Anonimo romano
Vita di Cola di Rienzo
Prologo e primo capitolo
dove se demostra le rascione per le quale questa opera fatta fu
Dice
lo glorioso dottore missore santo Isidoro, nello livro delle
Etimologie, che lo primo omo
de
Grecia che trovassi lettera fu uno Grieco lo quale abbe nome Cadmo.
'Nanti lo tiempo de
questo
non era lettera. Donne, quanno faceva bisuogno de fare alcuna cosa
memorabile,
scrivere
non se poteva. Donne le memorie se facevano con scoiture in sassi e
pataffii, li
quali
se ponevano nelle locora famose dove demoravano moititudine de iente,
overo se
ponevano
là dove state erano le cose fatte: como una granne vattaglia
overo vettoria [...]
tristezze,
disconfitte inscolpivano [...] e aitri animali in sassi overo iente
armata, in segno de
tale
memoria. E queste sassa fonnavano in quelle locora dove le cose fatte
erano, in segno
de
perpetua memoria. Livro non ne facevano, ché lettera non se
trovava appo li Grieci. E
questo
muodo servaro li Romani per tutta Italia e in Francia e massimamente
in Roma; ché,
facenno
asapere alli loro successori [...] loro fatti, fecero arcora
triomfali in soli[i]s con
vattaglie,
uomini armati, cavalli e aitre cose, como se trova mo' in Persia e in
Arimino. Da
poi
che Cadmo comenzao a trovare le lettere, la iente comenzao a scrivere
le cose e·lli fatti
loro
per la devolezza della memoria, e massimamente li fatti avanzarani e
mannifichi: como
Tito
Livio fece lo livro dello comenzamento de Roma fino allo tiempo de
Ottaviano, como
scrisse
Lucano li fatti de Cesari, Salustio e moiti aitri scrittori non
lassaro perire la memoria
de
moite cose antepassate de Roma. Dunqua io, lo quale [...] mea
ientilezza, como piaciuto
ène
a Dio, aio vedute cose de moita memoria per la loro granne
escellenzia de novitate in
questo
munno, lassaraio passare queste cose senza alcuna scrittura? Certo
non fora
convenevole
che de esse remanga tenebre de ignoranzia per pigrizia de scrivere.
Anche ne
voglio
fare speziale livro e narrazione. L'opera ène granne e bella.
Questo affanno prenno
per
moite cascione. La prima, che omo trovarao alcuna cosa scritta la
quale se revederao
avenire
in simile, donne conoscerao che·llo ditto de Salamone ène
vero. Dice Salamone:
"Non
è cosa nova sotto lo sole, ché cosa che pare nova stata
è". L'aitra cascione de questo
ène
che qui se trovarao moito belli e buoni esempî; donne porrao
omo alcuna cosa
pericolosa
schifare, alcuna porrao eleiere e adoperare, sì che lo leiere
de questa opera non
passarao
senza frutto de utilitate. La terza cascione ène che aio
respietto alla magnificenzia
de
questa novitate, como de sopra ditto ène; ché cosa de
poco essere omo non cura,
lassala
stare, cosa granne scrive. La quarta cascione ène quella che
mosse Tito Livio. Dice
Tito
Livio nella prima decada e fao menzione de Alisantro de Macedonia:
quanta iente abbe
da
pede e da cavallo, quanto tiempo durao soa signoria, quanto se stese
per lo munno. E
dice
che soa grannezza fu nulla cosa in comparazione de Romani. Questo
dicenno
responne
ad una questione la quale omo li potria fare e dicere: "Innello
narrare le istorie de
Romani
como te impacci delli fatti de Alisantro?" Responne Tito Livio e
dice: "Questo faccio
per
ponere requie allo animo mio". Quasi dica: "Lo animo mio
ène stimolato de scrivere
questa
materia. Voglione toccare. Puoi me se posa consolato lo mio animo".
Così dico io:
"L'animo
mio stimolato non posa finente dio che io non aio messe in scritto
queste belle
cose
e novitati le quale vedute aio in mea vita". La quinta cascione
ène anche quella che
scrive
Tito Livio nello proemio dello sio livro, nella prima decada. Dice:
"Mentre che sto
occupato
a scrivere queste cose, so' remoto e non veggo le crudelitati le
quale per tanti
tiempi
la nostra citate hao vedute". Così dico io: "Mentre
che prenno diletto in questa opera,
sto
remoto e non sento la guerra e li affanni li quali curro per lo
paese, li quali per la moita
tribulazione
siento tristi e miserabili non solamente chi li pate, ma chi li
ascoita". Quello che
io
scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia
testimonio Dio e quelli li quali mo' vivo con
meco,
ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille:
massimamente alcuna cosa
che
fu in mio paiese intesi da perzone fidedegne, le quale concordavano
ad uno. E de ciò io
poneraio
certi segnali, secunno la materia curze, li quali fuoro concurrienti
con esse cose.
Questi
segnali farrao lo leiere essere certo e non suspietto de mio dicere.
Anche questa
cronica
scrivo in vulgare, perché de essa pozza trare utilitate onne
iente la quale
simplicemente
leiere sao, como soco vulgari mercatanti e aitra moita bona iente la
quale per
lettera
non intenne. Dunqua per commune utilitate e diletto fo questa opera
vulgare, benché
io
l'aia ià fatta per lettera con uno latino moito [...] Ma
l'opera non ène tanto ordinata né tanto
copiosa
como questa. Anche questa opera destinguo per capitoli, perché
volenno trovare
cobelle,
senza affanno se pozza trovare. [...]
Cap. II
Como Iacovo de Saviello senatore fu cacciato de Campituoglio per lo puopolo, e della cavallaria de missore Stefano della Colonna e missore Napolione delli Orsini.
Dunqua
da quale novitate comenzaraio? Io comenzaraio dallo tiempo de Iacovo
de Saviello.
Essenno
senatore solo per lo re Ruberto, fu cacciato da Campituoglio dalli
scendichi. Li
scendichi
fuoro Stefano della Colonna, signore de Pelestrina, e Poncello de
missore Orso,
signore
dello Castiello de Santo Agnilo. Questi se redussero nello Arucielo
e, sonata la
campana,
fecero adunare lo puopolo, la moita cavallaria armata e li moiti
pedoni. Tutta
Roma
stava armata. Bene me recordo como per suonno. Io stava in Santa
Maria dello
Piubico
e viddi passare la traccia delli cavalieri armati li quali traievano
a Campituoglio. Forte
ivano
regogliosi. Moiti erano, e bene a cavallo e bene armati. L'uitimo de
quelli, se bene me
recordo,
portava una iuba de zannato roscio e una scuffia de zannato giallo in
capo, una
mazza
a cavallo in mano. Passavano per la strada ritta, per la posana,
donne demorano li
ferrari,
da canto a casa de Pavolo Iovinale. La traccia era longa. La campana
sonava. Lo
puopolo
se armava. Io stava in Santa Maria dello Piubico. A queste cose
poneva cura.
Iacovo
de Saviello senatore stava in Campituoglio. Erase stecconiato
intorno. Non vaize
niente
sio infortellire, ché sallo su Stefano, sio zio, e Poncello
scindichi de Roma, e
doicemente
lo presero per mano e miserollo a valle, acciò che non avessi
pericolo nella
perzona.
Fu alcuno che penzao e disse: "Stefano, como puoi fare tanta
onta a tio nepote?"
La
resposta de Stefano fu superva, disse: "Con doi denari de cerase
lo rappagaraio". Mai
questi
denari non se trovaro. Anche comenzo io dallo tiempo che questi doi
baroni fuoro fatti
cavalieri
per lo puopolo de Roma, bagnati de acqua rosata per li vintiotto
Buoni Uomini in
Santa
Maria de l'Arucielo a granne onore. L'uno fu chiamato missore
Stefano, l'aitro missore
Napolione.
Granne fu la festa, granne fu l'onore là in Campituoglio.
Nella piazza de Santa
Maria
fuoro spase trabacche e paviglioni. Là erano tromme e
ceramelle e onne instrumento.
Vedesi
rompere de aste, currere de cavalli e pettorali de sonaglie. Moite
erano le banniere.
Più
erano le reconoscianze. Moita se faceva festa. Moito li fu fatto
onore. Nella chiesia de
Santa
Maria de l'Arucielo stavano doi lietti, li più onorati. Ben
pareva cosa reale. Queste
cose
me recordo como per suonno. Currevano anni Domini MCCC [...] li
sopraditti cavalieri
bagnati
ne iero allo re Ruberto a Napoli, lo quale li cenze la spada; la
quale cosa moito
despiacque
allo romano puopolo. Certo da queste cose io non comenzo; ca, benché
così
fosse,
io era in tanta tenerezza de etate, che conoscimento non avea
elettivo. Anco voglio
comenzare
da cosa de più aitezza. Incomenzaremo collo nome de Dio dalla
sconfitta dello
principe
della Morea, la quale fu per questa via.
Cap. III
Como fu sconfitto lo principe della Morea a porta de Castiello Santo Agnilo, e como fu trovato Guelfo e Gebellino, e delle connizione de Dante e que fine abbe soa vita.
Currevano
anni Domini MCCCXXVII, dello mese de settiembro, nella viilia de
santo Agnilo de
vennegne,
quanno fatta fu la granne sconfitta per li Romani a porta de
Castiello; la quale fu
per
questa via. Li elettori dello imperio nella Alamagna liessero
Ludovico duce de Bavaria in
imperatore,
lo quale non fu obediente a papa Ianni, como se dicerao. Quanno la
venuta de
questo
elietto a Roma fu intesa, papa Ianni, lo quale era in quello tiempo,
e Ruberto re de
Apuglia
se provedevano de pararese a soa venuta. Dunqua de loro commannamento
missore
Ianni della Rascione, principe della Morea, frate dello re Ruberto, e
missore Ianni
Gaietano,
legato in Toscana, se muossero con iente moita a Roma per fare
contrasto e
reparo.
La adunanza fu fatta nella citate de Nargne. La iente fu moito bella
e bene acconcia.
Setteciento
fuoro li cavalieri, pedoni senza fine. Tutti li baroni de casa Orsina
erano con
essi:
missore Napolione, cavaliero noviello dello puopolo, Bertollo de
Francesco dello Monte,
nepote
dello legato, canfione della parte guelfa, missore Antrea de Campo de
Fiore e moiti
aitri.
La iente ne veniva grossa e smesurata per occupare Roma. Romani, in
semmiante de
fare
buono scudo, se 'nantipararo e fecero capitanio dello puopolo uno
vertuosissimo
barone
de casa della Colonna - Sciarra fu sio nome -, lo quale fu delli più
dotti e savii de
guerra
che in quello tiempo fussi. 'Nanti che lo legato approssimassi,
Sciarra abbe tutte le
fortezze
de Roma. Bene abbe Castiello Santo Agnilo. Puoi ordinao lo puopolo e
fece
caporioni.
Fece capo vinticinque, tutti romani. Ordinao tutti conestavili. Moito
li teneva
solliciti.
Bene guardava le porte. Spesso faceva parlamento. Moite spie avea.
Iacovo
Saviello,
Teballo Santo Stati e moita baronia collo puopolo era. Quanto la
venuta dello legato
più
approssimava, tanto li Romani stavano più solliciti. Ecco che
la notte della viilia de santo
Agnilo
fuoro ionti in Roma. E entraro nella citate Leonina, non per la
porta, ché se guardava,
ma
entraro per lo muro rotto. Ruppero lo muro quale stao sotto le
Incarcerate e, dato quello
muro
per terra, fecero uno granne guado in fronte allo pozzo e per quella
così fatta via
tradussero
loro banniere, loro legioni de iente. Entrati, occuparo da porta de
Castiello fi' a
Santo
Pietro. Tutto era copierto de iente armata. Bene sonavano tromme e
trommette,
naccari
e cerammelle. Gran festa facevano. Bene scrissero lettere della
entrata de Roma.
Fra
tanto la porta dello brunzo stava enzerrata. Quanno Sciarra, lo
franco capitanio, sappe
che
la iente era ionta, non se dubitao niente, anco se armao e fece
sonare la campana a
stormo.
Mesa notte era e forza lo primo suonno. Uno vanno con tromme mannao
per la
terra,
che onne perzona fosse armata, ca·lli nemici erano entrati in
Puortica, e che
traiessino
a Campituoglio. La iente che dormiva subitamente se sviglia. Ciascuno
prenne
arme.
Coscia abbe nome lo vannitore. La campana sonava terribilemente. La
iente trasse a
Campituoglio.
Là traie la baronia e·lli populari. Lo buono capitanio
parlao e disse ca venuti
erano
per entrare in Roma, per mozzare le zinne delli pietti delle donne de
Roma. Moito
inanimao
la iente. Poi partìo la iente in doi parte. De l'una parte fu
capo esso, dell'aitra fu
capo
Iacovo de Saviello, lo quale fu mannato alla porta de Santo Ianni,
quale se dice porta
Maiure.
E questo perché sapeva ca quella iente se era partuta e veniva
da doi porte, parte
da
porta Castiello, parte da porta Maiure. Ma non venne così, ca,
como Dio voize, fu dato lo
dìe
de santo Agnilo. Quelli intesero lo dìe po' santo Agnilo.
Donne la cosa venne falluta, ca
non
vennero alle porte ad uno ponto né ad uno dìe. Quanno
Iacovo ìo alla porta, non trovao
alcuno.
Là se tenne senza alcuno impaccio conestavilito. Dall'aitra
parte cavalca Sciarra
con
sio confallone. Granne ène la cavallaria. Sette rioni se
abiaro denanti armati.
Esmesurato
era lo puopolo. Ionze a ponte de Santo Pietro. Io me recordo che in
quella notte
uno
cavalieri romano armato, essenno cavalcato a ponte, odìo una
trommetta de nimici.
Volenno
fuire tramazzao da cavallo. Lassao lo cavallo e vennesene a pede.
Sacci ca non
abbe
carestia de paura! Quanno lo puopolo fu ionto a ponte, allora se
faceva dìe. Era la
aurora.
Allora Sciarra commannao che·lla porta dello brunzo fossi
operta. La folla era
granne.
Moito fuoro storditi li nimici, vedenno per lo ponte li moiti
pennoncielli. Sapeno ca
onne
pennone avea venticinque uomini. Ora se opere la porta. Lo rione
delli Monti vao
denanti.
Allocase lo puopolo per li puortichi, per la piazza de Castiello. Là
erano schierati li
sollati
e l'aitre iente. Ora vedese currere de cavalli. L'uno lo broccia de
sopra a l'aitro. Chi
dao,
chi tolle. Tromme sonavano de·llà e de cà.
Granne è lo romore, granne è lo stormo. Chi
dao,
chi tolle. Sciarra e missore Antrea de Campo de Fiore se infrontano
insiemmori e sì se
villaniaro
forte. Puoi se ruppero aduosso le aste. Puoi se colpiavano delle
spade. Non ne
voleva
la vita l'uno de lo aitro. Intanto se departiero e tornaro a loro
iente. Vedese ferire,
lanciare
e prete iettare. Ben pare che fossi stormo crudele. Lo puopolo de
Roma vao 'nanti e
reto
como onna de mare. Ma li nimici daienno lato, li Romani se allocaro
fi' a mesa la
piazza.
Là fu fatta una novitate così. Uno, lo quale avea nome
Ianni Manno de Colonna,
portava
lo confallone dello puopolo de Roma. Como ionze allo pozzo lo quale
stao in quella
piazza
denanti alle Incarcerate, donne era rotto lo muro, prese questo
confallone e iettaolo
nello
pozzo. E questo fece per dare uitima sconfitta allo puopolo de Roma.
Bene debbe lo
traditore
perdire la vita. Non perciò perdìo vigore lo Romano,
ché ià lo principe dava a reto.
Ora
vedese fuire, ora vedese commattere. Là se pare chi ène
figlio de bona mamma.
Sciarra
della Colonna forte conforta soa iente e fece una notabile cosa, che
la soa
sopravesta
cagnao in poca ora. Granne senno lillo fece fare. Granne parte dello
puopolo
passao
canto lo fiume, dallo lato de Santo Spirito. Là per la folla
affocati fuoro cinque pedoni
romani.
Anco là fu un'aitra novitate. Uno granne omo de Roma - Cola de
madonna
Martomea
delli Aniballi avea nome - fu perzona assai ardita, iovine como
acqua. Coize
audacia
de volere prennere per la perzona lo principe. Speronao lo destrieri
e ruppe la forte
schiera
dove stava affasciato lo principe. Venneli denanti e destese la mano
per pigliarlo.
Bene
se ne·llo credeva menare; ma non respusero le mesure, ca·llo
principe li menao de
una
mazza de fierro e ferìo lo cavallo. La potenzia dello
destrieri dello principe fu tanta che
recessava
a reto Nicola e recessannose a reto Nicola, non abbe sufficiente
spazio lo sio
cavallo.
Donne li piedi dereto li vennero meno e cadde in quello fossato lo
quale stao in
fronte
alla porta dello spidale de Santo Spirito, lo quale ène fatto
per defesa de l'uorto. In
quello
fossato lo cavallo e esso, credennose retornare, caddero menati a
forza dalli cavalli
dello
principe, e là fu occiso. Granne fu la tristizia che Roma abbe
de così inclito barone.
Allora
se fiariao lo puopolo. Lo principe deo a reto. Inchinao soa schiera.
Comenzaro a fuire.
Lo
luoco donne se partiro fu porta Veredara. Quella fu la via che li
campao. Ora se aiza la
terza.
Lo fuire ène granne. Maiure è lo maciello. Così
se macellavano como le pecora. Nulla
resistenzia
faco. Moita iente ce fu occisa. Moita preda Romani guadagnaro.
Alquanti baroni
romani
della parte Orsina, li quali fecero resistenzia, fuoro presoni. In
presone stettero tanto
quanto
lo capitanio voize. Infra li quali fu Bertollo capo de parte Orsina,
capitanio della
Chiesia
e della parte guelfa. E se non fusse che Sciarra lo portava in
groppa, li Romani lo
àbberano
muorto. Aitra iente non fece defesa, cioène Napoletani,
Provenzali, Franceschi,
Pugliesi.
Tante fuoro le corpora morte che nude iacevano, che non se pote
dicere. Per tutta
piazza
de Castiello fi' a Santo Pietro, da Santa Maria in Trespadina, da
piazza de Santo
Spirito,
per tutte puortica, dalli Armeni, per onne strada iacevano como la
semmola
seminati,
tagliati, nudi e muorti. Là fra questa iente iaceva lo conte
de Santo Severino e
moita
aitra bona iente: la vista lo mustrava. Ora se delequa lo principe
con quella soa iente
che
potéo cogliere. Po' moiti dìe fuoro trovati uomini
muorti per le vigne, armati, nelle
capanne
e nelli cupi delli arbori, li quali nello stormo erano stati feruti.
Per la via lo spirito li
avea
abannonati. Sciarra tornao a Campituoglio con granne triomfo. Bello
pallio mannao a
Santo
Agnilo Pescivennolo e uno bello calice per merito e onore de questa
romana vittoria.
In
questo tiempo fuoro fatte quelle maladette parte, Guelfi e Gebellini,
li quali non erano stati
'nanti,
anco erano stati Bianchi e Neri. Una sera, quanno la iente lassa
opera, appriesso allo
cenare
nella citate de Fiorenza se appicciaro doi cani. L'uno abbe nome
Guelfo, l'aitro
Gebellino.
Forte se stracciavano. A questo romore de doi cani la moita
iovinaglia trasse.
Parte
favorava allo Guelfo, parte allo Gebellino. Quanno se fuoro li cani
[...]
Cap. IV
De
papa Ianni e della venuta dello Bavaro a Roma e della soa partenza
e
dello antipapa lo quale fece.
.........
Cap. V
Dello mostro che nacque in Roma e dello legato dello papa lo quale fu cacciato de Bologna.
[...]
una citate, da priesso a Bologna vinti miglia: Ferrara hao nome. De
questa Ferrara so'
cacciati
alquanti citadini nuobili, li quali se chiamano quelli da Fontana. E
questo avenne
perché
venniero Ferrara a Veneziani. Ora ne soco signori in luoco loro li
marchesi da Este.
Questi
de Fontana pregaro lo legato che li tornassi in loro casa per anni
tre. Li marchesi de
Ferrara
respusero allo legato fiorini quattordici milia per anno, acciò
che non tornassino
quelli
li quali vennuta avevano la loro patria a Veneziani. Po' li quattro
anni dello tributo, lo
anno
settimo dello sio dominio, lo legato non li pareva essere signore se
non aveva la
signoria
libera. Fece una oste generale e sì·lla mannao sopra
Ferrara. Ferrara ène una
longa
terra, miglio uno, e iace sopra la ripa de uno nobile e granne fiume
lo quale hao nome
Po.
Da l'aitro lato li stao un aitro vraccio de Po. Questa citate, como
ditto ène, è signoriata
dalli
marchesi da Este, li quali so' nuobili uomini, moito amati dalli
tiranni de Lommardia.
L'oste
dello legato fu potentissima. De colpo abbe tutto lo contado de
Ferrara. Puoi passao
lo
Po e fece uno ponte de lename a soa posta. Puoi toize lo borgo de
Ferrara, lo quale vao
invierzo
Venezia. Poca cosa era da fare. La terra era perduta. Per acqua e per
terra staieva
assediata.
Erance da fare uno bottone. Lo capitanio dell'oste era lo conte de
Armeniac, lo
quale
sparlava contra li baroni de Romagna e dicevali traditori, lo quale
per grannezza soa
non
curava de fare quella guardia la quale aveva de bisuogno. Anco ce fu
lo puopolo de
Bologna,
lo quale non stava volentieri fore de casa. Anco ce fu la moita
sollaria, li quali non
erano
pacati, ca·lle pache che se·lli mannavano non se·lli
daievano. Anco ce fu li signori de
Romagna.
Lo legato li teneva moito poveri. Nulla provisione li daieva. Quanno
ademannavano
alcuna grazia, responneva: "Bene. Faciemus ". Vedi que
doveano penzare
quelli
che suoglio essere signori e non haco cobelle! Drento in questa
Ferrara ionzero da doi
milia
varvute. Lo marchese Rainaldo non demorao. Su nell'ora della terza
essìo de Ferrara e
deose
sopra l'oste. L'oste pranzava. Ora vedese occidere de iente, vedese
fuire, vedese
strilla
e pianto. Lo conte Armeniac fu presone e revennuto LXXX milia
fiorini. Li signori de
Romagna
se lassaro prennere de loro spontanea voluntate. La moita iente fu
morta e presa.
Moita
robba fu guadagnata. Senza defesa fu guadagnato uno esmesurato
trabocco lo quale
aveva
nome asino. Lo puopolo de Bologna se recuverao in su lo ponte. Lo
ponte era legato
de
stroppe. Cadde in fiume. Quanta iente morìo bene puoi sapere.
Alcune perzone fuoro
che
se appennicaro alle funi delle mole e per l'acqua campavano. Venne
uno con una
accetta
e tagliao quella fune. Tutta quella iente, la quale campava, annegao
in Po. Vedi se
figlio
fu de demonio quello omo! Vinti milia perzone pericolaro nella rotta.
Lo carroccio tame
a
Bologna tornao. Quanno la novella fu ionta a Bologna, lo pianto fu
grannissimo e·lla
tristezze
granne. Lo legato non se dubitao niente. In prima scrisse lettere a
missore
Malatesta,
lo quale colli aitri tiranni era lassato. La sentenzia della lettera
era: perché se era
rebellato
alla Chiesia romana? Missore Malatesta rescrisse una lettera. Aitro
non conteneva
se
non questo: "Bene. Faciemus ". Po' questo lo legato se
apparecchiava de fare un'aitra
oste
moito più pericolosa. Fece venire da sio paiese cinqueciento
iannetti vestuti de giallo
con
longhe gamme, con garavellotti in mano. Puoi mise coite grannissime
per cogliere
moneta,
per l'oste fare. Quanno lo puopolo de Bologna se sentìo
agravato sì per le coite sì
per
la iente morta, forte ne mormorava. Uno dottore de leie - missore
Brandelisio delli
Gozadini
abbe nome - su nella piazza dello Communo se mosse con una spada in
mano.
Leva
puopolo e caccia dello palazzo della Biada lo menescalco dello legato
e occise
alquanti
e derobao. Ora fu puosto lo assedio allo bello e nobile castiello
dello legato, dello
quale
de sopra ditto ène. Lo assedio stette dìe quinnici.
L'acqua li fu toita, perché lo curzo li
fu
rotto. Dentro era fodero de pane, vino, carne inzalata e moite cose.
Li Bolognesi
traboccavano
lo sterco dentro dello castiello e valestravano. Vedenno lo legato
che tutto lo
munno
se·lli era rebellato, fu sollicito de campare soa perzona. Là
trasse lo vescovo de
Fiorenza.
Lo legato se mise in mano de Fiorentini. Li Fiorentini lo trassero
fòra allo castiello.
Canto
le mura ne iva la strada la quale vao alla porta de Fiorenza. Tutto
lo puopolo de
Bologna
li gridava e facevanolli le ficora e dicevanolli villania. Le
peccatrice li facevano le
ficora
e sì·lli gridavano dicennoli moita iniuria. Bene se
aizavano li panni dereto e
mostravanolli
lo primo delli Decretali e lo sesto delle Clementine. Moita onta li
fecero. Ben lo
àbberano
manicato a dienti se non fussi stato in balìa de Fiorentini.
Lo legato fece la via delle
Alpe
con povera compagnia e con poche some. Ionze a Pisa, da Pisa in
Avignone.
Bolognesi
derobaro tutta iente de Lengua de oca. Moiti ne occisero. Puoi
deruparo a terra
quello
nobile castiello de che ditto ène. Aitro non lassaro se non la
chiesia. Fi' dalli
fonnamenti
trassero le mura. Quanno questo fu, currevano anni Domini MCCCXXXIV,
de
mese
[...] La campana dello legato àbbero li Eremitani; la
nobilissima cona dello aitare li frati
predicatori
de santo Domenico, la quale ène de alabastro, opera pisana,
valore de X milia
fiorini.
La lampana cerchiata d'aoro, la quale ardeva nello coro dello legato,
àbbero li frati
menori.
Anco àbbero tutta la carne secca, tanto potessino deluviare.
In questo tiempo era in
Bologna
missore Ianni de Antrea, dottore de Decretali, omo de tanta
escellenzia de senno,
de
scienzia e cortesia, che passava. Questo fu quello lo quale fece lo
livro lo quale se dice
la
Novella.
Cap. VI
Como frate Venturino venne a Roma colle palommelle e dello campanile de Santo Pietro lo quale fu arzo.
Currevano
anni Domini MCCCXXXIIII, dello mese de marzo, in quaraiesima uno
frate
predicatore,
lo quale avea nome frate Venturino de Bergamo de Lommardia, dello
ordine de
santo
Domenico, commosse con soie predicazioni devote la maiure parte de
Lommardia a
devozione
e penitenza e connusse questa iente in Roma allo perdono. Erano
Bergamaschi,
Bresciani,
Comani, Milanesi, Mantovani. Una parte fuoro ientili e buoni, ma le
dieci parte
fuoro
delle vescovata. Questa iente, la quale venne con frate Venturino, fu
innumerabile. E
tanto
fu più cosa maravigliosa, quanto arrecavano abito. L'abito, lo
quale questo frate
Venturino
li avea dato, era che questi portavano una gonnella bianca, longa,
passata mesa
gamma.
Sopra la gonnella portavano uno tabarretto de biado corto fino allo
inuocchio. In
gamme
portavano caize de bianco. De sopra le caize portavano calzaroni de
corame fi' a
mesa
gamma. In capo portavano una capelluzza de panno de lino bianca e de
sopra
portavano
una capelluzza de panno de lana biada, nella quale dalla fronte
portavano uno tau.
La
parte de sopra era bianca, la parte de mieso era roscia. In pietto
portavano una palomma
bianca,
la quale teneva in vocca uno ramo de oliva in segno de pace. Nella
mano ritta
portavano
lo vordone, nella manca li paternostri. Con questa iente frate
Venturino descenne
per
Lommardia predicanno. Moita iente lo sequita. Veone in Fiorenza.
Fiorentini
graziosamente
recipiero cotale iente. Fuoro divisi per le case caritativamente e
dato a loro
da
magnare, buono lietto, lavati piedi, fatta moita caritate per tre dìe
senza premio. Puoi se
muossero
li moiti Fiorentini e presero quello medesimo abito e sequitano frate
Venturino.
Viengo
a Vitervo. Da Vitervo entrano in Roma. Ora la fama de frate Venturino
de Bergamo
forte
ventava a Roma. Dicevase ca voleva aconvertire Romani. Quanno fu
ionto, fu receputo
in
Santo Sisto. Là predicao. Soa iente moito pareva ordinata e
bona. La sera cantavano le
laode.
Bene ivano ad ordine. Uno confallone de zannato arrecavano, lo quale
donao alla
Minerva.
Allo dìe de presente penne nella voita della Minerva sopre la
cappella de missore
Latino.
Ène de zannato verde, luongo e ampio. Drento stao penta la
figura de santa Maria.
De·llà
e de cà staco penti agnili, li quali sonano viole, santo
Domenico e santo Pietro martire
e
aitri profeta. Quello segnale lassao. Puoi predicao in Santa Maria
Minerva lo dìe della
Annunziazione.
Puoi predicao in Campituoglio, nello parlatorio. Tutta Roma trasse
per odire
soa
predica. Forte tenevano mente Romani. Queti stavano. Ponevano cura se
peccava in
faizo
latino. Allora predicao e disse ca sciogliessino le calzamenta delli
piedi loro, ca la terra
dove
stavano era santa. E disse che Roma era terra de moita santitate per
le corpora le
quale
in essa iaccio. Ma Romani so' mala iente. Allora li Romani se ne
risero. Puoi se
domannao
una grazia e uno dono a Romani. Da vero che·llo ioco de Nagoni
non era fatto.
Disse
frate Venturino: "Signori, voi devete fare una vostra festa la
quale gosta moita moneta.
Non
vao né per Dio né per santi; anche se fao per
idolatria, in servizio de demonio. Questa
pecunia
datela a mi. Io la despenzaraio per Dio alli uomini necessitosi, li
quali non puoco
fornire
lo tiempo fi' allo sudario vedere". Allora li Romani se
comenzaro a fare gabe de esso
e
dissero ca era pascio. Così dicenno non più demoraro,
anche se levaro in pede e
partirose
e lassarolo solo. Puoi predicao in Santo Ianni. Romani non lo
volevano odire,
anche
ne facevano la caccia. Allora se desperava dell'ira e sì·lli
maledisse e disse ca mai
non
vidde più perverza iente. Non comparze più. Anche se
partìo de secreto e gìone fòra de
Roma.
Ionze in Avignone. Lo papa lo privao dello predicare. In questo
tiempo uno folgoro
ferìo
lo campanile de Santo Pietro e tutto lo cucurullo arze. Le campane
non toccao. Anche
in
questo tiempo morìo papa Ianni, dello quale ditto ène.
Quanno approssimao a morte,
revocao
lo errore de chi diceva ca·lle anime delli beati non veiono
Dio de faccia. E disse ca
ciò
che avea ditto avea ditto per disputazione fare.
Cap. VII
De papa Benedetto e dello tetto de Santo Pietro de Roma lo quale fu renovato.
Currevano
anni Domini MCCCXXXIIII quanno fu creato papa Benedetto. Fu
oitramontano,
vascone
e fu monaco bianco de l'ordine de Cistella de santo Bernardo. Avea
nome lo
cardinale
bianco quanno fu eletto. La soa elezzione fu più divina che
umana, perché li
cardinali
li diero la voce per lo quarto, sì che chi hao la voce per lo
quarto ène nella più infima
connizione.
Ora tutti li cardinali se concordavano in esso per lo quarto, sì
che tutti l'àbbero
per
desperato. Ma puoi che·lle voce fuoro tutte dello bianco, soa
elezzione fu divina, ca la
concordia
de tutti fu che fussi papa; lo quale essere papa ciascheuno
assemmotì: l'abbe per
desperato.
Questo abbe nome lo cardinale bianco e fu omo moito corpulento e
grasso e
gruosso,
roscio. La soa figura de ponto stao in Santo Pietro, dentro alla
chiesia, sopre la
porta
maiure della nave maiure. Questo papa fu omo santissimo e servao
questa
connizione,
che non voize mai despenzare nelli matrimonii li quali se faco intra
li parienti.
Moito
li despiaceva cutale parentezze. Mai non li voize consentire. Anche
fu omo moito
scarzo
e retenente dello tesauro della Chiesia; non solamente dello tesauro,
ma delle
beneficia.
Moito bene voleva vedere a chi le daieva e voleva vedere de que vita
fussi e
volevali
forte esaminare. Moiti ne esaminao esso medesimo. Non voleva idiote.
Quanno li
veniva
innanti alcuno prelato indegno overo idiota, de non convenevile fama,
li tolleva parte
delle
prebenne e sì·lle presentava alli sufficienti e buoni.
Moito iva cercanno li buoni chierichi
sufficienti.
Moito li onorava. E perché ne trovava pochi, destrenze le
grazie a sì e non voleva
provedere.
Denanti a questo papa Benedetto venne uno monaco de Santo Pavolo de
Roma
-
frate Manosella avea nome -, lo quale per la morte dello antecessore
sio era elietto abbate.
Questo
era omo lo quale se delettava de ire per Roma la notte facenno le
matinate,
sonanno
lo leguto, ca era bello sonatore e cantatore de ballate. E iva per le
corte alle nozze
e
per le vigne alle calate. Così dico Romani. Quanto ne poteva
essere tristo santo
Benedetto,
quanno lo sio monaco saitava e ballava! Quanno questo elietto fu
denanti alla
santitate
de papa Benedetto, disse: "Santo patre, io so' lo elietto de
Santo Pavolo de Roma".
Ora
lo papa sao tutte le connizioni de chi li veo denanti. Disse: "Sai
cantare?" Respuse lo
elietto:
"Saccio". Lo papa: "Io dico la cantilena". Disse
lo elietto: "Le canzoni saccio". Disse
lo
papa: "Sai sonare?" Disse lo eletto: "Saccio".
Disse lo papa: "Io dico se tu sai toccare
l'organi
e·llo leguto". Respuse quello: "Troppo bene".
Allora mutao favella lo papa e disse: "E
conveose
allo abbate dello venerabile monistero de Santo Pavolo essere
buffone? Va' per li
fatti
tuoi!" Così tornao collo capo lavato. Questo papa
Benedetto reconfermao tutto lo
prociesso
lo quale avea fatto lo antecessore sio contra lo Bavaro. Puoi fece
fornire tutto lo
tetto
de Santo Ianni de Laterani, lo quale fi' alla mitate era descopierto.
Puoi fece renovare
tutto
lo tetto de Santo Pietro Maiure de Roma de una bella opera nobile e
pulita. Currevano
anni
Domini MCCC[...], dello mese [...], quanno quella opera fornita fu.
Gustao LXXX milia
fiorini
d'aoro. Lo capomastro de tutta l'opera abbe nome mastro Ballo de
Colonna,
escellentissimo
falename, lo quale fu de tanta escellenzia, che sappe 'nanti dicere
lo dìe,
l'ora,
lo ponto nello quale quello tetto fu in tutto fornito. E per sio
sapere posava li travi viecchi
e
tirava li nuovi suso aito, più prestamente che se fussi uno
ciello. Uno omo stava cavalcato
nell'uno
capo, uno aitro nello aitro. Io non vòizera essere stato uno
de quelli. Quanno lo tetto
viecchio
se posava, fonce trovato uno esmesuratissimo trave de mirabile
grossezze. Io lo
viddi.
Dieci piedi era gruosso. Tutto era affasciato de funi per la moita
antiquitate. Per la
granne
grossezza era tanto durato questo trave. Era de abeto como li aitri.
E fonce trovato
scritto
de lettere cavate CON, quasi dica: "Questo ène de quelli
travi li quali puse in questo
tetto
lo buono Constantino". Era antiquo quanto che l'aleluia. Questo
trave ne fu posato e
dentro
de esso fuoro trovate caverne e cupaine, fatte sì per
l'antiquitate sì per fere le quale
avevano
rosicato e fatta drento avitazione; ca ce fuoro trovati drento sorici
esmesuratissimi
a
nidate e fuoronce trovate fi' alle martore e, che più ène,
golpi colli loro nidi. Chi lo vidde non
lo
poteva credere. Questo nobile trave fu spezzato e de esso fuoro fatte
tavole necessarie
per
la opera novella. E moiti ientili uomini de Roma ne àbbero
tavole da manicare. Una
maraviglia
voglio contare. Per fare questo tetto fuoro adunati tutti li savii
mastri li quali avere
se
potiero drento de Roma e fòra. Intra li quali fu uno delli
buoni dello munno, lo quale abbe
nome
Nicola de Agniletto de Vetralla. Questo stava suso in uno arcotrave a
lavorare. Lo
trave
era puosto su nello muro aito. Con uno secure in mano faceva questo
mastro lavorieri
lo
quale bisognava. Lo mastro stava in pede. Forza lo trave non stava
oguale, anche stava
pennente.
Lo peso era granne. Lo trave sbinchiao e nello sbinchiare aizaricao e
nello
aizaricare
se mosse de luoco e revoltaose. Poco fu che lo mastro non cadde a
terra. Deo
uno
adatto saito e remase puro in pede. Granne paura abbe lo mastro de
cadere a terra
esso
collo trave. E·lla soa paura non potéo nasconnere, ca
subitamente la mesa della varva
li
deventao canuta. Spesse voite da puoi se·lla radeva. Spesso
diceva ca quella canutezza
fu
per paura che abbe che non venisse a balle esso e·llo trave
aizaricato. Lo simigliante
avenne
a Corradino re. Da puoi che fu sconfitto alla vittoria e preso ad
Astura, lo re Carlo li
fece
tagliare la testa. Suoi capelli erano tanto belli che, quanno
crullava la testa, pareva che
fili
de aoro se movessino atorno ad una colonna d'ariento. In quella
notte, la quale demorao
in
presone, li capelli d'aoro fuoro deventati canuti. La dimane, quanno
fu decollato, moito
pareva
mutato de bionno in canuto. E questa mutazione fu in una notte.
Alcuno me pòtera
adimannare
perché per la paura se fao la canutezze. In questo responne
Avicenna e dice
ca,
quanno l'omo stao in luoco moito aito, tutta la virtute se reduce a
confortare la virtute
animale
dello cerebro, che non [...] E imperciò le membra tremano,
perché·sse denudano
della
virtute regitiva. Così, in simile caso, lo calore della cotica
se parte dalla circonferenzia
e
vao allo spesso de mieso per salvarese, così la cotica se
denuda de sio vigore in tale
muodo
che lo pelo non recipe la soa tentura. E segno de ciò ène
che sente omo quella parte
formicolare.
E questo moito incontra a quelli li quali usano per mare. Anco
adomannarao
alcuno
perché questo fu canuto più da uno lato che dall'aitro.
Dirraio ca quello movimento fu
subito
in quella subitezza. Quella parte che fu più presso allo
pericolo, quella recipéo la
impressione;
l'aitra fu più desposta a salute, perciò non fu canuta.
Cap. VIII
Della cometa la quale apparze nelle parte de Lommardia e della abassazione de missore Mastino tiranno per li Veneziani.
Currevano anni Domini MCCCXXXVII, dello mese de agosto, apparze nelle
parte de Lommardia una
cometa moito splennente e bella e durao dìe tre. In airo puoi
desparze. Questa cometa pareva che
fussi una stella lucentissima più delle aitre, e estenneva
dereto a sé una coma destinta, pezzuta a
muodo de una spada, e penneva la ponta sopra de Verona. Questa coma
stava da uno delli lati. Non
iva né su né io', ma ritta se stenneva como fossi una
fiamma de fuoco. Moito commosse la iente ad
ammirazione, que voleva dicere questa novitate. Dice Aristotile,
nella Metaora, ca questa non è verace
stella; anche ène una [...] fatta nella sovrana parte de
l'airo, e faose de materia umida e calla, la quale
salle su e accennese e dura tanto quanto la materia donne se fao.
Anche dice ca questa mai non
appare, che non significhi novitati granni, spezialmente sopra li
principi della terra, e commozioni de
reami e morte e caduta de potienti. In bona fe', ca così fu;
ca, como questa desparze, così per
Lommardia se destese la novella che Padova fu perduta. E sì·lla
àbbero Veneziani e presero drento
missore Alberto della Scala de Verona; e fu mannato in Venezia, in
presone. Anco sequitao la
destruzzione e·lla ruvina de missore Mastino della Scala, lo
quale fu tanto potente e tiranno che se
voize fare rege de corona. E puoi perdìo onne cosa e venne a
convenevile stato. La quale novitate fu
per questa via. Po' la morte de missore Cane della Scala remase un
sio nepote: missore Mastino abbe
nome. Questo missore Mastino della Scala fu delli maiuri tiranni de
Lommardia: quello che più citate
abbe, più potenzia, più castella, più
communanze, più grannia. Abbe Verona, Vicenza, Trevisi,
Padova,
Civitale, Crema, Brescia, Reggio, Parma. In Toscana abbe Lucca, la
Lunisciana. De XV grosse citate
fu signore. Parma venze a forza de guerra. Mentre che soa oste se
posava sopra alcuna citate,
derizzavali sopre quaranta trabocchi. Mai non se partiva, finente che
non era signore. Voleva essere
signore sì per forza sì per amore. Puoi mise pede in
Toscana. Abbe Lucca e ingannao Fiorentini,
donne Fiorentini li ordinaro quella ruvina la quale li venne de
sopra. Puoi menacciava de volere Ferrara
e Bologna. Una cosa faceva alli nuobili li quali li davano le citate,
che·lli teneva con seco e davali
granne provisione. Moiti erano li baroni, moiti erano li sollati da
pede e da cavallo, moiti li buffoni, moiti
so' li falconi, palafreni, pontani, destrieri da iostra. Granne era
lo armiare. Vedesi levare cappucci de
capo, vedesi Todeschi inchinare, conviti esmesurati; tromme e
cerammelle, cornamuse e naccare
sonare. Vedese tributi venire, muli con some scaricare, iostre e
tornii e bello armiare, cantare, danzare,
saitare, onne bello e doice deletto fare. Drappi franceschi,
tartareschi [...] velluti intagliare, panni
lavorati, smaitati, 'naorati portare. Quanno questo signore
cavalcava, tutta Verona crullava. Quanno
menacciava, tutta Lommardia tremava. Infra le aitre magnificenzie
soie se racconta che LXXX
taglieri de credenza abbe una voita che voize pranzare in cammora. E
onne tagliero abbe uno
deschetto, onne deschetto abbe doi baroni. Iudici, miedici,
letterati, virtuosi de onne connizione avea
provisione in soa terra. La soa fama sonava in corte de Roma. Non hao
simile in Italia. Ora se
mannifica missore Mastino. E considerannose essere tanto potente,
gloriavase, non conosce la
frailitate umana. Quanno se vidde in tanta aitezza, fece fare palazza
esmesurate in Verona. E per fare
le fonnamenta guastao una chiesia: Santo Salvato' abbe nome. Mai bene
non li prese da puoi. Puoi
comenzao a desprezzare li tiranni de Lommardia. Non curava de ire a
parlamento con essi. Puoi fece
fare una corona [...] tutta adornata de perne, zaffini, balasci,
robini e smaralli, valore de fiorini XX
milia. Questa corona fece fare, perché abbe intenzione de
farse incoronare re de Lommardia, e de
fierro la fece de fatto, per industria e per sagacitate de sio
pietto, a dare a intennere che per fierro de
arme avea guadagnato sio reame. Quanno questo abbe fatto, l'animi
delli tiranni de Lommardia furono
forte turvati: bene penzano via de non essere subietti a loro paro.
Questo missore Mastino fu cavaliero
dello Bavaro, e fu omo assai savio de testa e iusto signore. Per
tutto sio renno ivi securo con aoro in
mano. Granne iustizia faceva. Fu un omo bruno, peloso, varvuto, con
uno grannissimo ventre. Mastro
de guerra. Cinquanta palafreni avea da soa cossa. Onne dìe
mutava robba. Doi milia cavalieri
cavalcavano con esso, quanno cavalcava. Doi milia fanti da pede
armati, elietti, colle spade in mano
ivano intorno a soa perzona. Mentre che sequitao la vertute, crebbe.
Puoi che insuperbìo, comenzao a
deluviare, anche comenzao a corromperese de lussuria. Forte deventao
lussurioso. Che avesse
detoperate cinquanta poizelle in una quaraiesima se avantao. Questi
vizii lo fecero cadere de sio
onorato stato. Puoi manicava la carne lo venerdìe e·llo
sabato e·lla quaraiesima. Non curava de
scommunicazione. Lo muodo che cadde de soa aitezza fu questo. Avea un
sio frate, lo quale avea
nome missore Alberto della Scala. Questo missore Alberto fu mannato a
reiere Padova, ché·llo
mannao a muodo reale. Conti, baroni, sollati e aitra moita iente abbe
con seco. Bellissima fu soa
compagnia. Questo missore Alberto teneva questa via. Entrava nelle
monistera delle donne religiose.
Demoravance tre o quattro dìe. Puoi visitava l'aitro. Donqua
era alcuna bella monaca detuperava.
Puoi usava paravole laide sempre e detoperose. Missore Marsilio da
Carrara e missore Ubertiello da
Carrara erano li maiuri de Padova, quelli li quali li aveano data la
signoria, e suoi parienti erano. Questo
missore Ubertiello avea una soa bella donna. Per tutta dìe,
per tutte ore non finava missore Alberto de
spaziare e dicere: "O missore Ubertiello, mannuca bene, ca te
aio fatto doi voite revaglio questa notte".
Mai non finava. Ad onne tratto questo diceva. Missore Ubertiello
rideva. Collo riso passava. Lo ridere
non descegneva. Missore Alberto avea con seco una compagnia
desordinata, iente valorda e
sboccata. Ciarloni non guardavano que·sse facessino e
dicessino. Li simiglianti costumi conveniva che
avessi lo signore. Ora continua missore Alberto lo desordinato
favellare e non se ne sao remanere.
Tuttavia dice: "O missore Ubertiello, tre voite t'aio fatto
cocozzo in questa notte". Questa villania
dicere non lassava né per soa ientilezza né per soa
onoranza dello consorte né per parentezze né per
bene volere né per onestate né per alcuna via Missore
Ubertiello de ciò crepava. Più non poteva
sostenere [...] Marsilio fu un savio cavalieri e moito scaitrito e
secreto. De colpo cavalcao a Verona e
parlao con missore Mastino. E deoli ad intennere che poteva essere lo
più granne omo che fussi mai
nella contrada e che poteva domare lo regoglio e·lla grannezze
de Veneziani. E deoli lo muodo e
l'ordine per questa via: "Missore Mastino, tu hai nello tio
terreno de Padova una villa la quale se dice
Bovolenta. Questa Bovolenta se destenne nelli paludi canto la marina.
Antiquamente ce stavano fila e
facevacese lo sale. Tu, omo granne, se fai lo sale in tio terreno,
nullo te porrao vetare de usare toa
rascione. Quanno Veneziani vederanno che tu farrai lo sale, overo te
farraco tributo de moita moneta
overo lo loro sale non tanto valerao. E quella moneta, la quale hao
la Cammora de Venezia per lo sale,
l'averai, donne serrai maiure allo doppio e·lli puorci
veneziani verraco alla vostra mercede. Anche in
toa scusa manna là una ambasciata, dicenno che questo non
aiano Veneziani per iniuria: con ciò sia
cosa che voi usete vostra rascione nettamente, non volete perdire le
rascioni dello padovano. Non
esforzete alcuno. Nello luoco usato volete fare lo sale in vostro
terreno per avere la dovana e·lla
granne pecunia per le spese le quale occurreno per li sollati e aitre
grannezze fare". Questo uosso mise
in canna missore Marsilio a missore Mastino. Crese lo tiranno alli
fallaci ditti, credennose volare più
aito che Dio non consentiva. Allora incontinente commannao che nella
villa de Bovolenta, canto la
marina, alli staini fosse fatto uno bello castiello de lename, lo
quale dilientemente fosse guardiato per
guardia delli salinari. E fé fare le fila e mise li operari. E
liberamente fu comenzato a fare lo sale bello
e assai buono dello munno. Deh, como l'opera preziosa veniva! Li
fatti ivano de ponto. Intanto, como
ordinato era, ionze a Venezia missore Marsilio, informato dello
fatto, e gìo per ambasciatore, como
aveva demannato. Fu denanti allo duce e alli maiurienti, e disse
quella ambasciata in quelle paravole;
ma li mutao li ponti, ché·lli fece sonare de aitro
suono e deoli aitra sentenzia, e disse: "Signori veneziani,
missore Mastino intenne de fare lo sale nello sio terreno per avere
quella pecunia la quale voi avete e
tollereve de mano per signoriarve e per abassare vostre saline. Se
queste perdite, non site cobelle. Lo
frutto della Cammora de Venezia è lo sale. Moito bene operate
l'uocchi in li vostri fatti". Più non disse.
Assai abbe fatto e ditto, che abbe acceso lo fuoco tra Veneziani e
missore Mastino. Allora Veneziani
fecero una ambasciata preziosa, moito adorna. Dodici maiurienti de
Venezia fuoro, grannissimi
mercatanti e ricchissime perzone, savii e descreti, tutti vestuti de
una robba, panni devisati de scarlatti
e de velluti verdi, e aitri lavorieri forrati de vari, moito
assettati. La gonnella era longa fi' alli piedi, la
guarnaccia corta fi' a mesa gamma [...] corto fi' allo inuocchio, le
cappuccia con piccoli pizzi in capo,
la capella della seta de sotto, appistigliati de pistiglioni de
ariento 'naorati, correie smaitate in centa.
Ben pargo adornati de straniera devisanza. Con donzielli assai e
aitra famiglia passano lo mare, e in
terra ferma montano in loro piccoli palafrenotti e vengone a Verona.
Venivano trottanno l'uno dereto a
l'aitro como fussino miedici. Moita iente loro trasse a vedere.
