna per campare. Po' alcuno tiempo, non troppo, viddero navi che apparevano per mare. Dodici fuoro le galee, lo confallone de Santo Marco de Venezia. Missore Pietro Zeno, lo vittorioso e franco capitanio, era loro connuttore. Quanno questi Turchi sentiero l'armata de Veneziani che·sse accostava, levarose de campo e tornaro a reto alle loro citate. La prima cosa forniero fortemente la ponta delle Esmirre, che là non potessino Veneziani allo puorto fare capo. Levata l'oste de campo, esse fòra de Negroponte don Manuello, lo patriarca, con cavalieri e pedoni, con vettuaglia de biscuotto e fava, carne secca e vino. Sequita li Turchi. Entra in mare. Conubbe che·lla ponta delle Esmirre era guarnita. Non ce poteva arrivare. Allora con tutta soa iente se posao dodici miglia da longa ad una isola che stao in mare, la quale se dice isola de Cervia. Là se posao. Tre dìe stette con non poca suspizione. Po·lli tre dìe galee de Veneziani e de Genovesi ionzero. Allora fecero una moito bella ordinanza de galee e vaco inver' le Esmirre per averle. Lo puorto non potevano entrare. Lo luoco era forte. Le valestra e·lle frecce iettavano. Non era via de entrare. Allora de queste galee se partiro alquante e esfilatose luongo luongo canto mare a mano manca ivano queste galee caricate de tavole e portavano castella de lename [...] patriarca abbe sio consiglio. Non demorao niente. Non voize avere speranza in solo lo finire per mare. Fece fare intorno a questo luoco uno cegnimento de muro de preta. Onne perzona mura caice, terra, prete della ruvina delle antique case, puro che vista aia de muro. Lo patriarca con uno nobile cavalieri francesco, nome Fiore de Belgioia, pusero li fonnamenti con loro mano. Fecero allo murato solo una porta inver' la Turchia. Guardava invierzo lo mare. Non avea muro. E cuoizero tanto terreno quanto fussi una piccola citatella. Là allocaro la iente. Vedesi capanne fare, la piazza, lo mercatale, lo cagno della moneta. Tal fao vidanna, tal venne, tal compara. Anche renchiusero drento acqua doice, viva fontana. Puoi fu fatto intorno a questo murato, per più fortezze, una fossa moito esmesuratamente larga, sì che, quanno era bisuogno, metteva lo mare intorno allo luoco. Se alcuna nave veniva per mare con grascia, secura non veniva, perché curzali de Turchi anche giravano lo mare. Moito danno facevano. Puoi che saputo fu che·llo luoco delle Esmirre era fonnato, allora la grascia veo dalle avitazioni intorno. Viengo con fodero quelli de Modone, quelli de Corone, quelli de Patrasso, quelli de Malvasia, quelli de Fogliara e quelli de Filadelfia. Quanno Morbasciano abbe saputo che·lla ponta delle Esmirre aveano venta Veneziani, mannao soie ambasciate per tutta Turchia. Tutta Turchia curre allo reparo. La adunanza se fao de Turchi alle fortezze della montagna invierzo Aito Luoco. Più 'nanti non viengo, salvo non fussi per badalucco fare. Ora vedesi onne dìe currerie fare. Curro Cristiani, predano, robbano. Curro Turchi, lo simile faco. Imbuscanose, fiero de sùbito furiosamente, fugo voitannose. Granne danno faco. Moito bene li vedeva omo descegnere e sallire per la montagna l'uno po' l'aitro a filo a filo. Avevano loro ronzini piccoli, moito currienti, piccole teste, ferrati delli piedi denanti, dereto desferrati. Così currevano. Parevano daini alesantrini. La maiure parte de questi Turchi portavano, loro usanza, vestimenta bianche de panno de lino, larghe le maniche e longhe, corte a mesa gamma. Nulla defferenzia ène dalle cotte delli chierici. In capo capielli bianchi collo pizzo luongo a muodo dello cuollo de cicogna. Varve avevano foite e luonghi capelli. In vraccio una rotella lavorata atorno a muodo de uno grannissimo taglieri, ingessata. Questi soco loro pavesi. Da lato portavano spade turchesche moito fornite; e non haco ponta e soco alcuna cosa piecate dallo lommo, lo pietto tagliente. Anche gran parte de loro portava lance con uno fierro pulitissimo, moito fortemente lato; alcuno era 'naorato. Da lato portavano arcora e turcassi con frezze. Deh, quanto granne male con loro frezzate facevano! De quelle frezze era alcuna nella quale stava avvolto uno filo d'aoro; ché la freccia dignitate avea. Anche ce erano fra essi moiti armati con iubbe doppie de panno incerato, larghe, lavorate con belli lavorieri, coperte de sannati e de ballacchini. Ora se comenza la dura e aspera guerra per terra e per mare. Entra in mare missore Pietro Zeno de Venezia e vao attornianno tutta la Turchia. Arde le terre canto mare. Là dove sio stuolo se posa non hao reparo. Puoi li venne alle mano una bella caienza e nova pescascione. Cinque legni de Turchia currevano la marina e menavano Griechi e Greche, li quali avevano presi con loro bieni, pecora, vestiame e aitro arnese. Questi Griechi erano delle ville canto la marina. Erano presi da Turchi e derobati. Loro ville erano arze. Quanno missore Pietro vidde questi legni da longa, conubbe la soa ventura. Aiza le vele de soie galee allo viento. Così le ionze como fao lo sparvieri la quaglia. E conoscenno che preda portavano disse: "E pateremo tanto detoperio?" Dodici galee avea. Ferivano soie galee dalla proda nello ventre delli legni de Turchi e affonnavanolli in mare. Erano quelli legni non granni. Tre ne fuoro affonnati in pelago con ciò che drento era. Non ne campao anima vivente. Li doi legni fuoro intorniati e presi. Nell'uno stava lo ameli dello mare, che veo a dicere mastro e signore. Avea nome Mostafà. Queste doi non fuoro sfonnate, perché non fecero alcuna resistenzia. Parze meglio servareli vivi. Quanno se traievano li Turchi delli loro legni, ad uno ad uno se legavano in canna con una corda. Onneuno incrocicchiava le mano allo pietto e inchinavanose, como fecessino reverenzia, e dicevano: "Ano stavròs, stavròs"; quasi veo a dicere: "Perdonetece, ca volemo la croce e essere cristiani". Ora ne torna lo franco guerriero, missore Pietro Zeno, con questa caccia alle Esmirre. Mentre questo Mostafà stava in presone, una lettera in soa lengua li venne da una soa donna. Drento nella lettera era uno cierro de capelli moito bionni. Puoi cavalcava missore Pietro Zeno per terra e fao granne danno. Vao pericolanno tutte quelle locora de Turchi, quelle castellanze. Li fao troppo granne paura. Quanno missore Pietro Zeno cavalca per terra, missore Martino Zaccaria guerrea per mare e quanno l'uno per mare, l'aitro per terra, tempestano e pericolano Turchia. Non li puoto resistere le fortezze de sopre ad Aito Luoco. Se apparecchiano de resistere Turchi. Missore Pietro Zeno de Venezia e missore Martino Zaccaria de Genova erano doi franchi capitanii, sufficienti ad onne fatto, luonghi como doi aste, macri e bruni, bene armati ed assettati. Defetto infra li Cristiani fu che non aveano iente da cavallo. Poca iente da cavallo con essi era. Erance lo sufficiente conestavile todesco, de chi de sopra ditto ène, lo Malerva, lo quale po' la sconfitta de Parabianco nelli campi de Milano per voto era venuto a servire con vinticinque cavalieri a soie spese uno anno. Erance missore Nolfo, lo nepote dello re de Cipri, con cinquanta uomini da cavallo, tutti cavalieri a speroni d'aoro, perzone de gran fatto. Erance lo patriarca, missore Manuello Camorsino de Venezia, frate minore. Erance uno nobilissimo barone de Francia: Fiore de Belgioia avea nome. Questo Fiore de Belgioia se trovao a fonnare le mura collo patriarca, como ditto ène. Pedoni ce erano da quinnici milia, non armati così sufficientemente como se deo; perché la cosa non era penzata, e in longa contrada. Era dello mese de iennaro, anno Domini MCCCXLV, in dìe della festivitate de santo Antonio. Sentìo lo patriarca che la iente de Turchi era moitiplicata in tanto che credeva essere assaitato drento dallo sio redutto. De ciò abbe ferma fede. Auto consiglio colli maiuri della Cristianitate, cioène missore Pietro Zeno, missore Martino Zaccaria, Fiore de Belgioia de Francia, missore Nolfo de Cipri, Malerva conestavile lo Alemanno, fu deliverato de non mostrarese timorosi, anche fare resistenzia a muodo de uomini costanti. Era una chiesia antiquissima, la quale hao nome Santo Ianni. Dicesi che·llo biato santo Ianni la edificao. Questa chiesia fu lo vescovato de quella terra 'nanti che fussi destrutta la citate, mentre che se avitava da Cristiani. Po' la destruzzione era remasa campestre. Questa chiesia era da doi valestrate longa dallo muro noviello. Non era coita drento dallo cegnimento. In questa chiesia entrao lo patriarca colli sopraditti baroni in numero de quaranta. Moito rengraziano Dio de tanto beneficio, ché haco recuperata la chiesia de Cristiani, la quale era perduta. Ammirano le mura, la treuna, la aitezza e benedico Dio e santo Ianni, ché soa chiesia haco recuperata. Puoi là fu celebrata la messa con grannissima solennitate. Con lacrime, devozione e alegrezze pregano Dio che così succeda in tutta Turchia. In doi muodi rasciona la iente de questa novitate. Alcuno dice: mentre che lo patriarca colli quaranta sopraditti cantava la messa, li Turchi venivano in granne moititudine queti per la costa, nascuosti fra li arbori, e entraro nella chiesia de Santo Ianni e là, mentre la messa se cantava, presero li sopraditti quaranta e là sì·lli occisero e decapitaroli. Né succurzo non àbbero, perché·lla iente da pede era alcuna cosa lontana. Alcuno me dice per aitra via, e ène verisimile. Disse ca·llo vidde perzonalmente, e ciò fermao per sacramento. Disse questo, che nello dìe de santo Antonio de iennaro, nella chiesia de Santo Ianni fore le Esmirre, fu cantata la messa con moita solennitate. Po' la messa lo patriarca predicao moito bene e confortao li Cristiani a persequitare la iente infidele e recuperare le terre de Cristiani e liberare le chiesie sette de mano de cani. Puoi disse: "Forza che Dio me volessi visitare, sacciate che nella mea gamma ritta aio una sanice". Puoi fece la croce e deo soa benedizzione a tutto quello puopolo. Da quinnici milia Cristiani erano da pede. Po' questo se armao de tutte arme: corazze, falle e maniche, una varvuta in testa, cossali de fierro tutti lavorati. De sopre dalle arme se iettao uno ricco manto vescovile, lo quale se dice piviale, tutto lavorato a seta e aoro fino filato, adornato de perne e prete preziose, como se conveo a così aito prelato. In mano una spada nuda lucente teneva. A cavallo in uno potente destrieri ben pareva barone. Dao de speroni e vao allo martirio de buono core. Sequita po' esso missore Pietro Zeno de Venezia e missore Martino Zaccaria de Genova, armati, adornati, como puoi credere. Lo loro essire alla vattaglia fu senza provisione. La iente non era conestavilita. Bene aveano sentito lo romore delli Turchi, ma non credevano che tanto da priesso fussino li aguaiti e·lle poste fra essi. Como iessiro, non tennero la deritta via, anche dechinaro alla sinistra per la più largura. Lo puopolo buono piezzo po' essi tenne dalla parte destra. Credevanose sequitare chi non iva denanzi. Quanto più vaco meno trovano. Erano quelle locora non domestiche, anche paurose per li moiti impedimenti de mura rotte, fonnamenti de case e de torri; locora senza vie, locora da intanare iente. Quanno li tre, lo patriarca, missore Pietro Zeno, missore Martino Zaccaria, fuoro alquanto delongati, se retrovaro soli senza sequito nello laberinto delle deserte case. Là de sùbito se descopre la posta de Turchi. Senza romore fuoro intorniati. No·lli vaize scrullare loro spade, no·lli vaize loro defesa. Fuoro in terra da cavallo. Loro teste subitamente fuoro partite dallo vusto. Tre baroni recipero lo santo martirio e fuoro fatti cavalieri de Cristo. Quelli cani turchi le loro teste ne portaro. Portarone le arme loro e li belli adornamenti. Anche ne menaro li loro destrieri. Le corpora nude in terra lassaro. Ad presulem tamen plangibilior casus fuit. Nam eques insuper - Dardo nomen erat - in virum sacrum sceleratas primum manus iniecit clavaque ferrea ictus ictibus cumulans moribundum semianimemque pontificem leva tenuit arreptoque gladio caput obtruncat, nudatumque cadaver ad terram prolapsum dimisit venerabilemque calvariam ornato involvens pallio ad suos abiit. Ora esse fòra pienamente la iente. Nella escita fu saputa la morte dello patriarca e delli doi canfioni, perché fuoro trovate le corpora dalla codata dello stuolo. Granne è la tristezza, granne è lo pianto, maiure la vergogna de tornare. Ciascheuno otta de morire. Iesse fòra alli nudi campi lo adorno cavalieri francesco, Fiore de Belgioia, adorno con arme smaitate, lavorate de nobile maiesterio. Alegramente vao a prennere la corona. Iesse fore missore Nolfo, nepote dello re de Cipri, adorno como reale. Iesse fòra Malerva lo Todesco, lo buono conestavile da sessanta cavalieri. Dopo essi tutto l'aitro puopolo. Como fuoro alli discopierti campi, vedesi cavalli currere, vedesi volare de frecce, iettare de lance, ferire de spade. Moita iente de·llà e de cà cade. Non ce se trova reparo. Fiore de Belgioia non voize campare. Sperona sio destriero. Con una spada in mano defennennose muorto cadde fra quella canaglia. Missore Nolfo, nepote dello re de Cipri, fu passato da doi frezze e sì morìo. Malerva lo Todesco fu presone vivo. Vivo fu scorticato dalli cani. Moiti Cristiani moriero, moiti ne fuoro presoni, moiti ne fuoro coronati dello santo martirio. Chi fu arzo poco da longa dalle Esmirre, chi fu scorticato, chi fu decollato. Alla fine Cristiani non potevano più sostenere. Daco la voita in reto e tornano alle Esmirre, e misero lo mare intorno alle fosse e salvarose dallo furore de quelli cani li quali venivano taglianno e occidenno Cristiani e prennenno. E così abbe fine lo occidere, chiuse le porte delle Esmirre e data l'acqua intorno. Infiniti tamen ne fuoro muorti delli Turchi, presi e scorticati. Scoita bella novella! Disseme uno, lo quale tutte queste cose vidde, che moiti Turchi fuoro presi, fra li quali ne fu alcuno moito grasso. Questo così grasso scorticaro vivo e·llo cuoro lassaro cadere ioso como le brache e lassarolo. Como fu lassato, gìo umilemente. Puoi che fu nello securo (vedere bene se poteva), voizese lo Turco scorticato e con doi mano faceva le ficora alli Cristiani, sì rotonne che bastara che fossi stato de agosto. Ora se chiudo Cristiani nelle Esmirre. Non haco caporale. Vao la novella alla citate de Venezia, vao in corte de Roma, vao per tutta Cristianitate, vao denanti allo papa e alli cardinali. Forte se dole la corte della acerva morte dello patriarca, della rotta de Cristiani. Uno granne Consiglio fu fatto in Venezia fra li maiurienti e·llo duce. Fu deliverato che tutta loro potenzia ponessino in vennicare l'onta de loro citatino, anche per vencere la pontaglia e tenere le Esmirre a mano potente. Questo fare non se poteva senza vraccio papale. L'ambasciata de Veneziani fu denanti allo papa in Avignone e domannaoli umilemente la crociata sopra Turchi. Papa Chimento recipéo graziosamente questi ambasciatori e offerze soa voluntate bona. Allora vao la voce per tutta Cristianitate della crociata fare: remissione de pena e de colpa a chi serviva, chi se moriva deritto ne iva alli piedi de Dio non piecanno né da lato manco né da lato ritto. Predicata non fu questa crociata per li puosti dalla Chiesia, né servato l'ordine lo quale se devea servare, se non che sola tanto la voce mosse la iente. Granne commozione fu fatta. Ora se apparecchia la moita iente a volere morire per Dio: uomini, femine, frati, prieiti. Tal venne possessione, tale arnese. Movese chi hao la moneta; chi non, la vao cercanno. Tale vao mennicanno per Dio per poterse connucere alla frontaglia. Nella Cristianitate non fu citate, non fu castiello, non communanza che non ne venissi la moita iente. De tale citate doiciento, de tale treciento, de tale cinqueciento, de tale milli. Considera quanta moititudine fu! Anche se vestivano cutale camise bianche. De sopre aveano croci rosce de panno roscio. Moito stavano conti per le piazze con così fatto vestimento. Tutte le strade vedevi renovare de così fatta iente. Caminante onne perzona arriva ad Ancona. Là entra in mare e passa alle Esmirre. Anche servavano aitra connizione, che li odiosi rennevano ferma pace, puoi se vestivano lo sopraditto abito. Quanno papa Chimento vidde tanta commozione e che retenere non se poteva, parzeli meglio dare a tanta moititudine capo, ca senza capo tanto puopolo bene non stava. Commannao a missore Guido, dalfino de Vienna, che questo peso portassi. Obedìo lo dalfino allo santo patre. Prenne lo confallone della croce e con soa cavallaria passa la Provenza. Veo in Italia. Arriva ad Ancona, da Ancona a Negroponte. Per lo camino soa moglie, la soa donna, morìo. Intanto alle Esmirre iogne lo granne puopolo. Tutto dìe le nave de Veneziani questa iente portavano. Quanta moneta guadagnavano quelle navi! Quanto scorticavano! De uno vile bagattino non facevano cortesia. Viengo quelli de Modone, quelli de Corone, quelli de Fogliara, quelli de Patrasso, quelli de Malvasia. Veo la bella e onorata iente de Filadelfia bene a cavallo, bene armata. In questo mieso moiti badalucchi fuoro fatti per la libertate dello ire, non senza danno. Piacque intanto a Veneziani de fare alcuna triegua fine che lo dalfino venuto fussi. La ambasciata ne gìo ad Aito Luoco da parte de Veneziani per la triegua. Demannavano le Esmirre interamente. Quanno la ambasciata fu ionta, Morbasciano iaceva in terra appoiato sopra lo sinistro vraccio e sì pranzava. Grasso era tanto esmesuratamente che pareva votticiello lo sio ventre; vestuto de bisso moito nobilemente lavorato a seta. Denanti li venivano scudella de preta storiate, lucente, piene de vidanna con zuccaro, latte de miennole, ova e spezie e risi. E sì teneva in mano uno cucchiaro d'aoro e fortemente devorava. Odita che abbe la ambasciata, non se levao suso da sio pranzo, ma fra l'aitre paravole disse: "Noi sapemo bene che per certo lo dalfino sopra noi veo. Mentre che durano doi nuostri prosperosi amici, li quali demorano fra la iente cristiana, noi non dubitamo". Dissero li ambasciatori: "Quali soco questi vuostri amici?" Respuse Morbasciano, né per interprete, anche in lengua latina, e disse: "Soco Guelfo e Gebellino". Intanto ionze lo dalfino de Vienna nelle Esmirre. Trenta cavalieri avea, non più. De colpo, como ionze, così fece enzerrare le porte e teneva la iente a freno; no·lli lassava avere libertate dello iessire. Presure currerie fuoro fatte. Moiti Turchi fuoro presi. La iente ne venne moita de Roma, della Alamagna, de Francia, de Piccardia. Non ce remase citate. Deciotto [...] durao questo assedio e questa pontaglia. Quinnici milia Cristiani ve·sse retrovaro ad uno ponto. Po' questo comenzao la cosa a dechinare. Lo callo era granne, la polvere sì granne che fi' a mesa gamma l'omo se ficcava nella polvere. La iente infermava forte, morivane como le pecora. La carestia ce era granne. Lo mastro dello spidale de Rodi vetava che·lle navi de Veneziani non venissino, anche mannava lo fodero e·lle arme alli Turchi. Donne la iente se turbava. Gran parte se mette in mare e torna. Gran parte ne veo. Poca iente remaneva. Quanno la iente se partiva, tutta la moneta che avevano li era toita per le guardie de Veneziani. Forte erano cercati. Lo dalfino fonnao aitre mura più larghe con torri e con porte e fossati de bona e ferma preta. Là Veneziani pusero loro guardiani, e fine allo dìe de oie là tiengo quella terra. Fatte queste nove e secure mura, lo dalfino non abbe più luoco. Partìose dalle Esmirre e tornao in sio paiese. Aitra cosa nulla de novitate fatta per esso non fu. Questo cutale fine abbe la cruciata alle Esmirre.

Cap. XIIII

Della sconfitta de Francia, là dove morze lo re de Boemia e·lo re de Francia fu sconfitto dallo re de Egnilterra.