Granne maraviglia se fao omo de così
nova devisanza. Parevate vedere lo ioco de Testaccia de Roma. Quanno
li ambasciatori fuoro entrati
in Verona, tutta Verona curre a vederli. Così li guardava omo
fitto como fussino lopi. E questo perché
l'abito loro era moito devisato dallo abito delli cortisciani;
imperciò che portavano cotte de nuobili panni,
strette alla catalana, forrate de frigolane endisine de sopra, cappe
alamanne forrate de vari, cappucci
alle gote con fresi de aoro intorno alle spalle, correie in centa con
spranche d'ariento 'naorato, in piedi
de caize. Moito vaco destri per la sala. Moito cavalcano adatti per
la citate. Puoi se ne iro li dodici
ambasciatori denanti a missore Mastino. Naturalmente la favella de
Veneziani è regogliosa, e così
regoglioso, senza umanitate, parlaro a missore Mastino e dissero:
"Missore Mastino, lo Communo de
Venezia te prega che non te vogli perdere Venezia per lo sale e non
vogli fare quello che tuoi
antecessori non fecero e quello che non è stato fatto in
nostri dìe. Lo sale ène de Veneziani, non ène
de Padovani. De fare cutale sale te conveo remanere, se non vòi
turbare li uomini de Venezia e se vòi
remanere nuostro amico". A questa ammasciata respuse lo Mastino
e disse: "Verrete crai a pranzare
in mea corte con meco e là averete la resposta". Lo
sequente dìe lo convito fu apparecchiato
grannissimo. In quella sala fu apparecchiato per più de
ottociento perzone. Alla prima tavola aitre
scudelle non ce fuoro, se non de buono ariento, né aitre
vascella. A questo convito Veneziani vennero,
li quali tutti a dodici fuoro puosti ad una tavola in pede della
sala, in veduta de tutta la corte per là
venuta. Lavate che àbbero le mano, non se despogliaro loro
larghi tabarretti, anche con essi se misero
a tavola. Granne era lo ridere che omo faceva de essi. Così
stavano assemmoti como fussino Patarini
overo scommunicati. Tutta la iente li resguardava como alocchi. Stava
missore Mastino in capo della
sala, più aito che tutta l'aitra baronia, servuto a tavola
como re. Tutta soa nobilitate de corte vedeva. A
soa veduta cosa nulla era celata. Ora vedesi vivanne venire.
Cavalieri a speroni de aoro servivano
denanti. Leguti, viole, cornamuse, ribeche e aitri instrumenti moito
facevano doice sonare. Bene
pareva in paradiso demorare. Po' le vivanne viengo buffoni riccamente
vestuti. Tal cantava, tal
ballava, tal mottiava. Onneuno se sforza [...] Non se lassano dallo
muro cacciare. Mustrano de avere
core. Non curano de valestra né de menacce. Lo romore era
granne. Lance e saiette volavano. Deh,
quanto ène cosa orribile! Allora missore Pietro Roscio con
soie belle masnate se tenne secreto e queto
de fòra ad una porta la quale se dice porta de ponte Cuorvo. E
là stette, mentre che la vattaglia era
alla porta de Santa Croce. Questa porta de ponte Cuorvo avea in
guardia missore Marsilio da Carrara.
Su nella mesa terza lo fattore de missore Marsilio operze la porta e
abassao li ponti, e mise drento
missore Pietro Roscio senza colpo de spada. Ora ne veo per la strada
alla piazza lo capitanio de
Veneziani con moita grossa pedonaglia e cavallaria. Ià l'ora
de terza era. In esso ponto missore
Alberto se era levato da dormire. Cavalcava uno bello palafreno,
vestuto con solo un guarnello,
accompagnato con solo missore Marsilio. Una vastoncella in mano
teneva. Per la terra iva
trastullanno. Omnis armatorum eius multitudo pugnans resistebat ad
portam. Como missore
Alberto accapitao in capo della strada, vidde che nella piazza
iogneva granne stuolo, granne masnate
de iente. Odìo tromme e ceramelle. Vidde lo grannissimo
confallone de Santo Marco de Venezia.
Maravigliaose forte e disse a missore Marsilio: "Que iente ène
questa?" A ciò respuse missore
Marsilio e disse: "Questo ène missore Pietro Roscio, lo
quale hao auta gola de vederte". Disse missore
Alberto: "Moreraio io?" Disse missore Marsilio: "No.
Torna in reto. Va' in la mea cammora". Così fu
fatto. Tornao missore Alberto e misese nella cammora de missore
Marsilio, e là fu enzerrato con una
chiave. Veneziani la piazza presero e toizero l'arme e·lli
cavalli a tutta la forestaria de missore Alberto.
E presero esso con soa baronia e sì·llo mannaro in
presone a Venezia. E là stette fi' che la guerra fu
finita. Allora apparze quella cometa della quale de sopra ditto ène.
E presero Veneziani guardia delle
porte de Padova. Sine mora iescono fòra e faco terribile
guerra a quello della Scala. Vao missore
Pietro Roscio ardenno e consumanno le terre. Prese per forza
Monsilice, e là fu occiso. Non per tanto
lassano Veneziani de fare la dura guerra. Allora perdìo la
citate de Brescia. Onne perzona se·lli
rebella. Nulla resistenzia fao. Missore Mastino consideranno la soa
desaventura, desperato, con soie
mano occise lo vescovo de Verona, lo quale era de soa iente, e
occiselo su sopra le scale dello
vescovato. Albuino, vastardo de missore Cane, lo scannao. Sotto lo
capitale dello lietto de questo
vescovo fu trovato uno spiecchio de acciaro con moite divise
carattere. Nello manico era una figura.
La lettera diceva: "Questo ène Fiorone". Puoi li fu
trovato un livricciuolo, nello quale stava pento un
nimico de Dio, lo quale abracciava uno omo, e un aitro demonio li
dava una cortellata in pietto, in quello
luoco nello quale esso relevata avea la feruta. Questo fece missore
Mastino avenno paura che·llo
vescovo non li togliessi la signoria. La guerra durao bene anni doi.
Uitimamente missore Mastino era
stanco né poteva più. Venne a pace con Veneziani e a
patti. Li patti fuoro questi: lo primo, che esso
fece refutanza della moneta la quale avea in Verona, la quale avevano
despesa Veneziani; lo secunno,
che mannao le robbe dello Communo de Venezia, le quale buttaro XXIIII
migliara de fiorini, per onne
robba fiorini doi milia; lo terzo, che Veneziani voizero Trevisi, sì
che convenne che per la fatica de
Veneziani missore Mastino li donassi Trevisi. Verona e Vicenza li
lassaro per l'amore de Dio e per
misericordia. Le aitre terre, como Padova e Civitale, remasero a
puopolo. Allora Veneziani li
remannaro missore Alberto, lo frate, con quelli nuobili li quali
tenevano presoni. A tutta questa guerra
Fiorentini tennero mano e fecero con loro denari quello aiutorio che
bastao. Ora è tornato lo Mastino
della Scala de granne aitezze ad umile stato. Non perciò in
tanta umilitate, che in soa veteranezza non
morisse granne signore de Verona e de Vicenza. Omo de guerra fece
fare in soa vita uno monimento
de marmo, dove fu sepellito, in casa de frati minori, là dove
posano le donne. In quello monimento non
ce stao inscritto né Dio né santi, anche ce stao
inscuite cacciascioni, cavalli, cani, astori e aitre
paganie. L'opera de Veneziani con questo tiranno fu como l'opera de
Romani, li quali mannaro la
ambasciata a Benevento. Beneventani sparzero aduosso alli
ambasciatori la orina. Per la quale cosa
Romani fuoro turbati, e per essi fu destrutta la provincia de Sannio
e fu suiugata allo Communo de
Roma, como Tito Livio dice.
Cap. IX
Della aspera e crudele fame e della vattaglia de Parabianco in Lommardia e delli novielli delle vestimenta muodi.
Po' questa cometa, della quale de sopra ditto ène, fu uno anno
moito umido, moito piovoso. Abunnaro
moite reume, moiti catarri nelle iente. E per tre vernate durao tanta
neve, che esmesuratamente
coperiva le citate. Moite case, moiti tetti in Bologna caddero per lo
granne peso che·lla neve faceva.
Anche le estate erano umide, sì che omo non poteva essire fòra
de casa a fare sio mestieri e
procaccio. Li campi non fuoro lavorati. Li grani e onne legume che
fuoro seminati fuoro perduti,
perché se affocavano per la soperchia umiditate, non se
potevano procurare. Donne sequitao sterilitate
e mala recoita. E per quella mala recoita sequitao la fame sì
orribile che forte cosa pare a contare, a
credere. Questa fame fu per tutto lo munno generale. Lo grano fu
vennuto in Roma XXI libre de
provesini lo ruio. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII. Scrive Tito
Livio che nello tiempo fu una
fame nella contrada de Roma sì terribile che moita iente,
presure perzone, 'nanti volevano perdire la
vita, che vivere in fame. Donne abolveano lo cappuccio innanti delli
occhi per non vedere loro morte e
sì se iettavano nello fiume de Tevere e là affocati
perivano, e collo perire remediavano la fame. In
bona fe', questo non viddi avenire in quello tiempo. Ma infinite
femine fuoro le quale iettaro loro onore
per avere dello pane. Moita iente vennéo soa franchia per lo
pane. Fuoro vennute palazza, possessioni
de campi e vigne, e dati per poca cosa, per avere dello pane. Granne
era la pecunia che se numerava
per poca de annona avere. Moita iente manicava li cavoli cuotti senza
pane. La povera iente manicava
li cardi cuotti collo sale e l'erve porcine. Tagliavano la gramiccia
e·lle radicine delli cardi marini e
cocevanolle colla mentella e manicavanolle. Anche ivano per li campi
mennicanno le rape e
manicavanolle. Anche fu tale patre che onne dimane a ciascheduno
delli figli una rapa per manicare in
semmiante de pane daieva. Anche manicavano la carne, chi ne aveva,
senza pane. De vino fu bona
derrata. Incresceme de contare tante tristezze. Le donne pusero ioso
delle alegrezze e·lle cegnimenta
e·lle adornamenta, vedenno la fame la quale sì
terribilmente bussava. Chi abbe grano abbe tutte le
adornamenta delle donne. In quello tiempo io me retrovai in Bologna e
vedeva che quelli delle ville
venivano in citate a comparare dello pane della gabella. Deh, como
tornavano tristi, quanno non ne
portavano! Manicava la iente pera secche e tritate, misticate colla
farina, capora e vientri, anche lo
sangue delli animali. E moite perzone fuoro trovate morte de fame.
Moite perzone ivano gridanno de
notte: "Pane, pane". De notte ivano, consideranno che erano
perzone de alcuno lenaio; per la vergogna
non volevano apparere; de dìe non volevano essere conosciute.
Nella citate de Roma, se non fusse
stata una nave de grano la quale succurze - per mare da Pisa venne -,
tutta Roma periva. Doi miracoli
granni incontraro in tiempo de così fatta carestia. Innella
citate de Piacenza, in Lommardia, fu uno
nobile omo de casa delli Visconti de Castiello Nuovo lo quale se
trovava da vinti milia corve de grano.
Era lo tiempo de maio, che la fava dao suso. Lo lunedìe fue
che tutta Piacenza curze a soa casa,
domannanno dello grano. Respuse lo nobile: "Sei livre voglio
della corva". Lo martedìe venne la iente
con sei livre. Quello li remannao senza grano e disse: "Sette
livre ne voglio". Lo mercordìe tornao la
iente per grano con sette livre. Quello disse: "Otto livre ne
voglio". Lo iovedìe la iente veniva con otto
livre. Quello ne domannava nove. Lo venardìe quelli ne vennero
con nove livre de bolognini. Lo iniquo
omo favellao e disse così: "Tornete a casa, iente
molestiosa. Questo mio grano mai non venno, se de
esso non aio dieci livre". Con granne tristezze fé
tornare lo puopolo e·lla carovana a casa a sostenere
fame. Ma lo buono e cortese Dio non voize così, ché·llo
sabato ionze uno cavalieri, citatino de
Piacenza - missore Manfredo de Lando avea nome -, con una nave de
grano. Lo grano valeva livre
cinque. La fava comenzava ad ingranare. L'aitro dìe lo grano
fu a livre quattro. Lo terzo dìe fu a livre
tre. Quanno lo nobile delli Visconti vidde questo, forte fu turvato.
E incontinente tornao a casa e entrao
in quello luoco dove sio grano era. E considerao la moita moneta la
quale de quello grano àbbera auta,
se avessi allargata la mano alli necessitosi. Puro favellao e disse:
"Ahi grano mio, io so' destrutto". E
avenno la mente più a l'avarizia che alla pietate, iettao
nello trave de mieso dello tetto, sopra lo sio
grano, uno capestro e là, in mieso dello sio grano, se appese
per la canna. Nella contrada de Roma, in
uno castiello lo quale se dice Castiglione delli Alberteschi,
incontrao un aitro miracolo, como io intesi da
perzone fidedegne. Essenno questa terribile carestia, tutta la
poveraglia de Roma, femine e uomini e
zitielli, ne fuiro per le castella. Là se ne sparzero. In
questo Castiglione fu uno che abbe nome Ianni
Macellaro. E fu lo primo che a Santo Spirito de Roma donasse massaria
de vestiame. Questo fu ricco
massaro. Figlioli non avea, ricchezze moita: fanti, fantesche assai,
pecora, vuovi, iumente, campi
seminati, pozzi pieni de grano. Tutte queste cose Dio li consentìo.
Quanno venne lo tiempo che la fava
era verde in erva, onne massaro mannava uno vanno, che nulla perzona
montassi in soa fava. Questo
Ianni per contrario mannao lo vanno, che onne chivielli isse a sio
campo de fava, aitro non sparagnassi
che li fusti delle fave, manicassino allo piacere. Ora vedesi traiere
de iente affamata. Corvinam
servant pauperes famelici. L'oste pusero in quello campitiello. Per
tutto dìe là demoravano a
manicare. Lo patrone a cavallo in soa iumenta bene li visitava onne
dìe e sì·lli salutava. Puoi li diceva
che manicassino bene e portassino della fava a casa a loro piacere.
Puoi dava uno panetto per omo.
Allora tornava. In quello muodo consolava li bisognosi. Ora passao la
carestia e venne lo tiempo della
leta fertilitate. Li poveri a Roma tornaro. La fava de questo
castiello fu carpita. Puoi fu vattuta. Li
fusti della fava de questo buono omo fuoro puosti nella ara, nelli
quali cosa nulla de frutto era. Mentre
che li fusti se battevano, Dio immise la soa granne abunnanzia e
frutto in quelli fusti. Ora vedesi fava
abunnare. Tanta fu la fava, la quale da quelle gamme fu coita, che
parze veracemente che la fava delli
aitri castellani se partisse delle proprie are e venisse nella ara
dove li fusti se vattevano. Così Dio
liberamente mustrao che bene li piace la elemosina de buono core
nello bisuogno e che esso cortesia
fao a chi soveo alle necessitati aitrui e che per uno ne renne
ciento, como nello Vagnelio dice. In
questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de
frebaro, la prima domenica
de quaraiesima, quanno fu la orribile sconfitta in Lommardia, fra
Como e Milano, nelli campi de
Parabianco. La quale novitate fu per questa via. Puoi che Veneziani
àbbero ottenuta la vittoria sopra
missore Mastino della Scala de Verona e àbbero Trevisi e sì
cassaro tutti li sollati da pede e da
cavallo, questi sollati, partennose e non avenno suollo, fecero la
granne compagnia. Loro capo e
connuttore era uno famoso Todesco - Malerva avea nome -, prode de
perzona, saputo de guerra.
Cavalieri a speroni de aoro ce erano assai. Erance lo conte Olando e
lo conte Guarnieri, li quali da puoi
fuoro capora de compagnia. Erano da tre milia cavalieri e da quattro
milia pedoni, fanti, masnadieri,
senza aitra innumerabile iente la quale sequitava. Uno cacciato da
Milano - missore Lodrisi Visconte
avea nome - penzao de tornare in Milano, avenno questa compagnia e
aitro sio esfuorzo. Così fece.
Fece granne promissioni allo Malerva e quetamente mosse soie masnate.
Ordinatamente passa per lo
padovano, canto lo veronese, per mesa Lommardia. Nullo contradicente,
ne vennero fra Milano e
Brescia, puoi a Bergamo. E passaro ad uno luoco lo quale hao nome la
Colomma de Chiaravalle. Lo
luoco ène granne e ricco, luoco de frati bianchi de santo
Bennardo. Là se posaro. Là li trassero per
succurzo suoi amici, suoi benvoglienti. Là, de fòra
alli maiuri campi, stenne paviglioni. Currevano anni
Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de frebaro. Mentre questa granne
moititudine per la contrada
passava, forte tremavano le citati. Granne era la guardia la quale
dìe e notte se faceva. Puoi che là,
alla Colomma, fu ionta questa brigata, allora dechiarato fu che
missore Lodrisi voleva tornare in casa
per forza. Allora missore Azo Visconte era signore de Milano e della
casa delli Visconti. Questo
missore Azo subitamente sollicitao tutte le citati de Lommardia le
quale stavano suiette a Milano. Puoi
sollicitao tutti li suoi parienti. Puoi sollicitao tutti suoi amici.
Non fina de mannare lettere e
ambasciatori. Puoi sollicita lo puopolo de Milano. Puoi trasse fòra
sio granne esfuorzo de cavalieri e de
pedoni e puseli in campo. Là erano Bresciani, Trentini,
Bergamaschi, Comani, Lodesani. Granne era la
turba. La maiure parte erano villani. In campo iaccio doi uosti,
quella de missore Lodrisi e quella de
missore Azo Visconte. In mieso de questi doi uosti staco li campi de
una villa la quale se dice
Parabianco. Lo tiempo era de vierno e era quella neve granne con
quella umiditate della quale ditto
ène de sopra. E era sì esmesuratamente granne la neve,
che non lassava fare vattaglia ordinata. Fi'
allo inuocchio omo se affonnava nella neve. Granne era lo infango. Le
arme e le soprainsegne stavano
imbrattate. Spesse voite se battevano questi uosti insiemmora. Puoi
tornano a loro paviglioni. Tre dìe
duraro questi tumuiti. La banniera dell'una parte e dell'aitra era lo
campo bianco e·llo serpente nero, lo
quale aveva in canna uno omo nudo. Una notte fu tanta la stanchezze
delli uomini dell'oste de missore
Azo, che più de setteciento ne fuoro scannati dormenno. Allora
la dimane non fu demoranza nulla.
L'una parte e l'aitra se acconcia. Vedese tromme sonare, vedese
guarnire de capitanii. Ora se fiero
insiemmora. Tutto lo campo de Parabianco stao pieno de commattenti.
Tutto dìe durao la vattaglia.
Vedese ferire de lance, spade e mazze. Mortale ène quella
vattaglia. Granne suono fao. In quella
vattaglia fu sconfitto missore Lucchino, zio de missore Azo, capo
della iente, e preso per la perzona e
fu vincitore missore Lodrisi con sio capitanio, lo Malerva.
Quarantaquattro centinara de uomini fuoro
occisi, senza li affocati in fiume e nelli gorgi della neve:
Comasini, Trentini, Bergamaschi, iente de villa,
da pede la maiure parte, li quali per lo impedimento della neve non
potevano la voita dare. Trentasei
centinara de cavalli fuoro stempanati, senza li moiti feruti. Ora
vedi como succurze la ventura a
missore Lucchino! Stava drento da Milano missore Azo armato con tutto
lo puopolo. Per via nulla
voleva essire. Stava reservato alli bisuogni dereto un sio parente,
missore Ianni dello Fiesco de
Genova, sio quinato, con cinqueciento Borgognoni de bona taglia in
soa compagnia. Como la novella
ionze della sconfitta, così essìo fòra de Milano
con cinqueciento Borgognoni e con CCCC Todeschi e
ionze alli campi de Parabianco. La prima cosa, raccoize tutti quelli
li quali fuiti erano dello stormo. Così
li aionze ad uno, quelli che potéo. La secunna cosa, provise
como stava l'oste e vidde che la iente della
compagnia non stava ordinata, anche stava sparza per lo campo, chi de
qua, chi de là, sopra la
guadagna dello spogliare. La terza cosa, compusese con Malerva e
ordinao che non commattessi, e in
precio li donao dieci fiaschi pieni de ducati, in semmiante de
presentarli buono vino de Malvascia.
Granne capestro ène la moneta. Allora prestamente sonao soie
tromme e deose sopra ad essi. Poca
resistenzia abbe. E deo per terra lo confallone de missore Lodrisi e
de Malerva e prese missore
Lodrisi per la perzona. In quella resistenzia fu occiso missore Ianni
dello Fiesco de Genova. Puoi che
fu fatto presone missore Lodrisi e fu rotta soa schiera, tutto lo
campo fu vento senza aitra
contradizzione. Tornao in Milano con triomfo e granne danno; ca, como
ditto de sopra ène,
quarantaquattro centinara de perzone moriero, senza li aitri
pericolati delle ferute. Vedesi caricare
che·sse faceva. Avevano le carra piene de queste corpora morte
e sì·lle traievano dello campo e sì·lle
portavano a loro sepoiture. Missore Lodrisi la vita non perdìo,
ma fu renchiuso in perpetuo carcere in
un castiello lo quale se dice Santo Columbano. Là dato li fu
onne diletto lo quale demannava: de
sonare, cantare, magnare, de femine; salvo che essire non poteva de
presone. Quelli sollati della
compagnia fuoro tutti derobati. Perdiero arme e cavalli. Io ne viddi
venire de questi bene da doiciento
cinquanta a pede. Tale avea speroni alla correia, tale una targetta,
tale uno cimiero e alcuno menava
ronzino, secunno le connizione. Alli Borgognoni fu data paca doppia e
granni doni. Malerva fu lassato.
Pochi dìe stette che missore Azo Visconte, signore de Milano,
morìo e succedéo innella signoria
missore Lucchino, sio zio. Ora comenza a signoriare missore Lucchino
Visconte, lo quale abbe la
maiure parte de Lommardia: Parma, Piacenza, Lode, Bergamo, Brescia,
Milano, Crema e Civitale. E
visse in signoria anni [...] in tanta pace e iustizia, che non se
trovava in terreno chi se crullasse.
Coll'aoro in mano iva l'omo franco. Fu omo severo senza alcuna
pietate. Mai non perdonava. Secunno
lo peccato, secunno la fallenza puniva. Questo fu de tanta
crudelitate che fece manicare alli suoi cani
uno guarzone todesco lo quale li aveva presentate cerase, perché
aveva feruto un sio cane lo quale li
aveva abaiato. E non abbe remissione né per puerizia né
per caritate dello patre, lo quale era
conestavile, sio amico, né per moneta. Questo missore
Lucchino, benché guardie avessi de uomini da
pede e da cavallo a muodo regale, nientedemeno abbe una speziale e
nova guardia con seco. La
guardia soa erano doi cani alani granni e terribili, gruossi como
lioni, lanuti como pecora. L'uocchi
avevano rosci e terribili. Questi doi cani alani sempre lo
sequitavano per la corte, l'uno dalla parte ritta,
l'aitro dalla parte manca. In mieso dello palazzo avea una forte
torre. dentro dalla torre era una
spaziosa cammora. Quanno missore Lucchino se posava in quella
cammora, li cani staievano descioiti.
Sempre circondavano la torre. Nulla perzona a l'uscio se poteva
accostare. Denanti alla torre stava la
granne sala. Alla porta stava la guardia. L'aitra guardia stava alla
porta generale della corte nello
terrio. L'aitra guardia staieva nella piazza. Quanno missore Lucchino
manicava solo, staieva a tavola, li
cani tuttavia con esso, granni quarti de carne dao ora a l'uno, ora a
l'aitro. Quanno missore Lucchino
staieva in pede, la moita baronia li faceva intorno piazza con
silenzio per temenza delli cani. Nullo se
crulla, nullo parla; ca se per ventura lo signore un poco guardasse
alcuno con malo esguardo, sùbito li
cani li forano sopra in canna, derannolo per terra. De tale guardia
canina nullo se maravigli, ca questa
cosa nova non ène. Scrive Valerio Massimo che Massinissa fu
rege de Numidia e fu moito amico e
fidele serviziale dello puopolo de Roma. Questo re Massinissa sempre
avea in guardia de soa perzona
doi granni cani, granni mastini, e non se renneva securo senza essi,
benché avessi guardie de pedoni e
de cavalieri, avesse lo potente e ricco reame de Numidia, sopra tutto
questo avesse la bona amicizia
de Romani, per li quali era signore, era salvo, securo e temuto.
Alcuna voita fu demannato questo
perché faceva. Respuse e disse: "L'omo, che vole essere
libero naturalmente, non sao mantenere
fidelitate. Lo cane, lo quale non conosce libertate, è fidele
a sio patrone". Anche questo missore
Lucchino fu omo moito iusto. Né per aoro né per ariento
lassava de fare iustizia, sì che soa terra era
franca. Abbe uno sio figlio vastardo: missore Bruzo avea nome. A
questo missore Bruzo donao la
signoria de Lodi. A quella citatella lo mannao a regnare. Accadde che
uno ientile omo occise un aitro.
Fu preso e devease decollare. Li parienti de questo malefattore
parlaro con missore Bruzo e dissero
così: "Missore Bruzo, a ti bisognano denari. Non perda la
perzona lo presonieri vuostro. Ecco quinnici
milia fiorini apparecchiati". Questo odenno missore Bruzo de
colpo fu mollato. Cavalcao da Lode a
Milano. Fu denanti allo patre, sì se inninocchiao e domannao
grazia, perché esso era povero cavalieri.
Poteva guadagnare quinnici milia fiorini, se allo malefattore salvava
la vita. Questo odenno lo patre,
missore Lucchino, deo de cenno a un sio donziello, che li portassi
dalla cammora un sio elmo. L'elmo
era moito forbito e relucente. De sopre era uno bello cimiero, de
velluto vermiglio copierto. Eranonce
scritte lettere de aoro. Quanno l'elmo fu venuto, disse: "Bruzo,
lieii queste lettere". Le lettere fuoro
lesse. Dicevano: "Iustizia". Disse: "Dunqua noi in
apparenzia la iustizia portemo, in effetto no? Che vòi
che quinnici milia fiorini pesino più che·llo elmo mio,
lo quale pesa più che·lla mea signoria? Va' e torna
a Lode e fa' la iustizia. E se questa non fai, io la farraio de ti".
Moito voleva che issi omo netto in sio
terreno. Moito amao lo puopolo menuto. Resse anni [...] e in soa
signoria morìo e rassenao la
bacchetta megliore e maiure che non la prese. In questo tiempo
comenzao la iente esmesuratamente a
mutare abito, sì de vestimenta sì della perzona.
Comenzaro a fare li pizzi delli cappucci luonghi [...]
comenzaro a portare panni stretti alla catalana e collati, portare
scarzelle alle correie e in capo portare
capelletti sopre lo cappuccio. Puoi portavano varve granne e foite,
como bene iannetti e Spagnuoli
voco sequitare. Denanti a questo tiempo queste cose non erano, anche
se radevano le perzone la
varva e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona
avessi portata varva, fora stato
auto in sospietto de essere omo de pessima rascione, salvo non fusse
Spagnuolo overo omo de
penitenza. Ora ène mutata connizione, che a deletto portano
capelletto in capo per granne autoritate,
varva foita a muodo de eremitano, scarzella a muodo de pellegrino.
Vedi nova devisanza! E che più
ène, chi non portassi capelletto in capo, varva foita,
scarzella in centa, non ène tenuto cobelle, overo
poco, overo cosa nulla. Granne capitagna ène la varva. Chi
porta varva ène temuto. Qui me voglio un
poco stennere. In uno paiese fu uno rege lo quale moito onorava li
filosofi e l'uomini li quali soco savii e
dico bone paravole. Questo re moito cercava de avere compagnia de
uomini virtuosi. In soa corte
accadde un granne filosofo. Moito fu alegro lo re della presenzia de
questo buono omo e tanto
maiuremente quanto questo filosofo aveva buono aspietto e pienamente
responneva ad onne questione
che ad esso se faceva. Ora vole lo re onorare la bontate, la
scienzia, la vertute, la quale in questo
filosofo se trovava. Invitaolo ad uno solenne convito de diverzi civi
delicati e buoni, allo quale convito
fu tutta soa baronia. La sala, dove lo magnare se faceva, fu granne e
larga. Le tavole messe atorno
atorno. Tutto lo palmento della sala era copierto de tappiti, li
quali tappiti erano de pura e netta seta. Le
mura intorno erano ammantate de celoni riccamente lavorati a babuini
messi a seta ed aoro filato. Lo
cielo de sopra era de cortina, fatto a stelle d'aoro. Moiti panni
tartareschi là sparzi erano. Voleva lo re
che quello convito solenne fussi. In capo della sala stava una tavola
piccola. A questa tavola sedevano
lo re e lo filosofo soli. Viengo li serviziali, delicato portano
manicare. Mentre che·sse manicava, lo re
non perdeva tiempo, anche dilientemente domannava lo filosofo che li
rennessi rascione de certi dubii.
Lo filosofo, como prudente perzona, sufficientemente responneva. Soie
resposte fortemente cadevano
nello animo dello re, ca·sse accostavano allo vero. Donne lo
re spesse fiate diceva: "Bene dicesti.
Piaceme". Infra tanto allo filosofo venne voluntate de sputare.
Teneva in vocca una granne spurgata
una ora grossa. Più tenere non lo poteva. Fore conveniva che
uscissi. Guardava lo filosofo intorno allo
muro e per terra, cercava lo luoco dove potessi sputare. Non vede
luoco da ciò; ca, como ditto ène,
onne cosa era coperta de nuobili tappiti. Allora voize lo filosofo lo
capo e abbe veduta la faccia dello
re. Lo re aveva una varva moito nera, granne e larga; la longhezza
fi' a mieso lo pietto, le banne fi'
nelle ionte delle spalle. Pareva uno varvassore. Considerao lo
filosofo che quella varva fussi lo più
brutto luoco de quella sala e più atto a recipere lo sio
sputo. Fermaose lo savio filosofo e sputao in
mieso della varva dello re. Quanno lo re se sentìo ciò,
fortemente stette turbato e regoglioso e disse:
"Questo perché hai fatto?" Respuse lo filosofo e
disse: "De sotto, da lato, de sopre, da onne canto me
staco panni messi ad aoro. Non ce ène luoco alcuno laido da
sputare potere, salvo questa toa varva: è
lo più laido luoco che nce sia. Perciò ce aio sputato,
ca omo deo sputare nello più laido luoco". A
queste paravole lo re non responneva, ma stava muto. Allora lo
filosofo lo toccava in la spalla e disse:
"Di' ca bene dico. Di' ca te piace". Ora se questi, li
quali portano la varva, staiessino a lato a questo
filosofo, recìperano quello che recipéo lo re.
Cap. X
Della morte dello re Ruberto e della venuta che fece la reina de Ongaria a Roma.
Anni Domini currevano MCCCXLII[I] quanno finìo li suoi dìe
lo inclito e glorioso omo Ruberto rege
de Cecilia e de Ierusalem. E fu sotterrato onorabilemente nella
citate de Napoli, in Santa Chiara. Iace
nello luoco dove duormo suoi antecessori. Per la cui morte lo renno
de Puglia fu desolato, como ioso
se dicerao. Questo re Ruberto fu omo moito savio, e tanto savio che
per sio sapere acquistao la
corona, ca non dovea essere re. Esso anche ordinao che Carlo sio
frate consobrino, a chi spettava la
corona, fussi chiamato re de Ongaria; e così fu, donne puoi fu
coronato esso. Questo re Ruberto fu
omo che mantenne sio reame in tanta pace, che per tutta Puglia, tutta
Terra de Lavoro, tutta Calavria
e Abruzzo la iente delle ville arme non portava, né
conoscevano arme. Anche portavano in mano una
mazza de leno per defennerse dalli cani. Anche questa tale usanza in
parte se serva. Questo re,
quanno li iogneva la novella che diceva: "Cinqueciento dell'oste
toa soco perduti nella vattaglia",
responneva e diceva: "Cinqueciento carlini so' perduti".
Questo re fu tanto industrioso che forza de
imperio in soa vita non se potéo accostare a sio renno. Doi
imperatori consumao drento le mura de
Roma: como fu Errigo conte de Luzoinborgo e Lodovico duce de Baviera,
como de sopra ditto ène.
Anche questo re fu conte de Provenza e fu omo granne litterato, e
spezialmente fu espierto nella arte
della medicina. Granne fisico fone e filosofo fone. Alcuna cosa avaro
voleva vedere como soa moneta
despenneva. E che più, le pene perzonale convertiva in
pecuniarie. Abbe questo re un sio figlio lo
quale fu duca de Calavria. Fu omo moito iustiziale e diceva: "Lo
re Carlo, nuostro visavo, acquistao e
mantenne questo reame per prodezze, mio avo per larghezze, mio patre
per sapienzia. Dunqua io lo
voglio mantenere per iustizia". Forte se studiava lo duca de
servare somma iustizia. Accadde che uno
barone dello renno occise uno cavalieri. Fu citato a corte dello re
in Napoli. Là fu tenuto in presone e
fu connannato alla testa. Puoi lo re commutao la sentenzia in pecunia
de perzonale, ché lo connannao
in quinnici milia once. La moneta pacata fu. L'omo tratto dallo
dubioso luoco e fu messo in un aitro
libero e largo. Quanno lo duca questo sentìo, incontinente
entrao quella presone donne questo era stato
essito. Li fierri se fece mettere alle gamme. Miserabilemente stava
como volessi perdere la perzona.
De là non vole iessire. Quanno lo patre sentìo questo,
conoscenno la voluntate dello figlio, condescese
alla iustizia contra soa voluntate. L'omicidiario la testa perdìo.
Da puoi se fece venire denanti lo duca
sio figlio, allo quale disse queste paravole: "Duca, noi simo
condescesi a toa voluntate a bona fede;
ché·lla troppo granne iustizia, dove non se trova
remissione, ène pessima crudelitate". Questo re
sempre teneva galea apparecchiata per fuire in Provenza, se faceva
mestieri; la quale galea se
chiamava la galea roscia. Questo re, como abbe receputa la corona,
voize reacquistare la Cecilia, la
quale sio patre per lussuria perduta avea. Granne esfuorzo de iente
fece. Ciento milia perzone abbe.
Armao sio navilio per passare a recuperare la Cecilia. 'Nanti che
issi, iettao suoi arti, la sorte della
geomanzia. Fuolli respuosto che dovea prennere la Cecilia. Ora ne vao
lo navilio, e·llo stuolo se calao a
Trapani. Là a Trapani, facennose alcuna curreria, fu
subitamente presa una donna la quale ne iva a
marito. Fu demannata como avessi nome. Respuse: "Io so' la
triste Cecilia". Questo odenno lo re fu
forte turvato. Disse ca era ingannato dalli suoi arti. La promessa
adempita era. Sio stare non era utile.
Procacciava dello tornare; ma tornare non poteva, né avere
fodero poteva, perché lo mare era turvato.
Granne bussa, granne tempestate faceva. La fortuna no·lli
lassava partire, non li lassava portare
foraggio. In terra de nemici li conveniva morire de fame. Vedi
crudelitate che li convenne usare per
scampare con soa oste. Lo pane aveano poco. Davase a mesura. Penzao
de mancare iente, perché·lli
bastasse più lo pane che avea. Eadem actio prava fuit et
studiosa, como Aristotile dice. Era drento,
fra mare, una isoletta con selve, forza da longa dall'oste miglia
dieci. Abbe galee e mise in esse forza
da sei milia perzone, e deoli ferramenta da tagliare lena, accette e
ronche, e mannaoli a quella isola
sotto spezie de lena fare. Puoi che li sei milia fuoro portati là,
fuoro lassati. Li legni tornaro. Là li
lassaro senza pane. Là moriero de pura fame. Vedi crudelitate!
Per passare tiempo sei milia perzone
moriero de fame. Nullo li visitao, nullo li confortao. A questi fora
stato de bisuogno la cappa de santo
Alberto, la quale se li faceva tavola, per tornare a casa. Mancata
che abbe lo re questa soa oste de
queste perzone, esso cercava de tornare. Como le navi fuoro
descioite, subitamente la tempestate
desiettao lo navilio là e cà. Tutta notte viddero li
pericoli de mare. Dodici legni, dove lo re stava, per
violenzia de fortuna vennero in puorto de Messina. Era l'aurora, lo
dìe se faceva. Lo romore delli
marinari era granne. Don Federico, cunato de re Ruberto, excitato per
tale romore, lo quale non
mustrava opera de mercatanti, se levao da lietto e fecese alli
balconi e guardanno vidde insegne
regale. Conubbe ca re Ruberto, sio cunato, era iettato per la
fortuna, lo quale venne per la Cecilia
recuperare. La reina sequitao lo re e, ciò conoscenno, disse:
"Ahi re, que farrete a mio frate?" Lo re
abbe misericordia e non curao ca quelle dodici galee erano perdute.
De soie mano non potevano
campare. In quello stante, in su la mesa terza, acquetao la fortuna.
Lo re con soie galee se trasse
alquanto a reto, puoi tanto più che tornao a Napoli. In sio
palazzo entrao. Mai non gìo più in armata, né
per mare né per terra. Avea un sio ogliardino allato dello
palazzo e là sempre stava a valestrare.
Mentre che valestrava, penzava li fatti de sio reame. Mentre che iva
de segnale a segnale, dava le
resposte e·lle odienzie alle iente, commetteva li fatti e·lle
cose le quali devea. In questo tiempo,
currevano anni Domini MCCCXLIII, venne a Roma a visitare le corpora
delli santi e·lle basiliche
sante la reina de Ongaria, matre de Lodovico re de Ongaria e de
Antrea re de Puglia, sio frate. Stette
dìe tre in Roma e visitao tutte le santuarie e fece granni
doni a tutte le chiesie. Frate Acuto, uno
fraticiello de Ascisci lo quale fece lo spidale della Croce a Santa
Maria Rotonna, fu lo primo che·lli
domannassi elemosina per acconciare ponte Muolli, lo quale era per
terra. La reina li donao tanta
moneta, che lo ponte se refaceva con alcuno aiuto. Donne fuoro fatte
le cosse nove e·lla torre e
forano fatte le arcora, se non avessi auto impedimento. Puoi
incomenzao a muitiplicare la poveraglia
de Roma e tanto era lo petire, che non bastava lo sio dare. Per la
importunitate delli petitori se
abivacciao la reina e convenneli partire. Nam pauperes habent mores
corvinos. Rustici montani
mores habent lupinos. Moito la onoraro le donne de Roma. Moito
ammirava l'abito de Romane.
Partìose e gìo a Napoli a visitare sio figlio re
Antrea, e visitaolo e là recipéo per la reina Iuvanna e
per
li conti dello renno quelle onoranze le quale diceraio là dove
se tocca della morte de re Antrea. Questa
reina veniva sopra una carretta. Quattro palafreni tiravano quella.
Otto contesse sedevano con essa.
Tutte guardavano ad essa. Nella aitra carretta venivano aitre
damiscelle con veli ongareschi e con
coronette d'aoro puro in capo. Cinquanta cavalieri a speroni d'aoro
intorno, e aitri serviziali. Questa
donna avea mozze quattro deta della soa mano ritta. E mozzaolille uno
barone de Ongaria: Feliciano
abbe nome. La novella fu così. Feliciano abbe una figlia, nome
Elisabetta, la quale per compagnia della
reina usava in corte regale. Lo cunato dello re carnaliter illam
mediante regina cognovit. Venne lo
tiempo che·llo patre la retrasse dallo servizio della reina e
disse ca·lla voleva maritare. Disse
Elisabetta: "Non se conveo che marito aia quella a chi sotto
ombra de re è tuoito sio onore". Questo
odenno Feliciano fu turbato. Più non disse. Anche ne gìo
con un sio iovinetto figlio, cavalieri, a parlare
collo re. Lo re era in una oste. Entra Feliciano l'oste e passa onne
iente. Passa lo steccato intorno allo
re e ionze allo paviglione regale. Là, 'nanti la porta dello
paviglione, trovao uno frate, lo quale era
confessore dello re, piecaose in terra e sì se confessao e
disse: "Io dego condescennere ad uno caso
collo megliore cavalieri dello munno, donne è pericolo de
morte de doi perzone. Pregote che me
assolvi". Lo frate no·llo intese. Imbrattao la porta,
fece soa croce, sio miserere, e abbe assoluto de
quello che non intenneva. Intra tanto le guardie nunziaro allo re che
Feliciano era venuto. Lo re stava a
tavola e pranzava esso e·lla reina e sio figlio Lodovico, mode
re, lo quale era in etate de infanzia. Deo
licenzia lo re che Feliciano entrasse. Feliciano, auto commiato,
disse allo figlio: "Sta' qui. Non entrare.
Se odissi romore, cavalca e vattene. Lo cavallo bene te portarao".
Entra Feliciano. Quanno lo re lo
vidde, aizao la voce e disse: "Ahi pazzo, haime trovata drento
la Boemia quella bona spada la quale me
promettesti?" Respuse Feliciano e disse: "No. Io la
trovaraio. Volete che aia tale fierro, tale tagliare,
quale hao questa mea cortellessa?" E ditto questo, aizao la
cortellessa sopra lo capo dello re più de doi
piedi.
Lo re levao l'uocchi per guardare alla accia de questo fierro. Allora
Feliciano abassava la mano e
lassao cadere de fortuna. Ìo lo colpo per partire la testa
dello re in doi parte. Lo re, temenno e
tremanno, sùbito se mise sotto la tavola. La reina parao la
mano. Lo fierro coize quattro deta, le quale
sùbito caddero in terra. La cosa era nova. Lo romore granne.
Li donzielli, li quali servivano, colle
cortella da servire occisero Feliciano. Puoi curzero sopra lo figlio
e sì·llo occisero. Patre e figlio morìo
in uno ponto per la lengua de Elisabetta. La reina ne perdìo
mesa mano.
Cap. XI
Della sconfitta de Spagna e della toita della Zinzera e dello assedio de Iubaltare.
MCCC[...] anni Domini currevano, de mese de [...], quanno fu fatta la
granne e orribile vattaglia infra
Cristiani e Saracini. Duce Deo Cristiani fuoro vincitori. Saracini
fuoro sconfitti in Spagna in uno
campo lo quale se dice Cornacervina, nello terreno della citate de
Sibilia, dove moriero sessanta milia
Mori. La quale novitate fu per questa via. Uno nobile e glorioso re
fu in Spagna. A nostri dìi megliore
non fu. Abbe nome donno Alfonzo, figlio dello re Duranno re de
Castelle. Questo re Alfonzo fu moito
vittorioso. Continuamente resse la frontiera contra delli Saracini.
In una rotta sconfisse uno
grannissimo duca de Saracini, lo quale avea nome Picazzo, e sì·llo
prese per la perzona. Questo
Picazzo avea uno uocchio. Non più consideranno lo re Alfonso
la nobilitate e·lla potenzia de Picazzo,
deliverao de perdonarli la vita, se voleva recipere lo battesimo e
prennere soa figlia per moglie. Le
cose fuoro promesse e venivano ad effetto. Quanno Picazzo venne alla
fonte dello battesimo, fu
pentuto. Desprezzanno lo battesimo e lo cristianesimo sputao
orribilmente nella conca. Questo
vedenno lo buono re Alfonzo fu turvato. Niente tarda. Impuina mano a
soa spada e senza misericordia
li partìo la testa dallo vusto. Quello cuorpo fu iettato fra
li cani. Questo iovine Picazzo avea una sia
matre reina: la Ricciaferra avea nome. La Ricciaferra avea un re per
marito, lo quale avea nome
Salim re de Bellamarina, nato de una citate che se dice Trebesten.
Questa Ricciaferra, sentenno
occiso lo bello sio figlio Picazzo per la mano dello re Alfonzo,
penzao de fare la vennetta sopre li
Cristiani e sopra lo re Alfonzo. E perché ciò fare non
se poteva senza granne esfuorzo, penzao de fare
lo passaio sopre la Cristianitate, e così fece. Abbe ordinato
collo loro papa, lo quale in quello tiempo
avea nome Galiffa de Baldali, soldano de Babillonia, che fecessi uno
commannamento generale e
indulgenzia per tutta Saracinia - Partia, Media, Turchia - a fare lo
passaio e·lla granne armata per
prennere terre de Cristiani e occupare e destruiere le chiesie de
Cristo e relevare tiempi a Macometto.
Così fu fatto. Per tutta Saracinia vanno predicanno li
alfaquecqui, cioène prieiti, e portano lettere
espresse da parte de Galiffa loro papa che·sse faccia lo passo
sopra Cristiani. La iente fu adunata
grannissima da pede e da cavallo. Fuoro da quattrociento milia
perzone da vattaglia. Fuoro tutte con
mazze in mano e fionne: Perziani, Arabi, Saracini neri, Parti,
Dulciani. Queste fuoro le ienerazioni
commosse a questa adunanza per lo passo fare de cà da mare.
Quattro fuoro li regi de corona li quali
questa iente guidavano. Lo primo fu lo re dello Garbo, lo re de
Marocco, lo re de Bellamarina, in aitro
nome de Trebesten, e lo re de Granata. Questi fuoro li regi de
Saracinia. Vero ène che·llo re de
Granata non venne con questi, ché sio reame ène drento
della Spagna; ma quanno sentìo la forza
passata de Saracini, sì se rebellao e mosse, guerra drento
nella Spagna. Questi quattro regi con tanta
iente muossero e passaro lo mare e liberamente se posaro in terra
ferma. Sei iornate de terreno
occuparo de Cristiani con cavalli, asini, muli, camielli, femine
infinite, siervi, arme, fodero de pane e
aitro arnese da guerra. Francamente passano e pono l'oste sopra una
citate de Spagna la quale se dice
Taliffa, e dicono che quella ène cammora loro. Nelli lati e
spaziosi campi destienno li paviglioni e iaccio
in campo. Per fermo assedio fare portano ignegni e trabocchetta.
Grossa era la iente. Non dubitano.
Alquanto magnano, bevo. Loro tammuri sonano. Deh, como granne romore
faco! Haco ignegni da
aizare scale, da iettare macine. Loro campo, dove posaro, avea nome
Cornacervina, campo spazioso,
abunnevole de acqua, lena e erva, anche forte, ca·llo
fortificava uno fiume lo quale se dice Rigo
Salato. Questo fiume desparte Taliffa da Sibilia. Da vero che in
questo campo non forano venuti né
potuti venire per la stretta valle la quale passaro canto la costa,
se non fussi che nella entrata dello
paiese se pattiaro con un granne e potente barone dello reame: don
Ianni Manuelle avea nome. Questo
don Ianni Manuelle era delle più potente colonne de Spagna. La
montagna era in sia balìa. Era questo
don Ianni in errore collo re Alfonzo, ché no·lli
favellava e derobare faceva, perché reprenneva lo re, lo
quale con soa reina stare non voleva, anche stava con una badascia -
madonna Leonora avea nome -,
como io' diceremo. A questo don Ianni Manuello donaro li Saracini
granne quantitate de doppie de
aoro, perché·lli concedessi lo passo; e così fu.
De licenzia dello re Alfonzo don Ianni Manuello
concedéo lo passo a Saracini, e vennero nelli campi de
Cornacervina, como ditto ène, e là stavano ad
oste a fermo assedio. Derizzaro trabocchi e fecero ignegni da ponere
scale, con rote e funi. L'oste
stette ben mesi tre. Taliffa se perdeva in tutto, se non se
succurreva. Non se poteva recuperare.
Quanno lo buono re Alfonzo se sentìo sopre l'oste e·llo
esfuorzo granne, non dottao, anche se puse alla
frontiera in Sibilia, la citate reale. Dicese che madonna santa Maria
fussi nata in questa citate. Ora
non dorme lo re Alfonzo. Manna per succurzo allo papa. Manna alli
regi li quali staco intorno ad esso,
cioène a sio zio, don Dionisi de Lisvona canto mare, re de
Puortogallo, allo re de Navarra, allo re de
Aragona. Manna commannamenta espresse a tutti suoi baroni che
sequitinolo. A don Ianni Manuello
fao commannamento tanto che non se parta, anche stea e chiuda la
essuta e fera dereto, quanno lo
stormo oderao. Ben se sollicita lo re. Ben chiama tutta la Spagna.
Questi regi non fecero resposta, ma
cavalcaro de sùbito con loro espediti cavalieri e pedoni.
Mustrano lo loro buono volere e forza. Lo
primo aiutorio fu quello de papa Benedetto: setteciento uomini d'arme
de buono apparecchio, Todeschi
e Franceschi, cavalli gruossi, bene armati, vennero crociati,
assoluti de pena e de colpa. Lo secunno
aiutorio fu lo re de Navarra con quelli de Pampalona, con cinque
milia cavalieri adorni, buono capiello
de acciaro in testa, bona targia in vraccio, tagliente guisarina da
lato, lucente zagaglia in mano. Anche
venne con pedoni vinti milia. Lo terzo aiutorio fu lo re de Aragona
con cinque milia cavalieri fra
Provenzani e Franceschi. Con esso fuoro quelli de Tolosa. Anche menao
pedoni vinti milia. Anche ce
fu don Dionisi sio zio con quelli della citate de Lisvona. Lo quarto
aiutorio fu lo re de Puortogallo con
quinnici milia cavalieri spagnuoli, currienti cavalli e dardi in
mano. Lo quinto fu esso re Alfonzo, re de
Castiello, con trenta milia cavalieri buoni, adorni, con cavalli
spagnuoli de quelli de Castiglia, li quali se
contano li più nuobili destrieri che siano, pedoni senza fine.
Mentre che lo assedio era sopra Taliffa, lo
re Alfonzo era in Sibilia con soa baronia. La fame e·llo caro
era granne in Sibilia. La iente, la quale era
venuta a servire, non poteva tanto demorare. La moneta non bastava.
Forte se mormorava la iente de
tanta tardanza. Allora lo re Alfonzo, represo da suoi baroni,
deliverao iessire fòra alla vattaglia e
cercare soa ventura. Spene abbe in Dio, lo quale non li fallìo.
Esse fòra vigorosamente. In questa
forma soa iente conestavilìo. Trenta milia cavalieri abbe de
buono guarnimento, non più, ciento milia de
pedoni. Era in mieso, fra soa iente e l'oste de Saracini, lo fiume lo
quale se dice Salato. De·llà da
Salato stao Cornacervina, dove staco trabacche e paviglioni,
alfaniche e confalloni, iente assai, como
ditto ène, con moiti tammuri. Da lo lato ritto de l'oste
stavano le montagne de Ilerda, la veglia terra.