Currevano anni Domini MCCC[...] quanno fu fatta la orribile sconfitta in Francia, da priesso a Parisci a otto leuce, allo monte de Carsis, e fu sconfitto Filippo de Valosi re de Francia e fu vincitore Adoardo re de Egnilterra. La quale novitate fu per questa via. La cascione della guerra fra lo re de Francia e·llo re de Egnilterra fu questa e aitra non. Fu uno re de Francia moito sapio e buono e iusto lo quale abbe nome Filippo lo buono. Questo Filippo veramente abbe lo seno della croce nella spalla ritta. Anche iocava collo lione sì domesticamente como alcuno iocara con uno cacciulino. Questo re Filippo in soa veteranezze non se trovao erede maschio. Sola una figlia avea, la quale deo per mogliera ad Adoardo re de Egnilterra. La reina Isabella era chiamata. Quanno questo re Filippo venne a morte, non avenno figlio, non voize lassare sio reame senza governatore. Era in Francia uno nobile conte, lo quale avea nome Filippo, de Valosi conte. Questo era sio parente, non perciò della vera linea. Anche era lo più savio, saputo, scaitrito de senno de tutta Francia. Anche era prode, ca era stato allo suollo in Lommardia. Lassao lo re questo conte de Valosi sio fattore e despenzatore de tutto lo reame. Onne cosa li commise in mano. E così morìo e passao de questa vita. Remase Filippo de Valosi. Comenzao a reiere lo reame bene e saviamente. E vedenno che non avea contrario, vedenno che dello re non era figlio maschio, compusese colli baroni dello reame, compusese collo papa e sì se fece incoronare. Fu onto e sacrato in Ruen e sio figlio Ianni fu duca de Normannia. Da puoi che Adoardo re de Egnilterra sappe che Filippo avea presa la corona de Francia, iurao per la maiestate de sio renno mai non dare posa a Franceschi fi' che non racquistava lo reame lo quale decadeva a soa matre. Poco li valeva l'ambasciate, poco li valeva losenghe, poco li valeva papa con soa corte. Allora mosse sio stuolo, sia granne oste, descenne per Egnilterra e con sio navilio regale passa lo mare e venne in terra ferma, nello terreno de Francia. Lo numero de soa iente fu diciotto milia uomini da cavallo, non più, trenta milia arcieri da pede, considerati famigli, fanti, cuochi e tutta iente. Ène usanza de Englesi che onne famiglio della casa hao un arco. Quanno lassa sio offizio, usa l'arco e stao per arcieri. Là fu lo re Adoardo. Là fu sio figlio Adoardetto, prence de Gales. Là fu la reina, conti, cavalieri e baroni assai. Carrette aveano da tre milia, piene de ciò che faceva mestieri a l'oste. Puoi che li Englesi àbbero passato lo mare, posati in terra ferma, la prima cosa notabile che lo re Adoardo facessi fu che tutto sio navilio fece tornare in Egnilterra. De ciò dubitao soa iente e dimannao: "Questo perché?" Respuse lo re e disse: "Io non voglio che aiate speranza nello tornare. Siate prodi". Puoi assediao una forte terra la quale era capo de quelli paiesi - Salluppo avea nome - e sì·lla prese per forza e tennela per si. Puoi se ne venne descennenno per la costa de Normannia, canto la marina. Terreno curze da più de doiciento miglia e veo ardenno e refocanno ville e castella, predanno e occidenno. Non trova reparo. Da longa mustra allo re Filippo lo granne danno che faceva. Moita iente prenneva e derobava. Dao per terra fortezze e torri, chi ad esso contrastava. Puoi scrisse allo re Filippo che·llo aspettassi e che voleva essere con esso a campo alla vattaglia, de ciò domannassi lo termine. Lo re Filippo domannao termine dìe quinnici, non più, quanto esso mannassi per sio figlio Ianni. Ianni duca de Normannia stava in Vascogna ad oste sopra un castiello lo quale hao nome Arpiglione. Là, sopra uno fiume, stava soa potentissima oste. Trabacche e paviglioni e onne guarnimento abannonao in campo, da puoi che abbe inteso lo commannamento de sio patre. Nulla demoranza fece. Mossese con soa granne iente. Solamente ne portao l'arme e·lli cavalli. Forte cavalca dìe quinnici. Non vaize sio forte cavalcare, ca, quanno ionze, erano passati dìe trenta, la baratta era fornita. Non potéo a sio patre dare succurzo. Non potéo essere alla sembiaglia. Ora tornemo alla materia. Lo re Filippo, avenno promesso de essere allo campo, ben sapeva che suoi baroni non li erano leali. Ben sapeva che soa baronia avea tratti li Englesi e allocatili in mieso de Francia. Troppo se dole che vede suoi nimici liberamente vagare per tutta la Francia, senza reparo. Puro se fornisce de iente assai e bona. Abbe da ciento milia cavalieri. Abbe da dodici milia pedoni. Abbe lo re de Boemia - Ianni abbe nome - con milli Todeschi. Questo re Ianni se delettava de ire a suollo. Anche abbe lo re de Maiorica - Ianni nome -, lo quale era cacciato de sio reame. Stava e prenneva suollo. Anche abbe Ludovico conte de Flandria, lo quale era cacciato de sio contado. Anche abbe missore Ottone de Oria e missore Carlo delli Grimaldi con cinque milia valestrieri genovesi. Moiti abbe conti e baroni e iente assai. Ora ne veo lo re de Egnilterra con sio sfuorzo e ionze de notte in una valle larghissima la quale stao appriesso de Parisci otto leghe. Quella valle iace fra uno castiello lo quale se dice Monte de Carsia. Da l'aitro lato stao una villa de più de quattro milia perzone la quale hao nome Albavilla. Fra queste doi terre, nelli campi piani, a pede alla costa de Carsia, allocao tutta la soa iente e puse soa oste. Quanno questa iente ionta fu e l'oste allocata, notte era e era l'ora che sonava la squilla. Li currieri che 'nanti curzero e·lli spioni, li quali se accostaro a Parisci e a San Dionisi, odiero le campane de San Dionisi de Francia e·lle campane de Santa Maria delle Sciampelle che alla squilla sonavano. Anche odiero tutti li matutini delli religiosi e delle capelle che dereto li sequitano. Quanno la novella fu saputa in Parisci che·lli Englesi aveano puosto campo, tutta iente regale prese arme. E fu tanta la moititudine, che l'armatura fu vennuta dociento fiorini. L'alba dello dìe se fece. Piacque allo re Filippo che lo re de Boemia fussi capitanio generale e iessissi fòra allo reparo; e così fu. Iesse fòra de Parisci Ianni re de Boemia, figlio de Errigo imperatore, Ianni re de Maiorica, Ludovico conte de Flandria e tutta l'aitra baronia. Nello iessire fòra li Englesi guardavano da longa per la strada ritta de Parisci, la quale stao in una adatta veduta. Guardanno li Englesi sentiero lo traiere fòra e la venuta de Franceschi allo campo. Questo conubbero allo scianniare delli elmi lucienti e delli cimieri, anche delle banniere le quale facevano alli ragi dello sole che nasceva. Allora operze la vista Adoardo e conubbe infallibilemente che vattaglia non poteva schifare. E considerata la moititudine de Franceschi, non è maraviglia che affrissese un poco. Dubitao e ruppe voce e disse: "Ahi Dio, aiutame". Puoi prestamente, fra poca de ora, fece attorniare soa oste con bone catene de fierro, con pali de fierro moito spessi, ficcati in terra. Questo attorniamento era fatto alla rotonna, a muodo de uno fierro de cavallo, da onne parte chiuso, salvo che denanti li lassao uno granne guado, a muodo de porta, per fare l'entrate e·lle iessute. Puoi ce fece carvonara cupe, là dove lo luoco era debile. Onne Englese avea opera. Puoi attorniao queste catene colle carrette le quale aveano menate. Puse l'una carretta allato a l'aitra e·lli tomoni aizao deritti in airo. Bene pareva una bona citate murata, sì staievano le carrette spesse. Puoi ordinao soa iente così. Dallo lato sinistro, nella costa de Carsì, era una montatella. Là era un poco de selvotta. Erance anco lo grano, lo quale non era metuto. Era dello mese de settiembro, a dìe tre. Per le granne freddure in quello paiese lo settiembro lo grano se matura. Là in quella selvotta e fra lo grano nascuse e allocao dieci milia arcieri de Egnilterra da pede. Puoi puse ad onne carretta un barile pieno de saiette. Ad onne barile deo doi valestrieri. Puoi puse fòra della soa oste cinqueciento cavalieri de buono appriesto. Loro capitanio fu Adoardo principe de Gales, sio figlio. Questa fu la prima vattaglia. Dereto a questi cinqueciento puse doi ale, ciascheuna de cinqueciento buoni cavalieri, l'una dallo lato ritto, l'aitra dallo lato manco. Po' questi cinqueciento ne puse milli. Questa fu la terza vattaglia. Po' questi milli reservaose con tutta l'aitra cavallaria drento da l'oste, drento dalle catene. Questo fatto, confortao li suoi e accommannaose a Dio e disse: "Ahi sir Dio, defienni e aiuta la rascione". Questa fu soa conestavilia. Questa fu soa bella ordinanza. De sabato fu, alli dìe tre de settiembro. Essìo fòra de Parisci lo re de Boemia allo campo e pusese non moito da longa dalli Englesi. Era lo re de Boemia pullino. Non vedeva bene. La prima cosa, dimannao della conestavilia dello re Adoardo. Quanno intese così fatta conestavilia, subitamente disse: "Noi simo perdienti. Englesi perdire non puoco senza nuostro granne danno". Puoi demannao que tiempo fussi. Folli respuosto e ditto che sopra li Englesi stava l'airo pulito como zaffino, sopra Franceschi stava lo tiempo atto a piovia. Allora disse: "La vattaglia non fao per noi, fao per essi". Puoi mannao la ambasciata allo re Filippo in Parisci. L'ambasciatori dissero così: "Re Filippo, quanno piaccia alla aitezza vostra, la adosa non sia; ché senza danno non è, utilitate nulla. Meglio veo che staiamo fermi alli passi. Lo re de Egnilterra partire se vorrao. Quanno se partirao, noi li serremo dereto alle spalle. Averemo de esso mercato". Lo re Filippo fu forte turvato e fra le aitre paravole disse così: "Veome voluntate de annegare nella acqua de Secana, quanno lo megliore capitanio dello munno hao paura". Que paravole li ambasciatori non celaro allo re de Boemia. Allora lo re de Boemia disse così: "Oie bene se parerao ca io non aio paura. Anche bene se parerao ca·llo commattere ène più pascia che ardire". Allora commannao che·lle vattaglie ordinate curressino. 'Nanti questo curzo (alquanto era) avea ordinate nove vattaglie. Ma le tre fuoro le famose, le più principale. La prima vattaglia fu de missore Ottone de Oria e missore Carlo delli Grimaldi, capitanii de cinque milia Genovesi, valestrieri da pede. La secunna fu lo re de Maiorica collo conte de Flandria, con tre milia cavalieri. Puoi fuoro moite particulare vattaglie. Puoi fu esso re de Boemia con milli Todeschi e quattro milia Franceschi e sio figlio Carlo appriesso. La prima vattaglia che venissi allo campo la dimane tiempori fo li valestrieri genovesi, numero de cinque milia. A questi fu commannato che montassino nella costa de Carsia per soprastare alli Englesi; ma non venne fatto, ché·lli Englesi aveano occupato lo colle e puosti li impedimenti fra lo grano. Dunqua se pusero in un aitro monticiello da longa. Puoi sopravenne una sciagura; ché non valestravano, ca non potevano caricare le valestra. Era stata una poca de pioverella. La terra era infusa, molle. Quanno volevano caricare le valestra, mettevano un pede nella staffa. Lo pede sfuiva. Non potevano ficcare lo pede in terra. Allora se levao un bisbiglio infra li Franceschi e dubitavano che·lli Genovesi fussino traditori, perché non aveano receputa la paca. Dicevano: "Questi non valestraraco e se valestraraco, iettaranno aste senza fierro. Dunqua morano Genovesi". Questo dicenno Franceschi se muossero a furore contra li loro sollati. Traievano crudamente de spade e de lance. Genovesi fuoro tutti occisi fi' ad uno. Mormoraose missore Ottone allo re della morte de soa iente, lo quale respuse e disse: "Non avemo bisuogno de pedoni. Iente avemo assai". Questa fu la prima varatta. Cinque milia Genovesi fuoro occisi ad una ora. Ora se avegìo le frontiere, le ponte delle vattaglie Ianni re de Maiorica a Adoardo duca de Gales. Nella adosa fu sì granne lo strillare, sì granne lo romore e·llo scuoppio delle aste, che parze che doi montagne se urtassino insiemmora. Tal dao, tal tolle. Sonano instrumenti, tromme, cornamuse assai. In questa vattaglia fu una tale novitate. Lo prence de Gales avea speronato lo sio cavallo moito drento dalli nimici. Solo granne danno faceva. Uno conte, lo quale se appellava lo conte Valentino, lo vidde e conubbe. Cresese forte avere guadagnato. Per gran pesce prennere l'amo iettao. Accostao sio cavallo quetamente e abracciao Adoardo prence de Gales. Puoi lo prese per le catenelle della corazza e disse: "Tu si' mio presone". Allora se ferma e fortemente lo traieva della schiera e connucevalo in soa libera balìa. Mentre che così lo conte Valentino menava lo figlio dello re de Egnilterra, sopravenne lo conte de Lancione, lo quale era frate carnale allo re Filippo, e vedenno che Adoardetto era perduto, legato como pecorella, disse queste paravole forte iratamente: "Ahi conte Valentino, como si' tu tanto ardito de menare in presone mio cusino?" E questo dicenno non aspettao resposta nulla, anche se fionga e aizao una soa mazza de fierro inaorata, la quale teneva in mano, e ferìo lo conte Valentino nella testa. E spessianno li colpi uno dopo l'aitro, lo conte Valentino perdìo vigore. Lassao lo freno e·lle catenelle de Adoardetto e muorto cadde in terra de sio cavallo. Allora Adoardetto, speronato, nimirum alegro tornao alla soa schiera, la quale ià avea comenzato ad affiaccare. Questa novitate vidde Ludovico conte de Flandria, lo quale, como ditto ène, era cacciato de sio contado, stava a suollo in Parisci per gran tiempo. Era omo veglio, perzona bona e onesta. Amava moito lo re Filippo e sio onore. Conubbe che·llo tradimento era in mieso della baronia de Francia. Più non potéo celare la soa voglia, che non dicessi lo vero. Soavemente aizao la voce e disse: "Ahi conte Lancione, questa non è leanza né bontate la quale devete servare alla corona. La guerra era venta dove l'hai fatta perduta". Quanno lo conte Lancione odìo questo, non voize odire più. Voize la testa de sio destrieri e con quella medesima mazza tanto colpiao lo conte de Flandria vecchiarello, che·llo occise. O cruda cosa, che a questo simo connutti, che per dicere lo vero e reprennere lo male fatto deggia omo perire. Non fu alcuno della compagnia dello conte de Flandria tanto ardito che ne facessi fiato. Solo uno destretto famiglio sio, domestico, omo da pede, de vile lenaio, vedenno tanta crudelitate, sguainao un sio stuocco e sì·llo impontao nello ventre allo conte Lancione e sì·llo passao oitra in parte, sì che lo conte Lancione, traditore de sio frate, là nello campo morìo. Questo famiglio, lo quale occise lo conte Lancione, gìo denanti allo re Filippo e disse ca avea muorto sio frate per vennetta de sio signore e dello tradimento lo quale esso fece, e questo provao per bona testimonianza. Questo odenno lo re Filippo li perdonao e de esso non voize vennetta. Mentre queste cose se facevano, li arcieri englesi descennevano dalla costa infra lo grano e non finavano de iettare frezze infra la cavallaria. Stienno l'arcora e saiettano:"Da, da, da". Onne iente pericolavano. Nello lato manco sfonnavano li cavalli, donne l'oste fu moito mancata. La iente feruta dao allo tornare. Li cavalli cado muorti. Li Englesi se fiongano. Quella vattaglia fu perduta. Intanto moite fuoro le vattaglie e le belle conestavilie. Que fu la più famosa? Una industria servano li Englesi da cavallo. Quanno vedevano l'omo loro muorto, in luoco dello muorto ponevano lo vivo, in luoco dello feruto remettevano lo sano, in luoco dello stanco mettevano lo fiesco. Puoi commutavano, ché·lli cinqueciento della ala ritta vennero alla fronte denanti. In luoco loro venne la mitate delli milli li quali staievano alla terza vattaglia. E quelli denanzi tornaro alli milli. E così commutavano l'ala manca. La schiera guardiadereto, la grossa regale, sempre stava ferma in sio luoco. Non se fora mossa senza granne cascione. Lo re Ianni de Maiorica in questo stormo non se morìo, ma fu feruto nella faccia. Moito crudamente esso morìo in sio paiese. Volenno tornare a sio reame, commattéo con sio cunato, lo re de Maiorica, e fu sconfitto e sì·lli fu tagliata la testa. Puoi che queste vattaglie fuoro infugate, lo re de Boemia demannao alli suoi a que partuto stava lo campo. Respuosto li fu che nello campo non era remasa perzona vivente aitra che solo esso con soa iente. Tutti Franceschi erano attriti. Li Englesi stavano fuorti e rigidi, fermi, con loro stennardo ritto levato. Allora lo re de Boemia commannao che se apparecchiassino a ferire doi grannissimi baroni, li quali erano suoi collaterali. Dissero così: "Que vòi fare tu? Tutta iente francesca ène sbarattata. Li Englesi staco fuorti. Noi non simo saiza. A tanta iente è pazzia lo ire". Respuse lo re: "Dunqua voi non site li figli de quelli doi miei amici li quali fuoro li più prodi che fussino in la Alamagna". Respusero li doi baroni: "Prodezze non bisogna, ca non simo cobelle appo·lli nimici". Respuse lo re: "Io voglio che ne iamo. Iamo a morire ad onore". Dissero li conti: "Che guadagni tu della toa morte e della nostra?" Respuse lo re: "Per bona fede, questo che dico io lo dico perché me credo pugnare per la veritate". A questo li doi baroni fuoro conventi. Como pecorella abassaro le loro voci e dissero: "Re, fa' ciò che a te piace". Allora lo re fece venire denanti a sé alquanti baroni, li quali erano li maiuri de Luzoinborgo e dello reame de Boemia, e sì·lli commannao che a sio figlio Carlo fussino obedienti como alla perzona soa e che·llo devessino onorare como re e signore. Anche li commannao che·llo salvassino fòra dello stormo. Puoi commannao alli conti, li quali erano nelle fronte denanti, che·llo mettessino tanto innanti e drento fra li Englesi, che, se fecessi mestieri, lo tornare non se potessi. Puoi incatenaose in mieso delli doi baroni sopraditti e legaro le catene delle corazze, perché fussi a loro commune una morte, uno onore. La prima schiera fu milli Todeschi de Luzoinborgo, iente da bene, Boemii e ientili uomini de Praga. Po' essi sequitavano quattro milia Franceschi, Borgognoni e Piccardi. Sio figlio Carlo se servao dereto. Allora sonaro le tromme e·lle cornamuse da parte in parte. Allora abassaro l'aste e speronaro li destrieri. Allora se fiero senza misericordia. Li Englesi servaro doi viziose industrie: la prima, che·lli cinqueciento cavalieri denanti refiescaro colli milli dereto; la secunna, ca·lle doi ale delli cinqueciento e cinqueciento fecero allargare e prennere campo a destri ed a sinistri, accostannosi alla frontiera da costa. Quanno li Todeschi se fuoro aduosso colli Englesi nelle prime frontiere, allora le ale, le quale aveano preso campo, feriero dalli lati da costa, da ciasche parte. Lo re de Boemia fu attorniato denanti, da lato e da costato. Lo cavallo dello re cadde. Lo re tramazzao e fu muorto dalli cavalli [delli] doi baroni allato ad esso. Cade in prima missore Haun dello Tornello, uno nobile cavaliero francesco lo quale portava la banniera dello re. Questo fu quasi delli primi collo re scavalcato e muorto. Li milli Todeschi non diero le spalle, anche fecero bona resistenzia, dato che non avessino né re né confallone. Moiti Englesi moriero. Alla fine la schiera dello re de Boemia fu attrita, como se trita poca saiza da granne pistello. Stava Carlo figlio dello re Ianni da longa alquanto. Quanno intese sio patre essere muorto e sconfitto, non potéo tenere le lacrime. Intanto parlao e disse: "Moramo con esso". Ià moveva soie banniere per ire. Lo sio ire era temerario, senza utile, ca·lli Englesi stavano più fuorti che mai. Ira, tristezze e furore lo menavano. Allora li suoi baroni li fuoro intorno e presero lo cavallo per lo freno e voitaro la testa inver' de Parisci e sì·llo strascinaro a malo sio talento fine in Parisci; e là se posao. Lassaose fare doice forza e fece lo meglio e mustrao lo animo de volere fare. Ora non è chi tenga campo per lo re de Francia. Lo campo remase alli Englesi. Li Englesi non se diero alla robba. Anche fecero una cosa moito notabile. Bene da tre dìe po' la sconfitta non se trassero arme da duosso, non descesero da cavallo. Non se partìo stennardo regale de campo. Non se mosse alcuno della guardia. Puoi che viddero che omo nullo contradiceva, le locora erano secure de aguaito, allora una parte ordinata se deo alla robarìa, allo arnese guadagnato, a spogliare le corpora morte. Ecco quella nobilissima sconfitta fatta in Francia alla villa de Carsia. Sessanta milia uomini muorti in campo. Moiti fuoro li presoni. Muorto lo re de Boemia, capitanio generale della oste, lo conte de Lancione de Valosi, Aloisi conte de Flandria e aitri baroni assai. Milli e cinqueciento para de speroni d'aoro se trovaro li Englesi guadagnati, senza le aitre milli e treciento banniere prese nella rotta. Li milli Todeschi ne fuoro portati in Parisci con carrette. La maiure parte dello cuorpo dello re de Boemia fu portata: gran parte ne era guasta. Queste corpora ne iessiro nude de campo a Parisci alla sepoitura. L'aitra iente non fu coita allora, anche demorao dìe quattro in piana terra, in spettaculo de onne iente. Po' questo li Englesi cuoizero lo campo e tutto loro arnese assettaro nelle carrette e, fatta ordinata compagnia, non demoraro più. Vanno e tornano a reto. Loro camino fu a Calese, lo forte castiello canto la marina, per assediarlo. Calesani stavano perfidi, fideli allo re de Francia. Pescatori soco, ca staco canto mare, mala iente, derobatori de mare. Quanta iente passava per mare de Egnilterra in Francia, tanta robavano. Allora lo re Adoardo là ne gìo e assediao quello castiello de Calese mesi tredici per mare e per terra. Per mare abbe navi che guardavano li passi, che non potessino avere né entrata né iessuta. Per terra esso sì·llo assediao. E fece uno fossato terribile da si' allo castiello. Puoi circonnao l'oste soa con un aitro fossato grannissimo e con tavole lo armao, perché nullo potessi offennere soa iente. Ora stao lo assedio. Ora ionta macine e palle de piommo su nelle porte. Tutte le infragne, tutte le scommove. Ietta prete de trabocco. Non fina notte e dìe. Ietta fuoco nella terra. Bombarde, spingarde e aitre orribile cose da pericolare lo castiello e·lli avitatori. Calesani forte se defennevano. Anche essi avevano trabocchi e tormenti da commattere in terra. Iettavano in mare, in terra, como fao la spinosa. Una piommata essìo de Calese e coize una nave granne e bona. Sfonnaola e sì·lla affonnao in mare. Ià mancata era la vivanna nello castiello e anche nello oste. Quelli non se volevano rennere. Questi non se movevano da assedio. La fame era granne. Ià Calesani aveano incomenzato a iettare li suorti che l'uno manicassi l'aitro. Nell'oste comenzava la iente povera a manicare li cavalli. Calesani, costretti per la fame, con licenzia de Adoardo mannaro lettere allo re, che succurressi. Lo re de Francia cavalcao con doiciento milia perzone. Era tornato sio figlio Ianni, duca de Normannia. Quanno l'oste dello re se approssimao a Calese, trovao l'oste dello re Adoardo forte curata sì de fossati sì de tavolati. Non pò passare, non se pò accostare per le moite frezze. Allora lo re Filippo mannao per Adoardo, che iessissi fòra allo campo, alla vattaglia. Respuse Adoardo: "Io iesseraio fòra alla mea petizione, non alla toa". Respuse lo re Filippo: "Granne vergogna ène. Io staio in campo. Tu non si' ardito iessire fore alla vattaglia". Respuse Adoardo: "Vergogna non ène, ca io non staio indarno. Lo mio stare non è senza utile. Io intenno mo' sopra Calese. Lo primo dìe che l'opera de Calese ène fornita io iesseraio fòra allo campo". Respuse lo re Filippo: "Calese te dono io. Non lassare per ciò. Da mo' sia tio". Respuse Adoardo: "Non bisogna che tu me lo doni, ca quello che io me guadagno colla spada in mano non bisogna che me sia donato". Allora lo re Filippo, non potenno passare, deo licenzia a Calesani che provedessino ad onne loro fatto e salute. Deo la voita in reto e tornao in Parisci. La fame consumava Calesani. Calesani demannaro mercede allo re de Egnilterra. Diceva lo re: "Como averaio mercede, che me haco fatto despennere tutto mio ariento?" Le porte fuoro aperte. Lo re voleva tutti Calesani occidere, ma per la pregaria instantissima della reina e de alquanti mastri in teologia lo re li perdonao. Iessiro Calesani de Calese con una gonnella per omo, aitro no. Calese con aoro, ariento, panni e animali remase alli Englesi. Quello castiello fu empito de Englesi. Bene serve alla corona de Egnilterra fi' allo dìe de mode.

Cap. XV

Dello grannissimo diluvio e piena de acqua.

Granne circuito avemo fatto, moito tiempo simo iti spierzi, moito paiese stranio avemo cercato. Cercato avemo la Lommardia e·lla Spagna, la Turchia e·lla Francia. Ora ène anche tiempo convenevile de tornare a casa. Tornemo in Italia, tornemo alle magnifiche e inaudite novitate le quali per noviello haco tutta Italia cercata. Diceremo in prima dello granne diluvio lo quale fu in Roma. Mai tanta acqua non abunnao nello Tevere. Mai non passao lo Tevere sì pessimamente suoi tiermini, mai tanto danno non fece. Currevano anni Domini MCCC[...], de pontificato de papa Chimento sesto. Nella citate de Roma crebbe lo fiume lo quale se dice Tevere, e fu per sio crescere de acqua uno diluvio mortifero e maraviglioso in tale muodo, che pochi, anche nulli, se recordassino essere stato lo simile. Tutta la state passata operze Dio le cataratte dello cielo e mannao acqua spessa e foita, non granne. Ma puoi nello autunno, recoite le uve, comenzanno dalla festa de Onniasanti, parze che·lle fontane dello abisso fussino operte per vomacare acqua. Allora comenzao lo Tevere a crescere e non descresceva niente. Innelli dìe fra Onniasanti e Natale, forza da dìe otto, durao lo crescere dell'acqua la quale terribilemente iessiva li usati tiermini dello lietto dello sio canale. Allora empìo tutta la pianura la quale iace intorno alla citate de Roma, puoi la maiure parte drento e de fore. Maraviglia ène e cosa mai non odita da Romano. Tutta la pianura de Roma nota. Soli sette cuolli se pareno non occupati dalla acqua. Questi so' li tiermini e·lli confini de tale diluvio in Roma, e dico brevemente. In prima, la piazza de Santa Maria Rotonna era tanto piena che per nulla via per essa se poteva ire, né a pede né a cavallo. Anche nella contrada de Santo Agnilo Pescivennolo venne l'acqua fi' alla contrada delli Iudiei, la quale vao alla piazza delli Iudiei da priesso a l'arco lo quale vao alla piazza delli Savielli. Anche in Colonna pervenne l'acqua fi' allo Folserace, lo quale stao a Santo Antrea de Colonna, dove stao la granne colonna. Anche porta dello Puopolo notava per tale via, che per nullo modo ad essa se poteva ire. Item lo campo dell'Austa tutto stava pieno. Item a Santo Trifo exuberao fi' allo aitare e empìo la chiesia. Anche entrao lo monistero e·lla chiesia delle monache de Santo Silviestro dello Capo. E chi voize ire alle donne, gìo colla sannolella. Item entrao lo monistero de Santo Iacovo de Settignano per la via de Tristevere in tale muodo, che tutto lo luoco e·lla chiesia notava nell'acqua, e occupao tutto lo coro collo aitare. Anche pareva a quelli che staievano nello monte de Santo Vrancazio che da pede fossi un laco terribile, in mieso dello quale pareva stare quello munistero. Anche occupao li confini e·lla chiesia de Santo Pavolo Maiure, le vigne e·lle seminata, li campi collo seminato. Anche occupao tutte le vigne nello territorio della porta de Santo Pavolo, la quale hao nome Ostiense, anche tutte le vigne in porta de Santo Pietro, brevemente onne pianura la quale iace canto lo fiume. Con ciò sia cosa che tanta abunnanzia d'acqua occupassi tutto lo spazio de Santo Spirito e·lla piazza dello Castiello e·lle case de Puortica, entrao la porta dello ponte, la quale ène de metallo, e sallìo alla porta secunna dello ponte, la quale ène de leno. Anche la onna della acqua, la quale veniva per la porta de Civita Leonina canto lo Castiello, imprimamente se commattéo coll'onna la quale veniva da Santo Spirito. Da puoi, perché pareva uno laco, lo luoco non se posseva passare se non colla sannolella. Quanno iva l'omo a ponte per la strada ritta, da casa delli Vaiani, se iva nella acqua fi' alli guazzaroni dello cavallo. Questa soperchia acqua consumao e defocao tutti li coiti e·lli seminati che trovao. E sorrenao le vigne de creta. E scarporìo li arbori da radicina. E deo per terra muri e case. Affocao vestiame. Danniao lo territorio de Roma più de dociento migliara de fiorini. Anche ruppe le catene e·lli ignegni delli mulinari e menaone da cinque bone mole, le quale connusse allo mare. Allora fuoro le mole perdute, aitre moite deslocate recuperate a granne pena. Anche per l'acqua venivano arbori, navi, mole, tavole, animali, case, le quale violentemente avea tratto lo furore della acqua. Parte de queste cose se prennevano, parte ne erano portate a mare, anche porte, banche, votti pieni de vino e vuoiti. E fu tale che prese la votte piena de vino e fu chi prese la cassa nella quale era pecunia. E fu chi vidde che per lo fiume notava una casa de leno de tavole de quelle ville, nella quale fu odito un guarzone che stava nella cola e vagiva. Queste cose, e anche innumerabile, furava lo curzo dell'acqua e menao vuovi collo arato e colla gomera. Granne tiempo piobbe. Granne tiempo lo Tevere stette enfiato. Puoi che comenzao a crescere, cinque dìe durao la piena. Fi' allo quinto dìe crebbe. Lo sesto dìe stette, non fece innanti. Lo settimo descrebbe e tornao lo fiume da puoi a sio lietto usato. Pisciainsanti, uno macellaro de Roma, aveva uno tronco de crastati in una casa canto fiume. Vedenno lo fiume crescere, cessaoli in una casa tanto da longa che li pareva impossibile che·llo fiume entrassi in quella. La notte crebbe lo fiume e stesese tanto che occupao quella casa. Pisciainsanti, quanno ìo la dimane, trovao la casa piena de acqua e·lli crastati affocati notavano. Nella citate de Fiorenza, anni Domini MCCC[...], dello mese de noviembro, alli dìe quattro, per lo granne diluvio fu poco meno sommerza la citate de Fiorenza. Lo ponte fu per terra, li forni guasti. Lì non se potéo cocere pane granne tiempo. Li pozzi se empiero de acqua. Crescente lo fiume, l'acqua crebbe. Mancanno lo fiume, l'acqua mancao.

Cap. XVI

Della galea sorrenata e derobata in piaia romana.

Currevano anni Domini MCCC[...], dello mese de [...], a dìe [...] quanno sorrenao una galea de mercatantia in piaia romana, fra Puorto e Ostia, in lo Tevere. La novella fu per questa via. Mercatanti dello renno venivano da ponente e aveano caricata in Marzilia e in Avignone una galea de panni franceschi. Lo legno era della reina Iuvanna. Lo patrone, li comiti e·lli marinari erano d'Ischia. La mercantia era de Napoletani e Ischiani. Movese la galea e forte leva in aito le vele allo viento. Passa Marzilia, passa Monaco, passa lo mare de Genova. Puoi ne passa a Pisa. Puoi ne veo a Piommino. Puoi ne veo a Civitavecchia. Passata che abbe la piaia de Civitavecchia, volevano entrare in casa. Allora se mosse una pestilenzia de viento. Lo mare bussava senza misericordia. Li vienti erano tanto contrarii, che maiesterio de marinari perdiva onne rascione. La notte era forza mesa. La oscuritate orribile. Mai non vedesti sì pena de inferno. Nullo remedio era, salvo che de tornare allo puorto de Civitavecchia. Forte e duro pareva alli marinari e alle vivate tornare in reto e tanta via perdire. Se a Civitavecchia tornavano, ponevano la nave in salvo. Fu deliverato de tenere mesa via, de canzare in piaia romana e fuire lo pericolo, recuveranno nello Tevere de Roma. Così fu fatto. Voitano li marinari suoi artificii e ignegni. Daco la voita per entrare la foce de Tevere. A quanto pericolo passao in quella entrata! Ora ne veo la galea per lo fiume, credennose essere salvi, puoi che l'ira dello mare non li appoteva, puoi che la foce era passata. Ma non gìo così. Quanno lo legno fu in mieso dello canale dello Tevere, nello luoco che iace fra Uostia e Puorto, lo legno staieva, non se moveva. Là iace uno malo passo. L'acqua hao là poco de fonno. Caddero là in quello malo passo dove ène poca de acqua. Non tennero lo pieno canale. Li usati marinari de Genova e de Cecilia quello passo schifano. Allora descesero marinari alquanti per sapere la cascione della demoranza della nave e viddero che·llo legno toccava terra; e non valeva aiutare con pali né premere con vraccia. Anche lo fiume tempestate avea. Lo legno s'era sorrenato nella rena. L'onna buttava e moveva lo legno da lato in lato. Pareva che·llo volessi revoitare sottosopra. Allora la tristezze delli marinari e dello patrone fu granne. Piango le vivate. Ciascheuno crede morire. Allora se fece dìe. Lo dìe succurze con soa chiarezza. Lo romore fu sentito allo castiello de Puorto e ad Ostia. Vennero sannolari de Puorto e portaro quelle vivate per denari in terra. Salvaro lo patrone, li marinari e·lle vivate con loro robba. La mercatantia remase nello legno. Era nello castiello de Puorto uno nobile romano: Martino de Puorto avea nome. Quello Martino abbe suoi fattori e fece tutta quella galea sgommorare e trarne la mercatantia de panni e de speziarie; li quali panni se vennéo e non ne voize rennere cobelle alli perdienti. Anche più che 'nanti sostenne de essere scommunicato, che de volere rennere l'aitruio. Assenava una soa proverbia antica: "Chi pericola in mare pericoli in terra". Per la qual cosa e per alcuno aitro excesso Martino de Puorto fu appeso per la canna, como se dicerao. In quella galea venne la moneta e·lli riennita de Provenza, la quale veniva alla reina Iuvanna de soa contrada. In quella venne panni de valore de vinti milia fiorini. In quella venne vivate de Provenzani, uomini e femine, li quali ne ivano a Napoli. In quella veniva sacca de pepe e de cennamo e de cannella. In quella venne uno feriero de Santo Ianni: avea nome frate Monreale, provenzano de Narba, cavalieri a speroni d'aoro, moito iovinetto. Arrivao con fortuna in piaia romana e perdìo là in quello pericolo onne sio arnese, fi' alla scarzella delli fiorini. Sola la perzona campao. Lo quale entrao in terra romana moito de tenerissima etate, e fu omo de masnata e deventao virtuosissimo capitanio e fecese omo de granne fatto e de granne valore e fu capo della Granne Compagnia. A l'uitimo li fu tagliata la testa in Roma, como se dicerao.

Cap. XVII

De Leonardo de Orvieto tenagliato per Roma. ] [...] ..................

Cap. XVIII

Delli granni fatti li quali fece Cola de Rienzi, lo quale fu tribuno de Roma augusto.

Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare. Fu nato nello rione della Regola. Sio avitazio fu canto fiume, fra li mulinari, nella strada che vao alla Regola, dereto a Santo Tomao, sotto lo tempio delli Iudei. Fu da soa ioventutine nutricato de latte de eloquenzia, buono gramatico, megliore rettorico, autorista buono. Deh, como e quanto era veloce leitore! Moito usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Moito li delettava le magnificenzie de Iulio Cesari raccontare. Tutta dìe se speculava nelli intagli de marmo li quali iaccio intorno a Roma. Non era aitri che esso, che sapessi leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava. Queste figure de marmo iustamente interpretava. Deh, como spesso diceva: "Dove soco questi buoni Romani? Dove ène loro summa iustizia? Pòterame trovare in tiempo che questi fussino!" Era bello omo e in soa vocca sempre riso appareva in qualche muodo fantastico. Questo fu notaro. Accadde che un sio frate fu occiso e non fu fatta vennetta de sia morte. Non lo potéo aiutare. Penzao longamano vennicare lo sangue de sio frate. Penzao longamano derizzare la citate de Roma male guidata. Per sio procaccio gìo in Avignone per imbasciatore a papa Chimento de parte delli tredici Buoni Uomini de Roma. La soa diceria fu sì avanzarana e bella che sùbito abbe 'namorato papa Chimento. Moito mira papa Chimento lo bello stile della lengua de Cola. Ciasche dìe vedere lo vole. Allora se destenne Cola e dice ca·lli baroni de Roma so' derobatori de strade: essi consiento li omicidii, le robbarie, li adulterii, onne male; essi voco che la loro citate iaccia desolata. Moito concipéo lo papa contra li potienti. Puoi, a petizione de missore Ianni della Colonna cardinale, venne in tanta desgrazia, in tanta povertate, in tanta infirmitate, che poca defferenzia era de ire allo spidale. Con sio iuppariello aduosso stava allo sole como biscia. Chi lo puse in basso, quello lo aizao: missore Ianni della Colonna lo remise denanti allo papa. Tornao in grazia, fu fatto notaro della Cammora de Roma, abbe grazia e beneficia assai. A Roma tornao moito alegro; fra li dienti menacciava. Puoi che fu tornato de corte, comenzao a usare sio offizio cortesemente; e bene vedeva e conosceva le robbarie delli cani de Campituoglio, la crudelitate e la iniustizia delli potienti. Vedeva pericolare tanto Communo e non se trovava uno buono citatino che·llo volessi aiutare. Imperciò se levao in pede una fiata nello assettamento de Roma, dove staievano tutti li consiglieri, e disse: "Non site buoni citatini voi, li quali ve rodete lo sangue della povera iente e non la volete aiutare". Puoi ammonìo li officiali e·lli rettori che devessino provedere allo buono stato della loro romana citate. Quanno la luculenta diceria fu fornita, levaose uno de Colonna, lo quale avea nome Antreuozzo de Normanno, allora cammorlengo, e deoli una sonante gotata. Puoi se levao uno lo quale era scrivisenato - Tomao de Fortifiocca avea nome - e feceli la coda. Questo fine abbe soa diceria. Anco secunnario lo preditto Cola ammonìo li rettori e·llo puopolo allo bene fare per una similitudine la quale fece pegnere nello palazzo de Campituoglio 'nanti lo mercato. Nello parete fòra sopra la Cammora penze una similitudine in questa forma. Era pento uno grannissimo mare, le onne orribile, forte turvato. In mieso de questo mare stava una nave poco meno che soffocata, senza tomone, senza vela. In questa nave, la quale per pericolare stava, stava una femina vedova vestuta de nero, centa de cengolo de tristezze, sfessa la gonnella da pietto, sciliati li capelli, como volessi piagnere. Stava inninocchiata, incrociava le mano piecate allo pietto per pietate, in forma de precare che sio pericolo non fussi. Lo soprascritto diceva: "Questa ène Roma". Atorno a questa nave, dalla parte de sotto, nell'acqua stavano quattro nave affonnate, loro vele cadute, rotti li arbori, perduti li tomoni. In ciascheuna stava una femina affocata e morta. La prima avea nome Babillonia, la secunna Cartaine, la terza Troia, la quarta Ierusalem. Lo soprascritto diceva: "Queste citati per la iniustizia pericolaro e vennero meno". Una lettera iessiva fra queste morte femine e diceva così: "Sopra onne signoria fosti in aitura. Ora aspettamo qui la toa rottura". Dallo lato manco stavano doi isole. In una isoletta stava una femina che sedeva vergognosa, e diceva la lettera: "Questa ène Italia". Favellava questa e diceva così: "Tollesti la balìa ad onne terra e sola me tenesti per sorella". Nella aitra isola staievano quattro femine colle mano alle gote e alli inuocchi con atto de moita tristezze, e dicevano così: "D'onne virtute fosti accompagnata. Ora per mare vai abannonata". Queste erano quattro virtù cardinale, cioène Temperanza, Iustizia, Prudenza e Fortezze. Dalla parte ritta stava una isoletta. In questa isoletta stava una femina inninocchiata. Le mano destenneva a cielo como orassi. Vestuta era de bianco. Nome avea Fede Cristiana. Lo sio vierzo diceva così: "O summo patre, duca e signor mio, se Roma pere, dove starraio io?" Nello lato ritto della parte de sopra staievano quattro ordini de diverzi animali colle scelle, e tenevano cuorni alla vocca, e soffiavano como fussino vienti li quali facessino tempestate allo mare, e davano aiutorio alla nave che pericolassi. Lo primo ordine erano lioni, lopi e orzi. La lettera diceva: "Questi so' li potienti baroni, riei rettori". Lo secunno ordine erano cani, puorci e caprioli. La lettera diceva: "Questi soco li mali consiglieri, sequaci delli nuobili". Lo terzo ordine stavano pecoroni, dragoni e golpi. La lettera diceva: "Questi soco li faizi officiali, iudici e notari". Lo quarto ordine stavano liepori, gatti e crape e scigne. La lettera diceva: "Questi soco li populari, latroni, micidiari, adulteratori e spogliatori". Nella parte de sopra staieva lo cielo. In mieso stava la maiestate divina como venissi allo iudicio. Doi spade li iessivano dalla vocca, de là e de cà. Dall'uno lato stava santo Pietro, dall'aitro santo Pavolo ad orazione. Quanno la iente vidde questa similitudine de tale figura, onne perzona se maravigliava. Quanno Cola de Rienzi scriveva, non usava penna de oca; anco soa penna era de fino ariento. Diceva che tanta era la nobilitate de sio officio, che la penna devea essere d'ariento. Non moito tiempo passao che ammonìo lo puopolo per uno bello sermone vulgare lo quale fece in Santo Ianni de Laterani. Dereto dallo coro, nello muro, fece ficcare una granne e mannifica tavola de metallo con lettere antique scritta, la quale nullo sapeva leiere né interpretare, se non solo esso. Intorno a quella tavola fece pegnere figure, como lo senato romano concedeva la autoritate a Vespasiano imperatore. Là, in mieso della chiesia, fece fare uno parlatorio de tavole e fece fare gradi de lename assai aiti per sedere. E fece ponere ornamenta de tappiti e de celoni. E congregao moiti potienti de Roma, fra li quali fu Stefano della Colonna e Ianni Colonna sio figlio, lo quale era delli più scaitriti e mannifichi de Roma. Anche ce fuoro moiti uomini savii, iudici e decretalisti, moita aitra iente de autoritate. Sallìo in sio pulpito Cola de Rienzi fra tanta bona iente. Vestuto era con una guarnaccia e cappa alamanna e cappuccio alle gote de fino panno bianco. In capo aveva uno capelletto bianco. Nella rota dello capelletto stavano corone de aoro, fra le quale ne stava denanti una la quale era partuta per mieso. Dalla parte de sopra dello capelletto veniva una spada d'ariento nuda, e la sia ponta feriva in quella corona e sì·lla partiva per mieso. Audacemente sallìo. Fatto silenzio, fece sio bello sermone, bella diceria, e disse ca Roma iaceva abattuta in terra e non poteva vedere dove iacessi, ca li erano cavati li uocchi fòra dello capo. L'uocchi erano lo papa e lo imperatore, li quali aveva Roma perduti per la iniquitate de loro citatini. Puoi disse: "Vedete quanta era la mannificenzia dello senato, ca la autoritate dava allo imperio". Puoi fece leiere una carta nella quale erano scritti li capitoli colla autoritate che·llo puopolo de Roma concedeva a Vespasiano imperatore. In prima, che Vespasiano potessi fare a sio benepiacito leie e confederazione con quale iente o puopolo volessi; anche che potessi mancare e accrescere lo ogliardino de Roma, cioène Italia; potessi dare contado più e meno, como volessi; anche potessi promovere uomini a stato de duca e de regi e deponere e degradare; anco potessi disfare citate e refare; anco potessi guastare lietti de fiumi e trasmutarli aitrove; anche potessi imponere gravezze e deponere allo benepiacito. Tutte queste cose consentìo lo puopolo de Roma a Vespasiano imperatore in quella fermezza che avea consentuto a Tiberio Cesari. Lessa questa carta, questi capitoli, disse: "Signori, tanta era la maiestate dello puopolo de Roma, che allo imperatore dava la autoritate. Ora l'avemo perduta". Puoi se stese più innanti e disse: "Romani, voi non avete pace. Le vostre terre non se arano. Per bona fede che·llo iubileo se approssima. Voi non site proveduti della annona e delle vettuaglie; ca se la iente che verrao allo iubileo ve trova desforniti, le prete ne portaraco de Roma per raia de fame. Le prete a tanta moititudine non bastaraco". Puoi concluse e disse: "Pregove che la pace con voi aiate". Po' queste paravole disse: "Signori, saccio ca moita iente me teo in vocca per questo che dico e faccio, e questo perché? Per la invidia. Ma rengrazio Dio che tre cose consumano li medesimi. La prima ène la lussuria, la secunna lo fuoco, la terza ène la invidia". Fatto lo sermone e desceso, da tutta iente fu pienamente laodato. In questi dìi usanno alli magnari colli signori de Roma, con Ianni Colonna, li baroni ne prennevano festa de sio favellare. Facevanollo sallire in pede e sì·llo facevano sermonare. E diceva: "Io serraio granne signore o imperatore. Tutti questi baroni persequitaraio. Quello appenneraio, quello decollaraio". Tutti li iudicava. De ciò li baroni crepavano delle risa. Po' queste cose 'nanti disse la salluta soa e·llo stato della citate e·llo ieneroso reimento per questo muodo. Fece pegnere nello muro de Santo Agnilo Pescivennolo, lo quale è luoco famoso a tutto lo munno, una figura così fatta. Nello cantone della parte manca stava uno fuoco moito ardente, lo fume e·lla fiamma dello quale se stennevano fi' allo cielo. In questo fuoco staievano moiti populari e regi, delli quali alcuni parevano miesi vivi, alcuni muorti. Anco in quella medesima fiamma staieva una donna moito veterana, e per la granne caliditate le doi parte de questa veglia erano annerite, la terza parte remasa era illesa. Da la parte ritta, nello aitro cantone, era una chiesia con uno campanile aitissimo, dalla quale chiesia iessiva uno agnilo armato, vestuto de bianco. La soa cappa era de scarlatto vermiglio. In mano portava una spada nuda. Colla mano manca prenneva questa donna veglia per la mano, perché la voleva liberare da pericolo. Nella aitezza dello campanile staievano santo Pietro e santo Pavolo como venissino da cielo, e dicevano così: "Agnilo, agnilo, succurri alla albergatrice nostra". Puoi staieva pento como de cielo cadevano moiti falconi e cadevano muorti in mieso de quella ardentissima fiamma. Anco era nella aitezza dello cielo una bella palomma bianca, la quale teneva nello sio pizzo una corona de mortella, e donavala ad uno minimo celletto como passaro, e puoi cacciava quelli falconi da cielo. Quello piccolo celletto portava quella corona e ponevala in capo della veglia donna. De sotto a queste figure staieva scritto così: "Veo lo tiempo della granne iustizia e ià taci fi' allo tiempo". La iente che conflueva in Santo Agnilo resguardava queste figure. Moiti dicevano ca era vanitate e ridevano. Alcuni dicevano: "Con aitro se vòlzera rettificare lo stato de Roma, che con figure". Alcuno diceva: "Granne cosa ène questa e granne significazione hao". Anche 'nanti disse la salluta soa per questa via. Scrisse una cetola e ficcaola nella porta de Santo Iuorio della Chiavica. La cetola diceva così: "In breve tiempo li Romani tornaraco allo loro antico buono stato". Questa scritta fu posta la prima dìe de quaraiesima nella porta de Santo Iuorio della Chiavica. Puo' questo adunao moiti Romani populari, discreti e buoni uomini. Anco fra essi fuoro cavalerotti e de buono lenaio, moiti descreti e ricchi mercatanti. Abbe con essi consiglio e rascionao dello stato della citate. Uitimamente adunao questa bona iente e matura nello Monte de Aventino e in uno luoco secreto. Là fu deliverato de intennere allo buono stato. Fra li quali esso fu levato in piedi e recitao piagnenno la miseria, la servitute e·llo pericolo nello quale iaceva la citate de Roma. Anco recitao lo stato pacifico, signorile, lo quale Romani solevano avere. Recitao la fidele subiezzione delle terre circustante perduta. Queste cose dicenno piagneva e piagnere faceva cordogliosamente la iente. Puoi concluse e disse ca se conveniva servare pace e iustizia, comenzanno con sollanieri. Puoi disse "Della moneta non dubitete, ca la Cammora de Roma hao moite riennite inestimabile. In prima, per lo focatico pacano per fumante quattro [...], comenzanno dallo ponte Ceperano fi' allo ponte della Paglia. Montava ciento milia fiorini. Item de sale ciento milia fiorini. Anche li puorti de Roma e·lle rocche de Roma ciento milia fiorini. Anche per lo passo delle vestie e per connannazioni ciento milia fiorini". Puoi disse: "Allo presente comenzaremo con quattro milia fiorini, li quali hao mannati missore lo papa, e ciò sao lo vicario sio". Puoi disse: "Signori, non crediate che questo non sia de licenzia e voluntate dello papa, ca moiti tiranni faco violenzia nelli bieni della Chiesia". Per queste paravole accese li animi delli congregati. Anco moite cose recitao, donne piagnevano. Puoi deliverao de intennere allo buono stato, e de ciò ad onneuno deo sacramento nelle lettere. Fatto questo, la citate de Roma stava in grannissima travaglia. Rettori non avea. Onne dìe se commatteva. Da onne parte se derobava. Dove era luoco, le vergine se detoperavano. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se furavano e menavanose a desonore. La moglie era toita allo marito nello proprio lietto. Li lavoratori, quanno ivano fòra a lavorare, erano derobati, dove? su nella porta de Roma. Li pellegrini, li quali viengo per merito delle loro anime alle sante chiesie, non erano defesi, ma erano scannati e derobati. Li prieiti staievano per male fare. Onne lascivia, onne male, nulla iustizia, nullo freno. Non ce era più remedio. Onne perzona periva. Quello più avea rascione, lo quale più poteva colla spada. Non ce era aitra salvezza se non che ciascheuno se defenneva con parienti e con amici. Onne dìe se faceva adunanza de armati. Li nuobili e li baroni in Roma non staievano. Missore Stefano della Colonna era ito colla milizia in Corneto per grano. Era in fine dello mese de abrile. Allora Cola de Rienzi la prima dìe mannao lo vanno a suono de tromma che ciasche omo senza arme venisse allo buono stato allo suono della campana. Lo sequente dìe là, da mesa notte, odìo trenta messe dello Spirito Santo nella chiesia de Santo Agnilo Pescivennolo. Là, su l'ora de mesa terza iessìo fòra della preditta chiesia, armato de tutte arme, ma solo lo capo era descopierto. Iesse fòra bene e palese. Moititudine de guarzoni lo sequitavano tutti gridanti. Denanti da sé faceva portare da tre buoni uomini della ditta coniurazione tre confalloni. Lo primo confallone fu grannissimo, roscio, con lettere de aoro, nello quale staieva Roma e sedeva in doi lioni, in mano teneva lo munno e la palma. Questo era lo confallone della libertate. Cola Guallato, lo buono dicitore, lo portava. Lo secunno era bianco, nello quale staieva santo Pavolo colla spada in mano, colla corona della iustizia. Questo portava Stefanello, ditto Magnacuccia, notaro. Nello terzo staieva santo Pietro colli chiavi della concordia e della pace. Anco portava un aitro lo confallone lo quale fu de santo Iuorio cavalieri. Perché era veterano fu portato in una cassetta su in una asta. Ora prenne audacia Cola de Rienzi, benché non senza paura, e vaone una collo vicario dello papa, e sallìo lo palazzo de Campituoglio anno Domini MCCCXLVI[I]. Aveva in sio sussidio forza da ciento uomini armati. Adunata grannissima moititudine de iente, sallìo in parlatorio, e sì parlao e fece una bellissima diceria della miseria e della servitute dello puopolo de Roma. Puoi disse ca esso per amore dello papa e per salvezza dello puopolo de Roma esponeva soa perzona in pericolo. Puoi fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco Mancino, la lesse brevemente. Questi fuoro alquanti suoi capitoli: Lo primo, che qualunche perzona occideva alcuno, esso sia occiso, nulla exceptuazione fatta. Lo secunno, che li piaiti non se proluonghino, anco siano spediti fi' alli XV dìe. Lo terzo, che nulla casa de Roma sia data per terra per alcuna cascione, ma vaia in Communo. Lo quarto, che in ciasche rione de Roma siano auti ciento pedoni e vinticinque cavalieri per communo suollo, daienno ad essi uno pavese de valore de cinque carlini de ariento e convenevile stipennio. Lo quinto, che della Cammora de Roma, dello Communo, le orfane e·lle vedove aiano aiutorio. Lo sesto, che nelli paludi e nelli staini romani e nelle piaie romane de mare sia mantenuto continuamente un legno per guardia delli mercatanti. Settimo, che li denari, li quali viengo dello focatico e dello sale e delli puorti e delli passaii e delle connannazioni, se fossi necessario, se despennano allo buono stato. Ottavo, che·lle rocche romane, li ponti, le porte e·lle fortezze non deiano essere guardate per alcuno barone, se non per lo rettore dello puopolo. Nono, che nullo nobile pozza avere alcuna fortellezze. Decimo, che li baroni deiano tenere le strade secure e non recipere li latroni e li malefattori, e che deiano fare la grascia so pena de mille marche d'ariento. Decimoprimo, che della pecunia dello Communo se faccia aiutorio alli monisteri. Decimosecunno, che in ciasche rione de Roma sia uno granaro e che se proveda dello grano per lo tiempo lo quale deo venire. Decimoterzio, che se alcuno Romano fussi occiso nella vattaglia per servizio de Communo, se fussi pedone aia ciento livre de provisione, e se fussi cavalieri aia ciento fiorini. Decimoquarto, che·lle citate e·lle terre, le quale staco nello destretto della citate de Roma, aiano lo reimento dallo puopolo de Roma. Decimoquinto, che quanno alcuno accusa e non provassi l'accusa, sostenga quella pena la quale devessi patere lo accusato, sì in perzona sì in pecunia. Moite aitre cose in quella carta erano scritte, le quale perché moito piacevano allo puopolo, tutti levaro voce in aito e con granne letizia voizero che remanessi là signore una collo vicario dello papa. Anco li diero licenzia de punire, occidere, de perdonare, de promovere a stato, de fare leie e patti colli puopoli, de ponere tiermini alle terre. Anco li diero mero e libero imperio quanto se poteva stennere lo puopolo de Roma. Puoi che queste cose, le quale in Roma fatte erano, pervennero alle recchie de missore Stefano della Colonna, lo quale staieva in Corneto nella milizia per grano, con poca compagnia senza demoranza ne cavalcao e venne a Roma. Ionto nella piazza de Santo Marciello, disse ca queste cose non li piacevano. Lo sequente dìe, la matina per tiempo, Cola de Rienzi mannao a missore Stefano lo editto e commannamento che se dovessi partire de Roma. Missore Stefano la cetola prese e sì·lla sciliao e fecene milli piezzi e disse: "Se questo pascio me fao poca de ira, io lo farraio iettare dalle finestre de Campituoglio". Quanno Cola de Rienzi questo intese, espeditamente fece sonare la campana a stormo. Tutto lo puopolo traieva con furore. Granne se apparecchiava pericolo. Allora missore Stefano cavalcao in sio cavallo. Solo con uno fante da pede ne fuìo fòra de Roma. A gran pena se fisse poco in Santo Lorienzo fòra le mura per poco de pane manicare. Vaone a Pellestrina lo veterano. Denanti allo figlio e allo nepote lamentanza fao. Allora Cola de Rienzi mannao commannamenti a tutti li baroni de Roma che se partissino e issino a loro castella; la quale cosa subitamente fatta fu. Lo sequente dìe li fuoro rennuti tutti li ponti li quali staco nello circuito della citate. Allora Cola de Rienzi fece suoi officiali. E mo' prenne uno e mo' prenne un aitro; questo appenne, a questo mozza lo capo senza misericordia. Tutti li riei iudica crudelemente. E puoi parlao allo puopolo, e in quello parlamento se fece confermare e fece fermare tutti suoi fatti, e domannao de grazia dallo puopolo che esso e·llo vicario dello papa fussino chiamati tribuni dello puopolo e liberatori. Allora li signori voizero fare una loro coniurazione contra lo tribuno e·llo buono stato: non fuoro in concordia; la cosa non venne fatta. Quanno Cola de Rienzi intese che la coniura delli baroni non venne ad effetto per la discordia loro, allora li citao e mannaoli lo editto. Lo primo che venne allo commannamento fu Stefano della Colonna, figlio de missore Stefano. Entrao lo palazzo con pochi. Vidde che·lla rascione se renneva ad onne iente. Moito era lo puopolo lo quale in Campituoglio staieva. Teméo e forte se maravigliao de sì foita moititudine. Lo tribuno li iessìo denanti armato, e sì·llo fece iurare sopra lo cuorpo de Cristo e sopra lo Vagnelio de non venire contra allo tribuno e alli Romani, e de fare la grascia, e tenere le strade secure, e non recettare latroni né le perzone de mala connizione, anche de favorare alli orfani e alli pupilli, e non fraudare lo bene dello Communo, e comparere armato e senza arme ad onne soa petizione. Data licenzia a Stefano, venne missore Ranallo delli Orsini, puoi Ianni Colonna, puoi Iordano, puoi missore Stefano. Non iamo più lontano: tutti li baroni li iuraro obedienzia con paura, allo buono stato, e offierzero le loro proprie perzone e·lle castella e·lli vassalli in sussidio della citate. Francesco de Saviello fu sio speziale signore: nientedemeno venne ad iurare subiezzione. Intanto se servava con crudelitate, nulla misericordia, in tale muodo che decapitao un monaco de Santo Anestasi, perzona infamata. Le vestimenta prime dello tribuno fuoro de una infiammata como fussi scarlatto. Soa faccia era terribile e·llo sio aspietto. A tanta iente dava resposta, a pena àbbera omo creso che avessi capo. Po' alquanti dìe vennero li iudici della citate e iuraro fidelitate e offierzero allo buono stato. Puoi vennero li notari e fecero lo medesimo. Puoi li mercatanti. Brevemente, per ordine in stato de reposato animo, senza arme, ciascheuno iurao allo buono stato communo. Allora queste cose comenzaro a piacere e le arme comenzaro a cessare. Puo' queste cose ordinao la casa della iustizia e della pace e ficcao in essa lo confallone de Santo Pavolo, nello quale stava la spada nuda e la palma della vittoria, e puse in essa iustissimi populari, li quali fuoro sopra la pace, li buoni uomini pacieri. Questo ène lo ordine lo quale là se servava. Doi inimicati venivano e davano le piarie della pace fare. Puoi, secunno la connizione della iniuria, aitro e tanto quello che patuto aveva ne faceva a quello lo quale fatto aveva. Allora se basavano in vocca, e·llo offeso dava integra pace. Uno cecao l'uocchio ad un aitro. Venne e fu connutto nelle scale de Campituoglio. Stava inninocchiato. Venne quello lo quale era dell'uocchio privato. Piagneva lo malefattore e pregava per Dio che·lli perdonassi. Puoi destese soa faccia se li piaceva de trarli l'uocchio, se·lli fussi piaciuto. Allora non li cecao l'uocchio, ca fu mosso de pietate, ma sì·lli remise soa iniuria. Delle cose civile se renneva rascione espeditamente. In questo tiempo orribile paura entrao l'animi delli latroni, micidiari, malefattori, adulteratori e de onne perzona de mala fama. Ciasche diffamata perzona iessiva fòra della citate nascostamente, secretamente fuiva. Alla mala iente pareva che essi devessino essere presi nelle loro case proprie e essere menati allo martirio. Dunqua fugo li riei più là assai che non so' li confini della contrada de Roma. Non speravano salute in alcuno. Lassavano le case, li campi, le vigne, le moglie e·lli figli. Allora le selve se comenzaro ad alegrare, perché in esse non se trovava latrone. Allora li vuovi comenzaro ad arare. Li pellegrini comenzaro a fare loro cerca per le santuarie. Li mercatanti comenzaro a spessiare li procacci e camini. In questo tiempo nella citate de Roma nato fu uno mostro. Nella contrada de Camigliano de una femina pedonessa nacque uno infante muorto, lo quale avea doi capora, quattro mano, quattro piedi, como fussino doi appiccati dallo pietto. Ma l'uno maiure era che l'aitro e pareva che lo menore avanzassi lo maiure, non senza ammirazione della iente. In questo tiempo paura e timore assalìo li tiranni. La bona iente, como liberata da servitute, se alegrava. Allora lo tribuno fece uno sio generale Consiglio, e scrisse lettere luculentissime alle citati e alle communitati de Toscana, Lommardia, Campagna, Romagna, Maretima, allo duca de Venezia, a missore Lucchino tiranno de Milana, alli marchesi de Ferrara, allo santo patre papa Chimento, a Ludovico duca de Bavaria, lo quale era stato elietto imperatore, como ditto de sopra ène, alli regali de Napoli. In queste lettere proponeva lo sio nome per mannifico titulo in questa forma: "Nicola severo e pietoso, de libertate, de pace e de iustizia tribuno, anche della santa romana repiubica liberatore illustre". In queste lettere dechiarao lo stato buono, pacifico, iusto, lo quale comenzao aveva. Dechiarava como lo viaio de Roma, lo quale soleva essere dubioso, era libero. Puoi petiva che·lli mannassino sintichi sufficienti, delli quali avea bisuogno a rascionare cose utile allo buono stato nella sinodo romana. Puoi li confortava e diceva che se alegrassino e daiessino grazie e laode a Dio de tanto e tale beneficio. Li currieri, li quali portavano le soie lettere, portavano in mano vastoncelle de leno pente inarientate. Arme nulla portavano. Tanto muitiplicaro questi suoi currieri, che de essi numero granne era, perché erano receputi graziosamente e granni onori onne omo a loro faceva. Guidardoni tollevano. Uno currieri sio fiorentino fu mannato in Avignone allo papa e a missore Ianni della Colonna cardinale. Reportao la vastoncella de leno de finissimo ariento maitata coll'arme dello puopolo de Roma e dello papa e dello tribuno, valore de fiorini trenta. Po' la soa tornata lo currieri disse: "Questa verga aio portata piubicamente per le selve, per le strade. Migliara de perzone se soco inninocchiate denanti da essa e basatola con lacrime per alegrezza delle strade sanate, liberate da latroni". Anche aveva lo tribuno li moiti scrittori e moiti dittatori, li quali non cessavano dì e notte scrivere lettere. Moiti erano li più famosi de terra de Roma. Puoi ad esso comenzaro a concurrere buffoni assai e cavalieri de corte, sonettatori e cantatori. Canzoni vulgari e vierzi per lettera de suoi fatti fatti fuoro. In questo tiempo era in Roma uno iovine potente e nobile perzona: nome sio era Martino de Puorto, nepote dello cardinale de Ceccano e de missore Iacovo Gaietano cardinale. Ià per li tiempi passati stato era senatore; suoi antecessori la dignitate dello senato per più fiate àbbero. De questo Martino feci menzione sopra della galea sorrenata. Questo fu signore dello castiello de Puorto. Soa vita era venuta a tirannia. Soa nobilitate bruttava per tirannie, latronie. Prese per moglie una nobilissima femina, madonna Mascia delli Alberteschi, la quale moito era bella e era stata vedova. Stette con questa nova soa donna forza un mese, perché male se sappe retenere. Anche pessimamente se temperava dallo sopierchio civo. Cadde in pessima infirmitate e incurabile. Li miedici dico retruopico. Sio ventre era pieno de acqua. Como votticiello pareva, piene le gamme e·llo cuollo sottile e·lla faccia macra, la sete grannissima. Leguto da sonare pareva. Stavase in soa casa quetamente renchiuso e facevase medicare dalli fisichi. Questo omo così nobile, sotto spezie de securitate infermo a morte, per terrore de tutta l'aitra iente fece pigliare nella propria casa, nelle mano della soa donna, nello palazzo canto lo fiume de Ripa Armea, e fecelo menare a Campituoglio. Puoi che là a Campituoglio fu lo barone latrone connutto, era forza ora de nona. Non fece demoranza. Sonao la campana a stormo. Lo puopolo fu adunato. Fu Martino desmantato, la soa cappa alla cincillonia fatta. E legatoli le mano dereto, fu fatto inninocchiare nelle scale canto lo lione, nello luoco usato. Là odìo la sentenzia de sia morte. A pena lo lassao confessare perfettamente allo preite. Alle forche lo connannao, perché avea derobata la galea sorrenata. Menato così mannifico omo alle forche, nello piano de Campituoglio fu appeso. Soa donna da longa per li balconi lo poteva vedere. Una notte e doi dìe pennéo nelle forche, né·lli iovao la nobilitate né·lla parentezze delli Orsini. A quello modo resse Roma e moiti in simile pena dannao. Questa cosa spaventao li animi delli potienti, li quali sapevano le loro inique operazioni. Aitri per pietate ne lacrimava, aitri ne temeva. Ora comenza la iustizia a prennere vigore. La fama de tale fatto spaventao li mannifichi in tale muodo che a pena avevano fede de sé medesimi. Allora le strade fuoro aperte. Notte e dìe caminavano liberamente li viatori. Non ardisce alcuno arme portare. Nullo omo fao ad aitri iniuria. Lo signore non se accotiava de toccare lo sio servo. Onne cosa guardiava lo tribuno. Per la alegrezze de così escellente fatto piangono alcuni con alegrezze e pregano Dio che fortifichi lo sio core e·llo intellietto in questo proponimento. Tutta la intenzione dello tribuno primamente fu de esterminare li tiranni e confonnerelli in tale via che de essi non se trovassi pianta. Li vetturali, li quali portavano le some, lassavano le some nelle strade piubiche, bene le retrovavano sane e salve. Allora fu mercato nella gota uno lo quale avea nome Tortora (era delli suoi currieri), perché avea receputa pecunia senza licenzia, quanno fu mannato alli regali de Napoli. La fama de sì virtuoso omo per tutto lo munno se destenne. Tutta la Cristianitate fu commossa como se levassi da dormire. Fu uno Bolognese lo quale fu uno delli schiavi dello soldano de Babillonia. Lo primo che potéo aizare, la più corta, ne venne a Roma. Questo disse che allo granne Racham ditto fu che nella citate de Roma se era levato un omo de granne iustizia, omo de puopolo; lo quale respuse e dubitanno disse: "Maumet e santo Elinason aiutino Ierusalem", cioène la Saracinia. Appeso che fu Martino, in quelli dìe fu una festa de santo Ianni de iugno. Tutta Roma a Santo Ianni vao la dimane. Voize questo omo ire alla festa como l'aitri. La soa ita fu per questa via. Cavalcao con granne appriesto de cavalieri. Sedeva sopra uno destrieri bianco. Vestuto era de bianche vestimenta de seta, forrate de zannato, infresate de aoro filato. Sio aspietto era bello e terribile forte. Denanti allo sio cavallo li ivano li ciento iurati da pede armati dello rione della Regola. Sopra lo capo sio portava lo confallone. Un aitro dìe cavalcao per pranzo a Santo Pietro Maiure de Roma. Uomini e femine lo trassero a vedere. Questo fu l'ordine de soa bella cavalcata. La prima iente che venissi fu una milizia de iente armata da cavallo, adornata e bella, la quale devea ire a ponere campo sopre lo profietto. Po' questi sequitava lo ordine delli officiali, iudici, notari, cammorlenghi, cancellieri, scrivisenato e onne officiale, pacieri e scintichi. Puoi sequitavano quattro menescalchi colli loro cavalcanti usati. Puo' questi sequitava Ianni de Allo, lo quale portava la coppa d'ariento inaorato in mano collo dono a muodo de senatore. Puo' questo venivano li sollati da cavallo. Po' questi venivano li trommatori, li quali venivano sonanno colle tromme d'ariento. Naccari d'ariento sonanti onesto e mannifico suono facevano. Puoi venivano li vannitori. Tutta questa iente passava con silenzio. Po' questi veniva uno omo solo lo quale portava in mano una spada nuda in segno de iustizia: Buccio, figlio de Iubileo, fu. Po' questo sequitava uno omo lo quale per tutta la via veniva iettanno e sparienno pecunia a muodo imperiale: Liello Migliaro sio nome fu. De·llà e de cà aveva doi perzone, le quale sostenevano le sacca della moneta. Po' questi sequitava lo tribuno solo. Sedeva in uno destrieri granne, vestuto de seta, cioène de velluto mieso verde, mieso giallo, forrato de varo. Nella mano ritta portava una verga de acciaro polita, lucente. Nella soa summitate era uno melo de ariento 'naorato, e sopra lo pomo staieva una crocetta de aoro. Drento della crocetta staieva lo leno della croce. Da l'uno lato erano lettere smaitate, dicevano: "Deus ", da l'aitro: "Spiritus Sanctus ". Puo' esso immediate veniva Cecco de Alesso e portavali sopre capo uno stennardo a muodo