Dallo lato manco stavano le pianure spaziose. Dereto li stava una
stretta valle, la quale avevano
passata per forza de moneta, como ditto ène. De sopre dalla
valle staievano le montagne le quale
teneva don Ianni Manuello. Denanti aveano lo fiume e·lli
nimici. Lo passo dello fiume curatamente se
guardava. Lo re Alfonzo tenne questa via. Imprimamente mannao li
setteciento cavalieri papali
crociati a passare lo fiume. Treciento rompessino lo passo e
commattessino colle guardie. Doiciento se
ponessino dallo lato della currente dell'acqua a sostenere la forza
dello fiume, che·lla pedonaglia
potessi passare; li doiciento remanessino a guardare lo passo, aitro
non facessino. Non era piccolo
pericolo passare lo fiume, lo guado rompere. Tutti fuoro destrieri
eletti. A questa iente aitro confallone
dato non fu, se non uno confallone collo campo bianco e·lla
croce vermiglia. Su la croce era lo
crucifisso. Po' li setteciento crociati sequitao esso re Alfonzo a
cavallo in uno cavallo ferrante liardo.
Dicese che fussi lo più bello e megliore dello munno. In soa
compagnia abbe cavalieri dieci milia, che,
rotto lo passo, fossi lo primo lo re con soa iente alla vattaglia.
Po' lo re Alfonzo sequitao lo re de
Aragona con cinque milia cavalieri e pedoni vinti milia. Questo ìo
dallo lato della montagna a ponere li
impedimenti e occupare li passi e·lle selle, le entrate e·lle
descese, perché Saracini per la montagna
non avessino valore né redutto né fuga. Dallo lato
manco, innella pianura, fu mannato lo re de Navarra
con dieci milia cavalieri, con cinque milia pedoni, perché lo
Saracino non potessi dare la fuga né
destennersi per li campi. Po' queste iente sequitao lo re de
Puortogallo con quaranta milia pedoni e
tutto l'aitro esfuorzo a sostenere le spalle. Questa fu la schiera
grossa. Dallo aitro lato dereto don Ianni
Manuelle devea ferire colli montanari. Questa fu loro bella
conestavilia. Così ne venne la lettera a
Roma a missore Stefano della Colonna berbentana, a gran pena intesa.
Dato l'ordine e·llo nome, li
setteciento cavalieri ionzero allo fiume. Rompo l'acqua e passano.
Non vaize reparo. Tre cavalieri, li
quali erano sopranamente a cavallo, fuoro li primi che l'acqua
passaro: uno arcivescovo e doi cavalieri
a speroni de aoro, donzielli dello re Alfonzo, uomini li quali
sapevano la contrada, usati dello passo.
Questi fuoro li primi 'nanti all'aitra iente. Là nello passare
fuoro presi dalli perfidi Saracini e
prestamente loro teste dallo vusto fuoro troncate. Là in
quello passo fuoro martiri gloriosi de Cristo.
Ora iogne la cavallaria. Passa uno, passa l'aitro. Poco vale lo
reparo. A una forza tutto lo stuolo de
Cristiani fu puosto de·llà dallo fiume. Nullo ce
pericolao nello passo, se non l'arcivescovo e li doi
cavalieri, li quali lo glorioso martirio recipiero. Passato lo
stuolo, Saracini, la perfida iente, non dottava
per la granne loro moititudine. Anche stavano canto l'acqua e
manicavano e godevano, loro cembali
sonavano, granne stormo facevano. Alla fine se levano su. Prienno
loro arme, arcora, mazze e fionne,
e resisto forte e pienamente. L'ora era su la terza. Ora vedesi
tromme e instrumenti sonare. Odese
romore da parte in parte. Tamanto è lo strillare, che voce
umana nulla se intenneva. Su in quelle coste
rembombava lo crudele romore. Dieci miglia da longa fu odito. Odi
pianto, odi gridare. A cuorpo a
cuorpo se affrontano. Alle mano soco. Chi dao, chi tolle."Dae,
dae, dae" odivi; aitro no, per granne
ferire su nelle teste armate. Vedese iettare de lance, aizare de
spade, saiette volare. Le prete, vrecce
de fiume, de piena mano fioccavano como neve. Là erano la
maiure parte Turchi, li quali aitro non
aveano se non fionne e prete. Moita iente pericolaro. Io ademannai
uno pellegrino spagnuolo se de
questa rotta alcuna cosa sapeva. Quello disse ca nce fu, e trassese
sio capiello de capo e scoperze la
fronte e mustrao una sanice rotonna in mieso della fronte, e disse ca
quello fu colpo de preta. Un aitro,
lo quale similemente adimannai, scoperze lo capo de sio cappuccio e
mustraome tre sanici de colpo de
spada e una nella fronte de preta. Puoi bene sapere ca se maniavano
Saracini, ca·sse aiutavano.
Vedese travoccare da cavallo, teste fennere, saiette e sbiedi pietti
passare. Passano li cavalli sopra le
corpora. Granne ène lo pianto e·llo guamentare. Così
curre lo sangue como rigo de acqua. Là se pare
chi ène figlio de bona mamma. Ora vedesi lo bello commattere
e·llo delettevole armiare che·lli iannetti
facevano. Currevano per lo campo commattenno, ferenno e lancianno.
Non era chi li potessi adetare,
tanta era la loro velocitate e leierezze. Una targetta in vraccio
portavano longa doi piedi, lata uno,
coperta de lino, so·lla quale da capo a pede se coperivano,
staffe corte [...] vestimento de lino incerato,
in capo scuffia de fierro. In mano portavano dardi. Questi dardi
lanciavano. Chi ne leva uno piùne non
ne vole. Quanno li dardi mancavano, lo iannetto currenno con sio
curzieri se piecava fino a terra.
Coglie sio dardo e destramente lo lancia denanti, dereto, abasso, in
aito secunno soa voluntate. Granne
ène loro leierezze. Questo ène lo iocare della
iannettia. Questi iannetti soco li scoperitori regali. Durao
la vattaglia fi' alla nona, più no, perché la iente
saracina sentìo don Ianni Manuello, lo quale della
montagna descenneva per ferire dereto e per lo passo parare. Quanno
fu questo sentuto e conubbero
la fumiera, lo splennore delle lance e delle insegne, subitamente li
venne meno lo core e·lla vertute.
Tutti fuoro rotti. Non puoco resistere. Ora se voitano, dacose alla
fuga. Terribile cosa è loro fuire.
Fugo senza alcuna remissione. Non è speranza se non nelle
gamme. Ora vedesi occidere, ora vedesi
maciello fare. Granne tagliare se fao de quella canaglia della iente
saracina. Questa sì ène la nobile
sconfitta de Spagna, infra moite poche memorabile. LX milia corpora
de Saracini fuoro morte, XL
milia li presoni. A queste cose lo re non fu, né·lle
sentìo, per lo poco dubio lo quale avea nella soa forte
schiera. Commattéo puoi che la novitate pervenne alla forte
schiera e·llo dubio fu palesato. Stava in
guardia della porta dello regale paviglione uno omo - Serafin avea
nome - più granne che li aitri tre
piedi, macro, tutto nervoso, longhe le gamme, nero lo voito, vestuto
de uno perponto de iuba de seta. In
mano teo una mazza de fierro 'naorata. Questo Serafin, a cui era
fidata la perzona dello re, dubitao de
nunziare la mala novella. Puro la manifestao alla reina. Mossese la
reina: Ricciaferra avea nome.
Passa denanti allo re. Delli suoi uocchi fontana de lacrime
descenneva. E disse: "Su re, ca·lla ventura
ène de donno Alfonzo". Lo re iocava a scacchi. Questo
odenno fu turbato. Più non disse, più non odìo.
Bastaro doi paravole. Vestuto de una [...] de aoro longa fi' alli
piedi, barretta de aoro in capo con prete
preziose, bacchetta d'aoro in mano, salle a cavallo, prenne lo camino
de casa soa. Era intorno
affasciato da sette milia Turchi con vastoni de fierro inaorati in
mano, vestuti de iube de sannato sopre
ponte de ballacchino, armati alla imperiale. Anche ivano aitri
cavalieri con lance, con fierri lati, lucienti.
Denanti a questi ivano assai cembali sonanti e aitri strumenti senza
fine. Regale pareva la forza e lo
suono. Più denanti vaco dieci milia iannetti currenno e
sparienno da onne lato dardi, como fao la
spinosa alli cani. Nulla perzona ad essi se accosta, sì granne
ène lo fioccare delli dardi. E moita aitra
iente da pede e da cavallo con granne fortezze, con sole armature lo
sequita. A questo muodo ne vao
fuienno dello stormo Salim, lo re de Bellamarina. Rompe e passa onne
para per forza della nobilitate
de soa cavallaria. Lassao Ricciaferra, la soa donna, la reina. Lassao
onne cosa desperata. Sei dìe
durao la fuga. Sei dìe durao la incaiza. Così iace
seminata la iente morta como le pecora. Po' la
partenza dello re la reina fece destennere panni bianchi de seta in
terra. Là fece ponere tutta la
moneta e·lle gioie regale. Là essa sedeva con cinquanta
soie soffragane concubine dello sio re. Uno
cavalieri spagnuolo - Arcilasso avea nome -, armato e bene a cavallo
con una lancia in mano curreva
per lo campo. In sio furore entrao lo Alfanic, cioène lo
paviglione dello re. Occurzeli la reina. Quanno
questo Spagnuolo vidde la reina sedere in figura de tristizia (puro
la soa vista dignitate mustrava),
lassase e deoli de una lancia. Da oitra in parte la passao. De colpo
l'abbe morta. Torna in reto e per lo
campo fao granne male. Una maraviglia fu, che·llo ferrante
dello re Alfonzo, della cui bellezza alcuna
cosa ditto ène, da puoi che fune in quello campo, mai non
posao, mai non fu potuto tenere. Contra
voluntate delli circustanti allo freno portao lo re nello paviglione
dello re de Bellamarina e là restette de
furiare. Così fece como avessi auto senno umano. Quanno lo re
Alfonzo allo paviglione regale fu ionto,
trovao la reina, la quale morta iaceva e in mieso de soie soffragane
stava, le quale piagnevano e
guardavano quello cuorpo. Erance una la quale era cristiana - avea
nome Maria -, nata de una villa la
quale hao nome Obeda. Questa Maria fu schiava, e per soa bellezza e
suoi costumi era concubina de
re. Parlao e disse allo re che avessi mercede; Arcilasso la donna
avea esmattata. Quanno lo re intese
che·lla reina era morta per le mano de Arcilasso, fu forte
dolente e disse: "Ahi Arcilasso, como non te
temperasti a tio furore? La mea vittoria era doppia". Puoi fece
atti de tristezze sopre la donna. Era la
donna grassa e grossa. Credere non se pò. Nelle gamme, nelle
vraccia e in canna avea cierchi de aoro
purissimo smaitati, ornati de prete preziose. Questa donna de
commannamento dello re fu operta. Puoi
fu inzalata e messa in una cassa piena de aloè e fu posta per
dignitate in una aita torre. Puoi lo cuorpo
de questa donna revennéo allo marito infinita quantitate de
moneta. Po' questo lo re Alfonzo fece
tollere lo tesauro dello re fuito, lo quale fu doppie [...], che
milli muli ne fuoro fatigati a portare arme e
aitro arnese, como se dicerao. Maria de Obeda, guardiana della reina,
fu liberata. Disse ca quelle
doppie non erano la quarta parte, le tre parte ne erano furate per la
iente. Ora tornemo alla incaiza de
Saracini. La incaiza durao dìe sei. Non era muodo allo
macellare. Lo sesto dìe trovaro una citate canto
mare che·lli recipéo: Ziziria hao nome. Quella Ziziria
fisse lo Cristiano. Intanto daose la iente alla
guadagna dello robare. LX milia fuoro le corpora delli Saracini
morte. Quelle loro ossa fuoro adunate
in uno campo e de esse fatta fu una grannissima montagna. Fine allo
dìe de oie dura. Anche più, ché
oie in questi dìe vao lo aratore e ara lo campo, e aranno
trova teste, gamme, vraccia e ossa assai.
No·lle poco capare. Anche più, che durao alcuno spazio
de dìe che·lli viannanti sequitavano per loro
mestieri, per le selve trovavano a pede delli arbori ossa iacere in
forma de omo lo quale dormissi.
Questo era che·lli feruti essivano dallo stormo e posavanose a
pede delli arbori per accogliere lena, ca
stanchi erano, e, como se posavano, lo spirito e·lla vita in
un tiempo li abannonava. Così remanevano
quelle ossa senza carne. Infra le gote vedeva omo resplennere aoro.
Questo era ché Mori se metto le
monete e loro doppie d'aoro in vocca. Queste doppie lucevano como
aoro. Allora chi questo trovava
percoteva la zucca dello capo con preta e bastoni, sì che
spartiva le ganghe, e·lla coccia volava in
terra. Lo viannante alegro la moneta prenneva. Granne fu lo guadagno
de questo stormo. XL milia
corpora de Saracini fuoro presi, maschi e femine, li quali fine nello
dìe de oie staco siervi de Spagnuoli.
Zappano, arano, filano, tiesso, cucinano e aitri mestieri secunno le
connizioni. Onne artificio faco.
Infiniti ne fuoro vennuti como se venno le crape. Per tutta Spagna
fuoro vennuti colla corona in capo.
Anche ce soco de quelli siervi. Onne servizio faco a Spagnuoli loro
signori. Hortos et vineas colunt
dominorum precepto solo victu contenti. Anco ce fu guadagnata la
moita robba: denari, arnesi,
arme, vestimenta, vascella de metallo de rame, cavalli, muli, somari,
camielli, paviglioni, trabacche,
tanto forag[g]io, tanto arnese. Estima quanta fu la iente! Lo re
Alfonzo abbe lo paviglione regale con
tutto quello drento. Lo paviglione avea nome Alfanic. Treciento
cammore avea. Era de panno de lino
attorniato de corame roscio con corde de seta invernicate d'aoro. Mai
non vedesti più mirabile né più
bella cosa. Nello fastigio de sopre, dalla parte de fòra,
tutto stava puosto a lune, drento de diverzi
colori. Non se pote quello lavoriero contare. Drento dallo Alfanic fu
trovata la Ricciaferra, la reina
morta per Arcilasso, como ditto ène, la quale fu vennuta a sio
marito moito aoro inzalata in una cassa.
Puoi ce fuoro trovati li tesauri regali, la quarta parte; le tre
furate erano. Milli e doiciento muli portaro
quelle, e fuoro doppie. Disseme chi le vidde, chi le despese che
quelle doppie erano d'aoro e erano in
forma de piattielli de ariento, poca cosa meno che·lle patelle
dello calice dello aitare. Anche fra quello
tesauro fu trovata la lettera della indulgenzia, la quale li avea
conceduta lo loro granne papa - Galiffa
de Baldali aveva nome -, nella quale prometteva a chi moriva in
questo passo la resurezzione a terzo
dìe. Puoi prometteva sette mogliere vergine nello santo
paradiso. Puoi li prometteva de farli stare
abbracciati con santo Macometto e con santo Elinason. Puoi li
prometteva de satollareli de latte e de
caso e lagane e vuturo e mele. Queste erano le promissioni dello
soldano Galiffa de Baldali in soa
lettera. Puoi li commannava che tutta Cristianitate sterminassino e
occupassino lo munno. Anche ce fu
trovato in quello Alfanic arme assai, guarnimenti regali de panni
tartareschi e ballacchini ornati con
aoro e prete preziose. De questo tesauro lo buono re Alfonzo mannao
in Avignone a papa Benedetto,
lo quale era vivo allora, la decima parte de queste doppie d'aoro.
Vaize da ciento sessanta milia fiorini.
Anche li mannao lo confallone reale collo quale abbe la vittoria, lo
quale portao nello stormo. Anche li
mannao lo bello cavallo ferrante lo quale lo re cavalcao nella
vattaglia, lo quale ferrante papa
Chimento, sio successore, lo donao e mannao a Filippo de Valosi re de
Francia per lo moito bene che li
voize. Anche li mannao vinti de quelli Saracini presonieri con quelle
arme, con quello abito, con quelli
cavalli colli quali fuoro presi. Così ionzero in Avignone
questi vinti Mori. Per la mutazione dello paiese
e per la perduta licenzia tutti moriero, salvo uno solo, lo quale se
fece devoto cristiano, donziello dello
papa. Fi' alli dìe nuostri vive. Anche li mannao vinti
confalloni presi nella rotta de Turchi e Medi, li quali
confalloni una collo granne confallone sio regale fuoro appesi nella
cappella de papa Benedetto dello
palazzo papale de Avignone. Allo dìe de mo' non ce staco.
Fatta che fu questa sconfitta, lo re de
Granata per tema de sio reame deventao tributario a re de Castelle.
Io pozzo dicere in bona fede con
veritate, ché delle arme de questi io viddi per questa via.
Nella citate de Tivoli venne Carlo imperatore,
anno Domini MCCC [...], como se dicerao. La iente era moita. Io stava
in una pontica, là dove venne
uno a comparare cannele de cera e confietti e spezie. Questo teneva
una spada sotto vraccio. Lo
pomo era tutto inaorato e lavorato a igli e fiori. Dissi io: "Vòi
tu vennere questa spada?", e trassila fòra
dello fodero. Era la spada como le nostre soco, in forma de mieso
stuocco, mesa spada. Non era
troppo granne né troppo lata, ma, como le nostre, bene
convenevile, fatta allo muodo genovese. Lo
pomo era luongo como uno prungo piano, l'ilzo como mesa luna, e era
la maiure parte 'naorato lo
fierro, l'ilzo e·llo pomo tutto. La vaina era curata con
tenere de fierro bene lavorato e·llo caspiello con
correie moito adorne. Parevame che·lla spada non era sempia
como le nostre. Respuse lo buono omo
e disse: "Io non la voglio vennere, né la dera per
cinquanta fiorini". E ciò fermao con sacramento. La
iente che intorno stava disse: "Perché?" Respuse e
disse: "Questa spada fu guadagnata nella rotta de
Spagna, nello granne stormo quanno fu sconfitto lo re de Bellamarina
dallo re de Castiglia. Io me nce
retrovai. Dunque, benché assai bona sia, aiola cara troppo.
Non la dera per moneta alcuna". Fatta
questa sconfitta e raccuoito lo campo e licenziati li regi e li aitri
aiutorii, lo re Alfonzo non posa. Anche
fece iente de sio reame e de crociata e sequitao la iniqua iente
perfida. Moito li molesta. De loro
terreno vole. Intanto morìo papa Benedetto, lo bianco, e fu
creato papa Chimento, lo monaco nero. Era
una nobile citate canto mare, nelli confini de Saracinia, la quale
avea nome la Ginzera. Lo paese hao
nome Gigizia. Questa era delle megliori e delle più nobile e
più ricche de speziaria, seta e panni de
Tuniso che in Saracinia fussi. Questa citate assediao lo buono re
Alfonzo per mare e per terra. Lo
assedio fu durissimo. Ciento trentacinque galee abbe per mare e per
terra iente infinita da pede e da
cavallo. Durao lo assedio mesi diciotto e fu auta per fame. In quella
citate entrao lo re Alfonzo e soa
iente. Prese chi voize, occise chi·lli parze e cacciaone tutta
la perfida iente. Toize tutto loro arnese, lo
quale fu tanto che ène inestimabile. Quella citate empìo
de Cristiani. E fuoronce edificate chiesie,
locora de religiosi e fonne fatte doi vescovata. Quella citate fi'
allo dìe de oie serve a Cristo glorioso e
benedetto. Ora poni cura alla novella. Puoi che·llo re abbe
venta la Ginzera, non abbe bisuogno de
tanta moititudine de iente. Licenziao li sollati. Granne spesa avea
fatta. Fra li aitri licenziati fuoro trenta
cuorpi de galee de Genovesi, le quale li aveano bene servuto. Queste
galee tornaro a Genova. Quanno
fuoro nello entrare dello puorto, como usanza ène, sonaro
tromme e naccari e ceramelle. Troppo
imperiale faco suono e alegrezze. Puoi entraro lo puorto e puserose
ad ordine. Moito letamente dao in
terra tutto lo stuolo, bene vestuti, bene adobati e riccamente. Forte
aveano guadagnato. Fra le aitre
cose per novitate pusero nello puorto, su lo passo dello puorto, sei
de quelli Mori, li quali erano male
vestuti. De gialle schiavine loro cuorpo era ammantato. Fierri
tenevano in gamma. Mustravano ca
erano presonieri. Tutta Genova curre e descegne allo puorto a vedere
le galee venute. La moita iente
se foice. La moita iente fao intorno rota a questi mori. Desidera omo
vedere la iente della strania fede.
Staievano li sei Mori miserabilemente timorosi fra tanta iente. Moito
moito favellavano e po' lo
favellare voitavano loro capora, aizavano la faccia e resguardavano,
como ammaravigliassino, le belle
edificia e palazza aitissime le quale staco intorno allo puorto de
Genova. No·lli intenneva la iente. Era
là uno siervo de Genovesi lo quale fu saracino. Era cristiano
e nutricato in Genova. Latina lengua
sapeva. Diceva la iente: "Que dico questi?" Responneva:
"Questi dico così:"Non è maraviglia se noi
Saracini simo sconfitti e perdienti, ca nce ène stata sopre
tutta Cristianitate e Genova"". Quanno
aiognevano Genova, allora volveano le facce maravigliannose a quelle
palazza dello puorto de Genova.
Credevano che Genova fussi tutta la fortezze e bellezze de Cristiani,
non se ne trovassi simile. In
questo potemo conoscere che loro avitazioni non soco così
delicati como li nuostri. Anche ne venne
della Gizera lo vescovo de Peroscia, lo quale fu delli crociati, e
menao con seco otto de quelli Turchi.
Fuoro da cavallo, fuoro uomini bianchi e belli como noi; calzamenta
como noi, ronzini como noi. In
capo portavano uno capiello fi' alle recchie como mitra de papa. Vero
è che in mieso avea uno pizzo
ritto, luongo, sottile como fussi cuollo de gruva, copierto de panno
de lino bianco. Aduosso portavano
uno farsetto de panno de lino bianco como noi. Vero è che·lle
maniche erano longhe fi' alle deta della
mano. Sopre lo farsetto portavano uno manto de panno de lino como
piviale da preite. La ponta dello
lato ritto se iettava dalla spalla manca e quella della manca se
iettava dalla spalla ritta. Po' questo
donno Alfonzo non posa. Anco fao iente de sio paiese, e abbe
assediato lo bello e nobile castiello,
uitima fortezze de Saracini. Iubaltare lo castiello hao nome. Lo
paiese hao nome Alcacuc. In questo
castiello Macometto scrisse la soa leie e deola a Saracini e fece lo
livro lo quale se dice Alcorano.
Sopre de questo castiello puse l'oste lo re e iurao per la maiestate
de sio reame e per l'aitezza de soa
corona mai da quello assedio non partire finente che quello castiello
non avea. Ficcao sio stennardo in
terra. Serrato era allo torno. Lì puse l'oste e guardie
credennosello prennere per fame. Ène lo castiello
bellissimo e fortissimo. Hao nome Iubaltare. Stao in una penna de
preta viva aitissima. Su in quella
preta l'aquile faco lo nido. Puoi l'aitezza veo abassanno alla piana.
Là, canto la pianura, ène menato
uno muro fortissimo con spessi torricielli. Picazzo, de chi ditto
ène, lo fece fare su lo vivo sasso.
Drento dallo muro hao una fontana de moita abunnanzia. Nella destesa
della pianura hao la meschita.
Haoce arbori de onne rascione. Mai non fu veduta sì piacevole
fortezza. Cristiani per loro negligenzia
la perdiero. Questa fortezze se crese recuperare donno Alfonzo per
assedio; ma non li venne fatto, ca
sopravenne la granne e orribile mortalitate, della quale se dicerao,
e ferìolo con una iannuglia nella
inguinaglia. Donne li convenne, levato campo, morire nello tiempo
della granne mortalitate in Sibilia, la
citate regale. Questo re donno Alfonzo fu lo più nobile, lo
più glorioso, più iusto, più pietoso re che mai
fusse in Spagna. Sempre mai Spagnuoli lo piagneraco. Onne vertute
abbe. Non abbe defetto alcuno.
Una sola cosa abbe reprensibile, ca esso non amava la soa reina, né
con essa voleva stare, benché
uno figlio ne abbe. Anche teneva una soa badascia - donna Leonora
aveva nome - la quale amava
sopra tutte cose, la quale era sio confuorto, della quale avea
figlioli e figlie. Senza essa non poteva
stare. Per moite voite lo papa sì·llo ammonìo e
sì·llo scommunicao. Voleva che questa soa badascia,
donna Leonora, iettasse via. E·llo re per la epistola li
respuse doicemente, anche per una ambasciata, e
disse: "Santo patre, se piace a voi che io mora e non viva più,
io lasso stare; tutta fiata che io staiessi
senza essa io non pòtera vivere". Così lo santo
patre non lo molestava. Non voleva che soa vita fine
breve avessi. Io demorava nella citate de Bologna allo Studio e
imprenneva lo quarto della fisica,
quanno odìo questa novella contare nella stazzone dello
rettore de medicina da uno delli bidielli.
Cap. XII
Como fu cacciato de Fiorenza lo duca de Atena, e como morìo papa Benedetto e fu creato papa Chimento.
Anni Domini MCCCXLII, uno fulguro nello campanile de Santo Pietro
Maiure de Roma deo e arze
tutto lo cucurullo. Fu nell'ora de vespero, quanno li calonici in
coro cantavano lo offizio. Currevano
anni Domini MCCCXLII quanno papa Benedetto lo bianco morìo e
fu elietto papa Chimento sesto.
Questo papa Chimento fu monaco nero e fu perzona de tanta
sufficienzia che non avea paro. Era
grannissimo teologo e fu bellissimo sermocinatore. Quanno esso teneva
catreda per sermocinare overo
desputare, tutto Parisci concurreva a vedere esso. Deh, como bello fu
sermocinatore! Omo gallico
moito largifluo, da si' che in Studio fu era tanta soa larghezza, che
allo despennere no·lli iognevano soie
prevenne. Questo abbe tutti li gradi de dignitate. In prima fu monaco
nero de santo Benedetto,
conventuale, sottopriore; puoi fu decano; puoi fu priore; puoi fu
fatto abbate; puoi fu fatto vescovo;
puoi arcivescovo de Ruen; puoi cardinale de titolo de santo Nereo e
Achilleo; puoi, uitimo, fu creato
papa. Que abbe a dicere? Ca se grado se trovasse alcuno maiure, anche
l'àbbera desiderato. Como
questo papa creato fu, così lo cucurullo dello campanile de
Santo Pietro Maiure fu abrusciato, como
ditto ène. A questo papa venne l'ambasciata de Roma moito
onorabile, dodici perzone: sei secolari, sei
clerici. Capo loro fu Stefano della Colonna e·llo commannatore
de Santo Spirito. Questi dodici
ambasciatori lo pregaro, da parte de Dio e dello puopolo de Roma,
che·lli piacessi de venire a visitare
la sede dello sio vescovato de Roma. Anche lo pregaro che·lli
concedessi la indulgenzia generale dello
iubileo, che tornassi ciento anni a numero de cinquanta; perché
la etate ène breve, pochi ne viengo a
numero de ciento. A questi ambasciatori a po' dìe lo papa
respuse. E imprimamente provao che·lla
petizione loro era iusta, e provao per dodici rascioni che esso era
tenuto de venire a visitare lo sio
vescovato, la citate romana. Quanto allo secunno, concedéo lo
quinquagesimo iubileo in Roma,
generale remissione de peccati, pena e colpa alli pentuti e
confiessi; delle connizioni dello quale iubileo
infra se dicerao. In tiempo de questo papa, anni Domini MCCCXLII[I],
in dìe de santa Anna, fu
cacciato de Fiorenza missore Gottifredo, conte de Brenna, duca de
Atena, signore perpetuale de
Fiorenza; e folli fatta moita onta e moito despiacere e detuperio e
danno; e fuoro muorti uomini e loro
carne fu manicata. La quale novitate fu per questa via. Fiorentini
compararo Lucca da missore
Mastino della Scala e entraro in possessione. Pisani, turbati de
questo mercato, fecero intorno a Lucca
uno esmesurato e memorabile assedio; iente da cavallo numero [...],
iente da pede numero [...] Intorno
all'oste fecero fossati e steccata, torri de lename spessi. Anche
carvoniaro e stecconiaro la strada la
quale vao da Pisa a Lucca; dura miglia dieci. E questo fecero perché
liberamente omo isse a l'oste con
fodero e con arnese, senza impedimento. Durao lo assedio mesi [...]
Allora, per mantenere lo assedio,
fecero la gabella che se chiama Seca. In breve sconfissero Fiorentini
e levaroli de campo, e non
lassaro succurrere missore Malatesta, capitanio de Fiorentini, con
grascia. Anche fecero una cosa
notabile; ché missore Malatesta ionze la sera con fodero e con
granne iente ad uno fiume, lo quale se
dice Serchio, appresso a Lucca. De notte Pisani fecero uno fossato
esmesuratamente luongo e largo
fra lo Serchio e·lla citate de Lucca, longhezze [...], latezze
[...] Tutto questo lavoriero fu espedito in
notte una. Quanno la matina missore Malatesta, paratis omnibus copiis
tam ad pugnam quam etiam
ad grasciam, transivit aquam diluculo, non potens transire ex
impedimento valli, miratus
stupefactusque retrocessit meavitque, per ripam fluminis ascendens,
deditque circuitum
miliaribus decem ferme, ibique improvise pisanum exercitum invasit.
Tum vero, facta resistenzia
factoque ingenti Florentinorum impetu, fessi Florentini terga
dederunt. Multi cadunt, multi
capiuntur. Vix Malatesta cum aliquibus evasit. Omnis eorum copia
militibus preda fuit. Alla fine
Pisani venzero Lucca per forza de fame. Fi' allo dìe presente
la tiengo. Fiorentini, vedennosi così
confusi, chiamaro per capitanio de guerra e signore missore
Gottifredo, conte de Brenna, duca de
Atena; imperciò che era omo savio e potente, della casa de
Francia. Quanno missore Gottifredo abbe
recepute lettere, forte fu alegro. Sallìo a cavallo con soa
iente, da cinqueciento cavalieri, con salmaria
e granne arnese. Ritto per lo camino ne veo. Entra nella citate de
Fiorenza e a pacifico [...] senza
tumuito, de concordia dello Consiglio, recipéo la signoria
perpetuale. Ora comenza a reiere lo duca.
Fortemente guida. La prima cosa che fecessi fu che esso trasse de
presone missore Pietro Zaccone
delli Tarlati, signore de Arezzo, e sì·llo liberao de
cattivitate, là dove era perpetualmente deputato. Ora
vedesi le granne e ricche ambasciate che li venivano per tutta
Toscana. In Arezzo mise la signoria.
Abbe Pistoia, San Miniato, Vulterra e Prato. Apparecchiavase tutta
Toscana avere, duca essere
voleva de Toscana. Con Pisani stette queto, sì che molesta
de·llà non se sentiva. Resse assai aspero e
bona spene a Fiorentini daieva. Puoi che abbe receputa la signoria,
liberamente significao in diverzi
paesi la soa gloria. Fra li quali mannao uno vescovo de Francia a
Filippo re in Parisci, sio parente. Lo
vescovo disse como lo duca avea la signoria de Fiorenza. A ciò
respuse lo re Filippo e disse: "Piaceme
assai". Puoi domannao e disse: "Hao fatta novitate alcuna
Gottifredo lo duca?" Respuse lo vescovo e
disse: "Hao mutate le porte, ca hao serrate le porte vecchie e
fatte le nove, e sopre le novelle porte
hao fatte belle torre e aite". Disse lo re: "Di' a
Gottifredo conte de Brenna che Filippo de Valosi lo
prega che esso se studii de essere signore delle coraiora delle iente
e non delli torri". L'aitra
ambasciata fece uno cavalieri, lo quale gìo allo re Ruberto in
Napoli, de chi ditto ène de sopre. Anche
non era de questa vita passato. Annunziao lo cavalieri allo re la
nobile signoria de sio parente, lo duca
Gottifredo. Respuse lo re e disse: "Noi bene vorramo che
Gottifredo da tanto fussi". Puoi domannao:
"Dove posa lo duca? Posa in Santa Croce?" Respuse lo
cavalieri e disse: "No. Anche posa nello bello
palazzo delli Anziani". Lo re scrullao la testa e disse: "Non
fao bene. Va' e dilli che repona li priori de
Fiorenza in sio palazzo e in soa nobilitate. Renna la onoranza allo
puopolo". Questo duca fu signore
mesi dieci, puoi fu de Fiorenza detoperosamente cacciato. Le cascioni
perché fu cacciato fuoro
queste. In prima usava grannissima crudelitate. Senza remedio
occideva la iente. Avea con seco uno
officiale, lo quale se diceva conservatore, missore Guiglielmo de
Ascisci. Cavalieri e iudice era.
Questo missore Guiglielmo era uno roscio venenoso. Quanno manicava,
faceva denanzi a sé senza
misericordia martoriare le perzone e facevale smembrare e morire
dello martorio. Avea uno sio figlio
cavalieri, iovine de dodici anni, moito agnelica creatura, ma
semplice. Quanno l'omo era posato dello
martorio, questo sio figlio lo faceva sostenere e diceva: "Deh,
dalli un aitro crullo per mio amore!
Aizalo su!" A moiti questo fece, donne moiti ne moriero. Peio
era lo patre che Dionisi tiranno de
Cecilia. Ora procede lo crudele conservatore e taglia teste, appenne,
occide senza misericordia. E che
più, li buoni populari de Fiorenza vestuti con vari e con
panni onorati appiccava denanti alle loro case.
Appiccao Nardo de Cenne vascellaro, lo quale fu delli più
avanzarani populari de Fiorenza per soa
ricchezza; ad onne tratto prestava allo Communo ciento milia fiorini.
Moiti fuoro li aitri. Puoi questo
signore usava moita avarizia. Onne moneta de iente struieva e
consumava onne perzona. Tutta la
moneta traieva de mano alli mercatanti. Aveva con seco uno pessimo e
crudele omo, fiorentino de
nativitate; ma era stato anticamente cacciato perpetuale per le soie
faizitate e inganni. Questo fu ià sio
compagnone in arme, in viaii. Avealo redutto in stato, in grazia soa
e de Fiorentini. Sere Errigo Fegi
avea nome. Questo sere Errigo Fegi era sopre la gabella e era tanto
sottile spirito in trovare moneta,
che là donne esso traieva lo fiorino aitri non poteva traiere
lo vaco dello miglio. Tutta dìe devisava
gabelle. Mai non vedesti sì diabolico spirito. Più era
questo sottile nella gabella che non fu Aristotile
nella filosofia. Per la cui introduzzione onne guadagno, onne
capitagna entrava in Communo. Per
questo li mercatanti se reputavano deserti. Puoi questo duca usava
moita lentezza in fatti de Fiorentini.
Sopre Pisa non faceva cosa nulla de novitate. Lassao perdere Lucca e
l'onore de Fiorenza non
recuperava. Li staii, li quali teneva missore Mastino per la compara
de Lucca, non recoglieva, anche li
lassava stare senza menzione. Suoi sollati facevano li moiti deviti
per Fiorenza, non pacavano. Esso ne
mannava tutta la moneta in sio paiese. Treciento milia fiorini ne
fuoro tratti, li quali fuoro per mare
derobati a Monaco, lo forte castiello fra Genova e Marzilia. Puoi se
apparecchiava a fare uno nobile
castiello. Forte faceva murare drento dalla citate. Lo palazzo delli
priori voleva comprennere. Queste
connizioni consideranno li citatini de Fiorenza forte se duoglio
della signoria. Secretamente cercano via
de darela per terra. Male se pò per la granne forestaria la
quale avea. Lo primo che questa
coniurazione fece sentire fu uno corazzaro, lo quale gìo allo
duca, como cenava, e disse: "Voi devete
essere muorto". Lo duca: "Da chi?" "Dallo
puopolo". "Quanno?" "Lo dìe de santo
Iacovo". "In que
muodo?" "Quanno cavalcarete per la terra, verrao uno
currieri contrafatto e porierao a voi lettere.
Mentre che le leierete, verrao uno e stennerao sio arco turchesco e
percoteraote de una frezza. Dallo
lato starrao uno con uno spontone. Dallo aitro verrao uno con uno
stuocco. Puoi se gridarao:"Puopolo,
puopolo!"". Disse lo duca: "Questo da chi sai?"
Disse lo corazzaro: "Da mea mogliera". La moglie lo
sapeva da una femina de preite. La femina dello preite venne e·llo
preite e stette presente lo
corazzaro. No·llillo sappe provare. Lo corazzaro fu tenagliato
per Fiorenza con tenaglie refocate. Puoi,
po' esso, veniva lo preite a cavallo in una mula con chierica rasa,
con corona de oliva in capo, con
guanti de camoscio in mano. Vaco sonanno tromme e trommette. Lo
corazzaro fu per la canna
appeso. Onne iente temeva de tale ioco. La prima festa che venne,
armao tutta soa forestaria e in
mieso de doi suoi nepoti a bello galoppo tutta Fiorenza curze.
Denanti a sé menava li nuobili de
Fiorenza desarmati. Ora cresce l'opera dello castiello. Uno sabato,
da vespero, currevano anni Domini
MCCCXLII[I], appresso dello palazzo de priori fu fatta una meschia.
Subitamente voce veo: "A
l'arme, a l'arme! Puopolo, puopolo!" Tutto lo puopolo de
Fiorenza fu armato. Fuoro alle mano lo
puopolo colli sollati. Li sollati fuoro perdienti. Lassano li cavalli
nello piazzale dello palazzo delli priori e
per le valestra tutti ne entraro lo palazzo. Quattordici centinara de
perzone se renchiusero in quello
bello palazzo. Allo torno le strade fuoro sbancate de banche de
macellari. La notte lo primo che·nne
escìo de palazzo fu uno iudice sommoniaco - missore Simone de
Norcia avea nome - solo, armato de
tutte arme. Sentuto che fu dalle guardie, non li vaize sio defennere,
fu occiso. Doiciento fiorini avea
seco. Fu partuto in quattro parte. Ad onne Anziano ne fu presentata
una parte. Erano fatti quattro
Anziani populari, li quali fussino sopre tutte cose. Fatto dìe,
lo puopolo commatte lo palazzo. Iettano
fuoco alla porta. Non vaize loro reparo, né con acqua né
con aitro argumento. Tutta la porta fiariava e
fu consumata. Alquanti dìe se tenne lo duca renchiuso con soa
iente in quello palazzo. Alla fine lo
fetore dello sterco e della orina granne era. Meglio veniva de morire
che morire de fetore. Non
potevano campare. Granne mormorazione faco li sollati allo duca. In
questo se tratta patti. Lo puopolo
stao fore allo palazzo, armato; crudamente grida. Puoi chiamano che
volevano lo conservatore in
mano, lo crudele missore Guiglielmo de Ascisci. Ciò vedenno lo
duca, che per aitra via non poteva
campare, commannao che missore Guiglielmo essissi fòra. Poni
cura que fece lo crudele patre per
volere campare. Voize che sio figlio issi denanzi da esso per
mitigare, muorto lo figlio, la ira dello
puopolo sopre de si. Quanno lo iovinetto figlio patris precepto vao
denanti, appriesso della porta,
como l'aino allo maciello, bene conosce soa morte, bene conosce la
poca pietate dello patre. Volve la
testa e dice: "Ahi patre, dove me manni?" Dice lo patre:
"Va' securamente". Como fu alla porta, fu
receputo dallo irato puopolo nelle ponte delle spade. Uno preite fu
lo primo che·lli smembrao lo vraccio
colla spalla e disse: "Ecco la mea parte. Io non voglio più
messa cantare". Sacci ca questo iovinetto
despiacere allo preite fece. Tal taglia, tal mozza. Milli vocconi ne
fuoro fatti. Po' lo figlio veo lo patre
moito onoratamente vestuto con vari. Uno calice d'ariento avea
'naorato in mano colla ostia. Male
volentieri veniva; ma quelli de drento lo premevano, quelli de fòra
lo tiravano. Così lo tagliano como
foglia menutelle. La carne soa e dello figlio fu portata per Fiorenza
e fu vennuta a peso e fu arrostita;
e fu chi ne manicao. Sacci ca forte aveano patiti questi, quanno
recipeano cutale mesure. Allo duca
non fu fatto male nella perzona, ca·llo conte Simone de
Casentino collo Communo de Siena trattao li
patti e sì·llo trasse, salva la perzona, de sio palazzo
de notte con da cinquanta perzone. Questo fu lo dìe
de santa Anna. Puoi lo menao in sio contado e sì·lli
fece renunzare la signoria de Fiorenza. Allora
cavalcao lo duca e venne a Bologna poveramente, tutto derobato. Da
Bologna se partìo e gìone in sio
paiese. Granne detoperio abbe, granne abbe danno. Più de CCCC
perzone de suoi sollati ce fuoro
morte e derobate. Missore Ianni de Braio e missore Caucassaso, doi
suoi granni baroni e parienti,
fuoro a fierro muorti. Missore Ceretieri delli Visdomini, sio
consiglieri, fugìo e aizao la più corta. Sere
Errigo Fegi, lo sottile gabellieri, fu preso in abito de frate bianco
umiliato e sì fu spogliato nudo. Era
grasso e gruosso più che uno terribile puorco. Fu sparato e fu
appeso per li piedi. Granne destrazio li
zitielli facevano de lui, iettavanolli prete e loto e percoteanollo
con bastoni. Fiorenza fu retornata a
puopolo, lo stato pacifico e communo. Lo duca ne gìo in
Francia, in sio paiese. Alla fine morìo nella
vattaglia la quale fu fatta fra lo re de Francia e·llo re de
Egnilterra; nello quale stormo Iuvanni re de
Francia fu presone, como se dicerao. Currevano anni Domini MCCC[...]
Questo duca de Atena fu
occiso in quella vattaglia. Tal fine abbe lo duca de Atena signore de
Fiorenza.
Cap. XIII
Della crociata la quale fu fatta in Turchia alle Esmirre.
Quanno fu fatta la crociata sopre la Turchia ad uno luoco oitra mare
lo quale se dice Esmirre, la quale
crociata commosse tutta Cristianitate, la novella fu per questa via.
Sapemo che la terra abitabile se
divide in tre parte: Asia, Africa e Europa. Queste tre parti della
terra divide lo mare, lo quale iace in
mieso, a muodo de una mesa croce. In questa Asia ène una
provincia piccola e moito bella e opulenta
infra le aitre, la quale hao nome Turchia; que Turchia ène la
prima delle aitre provincie de Asia e ène
confinata con noi. Hao sette citati. La prima hao nome Esmirre.
Questa stao canto mare nella ponta
della terra e ène citate destrutta nella piana e ènese
redutta nello monte, da longa dalla veglia citate
miglia cinque. La secunna hao nome Aito Luoco, là dove stao la
tomma dello biato santo Ianni
vagnelista, là dove santo Ianni scrisse la Pocalissi. E veo
tanto a dicere Aito Luoco quanto che aito
favellare, ché santo Ianni aitamente parlao in soie profezie.
La terza citate hao nome Pergamo, dove
nato fu lo soprano miedico Galieno. La quarta hao nome Efeso. La
quinta hao nome Filadelfia. La
sesta hao nome Frigia. La settima hao nome Pamfilia. Queste sette
citate fuoro de Cristiani e fuoro
fatte bone vescovata ordinate per lo biato santo Ianni vagnelista. Ma
allo dìe de oie per li peccati
nuostri so' de infideli le sei. La settima, cioè Filadelfia,
ène de Cristiani. Ène spartuta un poco dalle
aitre per uno vraccio de mare. Serve a Cristo glorioso. Nella
contrada de Romania era uno imperatore
de Constantinopoli lo quale avea nome Parialoco. Sio figlio avea nome
Catacucino. Questo Parialoco
avea moito granne fede a uno Cristiano lo quale avea nome missore
Martino Zaccaria de Genova, lo
quale era nobile e valente mastro de guerra. Fecelo sio armiraglio de
mare. Tutta la contrada dello
mare guardiava in servizio de Parialoco. Granne onore renne a sio
signore. Navi e iente avea a sio
piacere. Puoi questo Parialoco donao a missore Martino per soa
spenzaria una isola moito bella e
nobile, de granne frutto, cioène l'isola de Chio. De quella
isola veo la mastice, quanta ne ène. Là
cresco li arbori delle lacrime, delli quali la mastice se fao. Granne
era la baronia de missore Martino.
Là demora con soa famiglia e masnata granne e manente. Accadde
che Turchi tuolzero a Genovesi
una terra canto mare, la quale se dice Fogliara Vecchia. Puoi li
toizero Metellina, la quale stao dalli
confini de Atena in Grecia, dove fu lo Studio. Puoi li assediaro per
mare e per terra la citate de Pera.
Per onne via la volevano. No·lli poteva campare. Missore
Martino, consideranno l'onta de suoi citadini,
anche lo danno, più no·llo poteva patere. Armao soie
galee con suoi valestrieri e bella oste e destra
iovinaglia. Vao per mare, e infoderao Pera, e leva dell'oste Turchi,
e moito danno li fece. Puoi vetao
che nullo mercatante turco usassi in sio terreno, nella isola de
Chio. Nella ponta della provincia de
Turchia signoriavano tre grannissimi baroni. Frati carnali erano. Lo
primo avea nome Morbasciano, lo
secunno avea nome Cherubino, lo terzo avea nome Orcano. Questi
signoriavano la citate delle Esmirre
e Aito Luoco e moite terre. Questo Morbasciano faceva cogliere lo
passaio e la gabella delle
mercatantie le quale passavano per mare canto sio terreno. E
coglievase lo passaio in quella ponta
dove oie Veneziani haco edificata la citate delle Esmirre, nella
pianura canto mare dove fu la citate
antica. Questi passaieri e gabellieri non reguardavano alcuno,
spezialmente li mercatanti de Venezia.
Quanto volevano aizare lo pedag[g]io, tanto lo aizavano. Onne
Veneziano se reputava sforzato per
questi passaieri. Non valeva rechiamo che facessino a Morbasciano.
Accadde che in quella [...]
Veneziani. Stava l'oste sopra Negroponte. Intorno intorno guastava lo
paiese, olive, vigne, arbori
fruttevili; serrano le strade. Per la moita iente Negroponte
affamava. Era in Negroponte lo patriarca
de Ierusalem - don Manuello Camorsino avea nome -, veneziano, frate
de santo Francesco, omo
mannifico, de granne senno e onesta vita. Forte se vergognava essere
assediato con tanta bona iente.
Non sao qual via prenna per campare. Po' alcuno tiempo, non troppo,
viddero navi che apparevano per
mare. Dodici fuoro le galee, lo confallone de Santo Marco de Venezia.
Missore Pietro Zeno, lo
vittorioso e franco capitanio, era loro connuttore. Quanno questi
Turchi sentiero l'armata de Veneziani
che·sse accostava, levarose de campo e tornaro a reto alle
loro citate. La prima cosa forniero
fortemente la ponta delle Esmirre, che là non potessino
Veneziani allo puorto fare capo. Levata l'oste
de campo, esse fòra de Negroponte don Manuello, lo patriarca,
con cavalieri e pedoni, con vettuaglia
de biscuotto e fava, carne secca e vino. Sequita li Turchi. Entra in
mare. Conubbe che·lla ponta delle
Esmirre era guarnita. Non ce poteva arrivare. Allora con tutta soa
iente se posao dodici miglia da
longa ad una isola che stao in mare, la quale se dice isola de
Cervia. Là se posao. Tre dìe stette con
non poca suspizione. Po·lli tre dìe galee de Veneziani
e de Genovesi ionzero. Allora fecero una moito
bella ordinanza de galee e vaco inver' le Esmirre per averle. Lo
puorto non potevano entrare. Lo luoco
era forte. Le valestra e·lle frecce iettavano. Non era via de
entrare. Allora de queste galee se partiro
alquante e esfilatose luongo luongo canto mare a mano manca ivano
queste galee caricate de tavole e
portavano castella de lename [...] patriarca abbe sio consiglio. Non
demorao niente. Non voize avere
speranza in solo lo finire per mare. Fece fare intorno a questo luoco
uno cegnimento de muro de preta.
Onne perzona mura caice, terra, prete della ruvina delle antique
case, puro che vista aia de muro. Lo
patriarca con uno nobile cavalieri francesco, nome Fiore de Belgioia,
pusero li fonnamenti con loro
mano. Fecero allo murato solo una porta inver' la Turchia. Guardava
invierzo lo mare. Non avea muro.
E cuoizero tanto terreno quanto fussi una piccola citatella. Là
allocaro la iente. Vedesi capanne fare,
la piazza, lo mercatale, lo cagno della moneta. Tal fao vidanna, tal
venne, tal compara. Anche
renchiusero drento acqua doice, viva fontana. Puoi fu fatto intorno a
questo murato, per più fortezze,
una fossa moito esmesuratamente larga, sì che, quanno era
bisuogno, metteva lo mare intorno allo
luoco. Se alcuna nave veniva per mare con grascia, secura non veniva,
perché curzali de Turchi anche
giravano lo mare. Moito danno facevano. Puoi che saputo fu che·llo
luoco delle Esmirre era fonnato,
allora la grascia veo dalle avitazioni intorno. Viengo con fodero
quelli de Modone, quelli de Corone,
quelli de Patrasso, quelli de Malvasia, quelli de Fogliara e quelli
de Filadelfia. Quanno Morbasciano
abbe saputo che·lla ponta delle Esmirre aveano venta
Veneziani, mannao soie ambasciate per tutta
Turchia. Tutta Turchia curre allo reparo. La adunanza se fao de
Turchi alle fortezze della montagna
invierzo Aito Luoco. Più 'nanti non viengo, salvo non fussi
per badalucco fare. Ora vedesi onne dìe
currerie fare. Curro Cristiani, predano, robbano. Curro Turchi, lo
simile faco. Imbuscanose, fiero de
sùbito furiosamente, fugo voitannose. Granne danno faco. Moito
bene li vedeva omo descegnere e
sallire per la montagna l'uno po' l'aitro a filo a filo. Avevano loro
ronzini piccoli, moito currienti, piccole
teste, ferrati delli piedi denanti, dereto desferrati. Così
currevano. Parevano daini alesantrini. La
maiure parte de questi Turchi portavano, loro usanza, vestimenta
bianche de panno de lino, larghe le
maniche e longhe, corte a mesa gamma. Nulla defferenzia ène
dalle cotte delli chierici. In capo capielli
bianchi collo pizzo luongo a muodo dello cuollo de cicogna. Varve
avevano foite e luonghi capelli. In
vraccio una rotella lavorata atorno a muodo de uno grannissimo
taglieri, ingessata. Questi soco loro
pavesi. Da lato portavano spade turchesche moito fornite; e non haco
ponta e soco alcuna cosa
piecate dallo lommo, lo pietto tagliente. Anche gran parte de loro
portava lance con uno fierro
pulitissimo, moito fortemente lato; alcuno era 'naorato. Da lato
portavano arcora e turcassi con frezze.