regale. In quello stennardo era lo campo de bianco; in mieso staieva uno sole de aoro splennente e atorno staievano le stelle de ariento. In capo dello stennardo era una palomma bianca d'ariento, la quale portava in vocca una corona de oliva. Dallo lato ritto e manco aveva con seco da pede cinquanta vassalli de Vitorchiano, li fideli, colli sbiedi in mano. Bene parevano orzi vestuti e armati. Po' questi sequitava la compagnia de moita iente desarmata, sì de ricchi, sì de potienti, de consiglieri, compagni e de moita iente onesta. Con cutale triomfo, con cutale gloria passao lo ponte de Santo Pietro, onne perzona salutanno. De colpo le porte e·lle tavolata fuoro date per terra, la strada spaziosa e libera. Puoi che fu ionto alle scale de Santo Pietro, li calonici de Santo Pietro con tutto lo chiericato li iessiro incontra vestuti e parati colle cotte bianche solennemente, colla croce e collo oncienzo. Vennero cantanno"Veni Creator Spiritus" fi' alle scale e sì·llo recipiero con granne letizia. Inninocchiato denanti allo aitare deo soa offerta. Lo chiericato preditto li raccommannao li bieni de Santo Pietro. Lo sequente dìe deo odienzia alle vedove, alli orfani, alli desolati. E fece prennere doi scrivisenato e feceli mitrare como faizarii e connannaoli in granne pecunia, mille livre per uno. L'uno avea nome Tomao Fortifiocca, l'aitro avea nome Poncelletto della Cammora. Questi doi erano moito potienti populari. Dallo principio questo omo faceva vita assai temperata. Puoi comenzao a muitiplicare vite e cene e conviti e crapule de divierzi civi e vini e de moiti confietti. Puoi fece stecconiare lo palazzo de Campituoglio fra le colonne e chiuselo de lename. E commannao che tutte le steccata delli renchiostri delli baroni de Roma issero per terra; e fu fatto. Anco commannao che quelli travi, tavole e lename fussi portato a Campituoglio alle spese delli baroni; e fu fatto. Allora in casa de missore Stefano della Colonna prese latroni, li quali appese. Puoi connannao ciascheuno lo quale era stato senatore in ciento fiorini, perché de essi voleva reedificare e racconciare lo palazzo de Campituoglio. Recipéo per ciasche barone ciento fiorini, ma lo palazzo non fu acconcio, benché comenzassi. E fece prennere Pietro de Agabito per la perzona, lo quale era stato in quello anno senatore, e a pede, como fussi latrone, lo fece menare a corte dalli suoi menescalchi. Ora comenzano a spessiare le immasciate delle terre e delli nuobili. Tutta Toscana avea ià mannate le immasciarie. Allora ordinao la milizia delli cavalieri de Roma per questo ordine. Per ciasche rione de Roma ordinao pedoni e cavalieri trenta, e deoli suollo. Ciasche cavalieri avea destrieri e ronzino, cavalli copertati, arme adornate nove. Bene pargo baroni. Anco ordinao li pedoni puro adorni, e deoli li confalloni, e divise li confalloni secunno li segnali delli rioni, e deoli suollo. E commannao che fussino priesti ad onne suono de campana e feceselli iurare fidelitate. Fuoro pedoni MCCC, li cavalieri CCCLX, elietti iovini, mastri de guerra, bene armati. Puoi che·llo tribuno se vidde armato de così fatta milizia, allora se apparecchia de movere guerra a più potienti perzone. Manna sio editto intorno e cita tutti potienti nelle finaite de Roma. Intanto ordinao alquanti suoi fattori e mannaoli coglienno lo focatico. Coizero dunqua lo cienzo antico dello puopolo de Roma, e onne dìe la moneta vene a Roma per tale via, che increscimento e fatiga fosse contare pecunia de tanta iente. Prestamente li vassalli delli baroni pacano uno carlino per fumante. Apparecchiavanose a questa paca le citate, le terre e le communanze, le quale staco nella Toscana inferiore e in Campagna e in Maretima. No·llo créseri: li vassalli de Antioccia pacaro. Puoi che·llo editto abbe mannato a tutti li baroni e alle citate intorno, doicemente obediscono, secunno che de sopra ditto ène. Alla loro matre e donna Roma umile reverenzia faco. Solo Ianni da Vico profietto, tiranno de Vitervo, non vole obedire. Per mille voite citato non voize comparere. Allora deo contra esso profietto la sentenzia e privaolo in piubico parlamento della soa dignitate e disse ca era occiditore dello sio frate, fazzioso, e che non voleva rennere lo altruio, cioène la rocca de Respampano, e appellaolo Ianni de Vico. Allora determinao l'oste sopra quello. E feceli capitanio sopra Cola Orsino guarzone, signore de Castiello Santo Agnilo, e deoli per consiglieri Iordano delli Orsini. E abbe in quella oste li moiti aiutorii. E posero campo sopre la citate de Vetralla e stiettero in assedio dìi sessanta. E currevano onne pianura fi' in Vitervo ardenno e derobanno. Deh, como granne paura fecero a Vitervesi! Donne fu auta Vetralla per bona voluntate delli avitatori. Erance una forte rocca. Quella rocca non fu auta. Volennola Romani prennere per arte de guerra, fecero trabocchi e manganelle. Moito spessiavano loro prete. Puoi fecero una asinella de leno e connusserolla fi' alla porta della rocca. La notte se fece. Quelli della rocca misticaro zolfo, pece e uoglio, lena, trementina e aitre cose, e iettaro questa mistura sopra lo edificio. La asinella fu in quella notte arza. La dimane fu trovata cenere. In questa oste fuoro Cornetani con tutto loro sfuorzo e Manfredo loro signore. Fuoronce le masnate de Peroscini, de Todini, de Nargnesi, baroni de Roma assai. Moito fu bella oste, potente e onorata. Puoi che li Romani àbbero consumato e guasto onne campo, àbbero arzo lo lavoro e·llo lino fi' in Vitervo, era mesa state de luglio, quanno lo callo stao infervente. Allora lo tribuno determinao a questa oste ire perzonalmente e mustrare tutta soa potenzia con cavalieri e pedoni e depopulare le vigne de Vitervo. Quanno lo profietto questo sentìo, incontinente penzao de obedire. In questo tiempo erano in destretto alquanti baroni (de Campituoglio non se potevano partire), cioène Stefano della Colonna e missore Iordano de Marini. Lo profietto in prima mannao li immasciatori. Puoi perzonalmente venne a Roma. Era ora nona, da mieso dìe. Entrao in Campituoglio e posese sotto le vraccia dello tribuno. In soa compagnia avea forza da sessanta. Allora fuoro inzerrate le porte de Campituoglio e, sonata la campana, fuoro adunati uomini e femine de Roma. Lo tribuno fece uno parlamento, nello quale disse che Ianni de Vico voleva obedire allo puopolo de Roma. Allora lo renvestiva della prefettura e disse che renneva li bieni dello puopolo. E così fu fatto, perché, 'nanti che lo profietto se partissi de Roma e 'nanti che lo esercito de Vetralla se venissi, rassenata fu alli fattori e allo scindico de Roma la rocca de Respampano, e puoi lo profietto fu lassato. Ora ascoita novitate delle sonnora. La notte denanti allo dìe dello accordo lo tribuno dormiva in un sio oniesto e triomfale lietto. Primo suonno era. Mentre che dormiva, comenzao fortemente a gridare per suonno e diceva: "Lassame, lassame". A questo favellare li servitori della Cammora curzero e dissero: "Signore nuostro, que novitate ène? Volete cobelle?" Allora lo tribuno era resvigliato, favellao e disse: "Mode io me sonnava che uno frate bianco veniva a mine e diceva:"Tuolli la toa rocca de Respampano. Ecco che te·lla renno". E dicenno questo in questo suonno me prese per la mano. Allora gridai". Questo suonno né più né meno devenne como fu. Uno fraticiello, lo quale aveva nome frate Acuto de Ascisci spidalieri, lo quale fece lo spidale della Croce de Santa Maria Rotonna, dello quale de sopre feci menzione nella renovazione de ponte Muolli, fu santa e bona perzona. Questo trattao la concordia fra Romani e·llo profietto. Venne lo sequente dìe allo tribuno colle novelle della pace e disse: "Tuolli la rocca de Respampano. Io te la renno". Favellava allo puopolo lo tribuno in parlatorio. Tutta la strada de mercato piena era. In capo della strada apparze frate Acuto vestuto de bianco, a cavallo in un sio asiniello copierto de bianco, incoronato de rami de oliva, colli rami della oliva in mano. Per vederlo moita iente se fioccava. Da longa lo vidde lo tribuno e disse alli suoi cubiculari: "Ecco lo suonno de questa notte". In questa oste de Vetralla lo Romano abbe mille perzone da cavallo, pedoni sei milla. La oste fu tornata incoronata de rami de oliva. Ora voglio un poco iessire dalla materia. Pòtera alcuno adomannare se·llo suonno pò essere vero. A ciò responno e dico: bene che moiti suonni siano vanitati, siano moiti delusioni de demonia, nientedemeno moiti suonni se trova omo veri como Dio li inspirassi, spezialmente in perzone temperate, dove non abunnano fumositate per crapula e per desusato civo, e in tiempo della notte che se dice aurora, quanno se parte la notte dallo dìe, ché lo cerebro stao purificato, li spiriti staco temperati. E de ciò fao fede lo biato santo Gregorio nello Dialogo. Dice santo Gregorio che nello monistero sio fu uno monaco de santa vita e bona lo quale aveva nome Mierolo. Questo Mierolo fra le moite virtute aveva questa, che mai non finava de dicere salmi, salvo quanno manicava e dormiva. Infermao. Dormenno questo frate Mierolo infermo sonnaose che una bella corona de variati fiori descegneva da cielo e posavase nello sio capo. Questo suonno disse alli monaci. Venne e morìo. Como interpretassi sio suonno in bona parte, alegramente passao. Po' li anni XIIII de soa morte un aitro monaco cavava la sepoitura per uno muorto in quello luoco dove Mierolo stava sepellito. Como fu cavata, subitamente de quello luoco iessìo una fraganzia, uno odore suavissimo, como fussino state in quella fossa rose, viole, igli e moiti fiori. Dunqua bene fu vero lo suonno de Mierolo che da cielo li veniva la corona de fiori, li quali fiori puo' li anni XIIII renniero odore drento alla fossa. Anco ne fao menzione frate Martino nella soa cronica. Dice che Marziale imperatore, lo quale staieva in Constantinopoli, una notte se sonnao che lo arco de Attila vedeva rotto in doi parte. Estimao Marziale che Attila fussi muorto; e così fu lo vero. Questo Attila fu granne rege e fu granne tiranno. Avea arcieri assai. Tutta Pannonia e Bulgaria gìo profonnenno. Depopulao moite citate, Aquileia e aitre. Occise Bella frate sio e fu sconfitto da Franceschi, Borgognoni e Sanzonesi e Italiani. Nella quale sconfitta fu muorto lo re de Borgogna e fuoronce muorti ciento ottanta milia capora d'uomini, sì che rigo de sangue abunnao. Dunque Attila re como sconfitto retornao in sio paiese e adunao grannissima iente de Ongari e de Daziani e tornava per entrare in Italia. Delle prime terre che trovassi fu Aqulieia, la quale disfece. Papa Lione santissimo in quello tiempo viveva. Pregaolo che se iessissi fòra de Italia; e così fu. Como se partìo de Italia per tornare in soa contrada, morìo in Pannonia. La notte de soa morte apparze in suonno a Marziale imperatore in Constantinopoli in Grecia l'arco de Attila rotto, donne Marziale estimao che Attila fusse muorto; e così fu. Anco ne fao menzione Valerio Massimo dello suonno de Cassio Parmese, lo quale se retrovao ad occidere Iulio Cesari, donne se era partito da Roma, iva fuienno. Ottaviano e Antonio lo sequitavano como nemico capitale. Questo Cassio una notte se redusse in una piccola fortezza. Messo a lietto, vidde in suonno uno omo terribile con una faccia scura, lo quale li menacciava. Soie menacce erano in lengua greca. Per doi voite a tale suonno se svigliao. Alla terza se fece venire lo lume e commannao che li suoi servienti lo guardassino. Anco quello medesimo suonno vidde la dimane. Le legione de Ottaviano e l'oste de Antonio li fu sopra, e sì fu preso Cassio e sì li fu tronco lo capo. Aristotile lo filosofo de ciò fao menzione e speziale trattato in un sio livro lo quale hao nome De Suonno e Vigilia, nello capitolo della divinazione nello suonno. Dice Aristotile e quelli li quali sequitano la soa opinione che·llo suonno pote essere vero naturalmente. E ciò sottilemente demustra per una cutale via. In prima suppone lo filosofo che questa differenzia sia fra lo vigliare e·llo dormire. Nello vigliare granni movimenti pargo allo imaginare piccoli, nello dormire li movimenti e·lle cose piccole pargo granne. Como incontra che in alcuna perzona poca de flemma dolce li destilla per la vocca e pareli assaiare zuccaro, mele e cennamo. In alcuno abunna poca de collora e pareli vedere saiette volare per lo cielo, focora, fiamme e tempestate. In alcuno se move ventositate overo alcuno piccolo ventariello e pareli vedere che tutte le ventora tempiestino. La cascione de ciò sì ène che nello sopore tutti li spiriti staco insiemmora redutti drento alla fantasia ed alla imaginativa, donne soco più temperati a comprennere; anco, perché soco adunati, soco più potienti in soa operazione. Nello vigliare li spiriti so' despierzi, le cose soco varie e moite; e quanno la virtute stao unita, ène più forte che quanno ène sparza. Ià avemo che li spiriti nella notte staco solliciti, intentorosi, e piccola cosa li move. La secunna cosa presuppone Aristotile ène questa. Dice: "Ciò che noi operamo ène per l'airo, senza lo quale vivere non se pote. L'airo ène in mieso de noi. La favella umana vao da omo in omo, perché l'airo ène refratto da omo in omo. L'airo se muta e move secunno le mutazioni le quale l'uomini faco, como è delle densitati delle forme che apparo nello spiecchio". Pone un aitro esempio: "Alcuno ietta la preta nello laco. La preta move l'acqua. L'acqua, mossa una parte, move l'aitra parte vicina in muodo de rota e tante rote fao quanto dura la potenzia dello vraccio. Stao lo pescatore con sio amo, pesca, non vede quello che la preta iettao, ma vede li cierchi che l'acqua fao. Conosce che omo li fao impaccio allo pesce prennere. Movese e veone a pregare che non ietti prete più". Così, dice Aristotile, la favella, le operazione umane mutano l'airo. L'airo mutato da parte in parte perveo allo sentimento umano e delli aitri animali, como incontra che·lla camarda e·lle morte corpora iettano vapori corrotti per lo airo e perveo allo odorato delli lopi e delli avoitori, donne se scrive che cinqueciento miglia lo avoitore curre alle corpora morte. Questo non fora per aitro se non per la mutazione che fa l'airo continuato da cuorpo a cuorpo. Ora vole Aristotile che non solamente li effetti delle cose mutino l'airo, ma anco se muta l'airo per lo volere, li penzamenti dello omo; ché, quanno uno vole occidere un aitro, li spiriti se·lli infiammano aduosso. Li spiriti infiammati mutano l'airo secunno qualitate de quella collora accesa. L'airo mutato se continua colla perzona che deve essere offesa. Nella perzona che offesa deo essere staco li spiriti temperati secunno la connizione dello suonno, comprenno l'ira dello omo sopra de sé secunno alcuna specie, in tale specie o simile. Questa ène la rascione naturale la quale adduce lo filosofo. Dunqua non fu inconveniente se quello imperatore vidde in suonno l'arco de Attila rotto; ché per la morte de Attila l'airo mutao nello emisperio de parte in parte l'airo senza contradizzione, sì che pervenne allo spirito dello imperatore dormente. Ora voglio tornare alla materia. Puoi che lo profietto obedìo e assenao la rocca de Respampano, incontinente li fu rassenato in Maretima lo forte e opulente castiello de Cere, puoi Monticielli da priesso a Tivoli, Vitorchiano da priesso de Vitervo, la rocca de Civitavecchia canto mare, lo Piglio in Campagna e Puorto canto Tevere. Abbe allora alle soie mano le fortellezze, li passi e·lli ponti de Roma in tutto. Allora prese core e ordinao Ianni Colonna capitanio contra quelli de Campagna, se fussino rebelli, specialmente contra lo conte de Fonni, Ianni Gaietano; lo quale Ianni e li Campanini obediero. Lo profietto in segno de vera obedienzia mannao Francesco sio figlio per staio, moito onoratamente accompagnato. Allora Cola de Buccio de Braccia, uno potente che abita sopre le montagne de Riete, fuìo e aizao de la più corta longa da terra de Roma. Puoi fece in Campituoglio una moito bella cappella renchiusa con fierri stainati. Là drento faceva cantare solenne messa con cantori assai e moita illuminaria. Puoi se faceva stare denanti a sé, mentre sedeva, tutti li baroni in pede ritti colle vraccia piecate e colli cappucci tratti. Deh, como staievano paurosi! Avea questo una soa moglie moito iovine e bella, la quale, quanno iva a Santo Pietro, iva accompagnata da iovini armati. Delle patricie la sequitavano. Le fantesche colli sottili pannicielli 'nanti allo visaio li facevano viento e industriosamente rostavano, che soa faccia non fossi offesa da mosca. Avea un sio zio: Ianni Varvieri avea nome. Varvieri fu e fu fatto granne signore e fu chiamato Ianni Roscio. Iva a cavallo forte accompagnato da citatini romani. Tutti li suoi parienti ivano a pari. Avea una soa sorella vedova, la quale voize maritare a barone de castella. E fece officiali e renovao de essi onne rascione. Allora fama e paura de sì buono reimento passao in onne terra. De citate e terre moito lontane vennero a Roma perzone le quale accusaro; e quelli che appellaro e quelli che fuoro puniti no·llo pòtieri credere. Nella citate de Peroscia fu occuitamente occiso uno Iudio, ricchissimo usuraro, colla soa Iudea. Per lo tiempo la esecuzione fu trattata a Roma. Moiti offesi tiranniati delle citate de Toscana vennero a Roma e pregavano per Dio che·lli remettessi in loro case. Ad onne iente bene prometteva. Ora spessiano li forestieri e·lli alberghi so' repieni per la folla della moita forestaria. Le case abannonate se racconciavano. Nello mercato la moita iente curre. Li signori della Montagna, quelli de Malieti, Todino de Antonio, li quali de Roma soco sempre stati stranieri, tutti se rappresentano. In tiempo de tanta prosperitate, volenno essere solo signore, licenziao lo vicario dello papa, sio collega, lo quale fu uno oitramontano, granne decretalista e vescovo de Vitervo, benché de Avignone, dalli granni prelati, avessi le moite lettere e·lle moite ambasciate. Allora mannao uno ammasciatore allo papa significanno questo stato. Questo ammasciatore, puoi che fu tornato, disse che lo papa con tutti li cardinali forte dubitaro. Ora te conto le ammasciate ornate le quale ad esso venivano. Tutta Roma staieva leta, rideva, pareva tornare alli anni megliori passati. Venne la venerabile ammasciata e triomfale de Fiorentini, de Senesi, de Arezzo, de Tode, de Terani, de Spoleti, de Riete, de Amelia, de Tivoli, de Velletri, de Pistoia, de Fuligni, de Ascisci. Queste e moiti aitri uomini de spettata bontate, perzone posate, oneste, iudici, cavalieri, mercatanti, belli e facunni parlatori, uomini de sapienzia, facevano le ammasciarie. Tutte queste citati e communanze se offierzero allo buono stato. Le citati de Campagna, lo ducato, le terre dello Patrimonio se renniero. Sì non volenno essere sotto la Chiesia lo puopolo de Gaieta colla ammasciaria mannao dieci milia fiorini e offierzerose. Veneziani scrissero lettere seiellate collo seiello pennente de piommo, nelle quale offierzero allo buono stato le perzone loro e·llo avere. Missore Lucchino, lo granne tiranno de Milana, mannao una lettera, nella quale confortao lo tribuno a bene fare e allo buono stato e ammaiestravalo che cautamente sapessi domare li baroni. La maiure parte delli tiranni de Lommardia lo desprezzaro. Ciò fu missore Tadeo delli Pepoli de Bologna, lo marchese Obizo de Ferrara, missore Mastino della Scala de Verona, missore Filippino de Gonzaga de Mantova, li signori de Carrara de Padova, in Romagna missore Francesco delli Ordelaffi de Forlì, missore Malatesta de Arimino e moiti aitri tiranni, li quali, fatta laida e vituperosa resposta, auto più maturo consiglio, apparecchiavano de mannare sollenni ambasciate. Ludovico duce de Bavaria, ià imperatore, fi' dalla Alamagna mannao secreti ammasciatori e pregava per Dio che·llo accordassi colla Chiesia, ché non voleva morire scommunicato. Dello regno de Puglia li scrisse lo duca de Durazzo e offerivase. Nello soprascritto diceva: "Allo amico nuostro carissimo". Anco li scrisse missore Aloisi, principe de Taranto, e aitri regali. Da Ludovico re de Ongaria veniva una grossa ammasciata e onorata. Ià vennero li preventori delli ambasciatori e pregavano che·llo tribuno collo puopolo de Roma provedessi sopre la vennetta la quale se dovessi fare della cruda morte la quale fece lo re Antrea, re de Puglia, lo quale dalli baroni era stato appeso, como se dicerao puoi. Erano questi preventori della ambasciata doi perzone assai notabile, vestute de ricchi verdi forrati de vari con cappe alamanne. Quanno lo tribuno intese loro ammasciata, volennoli dare resposta, menaoli su nello parlatorio denanti a tutto lo puopolo. Era dìe sabato. Fatto era de alquanti iustizia. Allora se fece ponere in capo la corona tribunale, della quale io farraio menzione. Nella mano ritta teneva uno melo d'ariento colla croce. Allora favellao e disse: "Iudicaraio la rotonnitate delle terre in iustizia e li puopoli in ogualitate". Disse puoi: "Questi soco li ambasciatori delli Ongari, li quali demannano iustizia della morte dello aitro innocente re Antrea". Dalla reina Iuvanna, moglie dello re Antrea, infelice re, abbe lettere graziose, dalla quale medesima la tribunessa ne abbe cinqueciento fiorini e iole. Dallo santo patre apostolico lettere abbe che facessi bene. Da moiti prelati lettere abbe speciali che sapessi suiere le zinne della santa Chiesia como de pietosa e dolce matre. Ora Filippo de Vallois, re de Francia, lettera manna per uno arcieri. La lettera era scritta in vulgare; non era pomposa, ma era como lettera de mercatanti. Quanno la lettera fu ionta in Roma, lo tribuno era caduto de sio dominio, lo stato era rotto, donne fu assenata alli signori de Castiello Santo Agnilo, e Agnilo Malabranca, cancellieri de Roma, l'abbe in soie mano. Voglio alcuna cosa breviare delle magnifiche resposte le quale daieva. Venne a Roma l'ammasciata dello principe de Taranto. Tre fuoro li ammasciatori, uno arcivescovo dello ordine de santo Francesco, mastro in teologia, uno cavalieri a speroni d'aoro, uno iudice con bella compagnia, some e aitro arnese. Quanno li tre ammasciatori fuoro denanti allo tribuno, lo arcivescovo propuse queste paravole: "Misit viros renovare amicitiam ". Puoi se destese e disse como loro signore se alegrava moito de sì fatto stato. Puoi lo confortava. Puoi se offerìo. Puoi domannava che Romani fussino una con esso a contrariare allo re de Ongaria, lo quale veniva ad ardere e refocare lo reame de Puglia. Ditte queste paravole, lo ammasciatore fece fine. A queste paravole lo tribuno senza provisione alcuna respuse per questa via. In prima propuse così: "Sit procul a vobis arma et gladius. Terra marique sit pax ". Puoi disse: "Avemo alquanti populari, colli quali auto consiglio, a voi darremo resposta". Quanno lo frate, mastro in teologia, queste paravole abbe intese, subitamente esbauttìo sì forte che brevemente non sapeva que dicere. La cascione dello sio sbaottimento fu questa, che·lla resposta dello tribuno responneva alla proposta e ambedoi erano de un tiesto, poco da longa l'uno dall'aitro, nello livro de Maccabei. L'opera fu così. Iente straniera per forza entraro nello reame de Iudea. Li regali de Iudea forte resistenzia fecero. La guerra fu granne. Li campi non fuoro coitivati. La carestia era granne per la contrada. Non avevano foraggio. Convenne che Iudiei recurressino a Romani, colli quali avevano lega. Donne mannaro a Roma li ammasciatori per renovare questa amistanza, ca volevano aiuto e succurzo. Anco vennero e adomannaro grano per la carestia che aveano. In ciò adussero navi e addussero moneta assai. Romani respusero in una lettera, scrissero che essi ortavano non essere guerra in loro paese de Iudea e che pace li donassi Dio per terra e per mare. All'opera della annona li Romani caricaro le navi de grano e·lla moneta misero nelli sacchi, e sì mannaro lo grano e remannaro in reto la moneta. De ciò lo frate esbaottìo, ca penzao in sio animo: "Moito ène savio omo questo tribuno, moita scienzia sao, ché me hao respuosto per lo tiesto della Abibia in quella colonna dove stava la mea proposta. Certo moito sao, moita memoria e prodezza hao". Ora te voglio contare alcuna cosa della iustizia la quale questo faceva. Confesso che quelli che in Roma venno carne o pesce siano li peiori uomini dello munno; onne iente suoglio imbrattare. Allora dicevano nettamente: "Questa carne ène de peco, questa ène de crapa, questa ène sediticcia. Questo pesce ène buono, questo ène rio". Nettamente ciasche arte diceva la veritate. Fra li aitri ambasciatori uno monaco nero della citate de Castiello venne a Roma. Albergao in Campo de Fiore. Là, po' vespero, levato da cena non potéo trovare la cappa, la quale avea lassata fòra; era furata. Abbe lo monaco alquante paravole coll'oste. L'oste diceva: "Non me assenasti cappa". Non valenno lo turbare a trovare la cappa, lo monaco ne gìo denanti allo tribuno e disse: "Missore, io me pusi a cena. Lassai mea cappa de fore dallo albergo. Credeva che vostra signoria me·lla conservassi. Ora me ène furata. Non la pozzo reavere. Monaco sacrato so'. In gonnella ne vado leieri a muodo de sparvieri". A ciò respuse lo tribuno e disse: "Toa cappa salva ène". Mannao per panni. In quello stante li fece tagliare e cosire ricca cappa de quello panno de quello colore. Ora torna lo monaco moito contento allo albergo e disse: "Io non aio perduta cosa alcuna. Ecco la mea cappa". Lo notaro dello tribuno scrisse li confini dello luoco, e se·lla ruvina soa maturata non fussi, ne traieva più de milli fiorini. Nello terreno dello castiello de Crapanica fu derobato uno vetturale. Be·lli fu tuoito uno mulo e una soma de uoglio. Per bona fede lo conte Bertuollo, de cui era la signoria dello castiello, mannao per lo uoglio e per lo mulo fiorini trenta e quattrociento fiorini pacao per connannazione, ché male guardao lo paiese. Anco uno currieri li portao lettere. Dormenno in sio albergo de notte un aitro currieri lo ammazzao e toizeli soa moneta. Essenno lo malefattore preso, fu sotterrato vivo e de sopra da esso in una fossa fu messo lo occiso. Anche più bella questione della morte de re Antrea se devolveva a Roma. Li abocati da parte dello re de Ongaria e·lli abocati da parte della reina Iuvanna comparzero denanti alla banca dello iudice dello tribuno e questionavano. Li abocati dello re domannavano iustizia. Quelli della reina dicevano ca in la reina non fu alcuna colpa della morte de sio marito. L'aitra parte se mormorava della iniuria e con instanzia domannava vennetta. Le abocazioni dell'una parte e della aitra se mettevano in livro. Questa fu cosa magna de non poco onore. Ora te voglio contare como fu fatto cavalieri a granne onore. Puoi che lo tribuno vidde che onne cosa li succedeva prospera e che pacificamente, senza contradizzione, reieva, comenzao a desiderare l'onoranza della cavallaria. Dunqua fu fatto cavalieri bagnato nella notte de santa Maria de mieso agosto. La grannezza de questa festa fu per questa via. In prima apparecchiao alle nozze tutto lo palazzo dello papa con onne circustanzia de Santo Ianni in Laterano e per moiti dìi denanzi fece le menze da magnare delle tavole e dello lename delli renchiostri delli baroni de Roma. E fuoro stese queste menze per tutta la sala dello viecchio palazzo de Constantino e dello papa e lo palazzo nuovo, sì che stupore pareva a chi lo considerava. E fuoro rotti li muri delle sale donne venivano scaloni de leno allo scopierto per ascio de portare la cucina la quale là se coceva. E ad onne sala apparecchiao lo cellaro de vino nello cantone. Era la viilia de santo Pietro in Vincola. Ora era de nona. Tutta Roma, maschi e femine, ne vaco a Santo Ianni. Tutti se apparecchiano sopra li porticali per la festa vedere e nelle vie piubiche per vedere questo triomfo. Allora venne la moita cavallaria de diverze nazione de iente, baroni, populari, foresi a pettorale de sonaglie, vestuti de zannato, con banniere. Facevano granne festa, currevano iocanno. Ora ne viengo buffoni senza fine. Chi sona tromme, chi cornamuse, chi cerammelle, chi miesi cannoni. Puoi questo granne suono venne la moglie a pede colla soa matre. Moite oneste donne la accompagnavano per volerli compiacere. Denanti alla donna venivano doi assettati iovini, li quali portavano in mano uno nobilissimo freno de cavallo tutto 'naorato. Tromme d'ariento senza numero ora vedesi trommare. Po' questi venne gran numero de iocatori da cavallo, fra li quali Peroscini e Cornetani fuoro li più avanzarani. Doi voite iettaro loro vestimenta de seta. Puoi veniva lo tribuno e·llo vicario dello papa allato. Denanzi allo tribuno veniva uno lo quale portava in mano una spada nuda. Sopra lo capo un aitro li portava uno pennone. In mano portava una verga de acciaro. Moiti notabili erano in soa compagnia. Era vestuto con una gonnella bianca de seta miri candoris, inzaganata de aoro filato. La sera, fra notte e dìe, sallìo nella cappella de Bonifazio papa, favellao allo puopolo e disse: "Sacciate ca questa notte me dego fare cavalieri. Crai tornarete, ca oderete cose le quale piaceraco a Dio in cielo, alli uomini in terra". In tanta moititudine da onne parte era letizia. Non fu orrore, non arme. Doi perzone àbbero paravole. Adirati trassero le spade. 'Nanti che colpo menassino le tornaro in loro guaine. Onneuno vao in soa via. Delle citate vicine a questa festa vennero li abitatori, che più è, li veterani e·lle poizelle, vedove e maritate. Puoi che onne iente fu partuta, allora fu celebrato uno solenne officio per lo chiericato. E po' lo officio entrao nello vagno e vagnaose nella conca dello imperatore Constantino, la quale ène de preziosissimo paragone. Stupore ène questo a dicere. Moito fece la iente favellare. Uno citatino de Roma, missore Vico Scuotto cavalieri, li cenze la spada. Puoi se adormìo in uno venerabile lietto e iacque in quello luoco che se dice li fonti de Santo Ianni, drento dallo circuito delle colonne. Là compìo tutta quella notte. Ora odi maraviglia. Lo lietto e·lla lettiera nuovi erano. Como venne lo tribuno a sallire a lietto, subitamente una parte dello lietto cadde in terra et sic in nocte silenti mansit. Fatta la dimane, levase su lo tribuno vestuto de scarlatto con vari, centa la spada per missore Vico Scuotto, con speroni d'aoro, como cavalieri. Tutta Roma, onne cavallaria, ne vao a Santo Ianni, anco li baroni e foresi e citadini per vedere missore Nicola de Rienzi cavalieri. Faose granne festa, faose letizia. Staieva missore Nicola como cavalieri ornato nella cappella de Bonifazio papa sopra la piazza con solenne compagnia. Là se cantava solennissima messa. Non ce mancao cantore, non apparato de ornamento. Mentre che tale solennitate se celebrava, lo tribuno se fece 'nanti allo puopolo, mise gran voce e disse: "Noi citemo missore papa Chimento che a Roma venga alla soa sede". Puoi citao lo colleio delli cardinali. Anco citao lo Bavaro. Puoi citao li elettori dello imperio in la Alamagna e disse: "Voglio che questi vengano a Roma. Voglio vedere che rascione haco nella elezzione"; ca trovava scritto che, passato alcuno tiempo, la elezzione recadeva a Romani. Fatta tale citazione, prestamente fuoro apparecchiate lettere e currieri e fuoro messi in via. Puo' questo trasse fòra della vaina la soa spada e ferìo lo aitare intorno in tre parte dello munno e disse: "Questo è mio, questo è mio, questo è mio". Era là presente a queste cose lo vicario dello papa. Stava como leno idiota. Non sentiva, ma stupefatto de questa novitate contradisse. Abbe un sio notaro e per sentenzia piubica se protestao e disse ca queste cose non se facevano de soa voluntate, anco senza soa coscienzia e licenzia de papa; e de ciò pregao lo notaro che ne traiessi piubico instrumento. Mentre che lo notaro gridanno ad aita voce queste protestazioni allo puopolo faceva, commannao missore Nicola che tromme, trommette, naccari e ceramelle sonassino, che per lo maiure suono la voce dello notaro non se intennessi. Lo maiure suono celava lo minore. Viziosa buffonia! Fatta questa cosa, la messa e soa solennitate finita fu. Intienni una cosa notabile. Continuamente in quello dìe, dalla dimane nell'alva fi' a nona, per le nare dello cavallo de Constantino, lo quale era de brunzo, per canali de piommo ordinati iessìo vino roscio per froscia ritta e per la manca iessìo acqua e cadeva indeficientemente in la conca piena. Tutti li zitielli, citatini e stranieri, li quali avevano sete, staievano allo torno, con festa vevevano. Puoi che palesato fu che vagnato era nella conca de Constantino e che citato avea lo papa, moito ne stette la iente sospesa e dubiosa. Fu tale che lo represe de audacia, tale disse che era fantastico, pazzo. Ora ne vaco allo solennissimo pranzo de varietate de moiti civi e nuobili vini signori e donne assai. Sedéo missore Nicola e·llo vicario dello papa soli alla tavola marmorea - menza papale ène - nella sala de Santo Ianni, la vecchia. Tutta quella sala fu piena de menze. La moglie colle donne manicao nella sala dello palazzo nuovo dello papa. In questo pranzo fu maiure carestia de acqua che de vino. Chi voize stare allo pranzo stette. Non ce fu ordine alcuno. Abbati, chierichi, cavalieri, mercatanti e aitra iente assai. Confietti de divisate manere. Funce abunnanzia de storione, lo pesce delicato, fasani, crapetti. Chi voleva portare lo refudio, portava liberamente. A tale convito fuoro li ammasciatori li quali ad esso erano venuti de diverze parte. Mentre lo manicare se faceva, senza li aitri buffoni moiti, fu uno vestuto de cuoro de vove. Le corna in capo avea. Vove pareva. Iocao e saitao. Fornito lo pranzo, cavalca missore Nicola de Rienzi a Campituoglio, vestuto de scarlatto con vari, con granne cavallaria. Non lassaraio quello che ordinao nella soa salluta. Fece una cassa con uno forame de sopre quanno in prezzo, puoi devenne in vilitate. Anche se fece uno capelletto tutto de perne, moito bello, e su nella cima staieva una palommella de perne. Questi divierzi vizii lo fecero tramazzare e connusserollo in perdimento per questa via. Uno dìe convitao a pranzo missore Stefano della Colonna lo vegliardo, della cui bontate ditto ène de sopre. Como fu ora de pranzo, così lo fece menare per forza in Campituoglio e là lo retenne. Puoi fece menare Pietro de Agabito, signore de Iennazzano, lo quale fu prepuosto de Marziglia e allora era senatore de Roma. Anco fece menare per forza Lubertiello, figlio dello conte Vertollo, lo quale era senatore. Anco questi doi senatori fece menare a Campituoglio como fussino latroncielli. Anco retenne lo prosperoso iovine Ianni Colonna, lo quale alli pochi dìi avea fatto capitanio sopra Campagna. Anco retenne Iordano delli Orsini dello Monte, anco missore Ranallo delli Orsini de Marini. Retenne Cola Orsino, signore dello Castiello Santo Agnilo. Retenne lo conte Vertollo, missore Orso de Vicovaro delli Orsini e moiti aitri delli granni baroni de Roma. Non abbe Luca de Saviello né Stefano della Colonna né missore Iordano de Marini. Li sopraditti baroni abbe in sia destretta presone lo tribuno, sotto guardia, e tenneli sotto spezie de tradimento, dannoli ad intennere ca se voleva consigliare con essi, ad alcuni per pranzare. Venuta la sera, li populari romani moito biasimavano la malizia delli nuobili e magnificavano la bontate dello tribuno. Allora missore Stefano lo veglio mosse una questione: quale era meglio ad un rettore de puopolo, l'essere prodigo overo avaro? Moito fu desputato sopra ciò. Dopo tutti missore Stefano, presa la ponta della nobile guarnaccia dello tribuno: "Per ti, tribuno, fora più convenevole che portassi vestimenta oneste de vizuoco, non queste pompose". E ciò dicenno li mostrao la ponta della guarnaccia. Questo odenno Cola de Rienzi fu turbato. La sera era. Fece stregnere tutti li nuobili e feceli aiognere guardie. Missore Stefano lo veterano fu renchiuso in quella sala dove se fao lo assettamento. Tutta la notte stette senza lietto. Annava de là e de cà, toccava la porta, pregava le guardie che·lli operissino. Le guardie non lo scoitavano. Crudele cosa fatta li fu in tutta quella notte senza pietate. Ora se fao dìe. Lo tribuno avea deliverato de troncare la testa ad onneuno nello parlatorio per liberare del tutto lo puopolo de Roma. Commannao che lo parlatorio fussi parato de panni de seta de colori rosci e bianchi, e fatto fu. Ciò fece in segnale de sangue. Puo' fece sonare la campana e adunao lo puopolo. Puoi mannao lo confessore, cioène uno frate minore, a ciasche barone, che se levassino a penitenza e prennessero lo cuorpo de Cristo. Quanno li baroni sentiero tale novella una collo stormo della campana, deventaro sì ielati che non potevano favellare, non sapevano que·sse fare. La maiure parte se umiliao e prese penitenza e communione. Missore Ranallo delli Orsini e alcuno aitro, perché la dimane per tiempo avevano manicate le ficora fiesche, non se potiero communicare. Missore Stefano della Colonna non se voize confessare né communicare. Diceva che non era apparecchiato, né soie cose aveva despenzate. Intanto alcuni citatini romani consideranno lo iudicio che questo voleva fare, impedimentierolo con paravole dolci e losenghevile. Alla fine ruppero lo tribuno in soa opinione e levarolo de proponimento. Era ora de terza. Tutti li baroni como dannati, tristi, descesero ioso allo parlatorio. Sonavano le tromme como se volessino iustiziare li baroni denanti allo puopolo. Lo tribuno, mutato dello sio proponimento, sallìo nella aringhiera e fece uno bello sermone. Fonnaose nello paternostro:"Dimitte nobis debita". Puoi scusao li baroni e disse ca volevano essere in servizio dello puopolo, e pacificaoli collo puopolo. Ad uno ad uno inchinaro lo capo allo puopolo. Alcuni de loro fece patrizii, alcuni fece profietti sopra la annona, alcuni duca de Toscana, alcuni duca de Campagna. E deo a ciascheuno una bella robba forrata de varo, adorna, uno confallone tutto de spiche de aoro. Puoi li fece pranzare con esso e cavalcao per Roma e menaoselli dereto. Puoi li lassao ire in loro viaii salvi. Questo fatto moito despiacque alli descreti. Disse la iente: "Questo hao acceso lo fuoco e·lla fiamma la quale non porrao spegnere". E io li dico questo proverbio: "Chi vole pedere, puoi culo stregnere, fatigase la natica". Vengote a dicere in que muodo fu assediato lo castiello de Marini. Puoi che li baroni fuoro lassati, non curaro de compagnia. Vacone fòra de Roma alle loro fortellezze. Fra dienti menacciavano. Non era accottiante alcuno comenzare la varatta con Romani. Fra tanto Colonnesi e·lli signori de Marini, missore Ranallo e missore Iordano, fortificavano le loro fortellezze. Secretamente faco una iura. Mustrano ca voco rebellare. Fortificano Marini e renovano lo fossato intorno. Menano uno forte steccato de doppie lena. Tanta fu la pascia dello tribuno, che ciò non sappe vetare. Non se parao allo principio. Aspettao fi' che lo castiello fu forte guarnito. Fra tanto questo tribuno deventao iniquo. Moita iente de esso se mormorava. Puoi che lo castiello de Marini bene fu inforzato, guarnito de saiette, lance e uomini, vettuaglia e mura, lename e vino, la rebellione se scoperze. Folli mannato lo editto che comparessi. Allo messaio fuoro fatte non meno de tre ferute in capo, là fra le vigne de Marini. Puoi essivano fòra de Marini e onne dìe predavano li campi de Roma. Menavano vuovi, pecora, puorci, iumente. Tutto connucevano a Marini. Ora vedese per Roma sciliare de gote. Onne perzona lagnata strilla. Rancore e paura nasco. Un'aitra voita lo tribuno li citao e commannao che venissino a Roma a pede sotto pena dello sio furore. Puoi commannao che fussino penti missore Ranallo e missore Iordano 'nanti allo palazzo de Campituoglio como cavalieri, collo capo de sotto retrosi e·lli piedi de sopra. Perciò peio ne fao missore Iordano. Curreva fi' a porta de Santo Ianni e prenneva uomini e femine, armenti de vestie. Onne cosa ne porta a Marini. Missore Ranallo, lo frate, ne passao de·llà dallo Tevere e entrao nella citate de Nepe e curreva de·llà e de cà ardenno e predanno. Ardeva terre. Arze la castelluzza, case e uomini. Non se schifao de ardere una nobile donna vedova veterana in una torre. Per tale crudelitate li Romani fuoro più irati. Moito haco conceputo contra missore Ranallo e missore Iordano. Non pare opera da gabe. La perverza mente de Romani fu contra Colonnesi. Era allora le vennegne. L'uva era matura. La iente la pistava. Allora lo tribuno adunao tutto lo puopolo armato e trasse fòra l'oste de Roma e iessìo fòra sopre lo castiello de Marini e locao sio esercito in uno luoco lo quale se dice la Maccantregola. Valle ène sotto una selva, longa dallo castiello forza un miglio. L'oste fu bella, grossa e potente, de pedoni e de cavalieri. Fuoro pedoni da vinti milia, cavalieri da ottociento. Era lo tiempo forte corocciato e piovoso per tale via, che impacciava l'oste. Non li lassava fare guasto alcuno. Alla fine, in spazio forze da otto dìi, guastaro tutto ciò che era intorno allo castiello de Marini. Tutto depopularo lo sio terreno. Tagliaro vigne, arbori; arzero mole; scaizaro la nobile selva non toccata fi' a quello tiempo. Onne cosa guastaro. Per anni quello castiello non fu tale né tanto. Puoi trassero delli arnari preda secunno che se potéo. Tutta Roma iaceva là. In questi dìi sopravenne a Roma uno cardinale; legato era de papa. Questo legato infestava tuttavia con lettere che·llo tribuno tornassi a Roma, ca·lli voleva alcuna cosa rascionare. Allora lo tribuno, fatto lo guasto, una dimane per tiempo levao campo e annao sopra la castelluzza, poco da longa da Marini. Sùbito la prese, e instanti fuoro dati per terra li muri intorno. Ià voleva commattere la rocca e la torre rotonna, dove se era redutta la fantaria. E per espugnare quella torre avea fatto fare doi castella de lename, le quale se voitavano sopra rote. Avea scale e artificii de lename. Mai non vedesti sì belli ignegni. Apparecchiava picchioni e aitri instrumenti. Moite ammasciate recipéo in quello luoco. Curreva de·llà una acquicella. In quella acquicella vagnao doi cani e disse ca erano Ranallo e Iordano cani cavalieri. Puoi guastao la mola. Puoi mosse tutta soa oste e tornao a Roma, perché le lettere dello legato infrettavano. La matina per tiempo deo per terra le belle palazza in pede de ponte de Santo Pietro, in fronte de Santo Cieizo. Puoi ne ìo con soa cavallaria a Santo Pietro. Entrao la sacristia e sopra tutte le arme se vestìo la dalmatica de stati de imperatore. Quella dalmatica se viesto li imperatori quanno se incoronano. Tutta ène de menute perne lavorata. Ricco ène quello vestimento. Con cutale veste sopra l'arme a muodo de Cesari sallìo lo palazzo dello papa con tromme sonanti e fu denanti allo legato, soa bacchetta in mano, soa corona in capo. Terribile, fantastico pareva. Quanno fu pervenuto allo legato, parlao lo tribuno e disse: "Mannastivo per noa. Que ve piace de commannare?" Respuse lo legato: "Noa avemo alcune informazioni de nuostro signore lo papa". Quanno lo tribuno ciò odìo, iettao una voce assai aita e disse: "Que informazioni so' queste?" Quanno lo legato odìo sì rampognosa resposta, tenne a si e stette queto. Deo la voita in reto lo tribuno e fao guerra contra Marini, Marini contra Romani. Ora te vengo a contare como Colonnesi fuoro sconfitti in Roma. La guerra era forte. Li citatini de Roma parevano forte affannati della fatica e dello desciascio e dello danno. Lo tribuno non pacava li sollati como soleva. Granne bisbiglio per la citate era. Li cavalerotti de Roma scrissero lettere a Stefano della Colonna, che venissi con iente, ca·lli volevano aperire la porta. Li Colonnesi fecero la adunata in Pellestrina, numero de setteciento cavalieri, pedoni quattro milia. Per forza voco tornare a Roma. Moiti baroni so' nella iura con essi. Granne apparecchio se fao in Pellestrina. E per tornare a Roma daievano dolce resposta ca volevano venire alle loro case. De questa adunanza lo tribuno forte spaventao e deventao como fussi infermo, matto. Non prenneva civo né dormiva. Una dimane tiempori, 'nanti alla sconfitta forze tre dìi, parlao allo puopolo e confortaolo e fra le moite paravole disse: "Sacciate ca in questa notte me ène apparzo santo Martino, lo quale fu figlio de tribuno, e disseme:"Non dubitare, ca tu occiderai li nimici de Dio"". L'aitra dimane sequente, de notte moito tiempori, sonao soa campana a stormo. Adunao lo puopolo tutto armato. Assettato parlao e disse: "Signori, facciove asapere ca in questa notte me apparze santo Bonifazio papa e disseme che oie in questo dìe farremo vennetta delli suoi nimici colonnesi, li quali sì laidamente vituperaro la Chiesia de Dio". Puoi disse: "Aio uno figlio - Lorienzo hao nome - que verrà con meco alla vattaglia contra li traditori dello puopolo e contra li periuri". Puoi disse: "Sapemo per le spie nostre ca questa iente ène venuta e posata appriesso alla citate a quattro miglia in uno luoco che se dice Monimento. Donne ène vero segnale che non solamente serraco sconfitti, anco serraco occisi e sepelliti nello Monimento". E ditto questo, fece sonare tromme, ceramelle e naccari, e ordinao le vattaglie e fece li capitanii delle vattaglie, e deo lo nome"Spirito Santo cavalieri". Ciò fatto, quetamente, senza romore, colle legione, ordinati da pede e da cavallo, se ne vaco a porta Santo Lorienzo, la quale hao nome porta Tevertina. Delli baroni fuoro collo puopolo Iordano delli Orsini, Cola Orsino de Castiello Santo Agnilo, Malabranca cancellieri della Poscina, Matteo figlio dello cancellieri, Lubertiello figlio dello conte Vertollo, moiti aitri. Non voglio lassare lo muodo che servao lo tribuno dello profietto 'nanti la sconfitta. Lo tribuno mannao per lo profietto. Lo profietto volenno obedire venne con ciento cavalieri per essere alla vattaglia in servizio de Romani. Da XV baronetti de Toscana aveva con seco menati. Anco avea menato sio figlio Francesco. Quella fu la prima voita que arme portao. Denanti a sé mannao cinqueciento some de grano per grascia, como se conveo a profietto. Erase sforzato de compiacere a Romani. Como fu ionto, fu invitato a pranzo. Sedenno, li fu tuoito le arme a si e alli suoi compagni. Puoi fu messo in presone esso e·llo figlio. Lo arnese e·lli cavalli li fu tuoito e dati per Romani. E fece uno parlamento lo tribuno allo puopolo, nello quale disse lo tribuno: "Non ve maravigliate che io tengo in presone lo profietto, ca esso era venuto per ferire da costa e per sconfiere lo puopolo de Roma". Ora torno alla vattaglia. Colonnesi se muossero con granne esfuorzo da Monimento dalla mesa notte e connusserose allo munistero de Santo Lorienzo fòra le mura. Era lo tiempo rencrescevile per la piovia e per lo aspero freddo. Adunarose li baroni, Stefano della Colonna, Ianni sio figlio, Pietro de Agabito, lo quale era stato prepuosto de Marzilia, signore de Iennazzano, missore Iordano de Marini, Cola de Buccio de Braccia, Sciarretta della Colonna e moiti aitri. Vennero a consiglio de que devessino fare, perché Stefano era infestato da un vomaco e tremava como fronne. Pietro de Agabito, essenno un poco affannato, sonnato se aveva de vedere la soa donna vedova che piagneva e sciliavase. Per paura de tale suonno se voleva da l'oste assentare. Non se voleva trovare alla rotta. Anco odivano sonare la campana a stormo. Sapevano che lo puopolo forte irato era e corocciato. Anco perché Stefano della Colonna, capitanio de tutta l'oste generale, como ionze là denanti a tutti, la prima cosa, solo con un fante, a cavallo a un palafreno ne gìo alla porta de Roma e comenzao a chiamare ad aita voce la guardia a nome. Pregava che operissi la porta. Adduceva queste rascioni: "Io so' citatino de Roma. Voglio a casa mea tornare. Vengo per lo buono stato". Portava lo confallone della Chiesia e dello puopolo. A queste paravole respuse la guardia della porta - Pavolo Bussa avea nome lo buono valestrieri - e disse: "Quella guardia che chiamate qua non stao. Le guardie so' mutate. Io so' venuto de nuovo qua con miei compagni. Voi non potete entrare qua per via alcuna. La porta ène inzerrata. Non conoscete quanta ira hane lo puopolo de voi che turbate lo buono stato? Non odite la campana? Pregove per Dio, partiteve. Non vogliate essere a tanto male. In segno che voi non pozzate entrare ecco che ietto la chiave de fòra". Iettao la chiave, e cadde in una pescolla d'acqua la quale staieva de fòra per lo malo tiempo che era. Quanno li baroni, staienno in consiglio, avessino recitate tutte queste cose, bene viddero che entrare non potevano. Deliveraro de partirese ad onore, fatte tre schiere, ordinati venire fi' alla porta denanti de Roma, le sonante tromme e aitri instrumenti, e dare la voita a mano ritta, tornare a casa con granne onore. Così fu fatto. Ià ne erano venute doi vattaglie, la prima e·lla secunna, sì della pedonaglia sì della cavallaria. Petruccio Fraiapane fu lo connuttore. Sonate le tromme alla porta, diero la voita a mano ritta e senza lesione alcuna tornaro. Ora ne veniva la terza schiera. In questa era la moititudine della cavallaria, erance la nobile iente, eranonce li prodi e bene a cavallo e tutta la fortezza. Uno vanno fu 'nanti messo, che nullo ferisse sotto pena dello pede. Li primi feritori fuoro da otto nuobili baroni, fra li quali fu lo desventurato Ianni Colonna. Questi nuobili primi feritori 'nanti ivano ad onne moititudine uno buono spazio. Era allora l'alva dello dìe. Li Romani drento dalla porta, non avenno la chiave, per forza opierzero la porta per iessire alla varatta. Granne romore fao lo ferire delle accette. Granne ène la confusione dello strillare. La porta ritta fu operta, la manca remase enzerrata. Ianni Colonna, approssimannosi alla porta, considerao lo romore drento, considerao lo non ordinato aperire, estimao che suoi amici avessino muosso drento romore e che avessino rotta la porta per forza. Questo considerato Ianni Colonna sùbito se imbraccia lo pavesotto con una lancia alla cossa, speronao lo sio destriero. Adorno como barone, forte currenno non se retenne, entrao la porta della citate. Deh, como granne paura fece allo puopolo! Allora denanti a esso deo la voita a finire tutta la cavallaria de Roma. Similemente tornao a reto tutto lo puopolo fuienno quasi per spazio de mesa valestrata. Non per tanto questo Ianni Colonna fu sequitato dalli suoi amatori, anco remase solo là como fussi chiamato allo iudicio. Allora Romani presero vigore intennenno che esso era solo. Anco fu più la soa desaventura. Lo destrieri lo trasportao in una grotta poco più de·llà dalla porta, dallo lato manco entranno la porta. In quella grotta fu scavalcato da cavallo e, conoscenno sia desaventura, domannava allo puopolo misericordia e adiurava per Dio che soie armature no·lli dispogliassino. Que vaio più dicenno? Là fu denudato e, datoli tre ferute, morìo. Fonneruglia de Treio fu lo primo che lo colpiao. Iovine era de bona industria, varva non avea messa. La soa fama sonava per onne terra de vertute e de gloria. Iace nudo, supino, feruto, muorto, in uno monteruozzo canto allo muro della citate drento dalla porta. Erano suoi capelli caricati de loto. A pena se poteva conoscere. Ora vedi maraviglia! Incontinente lo tiempo pestilenziale, turvato, se comenzao a reschiarare. Lo sole daieva lucienti raii. De tiempo caliginoso fu fatto sereno e alegro. Intanto Stefano della Colonna in tanta moititudine la quale ordinatamente veniva denanti alla porta teneramente domannao dello sio figlio Ianni. Respuosto li fu: "Noi non sapemo que aia fatto, dove sia ito". Allora sospettao Stefano che avessi entrata la porta. Perciò speronao e solo la porta entrao e vidde che lo sio figlio iaceva in mieso de moiti in terra li quali lo occidevano fra la grotta e·llo pantano della acqua. De ciò, temenno della soa perzona, tornao a reto, iessìo la porta. La mente razionale lo abannonao, fu smarrito. Lo amore dello figlio lo convenze. Non fece paravola alcuna, anco tornao e entrao la porta se per via alcuna poteva lo sio figlio liberare. Non se approssimao, ca conubbe che muorto era. Intenneva a campare la perzona. Tornava in reto tristo. Nello iessire che faceva della porta, venne de sopra dallo torriciello una grossa macina e percosse esso nelle spalle e·llo cavallo nella groppa. Ora lo sequitano le lance lanciate de·llà e de cà. Lo cavallo, feruto nello pietto de lancia, iettava caici, e sì spesso che, non potennose mantenere a cavallo, cadde per terra. Veo lo puopolo senza rascione e sì·llo occide in fronte della porta, in quello luoco dove stao la maine nello parete, in mieso alla strada. Là iacque nudo in veduta ad onne puopolo, a chi passava. Non aveva uno delli piedi. Moite ferute avea. Fra lo naso e·lli uocchi avea una feruta e sì terribile opertura, che pareva lo guado delle gote dello lopo. Lo sio figlio Ianni abbe sole doi ferute nello pettignone e nello pietto. Ora iesse lo puopolo furioso senza ordine, senza leie; cerca a chi dea morte. Scontraro li iovini Pietro de Agabito della Colonna che dereto fu prepuosto de Marzilia, lo quale chierico fu. Mai vestute non se aveva arme se non allora. Era caduto da cavallo. Non poteva liberamente annare, perché la terra era scivolente. Fugìose in una vigna vicina. Calvo era e veterano. Pregava per Dio che perdonassino. Non vaize lo pregare. In prima li tuoizero soa moneta, puoi lo desarmaro, puoi li tuoizero la vita. Stette in quella vigna nudo, muorto, calvo, grasso. Non pareva omo da guerra. Appriesso da esso in quella vigna iaceva un aitro barone delli signori de Bellovedere. Fuoro de muorti in poco de spazio da dodici. Alla supina iacevano. Tutta l'aitra moititudine, sì de pedoni sì de cavalieri, lassano l'arme de·llà e de cà senza ordine con granne paura. Non se voitavano capo dereto. Non fu chi daiessi colpo. Missore Iordano levao la fronnosa, non se retenne fi' a Marini. Sconfitta fu onne moititudine. Abattuti fuoro li nimici e iacquero muorti in terra, in veduta delli passanti e de onne puopolo, quelli li quali fuoro senatori illustri si' ad ora nona. Da vero che·llo stennardo dello tribuno gìo per terra. Lo tribuno sbaottito staieva colli uocchi aizati a cielo. Aitra paravola non disse se non questa: "Ahi Dio, haime tu traduto?" Puoi che·lla vittoria fu per lo puopolo, lo tribuno fece sonare soie tromme de ariento e con granne gloria e triomfo recoize lo campo e pusese in capo la soa corona de ariento de fronni de oliva e tornao con tutto lo puopolo triomfante a Santa Maria dell'Arucielo e là rassenao la verga dello acciaro e·lla corona della oliva alla Vergine Maria. Denanti a quella venerabile maine appese la bacchetta e·lla corona in casa delli frati minori. Da puoi mai non portao bastone né corona né confallone sopra capo. Po' questo parlao allo puopolo in parlatorio e disse ca voleva convertere la spada nella guaina. E trasse la spada e sì·lla forviva colle vestimenta soie e disse: "Aio mozzato recchia da tale capo che non lo potéo tagliare papa o imperatore". Quelle tre corpora fuoro portate in Santa Maria delli frati, copierti de palii de aoro, nella cappella de Colonnesi. Vennero le contesse con moititudine de donne scapigliate per ululare de sopra li muorti, cioè sopra le corpora de Stefano, Ianni e Pietro de Agabito. Lo tribuno le fece cacciare e non voize che·lli fussi fatto onore né esequio e disse: "Se me faco poco de ira quelle tre corpora maladette, facciole iettare nello catafosso delli appesi, ca soco periuri, non soco degni de essere sepelliti". Allora queste tre corpora fuoro secretamente de notte portate nella chiesia de Santo Silviestro dello Capo e là senza ululato fuoro sepellite dalle monache. Qui voglio un poco delongare dalla materia. Scrive lo faconno recitatore Tito Livio che de Africa se mosse uno capitanio, lo megliore che mai fusse nello munno: Aniballo de Cartaine abbe nome. Questo Aniballo ruppe la pace a Romani e desfece la citate de Sagonza in Spagna a despietto e onta dello senato de Roma. Puoi passao l'Alpi de cà in Pedemonti e venne in Lommardia, e là sconfisse Sempronio consolo de Roma ad uno fiume che se dice Tesino, canto Pavia. Puoi ne venne in Toscana e là, allo laco de Peroscia, sconfisse lo esercito de Roma e tagliao la testa a Fiaminio consolo. Puoi voize commattere Spoleti e no·llo potéo avere. Puoi deo la voita in Campagna a Montecasino, e là li venne alla frontiera Fabio lo saputo con granne oste e tennelo ad abaio anni tre. Po' li tre anni fuoro mutati li capitanii. Fabio fu casso. Li capitanii fuoro doi: per li nuobili fu capitanio Emilio Pavolo, per li populari fu capitanio Terenzio Varro. Lo sapere e·lla industria de Aniballo fu tanta che levao questi doi capitanii dalli piedi loro e connusseli con onne loro potenzia de cavalieri e de pedoni fi' in Puglia ad uno fiume lo quale se dice Volturno. E là sconfisse lo puopolo de Roma, sconfisse doi osti. Là morìo uno delli imperatori, Emilio Pavolo. Fuoronce muorti ottanta senatori. Morìoce Servilio, lo quale l'anno passato era stato consolo. Morieronce tribuni e bona iente assai. Morieronce quarantaquattro migliara de pedoni. Morieronce otto milia e ottociento cavalieri. Dieci milia fuoro li presonieri. Fonce guadagnata robba infinita, cavalli e arme, aoro e ariento. Li freni e·lle coperte delli cavalli de Romani erano tutte de aoro lavorate. Roma fu terribilemente vedovata. Fatta cotale sconfitta, era ora tarda, calava lo sole. Aniballo vittorioso staieva forte alegro. Li principi dell'oste soa li fecero intorno rota e facevanolli festa e alegrezza dello triomfo che avea in tale dìe. Puoi li domannaro de grazia che quella notte e·llo dìe sequente daiessi posa a si e alla soa cavallaria, perché erano lassi e stanchi. Staieva fra questi principi uno prodissimo omo, lo quale avea nome Maharbal. Questo era duca e connucitore della cavallaria. Fecese 'nanti Maharbal e disse queste paravole: "Aniballo, la opinione mea non è che tu dei posa né a ti né alli tuoi cavalieri. Vòi tu sapere que hai guadagnato oie in questa sconfitta? De qui a cinque dìi tu vincitore manicarai e farrai festa in Campituoglio se senza demoranza esequisci la toa fortuna. Dunque lo posare non fao per ti. Muovi tuoi cavalieri e toie masnate, non li dare posa. Passemone a Roma. Roma trovaremo desfornita colle porte aperte. Serrai signore a queto. Meglio è che Romani dicano:"Aniballo è venuto" che:"Aniballo deo venire"". A queste paravole Aniballo respuse e disse: "Maharbal, io moito laodo la toa bona voluntate, ma la notte hao consiglio. Vogliomene alquanto penzare e consigliare". Respuse Maharbal e disse: "Aniballo, Aniballo, tu sai con tuoi ignegni vencere, ma non sai usare la vettoria". Dunque dice Tito Livio: "Quella demoranza fu salutifera allo puopolo de Roma, ca liberao Romani da servitute e retrasse lo imperio de mano de Africani, alli quali decadeva". Ora allo preposito, se Cola de Rienzi tribuno avessi sequitata la soa vittoria, avessi cavalcato a Marini, prenneva lo castiello de Marini e desertava in tutto missore Iordano, che mai non levava capo, e·llo puopolo de Roma fora remaso in libertate senza tribulazione. Vengote a dicere como lo tribuno cadde dalla soa signoria. La dimane po' la sconfitta fuoro chiamati tutti li cavalieri romani, li quali appellava"sacra milizia", e disseli: "Vogliove dare la paca doppia. Vengate con meco". Non sapeva alcuno que volessi fare. Sonanno le tromme, gìo a quello luoco dove fu fatta la sconfitta. Menao seco un sio figlio Lorienzo. Nello luoco dove fu muorto Stefano remase una pescolla de acqua. Ionto, fece scavalcare lo figlio e asperzeli sopra l'acqua dello sangue de Stefano in quella pescolla e disse: "Serrai cavalieri della vittoria". Maravigliatisi tutti li aitri, anco stordienti, commannao che·lli conestavili da cavallo ferissino lo figlio piattoni colle spade là dallo lommo. Questo fatto, tornao a Campituoglio e disse: "Iate la via vostra. Opera commune ène quella che avemo fatta. Avemo tutti sire romani. A noi e a voi spettao pugnare per la patria". Questo ditto forte turbao l'animo delli cavalieri. Da puoi mai non voizero arme portare. Allora lo tribuno comenzao ad acquistare odio. La iente ne sparlava e diceva ca soa arroganzia era non poca. Allora comenzao terribilemente deventare iniquo e lassare le vestimenta della onestate. Vestiva panni como fussi uno asiano tiranno. Ià mustrava de volere tiranniare per forza. Ià comenzao a tollere delle abadie. Ià prenneva chi pecunia aveva e tollevala. A chi l'aveva imponevali silenzio. Sì spesso non faceva parlamento per la paura che avea dello furore dello puopolo. E prese colore e carne e meglio manicava, meglio dormiva. Allora lassao lo profietto, perché non era sano della perzona; tenne in staio lo figlio. Allora li puopoli lo comenzaro ad abannonare e·lli baroni, e non tanti tanti ivano a corte per la rascione como solevano. Allora impuse la data dello sale; voleva pecunia per sollati. Nientedemeno missore Iordano de Marini non cessava de infestare onne dìe, e prenneva e derobava la iente. De presure se mormorava. Era lo tiempo dello autunno, là dopo le vennegne. Lo grano era caro, valeva lo ruio sette livre de provesini. Questo tolleva la pecunia a chi l'aveva. Missore Iordano predava. Lo puopolo male se contentava. Lo legato cardinale, dello quale de sopra ditto ène, lo maledisse e iudicaolo per eretico. Puoi compuse colli signori, cioène con Luca Saviello, Sciarretta della Colonna, e davali in tutto favore. Allora le strade fuoro chiuse. Li massari delle terre non portavano lo grano a Roma. Onne dìe nasceva uno romore. Era in quello tiempo in Roma uno conte cacciato dallo regno: aveva nome missore Ianni Pepino, paladino de Aitamura, conte de Minorvino. Questo paladino demorava in Roma, perché soie grannie e boganze non potevano patere li regali de Napoli. Cum familia sua degebat Rome. Missore lo conte paladino in quello tiempo fece iettare una sbarra in Colonna. Esso fu lo capo della rottura drento de Roma. La sbarra fu iettata sotto l'arco de Salvatore in Pesoli. Una notte e uno dìe sonao a stormo la campana de Santo Agnilo Pescivennolo. Uno Iudio la sonava. Non ce traieva alcuno a rompere questa sbarra. Lo tribuno sùbito mannao per defesa una banniera da cavallo là a quella sbarra. Uno conestavile, lo quale avea nome Scarpetta, commattenno cadde muorto, feruto de lancia. Quanno lo tribuno sappe che Scarpetta era muorto e che·llo puopolo non traieva allo sio stormare, consideranno la campana de Santo Agnilo Pescivennolo sonare, sospirava forte tutto raffredato, piagneva, non sapeva que se facessi. Sbaottito e annullato lo sio core, non avea virtute per uno piccolo guarzone. A pena poteva favellare. Estimava che in mieso la citate li fussino puosti li aguaiti; la quale cosa non era, perché nullo se palesao rebello. Non era chi se levassi contra lo puopolo, ma solo era raffredato. Se crese essere occiso. Que vaio più dicenno? Con ciò sia cosa che non fussi omo de tanta virtute che volessi morire in servizio dello puopolo, como promesso aveva, piagnenno e sospiranno fece uno sermone allo puopolo lo quale là se trovao e disse ca esso avea bene riesso e per la invidia la iente non se contentava de esso. "Ora nello settimo mese descenno de mio dominio". Queste paravole piagnenno quanno abbe ditte, sallìo a cavallo e sonanno tromme de ariento, con insegne imperiale, accompagnato da armati triumphaliter descendit e gìo a Castiello Santo Agnilo. Là stette celato, renchiuso. La moglie se partìo in abito de frate minore dello palazzo dell'Alli. Quanno lo tribuno scenneva de soa grannezza, piagnevano anco li aitri che con esso staievano. Piagneva e·llo miserabile puopolo. La cammora soa fu trovata piena de moiti ornamenti. De tale lettere messive che fuoro trovate no·llo créseri. Li baroni sapevano cotale caduta, ma stettero dìi tre 'nanti che volessino tornare a Roma per la paura. Puoi che tornaro, demoraro con paura. Li senatori fatti po' lo tribuno riessero debilemente e penzero lo tribuno collo capo de sotto e colli piedi de sopra a muodo de cavalieri nello muro dello palazzo de Campituoglio. Anco penzero Cecco Mancino, sio notaro e cancellieri. Penzero Conte sio nepote, lo quale rennéo la rocca de Civitavecchia. Lo cardinale legato entrao in Roma e procedeva contra esso e dannao la maiure parte delli suoi fatti e disse ca era eretico. Puoi Cola de Rienzi nascosamente ne gìo in Boemia allo imperatore Carlo e stette in Praga, la citate regale. Puoi ne gìo allo papa in Avignone e là sappe sì fare che fu revocato sio prociesso e fu fatto senatore de Roma per lo papa, e venne a Roma e fece cose memorabile e granne, como se dicerao. Puoi fu occiso per lo puopolo e fattone granne iudicio, como se toccarao nello capitolo de soa tornata in Italia. Lo paladino, lo quale ruppe Roma e·llo buono stato, digno Dei iudicio finao male e vituperosamente morìo. Puo' fatto questo anni otto, fu appeso per la canna in Puglia, in una soa terra donne era paladino, la quale avea nome Aitamura. In capo li fu posta una mitra de carta a muodo de corona. La lettera diceva così: "Missore Ianni Pipino cavalieri, de Aitamura paladino, conte de Minorbino, signore de Vari, liberatore dello puopolo de Roma". 'Nanti che fussi appeso moito se reparava con sio favellare, diceva: "Non so' de lenaio de essere appeso. Moneta faiza fatta non aio, né dego portare mitra. Se dato è per lo mio male fare che io mora, tagliateme la testa". La resposta delli regali fu questa: "Per le toie stomacarie lo re Ruberto te impresonao in perpetuo carcere. Lo re Antrea te liberao, fonne amaramente muorto. Delle mano de regali campare non potevi. Sola Roma te recipéo e sì te salvao. Tu li tollesti lo sio buono stato. Tornasti in grazia delli regali. Puoi te facesti capo de granne compagnia. Arcieri e robatori in toie terre allocavi. Tutto lo reame consumavi, derobavi, predavi. Re de Puglia te facevi. Dunqua degna cosa ène che toa vita fine aia laida e vituperosa, como hao meritato". Ecco li fatti primi de Cola de Rienzi, lo quale se fece chiamare tribuno augusto.