Deh, quanto granne male con loro frezzate facevano! De quelle frezze
era alcuna nella quale stava
avvolto uno filo d'aoro; ché la freccia dignitate avea. Anche
ce erano fra essi moiti armati con iubbe
doppie de panno incerato, larghe, lavorate con belli lavorieri,
coperte de sannati e de ballacchini. Ora
se comenza la dura e aspera guerra per terra e per mare. Entra in
mare missore Pietro Zeno de
Venezia e vao attornianno tutta la Turchia. Arde le terre canto mare.
Là dove sio stuolo se posa non
hao reparo. Puoi li venne alle mano una bella caienza e nova
pescascione. Cinque legni de Turchia
currevano la marina e menavano Griechi e Greche, li quali avevano
presi con loro bieni, pecora,
vestiame e aitro arnese. Questi Griechi erano delle ville canto la
marina. Erano presi da Turchi e
derobati. Loro ville erano arze. Quanno missore Pietro vidde questi
legni da longa, conubbe la soa
ventura. Aiza le vele de soie galee allo viento. Così le ionze
como fao lo sparvieri la quaglia. E
conoscenno che preda portavano disse: "E pateremo tanto
detoperio?" Dodici galee avea. Ferivano
soie galee dalla proda nello ventre delli legni de Turchi e
affonnavanolli in mare. Erano quelli legni non
granni. Tre ne fuoro affonnati in pelago con ciò che drento
era. Non ne campao anima vivente. Li doi
legni fuoro intorniati e presi. Nell'uno stava lo ameli dello mare,
che veo a dicere mastro e signore.
Avea nome Mostafà. Queste doi non fuoro sfonnate, perché
non fecero alcuna resistenzia. Parze
meglio servareli vivi. Quanno se traievano li Turchi delli loro
legni, ad uno ad uno se legavano in canna
con una corda. Onneuno incrocicchiava le mano allo pietto e
inchinavanose, como fecessino
reverenzia, e dicevano: "Ano stavròs, stavròs";
quasi veo a dicere: "Perdonetece, ca volemo la croce e
essere cristiani". Ora ne torna lo franco guerriero, missore
Pietro Zeno, con questa caccia alle
Esmirre. Mentre questo Mostafà stava in presone, una lettera
in soa lengua li venne da una soa donna.
Drento nella lettera era uno cierro de capelli moito bionni. Puoi
cavalcava missore Pietro Zeno per
terra e fao granne danno. Vao pericolanno tutte quelle locora de
Turchi, quelle castellanze. Li fao
troppo granne paura. Quanno missore Pietro Zeno cavalca per terra,
missore Martino Zaccaria
guerrea per mare e quanno l'uno per mare, l'aitro per terra,
tempestano e pericolano Turchia. Non li
puoto resistere le fortezze de sopre ad Aito Luoco. Se apparecchiano
de resistere Turchi. Missore
Pietro Zeno de Venezia e missore Martino Zaccaria de Genova erano doi
franchi capitanii, sufficienti
ad onne fatto, luonghi como doi aste, macri e bruni, bene armati ed
assettati. Defetto infra li Cristiani
fu che non aveano iente da cavallo. Poca iente da cavallo con essi
era. Erance lo sufficiente
conestavile todesco, de chi de sopra ditto ène, lo Malerva, lo
quale po' la sconfitta de Parabianco nelli
campi de Milano per voto era venuto a servire con vinticinque
cavalieri a soie spese uno anno. Erance
missore Nolfo, lo nepote dello re de Cipri, con cinquanta uomini da
cavallo, tutti cavalieri a speroni
d'aoro, perzone de gran fatto. Erance lo patriarca, missore Manuello
Camorsino de Venezia, frate
minore. Erance uno nobilissimo barone de Francia: Fiore de Belgioia
avea nome. Questo Fiore de
Belgioia se trovao a fonnare le mura collo patriarca, como ditto ène.
Pedoni ce erano da quinnici milia,
non armati così sufficientemente como se deo; perché la
cosa non era penzata, e in longa contrada.
Era dello mese de iennaro, anno Domini MCCCXLV, in dìe della
festivitate de santo Antonio. Sentìo
lo patriarca che la iente de Turchi era moitiplicata in tanto che
credeva essere assaitato drento dallo
sio redutto. De ciò abbe ferma fede. Auto consiglio colli
maiuri della Cristianitate, cioène missore
Pietro Zeno, missore Martino Zaccaria, Fiore de Belgioia de Francia,
missore Nolfo de Cipri, Malerva
conestavile lo Alemanno, fu deliverato de non mostrarese timorosi,
anche fare resistenzia a muodo de
uomini costanti. Era una chiesia antiquissima, la quale hao nome
Santo Ianni. Dicesi che·llo biato santo
Ianni la edificao. Questa chiesia fu lo vescovato de quella terra
'nanti che fussi destrutta la citate,
mentre che se avitava da Cristiani. Po' la destruzzione era remasa
campestre. Questa chiesia era da
doi valestrate longa dallo muro noviello. Non era coita drento dallo
cegnimento. In questa chiesia
entrao lo patriarca colli sopraditti baroni in numero de quaranta.
Moito rengraziano Dio de tanto
beneficio, ché haco recuperata la chiesia de Cristiani, la
quale era perduta. Ammirano le mura, la
treuna, la aitezza e benedico Dio e santo Ianni, ché soa
chiesia haco recuperata. Puoi là fu celebrata la
messa con grannissima solennitate. Con lacrime, devozione e alegrezze
pregano Dio che così succeda
in tutta Turchia. In doi muodi rasciona la iente de questa novitate.
Alcuno dice: mentre che lo patriarca
colli quaranta sopraditti cantava la messa, li Turchi venivano in
granne moititudine queti per la costa,
nascuosti fra li arbori, e entraro nella chiesia de Santo Ianni e là,
mentre la messa se cantava, presero
li sopraditti quaranta e là sì·lli occisero e
decapitaroli. Né succurzo non àbbero, perché·lla
iente da
pede era alcuna cosa lontana. Alcuno me dice per aitra via, e ène
verisimile. Disse ca·llo vidde
perzonalmente, e ciò fermao per sacramento. Disse questo, che
nello dìe de santo Antonio de iennaro,
nella chiesia de Santo Ianni fore le Esmirre, fu cantata la messa con
moita solennitate. Po' la messa lo
patriarca predicao moito bene e confortao li Cristiani a persequitare
la iente infidele e recuperare le
terre de Cristiani e liberare le chiesie sette de mano de cani. Puoi
disse: "Forza che Dio me volessi
visitare, sacciate che nella mea gamma ritta aio una sanice".
Puoi fece la croce e deo soa
benedizzione a tutto quello puopolo. Da quinnici milia Cristiani
erano da pede. Po' questo se armao de
tutte arme: corazze, falle e maniche, una varvuta in testa, cossali
de fierro tutti lavorati. De sopre dalle
arme se iettao uno ricco manto vescovile, lo quale se dice piviale,
tutto lavorato a seta e aoro fino
filato, adornato de perne e prete preziose, como se conveo a così
aito prelato. In mano una spada nuda
lucente teneva. A cavallo in uno potente destrieri ben pareva barone.
Dao de speroni e vao allo
martirio de buono core. Sequita po' esso missore Pietro Zeno de
Venezia e missore Martino Zaccaria
de Genova, armati, adornati, como puoi credere. Lo loro essire alla
vattaglia fu senza provisione. La
iente non era conestavilita. Bene aveano sentito lo romore delli
Turchi, ma non credevano che tanto da
priesso fussino li aguaiti e·lle poste fra essi. Como iessiro,
non tennero la deritta via, anche dechinaro
alla sinistra per la più largura. Lo puopolo buono piezzo po'
essi tenne dalla parte destra. Credevanose
sequitare chi non iva denanzi. Quanto più vaco meno trovano.
Erano quelle locora non domestiche,
anche paurose per li moiti impedimenti de mura rotte, fonnamenti de
case e de torri; locora senza vie,
locora da intanare iente. Quanno li tre, lo patriarca, missore Pietro
Zeno, missore Martino Zaccaria,
fuoro alquanto delongati, se retrovaro soli senza sequito nello
laberinto delle deserte case. Là de sùbito
se descopre la posta de Turchi. Senza romore fuoro intorniati. No·lli
vaize scrullare loro spade, no·lli
vaize loro defesa. Fuoro in terra da cavallo. Loro teste subitamente
fuoro partite dallo vusto. Tre
baroni recipero lo santo martirio e fuoro fatti cavalieri de Cristo.
Quelli cani turchi le loro teste ne
portaro. Portarone le arme loro e li belli adornamenti. Anche ne
menaro li loro destrieri. Le corpora
nude in terra lassaro. Ad presulem tamen plangibilior casus fuit. Nam
eques insuper - Dardo
nomen erat - in virum sacrum sceleratas primum manus iniecit clavaque
ferrea ictus ictibus
cumulans moribundum semianimemque pontificem leva tenuit arreptoque
gladio caput
obtruncat, nudatumque cadaver ad terram prolapsum dimisit
venerabilemque calvariam ornato
involvens pallio ad suos abiit. Ora esse fòra pienamente la
iente. Nella escita fu saputa la morte
dello patriarca e delli doi canfioni, perché fuoro trovate le
corpora dalla codata dello stuolo. Granne è
la tristezza, granne è lo pianto, maiure la vergogna de
tornare. Ciascheuno otta de morire. Iesse fòra
alli nudi campi lo adorno cavalieri francesco, Fiore de Belgioia,
adorno con arme smaitate, lavorate de
nobile maiesterio. Alegramente vao a prennere la corona. Iesse fore
missore Nolfo, nepote dello re de
Cipri, adorno como reale. Iesse fòra Malerva lo Todesco, lo
buono conestavile da sessanta cavalieri.
Dopo essi tutto l'aitro puopolo. Como fuoro alli discopierti campi,
vedesi cavalli currere, vedesi volare
de frecce, iettare de lance, ferire de spade. Moita iente de·llà
e de cà cade. Non ce se trova reparo.
Fiore de Belgioia non voize campare. Sperona sio destriero. Con una
spada in mano defennennose
muorto cadde fra quella canaglia. Missore Nolfo, nepote dello re de
Cipri, fu passato da doi frezze e sì
morìo. Malerva lo Todesco fu presone vivo. Vivo fu scorticato
dalli cani. Moiti Cristiani moriero, moiti
ne fuoro presoni, moiti ne fuoro coronati dello santo martirio. Chi
fu arzo poco da longa dalle Esmirre,
chi fu scorticato, chi fu decollato. Alla fine Cristiani non potevano
più sostenere. Daco la voita in reto
e tornano alle Esmirre, e misero lo mare intorno alle fosse e
salvarose dallo furore de quelli cani li quali
venivano taglianno e occidenno Cristiani e prennenno. E così
abbe fine lo occidere, chiuse le porte
delle Esmirre e data l'acqua intorno. Infiniti tamen ne fuoro muorti
delli Turchi, presi e scorticati.
Scoita bella novella! Disseme uno, lo quale tutte queste cose vidde,
che moiti Turchi fuoro presi, fra li
quali ne fu alcuno moito grasso. Questo così grasso scorticaro
vivo e·llo cuoro lassaro cadere ioso
como le brache e lassarolo. Como fu lassato, gìo umilemente.
Puoi che fu nello securo (vedere bene
se poteva), voizese lo Turco scorticato e con doi mano faceva le
ficora alli Cristiani, sì rotonne che
bastara che fossi stato de agosto. Ora se chiudo Cristiani nelle
Esmirre. Non haco caporale. Vao la
novella alla citate de Venezia, vao in corte de Roma, vao per tutta
Cristianitate, vao denanti allo papa e
alli cardinali. Forte se dole la corte della acerva morte dello
patriarca, della rotta de Cristiani. Uno
granne Consiglio fu fatto in Venezia fra li maiurienti e·llo
duce. Fu deliverato che tutta loro potenzia
ponessino in vennicare l'onta de loro citatino, anche per vencere la
pontaglia e tenere le Esmirre a
mano potente. Questo fare non se poteva senza vraccio papale.
L'ambasciata de Veneziani fu denanti
allo papa in Avignone e domannaoli umilemente la crociata sopra
Turchi. Papa Chimento recipéo
graziosamente questi ambasciatori e offerze soa voluntate bona.
Allora vao la voce per tutta
Cristianitate della crociata fare: remissione de pena e de colpa a
chi serviva, chi se moriva deritto ne
iva alli piedi de Dio non piecanno né da lato manco né
da lato ritto. Predicata non fu questa crociata
per li puosti dalla Chiesia, né servato l'ordine lo quale se
devea servare, se non che sola tanto la voce
mosse la iente. Granne commozione fu fatta. Ora se apparecchia la
moita iente a volere morire per
Dio: uomini, femine, frati, prieiti. Tal venne possessione, tale
arnese. Movese chi hao la moneta; chi
non, la vao cercanno. Tale vao mennicanno per Dio per poterse
connucere alla frontaglia. Nella
Cristianitate non fu citate, non fu castiello, non communanza che non
ne venissi la moita iente. De tale
citate doiciento, de tale treciento, de tale cinqueciento, de tale
milli. Considera quanta moititudine fu!
Anche se vestivano cutale camise bianche. De sopre aveano croci rosce
de panno roscio. Moito
stavano conti per le piazze con così fatto vestimento. Tutte
le strade vedevi renovare de così fatta
iente. Caminante onne perzona arriva ad Ancona. Là entra in
mare e passa alle Esmirre. Anche
servavano aitra connizione, che li odiosi rennevano ferma pace, puoi
se vestivano lo sopraditto abito.
Quanno papa Chimento vidde tanta commozione e che retenere non se
poteva, parzeli meglio dare a
tanta moititudine capo, ca senza capo tanto puopolo bene non stava.
Commannao a missore Guido,
dalfino de Vienna, che questo peso portassi. Obedìo lo dalfino
allo santo patre. Prenne lo confallone
della croce e con soa cavallaria passa la Provenza. Veo in Italia.
Arriva ad Ancona, da Ancona a
Negroponte. Per lo camino soa moglie, la soa donna, morìo.
Intanto alle Esmirre iogne lo granne
puopolo. Tutto dìe le nave de Veneziani questa iente
portavano. Quanta moneta guadagnavano quelle
navi! Quanto scorticavano! De uno vile bagattino non facevano
cortesia. Viengo quelli de Modone,
quelli de Corone, quelli de Fogliara, quelli de Patrasso, quelli de
Malvasia. Veo la bella e onorata iente
de Filadelfia bene a cavallo, bene armata. In questo mieso moiti
badalucchi fuoro fatti per la libertate
dello ire, non senza danno. Piacque intanto a Veneziani de fare
alcuna triegua fine che lo dalfino
venuto fussi. La ambasciata ne gìo ad Aito Luoco da parte de
Veneziani per la triegua. Demannavano
le Esmirre interamente. Quanno la ambasciata fu ionta, Morbasciano
iaceva in terra appoiato sopra lo
sinistro vraccio e sì pranzava. Grasso era tanto
esmesuratamente che pareva votticiello lo sio ventre;
vestuto de bisso moito nobilemente lavorato a seta. Denanti li
venivano scudella de preta storiate,
lucente, piene de vidanna con zuccaro, latte de miennole, ova e
spezie e risi. E sì teneva in mano uno
cucchiaro d'aoro e fortemente devorava. Odita che abbe la ambasciata,
non se levao suso da sio
pranzo, ma fra l'aitre paravole disse: "Noi sapemo bene che per
certo lo dalfino sopra noi veo. Mentre
che durano doi nuostri prosperosi amici, li quali demorano fra la
iente cristiana, noi non dubitamo".
Dissero li ambasciatori: "Quali soco questi vuostri amici?"
Respuse Morbasciano, né per interprete,
anche in lengua latina, e disse: "Soco Guelfo e Gebellino".
Intanto ionze lo dalfino de Vienna nelle
Esmirre. Trenta cavalieri avea, non più. De colpo, como ionze,
così fece enzerrare le porte e teneva la
iente a freno; no·lli lassava avere libertate dello iessire.
Presure currerie fuoro fatte. Moiti Turchi
fuoro presi. La iente ne venne moita de Roma, della Alamagna, de
Francia, de Piccardia. Non ce
remase citate. Deciotto [...] durao questo assedio e questa
pontaglia. Quinnici milia Cristiani ve·sse
retrovaro ad uno ponto. Po' questo comenzao la cosa a dechinare. Lo
callo era granne, la polvere sì
granne che fi' a mesa gamma l'omo se ficcava nella polvere. La iente
infermava forte, morivane como
le pecora. La carestia ce era granne. Lo mastro dello spidale de Rodi
vetava che·lle navi de Veneziani
non venissino, anche mannava lo fodero e·lle arme alli Turchi.
Donne la iente se turbava. Gran parte
se mette in mare e torna. Gran parte ne veo. Poca iente remaneva.
Quanno la iente se partiva, tutta la
moneta che avevano li era toita per le guardie de Veneziani. Forte
erano cercati. Lo dalfino fonnao
aitre mura più larghe con torri e con porte e fossati de bona
e ferma preta. Là Veneziani pusero loro
guardiani, e fine allo dìe de oie là tiengo quella
terra. Fatte queste nove e secure mura, lo dalfino non
abbe più luoco. Partìose dalle Esmirre e tornao in sio
paiese. Aitra cosa nulla de novitate fatta per esso
non fu. Questo cutale fine abbe la cruciata alle Esmirre.
Cap. XIIII
Della sconfitta de Francia, là dove morze lo re de Boemia e·lo re de Francia fu sconfitto dallo re de Egnilterra.
Currevano anni Domini MCCC[...] quanno fu fatta la orribile sconfitta in Francia, da priesso a Parisci a otto leuce, allo monte de Carsis, e fu sconfitto Filippo de Valosi re de Francia e fu vincitore Adoardo re de Egnilterra. La quale novitate fu per questa via. La cascione della guerra fra lo re de Francia e·llo re de Egnilterra fu questa e aitra non. Fu uno re de Francia moito sapio e buono e iusto lo quale abbe nome Filippo lo buono. Questo Filippo veramente abbe lo seno della croce nella spalla ritta. Anche iocava collo lione sì domesticamente como alcuno iocara con uno cacciulino. Questo re Filippo in soa veteranezze non se trovao erede maschio. Sola una figlia avea, la quale deo per mogliera ad Adoardo re de Egnilterra. La reina Isabella era chiamata. Quanno questo re Filippo venne a morte, non avenno figlio, non voize lassare sio reame senza governatore. Era in Francia uno nobile conte, lo quale avea nome Filippo, de Valosi conte. Questo era sio parente, non perciò della vera linea. Anche era lo più savio, saputo, scaitrito de senno de tutta Francia. Anche era prode, ca era stato allo suollo in Lommardia. Lassao lo re questo conte de Valosi sio fattore e despenzatore de tutto lo reame. Onne cosa li commise in mano. E così morìo e passao de questa vita. Remase Filippo de Valosi. Comenzao a reiere lo reame bene e saviamente. E vedenno che non avea contrario, vedenno che dello re non era figlio maschio, compusese colli baroni dello reame, compusese collo papa e sì se fece incoronare. Fu onto e sacrato in Ruen e sio figlio Ianni fu duca de Normannia. Da puoi che Adoardo re de Egnilterra sappe che Filippo avea presa la corona de Francia, iurao per la maiestate de sio renno mai non dare posa a Franceschi fi' che non racquistava lo reame lo quale decadeva a soa matre. Poco li valeva l'ambasciate, poco li valeva losenghe, poco li valeva papa con soa corte. Allora mosse sio stuolo, sia granne oste, descenne per Egnilterra e con sio navilio regale passa lo mare e venne in terra ferma, nello terreno de Francia. Lo numero de soa iente fu diciotto milia uomini da cavallo, non più, trenta milia arcieri da pede, considerati famigli, fanti, cuochi e tutta iente. Ène usanza de Englesi che onne famiglio della casa hao un arco. Quanno lassa sio offizio, usa l'arco e stao per arcieri. Là fu lo re Adoardo. Là fu sio figlio Adoardetto, prence de Gales. Là fu la reina, conti, cavalieri e baroni assai. Carrette aveano da tre milia, piene de ciò che faceva mestieri a l'oste. Puoi che li Englesi àbbero passato lo mare, posati in terra ferma, la prima cosa notabile che lo re Adoardo facessi fu che tutto sio navilio fece tornare in Egnilterra. De ciò dubitao soa iente e dimannao: "Questo perché?" Respuse lo re e disse: "Io non voglio che aiate speranza nello tornare. Siate prodi". Puoi assediao una forte terra la quale era capo de quelli paiesi - Salluppo avea nome - e sì·lla prese per forza e tennela per si. Puoi se ne venne descennenno per la costa de Normannia, canto la marina. Terreno curze da più de doiciento miglia e veo ardenno e refocanno ville e castella, predanno e occidenno. Non trova reparo. Da longa mustra allo re Filippo lo granne danno che faceva. Moita iente prenneva e derobava. Dao per terra fortezze e torri, chi ad esso contrastava. Puoi scrisse allo re Filippo che·llo aspettassi e che voleva essere con esso a campo alla vattaglia, de ciò domannassi lo termine. Lo re Filippo domannao termine dìe quinnici, non più, quanto esso mannassi per sio figlio Ianni. Ianni duca de Normannia stava in Vascogna ad oste sopra un castiello lo quale hao nome Arpiglione. Là, sopra uno fiume, stava soa potentissima oste. Trabacche e paviglioni e onne guarnimento abannonao in campo, da puoi che abbe inteso lo commannamento de sio patre. Nulla demoranza fece. Mossese con soa granne iente. Solamente ne portao l'arme e·lli cavalli. Forte cavalca dìe quinnici. Non vaize sio forte cavalcare, ca, quanno ionze, erano passati dìe trenta, la baratta era fornita. Non potéo a sio patre dare succurzo. Non potéo essere alla sembiaglia. Ora tornemo alla materia. Lo re Filippo, avenno promesso de essere allo campo, ben sapeva che suoi baroni non li erano leali. Ben sapeva che soa baronia avea tratti li Englesi e allocatili in mieso de Francia. Troppo se dole che vede suoi nimici liberamente vagare per tutta la Francia, senza reparo. Puro se fornisce de iente assai e bona. Abbe da ciento milia cavalieri. Abbe da dodici milia pedoni. Abbe lo re de Boemia - Ianni abbe nome - con milli Todeschi. Questo re Ianni se delettava de ire a suollo. Anche abbe lo re de Maiorica - Ianni nome -, lo quale era cacciato de sio reame. Stava e prenneva suollo. Anche abbe Ludovico conte de Flandria, lo quale era cacciato de sio contado. Anche abbe missore Ottone de Oria e missore Carlo delli Grimaldi con cinque milia valestrieri genovesi. Moiti abbe conti e baroni e iente assai. Ora ne veo lo re de Egnilterra con sio sfuorzo e ionze de notte in una valle larghissima la quale stao appriesso de Parisci otto leghe. Quella valle iace fra uno castiello lo quale se dice Monte de Carsia. Da l'aitro lato stao una villa de più de quattro milia perzone la quale hao nome Albavilla. Fra queste doi terre, nelli campi piani, a pede alla costa de Carsia, allocao tutta la soa iente e puse soa oste. Quanno questa iente ionta fu e l'oste allocata, notte era e era l'ora che sonava la squilla. Li currieri che 'nanti curzero e·lli spioni, li quali se accostaro a Parisci e a San Dionisi, odiero le campane de San Dionisi de Francia e·lle campane de Santa Maria delle Sciampelle che alla squilla sonavano. Anche odiero tutti li matutini delli religiosi e delle capelle che dereto li sequitano. Quanno la novella fu saputa in Parisci che·lli Englesi aveano puosto campo, tutta iente regale prese arme. E fu tanta la moititudine, che l'armatura fu vennuta dociento fiorini. L'alba dello dìe se fece. Piacque allo re Filippo che lo re de Boemia fussi capitanio generale e iessissi fòra allo reparo; e così fu. Iesse fòra de Parisci Ianni re de Boemia, figlio de Errigo imperatore, Ianni re de Maiorica, Ludovico conte de Flandria e tutta l'aitra baronia. Nello iessire fòra li Englesi guardavano da longa per la strada ritta de Parisci, la quale stao in una adatta veduta. Guardanno li Englesi sentiero lo traiere fòra e la venuta de Franceschi allo campo. Questo conubbero allo scianniare delli elmi lucienti e delli cimieri, anche delle banniere le quale facevano alli ragi dello sole che nasceva. Allora operze la vista Adoardo e conubbe infallibilemente che vattaglia non poteva schifare. E considerata la moititudine de Franceschi, non è maraviglia che affrissese un poco. Dubitao e ruppe voce e disse: "Ahi Dio, aiutame". Puoi prestamente, fra poca de ora, fece attorniare soa oste con bone catene de fierro, con pali de fierro moito spessi, ficcati in terra. Questo attorniamento era fatto alla rotonna, a muodo de uno fierro de cavallo, da onne parte chiuso, salvo che denanti li lassao uno granne guado, a muodo de porta, per fare l'entrate e·lle iessute. Puoi ce fece carvonara cupe, là dove lo luoco era debile. Onne Englese avea opera. Puoi attorniao queste catene colle carrette le quale aveano menate. Puse l'una carretta allato a l'aitra e·lli tomoni aizao deritti in airo. Bene pareva una bona citate murata, sì staievano le carrette spesse. Puoi ordinao soa iente così. Dallo lato sinistro, nella costa de Carsì, era una montatella. Là era un poco de selvotta. Erance anco lo grano, lo quale non era metuto. Era dello mese de settiembro, a dìe tre. Per le granne freddure in quello paiese lo settiembro lo grano se matura. Là in quella selvotta e fra lo grano nascuse e allocao dieci milia arcieri de Egnilterra da pede. Puoi puse ad onne carretta un barile pieno de saiette. Ad onne barile deo doi valestrieri. Puoi puse fòra della soa oste cinqueciento cavalieri de buono appriesto. Loro capitanio fu Adoardo principe de Gales, sio figlio. Questa fu la prima vattaglia. Dereto a questi cinqueciento puse doi ale, ciascheuna de cinqueciento buoni cavalieri, l'una dallo lato ritto, l'aitra dallo lato manco. Po' questi cinqueciento ne puse milli. Questa fu la terza vattaglia. Po' questi milli reservaose con tutta l'aitra cavallaria drento da l'oste, drento dalle catene. Questo fatto, confortao li suoi e accommannaose a Dio e disse: "Ahi sir Dio, defienni e aiuta la rascione". Questa fu soa conestavilia. Questa fu soa bella ordinanza. De sabato fu, alli dìe tre de settiembro. Essìo fòra de Parisci lo re de Boemia allo campo e pusese non moito da longa dalli Englesi. Era lo re de Boemia pullino. Non vedeva bene. La prima cosa, dimannao della conestavilia dello re Adoardo. Quanno intese così fatta conestavilia, subitamente disse: "Noi simo perdienti. Englesi perdire non puoco senza nuostro granne danno". Puoi demannao que tiempo fussi. Folli respuosto e ditto che sopra li Englesi stava l'airo pulito como zaffino, sopra Franceschi stava lo tiempo atto a piovia. Allora disse: "La vattaglia non fao per noi, fao per essi". Puoi mannao la ambasciata allo re Filippo in Parisci. L'ambasciatori dissero così: "Re Filippo, quanno piaccia alla aitezza vostra, la adosa non sia; ché senza danno non è, utilitate nulla. Meglio veo che staiamo fermi alli passi. Lo re de Egnilterra partire se vorrao. Quanno se partirao, noi li serremo dereto alle spalle. Averemo de esso mercato". Lo re Filippo fu forte turvato e fra le aitre paravole disse così: "Veome voluntate de annegare nella acqua de Secana, quanno lo megliore capitanio dello munno hao paura". Que paravole li ambasciatori non celaro allo re de Boemia. Allora lo re de Boemia disse così: "Oie bene se parerao ca io non aio paura. Anche bene se parerao ca·llo commattere ène più pascia che ardire". Allora commannao che·lle vattaglie ordinate curressino. 'Nanti questo curzo (alquanto era) avea ordinate nove vattaglie. Ma le tre fuoro le famose, le più principale. La prima vattaglia fu de missore Ottone de Oria e missore Carlo delli Grimaldi, capitanii de cinque milia Genovesi, valestrieri da pede. La secunna fu lo re de Maiorica collo conte de Flandria, con tre milia cavalieri. Puoi fuoro moite particulare vattaglie. Puoi fu esso re de Boemia con milli Todeschi e quattro milia Franceschi e sio figlio Carlo appriesso. La prima vattaglia che venissi allo campo la dimane tiempori fo li valestrieri genovesi, numero de cinque milia. A questi fu commannato che montassino nella costa de Carsia per soprastare alli Englesi; ma non venne fatto, ché·lli Englesi aveano occupato lo colle e puosti li impedimenti fra lo grano. Dunqua se pusero in un aitro monticiello da longa. Puoi sopravenne una sciagura; ché non valestravano, ca non potevano caricare le valestra. Era stata una poca de pioverella. La terra era infusa, molle. Quanno volevano caricare le valestra, mettevano un pede nella staffa. Lo pede sfuiva. Non potevano ficcare lo pede in terra. Allora se levao un bisbiglio infra li Franceschi e dubitavano che·lli Genovesi fussino traditori, perché non aveano receputa la paca. Dicevano: "Questi non valestraraco e se valestraraco, iettaranno aste senza fierro. Dunqua morano Genovesi". Questo dicenno Franceschi se muossero a furore contra li loro sollati. Traievano crudamente de spade e de lance. Genovesi fuoro tutti occisi fi' ad uno. Mormoraose missore Ottone allo re della morte de soa iente, lo quale respuse e disse: "Non avemo bisuogno de pedoni. Iente avemo assai". Questa fu la prima varatta. Cinque milia Genovesi fuoro occisi ad una ora. Ora se avegìo le frontiere, le ponte delle vattaglie Ianni re de Maiorica a Adoardo duca de Gales. Nella adosa fu sì granne lo strillare, sì granne lo romore e·llo scuoppio delle aste, che parze che doi montagne se urtassino insiemmora. Tal dao, tal tolle. Sonano instrumenti, tromme, cornamuse assai. In questa vattaglia fu una tale novitate. Lo prence de Gales avea speronato lo sio cavallo moito drento dalli nimici. Solo granne danno faceva. Uno conte, lo quale se appellava lo conte Valentino, lo vidde e conubbe. Cresese forte avere guadagnato. Per gran pesce prennere l'amo iettao. Accostao sio cavallo quetamente e abracciao Adoardo prence de Gales. Puoi lo prese per le catenelle della corazza e disse: "Tu si' mio presone". Allora se ferma e fortemente lo traieva della schiera e connucevalo in soa libera balìa. Mentre che così lo conte Valentino menava lo figlio dello re de Egnilterra, sopravenne lo conte de Lancione, lo quale era frate carnale allo re Filippo, e vedenno che Adoardetto era perduto, legato como pecorella, disse queste paravole forte iratamente: "Ahi conte Valentino, como si' tu tanto ardito de menare in presone mio cusino?" E questo dicenno non aspettao resposta nulla, anche se fionga e aizao una soa mazza de fierro inaorata, la quale teneva in mano, e ferìo lo conte Valentino nella testa. E spessianno li colpi uno dopo l'aitro, lo conte Valentino perdìo vigore. Lassao lo freno e·lle catenelle de Adoardetto e muorto cadde in terra de sio cavallo. Allora Adoardetto, speronato, nimirum alegro tornao alla soa schiera, la quale ià avea comenzato ad affiaccare. Questa novitate vidde Ludovico conte de Flandria, lo quale, como ditto ène, era cacciato de sio contado, stava a suollo in Parisci per gran tiempo. Era omo veglio, perzona bona e onesta. Amava moito lo re Filippo e sio onore. Conubbe che·llo tradimento era in mieso della baronia de Francia. Più non potéo celare la soa voglia, che non dicessi lo vero. Soavemente aizao la voce e disse: "Ahi conte Lancione, questa non è leanza né bontate la quale devete servare alla corona. La guerra era venta dove l'hai fatta perduta". Quanno lo conte Lancione odìo questo, non voize odire più. Voize la testa de sio destrieri e con quella medesima mazza tanto colpiao lo conte de Flandria vecchiarello, che·llo occise. O cruda cosa, che a questo simo connutti, che per dicere lo vero e reprennere lo male fatto deggia omo perire. Non fu alcuno della compagnia dello conte de Flandria tanto ardito che ne facessi fiato. Solo uno destretto famiglio sio, domestico, omo da pede, de vile lenaio, vedenno tanta crudelitate, sguainao un sio stuocco e sì·llo impontao nello ventre allo conte Lancione e sì·llo passao oitra in parte, sì che lo conte Lancione, traditore de sio frate, là nello campo morìo. Questo famiglio, lo quale occise lo conte Lancione, gìo denanti allo re Filippo e disse ca avea muorto sio frate per vennetta de sio signore e dello tradimento lo quale esso fece, e questo provao per bona testimonianza. Questo odenno lo re Filippo li perdonao e de esso non voize vennetta. Mentre queste cose se facevano, li arcieri englesi descennevano dalla costa infra lo grano e non finavano de iettare frezze infra la cavallaria. Stienno l'arcora e saiettano:"Da, da, da". Onne iente pericolavano. Nello lato manco sfonnavano li cavalli, donne l'oste fu moito mancata. La iente feruta dao allo tornare. Li cavalli cado muorti. Li Englesi se fiongano. Quella vattaglia fu perduta. Intanto moite fuoro le vattaglie e le belle conestavilie. Que fu la più famosa? Una industria servano li Englesi da cavallo. Quanno vedevano l'omo loro muorto, in luoco dello muorto ponevano lo vivo, in luoco dello feruto remettevano lo sano, in luoco dello stanco mettevano lo fiesco. Puoi commutavano, ché·lli cinqueciento della ala ritta vennero alla fronte denanti. In luoco loro venne la mitate delli milli li quali staievano alla terza vattaglia. E quelli denanzi tornaro alli milli. E così commutavano l'ala manca. La schiera guardiadereto, la grossa regale, sempre stava ferma in sio luoco. Non se fora mossa senza granne cascione. Lo re Ianni de Maiorica in questo stormo non se morìo, ma fu feruto nella faccia. Moito crudamente esso morìo in sio paiese. Volenno tornare a sio reame, commattéo con sio cunato, lo re de Maiorica, e fu sconfitto e sì·lli fu tagliata la testa. Puoi che queste vattaglie fuoro infugate, lo re de Boemia demannao alli suoi a que partuto stava lo campo. Respuosto li fu che nello campo non era remasa perzona vivente aitra che solo esso con soa iente. Tutti Franceschi erano attriti. Li Englesi stavano fuorti e rigidi, fermi, con loro stennardo ritto levato. Allora lo re de Boemia commannao che se apparecchiassino a ferire doi grannissimi baroni, li quali erano suoi collaterali. Dissero così: "Que vòi fare tu? Tutta iente francesca ène sbarattata. Li Englesi staco fuorti. Noi non simo saiza. A tanta iente è pazzia lo ire". Respuse lo re: "Dunqua voi non site li figli de quelli doi miei amici li quali fuoro li più prodi che fussino in la Alamagna". Respusero li doi baroni: "Prodezze non bisogna, ca non simo cobelle appo·lli nimici". Respuse lo re: "Io voglio che ne iamo. Iamo a morire ad onore". Dissero li conti: "Che guadagni tu della toa morte e della nostra?" Respuse lo re: "Per bona fede, questo che dico io lo dico perché me credo pugnare per la veritate". A questo li doi baroni fuoro conventi. Como pecorella abassaro le loro voci e dissero: "Re, fa' ciò che a te piace". Allora lo re fece venire denanti a sé alquanti baroni, li quali erano li maiuri de Luzoinborgo e dello reame de Boemia, e sì·lli commannao che a sio figlio Carlo fussino obedienti como alla perzona soa e che·llo devessino onorare como re e signore. Anche li commannao che·llo salvassino fòra dello stormo. Puoi commannao alli conti, li quali erano nelle fronte denanti, che·llo mettessino tanto innanti e drento fra li Englesi, che, se fecessi mestieri, lo tornare non se potessi. Puoi incatenaose in mieso delli doi baroni sopraditti e legaro le catene delle corazze, perché fussi a loro commune una morte, uno onore. La prima schiera fu milli Todeschi de Luzoinborgo, iente da bene, Boemii e ientili uomini de Praga. Po' essi sequitavano quattro milia Franceschi, Borgognoni e Piccardi. Sio figlio Carlo se servao dereto. Allora sonaro le tromme e·lle cornamuse da parte in parte. Allora abassaro l'aste e speronaro li destrieri. Allora se fiero senza misericordia. Li Englesi servaro doi viziose industrie: la prima, che·lli cinqueciento cavalieri denanti refiescaro colli milli dereto; la secunna, ca·lle doi ale delli cinqueciento e cinqueciento fecero allargare e prennere campo a destri ed a sinistri, accostannosi alla frontiera da costa. Quanno li Todeschi se fuoro aduosso colli Englesi nelle prime frontiere, allora le ale, le quale aveano preso campo, feriero dalli lati da costa, da ciasche parte. Lo re de Boemia fu attorniato denanti, da lato e da costato. Lo cavallo dello re cadde. Lo re tramazzao e fu muorto dalli cavalli [delli] doi baroni allato ad esso. Cade in prima missore Haun dello Tornello, uno nobile cavaliero francesco lo quale portava la banniera dello re. Questo fu quasi delli primi collo re scavalcato e muorto. Li milli Todeschi non diero le spalle, anche fecero bona resistenzia, dato che non avessino né re né confallone. Moiti Englesi moriero. Alla fine la schiera dello re de Boemia fu attrita, como se trita poca saiza da granne pistello. Stava Carlo figlio dello re Ianni da longa alquanto. Quanno intese sio patre essere muorto e sconfitto, non potéo tenere le lacrime. Intanto parlao e disse: "Moramo con esso". Ià moveva soie banniere per ire. Lo sio ire era temerario, senza utile, ca·lli Englesi stavano più fuorti che mai. Ira, tristezze e furore lo menavano. Allora li suoi baroni li fuoro intorno e presero lo cavallo per lo freno e voitaro la testa inver' de Parisci e sì·llo strascinaro a malo sio talento fine in Parisci; e là se posao. Lassaose fare doice forza e fece lo meglio e mustrao lo animo de volere fare. Ora non è chi tenga campo per lo re de Francia. Lo campo remase alli Englesi. Li Englesi non se diero alla robba. Anche fecero una cosa moito notabile. Bene da tre dìe po' la sconfitta non se trassero arme da duosso, non descesero da cavallo. Non se partìo stennardo regale de campo. Non se mosse alcuno della guardia. Puoi che viddero che omo nullo contradiceva, le locora erano secure de aguaito, allora una parte ordinata se deo alla robarìa, allo arnese guadagnato, a spogliare le corpora morte. Ecco quella nobilissima sconfitta fatta in Francia alla villa de Carsia. Sessanta milia uomini muorti in campo. Moiti fuoro li presoni. Muorto lo re de Boemia, capitanio generale della oste, lo conte de Lancione de Valosi, Aloisi conte de Flandria e aitri baroni assai. Milli e cinqueciento para de speroni d'aoro se trovaro li Englesi guadagnati, senza le aitre milli e treciento banniere prese nella rotta. Li milli Todeschi ne fuoro portati in Parisci con carrette. La maiure parte dello cuorpo dello re de Boemia fu portata: gran parte ne era guasta. Queste corpora ne iessiro nude de campo a Parisci alla sepoitura. L'aitra iente non fu coita allora, anche demorao dìe quattro in piana terra, in spettaculo de onne iente. Po' questo li Englesi cuoizero lo campo e tutto loro arnese assettaro nelle carrette e, fatta ordinata compagnia, non demoraro più. Vanno e tornano a reto. Loro camino fu a Calese, lo forte castiello canto la marina, per assediarlo. Calesani stavano perfidi, fideli allo re de Francia. Pescatori soco, ca staco canto mare, mala iente, derobatori de mare. Quanta iente passava per mare de Egnilterra in Francia, tanta robavano. Allora lo re Adoardo là ne gìo e assediao quello castiello de Calese mesi tredici per mare e per terra. Per mare abbe navi che guardavano li passi, che non potessino avere né entrata né iessuta. Per terra esso sì·llo assediao. E fece uno fossato terribile da si' allo castiello. Puoi circonnao l'oste soa con un aitro fossato grannissimo e con tavole lo armao, perché nullo potessi offennere soa iente. Ora stao lo assedio. Ora ionta macine e palle de piommo su nelle porte. Tutte le infragne, tutte le scommove. Ietta prete de trabocco. Non fina notte e dìe. Ietta fuoco nella terra. Bombarde, spingarde e aitre orribile cose da pericolare lo castiello e·lli avitatori. Calesani forte se defennevano. Anche essi avevano trabocchi e tormenti da commattere in terra. Iettavano in mare, in terra, como fao la spinosa. Una piommata essìo de Calese e coize una nave granne e bona. Sfonnaola e sì·lla affonnao in mare. Ià mancata era la vivanna nello castiello e anche nello oste. Quelli non se volevano rennere. Questi non se movevano da assedio. La fame era granne. Ià Calesani aveano incomenzato a iettare li suorti che l'uno manicassi l'aitro. Nell'oste comenzava la iente povera a manicare li cavalli. Calesani, costretti per la fame, con licenzia de Adoardo mannaro lettere allo re, che succurressi. Lo re de Francia cavalcao con doiciento milia perzone. Era tornato sio figlio Ianni, duca de Normannia. Quanno l'oste dello re se approssimao a Calese, trovao l'oste dello re Adoardo forte curata sì de fossati sì de tavolati. Non pò passare, non se pò accostare per le moite frezze. Allora lo re Filippo mannao per Adoardo, che iessissi fòra allo campo, alla vattaglia. Respuse Adoardo: "Io iesseraio fòra alla mea petizione, non alla toa". Respuse lo re Filippo: "Granne vergogna ène. Io staio in campo. Tu non si' ardito iessire fore alla vattaglia". Respuse Adoardo: "Vergogna non ène, ca io non staio indarno. Lo mio stare non è senza utile. Io intenno mo' sopra Calese. Lo primo dìe che l'opera de Calese ène fornita io iesseraio fòra allo campo". Respuse lo re Filippo: "Calese te dono io. Non lassare per ciò. Da mo' sia tio". Respuse Adoardo: "Non bisogna che tu me lo doni, ca quello che io me guadagno colla spada in mano non bisogna che me sia donato". Allora lo re Filippo, non potenno passare, deo licenzia a Calesani che provedessino ad onne loro fatto e salute. Deo la voita in reto e tornao in Parisci. La fame consumava Calesani. Calesani demannaro mercede allo re de Egnilterra. Diceva lo re: "Como averaio mercede, che me haco fatto despennere tutto mio ariento?" Le porte fuoro aperte. Lo re voleva tutti Calesani occidere, ma per la pregaria instantissima della reina e de alquanti mastri in teologia lo re li perdonao. Iessiro Calesani de Calese con una gonnella per omo, aitro no. Calese con aoro, ariento, panni e animali remase alli Englesi. Quello castiello fu empito de Englesi. Bene serve alla corona de Egnilterra fi' allo dìe de mode.
Cap. XV
Dello grannissimo diluvio e piena de acqua.
Granne circuito avemo fatto, moito tiempo simo iti spierzi, moito
paiese stranio avemo cercato.
Cercato avemo la Lommardia e·lla Spagna, la Turchia e·lla
Francia. Ora ène anche tiempo
convenevile de tornare a casa. Tornemo in Italia, tornemo alle
magnifiche e inaudite novitate le quali
per noviello haco tutta Italia cercata. Diceremo in prima dello
granne diluvio lo quale fu in Roma. Mai
tanta acqua non abunnao nello Tevere. Mai non passao lo Tevere sì
pessimamente suoi tiermini, mai
tanto danno non fece. Currevano anni Domini MCCC[...], de pontificato
de papa Chimento sesto.
Nella citate de Roma crebbe lo fiume lo quale se dice Tevere, e fu
per sio crescere de acqua uno
diluvio mortifero e maraviglioso in tale muodo, che pochi, anche
nulli, se recordassino essere stato lo
simile. Tutta la state passata operze Dio le cataratte dello cielo e
mannao acqua spessa e foita, non
granne. Ma puoi nello autunno, recoite le uve, comenzanno dalla festa
de Onniasanti, parze che·lle
fontane dello abisso fussino operte per vomacare acqua. Allora
comenzao lo Tevere a crescere e non
descresceva niente. Innelli dìe fra Onniasanti e Natale, forza
da dìe otto, durao lo crescere dell'acqua
la quale terribilemente iessiva li usati tiermini dello lietto dello
sio canale. Allora empìo tutta la pianura
la quale iace intorno alla citate de Roma, puoi la maiure parte
drento e de fore. Maraviglia ène e cosa
mai non odita da Romano. Tutta la pianura de Roma nota. Soli sette
cuolli se pareno non occupati dalla
acqua. Questi so' li tiermini e·lli confini de tale diluvio in
Roma, e dico brevemente. In prima, la piazza
de Santa Maria Rotonna era tanto piena che per nulla via per essa se
poteva ire, né a pede né a
cavallo. Anche nella contrada de Santo Agnilo Pescivennolo venne
l'acqua fi' alla contrada delli Iudiei,
la quale vao alla piazza delli Iudiei da priesso a l'arco lo quale
vao alla piazza delli Savielli. Anche in
Colonna pervenne l'acqua fi' allo Folserace, lo quale stao a Santo
Antrea de Colonna, dove stao la
granne colonna. Anche porta dello Puopolo notava per tale via, che
per nullo modo ad essa se poteva
ire. Item lo campo dell'Austa tutto stava pieno. Item a Santo Trifo
exuberao fi' allo aitare e empìo la
chiesia. Anche entrao lo monistero e·lla chiesia delle monache
de Santo Silviestro dello Capo. E chi
voize ire alle donne, gìo colla sannolella. Item entrao lo
monistero de Santo Iacovo de Settignano per la
via de Tristevere in tale muodo, che tutto lo luoco e·lla
chiesia notava nell'acqua, e occupao tutto lo
coro collo aitare. Anche pareva a quelli che staievano nello monte de
Santo Vrancazio che da pede
fossi un laco terribile, in mieso dello quale pareva stare quello
munistero. Anche occupao li confini e·lla
chiesia de Santo Pavolo Maiure, le vigne e·lle seminata, li
campi collo seminato. Anche occupao tutte
le vigne nello territorio della porta de Santo Pavolo, la quale hao
nome Ostiense, anche tutte le vigne in
porta de Santo Pietro, brevemente onne pianura la quale iace canto lo
fiume. Con ciò sia cosa che
tanta abunnanzia d'acqua occupassi tutto lo spazio de Santo Spirito
e·lla piazza dello Castiello e·lle case
de Puortica, entrao la porta dello ponte, la quale ène de
metallo, e sallìo alla porta secunna dello ponte,
la quale ène de leno. Anche la onna della acqua, la quale
veniva per la porta de Civita Leonina canto
lo Castiello, imprimamente se commattéo coll'onna la quale
veniva da Santo Spirito. Da puoi, perché
pareva uno laco, lo luoco non se posseva passare se non colla
sannolella. Quanno iva l'omo a ponte
per la strada ritta, da casa delli Vaiani, se iva nella acqua fi'
alli guazzaroni dello cavallo. Questa
soperchia acqua consumao e defocao tutti li coiti e·lli
seminati che trovao. E sorrenao le vigne de
creta. E scarporìo li arbori da radicina. E deo per terra muri
e case. Affocao vestiame. Danniao lo
territorio de Roma più de dociento migliara de fiorini. Anche
ruppe le catene e·lli ignegni delli mulinari
e menaone da cinque bone mole, le quale connusse allo mare. Allora
fuoro le mole perdute, aitre moite
deslocate recuperate a granne pena. Anche per l'acqua venivano
arbori, navi, mole, tavole, animali,
case, le quale violentemente avea tratto lo furore della acqua. Parte
de queste cose se prennevano,
parte ne erano portate a mare, anche porte, banche, votti pieni de
vino e vuoiti. E fu tale che prese la
votte piena de vino e fu chi prese la cassa nella quale era pecunia.
E fu chi vidde che per lo fiume
notava una casa de leno de tavole de quelle ville, nella quale fu
odito un guarzone che stava nella cola
e vagiva. Queste cose, e anche innumerabile, furava lo curzo
dell'acqua e menao vuovi collo arato e
colla gomera. Granne tiempo piobbe. Granne tiempo lo Tevere stette
enfiato. Puoi che comenzao a
crescere, cinque dìe durao la piena. Fi' allo quinto dìe
crebbe. Lo sesto dìe stette, non fece innanti. Lo
settimo descrebbe e tornao lo fiume da puoi a sio lietto usato.
Pisciainsanti, uno macellaro de Roma,
aveva uno tronco de crastati in una casa canto fiume. Vedenno lo
fiume crescere, cessaoli in una casa
tanto da longa che li pareva impossibile che·llo fiume
entrassi in quella. La notte crebbe lo fiume e
stesese tanto che occupao quella casa. Pisciainsanti, quanno ìo
la dimane, trovao la casa piena de
acqua e·lli crastati affocati notavano. Nella citate de
Fiorenza, anni Domini MCCC[...], dello mese de
noviembro, alli dìe quattro, per lo granne diluvio fu poco
meno sommerza la citate de Fiorenza. Lo
ponte fu per terra, li forni guasti. Lì non se potéo
cocere pane granne tiempo. Li pozzi se empiero de
acqua. Crescente lo fiume, l'acqua crebbe. Mancanno lo fiume, l'acqua
mancao.
Cap. XVI
Della galea sorrenata e derobata in piaia romana.
Currevano anni Domini MCCC[...], dello mese de [...], a dìe
[...] quanno sorrenao una galea de
mercatantia in piaia romana, fra Puorto e Ostia, in lo Tevere. La
novella fu per questa via. Mercatanti
dello renno venivano da ponente e aveano caricata in Marzilia e in
Avignone una galea de panni
franceschi. Lo legno era della reina Iuvanna. Lo patrone, li comiti
e·lli marinari erano d'Ischia. La
mercantia era de Napoletani e Ischiani. Movese la galea e forte leva
in aito le vele allo viento. Passa
Marzilia, passa Monaco, passa lo mare de Genova. Puoi ne passa a
Pisa. Puoi ne veo a Piommino.
Puoi ne veo a Civitavecchia. Passata che abbe la piaia de
Civitavecchia, volevano entrare in casa.
Allora se mosse una pestilenzia de viento. Lo mare bussava senza
misericordia. Li vienti erano tanto
contrarii, che maiesterio de marinari perdiva onne rascione. La notte
era forza mesa. La oscuritate
orribile. Mai non vedesti sì pena de inferno. Nullo remedio
era, salvo che de tornare allo puorto de
Civitavecchia. Forte e duro pareva alli marinari e alle vivate
tornare in reto e tanta via perdire. Se a
Civitavecchia tornavano, ponevano la nave in salvo. Fu deliverato de
tenere mesa via, de canzare in
piaia romana e fuire lo pericolo, recuveranno nello Tevere de Roma.
Così fu fatto. Voitano li marinari
suoi artificii e ignegni. Daco la voita per entrare la foce de
Tevere. A quanto pericolo passao in quella
entrata! Ora ne veo la galea per lo fiume, credennose essere salvi,
puoi che l'ira dello mare non li
appoteva, puoi che la foce era passata. Ma non gìo così.
Quanno lo legno fu in mieso dello canale dello
Tevere, nello luoco che iace fra Uostia e Puorto, lo legno staieva,
non se moveva. Là iace uno malo
passo. L'acqua hao là poco de fonno. Caddero là in
quello malo passo dove ène poca de acqua. Non
tennero lo pieno canale. Li usati marinari de Genova e de Cecilia
quello passo schifano. Allora
descesero marinari alquanti per sapere la cascione della demoranza
della nave e viddero che·llo legno
toccava terra; e non valeva aiutare con pali né premere con
vraccia. Anche lo fiume tempestate avea.
Lo legno s'era sorrenato nella rena. L'onna buttava e moveva lo legno
da lato in lato. Pareva che·llo
volessi revoitare sottosopra. Allora la tristezze delli marinari e
dello patrone fu granne. Piango le
vivate. Ciascheuno crede morire. Allora se fece dìe. Lo dìe
succurze con soa chiarezza. Lo romore fu
sentito allo castiello de Puorto e ad Ostia. Vennero sannolari de
Puorto e portaro quelle vivate per
denari in terra. Salvaro lo patrone, li marinari e·lle vivate
con loro robba. La mercatantia remase nello
legno. Era nello castiello de Puorto uno nobile romano: Martino de
Puorto avea nome. Quello Martino
abbe suoi fattori e fece tutta quella galea sgommorare e trarne la
mercatantia de panni e de speziarie;
li quali panni se vennéo e non ne voize rennere cobelle alli
perdienti. Anche più che 'nanti sostenne de
essere scommunicato, che de volere rennere l'aitruio. Assenava una
soa proverbia antica: "Chi
pericola in mare pericoli in terra". Per la qual cosa e per
alcuno aitro excesso Martino de Puorto fu
appeso per la canna, como se dicerao. In quella galea venne la moneta
e·lli riennita de Provenza, la
quale veniva alla reina Iuvanna de soa contrada. In quella venne
panni de valore de vinti milia fiorini.
In quella venne vivate de Provenzani, uomini e femine, li quali ne
ivano a Napoli. In quella veniva
sacca de pepe e de cennamo e de cannella. In quella venne uno feriero
de Santo Ianni: avea nome
frate Monreale, provenzano de Narba, cavalieri a speroni d'aoro,
moito iovinetto. Arrivao con fortuna
in piaia romana e perdìo là in quello pericolo onne sio
arnese, fi' alla scarzella delli fiorini. Sola la
perzona campao. Lo quale entrao in terra romana moito de tenerissima
etate, e fu omo de masnata e
deventao virtuosissimo capitanio e fecese omo de granne fatto e de
granne valore e fu capo della
Granne Compagnia. A l'uitimo li fu tagliata la testa in Roma, como se
dicerao.
Cap. XVII
De
Leonardo de Orvieto tenagliato per Roma. ] [...]
..................
Cap. XVIII
Delli granni fatti li quali fece Cola de Rienzi, lo quale fu tribuno de Roma augusto.
Cola de Rienzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu tavernaro, abbe nome
Rienzi. La matre abbe nome
Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare. Fu nato
nello rione della Regola. Sio avitazio
fu canto fiume, fra li mulinari, nella strada che vao alla Regola,
dereto a Santo Tomao, sotto lo tempio
delli Iudei. Fu da soa ioventutine nutricato de latte de eloquenzia,
buono gramatico, megliore rettorico,
autorista buono. Deh, como e quanto era veloce leitore! Moito usava
Tito Livio, Seneca e Tulio e
Valerio Massimo. Moito li delettava le magnificenzie de Iulio Cesari
raccontare. Tutta dìe se
speculava nelli intagli de marmo li quali iaccio intorno a Roma. Non
era aitri che esso, che sapessi
leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava.
Queste figure de marmo iustamente
interpretava. Deh, como spesso diceva: "Dove soco questi buoni
Romani? Dove ène loro summa
iustizia? Pòterame trovare in tiempo che questi fussino!"
Era bello omo e in soa vocca sempre riso
appareva in qualche muodo fantastico. Questo fu notaro. Accadde che
un sio frate fu occiso e non fu
fatta vennetta de sia morte. Non lo potéo aiutare. Penzao
longamano vennicare lo sangue de sio frate.
Penzao longamano derizzare la citate de Roma male guidata. Per sio
procaccio gìo in Avignone per
imbasciatore a papa Chimento de parte delli tredici Buoni Uomini de
Roma. La soa diceria fu sì
avanzarana e bella che sùbito abbe 'namorato papa Chimento.
Moito mira papa Chimento lo bello stile
della lengua de Cola. Ciasche dìe vedere lo vole. Allora se
destenne Cola e dice ca·lli baroni de Roma
so' derobatori de strade: essi consiento li omicidii, le robbarie, li
adulterii, onne male; essi voco che la
loro citate iaccia desolata. Moito concipéo lo papa contra li
potienti. Puoi, a petizione de missore Ianni
della Colonna cardinale, venne in tanta desgrazia, in tanta
povertate, in tanta infirmitate, che poca
defferenzia era de ire allo spidale. Con sio iuppariello aduosso
stava allo sole como biscia. Chi lo puse
in basso, quello lo aizao: missore Ianni della Colonna lo remise
denanti allo papa. Tornao in grazia, fu
fatto notaro della Cammora de Roma, abbe grazia e beneficia assai. A
Roma tornao moito alegro; fra
li dienti menacciava. Puoi che fu tornato de corte, comenzao a usare
sio offizio cortesemente; e bene
vedeva e conosceva le robbarie delli cani de Campituoglio, la
crudelitate e la iniustizia delli potienti.
Vedeva pericolare tanto Communo e non se trovava uno buono citatino
che·llo volessi aiutare.
Imperciò se levao in pede una fiata nello assettamento de
Roma, dove staievano tutti li consiglieri, e
disse: "Non site buoni citatini voi, li quali ve rodete lo
sangue della povera iente e non la volete aiutare".
Puoi ammonìo li officiali e·lli rettori che devessino
provedere allo buono stato della loro romana citate.
Quanno la luculenta diceria fu fornita, levaose uno de Colonna, lo
quale avea nome Antreuozzo de
Normanno, allora cammorlengo, e deoli una sonante gotata. Puoi se
levao uno lo quale era scrivisenato
- Tomao de Fortifiocca avea nome - e feceli la coda. Questo fine abbe
soa diceria. Anco secunnario
lo preditto Cola ammonìo li rettori e·llo puopolo allo
bene fare per una similitudine la quale fece
pegnere nello palazzo de Campituoglio 'nanti lo mercato. Nello parete
fòra sopra la Cammora penze
una similitudine in questa forma. Era pento uno grannissimo mare, le
onne orribile, forte turvato. In
mieso de questo mare stava una nave poco meno che soffocata, senza
tomone, senza vela. In questa
nave, la quale per pericolare stava, stava una femina vedova vestuta
de nero, centa de cengolo de
tristezze, sfessa la gonnella da pietto, sciliati li capelli, como
volessi piagnere. Stava inninocchiata,
incrociava le mano piecate allo pietto per pietate, in forma de
precare che sio pericolo non fussi. Lo
soprascritto diceva: "Questa ène Roma". Atorno a
questa nave, dalla parte de sotto, nell'acqua stavano
quattro nave affonnate, loro vele cadute, rotti li arbori, perduti li
tomoni. In ciascheuna stava una
femina affocata e morta. La prima avea nome Babillonia, la secunna
Cartaine, la terza Troia, la quarta
Ierusalem. Lo soprascritto diceva: "Queste citati per la
iniustizia pericolaro e vennero meno". Una
lettera iessiva fra queste morte femine e diceva così: "Sopra
onne signoria fosti in aitura. Ora
aspettamo qui la toa rottura". Dallo lato manco stavano doi
isole. In una isoletta stava una femina che
sedeva vergognosa, e diceva la lettera: "Questa ène
Italia". Favellava questa e diceva così: "Tollesti
la
balìa ad onne terra e sola me tenesti per sorella". Nella
aitra isola staievano quattro femine colle mano
alle gote e alli inuocchi con atto de moita tristezze, e dicevano
così: "D'onne virtute fosti
accompagnata. Ora per mare vai abannonata". Queste erano quattro
virtù cardinale, cioène
Temperanza, Iustizia, Prudenza e Fortezze. Dalla parte ritta stava
una isoletta. In questa isoletta stava
una femina inninocchiata. Le mano destenneva a cielo como orassi.
Vestuta era de bianco. Nome
avea Fede Cristiana. Lo sio vierzo diceva così: "O summo
patre, duca e signor mio, se Roma pere,
dove starraio io?" Nello lato ritto della parte de sopra
staievano quattro ordini de diverzi animali colle
scelle, e tenevano cuorni alla vocca, e soffiavano como fussino
vienti li quali facessino tempestate allo
mare, e davano aiutorio alla nave che pericolassi. Lo primo ordine
erano lioni, lopi e orzi. La lettera
diceva: "Questi so' li potienti baroni, riei rettori". Lo
secunno ordine erano cani, puorci e caprioli. La
lettera diceva: "Questi soco li mali consiglieri, sequaci delli
nuobili". Lo terzo ordine stavano pecoroni,
dragoni e golpi. La lettera diceva: "Questi soco li faizi
officiali, iudici e notari". Lo quarto ordine
stavano liepori, gatti e crape e scigne. La lettera diceva: "Questi
soco li populari, latroni, micidiari,
adulteratori e spogliatori". Nella parte de sopra staieva lo
cielo. In mieso stava la maiestate divina
como venissi allo iudicio. Doi spade li iessivano dalla vocca, de là
e de cà. Dall'uno lato stava santo
Pietro, dall'aitro santo Pavolo ad orazione. Quanno la iente vidde
questa similitudine de tale figura,
onne perzona se maravigliava. Quanno Cola de Rienzi scriveva, non
usava penna de oca; anco soa
penna era de fino ariento. Diceva che tanta era la nobilitate de sio
officio, che la penna devea essere
d'ariento. Non moito tiempo passao che ammonìo lo puopolo per
uno bello sermone vulgare lo quale
fece in Santo Ianni de Laterani. Dereto dallo coro, nello muro, fece
ficcare una granne e mannifica
tavola de metallo con lettere antique scritta, la quale nullo sapeva
leiere né interpretare, se non solo
esso. Intorno a quella tavola fece pegnere figure, como lo senato
romano concedeva la autoritate a
Vespasiano imperatore. Là, in mieso della chiesia, fece fare
uno parlatorio de tavole e fece fare gradi
de lename assai aiti per sedere. E fece ponere ornamenta de tappiti e
de celoni. E congregao moiti
potienti de Roma, fra li quali fu Stefano della Colonna e Ianni
Colonna sio figlio, lo quale era delli più
scaitriti e mannifichi de Roma. Anche ce fuoro moiti uomini savii,
iudici e decretalisti, moita aitra iente
de autoritate. Sallìo in sio pulpito Cola de Rienzi fra tanta
bona iente. Vestuto era con una guarnaccia
e cappa alamanna e cappuccio alle gote de fino panno bianco. In capo
aveva uno capelletto bianco.
Nella rota dello capelletto stavano corone de aoro, fra le quale ne
stava denanti una la quale era
partuta per mieso. Dalla parte de sopra dello capelletto veniva una
spada d'ariento nuda, e la sia ponta
feriva in quella corona e sì·lla partiva per mieso.
Audacemente sallìo. Fatto silenzio, fece sio bello
sermone, bella diceria, e disse ca Roma iaceva abattuta in terra e
non poteva vedere dove iacessi, ca li
erano cavati li uocchi fòra dello capo. L'uocchi erano lo papa
e lo imperatore, li quali aveva Roma
perduti per la iniquitate de loro citatini. Puoi disse: "Vedete
quanta era la mannificenzia dello senato, ca
la autoritate dava allo imperio". Puoi fece leiere una carta
nella quale erano scritti li capitoli colla
autoritate che·llo puopolo de Roma concedeva a Vespasiano
imperatore. In prima, che Vespasiano
potessi fare a sio benepiacito leie e confederazione con quale iente
o puopolo volessi; anche che
potessi mancare e accrescere lo ogliardino de Roma, cioène
Italia; potessi dare contado più e meno,
como volessi; anche potessi promovere uomini a stato de duca e de
regi e deponere e degradare; anco
potessi disfare citate e refare; anco potessi guastare lietti de
fiumi e trasmutarli aitrove; anche potessi
imponere gravezze e deponere allo benepiacito. Tutte queste cose
consentìo lo puopolo de Roma a
Vespasiano imperatore in quella fermezza che avea consentuto a
Tiberio Cesari. Lessa questa carta,
questi capitoli, disse: "Signori, tanta era la maiestate dello
puopolo de Roma, che allo imperatore dava
la autoritate. Ora l'avemo perduta". Puoi se stese più
innanti e disse: "Romani, voi non avete pace. Le
vostre terre non se arano. Per bona fede che·llo iubileo se
approssima. Voi non site proveduti della
annona e delle vettuaglie; ca se la iente che verrao allo iubileo ve
trova desforniti, le prete ne portaraco
de Roma per raia de fame. Le prete a tanta moititudine non
bastaraco". Puoi concluse e disse:
"Pregove che la pace con voi aiate". Po' queste paravole
disse: "Signori, saccio ca moita iente me teo
in vocca per questo che dico e faccio, e questo perché? Per la
invidia. Ma rengrazio Dio che tre cose
consumano li medesimi. La prima ène la lussuria, la secunna lo
fuoco, la terza ène la invidia". Fatto lo
sermone e desceso, da tutta iente fu pienamente laodato. In questi
dìi usanno alli magnari colli signori
de Roma, con Ianni Colonna, li baroni ne prennevano festa de sio
favellare. Facevanollo sallire in pede
e sì·llo facevano sermonare. E diceva: "Io serraio
granne signore o imperatore. Tutti questi baroni
persequitaraio. Quello appenneraio, quello decollaraio". Tutti
li iudicava. De ciò li baroni crepavano
delle risa. Po' queste cose 'nanti disse la salluta soa e·llo
stato della citate e·llo ieneroso reimento per
questo muodo. Fece pegnere nello muro de Santo Agnilo Pescivennolo,
lo quale è luoco famoso a tutto
lo munno, una figura così fatta. Nello cantone della parte
manca stava uno fuoco moito ardente, lo
fume e·lla fiamma dello quale se stennevano fi' allo cielo. In
questo fuoco staievano moiti populari e
regi, delli quali alcuni parevano miesi vivi, alcuni muorti. Anco in
quella medesima fiamma staieva una
donna moito veterana, e per la granne caliditate le doi parte de
questa veglia erano annerite, la terza
parte remasa era illesa. Da la parte ritta, nello aitro cantone, era
una chiesia con uno campanile
aitissimo, dalla quale chiesia iessiva uno agnilo armato, vestuto de
bianco. La soa cappa era de
scarlatto vermiglio. In mano portava una spada nuda. Colla mano manca
prenneva questa donna veglia
per la mano, perché la voleva liberare da pericolo. Nella
aitezza dello campanile staievano santo Pietro
e santo Pavolo como venissino da cielo, e dicevano così:
"Agnilo, agnilo, succurri alla albergatrice
nostra". Puoi staieva pento como de cielo cadevano moiti falconi
e cadevano muorti in mieso de quella
ardentissima fiamma. Anco era nella aitezza dello cielo una bella
palomma bianca, la quale teneva
nello sio pizzo una corona de mortella, e donavala ad uno minimo
celletto como passaro, e puoi
cacciava quelli falconi da cielo. Quello piccolo celletto portava
quella corona e ponevala in capo della
veglia donna. De sotto a queste figure staieva scritto così:
"Veo lo tiempo della granne iustizia e ià taci
fi' allo tiempo". La iente che conflueva in Santo Agnilo
resguardava queste figure. Moiti dicevano ca
era vanitate e ridevano. Alcuni dicevano: "Con aitro se vòlzera
rettificare lo stato de Roma, che con
figure". Alcuno diceva: "Granne cosa ène questa e
granne significazione hao". Anche 'nanti disse la
salluta soa per questa via. Scrisse una cetola e ficcaola nella porta
de Santo Iuorio della Chiavica. La
cetola diceva così: "In breve tiempo li Romani tornaraco
allo loro antico buono stato". Questa scritta fu
posta la prima dìe de quaraiesima nella porta de Santo Iuorio
della Chiavica. Puo' questo adunao moiti
Romani populari, discreti e buoni uomini. Anco fra essi fuoro
cavalerotti e de buono lenaio, moiti
descreti e ricchi mercatanti. Abbe con essi consiglio e rascionao
dello stato della citate. Uitimamente
adunao questa bona iente e matura nello Monte de Aventino e in uno
luoco secreto. Là fu deliverato
de intennere allo buono stato. Fra li quali esso fu levato in piedi e
recitao piagnenno la miseria, la
servitute e·llo pericolo nello quale iaceva la citate de Roma.
Anco recitao lo stato pacifico, signorile, lo
quale Romani solevano avere. Recitao la fidele subiezzione delle
terre circustante perduta. Queste
cose dicenno piagneva e piagnere faceva cordogliosamente la iente.
Puoi concluse e disse ca se
conveniva servare pace e iustizia, comenzanno con sollanieri. Puoi
disse "Della moneta non dubitete,
ca la Cammora de Roma hao moite riennite inestimabile. In prima, per
lo focatico pacano per fumante
quattro [...], comenzanno dallo ponte Ceperano fi' allo ponte della
Paglia. Montava ciento milia fiorini.
Item de sale ciento milia fiorini. Anche li puorti de Roma e·lle
rocche de Roma ciento milia fiorini.
Anche per lo passo delle vestie e per connannazioni ciento milia
fiorini". Puoi disse: "Allo presente
comenzaremo con quattro milia fiorini, li quali hao mannati missore
lo papa, e ciò sao lo vicario sio".
Puoi disse: "Signori, non crediate che questo non sia de
licenzia e voluntate dello papa, ca moiti tiranni
faco violenzia nelli bieni della Chiesia". Per queste paravole
accese li animi delli congregati. Anco
moite cose recitao, donne piagnevano. Puoi deliverao de intennere
allo buono stato, e de ciò ad
onneuno deo sacramento nelle lettere. Fatto questo, la citate de Roma
stava in grannissima travaglia.
Rettori non avea. Onne dìe se commatteva. Da onne parte se
derobava. Dove era luoco, le vergine se
detoperavano. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se furavano e
menavanose a desonore. La moglie
era toita allo marito nello proprio lietto. Li lavoratori, quanno
ivano fòra a lavorare, erano derobati,
dove? su nella porta de Roma. Li pellegrini, li quali viengo per
merito delle loro anime alle sante
chiesie, non erano defesi, ma erano scannati e derobati. Li prieiti
staievano per male fare. Onne
lascivia, onne male, nulla iustizia, nullo freno. Non ce era più
remedio. Onne perzona periva. Quello più
avea rascione, lo quale più poteva colla spada. Non ce era
aitra salvezza se non che ciascheuno se
defenneva con parienti e con amici. Onne dìe se faceva
adunanza de armati. Li nuobili e li baroni in
Roma non staievano. Missore Stefano della Colonna era ito colla
milizia in Corneto per grano. Era in
fine dello mese de abrile. Allora Cola de Rienzi la prima dìe
mannao lo vanno a suono de tromma che
ciasche omo senza arme venisse allo buono stato allo suono della
campana. Lo sequente dìe là, da
mesa notte, odìo trenta messe dello Spirito Santo nella
chiesia de Santo Agnilo Pescivennolo. Là, su
l'ora de mesa terza iessìo fòra della preditta chiesia,
armato de tutte arme, ma solo lo capo era
descopierto. Iesse fòra bene e palese. Moititudine de guarzoni
lo sequitavano tutti gridanti. Denanti da
sé faceva portare da tre buoni uomini della ditta coniurazione
tre confalloni. Lo primo confallone fu
grannissimo, roscio, con lettere de aoro, nello quale staieva Roma e
sedeva in doi lioni, in mano teneva
lo munno e la palma. Questo era lo confallone della libertate. Cola
Guallato, lo buono dicitore, lo
portava. Lo secunno era bianco, nello quale staieva santo Pavolo
colla spada in mano, colla corona
della iustizia. Questo portava Stefanello, ditto Magnacuccia, notaro.
Nello terzo staieva santo Pietro
colli chiavi della concordia e della pace. Anco portava un aitro lo
confallone lo quale fu de santo Iuorio
cavalieri. Perché era veterano fu portato in una cassetta su
in una asta. Ora prenne audacia Cola de
Rienzi, benché non senza paura, e vaone una collo vicario
dello papa, e sallìo lo palazzo de
Campituoglio anno Domini MCCCXLVI[I]. Aveva in sio sussidio forza da
ciento uomini armati.
Adunata grannissima moititudine de iente, sallìo in
parlatorio, e sì parlao e fece una bellissima diceria
della miseria e della servitute dello puopolo de Roma. Puoi disse ca
esso per amore dello papa e per
salvezza dello puopolo de Roma esponeva soa perzona in pericolo. Puoi
fece leiere una carta nella
quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco
Mancino, la lesse brevemente.
Questi fuoro alquanti suoi capitoli: Lo primo, che qualunche perzona
occideva alcuno, esso sia occiso,
nulla exceptuazione fatta. Lo secunno, che li piaiti non se
proluonghino, anco siano spediti fi' alli XV
dìe. Lo terzo, che nulla casa de Roma sia data per terra per
alcuna cascione, ma vaia in Communo. Lo
quarto, che in ciasche rione de Roma siano auti ciento pedoni e
vinticinque cavalieri per communo
suollo, daienno ad essi uno pavese de valore de cinque carlini de
ariento e convenevile stipennio. Lo
quinto, che della Cammora de Roma, dello Communo, le orfane e·lle
vedove aiano aiutorio. Lo sesto,
che nelli paludi e nelli staini romani e nelle piaie romane de mare
sia mantenuto continuamente un
legno per guardia delli mercatanti. Settimo, che li denari, li quali
viengo dello focatico e dello sale e delli
puorti e delli passaii e delle connannazioni, se fossi necessario, se
despennano allo buono stato. Ottavo,
che·lle rocche romane, li ponti, le porte e·lle
fortezze non deiano essere guardate per alcuno barone, se
non per lo rettore dello puopolo. Nono, che nullo nobile pozza avere
alcuna fortellezze. Decimo, che li
baroni deiano tenere le strade secure e non recipere li latroni e li
malefattori, e che deiano fare la
grascia so pena de mille marche d'ariento. Decimoprimo, che della
pecunia dello Communo se faccia
aiutorio alli monisteri. Decimosecunno, che in ciasche rione de Roma
sia uno granaro e che se proveda
dello grano per lo tiempo lo quale deo venire. Decimoterzio, che se
alcuno Romano fussi occiso nella
vattaglia per servizio de Communo, se fussi pedone aia ciento livre
de provisione, e se fussi cavalieri
aia ciento fiorini. Decimoquarto, che·lle citate e·lle
terre, le quale staco nello destretto della citate de
Roma, aiano lo reimento dallo puopolo de Roma. Decimoquinto, che
quanno alcuno accusa e non
provassi l'accusa, sostenga quella pena la quale devessi patere lo
accusato, sì in perzona sì in pecunia.
Moite aitre cose in quella carta erano scritte, le quale perché
moito piacevano allo puopolo, tutti levaro
voce in aito e con granne letizia voizero che remanessi là
signore una collo vicario dello papa. Anco li
diero licenzia de punire, occidere, de perdonare, de promovere a
stato, de fare leie e patti colli puopoli,
de ponere tiermini alle terre. Anco li diero mero e libero imperio
quanto se poteva stennere lo puopolo
de Roma. Puoi che queste cose, le quale in Roma fatte erano,
pervennero alle recchie de missore
Stefano della Colonna, lo quale staieva in Corneto nella milizia per
grano, con poca compagnia senza
demoranza ne cavalcao e venne a Roma. Ionto nella piazza de Santo
Marciello, disse ca queste cose
non li piacevano. Lo sequente dìe, la matina per tiempo, Cola
de Rienzi mannao a missore Stefano lo
editto e commannamento che se dovessi partire de Roma. Missore
Stefano la cetola prese e sì·lla
sciliao e fecene milli piezzi e disse: "Se questo pascio me fao
poca de ira, io lo farraio iettare dalle
finestre de Campituoglio". Quanno Cola de Rienzi questo intese,
espeditamente fece sonare la
campana a stormo. Tutto lo puopolo traieva con furore. Granne se
apparecchiava pericolo. Allora
missore Stefano cavalcao in sio cavallo. Solo con uno fante da pede
ne fuìo fòra de Roma. A gran
pena se fisse poco in Santo Lorienzo fòra le mura per poco de
pane manicare. Vaone a Pellestrina lo
veterano. Denanti allo figlio e allo nepote lamentanza fao. Allora
Cola de Rienzi mannao
commannamenti a tutti li baroni de Roma che se partissino e issino a
loro castella; la quale cosa
subitamente fatta fu. Lo sequente dìe li fuoro rennuti tutti
li ponti li quali staco nello circuito della citate.
Allora Cola de Rienzi fece suoi officiali. E mo' prenne uno e mo'
prenne un aitro; questo appenne, a
questo mozza lo capo senza misericordia. Tutti li riei iudica
crudelemente. E puoi parlao allo puopolo, e
in quello parlamento se fece confermare e fece fermare tutti suoi
fatti, e domannao de grazia dallo
puopolo che esso e·llo vicario dello papa fussino chiamati
tribuni dello puopolo e liberatori. Allora li
signori voizero fare una loro coniurazione contra lo tribuno e·llo
buono stato: non fuoro in concordia; la
cosa non venne fatta. Quanno Cola de Rienzi intese che la coniura
delli baroni non venne ad effetto
per la discordia loro, allora li citao e mannaoli lo editto. Lo primo
che venne allo commannamento fu
Stefano della Colonna, figlio de missore Stefano. Entrao lo palazzo
con pochi. Vidde che·lla rascione
se renneva ad onne iente. Moito era lo puopolo lo quale in
Campituoglio staieva. Teméo e forte se
maravigliao de sì foita moititudine. Lo tribuno li iessìo
denanti armato, e sì·llo fece iurare sopra lo
cuorpo de Cristo e sopra lo Vagnelio de non venire contra allo
tribuno e alli Romani, e de fare la
grascia, e tenere le strade secure, e non recettare latroni né
le perzone de mala connizione, anche de
favorare alli orfani e alli pupilli, e non fraudare lo bene dello
Communo, e comparere armato e senza
arme ad onne soa petizione. Data licenzia a Stefano, venne missore
Ranallo delli Orsini, puoi Ianni
Colonna, puoi Iordano, puoi missore Stefano. Non iamo più
lontano: tutti li baroni li iuraro obedienzia
con paura, allo buono stato, e offierzero le loro proprie perzone
e·lle castella e·lli vassalli in sussidio
della citate. Francesco de Saviello fu sio speziale signore:
nientedemeno venne ad iurare subiezzione.
Intanto se servava con crudelitate, nulla misericordia, in tale muodo
che decapitao un monaco de Santo
Anestasi, perzona infamata. Le vestimenta prime dello tribuno fuoro
de una infiammata como fussi
scarlatto. Soa faccia era terribile e·llo sio aspietto. A
tanta iente dava resposta, a pena àbbera omo
creso che avessi capo. Po' alquanti dìe vennero li iudici
della citate e iuraro fidelitate e offierzero allo
buono stato. Puoi vennero li notari e fecero lo medesimo. Puoi li
mercatanti. Brevemente, per ordine in
stato de reposato animo, senza arme, ciascheuno iurao allo buono
stato communo. Allora queste cose
comenzaro a piacere e le arme comenzaro a cessare. Puo' queste cose
ordinao la casa della iustizia e
della pace e ficcao in essa lo confallone de Santo Pavolo, nello
quale stava la spada nuda e la palma
della vittoria, e puse in essa iustissimi populari, li quali fuoro
sopra la pace, li buoni uomini pacieri.
Questo ène lo ordine lo quale là se servava. Doi
inimicati venivano e davano le piarie della pace fare.
Puoi, secunno la connizione della iniuria, aitro e tanto quello che
patuto aveva ne faceva a quello lo
quale fatto aveva. Allora se basavano in vocca, e·llo offeso
dava integra pace. Uno cecao l'uocchio ad
un aitro. Venne e fu connutto nelle scale de Campituoglio. Stava
inninocchiato. Venne quello lo quale
era dell'uocchio privato. Piagneva lo malefattore e pregava per Dio
che·lli perdonassi. Puoi destese
soa faccia se li piaceva de trarli l'uocchio, se·lli fussi
piaciuto. Allora non li cecao l'uocchio, ca fu
mosso de pietate, ma sì·lli remise soa iniuria. Delle
cose civile se renneva rascione espeditamente. In
questo tiempo orribile paura entrao l'animi delli latroni, micidiari,
malefattori, adulteratori e de onne
perzona de mala fama. Ciasche diffamata perzona iessiva fòra
della citate nascostamente,
secretamente fuiva. Alla mala iente pareva che essi devessino essere
presi nelle loro case proprie e
essere menati allo martirio. Dunqua fugo li riei più là
assai che non so' li confini della contrada de
Roma. Non speravano salute in alcuno. Lassavano le case, li campi, le
vigne, le moglie e·lli figli. Allora
le selve se comenzaro ad alegrare, perché in esse non se
trovava latrone. Allora li vuovi comenzaro ad
arare. Li pellegrini comenzaro a fare loro cerca per le santuarie. Li
mercatanti comenzaro a spessiare
li procacci e camini. In questo tiempo nella citate de Roma nato fu
uno mostro. Nella contrada de
Camigliano de una femina pedonessa nacque uno infante muorto, lo
quale avea doi capora, quattro
mano, quattro piedi, como fussino doi appiccati dallo pietto. Ma
l'uno maiure era che l'aitro e pareva
che lo menore avanzassi lo maiure, non senza ammirazione della iente.
In questo tiempo paura e
timore assalìo li tiranni. La bona iente, como liberata da
servitute, se alegrava. Allora lo tribuno fece
uno sio generale Consiglio, e scrisse lettere luculentissime alle
citati e alle communitati de Toscana,
Lommardia, Campagna, Romagna, Maretima, allo duca de Venezia, a
missore Lucchino tiranno de
Milana, alli marchesi de Ferrara, allo santo patre papa Chimento, a
Ludovico duca de Bavaria, lo quale
era stato elietto imperatore, como ditto de sopra ène, alli
regali de Napoli. In queste lettere proponeva
lo sio nome per mannifico titulo in questa forma: "Nicola severo
e pietoso, de libertate, de pace e de
iustizia tribuno, anche della santa romana repiubica liberatore
illustre". In queste lettere dechiarao lo
stato buono, pacifico, iusto, lo quale comenzao aveva. Dechiarava
como lo viaio de Roma, lo quale
soleva essere dubioso, era libero. Puoi petiva che·lli
mannassino sintichi sufficienti, delli quali avea
bisuogno a rascionare cose utile allo buono stato nella sinodo
romana. Puoi li confortava e diceva che
se alegrassino e daiessino grazie e laode a Dio de tanto e tale
beneficio. Li currieri, li quali portavano
le soie lettere, portavano in mano vastoncelle de leno pente
inarientate. Arme nulla portavano. Tanto
muitiplicaro questi suoi currieri, che de essi numero granne era,
perché erano receputi graziosamente e
granni onori onne omo a loro faceva. Guidardoni tollevano. Uno
currieri sio fiorentino fu mannato in
Avignone allo papa e a missore Ianni della Colonna cardinale.
Reportao la vastoncella de leno de
finissimo ariento maitata coll'arme dello puopolo de Roma e dello
papa e dello tribuno, valore de fiorini
trenta. Po' la soa tornata lo currieri disse: "Questa verga aio
portata piubicamente per le selve, per le
strade. Migliara de perzone se soco inninocchiate denanti da essa e
basatola con lacrime per alegrezza
delle strade sanate, liberate da latroni". Anche aveva lo
tribuno li moiti scrittori e moiti dittatori, li quali
non cessavano dì e notte scrivere lettere. Moiti erano li più
famosi de terra de Roma. Puoi ad esso
comenzaro a concurrere buffoni assai e cavalieri de corte,
sonettatori e cantatori. Canzoni vulgari e
vierzi per lettera de suoi fatti fatti fuoro. In questo tiempo era in
Roma uno iovine potente e nobile
perzona: nome sio era Martino de Puorto, nepote dello cardinale de
Ceccano e de missore Iacovo
Gaietano cardinale. Ià per li tiempi passati stato era
senatore; suoi antecessori la dignitate dello senato
per più fiate àbbero. De questo Martino feci menzione
sopra della galea sorrenata. Questo fu signore
dello castiello de Puorto. Soa vita era venuta a tirannia. Soa
nobilitate bruttava per tirannie, latronie.
Prese per moglie una nobilissima femina, madonna Mascia delli
Alberteschi, la quale moito era bella e
era stata vedova. Stette con questa nova soa donna forza un mese,
perché male se sappe retenere.
Anche pessimamente se temperava dallo sopierchio civo. Cadde in
pessima infirmitate e incurabile. Li
miedici dico retruopico. Sio ventre era pieno de acqua. Como
votticiello pareva, piene le gamme e·llo
cuollo sottile e·lla faccia macra, la sete grannissima. Leguto
da sonare pareva. Stavase in soa casa
quetamente renchiuso e facevase medicare dalli fisichi. Questo omo
così nobile, sotto spezie de
securitate infermo a morte, per terrore de tutta l'aitra iente fece
pigliare nella propria casa, nelle mano
della soa donna, nello palazzo canto lo fiume de Ripa Armea, e fecelo
menare a Campituoglio. Puoi
che là a Campituoglio fu lo barone latrone connutto, era forza
ora de nona. Non fece demoranza.
Sonao la campana a stormo. Lo puopolo fu adunato. Fu Martino
desmantato, la soa cappa alla
cincillonia fatta. E legatoli le mano dereto, fu fatto inninocchiare
nelle scale canto lo lione, nello luoco
usato. Là odìo la sentenzia de sia morte. A pena lo
lassao confessare perfettamente allo preite. Alle
forche lo connannao, perché avea derobata la galea sorrenata.
Menato così mannifico omo alle forche,
nello piano de Campituoglio fu appeso. Soa donna da longa per li
balconi lo poteva vedere. Una notte e
doi dìe pennéo nelle forche, né·lli iovao
la nobilitate né·lla parentezze delli Orsini. A quello
modo resse
Roma e moiti in simile pena dannao. Questa cosa spaventao li animi
delli potienti, li quali sapevano le
loro inique operazioni. Aitri per pietate ne lacrimava, aitri ne
temeva. Ora comenza la iustizia a
prennere vigore. La fama de tale fatto spaventao li mannifichi in
tale muodo che a pena avevano fede
de sé medesimi. Allora le strade fuoro aperte. Notte e dìe
caminavano liberamente li viatori. Non
ardisce alcuno arme portare. Nullo omo fao ad aitri iniuria. Lo
signore non se accotiava de toccare lo
sio servo. Onne cosa guardiava lo tribuno. Per la alegrezze de così
escellente fatto piangono alcuni
con alegrezze e pregano Dio che fortifichi lo sio core e·llo
intellietto in questo proponimento. Tutta la
intenzione dello tribuno primamente fu de esterminare li tiranni e
confonnerelli in tale via che de essi
non se trovassi pianta. Li vetturali, li quali portavano le some,
lassavano le some nelle strade piubiche,
bene le retrovavano sane e salve. Allora fu mercato nella gota uno lo
quale avea nome Tortora (era
delli suoi currieri), perché avea receputa pecunia senza
licenzia, quanno fu mannato alli regali de
Napoli. La fama de sì virtuoso omo per tutto lo munno se
destenne. Tutta la Cristianitate fu commossa
como se levassi da dormire. Fu uno Bolognese lo quale fu uno delli
schiavi dello soldano de Babillonia.
Lo primo che potéo aizare, la più corta, ne venne a
Roma. Questo disse che allo granne Racham ditto
fu che nella citate de Roma se era levato un omo de granne iustizia,
omo de puopolo; lo quale respuse
e dubitanno disse: "Maumet e santo Elinason aiutino Ierusalem",
cioène la Saracinia. Appeso che fu
Martino, in quelli dìe fu una festa de santo Ianni de iugno.
Tutta Roma a Santo Ianni vao la dimane.
Voize questo omo ire alla festa como l'aitri. La soa ita fu per
questa via. Cavalcao con granne
appriesto de cavalieri. Sedeva sopra uno destrieri bianco. Vestuto
era de bianche vestimenta de seta,
forrate de zannato, infresate de aoro filato. Sio aspietto era bello
e terribile forte. Denanti allo sio
cavallo li ivano li ciento iurati da pede armati dello rione della
Regola. Sopra lo capo sio portava lo
confallone. Un aitro dìe cavalcao per pranzo a Santo Pietro
Maiure de Roma. Uomini e femine lo
trassero a vedere. Questo fu l'ordine de soa bella cavalcata. La
prima iente che venissi fu una milizia
de iente armata da cavallo, adornata e bella, la quale devea ire a
ponere campo sopre lo profietto. Po'
questi sequitava lo ordine delli officiali, iudici, notari,
cammorlenghi, cancellieri, scrivisenato e onne
officiale, pacieri e scintichi. Puoi sequitavano quattro menescalchi
colli loro cavalcanti usati. Puo'
questi sequitava Ianni de Allo, lo quale portava la coppa d'ariento
inaorato in mano collo dono a muodo
de senatore. Puo' questo venivano li sollati da cavallo. Po' questi
venivano li trommatori, li quali
venivano sonanno colle tromme d'ariento. Naccari d'ariento sonanti
onesto e mannifico suono
facevano. Puoi venivano li vannitori. Tutta questa iente passava con
silenzio. Po' questi veniva uno
omo solo lo quale portava in mano una spada nuda in segno de
iustizia: Buccio, figlio de Iubileo, fu. Po'
questo sequitava uno omo lo quale per tutta la via veniva iettanno e
sparienno pecunia a muodo
imperiale: Liello Migliaro sio nome fu. De·llà e de cà
aveva doi perzone, le quale sostenevano le sacca
della moneta. Po' questi sequitava lo tribuno solo. Sedeva in uno
destrieri granne, vestuto de seta,
cioène de velluto mieso verde, mieso giallo, forrato de varo.
Nella mano ritta portava una verga de
acciaro polita, lucente. Nella soa summitate era uno melo de ariento
'naorato, e sopra lo pomo staieva
una crocetta de aoro. Drento della crocetta staieva lo leno della
croce. Da l'uno lato erano lettere
smaitate, dicevano: "Deus ", da l'aitro: "Spiritus
Sanctus ". Puo' esso immediate veniva Cecco de
Alesso e portavali sopre capo uno stennardo a muodo regale. In quello
stennardo era lo campo de
bianco; in mieso staieva uno sole de aoro splennente e atorno
staievano le stelle de ariento. In capo
dello stennardo era una palomma bianca d'ariento, la quale portava in
vocca una corona de oliva. Dallo
lato ritto e manco aveva con seco da pede cinquanta vassalli de
Vitorchiano, li fideli, colli sbiedi in
mano. Bene parevano orzi vestuti e armati. Po' questi sequitava la
compagnia de moita iente
desarmata, sì de ricchi, sì de potienti, de
consiglieri, compagni e de moita iente onesta. Con cutale
triomfo, con cutale gloria passao lo ponte de Santo Pietro, onne
perzona salutanno. De colpo le porte
e·lle tavolata fuoro date per terra, la strada spaziosa e
libera. Puoi che fu ionto alle scale de Santo
Pietro, li calonici de Santo Pietro con tutto lo chiericato li
iessiro incontra vestuti e parati colle cotte
bianche solennemente, colla croce e collo oncienzo. Vennero
cantanno"Veni Creator Spiritus" fi' alle
scale e sì·llo recipiero con granne letizia.
Inninocchiato denanti allo aitare deo soa offerta. Lo
chiericato preditto li raccommannao li bieni de Santo Pietro. Lo
sequente dìe deo odienzia alle vedove,
alli orfani, alli desolati. E fece prennere doi scrivisenato e feceli
mitrare como faizarii e connannaoli in
granne pecunia, mille livre per uno. L'uno avea nome Tomao
Fortifiocca, l'aitro avea nome Poncelletto
della Cammora. Questi doi erano moito potienti populari. Dallo
principio questo omo faceva vita assai
temperata. Puoi comenzao a muitiplicare vite e cene e conviti e
crapule de divierzi civi e vini e de moiti
confietti. Puoi fece stecconiare lo palazzo de Campituoglio fra le
colonne e chiuselo de lename. E
commannao che tutte le steccata delli renchiostri delli baroni de
Roma issero per terra; e fu fatto.
Anco commannao che quelli travi, tavole e lename fussi portato a
Campituoglio alle spese delli baroni;
e fu fatto. Allora in casa de missore Stefano della Colonna prese
latroni, li quali appese. Puoi
connannao ciascheuno lo quale era stato senatore in ciento fiorini,
perché de essi voleva reedificare e
racconciare lo palazzo de Campituoglio. Recipéo per ciasche
barone ciento fiorini, ma lo palazzo non
fu acconcio, benché comenzassi. E fece prennere Pietro de
Agabito per la perzona, lo quale era stato
in quello anno senatore, e a pede, como fussi latrone, lo fece menare
a corte dalli suoi menescalchi.
Ora comenzano a spessiare le immasciate delle terre e delli nuobili.
Tutta Toscana avea ià mannate le
immasciarie. Allora ordinao la milizia delli cavalieri de Roma per
questo ordine. Per ciasche rione de
Roma ordinao pedoni e cavalieri trenta, e deoli suollo. Ciasche
cavalieri avea destrieri e ronzino, cavalli
copertati, arme adornate nove. Bene pargo baroni. Anco ordinao li
pedoni puro adorni, e deoli li
confalloni, e divise li confalloni secunno li segnali delli rioni, e
deoli suollo. E commannao che fussino
priesti ad onne suono de campana e feceselli iurare fidelitate. Fuoro
pedoni MCCC, li cavalieri
CCCLX, elietti iovini, mastri de guerra, bene armati. Puoi che·llo
tribuno se vidde armato de così fatta
milizia, allora se apparecchia de movere guerra a più potienti
perzone. Manna sio editto intorno e cita
tutti potienti nelle finaite de Roma. Intanto ordinao alquanti suoi
fattori e mannaoli coglienno lo
focatico. Coizero dunqua lo cienzo antico dello puopolo de Roma, e
onne dìe la moneta vene a Roma
per tale via, che increscimento e fatiga fosse contare pecunia de
tanta iente. Prestamente li vassalli
delli baroni pacano uno carlino per fumante. Apparecchiavanose a
questa paca le citate, le terre e le
communanze, le quale staco nella Toscana inferiore e in Campagna e in
Maretima. No·llo créseri: li
vassalli de Antioccia pacaro. Puoi che·llo editto abbe mannato
a tutti li baroni e alle citate intorno,
doicemente obediscono, secunno che de sopra ditto ène. Alla
loro matre e donna Roma umile
reverenzia faco. Solo Ianni da Vico profietto, tiranno de Vitervo,
non vole obedire. Per mille voite
citato non voize comparere. Allora deo contra esso profietto la
sentenzia e privaolo in piubico
parlamento della soa dignitate e disse ca era occiditore dello sio
frate, fazzioso, e che non voleva
rennere lo altruio, cioène la rocca de Respampano, e
appellaolo Ianni de Vico. Allora determinao l'oste
sopra quello. E feceli capitanio sopra Cola Orsino guarzone, signore
de Castiello Santo Agnilo, e deoli
per consiglieri Iordano delli Orsini. E abbe in quella oste li moiti
aiutorii. E posero campo sopre la citate
de Vetralla e stiettero in assedio dìi sessanta. E currevano
onne pianura fi' in Vitervo ardenno e
derobanno. Deh, como granne paura fecero a Vitervesi! Donne fu auta
Vetralla per bona voluntate
delli avitatori. Erance una forte rocca. Quella rocca non fu auta.
Volennola Romani prennere per arte
de guerra, fecero trabocchi e manganelle. Moito spessiavano loro
prete. Puoi fecero una asinella de
leno e connusserolla fi' alla porta della rocca. La notte se fece.
Quelli della rocca misticaro zolfo, pece
e uoglio, lena, trementina e aitre cose, e iettaro questa mistura
sopra lo edificio. La asinella fu in quella
notte arza. La dimane fu trovata cenere. In questa oste fuoro
Cornetani con tutto loro sfuorzo e
Manfredo loro signore. Fuoronce le masnate de Peroscini, de Todini,
de Nargnesi, baroni de Roma
assai. Moito fu bella oste, potente e onorata. Puoi che li Romani
àbbero consumato e guasto onne
campo, àbbero arzo lo lavoro e·llo lino fi' in Vitervo,
era mesa state de luglio, quanno lo callo stao
infervente. Allora lo tribuno determinao a questa oste ire
perzonalmente e mustrare tutta soa potenzia
con cavalieri e pedoni e depopulare le vigne de Vitervo. Quanno lo
profietto questo sentìo, incontinente
penzao de obedire. In questo tiempo erano in destretto alquanti
baroni (de Campituoglio non se
potevano partire), cioène Stefano della Colonna e missore
Iordano de Marini. Lo profietto in prima
mannao li immasciatori. Puoi perzonalmente venne a Roma. Era ora
nona, da mieso dìe. Entrao in
Campituoglio e posese sotto le vraccia dello tribuno. In soa
compagnia avea forza da sessanta. Allora
fuoro inzerrate le porte de Campituoglio e, sonata la campana, fuoro
adunati uomini e femine de
Roma. Lo tribuno fece uno parlamento, nello quale disse che Ianni de
Vico voleva obedire allo puopolo
de Roma. Allora lo renvestiva della prefettura e disse che renneva li
bieni dello puopolo. E così fu
fatto, perché, 'nanti che lo profietto se partissi de Roma e
'nanti che lo esercito de Vetralla se venissi,
rassenata fu alli fattori e allo scindico de Roma la rocca de
Respampano, e puoi lo profietto fu lassato.
Ora ascoita novitate delle sonnora. La notte denanti allo dìe
dello accordo lo tribuno dormiva in un sio
oniesto e triomfale lietto. Primo suonno era. Mentre che dormiva,
comenzao fortemente a gridare per
suonno e diceva: "Lassame, lassame". A questo favellare li
servitori della Cammora curzero e dissero:
"Signore nuostro, que novitate ène? Volete cobelle?"
Allora lo tribuno era resvigliato, favellao e disse:
"Mode io me sonnava che uno frate bianco veniva a mine e
diceva:"Tuolli la toa rocca de
Respampano. Ecco che te·lla renno". E dicenno questo in
questo suonno me prese per la mano. Allora
gridai". Questo suonno né più né meno
devenne como fu. Uno fraticiello, lo quale aveva nome frate
Acuto de Ascisci spidalieri, lo quale fece lo spidale della Croce de
Santa Maria Rotonna, dello quale
de sopre feci menzione nella renovazione de ponte Muolli, fu santa e
bona perzona. Questo trattao la
concordia fra Romani e·llo profietto. Venne lo sequente dìe
allo tribuno colle novelle della pace e disse:
"Tuolli la rocca de Respampano. Io te la renno". Favellava
allo puopolo lo tribuno in parlatorio. Tutta la
strada de mercato piena era. In capo della strada apparze frate Acuto
vestuto de bianco, a cavallo in
un sio asiniello copierto de bianco, incoronato de rami de oliva,
colli rami della oliva in mano. Per
vederlo moita iente se fioccava. Da longa lo vidde lo tribuno e disse
alli suoi cubiculari: "Ecco lo
suonno de questa notte". In questa oste de Vetralla lo Romano
abbe mille perzone da cavallo, pedoni
sei milla. La oste fu tornata incoronata de rami de oliva. Ora voglio
un poco iessire dalla materia.
Pòtera alcuno adomannare se·llo suonno pò essere
vero. A ciò responno e dico: bene che moiti suonni
siano vanitati, siano moiti delusioni de demonia, nientedemeno moiti
suonni se trova omo veri como Dio
li inspirassi, spezialmente in perzone temperate, dove non abunnano
fumositate per crapula e per
desusato civo, e in tiempo della notte che se dice aurora, quanno se
parte la notte dallo dìe, ché lo
cerebro stao purificato, li spiriti staco temperati. E de ciò
fao fede lo biato santo Gregorio nello
Dialogo. Dice santo Gregorio che nello monistero sio fu uno monaco de
santa vita e bona lo quale
aveva nome Mierolo. Questo Mierolo fra le moite virtute aveva questa,
che mai non finava de dicere
salmi, salvo quanno manicava e dormiva. Infermao. Dormenno questo
frate Mierolo infermo sonnaose
che una bella corona de variati fiori descegneva da cielo e posavase
nello sio capo. Questo suonno
disse alli monaci. Venne e morìo. Como interpretassi sio
suonno in bona parte, alegramente passao.