Cap. XIX

Della morte de Antreasso re de Puglia, lo quale fu appeso, e como fu comenzata a fare de tal morte iustizia.

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Cap. XX

Della venuta dello re de Ongaria in Italia e della morte dello duca de Durazzo, lo quale fu decollato.

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Cap. XXI

Della crudele mortalitate per tutto lo munno e delle scale de Santa Maria de l'Arucielo.

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Cap.XXII

Dello terratriemulo lo quale fu in Italia.

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Cap. XXIII

Dello quinquagesimo iubileo in Roma e della tornata la quale fece lo re de Ongaria in Roma e in Puglia.

Currevano anni Domini MCCCL quanno papa Chimento concedéo alli Romani la universale induglienzia de pena e de colpa per uno anno. Dunqua in quello anno senza impedimento alcuno venne a Roma tutta la Cristianitate. A questa induglienzia fu lo cardinale de Bologna su lo mare, legato de Lommardia, e fonce missore Aniballo de Ceccano, cardinale legato in Roma per lo papa per correiere lo puopolo e per ministerio delli pellegrini. Questo cardinale legato, scritta che abbe soa famiglia, muosso de Avignone, descenneva in Lommardia. Missore Ianni Visconte arcivescovo de Milana, tiranno de Lommardia, li iessìo innanti per farli onore. Cinque destrieri copierti de scarlatto, menati a mano, ivano denanti allo arcivescovo. Quanno lo legato vidde questo, stordìo, favellao e disse: "Arcivescovo, que pompa, que vanagloria è questa?" Respuse lo arcivescovo e disse: "Legato, questa non ène pompa, ma ène ca voglio che saccia lo patre santo ca esso hao sotto de si uno chierichetto lo quale pò qualche cosa". A questo arcivescovo non era possibile de avere questi destrieri, ca erano li gruossi cavalli delli conestavili li quali aveva sparzi per le citate. Puoi che lo legato, missore Aniballo, fu ionto in Roma, posao nello palazzo dello papa e comenzao a provedere dello stato de Roma e delli pellegrini. Questo missore Aniballo abbe in sé quattro proprietati non laudabili: la prima, ca esso fu de Campagna; la secunna, che esso fu guercio; la terza, fu moito pomposo, pieno de vanagloria; la quarta voglio tacere. Questo cardinale, ionto in Roma, venne a descordia con Romani per questa via. Avea un sio camiello, lo quale teneva colli muli per la salmaria. La iente trasse uno dìe a questo camiello per vederlo nello renchiostro a pede dello palazzo. Granne cosa fao intorno allo palazzo la iente vana. Chi lo mira, chi li tocca lo pelo, chi lo capo, chi li bennardi. E·llo cavalcano. Ora lo voco fare annare. Granne ène lo cifolare, granne è lo romore. Staieva là un famiglio dello legato. Parzeli male de tanta licenzia, reprenneva la iente. Alle represe aionze le menacce. Onne perzona fece partire fòra dello steccato. La iente non voize più odire. Prenne prete a piena mano, rompo lo steccato e tiengo dereto allo famigliaccio. Iettavano prete su allo palazzo. Gridavano come se fao allo Patarino. A questo romore traie la iente con vastoni e stanche. Dalla piazza de Santo Pietro traio quelli de Puortica armati de tutte arme, clinora de acciaro, pavesi, panziere, scudi, valestre. Allo palazzo se fao lo granne commattere. La porta serrata era. Lo romore era terribile. Le prete fioccavano, verruti e lance, lanciate como acqua ventosa. Ben pare che per forza vogliano tollere la fortezza. Quanno lo legato sentìo ciò, maravigliaose e abbe paura. Staieva su alli balconi de sopre. Sopre tutto vedeva. Non sapeva per che cascione questo fussi. Davase delle mano per lo visaio e diceva: "Questo que vole dicere? Que aio io fatto? Per que tanto detoperio me se fao? Vedi como date cascione voi Romani che·llo patre santo venga a Roma! In questa terra lo papa non fora signore, non fora iusto arciprete. Non me cresi venire a badaluccare. Haco li Romani somma povertate e granne regoglio". Stenneva la mano e faceva semmiante che cessassino de tale furore. Alla fine frate Ianni de Lucca, commannatore de Santo Spirito, curze e sì racquetao li irrazionabili citatini. Onne omo torna a casa. Lo cardinale abbe granne feltrenga; àbberase preso de stare in Avignone. Questo legato fece preclare cose. Esso ficcao in Santo Pietro quelli doi belli panni li quali staco dallo lato dello coro, e donao uno a Santo Ianni e [un] aitro a Santa Maria Maiure. Questo voize revisitare lo tesauro de Santo Pietro. Questo dava assoluzioni e penitenzie de province e de citate, de principi e cose. Questo punìo penitenzieri, cassaone e impresonaone. Fece cavalieri, deo dignitati e officia. Aizava e abassava lo termine delli dìi. Lì concedeva la remissione delli quinnici in uno dìe per la tanta iente che era in Roma; ca, se questo non faceva, Roma non àbbera potuto reiere tanto. Questo diceva messa pontificalemente con tutte cerimonie como papa. A suono de tromme de ariento veniva in chiesia e tornava in palazzo. Questo legato voize fare la cerca quinnici dìi e guadagnare la anima como l'aitri. Ma vedi que l'incontrao. Ditta messa, cavalcava uno dìe lo legato per fare la cerca. Mossese da Santo Pietro e ivase a Santo Pavolo. Mentre che passao per la strada che vao dalli Armeni a Santo Spirito, in quello luoco che stao in mieso fra Santo Lorienzo delli Pesci e Santo Agnilo delle Scale, de sùbito iessìo de una casella per la finestrella della Incarcerata da lato a Santo Lorienzo doi verruti, li quali fuoro valestrati per occidere lo legato. L'uno no·llo toccao e ne gìo in aria vano, l'aitro lo percosse su nello capiello e sì se ficcao drento. De tale vidanna stordìo lo cardinale. Se fisse la traccia della famiglia, li succurze. Facoli rosta intorno. Lo romore ène granne: "Prienni, prienni". Curri de·llà, curri de cà per trovare chi avea voluto occidere lo cardinale. Curzero nella casetta donne erano venuti li verruti. Avea la casetta l'uscio dereto, una postica. Per quella postica li valestrieri, lassate le valestra, se erano partuti. Misticarose colla moita iente foita per la perdonanza, non fuoro conosciuti. Nella casetta non fu trovata perzona alcuna. Doi valestre trovate fuoro. La casetta gìo per terra pianata. Iustus pro peccatore lo preite fu preso e messo allo tormento, mai non disse chi fuoro quelli valestrieri. Allora se torna a casa lo legato. Omo pomposo che cercava gloria vedeva che non era reputato. Crepava de dolore. Staieva infiammato. Non trovava posa. Vatteva le mano e diceva: "Dove so' io venuto? A Roma deserta. Meglio me fora essere in Avignone piccolo pievano che in Roma granne prelato. Hacome commattuto a casa nello palazzo. Puoi me haco valestrato. Non saccio de chi vennetta fare". Questo dicenno non pò soa ira temperare. Fece granne scutrinio delli malefattori, mai non fu potuto sapere chi fussino quelli. Estimao e abbe ferma opinione che Cola de Rienzi tribuno fussi stato quello. In nullo aitro puse la colpa. Allora, acciò che lo papa ne avessi compassione, scrisse lettere in corte allo santo patre, dove recitao sio infortunio, como era commattuto, como era valestrato e voluto occidere. E drento della lettera mise lo verruto. Puoi per satisfazione deo una terribile sentenzia e maidizzione contra chi avea peccato contra esso. Maidisse e scommunicao Cola de Rienzi e chi avea frode, appellannolo patarino e fantastico, e annullao onne sio fatto e deoli onne maidizzione che potéo. E privao li colpevoli delli officii e beneficii e dignitate, toizeli acqua e fuoco. Non ce lassao a fare cobelle per confonnere suoi nimici. Omo decretalista sapeva quanto granne era lo errore, quanta pena devea avere. Da quello tiempo innanti sempre portao lo legato sotto lo capiello una cervelliera de fierro e aduosso bone corazzine sotto la cappa. Trovaose a Roma a queste cose lo cardinale de Santo Grisogano, omo de Francia, granne prelato, granne barone. Gìo denanti a missore Aniballo. Per consolarelo queste paravole disse: "Chi volessi rettificare Roma convénnera che tutta la guastassi, puoi la edificassi de nuovo". Ciò ditto, levao la fronnosa. Camina in soa legazione. Voglio dicere como lo legato morìo. Era dello mese de luglio, lo fervente callo. A questo missore Aniballo de commannamento dello papa li convenne assentare fòra de Roma e gire a Napoli a provedere sopra la desolazione dello regno de Puglia, lo quale iva in desperzione, como se dicerao. Spontaneo se parte de Roma lo legato. Oitra per Campagna visitao Ceccano, la soa contrata. Passaone a Montecasino e venne a Santo Iermano. Là posao. Lo sequente dìe mossese da Santo Iermano, fece piccola iornata. Venne a un castiello non moito da longa. In quello castiello posao. Como usanza ène, li presienti li currevano da onne parte. Fra le aitre cose li fuoro presentati moiti buoni vini in fiaschi. Dice omo ca questi vini fuoro venenati, ca li votti tutti erano venenati per la Gran Compagnia che curreva lo paiese. Questo non è verisimile. Pazzo fora chi volessi venenare sio vino. De questi divierzi vini lo cardinale, callo per lo cavalcare, bebbe e bene, perché aveva sete. Era delli buoni vevitori che avessi la Chiesia de Dio. Fu allora alla tavola in sala, alla cena. Omo de Campagna voize vedere la univerza soa famiglia. Stao lieto e de bona aira, cena. Po·lle vidanne per refiescare de consiglio de doi suoi presienti miedici, mastro Guido da Prato e mastro Matteo da Vitervo, soleva manicare latte fiesco pecorino. Voize la usanza servare. Convenne ca de la famiglia isse fi' allo campo alle precoia e là mognessi le pecora. Empiuto che àbbero de latte uno granne catino de ariento, vennesi alla cena. Granne ora passata aspettao, mentre questo latte se pone e ène monto. Lo cardinale, venuto lo latte, sopra lo latte se pone con suo cucchiaro, comenza a manicare. Presene pieno ventre. Civo corruttivile. Granne ora po' lo pasto, po' lo latte vennero cetruoli, e de quelli per refiescare manicao, infusi nello aceto, de commannamento delli miedici ditti. La notte fatta, gìo a posare. Non trovao posa alcuna, non dormìo. Lo civo li stava nello stomaco, crudo, indigesto. La dimane se levao svogliato per lo poco spazio de tiempo che avea cavalcato. Lo primo luoco che trovao fu la villa de Santo Iuorio. Là posao, c'a cavallo non poteva più ire. Posato non magnao la sera. De notte passao de questa vita. Moita tristizia abbe la soa compagnia. Così fu desperduta, como le pecorella abannonate dallo pastore, per doi cascioni: la prima, che tutto lo arnese li fu levato dalli baroni della contrata; la secunna, che·llo nepote dello cardinale, uno delli doi, morìo. Sùbito tutta la famiglia infermao. Quello more, questo more. Tutta la famiglia morìo, ché omo non ne campao. Chi morìo per le terre de Campagna, chi a Roma, chi a Vitervo. Missore Ianni, l'aitro nepote, morìo in Santo Spirito de Roma. Non remansit canis mingens ad parietem. Ecco la novitate: lo legato dello papa morìo in viaio nella villa de Santo Iuorio, po' esso li nepoti e tutta la famiglia, anno Domini MCCCL, nello iubileo. Lo cuorpo dello legato fu opierto. Grasso era drento como fussi vitiello lattante. La vacuitate dello ventre fu empita de cera munna. Lo cuorpo fu inonto de aloè e vestuto in abito de frate menore. Messo in una cassa sopra de un mulo como fussi una soma, qua venerat via Romam rediit. Venuto in Santo Pietro senza compagnia, senza ululato, senza chierico fu operta semplicemente la soa sepoitura della soa cappella. Là fu iettato. Non fu allocato, anco fu iettato sì che cadde in bocconi, e così imboccato remase. Considera dunqua que ène la vita umana, que ène la gloria dello munno, que ène lo onore. Omo pomposo, aito prelato che desiderava la moneta, li onori, le granne casamenta, le onorabile compagnie, iace solo in abito de povertate, renchiuso in soa tomma; né soie ricchezze vaizero che uno vile omo se faticassi a destennere quello cuorpo secundum debitam figuram, supino.

Cap. XXIIII

Como Peroscini assediaro Bettona e desficcaro la terra da fonnamenti e tagliaro la testa a missore Crispolto traditore

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Cap. XXV

Como le campane de Santo Pietro de Roma arzero e como perdìo lo papa la signoria dello senato e como papa Chimento morìo.

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Cap. XXVI

Como lo senatore fu allapidato da Romani e delli magnifichi fatti li quali fece missore Egidio Conchese de Spagna, legato cardinale, per recuperare lo Patrimonio, la Marca de Ancona e Romagna.