Po' li anni XIIII de soa morte un aitro monaco cavava la sepoitura
per uno muorto in quello luoco dove
Mierolo stava sepellito. Como fu cavata, subitamente de quello luoco
iessìo una fraganzia, uno odore
suavissimo, como fussino state in quella fossa rose, viole, igli e
moiti fiori. Dunqua bene fu vero lo
suonno de Mierolo che da cielo li veniva la corona de fiori, li quali
fiori puo' li anni XIIII renniero odore
drento alla fossa. Anco ne fao menzione frate Martino nella soa
cronica. Dice che Marziale
imperatore, lo quale staieva in Constantinopoli, una notte se sonnao
che lo arco de Attila vedeva rotto
in doi parte. Estimao Marziale che Attila fussi muorto; e così
fu lo vero. Questo Attila fu granne rege
e fu granne tiranno. Avea arcieri assai. Tutta Pannonia e Bulgaria
gìo profonnenno. Depopulao moite
citate, Aquileia e aitre. Occise Bella frate sio e fu sconfitto da
Franceschi, Borgognoni e Sanzonesi e
Italiani. Nella quale sconfitta fu muorto lo re de Borgogna e
fuoronce muorti ciento ottanta milia
capora d'uomini, sì che rigo de sangue abunnao. Dunque Attila
re como sconfitto retornao in sio paiese
e adunao grannissima iente de Ongari e de Daziani e tornava per
entrare in Italia. Delle prime terre
che trovassi fu Aqulieia, la quale disfece. Papa Lione santissimo in
quello tiempo viveva. Pregaolo che
se iessissi fòra de Italia; e così fu. Como se partìo
de Italia per tornare in soa contrada, morìo in
Pannonia. La notte de soa morte apparze in suonno a Marziale
imperatore in Constantinopoli in Grecia
l'arco de Attila rotto, donne Marziale estimao che Attila fusse
muorto; e così fu. Anco ne fao
menzione Valerio Massimo dello suonno de Cassio Parmese, lo quale se
retrovao ad occidere Iulio
Cesari, donne se era partito da Roma, iva fuienno. Ottaviano e
Antonio lo sequitavano como nemico
capitale. Questo Cassio una notte se redusse in una piccola fortezza.
Messo a lietto, vidde in suonno
uno omo terribile con una faccia scura, lo quale li menacciava. Soie
menacce erano in lengua greca.
Per doi voite a tale suonno se svigliao. Alla terza se fece venire lo
lume e commannao che li suoi
servienti lo guardassino. Anco quello medesimo suonno vidde la
dimane. Le legione de Ottaviano e
l'oste de Antonio li fu sopra, e sì fu preso Cassio e sì
li fu tronco lo capo. Aristotile lo filosofo de ciò
fao menzione e speziale trattato in un sio livro lo quale hao nome De
Suonno e Vigilia, nello capitolo
della divinazione nello suonno. Dice Aristotile e quelli li quali
sequitano la soa opinione che·llo suonno
pote essere vero naturalmente. E ciò sottilemente demustra per
una cutale via. In prima suppone lo
filosofo che questa differenzia sia fra lo vigliare e·llo
dormire. Nello vigliare granni movimenti pargo
allo imaginare piccoli, nello dormire li movimenti e·lle cose
piccole pargo granne. Como incontra che in
alcuna perzona poca de flemma dolce li destilla per la vocca e pareli
assaiare zuccaro, mele e
cennamo. In alcuno abunna poca de collora e pareli vedere saiette
volare per lo cielo, focora, fiamme
e tempestate. In alcuno se move ventositate overo alcuno piccolo
ventariello e pareli vedere che tutte
le ventora tempiestino. La cascione de ciò sì ène
che nello sopore tutti li spiriti staco insiemmora
redutti drento alla fantasia ed alla imaginativa, donne soco più
temperati a comprennere; anco, perché
soco adunati, soco più potienti in soa operazione. Nello
vigliare li spiriti so' despierzi, le cose soco varie
e moite; e quanno la virtute stao unita, ène più forte
che quanno ène sparza. Ià avemo che li spiriti
nella notte staco solliciti, intentorosi, e piccola cosa li move. La
secunna cosa presuppone Aristotile
ène questa. Dice: "Ciò che noi operamo ène
per l'airo, senza lo quale vivere non se pote. L'airo ène in
mieso de noi. La favella umana vao da omo in omo, perché
l'airo ène refratto da omo in omo. L'airo se
muta e move secunno le mutazioni le quale l'uomini faco, como è
delle densitati delle forme che apparo
nello spiecchio". Pone un aitro esempio: "Alcuno ietta la
preta nello laco. La preta move l'acqua.
L'acqua, mossa una parte, move l'aitra parte vicina in muodo de rota
e tante rote fao quanto dura la
potenzia dello vraccio. Stao lo pescatore con sio amo, pesca, non
vede quello che la preta iettao, ma
vede li cierchi che l'acqua fao. Conosce che omo li fao impaccio allo
pesce prennere. Movese e veone
a pregare che non ietti prete più". Così, dice
Aristotile, la favella, le operazione umane mutano l'airo.
L'airo mutato da parte in parte perveo allo sentimento umano e delli
aitri animali, como incontra che·lla
camarda e·lle morte corpora iettano vapori corrotti per lo
airo e perveo allo odorato delli lopi e delli
avoitori, donne se scrive che cinqueciento miglia lo avoitore curre
alle corpora morte. Questo non fora
per aitro se non per la mutazione che fa l'airo continuato da cuorpo
a cuorpo. Ora vole Aristotile che
non solamente li effetti delle cose mutino l'airo, ma anco se muta
l'airo per lo volere, li penzamenti dello
omo; ché, quanno uno vole occidere un aitro, li spiriti se·lli
infiammano aduosso. Li spiriti infiammati
mutano l'airo secunno qualitate de quella collora accesa. L'airo
mutato se continua colla perzona che
deve essere offesa. Nella perzona che offesa deo essere staco li
spiriti temperati secunno la
connizione dello suonno, comprenno l'ira dello omo sopra de sé
secunno alcuna specie, in tale specie o
simile. Questa ène la rascione naturale la quale adduce lo
filosofo. Dunqua non fu inconveniente se
quello imperatore vidde in suonno l'arco de Attila rotto; ché
per la morte de Attila l'airo mutao nello
emisperio de parte in parte l'airo senza contradizzione, sì
che pervenne allo spirito dello imperatore
dormente. Ora voglio tornare alla materia. Puoi che lo profietto
obedìo e assenao la rocca de
Respampano, incontinente li fu rassenato in Maretima lo forte e
opulente castiello de Cere, puoi
Monticielli da priesso a Tivoli, Vitorchiano da priesso de Vitervo,
la rocca de Civitavecchia canto
mare, lo Piglio in Campagna e Puorto canto Tevere. Abbe allora alle
soie mano le fortellezze, li passi
e·lli ponti de Roma in tutto. Allora prese core e ordinao
Ianni Colonna capitanio contra quelli de
Campagna, se fussino rebelli, specialmente contra lo conte de Fonni,
Ianni Gaietano; lo quale Ianni e li
Campanini obediero. Lo profietto in segno de vera obedienzia mannao
Francesco sio figlio per staio,
moito onoratamente accompagnato. Allora Cola de Buccio de Braccia,
uno potente che abita sopre le
montagne de Riete, fuìo e aizao de la più corta longa
da terra de Roma. Puoi fece in Campituoglio una
moito bella cappella renchiusa con fierri stainati. Là drento
faceva cantare solenne messa con cantori
assai e moita illuminaria. Puoi se faceva stare denanti a sé,
mentre sedeva, tutti li baroni in pede ritti
colle vraccia piecate e colli cappucci tratti. Deh, como staievano
paurosi! Avea questo una soa moglie
moito iovine e bella, la quale, quanno iva a Santo Pietro, iva
accompagnata da iovini armati. Delle
patricie la sequitavano. Le fantesche colli sottili pannicielli
'nanti allo visaio li facevano viento e
industriosamente rostavano, che soa faccia non fossi offesa da mosca.
Avea un sio zio: Ianni Varvieri
avea nome. Varvieri fu e fu fatto granne signore e fu chiamato Ianni
Roscio. Iva a cavallo forte
accompagnato da citatini romani. Tutti li suoi parienti ivano a pari.
Avea una soa sorella vedova, la
quale voize maritare a barone de castella. E fece officiali e renovao
de essi onne rascione. Allora
fama e paura de sì buono reimento passao in onne terra. De
citate e terre moito lontane vennero a
Roma perzone le quale accusaro; e quelli che appellaro e quelli che
fuoro puniti no·llo pòtieri credere.
Nella citate de Peroscia fu occuitamente occiso uno Iudio,
ricchissimo usuraro, colla soa Iudea. Per lo
tiempo la esecuzione fu trattata a Roma. Moiti offesi tiranniati
delle citate de Toscana vennero a
Roma e pregavano per Dio che·lli remettessi in loro case. Ad
onne iente bene prometteva. Ora
spessiano li forestieri e·lli alberghi so' repieni per la
folla della moita forestaria. Le case abannonate se
racconciavano. Nello mercato la moita iente curre. Li signori della
Montagna, quelli de Malieti, Todino
de Antonio, li quali de Roma soco sempre stati stranieri, tutti se
rappresentano. In tiempo de tanta
prosperitate, volenno essere solo signore, licenziao lo vicario dello
papa, sio collega, lo quale fu uno
oitramontano, granne decretalista e vescovo de Vitervo, benché
de Avignone, dalli granni prelati,
avessi le moite lettere e·lle moite ambasciate. Allora mannao
uno ammasciatore allo papa significanno
questo stato. Questo ammasciatore, puoi che fu tornato, disse che lo
papa con tutti li cardinali forte
dubitaro. Ora te conto le ammasciate ornate le quale ad esso
venivano. Tutta Roma staieva leta,
rideva, pareva tornare alli anni megliori passati. Venne la
venerabile ammasciata e triomfale de
Fiorentini, de Senesi, de Arezzo, de Tode, de Terani, de Spoleti, de
Riete, de Amelia, de Tivoli, de
Velletri, de Pistoia, de Fuligni, de Ascisci. Queste e moiti aitri
uomini de spettata bontate, perzone
posate, oneste, iudici, cavalieri, mercatanti, belli e facunni
parlatori, uomini de sapienzia, facevano le
ammasciarie. Tutte queste citati e communanze se offierzero allo
buono stato. Le citati de Campagna,
lo ducato, le terre dello Patrimonio se renniero. Sì non
volenno essere sotto la Chiesia lo puopolo de
Gaieta colla ammasciaria mannao dieci milia fiorini e offierzerose.
Veneziani scrissero lettere seiellate
collo seiello pennente de piommo, nelle quale offierzero allo buono
stato le perzone loro e·llo avere.
Missore Lucchino, lo granne tiranno de Milana, mannao una lettera,
nella quale confortao lo tribuno a
bene fare e allo buono stato e ammaiestravalo che cautamente sapessi
domare li baroni. La maiure
parte delli tiranni de Lommardia lo desprezzaro. Ciò fu
missore Tadeo delli Pepoli de Bologna, lo
marchese Obizo de Ferrara, missore Mastino della Scala de Verona,
missore Filippino de Gonzaga de
Mantova, li signori de Carrara de Padova, in Romagna missore
Francesco delli Ordelaffi de Forlì,
missore Malatesta de Arimino e moiti aitri tiranni, li quali, fatta
laida e vituperosa resposta, auto più
maturo consiglio, apparecchiavano de mannare sollenni ambasciate.
Ludovico duce de Bavaria, ià
imperatore, fi' dalla Alamagna mannao secreti ammasciatori e pregava
per Dio che·llo accordassi colla
Chiesia, ché non voleva morire scommunicato. Dello regno de
Puglia li scrisse lo duca de Durazzo e
offerivase. Nello soprascritto diceva: "Allo amico nuostro
carissimo". Anco li scrisse missore Aloisi,
principe de Taranto, e aitri regali. Da Ludovico re de Ongaria veniva
una grossa ammasciata e
onorata. Ià vennero li preventori delli ambasciatori e
pregavano che·llo tribuno collo puopolo de Roma
provedessi sopre la vennetta la quale se dovessi fare della cruda
morte la quale fece lo re Antrea, re
de Puglia, lo quale dalli baroni era stato appeso, como se dicerao
puoi. Erano questi preventori della
ambasciata doi perzone assai notabile, vestute de ricchi verdi
forrati de vari con cappe alamanne.
Quanno lo tribuno intese loro ammasciata, volennoli dare resposta,
menaoli su nello parlatorio denanti a
tutto lo puopolo. Era dìe sabato. Fatto era de alquanti
iustizia. Allora se fece ponere in capo la corona
tribunale, della quale io farraio menzione. Nella mano ritta teneva
uno melo d'ariento colla croce.
Allora favellao e disse: "Iudicaraio la rotonnitate delle terre
in iustizia e li puopoli in ogualitate". Disse
puoi: "Questi soco li ambasciatori delli Ongari, li quali
demannano iustizia della morte dello aitro
innocente re Antrea". Dalla reina Iuvanna, moglie dello re
Antrea, infelice re, abbe lettere graziose,
dalla quale medesima la tribunessa ne abbe cinqueciento fiorini e
iole. Dallo santo patre apostolico
lettere abbe che facessi bene. Da moiti prelati lettere abbe speciali
che sapessi suiere le zinne della
santa Chiesia como de pietosa e dolce matre. Ora Filippo de Vallois,
re de Francia, lettera manna per
uno arcieri. La lettera era scritta in vulgare; non era pomposa, ma
era como lettera de mercatanti.
Quanno la lettera fu ionta in Roma, lo tribuno era caduto de sio
dominio, lo stato era rotto, donne fu
assenata alli signori de Castiello Santo Agnilo, e Agnilo Malabranca,
cancellieri de Roma, l'abbe in soie
mano. Voglio alcuna cosa breviare delle magnifiche resposte le quale
daieva. Venne a Roma
l'ammasciata dello principe de Taranto. Tre fuoro li ammasciatori,
uno arcivescovo dello ordine de
santo Francesco, mastro in teologia, uno cavalieri a speroni d'aoro,
uno iudice con bella compagnia,
some e aitro arnese. Quanno li tre ammasciatori fuoro denanti allo
tribuno, lo arcivescovo propuse
queste paravole: "Misit viros renovare amicitiam ". Puoi se
destese e disse como loro signore se
alegrava moito de sì fatto stato. Puoi lo confortava. Puoi se
offerìo. Puoi domannava che Romani
fussino una con esso a contrariare allo re de Ongaria, lo quale
veniva ad ardere e refocare lo reame
de Puglia. Ditte queste paravole, lo ammasciatore fece fine. A queste
paravole lo tribuno senza
provisione alcuna respuse per questa via. In prima propuse così:
"Sit procul a vobis arma et gladius.
Terra marique sit pax ". Puoi disse: "Avemo alquanti
populari, colli quali auto consiglio, a voi darremo
resposta". Quanno lo frate, mastro in teologia, queste paravole
abbe intese, subitamente esbauttìo sì
forte che brevemente non sapeva que dicere. La cascione dello sio
sbaottimento fu questa, che·lla
resposta dello tribuno responneva alla proposta e ambedoi erano de un
tiesto, poco da longa l'uno
dall'aitro, nello livro de Maccabei. L'opera fu così. Iente
straniera per forza entraro nello reame de
Iudea. Li regali de Iudea forte resistenzia fecero. La guerra fu
granne. Li campi non fuoro coitivati.
La carestia era granne per la contrada. Non avevano foraggio.
Convenne che Iudiei recurressino a
Romani, colli quali avevano lega. Donne mannaro a Roma li
ammasciatori per renovare questa
amistanza, ca volevano aiuto e succurzo. Anco vennero e adomannaro
grano per la carestia che
aveano. In ciò adussero navi e addussero moneta assai. Romani
respusero in una lettera, scrissero che
essi ortavano non essere guerra in loro paese de Iudea e che pace li
donassi Dio per terra e per mare.
All'opera della annona li Romani caricaro le navi de grano e·lla
moneta misero nelli sacchi, e sì
mannaro lo grano e remannaro in reto la moneta. De ciò lo
frate esbaottìo, ca penzao in sio animo:
"Moito ène savio omo questo tribuno, moita scienzia sao,
ché me hao respuosto per lo tiesto della
Abibia in quella colonna dove stava la mea proposta. Certo moito sao,
moita memoria e prodezza hao".
Ora te voglio contare alcuna cosa della iustizia la quale questo
faceva. Confesso che quelli che in
Roma venno carne o pesce siano li peiori uomini dello munno; onne
iente suoglio imbrattare. Allora
dicevano nettamente: "Questa carne ène de peco, questa
ène de crapa, questa ène sediticcia. Questo
pesce ène buono, questo ène rio". Nettamente
ciasche arte diceva la veritate. Fra li aitri ambasciatori
uno monaco nero della citate de Castiello venne a Roma. Albergao in
Campo de Fiore. Là, po'
vespero, levato da cena non potéo trovare la cappa, la quale
avea lassata fòra; era furata. Abbe lo
monaco alquante paravole coll'oste. L'oste diceva: "Non me
assenasti cappa". Non valenno lo turbare
a trovare la cappa, lo monaco ne gìo denanti allo tribuno e
disse: "Missore, io me pusi a cena. Lassai
mea cappa de fore dallo albergo. Credeva che vostra signoria me·lla
conservassi. Ora me ène furata.
Non la pozzo reavere. Monaco sacrato so'. In gonnella ne vado leieri
a muodo de sparvieri". A ciò
respuse lo tribuno e disse: "Toa cappa salva ène".
Mannao per panni. In quello stante li fece tagliare e
cosire ricca cappa de quello panno de quello colore. Ora torna lo
monaco moito contento allo albergo e
disse: "Io non aio perduta cosa alcuna. Ecco la mea cappa".
Lo notaro dello tribuno scrisse li confini
dello luoco, e se·lla ruvina soa maturata non fussi, ne
traieva più de milli fiorini. Nello terreno dello
castiello de Crapanica fu derobato uno vetturale. Be·lli fu
tuoito uno mulo e una soma de uoglio. Per
bona fede lo conte Bertuollo, de cui era la signoria dello castiello,
mannao per lo uoglio e per lo mulo
fiorini trenta e quattrociento fiorini pacao per connannazione, ché
male guardao lo paiese. Anco uno
currieri li portao lettere. Dormenno in sio albergo de notte un aitro
currieri lo ammazzao e toizeli soa
moneta. Essenno lo malefattore preso, fu sotterrato vivo e de sopra
da esso in una fossa fu messo lo
occiso. Anche più bella questione della morte de re Antrea se
devolveva a Roma. Li abocati da parte
dello re de Ongaria e·lli abocati da parte della reina Iuvanna
comparzero denanti alla banca dello iudice
dello tribuno e questionavano. Li abocati dello re domannavano
iustizia. Quelli della reina dicevano ca
in la reina non fu alcuna colpa della morte de sio marito. L'aitra
parte se mormorava della iniuria e con
instanzia domannava vennetta. Le abocazioni dell'una parte e della
aitra se mettevano in livro. Questa
fu cosa magna de non poco onore. Ora te voglio contare como fu fatto
cavalieri a granne onore. Puoi
che lo tribuno vidde che onne cosa li succedeva prospera e che
pacificamente, senza contradizzione,
reieva, comenzao a desiderare l'onoranza della cavallaria. Dunqua fu
fatto cavalieri bagnato nella notte
de santa Maria de mieso agosto. La grannezza de questa festa fu per
questa via. In prima
apparecchiao alle nozze tutto lo palazzo dello papa con onne
circustanzia de Santo Ianni in Laterano e
per moiti dìi denanzi fece le menze da magnare delle tavole e
dello lename delli renchiostri delli baroni
de Roma. E fuoro stese queste menze per tutta la sala dello viecchio
palazzo de Constantino e dello
papa e lo palazzo nuovo, sì che stupore pareva a chi lo
considerava. E fuoro rotti li muri delle sale
donne venivano scaloni de leno allo scopierto per ascio de portare la
cucina la quale là se coceva. E ad
onne sala apparecchiao lo cellaro de vino nello cantone. Era la
viilia de santo Pietro in Vincola. Ora
era de nona. Tutta Roma, maschi e femine, ne vaco a Santo Ianni.
Tutti se apparecchiano sopra li
porticali per la festa vedere e nelle vie piubiche per vedere questo
triomfo. Allora venne la moita
cavallaria de diverze nazione de iente, baroni, populari, foresi a
pettorale de sonaglie, vestuti de
zannato, con banniere. Facevano granne festa, currevano iocanno. Ora
ne viengo buffoni senza fine.
Chi sona tromme, chi cornamuse, chi cerammelle, chi miesi cannoni.
Puoi questo granne suono venne
la moglie a pede colla soa matre. Moite oneste donne la
accompagnavano per volerli compiacere.
Denanti alla donna venivano doi assettati iovini, li quali portavano
in mano uno nobilissimo freno de
cavallo tutto 'naorato. Tromme d'ariento senza numero ora vedesi
trommare. Po' questi venne gran
numero de iocatori da cavallo, fra li quali Peroscini e Cornetani
fuoro li più avanzarani. Doi voite
iettaro loro vestimenta de seta. Puoi veniva lo tribuno e·llo
vicario dello papa allato. Denanzi allo
tribuno veniva uno lo quale portava in mano una spada nuda. Sopra lo
capo un aitro li portava uno
pennone. In mano portava una verga de acciaro. Moiti notabili erano
in soa compagnia. Era vestuto
con una gonnella bianca de seta miri candoris, inzaganata de aoro
filato. La sera, fra notte e dìe,
sallìo nella cappella de Bonifazio papa, favellao allo puopolo
e disse: "Sacciate ca questa notte me dego
fare cavalieri. Crai tornarete, ca oderete cose le quale piaceraco a
Dio in cielo, alli uomini in terra". In
tanta moititudine da onne parte era letizia. Non fu orrore, non arme.
Doi perzone àbbero paravole.
Adirati trassero le spade. 'Nanti che colpo menassino le tornaro in
loro guaine. Onneuno vao in soa
via. Delle citate vicine a questa festa vennero li abitatori, che più
è, li veterani e·lle poizelle, vedove e
maritate. Puoi che onne iente fu partuta, allora fu celebrato uno
solenne officio per lo chiericato. E po'
lo officio entrao nello vagno e vagnaose nella conca dello imperatore
Constantino, la quale ène de
preziosissimo paragone. Stupore ène questo a dicere. Moito
fece la iente favellare. Uno citatino de
Roma, missore Vico Scuotto cavalieri, li cenze la spada. Puoi se
adormìo in uno venerabile lietto e
iacque in quello luoco che se dice li fonti de Santo Ianni, drento
dallo circuito delle colonne. Là compìo
tutta quella notte. Ora odi maraviglia. Lo lietto e·lla
lettiera nuovi erano. Como venne lo tribuno a
sallire a lietto, subitamente una parte dello lietto cadde in terra
et sic in nocte silenti mansit. Fatta la
dimane, levase su lo tribuno vestuto de scarlatto con vari, centa la
spada per missore Vico Scuotto,
con speroni d'aoro, como cavalieri. Tutta Roma, onne cavallaria, ne
vao a Santo Ianni, anco li baroni e
foresi e citadini per vedere missore Nicola de Rienzi cavalieri.
Faose granne festa, faose letizia.
Staieva missore Nicola como cavalieri ornato nella cappella de
Bonifazio papa sopra la piazza con
solenne compagnia. Là se cantava solennissima messa. Non ce
mancao cantore, non apparato de
ornamento. Mentre che tale solennitate se celebrava, lo tribuno se
fece 'nanti allo puopolo, mise gran
voce e disse: "Noi citemo missore papa Chimento che a Roma venga
alla soa sede". Puoi citao lo
colleio delli cardinali. Anco citao lo Bavaro. Puoi citao li elettori
dello imperio in la Alamagna e disse:
"Voglio che questi vengano a Roma. Voglio vedere che rascione
haco nella elezzione"; ca trovava
scritto che, passato alcuno tiempo, la elezzione recadeva a Romani.
Fatta tale citazione, prestamente
fuoro apparecchiate lettere e currieri e fuoro messi in via. Puo'
questo trasse fòra della vaina la soa
spada e ferìo lo aitare intorno in tre parte dello munno e
disse: "Questo è mio, questo è mio, questo è
mio". Era là presente a queste cose lo vicario dello
papa. Stava como leno idiota. Non sentiva, ma
stupefatto de questa novitate contradisse. Abbe un sio notaro e per
sentenzia piubica se protestao e
disse ca queste cose non se facevano de soa voluntate, anco senza soa
coscienzia e licenzia de papa;
e de ciò pregao lo notaro che ne traiessi piubico instrumento.
Mentre che lo notaro gridanno ad aita
voce queste protestazioni allo puopolo faceva, commannao missore
Nicola che tromme, trommette,
naccari e ceramelle sonassino, che per lo maiure suono la voce dello
notaro non se intennessi. Lo
maiure suono celava lo minore. Viziosa buffonia! Fatta questa cosa,
la messa e soa solennitate finita
fu. Intienni una cosa notabile. Continuamente in quello dìe,
dalla dimane nell'alva fi' a nona, per le nare
dello cavallo de Constantino, lo quale era de brunzo, per canali de
piommo ordinati iessìo vino roscio
per froscia ritta e per la manca iessìo acqua e cadeva
indeficientemente in la conca piena. Tutti li
zitielli, citatini e stranieri, li quali avevano sete, staievano allo
torno, con festa vevevano. Puoi che
palesato fu che vagnato era nella conca de Constantino e che citato
avea lo papa, moito ne stette la
iente sospesa e dubiosa. Fu tale che lo represe de audacia, tale
disse che era fantastico, pazzo. Ora ne
vaco allo solennissimo pranzo de varietate de moiti civi e nuobili
vini signori e donne assai. Sedéo
missore Nicola e·llo vicario dello papa soli alla tavola
marmorea - menza papale ène - nella sala de
Santo Ianni, la vecchia. Tutta quella sala fu piena de menze. La
moglie colle donne manicao nella sala
dello palazzo nuovo dello papa. In questo pranzo fu maiure carestia
de acqua che de vino. Chi voize
stare allo pranzo stette. Non ce fu ordine alcuno. Abbati, chierichi,
cavalieri, mercatanti e aitra iente
assai. Confietti de divisate manere. Funce abunnanzia de storione, lo
pesce delicato, fasani, crapetti.
Chi voleva portare lo refudio, portava liberamente. A tale convito
fuoro li ammasciatori li quali ad esso
erano venuti de diverze parte. Mentre lo manicare se faceva, senza li
aitri buffoni moiti, fu uno vestuto
de cuoro de vove. Le corna in capo avea. Vove pareva. Iocao e saitao.
Fornito lo pranzo, cavalca
missore Nicola de Rienzi a Campituoglio, vestuto de scarlatto con
vari, con granne cavallaria. Non
lassaraio quello che ordinao nella soa salluta. Fece una cassa con
uno forame de sopre quanno in
prezzo, puoi devenne in vilitate. Anche se fece uno capelletto tutto
de perne, moito bello, e su nella
cima staieva una palommella de perne. Questi divierzi vizii lo fecero
tramazzare e connusserollo in
perdimento per questa via. Uno dìe convitao a pranzo missore
Stefano della Colonna lo vegliardo, della
cui bontate ditto ène de sopre. Como fu ora de pranzo, così
lo fece menare per forza in Campituoglio e
là lo retenne. Puoi fece menare Pietro de Agabito, signore de
Iennazzano, lo quale fu prepuosto de
Marziglia e allora era senatore de Roma. Anco fece menare per forza
Lubertiello, figlio dello conte
Vertollo, lo quale era senatore. Anco questi doi senatori fece menare
a Campituoglio como fussino
latroncielli. Anco retenne lo prosperoso iovine Ianni Colonna, lo
quale alli pochi dìi avea fatto capitanio
sopra Campagna. Anco retenne Iordano delli Orsini dello Monte, anco
missore Ranallo delli Orsini de
Marini. Retenne Cola Orsino, signore dello Castiello Santo Agnilo.
Retenne lo conte Vertollo, missore
Orso de Vicovaro delli Orsini e moiti aitri delli granni baroni de
Roma. Non abbe Luca de Saviello né
Stefano della Colonna né missore Iordano de Marini. Li
sopraditti baroni abbe in sia destretta presone
lo tribuno, sotto guardia, e tenneli sotto spezie de tradimento,
dannoli ad intennere ca se voleva
consigliare con essi, ad alcuni per pranzare. Venuta la sera, li
populari romani moito biasimavano la
malizia delli nuobili e magnificavano la bontate dello tribuno.
Allora missore Stefano lo veglio mosse
una questione: quale era meglio ad un rettore de puopolo, l'essere
prodigo overo avaro? Moito fu
desputato sopra ciò. Dopo tutti missore Stefano, presa la
ponta della nobile guarnaccia dello tribuno:
"Per ti, tribuno, fora più convenevole che portassi
vestimenta oneste de vizuoco, non queste pompose".
E ciò dicenno li mostrao la ponta della guarnaccia. Questo
odenno Cola de Rienzi fu turbato. La sera
era. Fece stregnere tutti li nuobili e feceli aiognere guardie.
Missore Stefano lo veterano fu renchiuso
in quella sala dove se fao lo assettamento. Tutta la notte stette
senza lietto. Annava de là e de cà,
toccava la porta, pregava le guardie che·lli operissino. Le
guardie non lo scoitavano. Crudele cosa
fatta li fu in tutta quella notte senza pietate. Ora se fao dìe.
Lo tribuno avea deliverato de troncare la
testa ad onneuno nello parlatorio per liberare del tutto lo puopolo
de Roma. Commannao che lo
parlatorio fussi parato de panni de seta de colori rosci e bianchi, e
fatto fu. Ciò fece in segnale de
sangue. Puo' fece sonare la campana e adunao lo puopolo. Puoi mannao
lo confessore, cioène uno
frate minore, a ciasche barone, che se levassino a penitenza e
prennessero lo cuorpo de Cristo.
Quanno li baroni sentiero tale novella una collo stormo della
campana, deventaro sì ielati che non
potevano favellare, non sapevano que·sse fare. La maiure parte
se umiliao e prese penitenza e
communione. Missore Ranallo delli Orsini e alcuno aitro, perché
la dimane per tiempo avevano
manicate le ficora fiesche, non se potiero communicare. Missore
Stefano della Colonna non se voize
confessare né communicare. Diceva che non era apparecchiato,
né soie cose aveva despenzate.
Intanto alcuni citatini romani consideranno lo iudicio che questo
voleva fare, impedimentierolo con
paravole dolci e losenghevile. Alla fine ruppero lo tribuno in soa
opinione e levarolo de proponimento.
Era ora de terza. Tutti li baroni como dannati, tristi, descesero
ioso allo parlatorio. Sonavano le tromme
como se volessino iustiziare li baroni denanti allo puopolo. Lo
tribuno, mutato dello sio proponimento,
sallìo nella aringhiera e fece uno bello sermone. Fonnaose
nello paternostro:"Dimitte nobis debita".
Puoi scusao li baroni e disse ca volevano essere in servizio dello
puopolo, e pacificaoli collo puopolo.
Ad uno ad uno inchinaro lo capo allo puopolo. Alcuni de loro fece
patrizii, alcuni fece profietti sopra la
annona, alcuni duca de Toscana, alcuni duca de Campagna. E deo a
ciascheuno una bella robba
forrata de varo, adorna, uno confallone tutto de spiche de aoro. Puoi
li fece pranzare con esso e
cavalcao per Roma e menaoselli dereto. Puoi li lassao ire in loro
viaii salvi. Questo fatto moito
despiacque alli descreti. Disse la iente: "Questo hao acceso lo
fuoco e·lla fiamma la quale non porrao
spegnere". E io li dico questo proverbio: "Chi vole pedere,
puoi culo stregnere, fatigase la natica".
Vengote a dicere in que muodo fu assediato lo castiello de Marini.
Puoi che li baroni fuoro lassati, non
curaro de compagnia. Vacone fòra de Roma alle loro
fortellezze. Fra dienti menacciavano. Non era
accottiante alcuno comenzare la varatta con Romani. Fra tanto
Colonnesi e·lli signori de Marini,
missore Ranallo e missore Iordano, fortificavano le loro fortellezze.
Secretamente faco una iura.
Mustrano ca voco rebellare. Fortificano Marini e renovano lo fossato
intorno. Menano uno forte
steccato de doppie lena. Tanta fu la pascia dello tribuno, che ciò
non sappe vetare. Non se parao allo
principio. Aspettao fi' che lo castiello fu forte guarnito. Fra tanto
questo tribuno deventao iniquo. Moita
iente de esso se mormorava. Puoi che lo castiello de Marini bene fu
inforzato, guarnito de saiette,
lance e uomini, vettuaglia e mura, lename e vino, la rebellione se
scoperze. Folli mannato lo editto che
comparessi. Allo messaio fuoro fatte non meno de tre ferute in capo,
là fra le vigne de Marini. Puoi
essivano fòra de Marini e onne dìe predavano li campi
de Roma. Menavano vuovi, pecora, puorci,
iumente. Tutto connucevano a Marini. Ora vedese per Roma sciliare de
gote. Onne perzona lagnata
strilla. Rancore e paura nasco. Un'aitra voita lo tribuno li citao e
commannao che venissino a Roma a
pede sotto pena dello sio furore. Puoi commannao che fussino penti
missore Ranallo e missore Iordano
'nanti allo palazzo de Campituoglio como cavalieri, collo capo de
sotto retrosi e·lli piedi de sopra.
Perciò peio ne fao missore Iordano. Curreva fi' a porta de
Santo Ianni e prenneva uomini e femine,
armenti de vestie. Onne cosa ne porta a Marini. Missore Ranallo, lo
frate, ne passao de·llà dallo
Tevere e entrao nella citate de Nepe e curreva de·llà e
de cà ardenno e predanno. Ardeva terre. Arze
la castelluzza, case e uomini. Non se schifao de ardere una nobile
donna vedova veterana in una torre.
Per tale crudelitate li Romani fuoro più irati. Moito haco
conceputo contra missore Ranallo e missore
Iordano. Non pare opera da gabe. La perverza mente de Romani fu
contra Colonnesi. Era allora le
vennegne. L'uva era matura. La iente la pistava. Allora lo tribuno
adunao tutto lo puopolo armato e
trasse fòra l'oste de Roma e iessìo fòra sopre
lo castiello de Marini e locao sio esercito in uno luoco lo
quale se dice la Maccantregola. Valle ène sotto una selva,
longa dallo castiello forza un miglio. L'oste
fu bella, grossa e potente, de pedoni e de cavalieri. Fuoro pedoni da
vinti milia, cavalieri da ottociento.
Era lo tiempo forte corocciato e piovoso per tale via, che impacciava
l'oste. Non li lassava fare guasto
alcuno. Alla fine, in spazio forze da otto dìi, guastaro tutto
ciò che era intorno allo castiello de Marini.
Tutto depopularo lo sio terreno. Tagliaro vigne, arbori; arzero mole;
scaizaro la nobile selva non
toccata fi' a quello tiempo. Onne cosa guastaro. Per anni quello
castiello non fu tale né tanto. Puoi
trassero delli arnari preda secunno che se potéo. Tutta Roma
iaceva là. In questi dìi sopravenne a
Roma uno cardinale; legato era de papa. Questo legato infestava
tuttavia con lettere che·llo tribuno
tornassi a Roma, ca·lli voleva alcuna cosa rascionare. Allora
lo tribuno, fatto lo guasto, una dimane per
tiempo levao campo e annao sopra la castelluzza, poco da longa da
Marini. Sùbito la prese, e instanti
fuoro dati per terra li muri intorno. Ià voleva commattere la
rocca e la torre rotonna, dove se era
redutta la fantaria. E per espugnare quella torre avea fatto fare doi
castella de lename, le quale se
voitavano sopra rote. Avea scale e artificii de lename. Mai non
vedesti sì belli ignegni. Apparecchiava
picchioni e aitri instrumenti. Moite ammasciate recipéo in
quello luoco. Curreva de·llà una acquicella.
In quella acquicella vagnao doi cani e disse ca erano Ranallo e
Iordano cani cavalieri. Puoi guastao la
mola. Puoi mosse tutta soa oste e tornao a Roma, perché le
lettere dello legato infrettavano. La matina
per tiempo deo per terra le belle palazza in pede de ponte de Santo
Pietro, in fronte de Santo Cieizo.
Puoi ne ìo con soa cavallaria a Santo Pietro. Entrao la
sacristia e sopra tutte le arme se vestìo la
dalmatica de stati de imperatore. Quella dalmatica se viesto li
imperatori quanno se incoronano. Tutta
ène de menute perne lavorata. Ricco ène quello
vestimento. Con cutale veste sopra l'arme a muodo de
Cesari sallìo lo palazzo dello papa con tromme sonanti e fu
denanti allo legato, soa bacchetta in mano,
soa corona in capo. Terribile, fantastico pareva. Quanno fu pervenuto
allo legato, parlao lo tribuno e
disse: "Mannastivo per noa. Que ve piace de commannare?"
Respuse lo legato: "Noa avemo alcune
informazioni de nuostro signore lo papa". Quanno lo tribuno ciò
odìo, iettao una voce assai aita e disse:
"Que informazioni so' queste?" Quanno lo legato odìo
sì rampognosa resposta, tenne a si e stette
queto. Deo la voita in reto lo tribuno e fao guerra contra Marini,
Marini contra Romani. Ora te vengo a
contare como Colonnesi fuoro sconfitti in Roma. La guerra era forte.
Li citatini de Roma parevano
forte affannati della fatica e dello desciascio e dello danno. Lo
tribuno non pacava li sollati como
soleva. Granne bisbiglio per la citate era. Li cavalerotti de Roma
scrissero lettere a Stefano della
Colonna, che venissi con iente, ca·lli volevano aperire la
porta. Li Colonnesi fecero la adunata in
Pellestrina, numero de setteciento cavalieri, pedoni quattro milia.
Per forza voco tornare a Roma. Moiti
baroni so' nella iura con essi. Granne apparecchio se fao in
Pellestrina. E per tornare a Roma
daievano dolce resposta ca volevano venire alle loro case. De questa
adunanza lo tribuno forte
spaventao e deventao como fussi infermo, matto. Non prenneva civo né
dormiva. Una dimane
tiempori, 'nanti alla sconfitta forze tre dìi, parlao allo
puopolo e confortaolo e fra le moite paravole
disse: "Sacciate ca in questa notte me ène apparzo santo
Martino, lo quale fu figlio de tribuno, e
disseme:"Non dubitare, ca tu occiderai li nimici de Dio"".
L'aitra dimane sequente, de notte moito
tiempori, sonao soa campana a stormo. Adunao lo puopolo tutto armato.
Assettato parlao e disse:
"Signori, facciove asapere ca in questa notte me apparze santo
Bonifazio papa e disseme che oie in
questo dìe farremo vennetta delli suoi nimici colonnesi, li
quali sì laidamente vituperaro la Chiesia de
Dio". Puoi disse: "Aio uno figlio - Lorienzo hao nome - que
verrà con meco alla vattaglia contra li
traditori dello puopolo e contra li periuri". Puoi disse:
"Sapemo per le spie nostre ca questa iente ène
venuta e posata appriesso alla citate a quattro miglia in uno luoco
che se dice Monimento. Donne ène
vero segnale che non solamente serraco sconfitti, anco serraco occisi
e sepelliti nello Monimento". E
ditto questo, fece sonare tromme, ceramelle e naccari, e ordinao le
vattaglie e fece li capitanii delle
vattaglie, e deo lo nome"Spirito Santo cavalieri". Ciò
fatto, quetamente, senza romore, colle legione,
ordinati da pede e da cavallo, se ne vaco a porta Santo Lorienzo, la
quale hao nome porta Tevertina.
Delli baroni fuoro collo puopolo Iordano delli Orsini, Cola Orsino de
Castiello Santo Agnilo,
Malabranca cancellieri della Poscina, Matteo figlio dello
cancellieri, Lubertiello figlio dello conte
Vertollo, moiti aitri. Non voglio lassare lo muodo che servao lo
tribuno dello profietto 'nanti la sconfitta.
Lo tribuno mannao per lo profietto. Lo profietto volenno obedire
venne con ciento cavalieri per essere
alla vattaglia in servizio de Romani. Da XV baronetti de Toscana
aveva con seco menati. Anco avea
menato sio figlio Francesco. Quella fu la prima voita que arme
portao. Denanti a sé mannao
cinqueciento some de grano per grascia, como se conveo a profietto.
Erase sforzato de compiacere a
Romani. Como fu ionto, fu invitato a pranzo. Sedenno, li fu tuoito le
arme a si e alli suoi compagni.
Puoi fu messo in presone esso e·llo figlio. Lo arnese e·lli
cavalli li fu tuoito e dati per Romani. E fece
uno parlamento lo tribuno allo puopolo, nello quale disse lo tribuno:
"Non ve maravigliate che io tengo in
presone lo profietto, ca esso era venuto per ferire da costa e per
sconfiere lo puopolo de Roma". Ora
torno alla vattaglia. Colonnesi se muossero con granne esfuorzo da
Monimento dalla mesa notte e
connusserose allo munistero de Santo Lorienzo fòra le mura.
Era lo tiempo rencrescevile per la piovia
e per lo aspero freddo. Adunarose li baroni, Stefano della Colonna,
Ianni sio figlio, Pietro de Agabito,
lo quale era stato prepuosto de Marzilia, signore de Iennazzano,
missore Iordano de Marini, Cola de
Buccio de Braccia, Sciarretta della Colonna e moiti aitri. Vennero a
consiglio de que devessino fare,
perché Stefano era infestato da un vomaco e tremava como
fronne. Pietro de Agabito, essenno un
poco affannato, sonnato se aveva de vedere la soa donna vedova che
piagneva e sciliavase. Per paura
de tale suonno se voleva da l'oste assentare. Non se voleva trovare
alla rotta. Anco odivano sonare la
campana a stormo. Sapevano che lo puopolo forte irato era e
corocciato. Anco perché Stefano della
Colonna, capitanio de tutta l'oste generale, como ionze là
denanti a tutti, la prima cosa, solo con un
fante, a cavallo a un palafreno ne gìo alla porta de Roma e
comenzao a chiamare ad aita voce la
guardia a nome. Pregava che operissi la porta. Adduceva queste
rascioni: "Io so' citatino de Roma.
Voglio a casa mea tornare. Vengo per lo buono stato". Portava lo
confallone della Chiesia e dello
puopolo. A queste paravole respuse la guardia della porta - Pavolo
Bussa avea nome lo buono
valestrieri - e disse: "Quella guardia che chiamate qua non
stao. Le guardie so' mutate. Io so' venuto
de nuovo qua con miei compagni. Voi non potete entrare qua per via
alcuna. La porta ène inzerrata.
Non conoscete quanta ira hane lo puopolo de voi che turbate lo buono
stato? Non odite la campana?
Pregove per Dio, partiteve. Non vogliate essere a tanto male. In
segno che voi non pozzate entrare
ecco che ietto la chiave de fòra". Iettao la chiave, e
cadde in una pescolla d'acqua la quale staieva de
fòra per lo malo tiempo che era. Quanno li baroni, staienno in
consiglio, avessino recitate tutte queste
cose, bene viddero che entrare non potevano. Deliveraro de partirese
ad onore, fatte tre schiere,
ordinati venire fi' alla porta denanti de Roma, le sonante tromme e
aitri instrumenti, e dare la voita a
mano ritta, tornare a casa con granne onore. Così fu fatto. Ià
ne erano venute doi vattaglie, la prima
e·lla secunna, sì della pedonaglia sì della
cavallaria. Petruccio Fraiapane fu lo connuttore. Sonate le
tromme alla porta, diero la voita a mano ritta e senza lesione alcuna
tornaro. Ora ne veniva la terza
schiera. In questa era la moititudine della cavallaria, erance la
nobile iente, eranonce li prodi e bene a
cavallo e tutta la fortezza. Uno vanno fu 'nanti messo, che nullo
ferisse sotto pena dello pede. Li primi
feritori fuoro da otto nuobili baroni, fra li quali fu lo
desventurato Ianni Colonna. Questi nuobili primi
feritori 'nanti ivano ad onne moititudine uno buono spazio. Era
allora l'alva dello dìe. Li Romani drento
dalla porta, non avenno la chiave, per forza opierzero la porta per
iessire alla varatta. Granne romore
fao lo ferire delle accette. Granne ène la confusione dello
strillare. La porta ritta fu operta, la manca
remase enzerrata. Ianni Colonna, approssimannosi alla porta,
considerao lo romore drento, considerao
lo non ordinato aperire, estimao che suoi amici avessino muosso
drento romore e che avessino rotta la
porta per forza. Questo considerato Ianni Colonna sùbito se
imbraccia lo pavesotto con una lancia alla
cossa, speronao lo sio destriero. Adorno como barone, forte currenno
non se retenne, entrao la porta
della citate. Deh, como granne paura fece allo puopolo! Allora
denanti a esso deo la voita a finire tutta
la cavallaria de Roma. Similemente tornao a reto tutto lo puopolo
fuienno quasi per spazio de mesa
valestrata. Non per tanto questo Ianni Colonna fu sequitato dalli
suoi amatori, anco remase solo là
como fussi chiamato allo iudicio. Allora Romani presero vigore
intennenno che esso era solo. Anco fu
più la soa desaventura. Lo destrieri lo trasportao in una
grotta poco più de·llà dalla porta, dallo lato
manco entranno la porta. In quella grotta fu scavalcato da cavallo e,
conoscenno sia desaventura,
domannava allo puopolo misericordia e adiurava per Dio che soie
armature no·lli dispogliassino. Que
vaio più dicenno? Là fu denudato e, datoli tre ferute,
morìo. Fonneruglia de Treio fu lo primo che lo
colpiao. Iovine era de bona industria, varva non avea messa. La soa
fama sonava per onne terra de
vertute e de gloria. Iace nudo, supino, feruto, muorto, in uno
monteruozzo canto allo muro della citate
drento dalla porta. Erano suoi capelli caricati de loto. A pena se
poteva conoscere. Ora vedi
maraviglia! Incontinente lo tiempo pestilenziale, turvato, se
comenzao a reschiarare. Lo sole daieva
lucienti raii. De tiempo caliginoso fu fatto sereno e alegro. Intanto
Stefano della Colonna in tanta
moititudine la quale ordinatamente veniva denanti alla porta
teneramente domannao dello sio figlio
Ianni. Respuosto li fu: "Noi non sapemo que aia fatto, dove sia
ito". Allora sospettao Stefano che
avessi entrata la porta. Perciò speronao e solo la porta
entrao e vidde che lo sio figlio iaceva in mieso
de moiti in terra li quali lo occidevano fra la grotta e·llo
pantano della acqua. De ciò, temenno della soa
perzona, tornao a reto, iessìo la porta. La mente razionale lo
abannonao, fu smarrito. Lo amore dello
figlio lo convenze. Non fece paravola alcuna, anco tornao e entrao la
porta se per via alcuna poteva lo
sio figlio liberare. Non se approssimao, ca conubbe che muorto era.
Intenneva a campare la perzona.
Tornava in reto tristo. Nello iessire che faceva della porta, venne
de sopra dallo torriciello una grossa
macina e percosse esso nelle spalle e·llo cavallo nella
groppa. Ora lo sequitano le lance lanciate de·llà
e de cà. Lo cavallo, feruto nello pietto de lancia, iettava
caici, e sì spesso che, non potennose
mantenere a cavallo, cadde per terra. Veo lo puopolo senza rascione e
sì·llo occide in fronte della
porta, in quello luoco dove stao la maine nello parete, in mieso alla
strada. Là iacque nudo in veduta ad
onne puopolo, a chi passava. Non aveva uno delli piedi. Moite ferute
avea. Fra lo naso e·lli uocchi
avea una feruta e sì terribile opertura, che pareva lo guado
delle gote dello lopo. Lo sio figlio Ianni
abbe sole doi ferute nello pettignone e nello pietto. Ora iesse lo
puopolo furioso senza ordine, senza
leie; cerca a chi dea morte. Scontraro li iovini Pietro de Agabito
della Colonna che dereto fu prepuosto
de Marzilia, lo quale chierico fu. Mai vestute non se aveva arme se
non allora. Era caduto da cavallo.
Non poteva liberamente annare, perché la terra era scivolente.
Fugìose in una vigna vicina. Calvo era
e veterano. Pregava per Dio che perdonassino. Non vaize lo pregare.
In prima li tuoizero soa moneta,
puoi lo desarmaro, puoi li tuoizero la vita. Stette in quella vigna
nudo, muorto, calvo, grasso. Non
pareva omo da guerra. Appriesso da esso in quella vigna iaceva un
aitro barone delli signori de
Bellovedere. Fuoro de muorti in poco de spazio da dodici. Alla supina
iacevano. Tutta l'aitra
moititudine, sì de pedoni sì de cavalieri, lassano
l'arme de·llà e de cà senza ordine con granne
paura.
Non se voitavano capo dereto. Non fu chi daiessi colpo. Missore
Iordano levao la fronnosa, non se
retenne fi' a Marini. Sconfitta fu onne moititudine. Abattuti fuoro
li nimici e iacquero muorti in terra, in
veduta delli passanti e de onne puopolo, quelli li quali fuoro
senatori illustri si' ad ora nona. Da vero
che·llo stennardo dello tribuno gìo per terra. Lo
tribuno sbaottito staieva colli uocchi aizati a cielo. Aitra
paravola non disse se non questa: "Ahi Dio, haime tu traduto?"
Puoi che·lla vittoria fu per lo puopolo, lo
tribuno fece sonare soie tromme de ariento e con granne gloria e
triomfo recoize lo campo e pusese in
capo la soa corona de ariento de fronni de oliva e tornao con tutto
lo puopolo triomfante a Santa Maria
dell'Arucielo e là rassenao la verga dello acciaro e·lla
corona della oliva alla Vergine Maria. Denanti a
quella venerabile maine appese la bacchetta e·lla corona in
casa delli frati minori. Da puoi mai non
portao bastone né corona né confallone sopra capo. Po'
questo parlao allo puopolo in parlatorio e disse
ca voleva convertere la spada nella guaina. E trasse la spada e
sì·lla forviva colle vestimenta soie e
disse: "Aio mozzato recchia da tale capo che non lo potéo
tagliare papa o imperatore". Quelle tre
corpora fuoro portate in Santa Maria delli frati, copierti de palii
de aoro, nella cappella de Colonnesi.
Vennero le contesse con moititudine de donne scapigliate per ululare
de sopra li muorti, cioè sopra le
corpora de Stefano, Ianni e Pietro de Agabito. Lo tribuno le fece
cacciare e non voize che·lli fussi
fatto onore né esequio e disse: "Se me faco poco de ira
quelle tre corpora maladette, facciole iettare
nello catafosso delli appesi, ca soco periuri, non soco degni de
essere sepelliti". Allora queste tre
corpora fuoro secretamente de notte portate nella chiesia de Santo
Silviestro dello Capo e là senza
ululato fuoro sepellite dalle monache. Qui voglio un poco delongare
dalla materia. Scrive lo faconno
recitatore Tito Livio che de Africa se mosse uno capitanio, lo
megliore che mai fusse nello munno:
Aniballo de Cartaine abbe nome. Questo Aniballo ruppe la pace a
Romani e desfece la citate de
Sagonza in Spagna a despietto e onta dello senato de Roma. Puoi
passao l'Alpi de cà in Pedemonti e
venne in Lommardia, e là sconfisse Sempronio consolo de Roma
ad uno fiume che se dice Tesino,
canto Pavia. Puoi ne venne in Toscana e là, allo laco de
Peroscia, sconfisse lo esercito de Roma e
tagliao la testa a Fiaminio consolo. Puoi voize commattere Spoleti e
no·llo potéo avere. Puoi deo la
voita in Campagna a Montecasino, e là li venne alla frontiera
Fabio lo saputo con granne oste e tennelo
ad abaio anni tre. Po' li tre anni fuoro mutati li capitanii. Fabio
fu casso. Li capitanii fuoro doi: per li
nuobili fu capitanio Emilio Pavolo, per li populari fu capitanio
Terenzio Varro. Lo sapere e·lla industria
de Aniballo fu tanta che levao questi doi capitanii dalli piedi loro
e connusseli con onne loro potenzia de
cavalieri e de pedoni fi' in Puglia ad uno fiume lo quale se dice
Volturno. E là sconfisse lo puopolo de
Roma, sconfisse doi osti. Là morìo uno delli
imperatori, Emilio Pavolo. Fuoronce muorti ottanta
senatori. Morìoce Servilio, lo quale l'anno passato era stato
consolo. Morieronce tribuni e bona iente
assai. Morieronce quarantaquattro migliara de pedoni. Morieronce otto
milia e ottociento cavalieri.
Dieci milia fuoro li presonieri. Fonce guadagnata robba infinita,
cavalli e arme, aoro e ariento. Li freni
e·lle coperte delli cavalli de Romani erano tutte de aoro
lavorate. Roma fu terribilemente vedovata.
Fatta cotale sconfitta, era ora tarda, calava lo sole. Aniballo
vittorioso staieva forte alegro. Li principi
dell'oste soa li fecero intorno rota e facevanolli festa e alegrezza
dello triomfo che avea in tale dìe.
Puoi li domannaro de grazia che quella notte e·llo dìe
sequente daiessi posa a si e alla soa cavallaria,
perché erano lassi e stanchi. Staieva fra questi principi uno
prodissimo omo, lo quale avea nome
Maharbal. Questo era duca e connucitore della cavallaria. Fecese
'nanti Maharbal e disse queste
paravole: "Aniballo, la opinione mea non è che tu dei
posa né a ti né alli tuoi cavalieri. Vòi tu
sapere
que hai guadagnato oie in questa sconfitta? De qui a cinque dìi
tu vincitore manicarai e farrai festa in
Campituoglio se senza demoranza esequisci la toa fortuna. Dunque lo
posare non fao per ti. Muovi tuoi
cavalieri e toie masnate, non li dare posa. Passemone a Roma. Roma
trovaremo desfornita colle porte
aperte. Serrai signore a queto. Meglio è che Romani
dicano:"Aniballo è venuto" che:"Aniballo deo
venire"". A queste paravole Aniballo respuse e disse:
"Maharbal, io moito laodo la toa bona voluntate,
ma la notte hao consiglio. Vogliomene alquanto penzare e
consigliare". Respuse Maharbal e disse:
"Aniballo, Aniballo, tu sai con tuoi ignegni vencere, ma non sai
usare la vettoria". Dunque dice Tito
Livio: "Quella demoranza fu salutifera allo puopolo de Roma, ca
liberao Romani da servitute e retrasse
lo imperio de mano de Africani, alli quali decadeva". Ora allo
preposito, se Cola de Rienzi tribuno
avessi sequitata la soa vittoria, avessi cavalcato a Marini, prenneva
lo castiello de Marini e desertava
in tutto missore Iordano, che mai non levava capo, e·llo
puopolo de Roma fora remaso in libertate
senza tribulazione. Vengote a dicere como lo tribuno cadde dalla soa
signoria. La dimane po' la
sconfitta fuoro chiamati tutti li cavalieri romani, li quali
appellava"sacra milizia", e disseli: "Vogliove
dare la paca doppia. Vengate con meco". Non sapeva alcuno que
volessi fare. Sonanno le tromme, gìo
a quello luoco dove fu fatta la sconfitta. Menao seco un sio figlio
Lorienzo. Nello luoco dove fu muorto
Stefano remase una pescolla de acqua. Ionto, fece scavalcare lo
figlio e asperzeli sopra l'acqua dello
sangue de Stefano in quella pescolla e disse: "Serrai cavalieri
della vittoria". Maravigliatisi tutti li aitri,
anco stordienti, commannao che·lli conestavili da cavallo
ferissino lo figlio piattoni colle spade là dallo
lommo. Questo fatto, tornao a Campituoglio e disse: "Iate la via
vostra. Opera commune ène quella
che avemo fatta. Avemo tutti sire romani. A noi e a voi spettao
pugnare per la patria". Questo ditto
forte turbao l'animo delli cavalieri. Da puoi mai non voizero arme
portare. Allora lo tribuno comenzao
ad acquistare odio. La iente ne sparlava e diceva ca soa arroganzia
era non poca. Allora comenzao
terribilemente deventare iniquo e lassare le vestimenta della
onestate. Vestiva panni como fussi uno
asiano tiranno. Ià mustrava de volere tiranniare per forza. Ià
comenzao a tollere delle abadie. Ià
prenneva chi pecunia aveva e tollevala. A chi l'aveva imponevali
silenzio. Sì spesso non faceva
parlamento per la paura che avea dello furore dello puopolo. E prese
colore e carne e meglio
manicava, meglio dormiva. Allora lassao lo profietto, perché
non era sano della perzona; tenne in staio
lo figlio. Allora li puopoli lo comenzaro ad abannonare e·lli
baroni, e non tanti tanti ivano a corte per la
rascione como solevano. Allora impuse la data dello sale; voleva
pecunia per sollati. Nientedemeno
missore Iordano de Marini non cessava de infestare onne dìe, e
prenneva e derobava la iente. De
presure se mormorava. Era lo tiempo dello autunno, là dopo le
vennegne. Lo grano era caro, valeva lo
ruio sette livre de provesini. Questo tolleva la pecunia a chi
l'aveva. Missore Iordano predava. Lo
puopolo male se contentava. Lo legato cardinale, dello quale de sopra
ditto ène, lo maledisse e
iudicaolo per eretico. Puoi compuse colli signori, cioène con
Luca Saviello, Sciarretta della Colonna, e
davali in tutto favore. Allora le strade fuoro chiuse. Li massari
delle terre non portavano lo grano a
Roma. Onne dìe nasceva uno romore. Era in quello tiempo in
Roma uno conte cacciato dallo regno:
aveva nome missore Ianni Pepino, paladino de Aitamura, conte de
Minorvino. Questo paladino
demorava in Roma, perché soie grannie e boganze non potevano
patere li regali de Napoli. Cum
familia sua degebat Rome. Missore lo conte paladino in quello tiempo
fece iettare una sbarra in
Colonna. Esso fu lo capo della rottura drento de Roma. La sbarra fu
iettata sotto l'arco de Salvatore in
Pesoli. Una notte e uno dìe sonao a stormo la campana de Santo
Agnilo Pescivennolo. Uno Iudio la
sonava. Non ce traieva alcuno a rompere questa sbarra. Lo tribuno
sùbito mannao per defesa una
banniera da cavallo là a quella sbarra. Uno conestavile, lo
quale avea nome Scarpetta, commattenno
cadde muorto, feruto de lancia. Quanno lo tribuno sappe che Scarpetta
era muorto e che·llo puopolo
non traieva allo sio stormare, consideranno la campana de Santo
Agnilo Pescivennolo sonare,
sospirava forte tutto raffredato, piagneva, non sapeva que se
facessi. Sbaottito e annullato lo sio core,
non avea virtute per uno piccolo guarzone. A pena poteva favellare.
Estimava che in mieso la citate li
fussino puosti li aguaiti; la quale cosa non era, perché nullo
se palesao rebello. Non era chi se levassi
contra lo puopolo, ma solo era raffredato. Se crese essere occiso.
Que vaio più dicenno? Con ciò sia
cosa che non fussi omo de tanta virtute che volessi morire in
servizio dello puopolo, como promesso
aveva, piagnenno e sospiranno fece uno sermone allo puopolo lo quale
là se trovao e disse ca esso
avea bene riesso e per la invidia la iente non se contentava de esso.
"Ora nello settimo mese descenno
de mio dominio". Queste paravole piagnenno quanno abbe ditte,
sallìo a cavallo e sonanno tromme de
ariento, con insegne imperiale, accompagnato da armati triumphaliter
descendit e gìo a Castiello
Santo Agnilo. Là stette celato, renchiuso. La moglie se partìo
in abito de frate minore dello palazzo
dell'Alli. Quanno lo tribuno scenneva de soa grannezza, piagnevano
anco li aitri che con esso
staievano. Piagneva e·llo miserabile puopolo. La cammora soa
fu trovata piena de moiti ornamenti. De
tale lettere messive che fuoro trovate no·llo créseri.
Li baroni sapevano cotale caduta, ma stettero dìi
tre 'nanti che volessino tornare a Roma per la paura. Puoi che
tornaro, demoraro con paura. Li
senatori fatti po' lo tribuno riessero debilemente e penzero lo
tribuno collo capo de sotto e colli piedi de
sopra a muodo de cavalieri nello muro dello palazzo de Campituoglio.
Anco penzero Cecco Mancino,
sio notaro e cancellieri. Penzero Conte sio nepote, lo quale rennéo
la rocca de Civitavecchia. Lo
cardinale legato entrao in Roma e procedeva contra esso e dannao la
maiure parte delli suoi fatti e
disse ca era eretico. Puoi Cola de Rienzi nascosamente ne gìo
in Boemia allo imperatore Carlo e stette
in Praga, la citate regale. Puoi ne gìo allo papa in Avignone
e là sappe sì fare che fu revocato sio
prociesso e fu fatto senatore de Roma per lo papa, e venne a Roma e
fece cose memorabile e granne,
como se dicerao. Puoi fu occiso per lo puopolo e fattone granne
iudicio, como se toccarao nello
capitolo de soa tornata in Italia. Lo paladino, lo quale ruppe Roma
e·llo buono stato, digno Dei iudicio
finao male e vituperosamente morìo. Puo' fatto questo anni
otto, fu appeso per la canna in Puglia, in
una soa terra donne era paladino, la quale avea nome Aitamura. In
capo li fu posta una mitra de carta
a muodo de corona. La lettera diceva così: "Missore Ianni
Pipino cavalieri, de Aitamura paladino,
conte de Minorbino, signore de Vari, liberatore dello puopolo de
Roma". 'Nanti che fussi appeso moito
se reparava con sio favellare, diceva: "Non so' de lenaio de
essere appeso. Moneta faiza fatta non aio,
né dego portare mitra. Se dato è per lo mio male fare
che io mora, tagliateme la testa". La resposta
delli regali fu questa: "Per le toie stomacarie lo re Ruberto te
impresonao in perpetuo carcere. Lo re
Antrea te liberao, fonne amaramente muorto. Delle mano de regali
campare non potevi. Sola Roma te
recipéo e sì te salvao. Tu li tollesti lo sio buono
stato. Tornasti in grazia delli regali. Puoi te facesti capo
de granne compagnia. Arcieri e robatori in toie terre allocavi. Tutto
lo reame consumavi, derobavi,
predavi. Re de Puglia te facevi. Dunqua degna cosa ène che toa
vita fine aia laida e vituperosa, como
hao meritato". Ecco li fatti primi de Cola de Rienzi, lo quale
se fece chiamare tribuno augusto.
Cap. XIX
Della morte de Antreasso re de Puglia, lo quale fu appeso, e como fu comenzata a fare de tal morte iustizia.
..............
Cap. XX
Della venuta dello re de Ongaria in Italia e della morte dello duca de Durazzo, lo quale fu decollato.
...............
Cap. XXI
Della crudele mortalitate per tutto lo munno e delle scale de Santa Maria de l'Arucielo.
....................
Cap.XXII
Dello terratriemulo lo quale fu in Italia.
...................
Cap. XXIII
Dello quinquagesimo iubileo in Roma e della tornata la quale fece lo re de Ongaria in Roma e in Puglia.
Currevano anni Domini MCCCL quanno papa Chimento concedéo alli
Romani la universale
induglienzia de pena e de colpa per uno anno. Dunqua in quello anno
senza impedimento alcuno venne
a Roma tutta la Cristianitate. A questa induglienzia fu lo cardinale
de Bologna su lo mare, legato de
Lommardia, e fonce missore Aniballo de Ceccano, cardinale legato in
Roma per lo papa per correiere
lo puopolo e per ministerio delli pellegrini. Questo cardinale
legato, scritta che abbe soa famiglia,
muosso de Avignone, descenneva in Lommardia. Missore Ianni Visconte
arcivescovo de Milana,
tiranno de Lommardia, li iessìo innanti per farli onore.
Cinque destrieri copierti de scarlatto, menati a
mano, ivano denanti allo arcivescovo. Quanno lo legato vidde questo,
stordìo, favellao e disse:
"Arcivescovo, que pompa, que vanagloria è questa?"
Respuse lo arcivescovo e disse: "Legato, questa
non ène pompa, ma ène ca voglio che saccia lo patre
santo ca esso hao sotto de si uno chierichetto lo
quale pò qualche cosa". A questo arcivescovo non era
possibile de avere questi destrieri, ca erano li
gruossi cavalli delli conestavili li quali aveva sparzi per le
citate. Puoi che lo legato, missore Aniballo, fu
ionto in Roma, posao nello palazzo dello papa e comenzao a provedere
dello stato de Roma e delli
pellegrini. Questo missore Aniballo abbe in sé quattro
proprietati non laudabili: la prima, ca esso fu de
Campagna; la secunna, che esso fu guercio; la terza, fu moito
pomposo, pieno de vanagloria; la quarta
voglio tacere. Questo cardinale, ionto in Roma, venne a descordia con
Romani per questa via. Avea
un sio camiello, lo quale teneva colli muli per la salmaria. La iente
trasse uno dìe a questo camiello per
vederlo nello renchiostro a pede dello palazzo. Granne cosa fao
intorno allo palazzo la iente vana. Chi
lo mira, chi li tocca lo pelo, chi lo capo, chi li bennardi. E·llo
cavalcano. Ora lo voco fare annare.
Granne ène lo cifolare, granne è lo romore. Staieva là
un famiglio dello legato. Parzeli male de tanta
licenzia, reprenneva la iente. Alle represe aionze le menacce. Onne
perzona fece partire fòra dello
steccato. La iente non voize più odire. Prenne prete a piena
mano, rompo lo steccato e tiengo dereto
allo famigliaccio. Iettavano prete su allo palazzo. Gridavano come se
fao allo Patarino. A questo
romore traie la iente con vastoni e stanche. Dalla piazza de Santo
Pietro traio quelli de Puortica armati
de tutte arme, clinora de acciaro, pavesi, panziere, scudi, valestre.
Allo palazzo se fao lo granne
commattere. La porta serrata era. Lo romore era terribile. Le prete
fioccavano, verruti e lance,
lanciate como acqua ventosa. Ben pare che per forza vogliano tollere
la fortezza. Quanno lo legato
sentìo ciò, maravigliaose e abbe paura. Staieva su alli
balconi de sopre. Sopre tutto vedeva. Non
sapeva per che cascione questo fussi. Davase delle mano per lo visaio
e diceva: "Questo que vole
dicere? Que aio io fatto? Per que tanto detoperio me se fao? Vedi
como date cascione voi Romani
che·llo patre santo venga a Roma! In questa terra lo papa non
fora signore, non fora iusto arciprete.
Non me cresi venire a badaluccare. Haco li Romani somma povertate e
granne regoglio". Stenneva la
mano e faceva semmiante che cessassino de tale furore. Alla fine
frate Ianni de Lucca,
commannatore de Santo Spirito, curze e sì racquetao li
irrazionabili citatini. Onne omo torna a casa. Lo
cardinale abbe granne feltrenga; àbberase preso de stare in
Avignone. Questo legato fece preclare
cose. Esso ficcao in Santo Pietro quelli doi belli panni li quali
staco dallo lato dello coro, e donao uno a
Santo Ianni e [un] aitro a Santa Maria Maiure. Questo voize
revisitare lo tesauro de Santo Pietro.
Questo dava assoluzioni e penitenzie de province e de citate, de
principi e cose. Questo punìo
penitenzieri, cassaone e impresonaone. Fece cavalieri, deo dignitati
e officia. Aizava e abassava lo
termine delli dìi. Lì concedeva la remissione delli
quinnici in uno dìe per la tanta iente che era in Roma;
ca, se questo non faceva, Roma non àbbera potuto reiere tanto.
Questo diceva messa pontificalemente
con tutte cerimonie como papa. A suono de tromme de ariento veniva in
chiesia e tornava in palazzo.
Questo legato voize fare la cerca quinnici dìi e guadagnare la
anima como l'aitri. Ma vedi que
l'incontrao. Ditta messa, cavalcava uno dìe lo legato per fare
la cerca. Mossese da Santo Pietro e
ivase a Santo Pavolo. Mentre che passao per la strada che vao dalli
Armeni a Santo Spirito, in quello
luoco che stao in mieso fra Santo Lorienzo delli Pesci e Santo Agnilo
delle Scale, de sùbito iessìo de
una casella per la finestrella della Incarcerata da lato a Santo
Lorienzo doi verruti, li quali fuoro
valestrati per occidere lo legato. L'uno no·llo toccao e ne
gìo in aria vano, l'aitro lo percosse su nello
capiello e sì se ficcao drento. De tale vidanna stordìo
lo cardinale. Se fisse la traccia della famiglia, li
succurze. Facoli rosta intorno. Lo romore ène granne:
"Prienni, prienni". Curri de·llà, curri de cà
per
trovare chi avea voluto occidere lo cardinale. Curzero nella casetta
donne erano venuti li verruti. Avea
la casetta l'uscio dereto, una postica. Per quella postica li
valestrieri, lassate le valestra, se erano
partuti. Misticarose colla moita iente foita per la perdonanza, non
fuoro conosciuti. Nella casetta non
fu trovata perzona alcuna. Doi valestre trovate fuoro. La casetta gìo
per terra pianata. Iustus pro
peccatore lo preite fu preso e messo allo tormento, mai non disse chi
fuoro quelli valestrieri. Allora se
torna a casa lo legato. Omo pomposo che cercava gloria vedeva che non
era reputato. Crepava de
dolore. Staieva infiammato. Non trovava posa. Vatteva le mano e
diceva: "Dove so' io venuto? A
Roma deserta. Meglio me fora essere in Avignone piccolo pievano che
in Roma granne prelato.
Hacome commattuto a casa nello palazzo. Puoi me haco valestrato. Non
saccio de chi vennetta fare".
Questo dicenno non pò soa ira temperare. Fece granne scutrinio
delli malefattori, mai non fu potuto
sapere chi fussino quelli. Estimao e abbe ferma opinione che Cola de
Rienzi tribuno fussi stato quello.
In nullo aitro puse la colpa. Allora, acciò che lo papa ne
avessi compassione, scrisse lettere in corte
allo santo patre, dove recitao sio infortunio, como era commattuto,
como era valestrato e voluto
occidere. E drento della lettera mise lo verruto. Puoi per
satisfazione deo una terribile sentenzia e
maidizzione contra chi avea peccato contra esso. Maidisse e
scommunicao Cola de Rienzi e chi avea
frode, appellannolo patarino e fantastico, e annullao onne sio fatto
e deoli onne maidizzione che potéo.
E privao li colpevoli delli officii e beneficii e dignitate, toizeli
acqua e fuoco. Non ce lassao a fare
cobelle per confonnere suoi nimici. Omo decretalista sapeva quanto
granne era lo errore, quanta pena
devea avere. Da quello tiempo innanti sempre portao lo legato sotto
lo capiello una cervelliera de fierro
e aduosso bone corazzine sotto la cappa. Trovaose a Roma a queste
cose lo cardinale de Santo
Grisogano, omo de Francia, granne prelato, granne barone. Gìo
denanti a missore Aniballo. Per
consolarelo queste paravole disse: "Chi volessi rettificare Roma
convénnera che tutta la guastassi, puoi
la edificassi de nuovo". Ciò ditto, levao la fronnosa.
Camina in soa legazione. Voglio dicere como lo
legato morìo. Era dello mese de luglio, lo fervente callo. A
questo missore Aniballo de
commannamento dello papa li convenne assentare fòra de Roma e
gire a Napoli a provedere sopra la
desolazione dello regno de Puglia, lo quale iva in desperzione, como
se dicerao. Spontaneo se parte de
Roma lo legato. Oitra per Campagna visitao Ceccano, la soa contrata.
Passaone a Montecasino e
venne a Santo Iermano. Là posao. Lo sequente dìe
mossese da Santo Iermano, fece piccola iornata.
Venne a un castiello non moito da longa. In quello castiello posao.
Como usanza ène, li presienti li
currevano da onne parte. Fra le aitre cose li fuoro presentati moiti
buoni vini in fiaschi. Dice omo ca
questi vini fuoro venenati, ca li votti tutti erano venenati per la
Gran Compagnia che curreva lo paiese.
Questo non è verisimile. Pazzo fora chi volessi venenare sio
vino. De questi divierzi vini lo cardinale,
callo per lo cavalcare, bebbe e bene, perché aveva sete. Era
delli buoni vevitori che avessi la Chiesia
de Dio. Fu allora alla tavola in sala, alla cena. Omo de Campagna
voize vedere la univerza soa
famiglia. Stao lieto e de bona aira, cena. Po·lle vidanne per
refiescare de consiglio de doi suoi presienti
miedici, mastro Guido da Prato e mastro Matteo da Vitervo, soleva
manicare latte fiesco pecorino.
Voize la usanza servare. Convenne ca de la famiglia isse fi' allo
campo alle precoia e là mognessi le
pecora. Empiuto che àbbero de latte uno granne catino de
ariento, vennesi alla cena. Granne ora
passata aspettao, mentre questo latte se pone e ène monto. Lo
cardinale, venuto lo latte, sopra lo latte
se pone con suo cucchiaro, comenza a manicare. Presene pieno ventre.
Civo corruttivile. Granne ora
po' lo pasto, po' lo latte vennero cetruoli, e de quelli per
refiescare manicao, infusi nello aceto, de
commannamento delli miedici ditti. La notte fatta, gìo a
posare. Non trovao posa alcuna, non dormìo.
Lo civo li stava nello stomaco, crudo, indigesto. La dimane se levao
svogliato per lo poco spazio de
tiempo che avea cavalcato. Lo primo luoco che trovao fu la villa de
Santo Iuorio. Là posao, c'a cavallo
non poteva più ire. Posato non magnao la sera. De notte passao
de questa vita. Moita tristizia abbe la
soa compagnia. Così fu desperduta, como le pecorella
abannonate dallo pastore, per doi cascioni: la
prima, che tutto lo arnese li fu levato dalli baroni della contrata;
la secunna, che·llo nepote dello
cardinale, uno delli doi, morìo. Sùbito tutta la
famiglia infermao. Quello more, questo more. Tutta la
famiglia morìo, ché omo non ne campao. Chi morìo
per le terre de Campagna, chi a Roma, chi a
Vitervo. Missore Ianni, l'aitro nepote, morìo in Santo Spirito
de Roma. Non remansit canis mingens
ad parietem. Ecco la novitate: lo legato dello papa morìo in
viaio nella villa de Santo Iuorio, po' esso li
nepoti e tutta la famiglia, anno Domini MCCCL, nello iubileo. Lo
cuorpo dello legato fu opierto.
Grasso era drento como fussi vitiello lattante. La vacuitate dello
ventre fu empita de cera munna. Lo
cuorpo fu inonto de aloè e vestuto in abito de frate menore.
Messo in una cassa sopra de un mulo
como fussi una soma, qua venerat via Romam rediit. Venuto in Santo
Pietro senza compagnia, senza
ululato, senza chierico fu operta semplicemente la soa sepoitura
della soa cappella. Là fu iettato. Non
fu allocato, anco fu iettato sì che cadde in bocconi, e così
imboccato remase. Considera dunqua que
ène la vita umana, que ène la gloria dello munno, que
ène lo onore. Omo pomposo, aito prelato che
desiderava la moneta, li onori, le granne casamenta, le onorabile
compagnie, iace solo in abito de
povertate, renchiuso in soa tomma; né soie ricchezze vaizero
che uno vile omo se faticassi a
destennere quello cuorpo secundum debitam figuram, supino.
Cap. XXIIII
Como Peroscini assediaro Bettona e desficcaro la terra da fonnamenti e tagliaro la testa a missore Crispolto traditore
....................
Cap. XXV
Como le campane de Santo Pietro de Roma arzero e como perdìo lo papa la signoria dello senato e como papa Chimento morìo.
.............................
Cap. XXVI
Como lo senatore fu allapidato da Romani e delli magnifichi fatti li quali fece missore Egidio Conchese de Spagna, legato cardinale, per recuperare lo Patrimonio, la Marca de Ancona e Romagna.
Muorto papa Chimento, fu creato papa Innocenzio, lo quale fu ditto
cardinale de Chiaramonte, dello
abito de santo Pietro, preite seculare. Como papa Innocenzio fu
creato, Dio li mustrao granne vennetta
de quelli che·lli avevano tuoito lo senato. Curreva anno
Domini MCCCLIII, de quaraiesima, de sabato
de frebaro. Levaose una voce subitamente per mercato in Roma:
"Puopolo, puopolo!" Alla quale voce
Romani curro de·llà e de cà como demonia, accesi
de pessimo furore. Iettano prete allo palazzo; metto
a roba, specialemente li cavalli dello senatore. Quanno lo conte
Bertollo delli Orsini sentìo lo romore,
penzao dello campare e de salvarese alla casa. Armaose de tutte arme,
elmo relucente in testa,
speroni in pede como barone. Descenneva per li gradi per montare a
cavallo. Lo strillare e·llo furore
se converte nello desventurato senatore. Più prete e sassi li
fioccano de sopra como fronni che
cascano delli arbori lo autunno. Chi li dao, chi li promette.
Stordito lo senatore per li moiti colpi, non li
vastava coperirese de sotto soie arme. Puro abbe potestate de ire in
pede allo palazzo dove stao la
maine de santa Maria. Là da priesso per lo moito fioccare de
prete la virtute li venne meno. Allora lo
puopolo senza misericordia e leie in quello luoco li compìo li
dìi, allapidannolo como cane, iettanno sassi
sopra lo capo como a santo Stefano. Là lo conte passao de
questa vita scommunicato. Non fece motto
alcuno. Muorto che fu, lassato, onne perzona torna a casa. Senator
collega turpiter per funem
demissus, deformis pileo per posticam palatii obvoluta facie
transivit ad domum. La cascione de
tanta severitate fu ca questi doi senatori vivevano como tiranni. Ià
erano infamati, ché grano
mannavano per mare fòra de Roma. Era lo grano carissimo. La
canaglia non comportava la fame e·llo
deiuno. Non sao temere lo puopolo affamato. Non aspetta che dichi:
"Fa' questo". Questa connizione
hao la carestia, che moiti potienti hao perterrata. Anco pòtera
essere la cascione che Dio non
consente che·lle cose della Chiesia siano violate. De ciò
favellava Valerio Massimo. Dao lo esempio
de Dionisio tiranno de Cecilia, lo quale tagliava li capelli e·lle
varve de auro le quale avevano li suoi
diei, e diceva ca·lli diei non deveano avere similitudine de
becchi varvati. De questa onta la quale fece
a suoi diei fu punito, ca in soa vita visse con paura e po' la morte
soa sio figlio venne in tanta miseria,
che viveva de insegnare li guarzoni lo alfabeto. Forza più non
sapeva. Vedi maraviglia! Saputa che fu
la morte dello senatore lapidato, la carestia de sùbito cessao
per lo paiese intorno e fu convenevole
derrata de grano. Questo papa Innocenzio la prima cosa che se puse in
core fu che·lli tiranni
restituissero l'altruio, li bieni della Chiesia li quali avevano
usurpati e sforzati. A ciò esequire mannao
sio legato in Italia missore Egidio Conchese de Spagna, cardinale.
Questo don Gilio quanto fussi
sufficiente guerrieri l'opere soie lo demustravano. Esso fu in prima
cavalieri a speroni d'aoro. Puoi fu
arcidiacono de Conche. E fu de tanta industria, che fu fatto
confallonieri dello re de Castelle. Esso
perzonalemente se trovao alla rotta de Taliffa in Spagna, como de
sopra ditto ène. Desceso lo legato
don Gilio in lo Patrimonio, venne a Montefiascone. Aitro non trovao
se non Montefiascone.
Acquapennente, Bolsena, tutte le aitre terre teneva occupate Ianni de
Vico, profietto de Vitervo. Anco
teneva Terani, Amelia, Nargne, Orvieto, Vitervo, Marta, Canino. Era
magno. Bussava per corrompere
Peroscia. Lo legato, trovanno sì poche terre, forte li parze.
Nientedemeno voize parlamentare collo
profietto. Mannao per esso e fuoro insiemmora. Avea lo profietto in
sé una mala natura, che ciò che
omo li adimannava de sùbito li ammetteva e diceva. "Fatto
serrà. Ben ce piace". Alla fine non servava
le promesse. Quanto più te prometteva, peio tenevi. Per la
moita usanza questa connizione servao allo
legato. Non se ne sappe astenere. Como fuoro insiemmori, lo legato
disse: "Profietto, que vòi tu?" Lo
profietto disse: "Ciò che piace a ti". Lo legato
disse: "Voglio che rienni alla Chiesia lo sio e tienghiti lo
tio". Lo profietto disse: "Vogliolo fare volentieri. So'
contento". E in ciò puse lo sio seiello in la carta
colli capitoli scritti. Deo la voita in reto a Vitervo. Delle
promesse niente servava. Diceva: "Io non ne
voglio fare cobelle". Aiogneva: "Lo legato hao cinquanta
prieiti fra compagni e cappellani. Li miei
regazzi bastano a contrastare alli prieiti suoi". Questa
paravola non se potéo celare, che non pervenisse
alle recchie dello legato. A ciò respuse lo legato e disse:
"Bene se vederao che miei prieiti serraco più
valorosi che·llo profietto con suoi regazzi". Puoi che lo
legato conubbe l'animo dello profietto indurato,
vidde la perverza mente ostinata, crociata non li bannìo sopra
(no·lli pareva da tanto), ma abbe lo
aiutorio della lega de Toscana, de Peroscia, de Fiorenza e Siena.
Fece granne oste, in la quale fu esso
perzonalmente. In quella oste fu Cola de Rienzi cavalieri, lo quale
veniva assoluto de Avignone dallo
papa, como s'è ditto. Poco curò lo profietto de oste de
sollati. Allora iessìo fòra lo puopolo de Roma.
Ianni conte de Vallemontone fu lo capitanio. Comenzao a fare lo
guasto. Uno terzieri de Vitervo
guastaro, vigne, oliveta e arbori. Onne cosa metto in ruvina. La
iente sparlava dello profietto. Ranieri
de Bussa lo molestava. Lo profietto, como tiranno dubitanno de suoi
citatini, viddese male parato.
Deliberato consilio saniori, mise lo capo in vraccio e in gremmio
della Chiesia rennenno lo altruio.
Rennéo Vitervo, Orvieto, Marta e Canino. Remaserolli soie
castella nettamente. Remaseli anco
Corneto, Civitavecchia e Respampano. Po' non moito tiempo Iordano
delli Orsini li tolle Corneto in
mieso dìe. Lamentaose lo profietto allo legato e disse ca era
ingannato, perché era cacciato de
Vitervo. Respuse lo legato e disse: "Profietto, tu non pati
tuorto". Mustraoli la cetola colli patti seiellata.
La cetola diceva: "Io voglio restituire lo altruio e tenere lo
mio proprio". Ciò odito, lo profietto stette
queto. In questo Vitervo lo legato fonnao uno bellissimo castiello
casato, fornito con moiti torri, palazza
e casamenta per fermamento e fortezza della Chiesia de Roma. Lo quale
castiello stao e cresce fi' alli
nuostri dìi. Iace alla porta che vao a Montefiascone. Acqua
sufficiente e fosse piene d'acqua stao
intorno. Espedita la opera dello Patrimonio, lo legato alquanto
demorao in Orvieto. Reconciliao Orvieto
e·llo paiese, lo quale moito era corrotto. Puoi abbe Nargne,
puoi Amelia. Puoi ne vao a maiure cose
fare, ad espedire li fatti della Marca, ad abassare l'arroganzia
delli Malatesta. Era missore Malatesta
uno delli più savii guerrieri de Romagna. Tiranno potente
moite citate e castella signoriava. La maiure
parte della Marca de Ancona teneva sì per amore sì per
forza. Aveva sio frate, missore Galeotto.
Sempre questo mannava alle frontaglie. Teneva Ancona, la nobile
citate. Como missore Galeotto
sentìo lo legato approssimare nella contrata, granne
moititudine, più de tre milia cavalieri, adunao.
Iessìo fòra de Ancona. Venne a Racanati incontra allo
legato. Era con missore Galeotto Gentile da
Mogliano da Fermo con moiti aitri caporali della Marca. Mannao allora
dicenno allo legato che soa
venuta non era utile, non poteva colli Malatesti balanciare o
guadagnare. Lo legato a queste paravole
respuse, scrisse in una carta sole queste paravole: "Da buoni
guerrieri buoni pattieri, da buoni pattieri
buoni guerrieri". Respuse missore Galeotto: "Di' allo
legato: tanta iente non pericoli. Io voglio
commattere collo legato in campo a solo a solo". Lo legato
respuse: "Va' di': eccome proprio nello
campo. Là la voglio proprio con esso, perzona a perzona. Non
se parta". Respuse missore Galeotto:
"Va' di' a monsignore lo legato ca io non la voglio da perzona a
perzona con esso, ca, se io lo vencessi,
ià io pèrdera; ché lui ène omo veterano,
prelato, atto a sola paternitate". Trovaose allora collo legato
uno gentilotto della Marca: Nicola da Buscareto aveva nome. Questo
Nicola da Buscareto, essenno
presente a queste ammasciate, disse: "Signore lo legato, e non
conoscete la rottura delli Malatesta?
Non te accuorii ca nelle paravole soie missore Galeotto è
rotto e perduto? Non te pò contrastare. Noi
avemo vento. Legato, infesta e non finare de turvare li Malatesta de
Rimino; ché Galeotto ià ène
convento, lo core li manca. Questo me demustra lo sio favellare".
Per le paravole de Nicola da
Buscareto lo legato fu acceso de persequitare li Malatesti. Avea con
seco lo legato bona iente assai,
moiti caporali, partisciani della Marca, missore Lomo da Esi,
Iumentaro dalla Pira, lo signore de Cagli,
missore Redolfo de Camerino, Esmeduccio de Santo Severino. Anco avea
la nobile iente todesca
che·lli donao lo imperatore. Era per quelli dìi in Roma
Carlo imperatore, de cui se dicerao. Avea presa
la corona. Tutta Toscana, Lommardia e Romagna, Alamagna li fece
omaio. A questo imperatore lo
legato domannao sussidio. Lo imperatore li mannao li cavalieri li
quali mannati li aveva lo Communo de
Peroscia e de Fiorenza. Anco baroni della Alamagna moito provati
missore Carlo li mannao. Intanto lo
legato con soa iente se era assemmiato in campo. Missore Galeotto
Malatesta redutto se era in una
forte terra, la quale se dice Paturno, fra Macerata e Ancona, quanno
ecco sùbito che dereto li veniva
la nobile iente imperiale, Todeschi e Toscani, conti della Alamagna,
usati a guerra, moiti cimieri, loro
cornamuse sonanno, loro naccari. De caminare non avevano posato. Como
missore Galeotto sentìo lo
aiutorio allo legato venire, perdìo la mente e·lla
virtute. Non se poteva aiutare. Chiamaose vento,
confessaose presone, domannao mercede allo legato. Lo legato lo abbe
nelle soie mano presone con
tutta iente soa. Missore Malatesta per recomparare lo frate fece
obedienzia allo legato. Rennéoli
liberamente la citate de Ancona e tutte le terre che teneva in la
Marca. Rennéoli quelle che teneva in
Romagna. Allora la Chiesia guadagnòe la nobile citate de
Ancona, terra portuosa, collo mare, colle
mercatantie, colli moiti provienti. Là fece doi bellissime
rocche fi' in lo dìe de oie. Puoi fece uno sio
nepote marchese e mannaolo a Macerata per correttore della Marca.
Puoi connescese e
descretamente provedéo alli Malatesti, che potessino vivere
onorata e ientilemente de loro frutto.
Lassaoli quattro bone e famose citate, Arimino, Fano, Pesaro e
Fossambruno, quattro notabile e
poterose terre. Puoi li fece capitanii della Chiesia contra alli
rebelli. Po' queste cose movèose a maiuri
fatti e movimenti fare. Era in Romagna un perfido cane patarino,
rebello della santa Chiesia. Trenta
anni stato era scommunicato, interditto sio paiese senza messa
cantare. Moite terre teneva occupate
della Chiesia, la citate de Forlì, la citate de Cesena,
Forlimpuopolo, Castrocaro, Brettonoro, Imola e
Giazolo. Tutte queste teneva e tiranniava, senza moite aitre castella
e communanze le quale erano de
paiesani. Era questo Francesco omo desperato. Avea odio insanabile a
prelati, recordannose che ià fu
male trattato dallo legato antico, missore Bettrannio dello Poietto,
cardinale de Uostia, como de sopra
ditto ène. Non voleva de cetero vivere a descrezione de
prieiti. Staieva perfido, tiranno ostinato.
Questo Francesco, quanno sentìo le campane sonare alla
scommunicazione, de sùbito fece sonare le
aitre campane e scommunicao lo papa e·lli cardinali. E che
peio fu, fece ardere e papa e cardinali in
piazza, li quali erano pieni de carta e de fieno. Staienno a
rascionare colli ientili amici suoi diceva:
"Ecco ca simo scommunicati. Non per tanto lo pane, la carne, lo
vino che bevemo non ce sao buono,
non ce fao prode". Delli prieiti e delli religiosi tenne questa
via. Fatta la scommunicazione per lo
vescovo, lo vescovo, receputa alcuna iniuria, vituperosamente se
assentao. Allora lo capitanio
costrenze la clericia a celebrare. Celebrano li moiti essenno
interditti, quattordici chierici religiosi, sette
seculari. Otto, li quali non voizero celebrare, recipero lo santo
martirio. Sette ne fuoro appesi per la
canna, sette ne fuoro scorticati. Era incarnato con Forlivesi, amato
caramente. Demostrava muodi
como de pietosa caritate. Maritava orfane, allocava poizelle,
soveniva a povera iente de soa amistate.
Vengo alla guerra. Don Gilio Conchese de Spagna fece sio fonnamento e
residenzia in Ancona. E per
avere più fortezza bannìo la crociata. Io la odìi
predicare. Remissione de pena e colpa a chi prenneva
la croce o chi faceva aiutorio. Ora ne veo lo legato sopra allo cane
capitanio de Forlì, Francesco delli
Ordelaffi. 'Nanti che lo campo fusse puosto, apparecchiaose tutte
cose necessarie all'oste. Lo legato
mannao vescovi e cavalieri e aitra iente bona, che predicassino lo
capitanio che non volessi
perseverare in tale errore. La predicazione quetamente odìo.
La notte iessiva fòra de Forlì e predava
terre della Chiesia. Menava preda e presoni. Aitra resposta non
faceva. Lo legato, conoscenno lo
animo indurato de Francesco delli Ordelaffi, puse lo campo sopra la
citate de Cesena. Li Malatesti
erano caporali e connuttori dell'oste. Dodici milia fuoro li
crociati, trenta milia li sollati. Doi uosti fuoro,
onneuno per sé. Fece l'oste granne guasto e dannaio. A suono
de trommetta tre milia guastatori con
banniere se ponevano e levavano dallo guasto. Res digna memoratu.
Intanto lo santo patre mannao
lettere espresse, che don Gilio tornassi in Provenza. La cascione fu
che·llo conte de Savoia con granne
compagnia, da tre milia varvute, iva guastanno tutta la Provenza.
Prenneva terre, derobava e
revennevase l'uomini. 'Nanti che don Gilio se partissi, venne un
aitro legato, omo de Francia, abbate de
Borgogna, prevennato de granne frutto, moito potente e sufficiente
perzona. Aveva lo capitanio un sio
figlio, nome missore Ianni. Avevane un aitro, nome missore Ludovico.
Questo gito denanti a sio patre,
umilemente lo pregava e disse: "Patre, per Dio, te piaccia de
non volere contennere colla Chiesia e non
volere contrastare a Dio. Facciamo le commannamenta, siamo obedienti.
So' certo ca lo legato ène
descreto. Como bene hao trattato li Malatesti, così bene
trattarao noi. Tanto ce lassarao, che bene
onoratamente poteremo vivere". Alle paravole umile lo supervo
patre disse: "Tu fusti biscione overo
me fusti scagnato alli fonti". Lo figlio, sentenno la subitezza
dello patre, partivase denanti, dava la voita.
Allora lo patre li iettao dereto un cortiello luongo, nudo, e ferìolo
nelli reni; della quale feruta Ludovico
sio figlio morìo 'nanti mesa notte. Mentre che lo legato
abbate se assediava alla guerra, missore Egidio
non lassava que fare. Forte guerria sopra Cesena. Lassao tre
battifuolli, dieci miglia da longa ciascuno.
Li legati tornaro ad Arimino. In Cesena staieva madonna Cia, la
moglie dello capitanio de Forlì, con
suoi nepoti e con granne forestaria drento dalla rocca. A questa
madonna Cia lo capitanio scrisse una
lettera. La lettera diceva così: "Cia, aiate bona e
sollicita cura della citate de Cesena". Madonna Cia
respuse in questa forma: "Signore mio, piacciave de avere bona
cura de Forlì, ca io averaio bona cura
de Cesena". Iterato lo capitanio scrisse un'aitra lettera. La
sentenzia era questa: "Cia, de nuostro
commannamento fa' che tagli la testa a quattro populari de Cesena,
cioène Ianni Zaganella, Iacovo
delli Vastardi, Palazzino e Vertonuccio, uomini guelfi delli quali
avemo suspizione". La donna, receputa
la lettera, non curze sùbito alla sentenzia, anco
esquisitissima con diligenzia spiao della connizione de
questi quattro citatini e trovao che erano bone e fidele perzone.
Specialemente la donna abbe consiglio
de doi fidelissimi amici dello marito, cioène Scaraglino,
nobile omo, e Iuorio delli Tumberti. A questi
mustra la lettera. La resposta de questi fu questa: "Madonna,
noi non vedemo cascione per la quale
questi deano perdere la vita. Non sentimo che aitra novitate movano.
Se questi perdissino la vita, fora
pericolo che lo puopolo se desdegnassi. Passa dunque per mo' de
questo iudicio fare. Noi intanto
starremo attenterosi e porremo cura alli atti e muodi loro. Quanno
vedessamo alcuno male semmiante,
li 'nanti farremo, comprenneremoli e con manifesto iudicio loro
torremo la perzona". La donna assentìo
allo consiglio delli doi nuobili fideli de sio marito. Soprastettese
de novitate fare. Questo trattato fu de
secreto e de secreto fu revelato a questi quattro. Allora questi
quattro tiengo nuovo trattato, penzano
de revoitare la citate sottosopra. Ianni Zaganella deo l'ordine intra
li amici suoi. Con un sio ronzinetto
cavalcava per la terra, questo e quello sollicitava. Una dimane, como
la cosa era recente, Iacovo delli
Vastardi curre colla vicinanza alla porta, la quale se dice porta
della Troia, e sì·lla prese. Vertonuccio e
Palazzino fecero puopolo e sbarraro la citate. Puoi mannaro doi
iumentari alli Ongari che staievano a
Savignano nello vattifolle. Celeriter illi vadunt. Quanno madonna Cia
odìo lo romore, sappe che se
levava puopolo, sùbito fece armare soa forestaria, sollati da
cavallo e da pede. Commannao che
curressino la citate. Ma ciò fare non se poteva, che·lla
terra staieva sbarrata, lo puopolo armato, la
porta della terra presa, li torri rencastellati. E che peio fu, li
cavalieri venivano in succurzo allo puopolo.
Là, nella calata dello sole, ottociento arcieri de Ongaria, li
quali staievano in Savignano in lo vattifolle,
venivano volanno, iente veloce, attesi a guerra. Non entraro in
Cesena, ma ivano intorno alla citate, ora
innanti, ora in reto, per dare core alli citatini. Ciò vedenno
madonna Cia se retrasse a reto soa
forestaria e renchiusese nello cassaro, e là se sostenne.
Quello cassaro parte della citate ène e forte
murato intorno. Hao drento la piazza dello Communo, lo palazzo e·lla
torre, hao drento granne avitazio
de parziali. È luoco alquanto aito, soprastao alla citate che
iace piana. Irata madonna Cia de questa
perdenza convertìo la sia ira in li doi consiglieri amicissimi
dello marito, Iuorio delli Tumberti e
Scaraglino, feceli decollare. Quodfactum maritus improbavit. Postera
die, luce orta, ecco li
Malatesti venire collo granne succurzo, colla moita potenzia. Datali
la porta della Troia, entrano in
Cesena. Ora stao assediata madonna Cia in la rocca. Allora fu rennuto
lo castiello Fiumone. Li
Malatesti faco aspero vattagliare alla rocca. Faco badalucchi,
iettano drento fuoco, levano trabocchi,
iettano prete e sassi assai. Non faco utilitate alcuna. Era drento
l'acqua. Era drento la mastra torre
sopra la porta dello cassaro. Commannao lo legato la cavata, opera
faticosa de moita spesa e longa.
Fatta la cavata sotto la cisterna, la cisterna fu rotta, l'acqua fu
perduta. Puoi ionze la cavata sotto la
mastra torre della piazza. Messo fuoco alli pontielli, la torre con
granne romore e ruvina cadde. Ora se
fao la cavata alla torre sopra la porta donne era la entrata in lo
cassaro. Madonna Cia irata de ciò non
sapeva que·sse fare. Prese delli citatini che·lli parze
drento dello cassaro, de quali più dubitava, e miseli
in quella torre sopra la porta e disse: "Se la torre cade, cada
sopre de voi". La torre staieva in pontielli,
tremava. Lo legato, don Gilio, passava per la contrada con granne
compagnia, veniva per vedere la
connizione de Cesena, l'opera della cavata e·llo appuosto
dello assedio. Allora da cinqueciento donne
de Cesena iessiro fòra scapigliate, sfesse dallo pietto.
Piagnenno, lamentanno facevano granne
romore. Inninocchiate 'nanti allo legato demannavano mercede. Inscius
legatus della cascione de sì
amaro pianto domannao perché questo facevano. Respusero le
donne: "Legato, in la torre sopra la
porta soco renchiusi nuostri mariti, fratelli e parienti. La cavata è
fornita. Se la torre cade, l'uomini so'
perduti. Donne per Dio te pregamo che tardi de mettere fuoco in li
pontielli". Lo legato sùbito conubbe
che madonna Cia dubitava de si, ca era rotta nello animo. Abbe
trattato e a soie mano abbe li Cesenati
messi nella torre. Messo fuoco nella torre, la torre cadde con parte
dello girone. Allora lo guado fu
libero per entrare. Non per ciò che alcuno entrassi con
furore, ma de piano consenzo. Lo legato abbe
alle soie mano madonna Cia con un sio figlio e doi suoi nepoti.
Recusao madonna Cia essere liberata,
temenno la subitezza de sio marito, anco con instanzia pregao che·lla
Chiesia la servassi. Tre milia
fiorini gostava lo dìe li mastri delle cavate e delli
trabocchi e delli aitri artificii. Dodici milia fiorini
gostao lo dìe li sollati. Lo legato entrao in Cesena e
mantenne la terra per la Chiesia. Questo è lo
muodo che la citate de Cesena in Romagna fu guadagnata. Ora se para,
lo legato sopra la citate de
Forlì. Primo ordinao l'oste granne e copiosa. Intanto saputo
che fu della presonia de madonna Cia, la
quale era mannata in Ancona in guardia, una soa figliola, donna
nobile, maritata ad uno granne
marchisciano, venne denanti allo patre lacrimanno, colle vraccia
piecate. Inninocchiata parlao e disse:
"Patre e signore mio, piacciate che così fatta donna,
madonna matrema, non stea in mano altruie como
presoniera. Pregote, fa' la voluntate della santa Chiesia". A
queste paravole lo capitanio aitra resposta
non deo, se non che prese questa soa figlia per le trecce e con un
cortiello li partìo la testa dallo vusto.
Po' la presa de Cesena lo legato mannao allo capitanio, dicenno così:
"Capitanio, rienni quello che tio
non è. Io te renno toa donna, figlioto e nepoteti". A
queste paravole lo capitanio deo questa resposta:
"Dicete allo legato ca io credeva che fussi savio omo. Oramai lo
tengo per una vestia pazza. Dicete
che se io avessi auto in presone esso, tre dìi passati so' che
io l'àbbera appeso per la canna, como esso
ave auto le cose mie". Indurato lo animo de sì perverzo
eretico patarino, don Gilio, lo legato antico, se
partìo e gìone in Provenza. Como la compagnia sentìo
approssimare don Gilio alle finaite, così se
delequao como fao la poca neve a fervente sole. Remase lo legato
noviello, missore [...] abbate de
Borgogna. Questo legato fece l'oste pentolosa sopra de Forlì.
Per moiti anni vannìo la crociata, e fu
predicata la croce per tutta Italia. Mozzava lo grano e tagliava le
vigne, arbori e oliveta. Bussava ad
onne ponto, ad onne ora. Per questa fervente guerra lo capitanio
perdìo Favenza e·lli Manfredi, suoi
consuorti, iurati con esso. Anco perdìo Bertonoro. Allora se
restrenze drento a Forlì, nello forte. In
questo assedio sopra Forlì fuoro presi assai voite delli
crociati, li quali per meritare erano iti a
commattere contra de quelli scismatici. Li crociati presi erano
menati denanti a Francesco, lo quale
diceva queste paravole: "Voi portete la croce. La croce ène
de panno. Lo panno se infracida. Io voglio
che portate croce che non se infracidi". Allora era
apparecchiato un fierro cannente in forma de
croce. Questo fierro li poneva sotto alla pianta delli piedi e così
li lassava derobati ire. Moiti aitri
crociati prese, alli quali disse queste paravole: "Site venuti
per guadagnare l'anima. Se ve lasso, forza
tornarete alli primi vuostri peccati. Meglio ène che in questa
tenerezza, mentre site contriti, morate.
Dio ve reciperao nella soa citate". Ciò ditto, li faceva
scorticare, appennere, decapitare e aghiadiare,
tenagliare, de diverzi martirii morire. La guerra durao anni moiti.