Muorto papa Chimento, fu creato papa Innocenzio, lo quale fu ditto cardinale de Chiaramonte, dello abito de santo Pietro, preite seculare. Como papa Innocenzio fu creato, Dio li mustrao granne vennetta de quelli che·lli avevano tuoito lo senato. Curreva anno Domini MCCCLIII, de quaraiesima, de sabato de frebaro. Levaose una voce subitamente per mercato in Roma: "Puopolo, puopolo!" Alla quale voce Romani curro de·llà e de cà como demonia, accesi de pessimo furore. Iettano prete allo palazzo; metto a roba, specialemente li cavalli dello senatore. Quanno lo conte Bertollo delli Orsini sentìo lo romore, penzao dello campare e de salvarese alla casa. Armaose de tutte arme, elmo relucente in testa, speroni in pede como barone. Descenneva per li gradi per montare a cavallo. Lo strillare e·llo furore se converte nello desventurato senatore. Più prete e sassi li fioccano de sopra como fronni che cascano delli arbori lo autunno. Chi li dao, chi li promette. Stordito lo senatore per li moiti colpi, non li vastava coperirese de sotto soie arme. Puro abbe potestate de ire in pede allo palazzo dove stao la maine de santa Maria. Là da priesso per lo moito fioccare de prete la virtute li venne meno. Allora lo puopolo senza misericordia e leie in quello luoco li compìo li dìi, allapidannolo como cane, iettanno sassi sopra lo capo como a santo Stefano. Là lo conte passao de questa vita scommunicato. Non fece motto alcuno. Muorto che fu, lassato, onne perzona torna a casa. Senator collega turpiter per funem demissus, deformis pileo per posticam palatii obvoluta facie transivit ad domum. La cascione de tanta severitate fu ca questi doi senatori vivevano como tiranni. Ià erano infamati, ché grano mannavano per mare fòra de Roma. Era lo grano carissimo. La canaglia non comportava la fame e·llo deiuno. Non sao temere lo puopolo affamato. Non aspetta che dichi: "Fa' questo". Questa connizione hao la carestia, che moiti potienti hao perterrata. Anco pòtera essere la cascione che Dio non consente che·lle cose della Chiesia siano violate. De ciò favellava Valerio Massimo. Dao lo esempio de Dionisio tiranno de Cecilia, lo quale tagliava li capelli e·lle varve de auro le quale avevano li suoi diei, e diceva ca·lli diei non deveano avere similitudine de becchi varvati. De questa onta la quale fece a suoi diei fu punito, ca in soa vita visse con paura e po' la morte soa sio figlio venne in tanta miseria, che viveva de insegnare li guarzoni lo alfabeto. Forza più non sapeva. Vedi maraviglia! Saputa che fu la morte dello senatore lapidato, la carestia de sùbito cessao per lo paiese intorno e fu convenevole derrata de grano. Questo papa Innocenzio la prima cosa che se puse in core fu che·lli tiranni restituissero l'altruio, li bieni della Chiesia li quali avevano usurpati e sforzati. A ciò esequire mannao sio legato in Italia missore Egidio Conchese de Spagna, cardinale. Questo don Gilio quanto fussi sufficiente guerrieri l'opere soie lo demustravano. Esso fu in prima cavalieri a speroni d'aoro. Puoi fu arcidiacono de Conche. E fu de tanta industria, che fu fatto confallonieri dello re de Castelle. Esso perzonalemente se trovao alla rotta de Taliffa in Spagna, como de sopra ditto ène. Desceso lo legato don Gilio in lo Patrimonio, venne a Montefiascone. Aitro non trovao se non Montefiascone. Acquapennente, Bolsena, tutte le aitre terre teneva occupate Ianni de Vico, profietto de Vitervo. Anco teneva Terani, Amelia, Nargne, Orvieto, Vitervo, Marta, Canino. Era magno. Bussava per corrompere Peroscia. Lo legato, trovanno sì poche terre, forte li parze. Nientedemeno voize parlamentare collo profietto. Mannao per esso e fuoro insiemmora. Avea lo profietto in sé una mala natura, che ciò che omo li adimannava de sùbito li ammetteva e diceva. "Fatto serrà. Ben ce piace". Alla fine non servava le promesse. Quanto più te prometteva, peio tenevi. Per la moita usanza questa connizione servao allo legato. Non se ne sappe astenere. Como fuoro insiemmori, lo legato disse: "Profietto, que vòi tu?" Lo profietto disse: "Ciò che piace a ti". Lo legato disse: "Voglio che rienni alla Chiesia lo sio e tienghiti lo tio". Lo profietto disse: "Vogliolo fare volentieri. So' contento". E in ciò puse lo sio seiello in la carta colli capitoli scritti. Deo la voita in reto a Vitervo. Delle promesse niente servava. Diceva: "Io non ne voglio fare cobelle". Aiogneva: "Lo legato hao cinquanta prieiti fra compagni e cappellani. Li miei regazzi bastano a contrastare alli prieiti suoi". Questa paravola non se potéo celare, che non pervenisse alle recchie dello legato. A ciò respuse lo legato e disse: "Bene se vederao che miei prieiti serraco più valorosi che·llo profietto con suoi regazzi". Puoi che lo legato conubbe l'animo dello profietto indurato, vidde la perverza mente ostinata, crociata non li bannìo sopra (no·lli pareva da tanto), ma abbe lo aiutorio della lega de Toscana, de Peroscia, de Fiorenza e Siena. Fece granne oste, in la quale fu esso perzonalmente. In quella oste fu Cola de Rienzi cavalieri, lo quale veniva assoluto de Avignone dallo papa, como s'è ditto. Poco curò lo profietto de oste de sollati. Allora iessìo fòra lo puopolo de Roma. Ianni conte de Vallemontone fu lo capitanio. Comenzao a fare lo guasto. Uno terzieri de Vitervo guastaro, vigne, oliveta e arbori. Onne cosa metto in ruvina. La iente sparlava dello profietto. Ranieri de Bussa lo molestava. Lo profietto, como tiranno dubitanno de suoi citatini, viddese male parato. Deliberato consilio saniori, mise lo capo in vraccio e in gremmio della Chiesia rennenno lo altruio. Rennéo Vitervo, Orvieto, Marta e Canino. Remaserolli soie castella nettamente. Remaseli anco Corneto, Civitavecchia e Respampano. Po' non moito tiempo Iordano delli Orsini li tolle Corneto in mieso dìe. Lamentaose lo profietto allo legato e disse ca era ingannato, perché era cacciato de Vitervo. Respuse lo legato e disse: "Profietto, tu non pati tuorto". Mustraoli la cetola colli patti seiellata. La cetola diceva: "Io voglio restituire lo altruio e tenere lo mio proprio". Ciò odito, lo profietto stette queto. In questo Vitervo lo legato fonnao uno bellissimo castiello casato, fornito con moiti torri, palazza e casamenta per fermamento e fortezza della Chiesia de Roma. Lo quale castiello stao e cresce fi' alli nuostri dìi. Iace alla porta che vao a Montefiascone. Acqua sufficiente e fosse piene d'acqua stao intorno. Espedita la opera dello Patrimonio, lo legato alquanto demorao in Orvieto. Reconciliao Orvieto e·llo paiese, lo quale moito era corrotto. Puoi abbe Nargne, puoi Amelia. Puoi ne vao a maiure cose fare, ad espedire li fatti della Marca, ad abassare l'arroganzia delli Malatesta. Era missore Malatesta uno delli più savii guerrieri de Romagna. Tiranno potente moite citate e castella signoriava. La maiure parte della Marca de Ancona teneva sì per amore sì per forza. Aveva sio frate, missore Galeotto. Sempre questo mannava alle frontaglie. Teneva Ancona, la nobile citate. Como missore Galeotto sentìo lo legato approssimare nella contrata, granne moititudine, più de tre milia cavalieri, adunao. Iessìo fòra de Ancona. Venne a Racanati incontra allo legato. Era con missore Galeotto Gentile da Mogliano da Fermo con moiti aitri caporali della Marca. Mannao allora dicenno allo legato che soa venuta non era utile, non poteva colli Malatesti balanciare o guadagnare. Lo legato a queste paravole respuse, scrisse in una carta sole queste paravole: "Da buoni guerrieri buoni pattieri, da buoni pattieri buoni guerrieri". Respuse missore Galeotto: "Di' allo legato: tanta iente non pericoli. Io voglio commattere collo legato in campo a solo a solo". Lo legato respuse: "Va' di': eccome proprio nello campo. Là la voglio proprio con esso, perzona a perzona. Non se parta". Respuse missore Galeotto: "Va' di' a monsignore lo legato ca io non la voglio da perzona a perzona con esso, ca, se io lo vencessi, ià io pèrdera; ché lui ène omo veterano, prelato, atto a sola paternitate". Trovaose allora collo legato uno gentilotto della Marca: Nicola da Buscareto aveva nome. Questo Nicola da Buscareto, essenno presente a queste ammasciate, disse: "Signore lo legato, e non conoscete la rottura delli Malatesta? Non te accuorii ca nelle paravole soie missore Galeotto è rotto e perduto? Non te pò contrastare. Noi avemo vento. Legato, infesta e non finare de turvare li Malatesta de Rimino; ché Galeotto ià ène convento, lo core li manca. Questo me demustra lo sio favellare". Per le paravole de Nicola da Buscareto lo legato fu acceso de persequitare li Malatesti. Avea con seco lo legato bona iente assai, moiti caporali, partisciani della Marca, missore Lomo da Esi, Iumentaro dalla Pira, lo signore de Cagli, missore Redolfo de Camerino, Esmeduccio de Santo Severino. Anco avea la nobile iente todesca che·lli donao lo imperatore. Era per quelli dìi in Roma Carlo imperatore, de cui se dicerao. Avea presa la corona. Tutta Toscana, Lommardia e Romagna, Alamagna li fece omaio. A questo imperatore lo legato domannao sussidio. Lo imperatore li mannao li cavalieri li quali mannati li aveva lo Communo de Peroscia e de Fiorenza. Anco baroni della Alamagna moito provati missore Carlo li mannao. Intanto lo legato con soa iente se era assemmiato in campo. Missore Galeotto Malatesta redutto se era in una forte terra, la quale se dice Paturno, fra Macerata e Ancona, quanno ecco sùbito che dereto li veniva la nobile iente imperiale, Todeschi e Toscani, conti della Alamagna, usati a guerra, moiti cimieri, loro cornamuse sonanno, loro naccari. De caminare non avevano posato. Como missore Galeotto sentìo lo aiutorio allo legato venire, perdìo la mente e·lla virtute. Non se poteva aiutare. Chiamaose vento, confessaose presone, domannao mercede allo legato. Lo legato lo abbe nelle soie mano presone con tutta iente soa. Missore Malatesta per recomparare lo frate fece obedienzia allo legato. Rennéoli liberamente la citate de Ancona e tutte le terre che teneva in la Marca. Rennéoli quelle che teneva in Romagna. Allora la Chiesia guadagnòe la nobile citate de Ancona, terra portuosa, collo mare, colle mercatantie, colli moiti provienti. Là fece doi bellissime rocche fi' in lo dìe de oie. Puoi fece uno sio nepote marchese e mannaolo a Macerata per correttore della Marca. Puoi connescese e descretamente provedéo alli Malatesti, che potessino vivere onorata e ientilemente de loro frutto. Lassaoli quattro bone e famose citate, Arimino, Fano, Pesaro e Fossambruno, quattro notabile e poterose terre. Puoi li fece capitanii della Chiesia contra alli rebelli. Po' queste cose movèose a maiuri fatti e movimenti fare. Era in Romagna un perfido cane patarino, rebello della santa Chiesia. Trenta anni stato era scommunicato, interditto sio paiese senza messa cantare. Moite terre teneva occupate della Chiesia, la citate de Forlì, la citate de Cesena, Forlimpuopolo, Castrocaro, Brettonoro, Imola e Giazolo. Tutte queste teneva e tiranniava, senza moite aitre castella e communanze le quale erano de paiesani. Era questo Francesco omo desperato. Avea odio insanabile a prelati, recordannose che ià fu male trattato dallo legato antico, missore Bettrannio dello Poietto, cardinale de Uostia, como de sopra ditto ène. Non voleva de cetero vivere a descrezione de prieiti. Staieva perfido, tiranno ostinato. Questo Francesco, quanno sentìo le campane sonare alla scommunicazione, de sùbito fece sonare le aitre campane e scommunicao lo papa e·lli cardinali. E che peio fu, fece ardere e papa e cardinali in piazza, li quali erano pieni de carta e de fieno. Staienno a rascionare colli ientili amici suoi diceva: "Ecco ca simo scommunicati. Non per tanto lo pane, la carne, lo vino che bevemo non ce sao buono, non ce fao prode". Delli prieiti e delli religiosi tenne questa via. Fatta la scommunicazione per lo vescovo, lo vescovo, receputa alcuna iniuria, vituperosamente se assentao. Allora lo capitanio costrenze la clericia a celebrare. Celebrano li moiti essenno interditti, quattordici chierici religiosi, sette seculari. Otto, li quali non voizero celebrare, recipero lo santo martirio. Sette ne fuoro appesi per la canna, sette ne fuoro scorticati. Era incarnato con Forlivesi, amato caramente. Demostrava muodi como de pietosa caritate. Maritava orfane, allocava poizelle, soveniva a povera iente de soa amistate. Vengo alla guerra. Don Gilio Conchese de Spagna fece sio fonnamento e residenzia in Ancona. E per avere più fortezza bannìo la crociata. Io la odìi predicare. Remissione de pena e colpa a chi prenneva la croce o chi faceva aiutorio. Ora ne veo lo legato sopra allo cane capitanio de Forlì, Francesco delli Ordelaffi. 'Nanti che lo campo fusse puosto, apparecchiaose tutte cose necessarie all'oste. Lo legato mannao vescovi e cavalieri e aitra iente bona, che predicassino lo capitanio che non volessi perseverare in tale errore. La predicazione quetamente odìo. La notte iessiva fòra de Forlì e predava terre della Chiesia. Menava preda e presoni. Aitra resposta non faceva. Lo legato, conoscenno lo animo indurato de Francesco delli Ordelaffi, puse lo campo sopra la citate de Cesena. Li Malatesti erano caporali e connuttori dell'oste. Dodici milia fuoro li crociati, trenta milia li sollati. Doi uosti fuoro, onneuno per sé. Fece l'oste granne guasto e dannaio. A suono de trommetta tre milia guastatori con banniere se ponevano e levavano dallo guasto. Res digna memoratu. Intanto lo santo patre mannao lettere espresse, che don Gilio tornassi in Provenza. La cascione fu che·llo conte de Savoia con granne compagnia, da tre milia varvute, iva guastanno tutta la Provenza. Prenneva terre, derobava e revennevase l'uomini. 'Nanti che don Gilio se partissi, venne un aitro legato, omo de Francia, abbate de Borgogna, prevennato de granne frutto, moito potente e sufficiente perzona. Aveva lo capitanio un sio figlio, nome missore Ianni. Avevane un aitro, nome missore Ludovico. Questo gito denanti a sio patre, umilemente lo pregava e disse: "Patre, per Dio, te piaccia de non volere contennere colla Chiesia e non volere contrastare a Dio. Facciamo le commannamenta, siamo obedienti. So' certo ca lo legato ène descreto. Como bene hao trattato li Malatesti, così bene trattarao noi. Tanto ce lassarao, che bene onoratamente poteremo vivere". Alle paravole umile lo supervo patre disse: "Tu fusti biscione overo me fusti scagnato alli fonti". Lo figlio, sentenno la subitezza dello patre, partivase denanti, dava la voita. Allora lo patre li iettao dereto un cortiello luongo, nudo, e ferìolo nelli reni; della quale feruta Ludovico sio figlio morìo 'nanti mesa notte. Mentre che lo legato abbate se assediava alla guerra, missore Egidio non lassava que fare. Forte guerria sopra Cesena. Lassao tre battifuolli, dieci miglia da longa ciascuno. Li legati tornaro ad Arimino. In Cesena staieva madonna Cia, la moglie dello capitanio de Forlì, con suoi nepoti e con granne forestaria drento dalla rocca. A questa madonna Cia lo capitanio scrisse una lettera. La lettera diceva così: "Cia, aiate bona e sollicita cura della citate de Cesena". Madonna Cia respuse in questa forma: "Signore mio, piacciave de avere bona cura de Forlì, ca io averaio bona cura de Cesena". Iterato lo capitanio scrisse un'aitra lettera. La sentenzia era questa: "Cia, de nuostro commannamento fa' che tagli la testa a quattro populari de Cesena, cioène Ianni Zaganella, Iacovo delli Vastardi, Palazzino e Vertonuccio, uomini guelfi delli quali avemo suspizione". La donna, receputa la lettera, non curze sùbito alla sentenzia, anco esquisitissima con diligenzia spiao della connizione de questi quattro citatini e trovao che erano bone e fidele perzone. Specialemente la donna abbe consiglio de doi fidelissimi amici dello marito, cioène Scaraglino, nobile omo, e Iuorio delli Tumberti. A questi mustra la lettera. La resposta de questi fu questa: "Madonna, noi non vedemo cascione per la quale questi deano perdere la vita. Non sentimo che aitra novitate movano. Se questi perdissino la vita, fora pericolo che lo puopolo se desdegnassi. Passa dunque per mo' de questo iudicio fare. Noi intanto starremo attenterosi e porremo cura alli atti e muodi loro. Quanno vedessamo alcuno male semmiante, li 'nanti farremo, comprenneremoli e con manifesto iudicio loro torremo la perzona". La donna assentìo allo consiglio delli doi nuobili fideli de sio marito. Soprastettese de novitate fare. Questo trattato fu de secreto e de secreto fu revelato a questi quattro. Allora questi quattro tiengo nuovo trattato, penzano de revoitare la citate sottosopra. Ianni Zaganella deo l'ordine intra li amici suoi. Con un sio ronzinetto cavalcava per la terra, questo e quello sollicitava. Una dimane, como la cosa era recente, Iacovo delli Vastardi curre colla vicinanza alla porta, la quale se dice porta della Troia, e sì·lla prese. Vertonuccio e Palazzino fecero puopolo e sbarraro la citate. Puoi mannaro doi iumentari alli Ongari che staievano a Savignano nello vattifolle. Celeriter illi vadunt. Quanno madonna Cia odìo lo romore, sappe che se levava puopolo, sùbito fece armare soa forestaria, sollati da cavallo e da pede. Commannao che curressino la citate. Ma ciò fare non se poteva, che·lla terra staieva sbarrata, lo puopolo armato, la porta della terra presa, li torri rencastellati. E che peio fu, li cavalieri venivano in succurzo allo puopolo. Là, nella calata dello sole, ottociento arcieri de Ongaria, li quali staievano in Savignano in lo vattifolle, venivano volanno, iente veloce, attesi a guerra. Non entraro in Cesena, ma ivano intorno alla citate, ora innanti, ora in reto, per dare core alli citatini. Ciò vedenno madonna Cia se retrasse a reto soa forestaria e renchiusese nello cassaro, e là se sostenne. Quello cassaro parte della citate ène e forte murato intorno. Hao drento la piazza dello Communo, lo palazzo e·lla torre, hao drento granne avitazio de parziali. È luoco alquanto aito, soprastao alla citate che iace piana. Irata madonna Cia de questa perdenza convertìo la sia ira in li doi consiglieri amicissimi dello marito, Iuorio delli Tumberti e Scaraglino, feceli decollare. Quodfactum maritus improbavit. Postera die, luce orta, ecco li Malatesti venire collo granne succurzo, colla moita potenzia. Datali la porta della Troia, entrano in Cesena. Ora stao assediata madonna Cia in la rocca. Allora fu rennuto lo castiello Fiumone. Li Malatesti faco aspero vattagliare alla rocca. Faco badalucchi, iettano drento fuoco, levano trabocchi, iettano prete e sassi assai. Non faco utilitate alcuna. Era drento l'acqua. Era drento la mastra torre sopra la porta dello cassaro. Commannao lo legato la cavata, opera faticosa de moita spesa e longa. Fatta la cavata sotto la cisterna, la cisterna fu rotta, l'acqua fu perduta. Puoi ionze la cavata sotto la mastra torre della piazza. Messo fuoco alli pontielli, la torre con granne romore e ruvina cadde. Ora se fao la cavata alla torre sopra la porta donne era la entrata in lo cassaro. Madonna Cia irata de ciò non sapeva que·sse fare. Prese delli citatini che·lli parze drento dello cassaro, de quali più dubitava, e miseli in quella torre sopra la porta e disse: "Se la torre cade, cada sopre de voi". La torre staieva in pontielli, tremava. Lo legato, don Gilio, passava per la contrada con granne compagnia, veniva per vedere la connizione de Cesena, l'opera della cavata e·llo appuosto dello assedio. Allora da cinqueciento donne de Cesena iessiro fòra scapigliate, sfesse dallo pietto. Piagnenno, lamentanno facevano granne romore. Inninocchiate 'nanti allo legato demannavano mercede. Inscius legatus della cascione de sì amaro pianto domannao perché questo facevano. Respusero le donne: "Legato, in la torre sopra la porta soco renchiusi nuostri mariti, fratelli e parienti. La cavata è fornita. Se la torre cade, l'uomini so' perduti. Donne per Dio te pregamo che tardi de mettere fuoco in li pontielli". Lo legato sùbito conubbe che madonna Cia dubitava de si, ca era rotta nello animo. Abbe trattato e a soie mano abbe li Cesenati messi nella torre. Messo fuoco nella torre, la torre cadde con parte dello girone. Allora lo guado fu libero per entrare. Non per ciò che alcuno entrassi con furore, ma de piano consenzo. Lo legato abbe alle soie mano madonna Cia con un sio figlio e doi suoi nepoti. Recusao madonna Cia essere liberata, temenno la subitezza de sio marito, anco con instanzia pregao che·lla Chiesia la servassi. Tre milia fiorini gostava lo dìe li mastri delle cavate e delli trabocchi e delli aitri artificii. Dodici milia fiorini gostao lo dìe li sollati. Lo legato entrao in Cesena e mantenne la terra per la Chiesia. Questo è lo muodo che la citate de Cesena in Romagna fu guadagnata. Ora se para, lo legato sopra la citate de Forlì. Primo ordinao l'oste granne e copiosa. Intanto saputo che fu della presonia de madonna Cia, la quale era mannata in Ancona in guardia, una soa figliola, donna nobile, maritata ad uno granne marchisciano, venne denanti allo patre lacrimanno, colle vraccia piecate. Inninocchiata parlao e disse: "Patre e signore mio, piacciate che così fatta donna, madonna matrema, non stea in mano altruie como presoniera. Pregote, fa' la voluntate della santa Chiesia". A queste paravole lo capitanio aitra resposta non deo, se non che prese questa soa figlia per le trecce e con un cortiello li partìo la testa dallo vusto. Po' la presa de Cesena lo legato mannao allo capitanio, dicenno così: "Capitanio, rienni quello che tio non è. Io te renno toa donna, figlioto e nepoteti". A queste paravole lo capitanio deo questa resposta: "Dicete allo legato ca io credeva che fussi savio omo. Oramai lo tengo per una vestia pazza. Dicete che se io avessi auto in presone esso, tre dìi passati so' che io l'àbbera appeso per la canna, como esso ave auto le cose mie". Indurato lo animo de sì perverzo eretico patarino, don Gilio, lo legato antico, se partìo e gìone in Provenza. Como la compagnia sentìo approssimare don Gilio alle finaite, così se delequao como fao la poca neve a fervente sole. Remase lo legato noviello, missore [...] abbate de Borgogna. Questo legato fece l'oste pentolosa sopra de Forlì. Per moiti anni vannìo la crociata, e fu predicata la croce per tutta Italia. Mozzava lo grano e tagliava le vigne, arbori e oliveta. Bussava ad onne ponto, ad onne ora. Per questa fervente guerra lo capitanio perdìo Favenza e·lli Manfredi, suoi consuorti, iurati con esso. Anco perdìo Bertonoro. Allora se restrenze drento a Forlì, nello forte. In questo assedio sopra Forlì fuoro presi assai voite delli crociati, li quali per meritare erano iti a commattere contra de quelli scismatici. Li crociati presi erano menati denanti a Francesco, lo quale diceva queste paravole: "Voi portete la croce. La croce ène de panno. Lo panno se infracida. Io voglio che portate croce che non se infracidi". Allora era apparecchiato un fierro cannente in forma de croce. Questo fierro li poneva sotto alla pianta delli piedi e così li lassava derobati ire. Moiti aitri crociati prese, alli quali disse queste paravole: "Site venuti per guadagnare l'anima. Se ve lasso, forza tornarete alli primi vuostri peccati. Meglio ène che in questa tenerezza, mentre site contriti, morate. Dio ve reciperao nella soa citate". Ciò ditto, li faceva scorticare, appennere, decapitare e aghiadiare, tenagliare, de diverzi martirii morire. La guerra durao anni moiti. Per questa guerra mantenere fu predicata la crociata moite fiate. Mode novamente che curre anno Domini MCCCLVII[I], de iennaro, nella citate de Tivoli fu predicata. His ferme diebus Iohannes rex Francie captus est a filio regis Anglie bello magis tumultuario quam militari apud villam que dicitur [...] ductusque in Angliam sub custodia annis ferme duobus. Tandem cum magno sui detrimento et regni evasit.

Cap. XXVII

Como missore Nicola de Rienzi tornao in Roma e reassonse lo dominio con moite alegrezze e como fu occiso per lo puopolo de Roma crudamente.