Per questa guerra mantenere fu
predicata la crociata moite fiate. Mode novamente che curre anno
Domini MCCCLVII[I], de iennaro,
nella citate de Tivoli fu predicata. His ferme diebus Iohannes rex
Francie captus est a filio regis
Anglie bello magis tumultuario quam militari apud villam que dicitur
[...] ductusque in Angliam
sub custodia annis ferme duobus. Tandem cum magno sui detrimento et
regni evasit.
Cap. XXVII
Como missore Nicola de Rienzi tornao in Roma e reassonse lo dominio con moite alegrezze e como fu occiso per lo puopolo de Roma crudamente.
Currevano anni Domini MCCCLIII[I], lo primo dìe de agosto,
quanno Cola de Rienzi tornao a Roma e
fu receputo solennissimamente. Alla fine a voce de puopolo fu occiso.
La novella fu per questa via.
Puoi che Cola de Rienzi cadde dallo sio dominio, deliverao de
partirese e ire denanti allo papa. 'Nanti
la soa partita fece pegnere nello muro de Santa Maria Matalena, in
piazza de Castiello, uno agnilo
armato coll'arme de Roma, lo quale teneva in mano una croce. Su la
croce staieva una palommella. Li
piedi teneva questo agnilo sopra lo aspido e lo vasalischio, sopra lo
lione e sopra lo dragone. Pento che
fu, li valordi de Roma li iettaro sopra lo loto per destrazio. Una
sera venne Cola de Rienzi
secretamente desconosciuto per vedere la figura 'nanti soa partenza.
Viddela e conubbe che poco
l'avevano onorata li valordi. Allora ordinao che una lampana li
ardessi denanti uno anno. De notte se
partìo e gìo luongo tiempo venale. Anni fuoro sette.
Iva forte devisato per paura delli potienti de Roma.
Gìo como fraticiello iacenno per le montagne de Maiella con
romiti e perzone de penitenza. Alla fine
se abiao in Boemia allo imperatore Carlo, della cui venuta se
dicerao, e trovaolo in una citate la quale
se appella Praga. Là, denanti alla maiestate imperiale,
inninocchiato parlao prontamente. Queste fuoro
soie paravole e sio loculento sermone denanti a Carlo re de Boemia,
nepote de Enrico imperatore,
novellamente elietto imperatore per lo papa: "Serenissimo
principe, allo quale è conceduta la gloria de
tutto lo munno, io so' quello Cola allo quale Dio deo grazia de
potere governare in pace, iustizia,
libertate Roma e·llo destretto. Abbi la obedienzia della
Toscana, Campagna e Maretima. Refrenai le
arroganzie delli potienti e purgai moite cose inique. Verme so', omo
fraile, pianta como l'aitri. Portava
in mano lo vastone de fierro, lo quale per mea umilitate convertiei
in vastone de leno, imperciò Dio me
hao voluto castigare. Li potienti me persequitano, cercano l'anima
mea. Per la invidia, per la supervia
me haco cacciato de mio dominio. Non voco essere puniti. De vostro
lenaio so', figlio vastardo de
Enrico imperatore lo prode. A voi confugo. Alle ale vostre recurro,
sotto alla cui ombra e scudo omo
deo essere salvo. Credome essere salvato. Credo che me defennerete.
Non me lassarete perire in
mano de tiranni, non me lassarete affocare nello laco della
iniustizia. E ciò è verisimile, ca imperatore
site. Vostra spada deo limare li tiranni. Vedi la profezia de frate
Agnilo de Mente de Cielo nelle
montagne de Maiella. Disse che l'aquila occiderao li cornacchioni".
Puoi che abbe parlato, Carlo
destese la mano e recipéolo graziosamente, disse che non
dubitassi de alcuno. Quanno ionze in Praga
fu lo primo dìe de agosto. Demorao per lo spazio de tiempo
alcuno. Desputava con mastri in teologia.
Diceva assai. Favellava cose maravigliose. Lengua deserta faceva
stordire quelli Todeschi, quelli
Boemi e Schiavoni. Abafava onne perzona. In presone non stette, ma
con compagnia assai onorata
sotto qualche guardia. Assai vino, assai vivanna li era data. Po'
alcuno tiempo domannao in grazia allo
imperatore de ire in Avignone e comparere denanti allo papa e
mostrare como non era eretico né
patarino. Moito li contrastao lo imperatore che non isse. Alla fine
condescese alla voluntate soa.
Diceva Cola de Rienzi: "Serenissimo principe, io voluntario vaio
denanti allo santo patre. Dunque, se
voi non me mannete per forza, site innocente dello sacramento".
Nello ire che faceva per tutte le terre
se levavano puopoli e, fatto grege con romore, li venivano denanti.
Prennevanollo, dicevano ca lo
volevano salvare de mano dello papa. Non volevano che issi. A tutti
responneva, diceva: "Io voluntario
vaio, non costretto". Rengraziavali e così passava de
citate in citate. Per tutta la via li fuoro fatti
solienni onori. Quanno li puopoli vedevano esso, maraviglianno
l'accompagnavano. E per tale via ionze
in Avignone lo primo dìe de agosto. Ionto in Avignone parla
denanti allo papa. Scusavase ca non era
patarino, né incurreva la sentenzia dello cardinale don Bruno.
Voleva stare alla esaminazione. A
queste paravole lo papa stette queto. Fu renchiuso in una torre
grossa e larga. Una iusta catena teneva
in gamma. La catena era legata su alla voita della torre. Là
staieva Cola vestuto de panni mezzani.
Aveva livri assai, sio Tito Livio, soie storie de Roma, Abibia e
aitri livri assai. Non finava de studiare.
Vita assai sufficiente della scudella dello papa, che per Dio se
daieva. Fuoro esaminati suoi fatti e fu
trovato fidele cristiano. Allora fu revocato lo prociesso e·lla
sentenzia de don Bruno e dello cardinale
de Ceccano, e fu assoluto. E venne in grazia dello papa e fu
scapulato. Quanno iessìo de presone fu lo
primo dìe de agosto. Deveva venire in Italia uno legato, don
Gilio Conchese, cardinale de Spagna.
Apparecchiavase e scriveva sia famiglia. Cola de Rienzi con questo
legato iessìo de Avignone purgato,
benedetto e assoluto. E collo legato passao la Provenza e venne a
Montefiascone per recuperare lo
Patrimonio, como ditto ène. Delle prime terre che se renniero
alla Chiesia fu Toscanella, e·llo cassaro
fu vennuto per moneta. Cola de Rienzi se retrovao a prennere la terra
per la Chiesia. Puoi se retrovao
nello assedio de Vitervo, e retrovaose a tutti quelli fatti de arme
da cavalieri. Avea vestimenta assai
iuste e oneste, buono cavallo. Non solamente in l'oste, anco in
Montefiascone aveva tamanta rechiesa
de Romani, che stupore era a dicere. Onne Romano ad esso fao capo.
Forte ène visitato. Granne coda
de populari se strascinava dereto. Onne iente faceva maravigliare,
persi' lo legato, tanto l'appresciava
la rechiesa delli citatini de Roma. Per maraviglia lo vedevano. Forte
li pareva che campata avessi la
vita infra tanti potienti. Alla sopraditta depopulazione de Vitervo,
como sopra narrato ène, fuoro
Romani. Tornata l'oste, granne partita de Romani trasse a vedere Cola
de Rienzi: uomini populari,
granne lengue e core; maiure proferte, poche attese. Dicevano: "Torna
alla toa Roma. Curala de tanta
infirmitate. Sinne signore. Noa te darremo sobalimento, favore e
forza. Non dubitare. Mai non fusti
tanto demannato né amato quanto allo presente". Queste
vessiche li populari de Roma li daievano: non
li daievano denaro uno. Per queste paravole mosso Cola de Rienzi,
anco per la gloria, la quale
naturalemente affettava, penzava de fare alcuno fonnamento donne
potessi avere iente e sussidio per
Roma entrare. Dissene collo legato. Non li deo denaro uno. Aveva tame
ordinato che dallo Communo
de Peroscia avessi alcuna provisione, donne poteva iustamente vivere
con onore. Questa soa
provisione non li vastava a fare sollati. Allora cavalcao e venne a
Peroscia, e per presure voite fu nello
Consiglio. Bene parlava, bene diceva, meglio prometteva. Assai
avevano quelli consiglieri le recchie
attente ad odire per la doicezza delle paravole che se lassavano
ascoitare. Così se facevano leccare
como lo mele. Ma perché li consiglieri staco a scinnicato,
convenne fare bona custodia delle cose de
sio Communo. Da Communo de Peroscia non potéo ottenere uno
cortonese. Retrovarose allora in
Peroscia doi iovini provenzali, missore Arimbaldo, dottore de leie, e
missore Bettrone, cavalieri de
Narba in Provenza, frati carnali. Questi erano frati carnali dello
prodo fra Monreale. Fra Monreale fu
a fare la guerra dello re de Ongaria. Puoi fu capo della Granne
Compagnia. Guastao moite terre in
Puglia, arze e refocao moite, assai communanze mise a roba e portaone
le femine. In Toscana
revennéo Siena, Fiorenza, Arezzo e moite terre. La pecunia
partiva fra suoi compagni. Puoi ne passao
nella Marca e consumao li Malatesti. Prese per forza Montefilaterano
e Filino, dove moriero più de
setteciento villani. Arze le terre e derobaole. Revennéo li
uomini e portaone le donne, quelle che
apparenza avevano. Era feriero de Santo Ianni, omo sollicito e prodo,
della cui prodezza se dicerao.
Questo avea acquistata de moita pecunia per le robbarie, per le
prede. Avea tanta moneta, che poteva
sufficientemente vivere ad onore senza ire più sollato.
Connusse questi doi suoi fratelli in Peroscia e
feceli dare provisione dallo Communo. La soa moneta deo alli
mercatanti e commannao alli frati che
avessino fra loro pace, non fecessino contenzione; ché, puoi
che·lli aveva allocati, intenneva de servire
allo abito sio. Gìo fra Monreale aitrove per aitri suoi
mestieri fare. Puoi che Cola de Rienzi sentìo
demorare in Peroscia missore Arimbaldo de Narba, omo iovine, perzona
letterata, abiaose allo sio
ostieri e voize con esso pranzare. Sumpto cibo, mette mano Cola de
Rienzi a favellare della potenzia
de Romani. Mistica soie storie de Tito Livio. Dice soie cose de
Bibia. Opere la fonte de sio sapere.
Deh, como bene parlava! Tutta soa virtute opere in lo rascionare. E
sì de ponto dice, che onne omo
abafa soa bella diceria, leva de piedi onne omo. Teo la mano alla
gota e ascoita con silenzio Missore
Arimbaldo. Maravigliaose dello bello parlare. Ammira la magnitudine
delli virtuosi Romani.
Incalescente vino, monta lo animo in aitezze. Lo fantastico piace
allo fantastico. Missore Arimbaldo
senza Cola de Rienzi non sao demorare: con esso stao, con esso vao.
Uno civo prienno, in uno lietto
posano. Penzano de fare cose magne, derizzare Roma e farla tornare in
pristino sio. A ciò fare
bisognava moneta. Senza sollati non se pò fare. A tre milia
fiorini sallìo la mastice. Fecese promettere
tre milia fiorini, e esso promise de rennerelli, e per merito promise
farlo citatino de Roma e granne
capitanio onorato, a despietto dello frate, missore Bettrone. Anco
dello mercatante toize dello puosto
quattro milia fiorini e deoli a Cola de Rienzi. 'Nanti tame che
missore Arimbaldo assenassi questa
moneta a Cola de Rienzi, voizene avere licenzia de sio maiure frate,
frate Monreale. Mannaoli una
lettera. La sentenzia era questa: "Onorato fratello, più
aio guadagnato io in uno dìe che voi in tutto
tiempo de vostra vita. Io aio acquistato la signoria de Roma, la
quale me promette missore Nicola de
Rienzi cavalieri, tribuno, visitato da Romani, chiamato dallo
puopolo. Credo che lo penzieri non verrao
fallato. Vego ca collo aiutorio dello ignegno vuostro lo mio stato
non serrao rotto. Bisogna in ciò
moneta per incomenzare. Quanno piacerao alla vostra fraternitate, io
tollo quattro milia fiorini dello
puosto e con potenzia armata me camino a Roma". Fra Monreale,
lessa la lettera de sio frate,
rescrisse. Lo tenore de soa scrittura era questo: "Granne ora me
aio penzato sopra la opera la quale
intienni. Granne e importavile peso ène quello che vòi
fornire. Nello animo mio bene non cape che te
venga fatto. La mente non ce vao. La rascione me·llo
contradice. Nientemeno fate voi e facciate
bene. Imprimamente hai guardia che·lli quattro milia fiorini
non se perdano. Se ve scontrasse alcuna
cosa sinistra, scrivateme. Verraio con succurzo, con milli, doi milia
perzone, quante bisognaraco, e
farraio le cose magnifiche. Non dubitete. Tu e tio frate ameteve e
onoreteve, non fate romore".
Missore Arimbaldo, receputa la lettera, fu lieto assai. Mise in
ordine collo tribuno dello caminare. Puoi
che Cola de Rienzi abbe li quattro milia fiorini, vestìose
riccamente de più robbe, adobaose a senno
dello savio sio ornatamente: gonnella, guarnaccia e cappa de
scarlatto forrata de varo, infresata de
aoro fino, pistiglioni de aoro, spada ornata in centa, cavallo
ornato, speroni de aoro, famiglia vestuta
nova. Così adorno ne tornao a Montefiascone denanti allo
legato. Menava per compagnia missore
Bettrone e missore Arimbaldo de Narba fratelli, con famiglie e cose.
Quanno fu denanti allo legato,
faceva dell'altiero. Mustravase gruosso con sio cappuccio in canna de
scarlatto, con cappa de
scarlatto, forrati de panze de vari. Stava supervo. Capezziava.
Menava lo capo 'nanti e reto, como
dicessi: "Chi so' io? Io chi so'?" Puoi se rizzava nelle
ponte delli piedi; ora se aizava, ora se abassava.
Maravigliase lo legato e deo alquanto fede alle soie paravole. Puro
non li deo denaro uno. Allora
parlao Cola e disse: "Legato, famme senatore de Roma. Io vaio e
parote la via". Lo legato lo fece
senatore e mannaolo via. A potere venire a Roma bisognava iente. De
noviello missore Malatesta de
Arimino aveva cassati li sollati suoi, da sedici banniere, bona
iente, doiciento cinquanta varvute.
Demoravano in Peroscia per trovare suollo. Per questa iente avere
mannao Cola de Rienzi sio
messaio. Lo messaio trovao li conestavili e disse così:
"Prennete suollo per doi mesi. Recepate per uno
la paca. Averete suollo in perpetuo. Connucerete missore Nicola de
Rienzi a Roma, senatore per lo
papa". A queste paravole li conestavili fuoro in consiglio. La
sentenzia delli Todeschi fu de non ire.
Assenavano tre cascioni. La prima: "Romani soco mala iente,
supervi, arroganti, non haco paro". La
secunna: "Questo ène omo popularo, povero, de vile
connizione. Non averao da pacare. Dunqua a chi
serviremo noa?" La terza: "Li potienti de Roma non voco lo
stato de questo omo. Tutti ne serraco
nimici, ca·lli despiace mo'. Dunqua questo suollo non
prennamo. La annata a Roma non fao per noa".
Da vero questa fu la resposta delli Todeschi, e fu vera. Soco
Todeschi como descengo dalla
Alamagna semplici, puri, senza fraude. Como se allocano fra Italiani
deventano mastri coduti, viziosi,
che siento onne malizia. Alli Todeschi respuse uno conestavile
borgognone e disse: "Prennamo questi
denari novielli sollacciati per uno mese. Tornaremo lo buono omo in
soa casa. Scorgamolo in Roma.
Guadagnaremo la perdonanza. Chi vorrao tornare tornarao, chi vorrao
remanere remanerao". Questa
sentenzia venze. Le sedici banniere presero suollo da Cola de Rienzi.
Questa iente da cavallo abbe.
Abbe anco alquanti Peroscini, figli de buoni uomini. Abbe anco da
ciento fanti toscani masnadieri con
corazzine da suollo, nobile e bella brigata. Con questa iente
descenne per Toscana, passa valli e monti
e locora pericolose. Senza reparo ionze ad Orte. Allora la soa venuta
fu sentuta a Roma. Romani se
apparecchiavano a receperelo con letizia. Li potienti staievano alla
guattata. Da Orte se mosse e ionze
a Roma, anno Domini MCCCLIII[I]. La cavallaria de Roma li iessìo
denanti fi' a Monte Malo colle
frasche delle olive in mano in segno de vettoria e pace. Iessìoli
lo puopolo con granne letizia, como
fussi Scipione Africano. Fuoro fatti archi triomfali. Entrao la porta
de Castiello. Per tutta piazza de
Castiello, per lo ponte, per la strada fuoro fatte arcora de drappi
de donne, de ornamento de aoro e de
ariento. Pareva che per la letizia tutta Roma se operissi. Granne ène
la alegrezza e·llo favore dello
puopolo. Con questo onore fu menato fi' allo palazzo de Campituoglio.
Là fece sio bello e luculento
parlare e disse ca sette anni era ito spierzo fòra de soa
casa, como gìo Nabuccodonosor, ma per la
potenzia dello virtuoso Dio era tornato in soa sede senatore per la
vocca de papa. Non che esso fussi
sufficiente; la soa vocca lo poteva sufficiente fare. Aionze che
intenneva rettificare e relevare lo stato
de Roma. Allora fece capitanii de guerra missore Bettrone e missore
Arimbaldo de Narba e donaoli lo
confallone de Roma. Fece cavalieri uno Cecco de Peroscia sio
consigliero e vestìolo de aoro. Granne
festa li Romani li fecero, como fecero li Iudiei a Cristo, quanno
entrao in Ierusalem a cavallo nella
asina. Quelli lo onoraro destennennoli 'nanti panni e frasche de
oliva, cantanno"Benedictus qui venis!"
Alla fine tornaro a casa e lassarolo solo colli discipuli nella
piazza. Non fu chi li proferissi uno povero
magnare. Lo sequente dìe Cola de Rienzi abbe alcuno
ammasciatore delle vicinanze intorno. Deh,
como bene responneva! Dava resposte e promissioni. Apparecchiavase de
ferventemente guidare. Li
baroni staievano alla guattata, a que reiessiva. Lo stormo dello
triomfo era granne. Moite banniere.
Mai non [fu] tanta pompa. Fanti con duridaine de·llà e
de cà. Per bene pare che voglia per tirannia
guidare. Delle soie cose che perdìo le moite li fuoro
rassenate. Mannao commannamenti e lettere per
le terre e·llo destretto de soa felice tornata. Vole che
ciascuno se apparecchi a buono stato. Era
questo omo fortemente mutato dalli primi suoi muodi. Soleva essere
sobrio, temperato, astinente. Ora
deventato destemperatissimo vevitore, summamente usava lo vino. Ad
onne ora confettava e veveva.
Non ce servava ordine né tiempo. Temperava lo grieco collo
fiaiano, la malvascia colla rebola. Ad
onne ora era dello vevere più fiesco. Orribile cosa era potere
patere de vederlo. Troppo veveva.
Diceva che nella presone era stato accalmato. Anco era deventato
gruosso sterminatamente. Aveva
una ventresca tonna, triomfale a muodo de uno abbate asiano. Tutto
era pieno de carni lucienti como
pagone, roscio, varva longa. Sùbito se mutava nella faccia,
sùbito suoi uocchi se·lli infiammavano.
Mutavase de opinione. Così se mutava sio intellietto como
fuoco. Aveva li uocchi bianchi: tratto tratto
se·lli arrosciavano como sangue. Stato che fu nello palazzo de
Campituoglio, lo più aito, dìi quattro,
mannao per la obedienzia a tutti li baroni. Fra li aitri rechiese
Stefano della Colonna in Pellestrina.
Questo Stefanello remase piccolo guarzone po' la morte dello patre
Stefano e de Ianni Colonna sio
frate, como ditto ène. Redutto s'è ora in Pellestrina
allo forte. A questo Stefanello mannao doi citatini
de Roma, Buccio de Iubileo e Ianni Cafariello, per ammasciatori, che
devessi obedire li
commannamenti dello santo senato, sotto pena de soa ira. Questi
ammasciatori Stefanello retenne e
alcuni de essi mise in oscuritate. Anco li trasse uno dente e
connannaoli in quattrociento fiorini. Lo
sequente dìe curze li campi de Roma con suoi arcieri e
briganti. Tutto lo vestiame ne menava. Lo
romore se levao per Roma. La mormoranza ne venne allo tribuno della
preda de Romani che se ne
iva. Allora lo tribuno cavalcao con suoi pochi famigli. Solo iessìo
la porta. Li sollati lo sequitaro, tale
armato, tale no, secunno che lo tiempo pateva. Curzero da porta
Maiure, via de Pellestrina, per avia,
per locora salvatiche, deserte. La tratta fu vana, inutile. Non
trovaro né omo né vestia né arcieri. Li
arcieri e·lli fanti de Pellestrina dotti de guerra per moite
fiate descretamente avevano connutta la preda
e nascostala in una selva, la quale se chiama Pantano, che iace fra
Tivoli e Pellestrina. Là se tennero
queti. La notte saviamente quella preda trassero da Pantano e
salvarola in Pellestrina. Cercato che
abbe moito la iente dello tribuno, non trovanno cosa alcuna, perché
la notte era, venne alla citate de
Tivoli. Là posao. Fatta la dimane, la novella ionze che le
vestie de Romani erano tratte da Pantano e
connutte in Pellestrina. Allora lo tribuno irato disse: "Que
iova de ire de là e de cà per locora senza
vie? Non voglio più scelmire cosa della Colonna. Alle mano
voglio essere". Quattro dìi in Tivoli stette.
Mannao suoi editti. Espeditamente fece venire da Roma la romana
cavallaria, tutti li sollati da cavallo
e·lli fanti masnadieri. Era vivace de scrivere. Staieva sio
stennardo in Tivoli con soa arme de azule a
sole de aoro e stelle de ariento e coll'arma de Roma. Forte cosa!
Quello stennardo non era lucente
como era prima; staieva miserabile, fiacco, non daieva le code allo
viento regoglioso. Venuto lo stuolo
de suoi sollati, le moite banniere, cornamuse e trommette assai,
venuti missore Bettrone e missore
Arimbaldo, li quali li aveva fatti capitanii de guerra generali, li
sollati se mormoravano, ca volevano la
paca. Li conestavili todeschi demannavano moneta, ché loro
arme staievano in pegno. Moite scuse
trovao. Non valeva più la fuga. Vedi bella lerciaria che fece
alli suoi capitanii. Abbe missore Bettrone
e missore Arimbaldo e disseli: "Trovo scritto nelle storie
romane che non era moneta in Communo de
Roma per sollati. Lo consolo adunao li baroni de Roma, disse:"Noa
che avemo li offizii e·lle dignitate
siamo li primi a dunare quello che ciascheuno pò de bona
voluntate". Per quello duno fu adunata tanta
moneta, che iustamente la milizia fu pacata. Così voi doi
comenzete a dunare. La bona iente de Roma
vederao che voi forestieri dunate. Serrao pronta a dunare. Averemo
denari a furore". Li capitanii
allora li dunaro milli fiorini, cinqueciento per uno, in doi vorze.
Quella pecunia lo tribuno compartio alli
sollati. Alla fantaria deo mesa paca de moneta de tevertini. Puoi
adunao puopolo nella piazza de Santo
Lorienzo de Tivoli e fece soa bella diceria. Disse como era ito
venale anni sette, como fu in grazia de
Carlo imperatore, lo cui aiutorio de prossimo aspettava. Disse como
fu in grazia dello papa a despietto
de Colonnesi suoi nemici. Mo' era per lo papa senatore de Roma, non
lassato guidare per la tirannia de
Colonnesi, per Stefanello serpente venenoso, ionco vallico. Dunque
intenneva de desertare casa della
Colonna e farli peio che quello che prima li fece aitra voita. Casa
maladetta, ché per la loro supervia
terra de Roma vive in povertate. Le aitre contrade vivo in ricchezza.
Puoi aionze e disse: "Voglio fare
l'oste sopra Pellestrina e farli lo guasto generale. Dunqua prego voi
Tevertini che de buono core ce
accompagnete, in tanta necessitate ce sovengate, non ce abannonete".
Questa diceria fu fatta nello
parapietto delli Palloni. Fatta questa diceria, lo sequente dìe
mosse la fantaria forestiera, mosse tutta
soa cavallaria e·llo puopolo de Tivoli con grascia e con
arnese ad oste, e gìone a Castiglione de Santa
Perzeta. Là posao dìi doi. Là se adunao la iente
tutta. Puoi se mosse lo sequente dìe e fu sopra
Pellestrina con tutto sio sfuorzo, anno Domini MCCCLIII[I], de mese
[...], dìe [...] Assediao
Pellestrina e allocao lo tribuno l'oste a Santa Maria della Villa,
doi miglia da longa dalla citate. Là fuoro
milli cavalieri fra Romani e sollati, fu lo puopolo de Tivoli e de
Velletri, e·lle masnate delle
communanze intorno e della badia de Farfa, e de Campagna e della
Montagna. Puosto lo assedio,
ciasche perzona cobelle faceva. Solo esso Cola de Rienzi de continuo
aveva l'uocchi sopra Pellestrina.
Aizava la testa e resguardava lo aito colle, lo forte castiello, e
considerava per quale muodo potessi
confonnere e derovinare quelle edificia. Non levava lo sguardo
de·llà. Diceva: "Questo è quello monte
lo quale me conveo appianare". Spesso anco, continuo guardanno e
non movenno lo penzieri sio da
Pellestrina, vedeva che per la parte de sopra vestiame veniva da
pascere e entrava la porta de sopra
per abbeverare, puoi tornava alli pascoli. Anco vedeva da l'aitra
porta de sopra entrare uomini con
salmarie, con some. Vedeva la traccia longa delli vetturali che
venivano con fodere in Pellestrina.
Allora domannava quelli li quali staievano seco e diceva: "Quelli
somarieri que voco dicere?"
Responnevano quelli che con esso staievano: "Senatore, quello
vestiame veo da pascere e torna in
Pellestrina a l'acqua per vevere. Quelli uomini portano farina e
grascia per infoderare la terra che non
affamassi". Allora responneva e diceva: "Diceteme, non se
pòterano pigliare li passi, che questo
vestiame sì liberamente non issi a pastura e quelli non
portassino fodere?" Responnevano li meno liali
Romani e dicevano: "Tanta è la fortura delli monti de
Pellestrina, che quelle entrate de sopra e quelle
iessite non se·lli puoco vetare. Tanta è la
salvatichezza de questo luoco, che nulla oste là pòtera
demorare". Ma non era così. Anco era la cruditate delli
baroni de Roma, li quali staievano a vedere
que ne iessiva, non ce volevano operare. Allora lo tribuno disse
queste paravole: "Mai non te lento fi'
che non te consumo, Pellestrina. E se io po' la sconfitta de
Colonnesi a porta de Santo Lorienzo avessi
cavalcato collo puopolo de Roma, in questa terra liberamente entrava
senza contradizzione. Ià fora
deruvinata. Io non sostènnera allo presente questo affanno. Lo
puopolo de Roma vìssera in pace
reposato". Allo secunno dìe che l'oste posta fu, fu
comenzato lo guasto e fu depopulato tutto lo
ogliardino de Pellestrina, tutto lo piano fi' alla citate. Non remase
aitro che la parte de sopra, meno
che·llo terzo. Quello poco non fu depopulato, perché
alli dìi otto l'oste se partìo. E questa partenza fu
per doi cascioni. La prima, che Velletrani erano odiosi con
Tevertini. Subitamente se mettevano dentro
in Pellestrina. Per tale via fuoro auti sospietti che·lla
baratta non se levassi nell'oste. La secunna
cascione fu che·lla fante de missore [...] [...] "Sostenga
qui uno o doi de noi, lassi ire mi. Io li farraio
venire dieci milia, vinti milia fiorini e moneta e iente quanta li
piace. Deh, faccialo per Dio!" A queste
paravole non trovava tutore alcuno. Fatta la notte, preso da primo
suonno fra Monreale fu menato allo
tormento. Quanno vidde la corda, desdegnato con mormorazione disse:
"Ià ve aio bene ditto che voi
rustichi villani site. Voleteme ponere allo tormento. Non vedete che
io so' cavalieri? Como è in voi
tanta villania?" Puro un poco fu aizato. Allora disse: "Io
so' stato capo della Gran Compagnia. E
perché so' cavalieri, so' voluto vivere ad onore. Aio
revennute le citati de Toscana, messali la taglia,
derupate terre e presa la iente". Allora fu tornato nello luoco
delli suoi fratelli, intro li ceppi, redutto in
restretto fra suoi fratelli. Conubbe che morire li conveniva.
Domannao penitenza, e per tutta notte
abbe con seco uno frate lo quale lo confessava. E così ordinao
tutti suoi fatti. Odenno lo mormuorito
de suoi fratelli, ad ora se voitava ad essi, parlava. Queste paravole
diceva: "Doici frati, non dubitete.
Voi site zitielli iovini, non avete provate le onne della ventura.
Voi non morerete. Io moro e de mea
morte non dubito. La vita mea sempre fu con trivulazioni. Fastidio me
era lo vivere. De morire non
dubitava. So' contento, ca moro in quella terra dove morìo lo
biato santo Pietro e santo Pavolo, benché
nostra desaventura sia per toa colpa, missore Arimbaldo, che me hai
connutto qui in questo laberinto.
Non perciò questo lasso. Non ve mormorete, non ve dogliate de
me, ché io moro volentieri. Omo so',
como ciello fui ingannato, como l'aitri uomini so' traduto. Dio me
averao misericordia. Fui buono allo
munno, serraio buono denanti a Dio, e specialemente non dubito perché
venni con intenzione de bene
fare. Voi iovini site: temete, ca non avete conosciuto que ène
la fortuna. Pregove che ve amete e siate
valorosi allo munno, como fui io che me feci fare obedienzia alla
Puglia, Toscana e alla Marca".
Spesse voite così dicenno, lo dìe se fece. La matina
voize odire la messa, e odìola staienno scaizo a
nude gamme. All'ora de mesa terza fu sonata la campana e fu adunato
lo puopolo. Connutto fra
Monreale nelle scale allo lione, staieva inninocchiato denanti a
madonna santa Maria. Alle gote teneva
uno cappuccio de scuro con uno freso de aoro. Aduosso teneva uno
iuppariello de velluto bruno, cosito
de fila de auro. Descento era senza alcuno cegnimento. Le caize in
gamma de scuro. Le mano legate
larghe. Teneva la croce in mano. Tre fraticielli con esso staievano.
Mentre che odiva la sentenzia,
parlava e diceva: "Ahi Romani, como consentite mea morte? Mai
non ve feci offesa, ma la vostra
povertate e·lle mee ricchezze me faco morire". Puoi
diceva: "Dove so' io cuoito? Per bona fe' diece
tanta iente me aio veduta denanti e più che questa non è".
Puoi diceva: "So' alegro de morire là dove
morìo Pietro e Pavolo. La mea vita senza trivolazione non è
stata". Puoi diceva: "Tristo questo male
traditore po' la mea morte!" Nella sentenzia fuoro mentovate le
forche. Allora stordìo forte e levaose
sùbito in piedi como perzona smarrita. Allora quelli che
stavano intorno lo confortaro che non dubitassi.
Fecero fede che connannato era alla testa. De ciò fu contento,
stette queto. Abiato allo piano, per tutta
la strada non finava volverse de là e de cà. Parlava e
diceva: "Romani, iniustamente moro. Moro per
la vostra povertate e per le mie ricchezze. Questa citate intenneva
de relevare". Moite cose diceva. A
peta a peta la croce basava. Forte se maniava de quello che poteva.
Omo operativo, triomfatore,
sottile guerrieri. Da Cesari in cà mai non fu alcuno megliore.
Questo ène quello lo quale, con fortuna
arrivato, ruppe in piaia romana, como ditto ène de sopra della
galea sorrenata. Puoi che fu nello piano,
là dove fuoro le fonnamenta della torre, fatta la rota
intorno, inninocchiase in terra. Puoi se levao e
disse: "Io non staio bene". Voitaose invierzo oriente e
raccommannaose a Dio. Puoi se inninocchiao in
terra, basao lo ceppo e disse: "Dio te salvi, santa iustizia".
Fece colla mano una croce sopra lo ceppo e
basaola. Trasse lo cappuccio e iettaolo. Posta che li fu la mannara
in cuollo, favellao e disse: "Non
stao bene". Allora era seco moita bona iente, fra quali era lo
sio miedico de piaghe. Questo li trovao la
ionta. Puosto lo fierro, allo primo colpo stoizao in là. Pochi
peli della varva remasero nello ceppo. Frati
minori tuoizero sio cuorpo in una cassa, ionto lo capo collo vusto.
Pareva che atorno allo cuollo avessi
una zaganella de seta roscia. Fu tumulato in Santa Maria de
l'Arucielo lo escellente omo fra Monreale,
la cui fama sonao per tutta Italia de virtute e de gloria. In la
citate de Tivoli staieva uno domestico sio
de sio lenaio, lo quale, odita la morte de sio signore, lo sequente
dìe de dolore morìo senza remedio.
Muorto questo valente omo, li Romani ne staievano forte afferrati.
Allora lo tribuno adunao lo puopolo,
favellao e disse: "Signori, non staiate turbati della morte de
questo omo, ché ène stato lo peiore omo
dello munno. Hao derobato citate e castella, muorti e presi uomini e
donne, doi milia femine manna
cattive. Allo presente era venuto per turbare nuostro stato e non
relevarelo. Cercava de essere libero
signore. Esso voleva le grazie fare. Voleva depopulare Campagna e
terra de Roma, lo residuo de
Italia. Nostra briga bene connuceremo a buono fine colla grazia de
Dio. Ma allo presente farremo
como fao lo trescatore dello grano: la spulla e·lle scorze
voite manna allo viento, le vaca nette se serva
per si. Così noi avemo dannato questo faizo omo. La moneta
soa, li cavalli, le arme terremo per fare
nostra briga". Per queste paravole Romani fuoro alquanto
acquetati. Fra tanto una espressa lettera e
commannamento venne dallo legato che missore Arimbaldo li fussi
mannato sano e salvo. Così fu
fatto. Remase sio frate, missore Bettrone, in le catene. Della moneta
de fra Monreale abbe lo tribuno
gran parte; tutta no, perché missore Ianni de Castiello ne
abbe la maiure parte. Allora li nuobili de
Roma se guardavano da esso como da traditore, perché non
servava fede a sio amico. Allora Cola de
Rienzi pacao li sollati espeditamente, da pede e da cavallo, quelli
che remanere voizero. L'aitri
liberamente lassao tornare. Recoize arcieri in granne quantitate. Da
treciento uomini da cavallo aveva.
Fece capitanio dello puopolo lo savio e saputo guerrieri Liccardo
Imprennente delli Aniballi, signore de
Monte delli Compatri. Mise le masnate intorno alle terre de
Pellestrina. In Frascati teneva masnata de
fanti e de arcieri. In la Colonna teneva masnata de fanti e de
arcieri. In Castiglione de Santa Perzeta
mise masnata de fanti. In Tivoli teneva lo menescalco. Se reservao in
Roma, in Campituoglio, per
provedere, per vedere que era da fare. Granne penzieri aveva de
procacciare moneta per sollati.
Restretto se era a povera spesa; onne denaro voleva per pache. Mai
non fu veduto tale omo. Solo
esso portava lo penzieri de Romani. Più vedeva esso stanno in
Campituoglio che suoi officiali nelle
locora puosti. Sempre bussava, sempre scriveva alli officiali. Daieva
lo muodo, l'ordine da fare cose
e·lli fatti prestamente, de chiudere li passi donne se
facevano le offese, de prennere uomini e spie. Mai
non finava. Mai suoi officiali staievano lienti, freddi; non facevano
cosa notabile, salvo lo prode
guerrieri Liccardo, lo quale non se infegneva. Notte e dìe
faceva predare Colonnesi, per tutta
Campagna li persequitava. Non li lassava cogliere cielo. Consumava
Stefanello e Colonnesi e
Pellestrinesi. La guerra menava a buono fine, omo mastro che sapeva
li passi e·lle locora, conosceva li
tiempi. Sapevase fare amare da sollati. Era obedito de voglia.
Dicevano l'Ongari: "Mai non fu veduto
tale capitanio sì valoroso". Desarmato voitava la mano,
dicenno: "Quello vestiame venga cà". Como lo
diceva così veniva. A buono fine la guerra veniva. Ora voglio
contare la morte dello tribuno. Aveva lo
tribuno fatta una gabella de vino e de aitre cose. Puseli
nome"sussidio". Coize sei denari per soma de
vino. Coglievase la moita moneta. Romani se·llo comportavano
per avere stato. Anco stregneva lo
sale per più moneta avere. Anco stregneva soa vita e soa
famiglia in le spese. Onne cosa penza per
sollati. Repente prese uno citatino de Roma nobile assai, perzona
sufficiente, saputa: nome avea
Pannalfuccio de Guido. Omo virtuoso, assai desiderava la signoria
dello puopolo. E sì·lli troncao la
testa senza misericordia e cascione alcuna. Della cui morte tutta
Roma fu turbata. Staievano Romani
como pecorella. Queti non osavano favellare. Così temevano
questo tribuno como demonio. In loco
consilii obtinebat omnem suam voluntatem, nullo consiliatore
contradicente. Ipso instanti ridens
plangebat et emittens lacrimas et suspiria ridebat, tanta inerata ei
varietas et mobilitas
voluntatis. Ora lacrimava, ora sgavazzava. Puoi se deo a prennere la
iente. Prenneva questo e quello,
revennevali. Lo mormuorito quetamente per Roma sonava. Perciò
a fortezza de si sollao cinquanta
pedoni romani per ciasche rione, priesti ad onne stormo. Le pache non
li dava. Prometteva onne dìe.
Tenevali in spene. Promettevali abunnanzia de grano e cose assai.
Novissime cassao Liccardo della
capitania e fece aitri capitanii. Questa fu la soa sconfittura.
Allora lassao Liccardo lo predare e·llo
sollicito guerriare, mormorannose debitamente de sì ingrato
omo. Era dello mese de settiembro, a dìi
otto. Staieva Cola de Rienzi la dimane in sio lietto. Avease lavata
la faccia de grieco. Subitamente veo
voce gridanno: "Viva lo puopolo, viva lo puopolo". A questa
voce la iente traie per le strade de·llà e de
cà. La voce ingrossava, la iente cresceva. Nelle capocroce de
mercato accapitao iente armata che
veniva da Santo Agnilo e da Ripa e iente che veniva da Colonna e da
Treio. Como se ionzero
insiemmori, così mutata voce dissero: "Mora lo traditore
Cola de Rienzi, mora!" Ora se fionga la
ioventute senza rascione, quelli proprio che scritti aveva in sio
sussidio. Non fuoro tutti li rioni, salvo
quelli li quali ditti soco. Curzero allo palazzo de Campituoglio.
Allora se aionze lo moito puopolo, uomini
e femine e zitielli. Iettavano prete; faco strepito e romore;
intorniano lo palazzo da onne lato, dereto e
denanti, dicenno: "Mora lo traditore che hao fatta la gabella,
mora!" Terribile ène loro furore. A queste
cose lo tribuno reparo non fece. Non sonao la campana, non se guarnìo
de iente. Anco da prima
diceva: "Essi dico:"Viva lo puopolo", e anco noi lo
dicemo. Noi per aizare lo puopolo qui simo. Miei
scritti sollati so'. La lettera dello papa della mea confirmazione
venuta ène. Non resta se non piubicarla
in Consiglio". Quanno a l'uitimo vidde che·lla voce
terminava a male, dubitao forte; specialemente ché
esso fu abannonato da onne perzona vivente che in Campituoglio
staieva. Iudici, notari, fanti e onne
perzona aveva procacciato de campare la pelle. Solo esso con tre
perzone remase, fra li quali fu
Locciolo Pellicciaro, sio parente. Quanno vidde lo tribuno puro lo
tumuito dello puopolo crescere,
viddese abannonato e non proveduto, forte se dubitava. Demannava alli
tre que era da fare. Volenno
remediare, fecese voglia e disse: "Non irao così, per la
fede mea". Allora se armao guarnitamente de
tutte arme a muodo de cavalieri, la varvuta in testa, corazza e falle
e gammiere. Prese lo confallone
dello puopolo e solo se affece alli balconi della sala de sopra
maiure. Destenneva la mano, faceva
semmiante che tacessino, ca voleva favellare. Sine dubio che se lo
avessino scoitato li àbbera rotti e
mutati de opinione, l'opera era svaragliata. Ma Romani non lo
volevano odire. Facevano como li
puorci. Iettavano prete, valestravano. Curro con fuoco per ardere la
porta. Tante fuoro le valestrate
e·lli verruti, che alli balconi non potéo durare. Uno
verruto li coize la mano. Allora prese questo
confallone e stenneva lo sannato da ambedoi le mano. Mostrava le
lettere dello auro, l'arme delli
citatini de Roma, quasi venissi a dicere: "Parlare non me
lassate. Ecco che io so' citatino e popularo
como voi. Amo voi, e se occidete me, occidete voi che romani site".
Non vaize questi muodi tenere.
Peio fao la iente senza intellietto. "Mora lo traditore!"
chiama. Non potenno più sostenere, penzao per
aitra via campare. Dubitavase de remanere su nella sala de sopra,
perché anco stava presone missore
Bettrone de Narba, a chi fatta aveva tanta iniuria. Dubitava che non
lo occidessi con soie mano.
Conosceva e vedeva che responneva allo puopolo. Penzao partirse dalla
sala de sopra e delongarese
da missore Bettrone per cascione de più securitate. Allora
abbe tovaglie de tavola e legaose in centa e
fecese despozzare ioso nello scopierto denanti alla presone. Nella
presone erano li presonieri;
vedevano tutto. Tolle li chiavi e tenneli a sé. Delli
presonieri dubitava. De sopra nella sala remase
Locciolo Pellicciaro, lo quale a quanno a quanno se affaceva alli
balconi e faceva atti con mano, con
vocca allo puopolo e diceva: "Essolo che vene ioso dereto",
e issino dereto allo palazzo, ca dereto
veniva. Puoi se volvea allo tribuno, confortavalo e diceva che non
dubitassi. Puoi tornava allo puopolo
facenno li simili cenni: "Essolo dereto, essolo ioso dereto".
Davali la via e l'ordine. Locciolo lo occise.
Locciolo Pellicciaro confuse la libertate dello puopolo, lo quale mai
non trovao capo. Solo per quello
omo poteva trovare libertate. Solo Locciolo se·llo avessi
confortato, de fermo non moriva; ché fu arza
la sala, lo ponte della scala cadde a poca d'ora. Ad esso non poteva
alcuno venire. Lo dìe cresceva. Li
rioni della Regola e li aitri forano venuti, lo puopolo cresciuto, le
voluntate mutate per la diverzitate.
Onne omo fora tornato a casa, overo granne vattaglia stata fora. Ma
Locciolo li tolle la speranza. Lo
tribuno desperato se mise a pericolo della fortuna. Staienno allo
scopierto lo tribuno denanti alla
cancellaria, ora se traieva la varvuta, ora se·lla metteva.
Questo era che abbe da vero doi opinioni. La
prima opinione soa, de volere morire ad onore armato colle arme,
colla spada in mano fra lo puopolo a
muodo de perzona magnifica e de imperio. E ciò demostrava
quanno se metteva la varvuta e tenevase
armato. La secunna opinione fu de volere campare la perzona e non
morire. E questo demostrava
quanno se cavava la varvuta. Queste doi voluntate commattevano nella
mente soa. Venze la voluntate
de volere campare e vivere. Omo era como tutti li aitri, temeva dello
morire. Puoi che deliverao per
meglio de volere vivere per qualunche via potéo, cercao e
trovao lo muodo e·lla via, muodo vituperoso
e de poco animo. Ià li Romani aveano iettato fuoco nella prima
porta, lena, uoglio e pece. La porta
ardeva. Lo solaro della loia fiariava. La secunna porta ardeva e
cadeva lo solaro e·llo lename a piezzo
a piezzo. Orribile era lo strillare. Penzao lo tribuno devisato
passare per quello fuoco, misticarese colli
aitri e campare. Questa fu l'uitima soa opinione. Aitra via non
trovava. Dunque se spogliao le insegne
della baronia, l'arme puse io' in tutto. Dolore ène de
recordare. Forficaose la varva e tenzese la faccia
de tenta nera. Era là da priesso una caselluccia dove dormiva
lo portanaro. Entrato là, tolle uno tabarro
de vile panno, fatto allo muodo pastorale campanino. Quello vile
tabarro vestìo. Puoi se mise in capo
una coitra de lietto e così devisato ne veo ioso. Passa la
porta la quale fiariava, passa le scale e·llo
terrore dello solaro che cascava, passa l'uitima porta liberamente.
Fuoco non lo toccao. Misticaose
colli aitri. Desformato desformava la favella. Favellava campanino e
diceva: "Suso, suso a gliu
tradetore!" Se le uitime scale passava era campato. La iente
aveva l'animo suso allo palazzo. Passava
la uitima porta, uno se·lli affece denanti e sì·llo
reaffigurao, deoli de mano e disse: "Non ire. Dove vai
tu?" Levaoli quello piumaccio de capo, e massimamente che se
pareva allo splennore che daieva li
vraccialetti che teneva. Erano 'naorati: non pareva opera de riballo.
Allora, como fu scopierto, parzese
lo tribuno manifestamente: mostrao ca esso era. Non poteva dare più
la voita. Nullo remedio era se
non de stare alla misericordia, allo volere altruio. Preso per le
vraccia, liberamente fu addutto per tutte
le scale senza offesa fi' allo luoco dello lione, dove li aitri la
sentenzia vodo, dove esso sentenziato aitri
aveva. Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo omo era ardito
toccarelo. Là stette per meno de ora, la
varva tonnita, lo voito nero como fornaro, in iuppariello de seta
verde, scento, colli musacchini inaorati,
colle caize de biada a muodo de barone. Le vraccia teneva piecate. In
esso silenzio mosse la faccia,
guardao de·llà e de cà. Allora Cecco dello
Viecchio impuinao mano a uno stuocco e deoli nello ventre.
Questo fu lo primo. Immediate puo' esso secunnao lo ventre de Treio
notaro e deoli la spada in capo.
Allora l'uno, l'aitro e li aitri lo percuoto. Chi li dao, chi li
promette. Nullo motto faceva. Alla prima
morìo, pena non sentìo. Venne uno con una fune e
annodaoli tutti doi li piedi. Dierolo in terra,
strascinavanollo, scortellavanollo. Così lo passavano como
fussi criviello. Onneuno ne·sse iocava. Alla
perdonanza li pareva de stare. Per questa via fu strascinato fi' a
Santo Marciello. Là fu appeso per li
piedi a uno mignaniello. Capo non aveva. Erano remase le cocce per la
via donne era strascinato.
Tante ferute aveva, pareva criviello. Non era luoco senza feruta. Le
mazza de fòra grasse. Grasso era
orribilemente, bianco como latte insanguinato. Tanta era la soa
grassezza, che pareva uno esmesurato
bufalo overo vacca a maciello. Là pennéo dìi
doi, notte una. Li zitielli li iettavano le prete. Lo terzo dìe
de commannamento de Iugurta e de Sciarretta della Colonna fu
strascinato allo campo dell'Austa. Là
se adunaro tutti Iudiei in granne moititudine: non ne remase uno. Là
fu fatto uno fuoco de cardi secchi.
In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moita
grassezza da sé ardeva volentieri.
Staievano là li Iudiei forte affaccennati, afforosi, affociti.
Attizzavano li cardi perché ardessi. Così
quello cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne remase cica.
Questa fine abbe Cola de Rienzi, lo
quale se fece tribuno augusto de Roma, lo quale voize essere campione
de Romani. In cammora soa
fu trovato uno spiecchio de acciaro moito polito con carattere e
figure assai. In quello spiecchio
costregneva lo spirito de Fiorone. Anco li fuoro trovati pugillari
dove aveva scritti Romani, la coita che
voleva mettere. Lo primo ordine, ciento perzone da cinqueciento
fiorini; lo secunno ordine, ciento
perzone da quattrociento fiorini; lo terzo, da ciento fiorini; lo
quarto, da cinquanta fiorini; lo quinto, da
dieci fiorini. Quanno questo omo fu occiso currevano anni Domini
MCCCLIII[I], alli otto dìi de
settiembro in ora della terza. Non solamente questo fu muorto in
furore de puopolo, ma tutta soa
forestaria fu derobata de tutto arnese. Perdiero cavalli e arme.
Fuoro lassati nudi sì quelli che se
trovaro a Roma, sì quelli che staievano de fore per le
fortezze a guerriare. Vogliome stennere sopra
questa materia. Franceschi entraro in Roma e assediaro Tarpeia, lo
monte de Campituoglio. Per la
paura Romani se erano redutti là. Puoi che viddero che in
Tarpeia non era sufficienzia de fodero,
deliveraro de mannare fòra li veterani, como perzone inutile,
per avere più fodero, per salvare la
ioventute. Così fu. Li veterani, 'nanti che issiro fòra
de Tarpeia, fuoro in consiglio. Dissero così: "Noi
gimo alle case nostre. Fra li Franceschi per carnario muorti serremo
senza dubio. Meglio ène che
moramo in abito de virtute che de miseria. Onneuno se vesta le
ornamenta soie". Così fu. Li veterani
ne iro alle case. Ciascheuno se adobao con quelli ornamenti li quali
avevano auti nelle onoranze delli
offizii. Tale se vestìo a muodo de pontefice, tale a muodo de
senatore, chi de consolo. Allocarose nelli
facistuori adornati, colle bacchette in mano, adorni de prete
preziose e de aoro. Fra li aitri uno aveva
nome Papirio. Forte adorno staieva denanti la soa casa, cum pretexta,
cum trabea indutus. La
matina li Franceschi se maravigliaro de tale novitate, curzero a
vedere como cosa nova. Uno
Francesco prese la varva a questo Papirio e disse: "Ahi
vegliardo, vegliardo!" Allora Papirio se
desdegnao, perché lo Francesco non li favellava con
reverenzia, como l'abito sio mustrava. Destese la
bacchetta e ferìo lo Francesco nello capo, e non teméo
de morire per salvare la onoranza della
maiestate soa. Lo buono Romano dunqua non voize morire colla coitra
in capo como Cola de Rienzi
morìo.
Cap.XXVIII
Della
venuta de Carlo imperatore a Roma e della soa coronazione e della soa
partenza alla Alamagna.