Currevano anni Domini MCCCLIII[I], lo primo dìe de agosto, quanno Cola de Rienzi tornao a Roma e fu receputo solennissimamente. Alla fine a voce de puopolo fu occiso. La novella fu per questa via. Puoi che Cola de Rienzi cadde dallo sio dominio, deliverao de partirese e ire denanti allo papa. 'Nanti la soa partita fece pegnere nello muro de Santa Maria Matalena, in piazza de Castiello, uno agnilo armato coll'arme de Roma, lo quale teneva in mano una croce. Su la croce staieva una palommella. Li piedi teneva questo agnilo sopra lo aspido e lo vasalischio, sopra lo lione e sopra lo dragone. Pento che fu, li valordi de Roma li iettaro sopra lo loto per destrazio. Una sera venne Cola de Rienzi secretamente desconosciuto per vedere la figura 'nanti soa partenza. Viddela e conubbe che poco l'avevano onorata li valordi. Allora ordinao che una lampana li ardessi denanti uno anno. De notte se partìo e gìo luongo tiempo venale. Anni fuoro sette. Iva forte devisato per paura delli potienti de Roma. Gìo como fraticiello iacenno per le montagne de Maiella con romiti e perzone de penitenza. Alla fine se abiao in Boemia allo imperatore Carlo, della cui venuta se dicerao, e trovaolo in una citate la quale se appella Praga. Là, denanti alla maiestate imperiale, inninocchiato parlao prontamente. Queste fuoro soie paravole e sio loculento sermone denanti a Carlo re de Boemia, nepote de Enrico imperatore, novellamente elietto imperatore per lo papa: "Serenissimo principe, allo quale è conceduta la gloria de tutto lo munno, io so' quello Cola allo quale Dio deo grazia de potere governare in pace, iustizia, libertate Roma e·llo destretto. Abbi la obedienzia della Toscana, Campagna e Maretima. Refrenai le arroganzie delli potienti e purgai moite cose inique. Verme so', omo fraile, pianta como l'aitri. Portava in mano lo vastone de fierro, lo quale per mea umilitate convertiei in vastone de leno, imperciò Dio me hao voluto castigare. Li potienti me persequitano, cercano l'anima mea. Per la invidia, per la supervia me haco cacciato de mio dominio. Non voco essere puniti. De vostro lenaio so', figlio vastardo de Enrico imperatore lo prode. A voi confugo. Alle ale vostre recurro, sotto alla cui ombra e scudo omo deo essere salvo. Credome essere salvato. Credo che me defennerete. Non me lassarete perire in mano de tiranni, non me lassarete affocare nello laco della iniustizia. E ciò è verisimile, ca imperatore site. Vostra spada deo limare li tiranni. Vedi la profezia de frate Agnilo de Mente de Cielo nelle montagne de Maiella. Disse che l'aquila occiderao li cornacchioni". Puoi che abbe parlato, Carlo destese la mano e recipéolo graziosamente, disse che non dubitassi de alcuno. Quanno ionze in Praga fu lo primo dìe de agosto. Demorao per lo spazio de tiempo alcuno. Desputava con mastri in teologia. Diceva assai. Favellava cose maravigliose. Lengua deserta faceva stordire quelli Todeschi, quelli Boemi e Schiavoni. Abafava onne perzona. In presone non stette, ma con compagnia assai onorata sotto qualche guardia. Assai vino, assai vivanna li era data. Po' alcuno tiempo domannao in grazia allo imperatore de ire in Avignone e comparere denanti allo papa e mostrare como non era eretico né patarino. Moito li contrastao lo imperatore che non isse. Alla fine condescese alla voluntate soa. Diceva Cola de Rienzi: "Serenissimo principe, io voluntario vaio denanti allo santo patre. Dunque, se voi non me mannete per forza, site innocente dello sacramento". Nello ire che faceva per tutte le terre se levavano puopoli e, fatto grege con romore, li venivano denanti. Prennevanollo, dicevano ca lo volevano salvare de mano dello papa. Non volevano che issi. A tutti responneva, diceva: "Io voluntario vaio, non costretto". Rengraziavali e così passava de citate in citate. Per tutta la via li fuoro fatti solienni onori. Quanno li puopoli vedevano esso, maraviglianno l'accompagnavano. E per tale via ionze in Avignone lo primo dìe de agosto. Ionto in Avignone parla denanti allo papa. Scusavase ca non era patarino, né incurreva la sentenzia dello cardinale don Bruno. Voleva stare alla esaminazione. A queste paravole lo papa stette queto. Fu renchiuso in una torre grossa e larga. Una iusta catena teneva in gamma. La catena era legata su alla voita della torre. Là staieva Cola vestuto de panni mezzani. Aveva livri assai, sio Tito Livio, soie storie de Roma, Abibia e aitri livri assai. Non finava de studiare. Vita assai sufficiente della scudella dello papa, che per Dio se daieva. Fuoro esaminati suoi fatti e fu trovato fidele cristiano. Allora fu revocato lo prociesso e·lla sentenzia de don Bruno e dello cardinale de Ceccano, e fu assoluto. E venne in grazia dello papa e fu scapulato. Quanno iessìo de presone fu lo primo dìe de agosto. Deveva venire in Italia uno legato, don Gilio Conchese, cardinale de Spagna. Apparecchiavase e scriveva sia famiglia. Cola de Rienzi con questo legato iessìo de Avignone purgato, benedetto e assoluto. E collo legato passao la Provenza e venne a Montefiascone per recuperare lo Patrimonio, como ditto ène. Delle prime terre che se renniero alla Chiesia fu Toscanella, e·llo cassaro fu vennuto per moneta. Cola de Rienzi se retrovao a prennere la terra per la Chiesia. Puoi se retrovao nello assedio de Vitervo, e retrovaose a tutti quelli fatti de arme da cavalieri. Avea vestimenta assai iuste e oneste, buono cavallo. Non solamente in l'oste, anco in Montefiascone aveva tamanta rechiesa de Romani, che stupore era a dicere. Onne Romano ad esso fao capo. Forte ène visitato. Granne coda de populari se strascinava dereto. Onne iente faceva maravigliare, persi' lo legato, tanto l'appresciava la rechiesa delli citatini de Roma. Per maraviglia lo vedevano. Forte li pareva che campata avessi la vita infra tanti potienti. Alla sopraditta depopulazione de Vitervo, como sopra narrato ène, fuoro Romani. Tornata l'oste, granne partita de Romani trasse a vedere Cola de Rienzi: uomini populari, granne lengue e core; maiure proferte, poche attese. Dicevano: "Torna alla toa Roma. Curala de tanta infirmitate. Sinne signore. Noa te darremo sobalimento, favore e forza. Non dubitare. Mai non fusti tanto demannato né amato quanto allo presente". Queste vessiche li populari de Roma li daievano: non li daievano denaro uno. Per queste paravole mosso Cola de Rienzi, anco per la gloria, la quale naturalemente affettava, penzava de fare alcuno fonnamento donne potessi avere iente e sussidio per Roma entrare. Dissene collo legato. Non li deo denaro uno. Aveva tame ordinato che dallo Communo de Peroscia avessi alcuna provisione, donne poteva iustamente vivere con onore. Questa soa provisione non li vastava a fare sollati. Allora cavalcao e venne a Peroscia, e per presure voite fu nello Consiglio. Bene parlava, bene diceva, meglio prometteva. Assai avevano quelli consiglieri le recchie attente ad odire per la doicezza delle paravole che se lassavano ascoitare. Così se facevano leccare como lo mele. Ma perché li consiglieri staco a scinnicato, convenne fare bona custodia delle cose de sio Communo. Da Communo de Peroscia non potéo ottenere uno cortonese. Retrovarose allora in Peroscia doi iovini provenzali, missore Arimbaldo, dottore de leie, e missore Bettrone, cavalieri de Narba in Provenza, frati carnali. Questi erano frati carnali dello prodo fra Monreale. Fra Monreale fu a fare la guerra dello re de Ongaria. Puoi fu capo della Granne Compagnia. Guastao moite terre in Puglia, arze e refocao moite, assai communanze mise a roba e portaone le femine. In Toscana revennéo Siena, Fiorenza, Arezzo e moite terre. La pecunia partiva fra suoi compagni. Puoi ne passao nella Marca e consumao li Malatesti. Prese per forza Montefilaterano e Filino, dove moriero più de setteciento villani. Arze le terre e derobaole. Revennéo li uomini e portaone le donne, quelle che apparenza avevano. Era feriero de Santo Ianni, omo sollicito e prodo, della cui prodezza se dicerao. Questo avea acquistata de moita pecunia per le robbarie, per le prede. Avea tanta moneta, che poteva sufficientemente vivere ad onore senza ire più sollato. Connusse questi doi suoi fratelli in Peroscia e feceli dare provisione dallo Communo. La soa moneta deo alli mercatanti e commannao alli frati che avessino fra loro pace, non fecessino contenzione; ché, puoi che·lli aveva allocati, intenneva de servire allo abito sio. Gìo fra Monreale aitrove per aitri suoi mestieri fare. Puoi che Cola de Rienzi sentìo demorare in Peroscia missore Arimbaldo de Narba, omo iovine, perzona letterata, abiaose allo sio ostieri e voize con esso pranzare. Sumpto cibo, mette mano Cola de Rienzi a favellare della potenzia de Romani. Mistica soie storie de Tito Livio. Dice soie cose de Bibia. Opere la fonte de sio sapere. Deh, como bene parlava! Tutta soa virtute opere in lo rascionare. E sì de ponto dice, che onne omo abafa soa bella diceria, leva de piedi onne omo. Teo la mano alla gota e ascoita con silenzio Missore Arimbaldo. Maravigliaose dello bello parlare. Ammira la magnitudine delli virtuosi Romani. Incalescente vino, monta lo animo in aitezze. Lo fantastico piace allo fantastico. Missore Arimbaldo senza Cola de Rienzi non sao demorare: con esso stao, con esso vao. Uno civo prienno, in uno lietto posano. Penzano de fare cose magne, derizzare Roma e farla tornare in pristino sio. A ciò fare bisognava moneta. Senza sollati non se pò fare. A tre milia fiorini sallìo la mastice. Fecese promettere tre milia fiorini, e esso promise de rennerelli, e per merito promise farlo citatino de Roma e granne capitanio onorato, a despietto dello frate, missore Bettrone. Anco dello mercatante toize dello puosto quattro milia fiorini e deoli a Cola de Rienzi. 'Nanti tame che missore Arimbaldo assenassi questa moneta a Cola de Rienzi, voizene avere licenzia de sio maiure frate, frate Monreale. Mannaoli una lettera. La sentenzia era questa: "Onorato fratello, più aio guadagnato io in uno dìe che voi in tutto tiempo de vostra vita. Io aio acquistato la signoria de Roma, la quale me promette missore Nicola de Rienzi cavalieri, tribuno, visitato da Romani, chiamato dallo puopolo. Credo che lo penzieri non verrao fallato. Vego ca collo aiutorio dello ignegno vuostro lo mio stato non serrao rotto. Bisogna in ciò moneta per incomenzare. Quanno piacerao alla vostra fraternitate, io tollo quattro milia fiorini dello puosto e con potenzia armata me camino a Roma". Fra Monreale, lessa la lettera de sio frate, rescrisse. Lo tenore de soa scrittura era questo: "Granne ora me aio penzato sopra la opera la quale intienni. Granne e importavile peso ène quello che vòi fornire. Nello animo mio bene non cape che te venga fatto. La mente non ce vao. La rascione me·llo contradice. Nientemeno fate voi e facciate bene. Imprimamente hai guardia che·lli quattro milia fiorini non se perdano. Se ve scontrasse alcuna cosa sinistra, scrivateme. Verraio con succurzo, con milli, doi milia perzone, quante bisognaraco, e farraio le cose magnifiche. Non dubitete. Tu e tio frate ameteve e onoreteve, non fate romore". Missore Arimbaldo, receputa la lettera, fu lieto assai. Mise in ordine collo tribuno dello caminare. Puoi che Cola de Rienzi abbe li quattro milia fiorini, vestìose riccamente de più robbe, adobaose a senno dello savio sio ornatamente: gonnella, guarnaccia e cappa de scarlatto forrata de varo, infresata de aoro fino, pistiglioni de aoro, spada ornata in centa, cavallo ornato, speroni de aoro, famiglia vestuta nova. Così adorno ne tornao a Montefiascone denanti allo legato. Menava per compagnia missore Bettrone e missore Arimbaldo de Narba fratelli, con famiglie e cose. Quanno fu denanti allo legato, faceva dell'altiero. Mustravase gruosso con sio cappuccio in canna de scarlatto, con cappa de scarlatto, forrati de panze de vari. Stava supervo. Capezziava. Menava lo capo 'nanti e reto, como dicessi: "Chi so' io? Io chi so'?" Puoi se rizzava nelle ponte delli piedi; ora se aizava, ora se abassava. Maravigliase lo legato e deo alquanto fede alle soie paravole. Puro non li deo denaro uno. Allora parlao Cola e disse: "Legato, famme senatore de Roma. Io vaio e parote la via". Lo legato lo fece senatore e mannaolo via. A potere venire a Roma bisognava iente. De noviello missore Malatesta de Arimino aveva cassati li sollati suoi, da sedici banniere, bona iente, doiciento cinquanta varvute. Demoravano in Peroscia per trovare suollo. Per questa iente avere mannao Cola de Rienzi sio messaio. Lo messaio trovao li conestavili e disse così: "Prennete suollo per doi mesi. Recepate per uno la paca. Averete suollo in perpetuo. Connucerete missore Nicola de Rienzi a Roma, senatore per lo papa". A queste paravole li conestavili fuoro in consiglio. La sentenzia delli Todeschi fu de non ire. Assenavano tre cascioni. La prima: "Romani soco mala iente, supervi, arroganti, non haco paro". La secunna: "Questo ène omo popularo, povero, de vile connizione. Non averao da pacare. Dunqua a chi serviremo noa?" La terza: "Li potienti de Roma non voco lo stato de questo omo. Tutti ne serraco nimici, ca·lli despiace mo'. Dunqua questo suollo non prennamo. La annata a Roma non fao per noa". Da vero questa fu la resposta delli Todeschi, e fu vera. Soco Todeschi como descengo dalla Alamagna semplici, puri, senza fraude. Como se allocano fra Italiani deventano mastri coduti, viziosi, che siento onne malizia. Alli Todeschi respuse uno conestavile borgognone e disse: "Prennamo questi denari novielli sollacciati per uno mese. Tornaremo lo buono omo in soa casa. Scorgamolo in Roma. Guadagnaremo la perdonanza. Chi vorrao tornare tornarao, chi vorrao remanere remanerao". Questa sentenzia venze. Le sedici banniere presero suollo da Cola de Rienzi. Questa iente da cavallo abbe. Abbe anco alquanti Peroscini, figli de buoni uomini. Abbe anco da ciento fanti toscani masnadieri con corazzine da suollo, nobile e bella brigata. Con questa iente descenne per Toscana, passa valli e monti e locora pericolose. Senza reparo ionze ad Orte. Allora la soa venuta fu sentuta a Roma. Romani se apparecchiavano a receperelo con letizia. Li potienti staievano alla guattata. Da Orte se mosse e ionze a Roma, anno Domini MCCCLIII[I]. La cavallaria de Roma li iessìo denanti fi' a Monte Malo colle frasche delle olive in mano in segno de vettoria e pace. Iessìoli lo puopolo con granne letizia, como fussi Scipione Africano. Fuoro fatti archi triomfali. Entrao la porta de Castiello. Per tutta piazza de Castiello, per lo ponte, per la strada fuoro fatte arcora de drappi de donne, de ornamento de aoro e de ariento. Pareva che per la letizia tutta Roma se operissi. Granne ène la alegrezza e·llo favore dello puopolo. Con questo onore fu menato fi' allo palazzo de Campituoglio. Là fece sio bello e luculento parlare e disse ca sette anni era ito spierzo fòra de soa casa, como gìo Nabuccodonosor, ma per la potenzia dello virtuoso Dio era tornato in soa sede senatore per la vocca de papa. Non che esso fussi sufficiente; la soa vocca lo poteva sufficiente fare. Aionze che intenneva rettificare e relevare lo stato de Roma. Allora fece capitanii de guerra missore Bettrone e missore Arimbaldo de Narba e donaoli lo confallone de Roma. Fece cavalieri uno Cecco de Peroscia sio consigliero e vestìolo de aoro. Granne festa li Romani li fecero, como fecero li Iudiei a Cristo, quanno entrao in Ierusalem a cavallo nella asina. Quelli lo onoraro destennennoli 'nanti panni e frasche de oliva, cantanno"Benedictus qui venis!" Alla fine tornaro a casa e lassarolo solo colli discipuli nella piazza. Non fu chi li proferissi uno povero magnare. Lo sequente dìe Cola de Rienzi abbe alcuno ammasciatore delle vicinanze intorno. Deh, como bene responneva! Dava resposte e promissioni. Apparecchiavase de ferventemente guidare. Li baroni staievano alla guattata, a que reiessiva. Lo stormo dello triomfo era granne. Moite banniere. Mai non [fu] tanta pompa. Fanti con duridaine de·llà e de cà. Per bene pare che voglia per tirannia guidare. Delle soie cose che perdìo le moite li fuoro rassenate. Mannao commannamenti e lettere per le terre e·llo destretto de soa felice tornata. Vole che ciascuno se apparecchi a buono stato. Era questo omo fortemente mutato dalli primi suoi muodi. Soleva essere sobrio, temperato, astinente. Ora deventato destemperatissimo vevitore, summamente usava lo vino. Ad onne ora confettava e veveva. Non ce servava ordine né tiempo. Temperava lo grieco collo fiaiano, la malvascia colla rebola. Ad onne ora era dello vevere più fiesco. Orribile cosa era potere patere de vederlo. Troppo veveva. Diceva che nella presone era stato accalmato. Anco era deventato gruosso sterminatamente. Aveva una ventresca tonna, triomfale a muodo de uno abbate asiano. Tutto era pieno de carni lucienti como pagone, roscio, varva longa. Sùbito se mutava nella faccia, sùbito suoi uocchi se·lli infiammavano. Mutavase de opinione. Così se mutava sio intellietto como fuoco. Aveva li uocchi bianchi: tratto tratto se·lli arrosciavano como sangue. Stato che fu nello palazzo de Campituoglio, lo più aito, dìi quattro, mannao per la obedienzia a tutti li baroni. Fra li aitri rechiese Stefano della Colonna in Pellestrina. Questo Stefanello remase piccolo guarzone po' la morte dello patre Stefano e de Ianni Colonna sio frate, como ditto ène. Redutto s'è ora in Pellestrina allo forte. A questo Stefanello mannao doi citatini de Roma, Buccio de Iubileo e Ianni Cafariello, per ammasciatori, che devessi obedire li commannamenti dello santo senato, sotto pena de soa ira. Questi ammasciatori Stefanello retenne e alcuni de essi mise in oscuritate. Anco li trasse uno dente e connannaoli in quattrociento fiorini. Lo sequente dìe curze li campi de Roma con suoi arcieri e briganti. Tutto lo vestiame ne menava. Lo romore se levao per Roma. La mormoranza ne venne allo tribuno della preda de Romani che se ne iva. Allora lo tribuno cavalcao con suoi pochi famigli. Solo iessìo la porta. Li sollati lo sequitaro, tale armato, tale no, secunno che lo tiempo pateva. Curzero da porta Maiure, via de Pellestrina, per avia, per locora salvatiche, deserte. La tratta fu vana, inutile. Non trovaro né omo né vestia né arcieri. Li arcieri e·lli fanti de Pellestrina dotti de guerra per moite fiate descretamente avevano connutta la preda e nascostala in una selva, la quale se chiama Pantano, che iace fra Tivoli e Pellestrina. Là se tennero queti. La notte saviamente quella preda trassero da Pantano e salvarola in Pellestrina. Cercato che abbe moito la iente dello tribuno, non trovanno cosa alcuna, perché la notte era, venne alla citate de Tivoli. Là posao. Fatta la dimane, la novella ionze che le vestie de Romani erano tratte da Pantano e connutte in Pellestrina. Allora lo tribuno irato disse: "Que iova de ire de là e de cà per locora senza vie? Non voglio più scelmire cosa della Colonna. Alle mano voglio essere". Quattro dìi in Tivoli stette. Mannao suoi editti. Espeditamente fece venire da Roma la romana cavallaria, tutti li sollati da cavallo e·lli fanti masnadieri. Era vivace de scrivere. Staieva sio stennardo in Tivoli con soa arme de azule a sole de aoro e stelle de ariento e coll'arma de Roma. Forte cosa! Quello stennardo non era lucente como era prima; staieva miserabile, fiacco, non daieva le code allo viento regoglioso. Venuto lo stuolo de suoi sollati, le moite banniere, cornamuse e trommette assai, venuti missore Bettrone e missore Arimbaldo, li quali li aveva fatti capitanii de guerra generali, li sollati se mormoravano, ca volevano la paca. Li conestavili todeschi demannavano moneta, ché loro arme staievano in pegno. Moite scuse trovao. Non valeva più la fuga. Vedi bella lerciaria che fece alli suoi capitanii. Abbe missore Bettrone e missore Arimbaldo e disseli: "Trovo scritto nelle storie romane che non era moneta in Communo de Roma per sollati. Lo consolo adunao li baroni de Roma, disse:"Noa che avemo li offizii e·lle dignitate siamo li primi a dunare quello che ciascheuno pò de bona voluntate". Per quello duno fu adunata tanta moneta, che iustamente la milizia fu pacata. Così voi doi comenzete a dunare. La bona iente de Roma vederao che voi forestieri dunate. Serrao pronta a dunare. Averemo denari a furore". Li capitanii allora li dunaro milli fiorini, cinqueciento per uno, in doi vorze. Quella pecunia lo tribuno compartio alli sollati. Alla fantaria deo mesa paca de moneta de tevertini. Puoi adunao puopolo nella piazza de Santo Lorienzo de Tivoli e fece soa bella diceria. Disse como era ito venale anni sette, como fu in grazia de Carlo imperatore, lo cui aiutorio de prossimo aspettava. Disse como fu in grazia dello papa a despietto de Colonnesi suoi nemici. Mo' era per lo papa senatore de Roma, non lassato guidare per la tirannia de Colonnesi, per Stefanello serpente venenoso, ionco vallico. Dunque intenneva de desertare casa della Colonna e farli peio che quello che prima li fece aitra voita. Casa maladetta, ché per la loro supervia terra de Roma vive in povertate. Le aitre contrade vivo in ricchezza. Puoi aionze e disse: "Voglio fare l'oste sopra Pellestrina e farli lo guasto generale. Dunqua prego voi Tevertini che de buono core ce accompagnete, in tanta necessitate ce sovengate, non ce abannonete". Questa diceria fu fatta nello parapietto delli Palloni. Fatta questa diceria, lo sequente dìe mosse la fantaria forestiera, mosse tutta soa cavallaria e·llo puopolo de Tivoli con grascia e con arnese ad oste, e gìone a Castiglione de Santa Perzeta. Là posao dìi doi. Là se adunao la iente tutta. Puoi se mosse lo sequente dìe e fu sopra Pellestrina con tutto sio sfuorzo, anno Domini MCCCLIII[I], de mese [...], dìe [...] Assediao Pellestrina e allocao lo tribuno l'oste a Santa Maria della Villa, doi miglia da longa dalla citate. Là fuoro milli cavalieri fra Romani e sollati, fu lo puopolo de Tivoli e de Velletri, e·lle masnate delle communanze intorno e della badia de Farfa, e de Campagna e della Montagna. Puosto lo assedio, ciasche perzona cobelle faceva. Solo esso Cola de Rienzi de continuo aveva l'uocchi sopra Pellestrina. Aizava la testa e resguardava lo aito colle, lo forte castiello, e considerava per quale muodo potessi confonnere e derovinare quelle edificia. Non levava lo sguardo de·llà. Diceva: "Questo è quello monte lo quale me conveo appianare". Spesso anco, continuo guardanno e non movenno lo penzieri sio da Pellestrina, vedeva che per la parte de sopra vestiame veniva da pascere e entrava la porta de sopra per abbeverare, puoi tornava alli pascoli. Anco vedeva da l'aitra porta de sopra entrare uomini con salmarie, con some. Vedeva la traccia longa delli vetturali che venivano con fodere in Pellestrina. Allora domannava quelli li quali staievano seco e diceva: "Quelli somarieri que voco dicere?" Responnevano quelli che con esso staievano: "Senatore, quello vestiame veo da pascere e torna in Pellestrina a l'acqua per vevere. Quelli uomini portano farina e grascia per infoderare la terra che non affamassi". Allora responneva e diceva: "Diceteme, non se pòterano pigliare li passi, che questo vestiame sì liberamente non issi a pastura e quelli non portassino fodere?" Responnevano li meno liali Romani e dicevano: "Tanta è la fortura delli monti de Pellestrina, che quelle entrate de sopra e quelle iessite non se·lli puoco vetare. Tanta è la salvatichezza de questo luoco, che nulla oste là pòtera demorare". Ma non era così. Anco era la cruditate delli baroni de Roma, li quali staievano a vedere que ne iessiva, non ce volevano operare. Allora lo tribuno disse queste paravole: "Mai non te lento fi' che non te consumo, Pellestrina. E se io po' la sconfitta de Colonnesi a porta de Santo Lorienzo avessi cavalcato collo puopolo de Roma, in questa terra liberamente entrava senza contradizzione. Ià fora deruvinata. Io non sostènnera allo presente questo affanno. Lo puopolo de Roma vìssera in pace reposato". Allo secunno dìe che l'oste posta fu, fu comenzato lo guasto e fu depopulato tutto lo ogliardino de Pellestrina, tutto lo piano fi' alla citate. Non remase aitro che la parte de sopra, meno che·llo terzo. Quello poco non fu depopulato, perché alli dìi otto l'oste se partìo. E questa partenza fu per doi cascioni. La prima, che Velletrani erano odiosi con Tevertini. Subitamente se mettevano dentro in Pellestrina. Per tale via fuoro auti sospietti che·lla baratta non se levassi nell'oste. La secunna cascione fu che·lla fante de missore [...] [...] "Sostenga qui uno o doi de noi, lassi ire mi. Io li farraio venire dieci milia, vinti milia fiorini e moneta e iente quanta li piace. Deh, faccialo per Dio!" A queste paravole non trovava tutore alcuno. Fatta la notte, preso da primo suonno fra Monreale fu menato allo tormento. Quanno vidde la corda, desdegnato con mormorazione disse: "Ià ve aio bene ditto che voi rustichi villani site. Voleteme ponere allo tormento. Non vedete che io so' cavalieri? Como è in voi tanta villania?" Puro un poco fu aizato. Allora disse: "Io so' stato capo della Gran Compagnia. E perché so' cavalieri, so' voluto vivere ad onore. Aio revennute le citati de Toscana, messali la taglia, derupate terre e presa la iente". Allora fu tornato nello luoco delli suoi fratelli, intro li ceppi, redutto in restretto fra suoi fratelli. Conubbe che morire li conveniva. Domannao penitenza, e per tutta notte abbe con seco uno frate lo quale lo confessava. E così ordinao tutti suoi fatti. Odenno lo mormuorito de suoi fratelli, ad ora se voitava ad essi, parlava. Queste paravole diceva: "Doici frati, non dubitete. Voi site zitielli iovini, non avete provate le onne della ventura. Voi non morerete. Io moro e de mea morte non dubito. La vita mea sempre fu con trivulazioni. Fastidio me era lo vivere. De morire non dubitava. So' contento, ca moro in quella terra dove morìo lo biato santo Pietro e santo Pavolo, benché nostra desaventura sia per toa colpa, missore Arimbaldo, che me hai connutto qui in questo laberinto. Non perciò questo lasso. Non ve mormorete, non ve dogliate de me, ché io moro volentieri. Omo so', como ciello fui ingannato, como l'aitri uomini so' traduto. Dio me averao misericordia. Fui buono allo munno, serraio buono denanti a Dio, e specialemente non dubito perché venni con intenzione de bene fare. Voi iovini site: temete, ca non avete conosciuto que ène la fortuna. Pregove che ve amete e siate valorosi allo munno, como fui io che me feci fare obedienzia alla Puglia, Toscana e alla Marca". Spesse voite così dicenno, lo dìe se fece. La matina voize odire la messa, e odìola staienno scaizo a nude gamme. All'ora de mesa terza fu sonata la campana e fu adunato lo puopolo. Connutto fra Monreale nelle scale allo lione, staieva inninocchiato denanti a madonna santa Maria. Alle gote teneva uno cappuccio de scuro con uno freso de aoro. Aduosso teneva uno iuppariello de velluto bruno, cosito de fila de auro. Descento era senza alcuno cegnimento. Le caize in gamma de scuro. Le mano legate larghe. Teneva la croce in mano. Tre fraticielli con esso staievano. Mentre che odiva la sentenzia, parlava e diceva: "Ahi Romani, como consentite mea morte? Mai non ve feci offesa, ma la vostra povertate e·lle mee ricchezze me faco morire". Puoi diceva: "Dove so' io cuoito? Per bona fe' diece tanta iente me aio veduta denanti e più che questa non è". Puoi diceva: "So' alegro de morire là dove morìo Pietro e Pavolo. La mea vita senza trivolazione non è stata". Puoi diceva: "Tristo questo male traditore po' la mea morte!" Nella sentenzia fuoro mentovate le forche. Allora stordìo forte e levaose sùbito in piedi como perzona smarrita. Allora quelli che stavano intorno lo confortaro che non dubitassi. Fecero fede che connannato era alla testa. De ciò fu contento, stette queto. Abiato allo piano, per tutta la strada non finava volverse de là e de cà. Parlava e diceva: "Romani, iniustamente moro. Moro per la vostra povertate e per le mie ricchezze. Questa citate intenneva de relevare". Moite cose diceva. A peta a peta la croce basava. Forte se maniava de quello che poteva. Omo operativo, triomfatore, sottile guerrieri. Da Cesari in cà mai non fu alcuno megliore. Questo ène quello lo quale, con fortuna arrivato, ruppe in piaia romana, como ditto ène de sopra della galea sorrenata. Puoi che fu nello piano, là dove fuoro le fonnamenta della torre, fatta la rota intorno, inninocchiase in terra. Puoi se levao e disse: "Io non staio bene". Voitaose invierzo oriente e raccommannaose a Dio. Puoi se inninocchiao in terra, basao lo ceppo e disse: "Dio te salvi, santa iustizia". Fece colla mano una croce sopra lo ceppo e basaola. Trasse lo cappuccio e iettaolo. Posta che li fu la mannara in cuollo, favellao e disse: "Non stao bene". Allora era seco moita bona iente, fra quali era lo sio miedico de piaghe. Questo li trovao la ionta. Puosto lo fierro, allo primo colpo stoizao in là. Pochi peli della varva remasero nello ceppo. Frati minori tuoizero sio cuorpo in una cassa, ionto lo capo collo vusto. Pareva che atorno allo cuollo avessi una zaganella de seta roscia. Fu tumulato in Santa Maria de l'Arucielo lo escellente omo fra Monreale, la cui fama sonao per tutta Italia de virtute e de gloria. In la citate de Tivoli staieva uno domestico sio de sio lenaio, lo quale, odita la morte de sio signore, lo sequente dìe de dolore morìo senza remedio. Muorto questo valente omo, li Romani ne staievano forte afferrati. Allora lo tribuno adunao lo puopolo, favellao e disse: "Signori, non staiate turbati della morte de questo omo, ché ène stato lo peiore omo dello munno. Hao derobato citate e castella, muorti e presi uomini e donne, doi milia femine manna cattive. Allo presente era venuto per turbare nuostro stato e non relevarelo. Cercava de essere libero signore. Esso voleva le grazie fare. Voleva depopulare Campagna e terra de Roma, lo residuo de Italia. Nostra briga bene connuceremo a buono fine colla grazia de Dio. Ma allo presente farremo como fao lo trescatore dello grano: la spulla e·lle scorze voite manna allo viento, le vaca nette se serva per si. Così noi avemo dannato questo faizo omo. La moneta soa, li cavalli, le arme terremo per fare nostra briga". Per queste paravole Romani fuoro alquanto acquetati. Fra tanto una espressa lettera e commannamento venne dallo legato che missore Arimbaldo li fussi mannato sano e salvo. Così fu fatto. Remase sio frate, missore Bettrone, in le catene. Della moneta de fra Monreale abbe lo tribuno gran parte; tutta no, perché missore Ianni de Castiello ne abbe la maiure parte. Allora li nuobili de Roma se guardavano da esso como da traditore, perché non servava fede a sio amico. Allora Cola de Rienzi pacao li sollati espeditamente, da pede e da cavallo, quelli che remanere voizero. L'aitri liberamente lassao tornare. Recoize arcieri in granne quantitate. Da treciento uomini da cavallo aveva. Fece capitanio dello puopolo lo savio e saputo guerrieri Liccardo Imprennente delli Aniballi, signore de Monte delli Compatri. Mise le masnate intorno alle terre de Pellestrina. In Frascati teneva masnata de fanti e de arcieri. In la Colonna teneva masnata de fanti e de arcieri. In Castiglione de Santa Perzeta mise masnata de fanti. In Tivoli teneva lo menescalco. Se reservao in Roma, in Campituoglio, per provedere, per vedere que era da fare. Granne penzieri aveva de procacciare moneta per sollati. Restretto se era a povera spesa; onne denaro voleva per pache. Mai non fu veduto tale omo. Solo esso portava lo penzieri de Romani. Più vedeva esso stanno in Campituoglio che suoi officiali nelle locora puosti. Sempre bussava, sempre scriveva alli officiali. Daieva lo muodo, l'ordine da fare cose e·lli fatti prestamente, de chiudere li passi donne se facevano le offese, de prennere uomini e spie. Mai non finava. Mai suoi officiali staievano lienti, freddi; non facevano cosa notabile, salvo lo prode guerrieri Liccardo, lo quale non se infegneva. Notte e dìe faceva predare Colonnesi, per tutta Campagna li persequitava. Non li lassava cogliere cielo. Consumava Stefanello e Colonnesi e Pellestrinesi. La guerra menava a buono fine, omo mastro che sapeva li passi e·lle locora, conosceva li tiempi. Sapevase fare amare da sollati. Era obedito de voglia. Dicevano l'Ongari: "Mai non fu veduto tale capitanio sì valoroso". Desarmato voitava la mano, dicenno: "Quello vestiame venga cà". Como lo diceva così veniva. A buono fine la guerra veniva. Ora voglio contare la morte dello tribuno. Aveva lo tribuno fatta una gabella de vino e de aitre cose. Puseli nome"sussidio". Coize sei denari per soma de vino. Coglievase la moita moneta. Romani se·llo comportavano per avere stato. Anco stregneva lo sale per più moneta avere. Anco stregneva soa vita e soa famiglia in le spese. Onne cosa penza per sollati. Repente prese uno citatino de Roma nobile assai, perzona sufficiente, saputa: nome avea Pannalfuccio de Guido. Omo virtuoso, assai desiderava la signoria dello puopolo. E sì·lli troncao la testa senza misericordia e cascione alcuna. Della cui morte tutta Roma fu turbata. Staievano Romani como pecorella. Queti non osavano favellare. Così temevano questo tribuno como demonio. In loco consilii obtinebat omnem suam voluntatem, nullo consiliatore contradicente. Ipso instanti ridens plangebat et emittens lacrimas et suspiria ridebat, tanta inerata ei varietas et mobilitas voluntatis. Ora lacrimava, ora sgavazzava. Puoi se deo a prennere la iente. Prenneva questo e quello, revennevali. Lo mormuorito quetamente per Roma sonava. Perciò a fortezza de si sollao cinquanta pedoni romani per ciasche rione, priesti ad onne stormo. Le pache non li dava. Prometteva onne dìe. Tenevali in spene. Promettevali abunnanzia de grano e cose assai. Novissime cassao Liccardo della capitania e fece aitri capitanii. Questa fu la soa sconfittura. Allora lassao Liccardo lo predare e·llo sollicito guerriare, mormorannose debitamente de sì ingrato omo. Era dello mese de settiembro, a dìi otto. Staieva Cola de Rienzi la dimane in sio lietto. Avease lavata la faccia de grieco. Subitamente veo voce gridanno: "Viva lo puopolo, viva lo puopolo". A questa voce la iente traie per le strade de·llà e de cà. La voce ingrossava, la iente cresceva. Nelle capocroce de mercato accapitao iente armata che veniva da Santo Agnilo e da Ripa e iente che veniva da Colonna e da Treio. Como se ionzero insiemmori, così mutata voce dissero: "Mora lo traditore Cola de Rienzi, mora!" Ora se fionga la ioventute senza rascione, quelli proprio che scritti aveva in sio sussidio. Non fuoro tutti li rioni, salvo quelli li quali ditti soco. Curzero allo palazzo de Campituoglio. Allora se aionze lo moito puopolo, uomini e femine e zitielli. Iettavano prete; faco strepito e romore; intorniano lo palazzo da onne lato, dereto e denanti, dicenno: "Mora lo traditore che hao fatta la gabella, mora!" Terribile ène loro furore. A queste cose lo tribuno reparo non fece. Non sonao la campana, non se guarnìo de iente. Anco da prima diceva: "Essi dico:"Viva lo puopolo", e anco noi lo dicemo. Noi per aizare lo puopolo qui simo. Miei scritti sollati so'. La lettera dello papa della mea confirmazione venuta ène. Non resta se non piubicarla in Consiglio". Quanno a l'uitimo vidde che·lla voce terminava a male, dubitao forte; specialemente ché esso fu abannonato da onne perzona vivente che in Campituoglio staieva. Iudici, notari, fanti e onne perzona aveva procacciato de campare la pelle. Solo esso con tre perzone remase, fra li quali fu Locciolo Pellicciaro, sio parente. Quanno vidde lo tribuno puro lo tumuito dello puopolo crescere, viddese abannonato e non proveduto, forte se dubitava. Demannava alli tre que era da fare. Volenno remediare, fecese voglia e disse: "Non irao così, per la fede mea". Allora se armao guarnitamente de tutte arme a muodo de cavalieri, la varvuta in testa, corazza e falle e gammiere. Prese lo confallone dello puopolo e solo se affece alli balconi della sala de sopra maiure. Destenneva la mano, faceva semmiante che tacessino, ca voleva favellare. Sine dubio che se lo avessino scoitato li àbbera rotti e mutati de opinione, l'opera era svaragliata. Ma Romani non lo volevano odire. Facevano como li puorci. Iettavano prete, valestravano. Curro con fuoco per ardere la porta. Tante fuoro le valestrate e·lli verruti, che alli balconi non potéo durare. Uno verruto li coize la mano. Allora prese questo confallone e stenneva lo sannato da ambedoi le mano. Mostrava le lettere dello auro, l'arme delli citatini de Roma, quasi venissi a dicere: "Parlare non me lassate. Ecco che io so' citatino e popularo como voi. Amo voi, e se occidete me, occidete voi che romani site". Non vaize questi muodi tenere. Peio fao la iente senza intellietto. "Mora lo traditore!" chiama. Non potenno più sostenere, penzao per aitra via campare. Dubitavase de remanere su nella sala de sopra, perché anco stava presone missore Bettrone de Narba, a chi fatta aveva tanta iniuria. Dubitava che non lo occidessi con soie mano. Conosceva e vedeva che responneva allo puopolo. Penzao partirse dalla sala de sopra e delongarese da missore Bettrone per cascione de più securitate. Allora abbe tovaglie de tavola e legaose in centa e fecese despozzare ioso nello scopierto denanti alla presone. Nella presone erano li presonieri; vedevano tutto. Tolle li chiavi e tenneli a sé. Delli presonieri dubitava. De sopra nella sala remase Locciolo Pellicciaro, lo quale a quanno a quanno se affaceva alli balconi e faceva atti con mano, con vocca allo puopolo e diceva: "Essolo che vene ioso dereto", e issino dereto allo palazzo, ca dereto veniva. Puoi se volvea allo tribuno, confortavalo e diceva che non dubitassi. Puoi tornava allo puopolo facenno li simili cenni: "Essolo dereto, essolo ioso dereto". Davali la via e l'ordine. Locciolo lo occise. Locciolo Pellicciaro confuse la libertate dello puopolo, lo quale mai non trovao capo. Solo per quello omo poteva trovare libertate. Solo Locciolo se·llo avessi confortato, de fermo non moriva; ché fu arza la sala, lo ponte della scala cadde a poca d'ora. Ad esso non poteva alcuno venire. Lo dìe cresceva. Li rioni della Regola e li aitri forano venuti, lo puopolo cresciuto, le voluntate mutate per la diverzitate. Onne omo fora tornato a casa, overo granne vattaglia stata fora. Ma Locciolo li tolle la speranza. Lo tribuno desperato se mise a pericolo della fortuna. Staienno allo scopierto lo tribuno denanti alla cancellaria, ora se traieva la varvuta, ora se·lla metteva. Questo era che abbe da vero doi opinioni. La prima opinione soa, de volere morire ad onore armato colle arme, colla spada in mano fra lo puopolo a muodo de perzona magnifica e de imperio. E ciò demostrava quanno se metteva la varvuta e tenevase armato. La secunna opinione fu de volere campare la perzona e non morire. E questo demostrava quanno se cavava la varvuta. Queste doi voluntate commattevano nella mente soa. Venze la voluntate de volere campare e vivere. Omo era como tutti li aitri, temeva dello morire. Puoi che deliverao per meglio de volere vivere per qualunche via potéo, cercao e trovao lo muodo e·lla via, muodo vituperoso e de poco animo. Ià li Romani aveano iettato fuoco nella prima porta, lena, uoglio e pece. La porta ardeva. Lo solaro della loia fiariava. La secunna porta ardeva e cadeva lo solaro e·llo lename a piezzo a piezzo. Orribile era lo strillare. Penzao lo tribuno devisato passare per quello fuoco, misticarese colli aitri e campare. Questa fu l'uitima soa opinione. Aitra via non trovava. Dunque se spogliao le insegne della baronia, l'arme puse io' in tutto. Dolore ène de recordare. Forficaose la varva e tenzese la faccia de tenta nera. Era là da priesso una caselluccia dove dormiva lo portanaro. Entrato là, tolle uno tabarro de vile panno, fatto allo muodo pastorale campanino. Quello vile tabarro vestìo. Puoi se mise in capo una coitra de lietto e così devisato ne veo ioso. Passa la porta la quale fiariava, passa le scale e·llo terrore dello solaro che cascava, passa l'uitima porta liberamente. Fuoco non lo toccao. Misticaose colli aitri. Desformato desformava la favella. Favellava campanino e diceva: "Suso, suso a gliu tradetore!" Se le uitime scale passava era campato. La iente aveva l'animo suso allo palazzo. Passava la uitima porta, uno se·lli affece denanti e sì·llo reaffigurao, deoli de mano e disse: "Non ire. Dove vai tu?" Levaoli quello piumaccio de capo, e massimamente che se pareva allo splennore che daieva li vraccialetti che teneva. Erano 'naorati: non pareva opera de riballo. Allora, como fu scopierto, parzese lo tribuno manifestamente: mostrao ca esso era. Non poteva dare più la voita. Nullo remedio era se non de stare alla misericordia, allo volere altruio. Preso per le vraccia, liberamente fu addutto per tutte le scale senza offesa fi' allo luoco dello lione, dove li aitri la sentenzia vodo, dove esso sentenziato aitri aveva. Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo omo era ardito toccarelo. Là stette per meno de ora, la varva tonnita, lo voito nero como fornaro, in iuppariello de seta verde, scento, colli musacchini inaorati, colle caize de biada a muodo de barone. Le vraccia teneva piecate. In esso silenzio mosse la faccia, guardao de·llà e de cà. Allora Cecco dello Viecchio impuinao mano a uno stuocco e deoli nello ventre. Questo fu lo primo. Immediate puo' esso secunnao lo ventre de Treio notaro e deoli la spada in capo. Allora l'uno, l'aitro e li aitri lo percuoto. Chi li dao, chi li promette. Nullo motto faceva. Alla prima morìo, pena non sentìo. Venne uno con una fune e annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra, strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano como fussi criviello. Onneuno ne·sse iocava. Alla perdonanza li pareva de stare. Per questa via fu strascinato fi' a Santo Marciello. Là fu appeso per li piedi a uno mignaniello. Capo non aveva. Erano remase le cocce per la via donne era strascinato. Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le mazza de fòra grasse. Grasso era orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello. Là pennéo dìi doi, notte una. Li zitielli li iettavano le prete. Lo terzo dìe de commannamento de Iugurta e de Sciarretta della Colonna fu strascinato allo campo dell'Austa. Là se adunaro tutti Iudiei in granne moititudine: non ne remase uno. Là fu fatto uno fuoco de cardi secchi. In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva volentieri. Staievano là li Iudiei forte affaccennati, afforosi, affociti. Attizzavano li cardi perché ardessi. Così quello cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne remase cica. Questa fine abbe Cola de Rienzi, lo quale se fece tribuno augusto de Roma, lo quale voize essere campione de Romani. In cammora soa fu trovato uno spiecchio de acciaro moito polito con carattere e figure assai. In quello spiecchio costregneva lo spirito de Fiorone. Anco li fuoro trovati pugillari dove aveva scritti Romani, la coita che voleva mettere. Lo primo ordine, ciento perzone da cinqueciento fiorini; lo secunno ordine, ciento perzone da quattrociento fiorini; lo terzo, da ciento fiorini; lo quarto, da cinquanta fiorini; lo quinto, da dieci fiorini. Quanno questo omo fu occiso currevano anni Domini MCCCLIII[I], alli otto dìi de settiembro in ora della terza. Non solamente questo fu muorto in furore de puopolo, ma tutta soa forestaria fu derobata de tutto arnese. Perdiero cavalli e arme. Fuoro lassati nudi sì quelli che se trovaro a Roma, sì quelli che staievano de fore per le fortezze a guerriare. Vogliome stennere sopra questa materia. Franceschi entraro in Roma e assediaro Tarpeia, lo monte de Campituoglio. Per la paura Romani se erano redutti là. Puoi che viddero che in Tarpeia non era sufficienzia de fodero, deliveraro de mannare fòra li veterani, como perzone inutile, per avere più fodero, per salvare la ioventute. Così fu. Li veterani, 'nanti che issiro fòra de Tarpeia, fuoro in consiglio. Dissero così: "Noi gimo alle case nostre. Fra li Franceschi per carnario muorti serremo senza dubio. Meglio ène che moramo in abito de virtute che de miseria. Onneuno se vesta le ornamenta soie". Così fu. Li veterani ne iro alle case. Ciascheuno se adobao con quelli ornamenti li quali avevano auti nelle onoranze delli offizii. Tale se vestìo a muodo de pontefice, tale a muodo de senatore, chi de consolo. Allocarose nelli facistuori adornati, colle bacchette in mano, adorni de prete preziose e de aoro. Fra li aitri uno aveva nome Papirio. Forte adorno staieva denanti la soa casa, cum pretexta, cum trabea indutus. La matina li Franceschi se maravigliaro de tale novitate, curzero a vedere como cosa nova. Uno Francesco prese la varva a questo Papirio e disse: "Ahi vegliardo, vegliardo!" Allora Papirio se desdegnao, perché lo Francesco non li favellava con reverenzia, como l'abito sio mustrava. Destese la bacchetta e ferìo lo Francesco nello capo, e non teméo de morire per salvare la onoranza della maiestate soa. Lo buono Romano dunqua non voize morire colla coitra in capo como Cola de Rienzi morìo.

Cap.XXVIII


Della venuta de Carlo imperatore a Roma e della soa coronazione e della soa partenza alla Alamagna.