Baldassar Castiglione
IL LIBRO DEL CORTEGIANO
Prefazione
AL REVERENDO ED ILLUSTRE SIGNOR
DON MICHEL DE SILVA,
VESCOVO DI VISEO.
I.
Quando il signor Guid'Ubaldo di Montefeltro, duca d'Urbino, passò di questa vita, io insieme con alcun'altri cavalieri che l'aveano servito restai alli servizi del duca Francesco Maria della Rovere, erede e successor di quello nel stato; e come nell'animo mio era recente l'odor delle virtú del duca Guido e la satisfazione che io quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone, come allora si ritrovarono nella corte d'Urbino, fui stimulato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io feci in pochi giorni, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo debito erano nati. Ma la fortuna già molt'anni m'ha sempre tenuto oppresso in così continui travagli, che io non ho mai potuto pigliar spazio di ridurgli a termine, che il mio debil giudicio ne restasse contento. Ritrovandomi adunque in Ispagna ed essendo di Italia avvisato che la agnora Vittoria dalla Colonna, marchesa di Pescara, alla quale io già feci copia del libro, contra la promessa sua ne avea fatto transcrivere una gran parte, non potei non sentirne qualche fastidio, dubitandomi di molti inconvenienti, che in simili casi possono occorrere; nientedimeno mi confidai che l'ingegno e prudenzia di quella Signora, la virtú della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina, bastasse a rimediare che pregiudicio alcuno non mi venisse dall'aver obedito a' suoi comandamenti. In ultimo seppi che quella parte del libro si ritrovava in Napoli in mano di molti; e, come sono gli omini sempre cupidi di novità, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere. Ond'io, spaventato da questo periculo, diterminaimi di riveder súbito nel libro quel poco che mi comportava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male lasciarlo veder poco castigato per mia mano che molto lacerato per man d'altri. Cosí, per eseguire questa deliberazione cominciai a rileggerlo; e súbito nella prima fronte, ammonito dal titulo, presi non mediocre tristezza, la qual ancora nel passar piú avanti molto si accrebbe, ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono introdutti nei ragionamenti', esser già morti: che, oltre a quelli de chi si fa menzione nel proemio dell'ultimo, morto è il medesimo messer Alfonso Ariosto, a cui il libro è indrizzato, giovane affabile, discreto, pieno di suavissimi costumi ed atto ad ogni cosa conveniente ad omo di corte. Medesimamente il duca Iuliano de' Medici, la cui bontà e nobil cortesia meritava piú lungamente dal mondo esser goduta. Messer Bernardo, Cardinal di Santa Maria in Portico, il quale per una acuta e piacevole prontezza d'ingegno fu gratissimo a qualunque lo conobbe, Pur è morto. Morto è il signor Ottavian Fregoso, omo a' nostri tempi rarissimo, magnanimo, religioso, pien di bontà, d'ingegno, prudenzia e cortesia e veramente amico d'onore e di virtú e tanto degno di laude, che li medesimi inimici suoi furono sempre constretti a laudarlo; e quelle disgrazie, che esso constantissimamente supportò, ben furono bastanti a far fede che la fortuna, come sempre fu, cosí è ancor oggidí contraria alla virtú. Morti sono ancor molti altri dei nominati nel libro, ai quali parea che la natura promettesse lunghissima vita. Ma quello che senza lacrime raccontar non si devria è che la signora Duchessa essa ancor è morta; e se l'animo mio si turba per la perdita de tanti amici e signori mei, che m'hanno lasciato in questa vita come in una solitudine piena d'affanni, ragion è che molto piú acerbamente senta il dolore della morte della signora Duchessa che di tutti gli altri, perché essa molto piú che tutti gli altri valeva ed io ad essa molto piú che a tutti gli altri era tenuto. Per non tardare adunque a pagar quello, che io debbo alla memoria de cosí eccellente Signora e degli altri che piú non vivono, indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevità del tempo m'è stato concesso. E perché voi né della signora Duchessa né degli altri che son morti, fuor che del duca Iuliano e del Cardinale di Santa Maria in Portico, aveste noticia in vita loro, acciò che, per quanto io posso, l'abbiate dopo la morte, mandovi questo libro come un ritratto di pittura della corte d'Urbino, non di mano di Rafaello o Michel Angelo, ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali, senza adornar la verità de vaghi colori o far parer per arte di prospettiva quello che non è. E come ch'io mi sia sforzato di dimostrar coi ragionamenti le proprietà e condicioni di quelli che vi sono nominati, confesso non avere, non che espresso, ma né anco accennato le virtú della signora Duchessa; perché non solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l'intelletto ad imaginarle; e se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so che nel libro molte non mancano) sarò ripreso, non contradirò alla verità.
II.
Ma perché talor gli omini tanto si dilettano di riprendere, che riprendono ancor quello che non merita riprensione, ad alcuni che mi biasimano perch'io non ho imitato il Boccaccio, né mi sono obligato alla consuetudine del parlar toscano d'oggidí, non restarò di dire che, ancor che 'l Boccaccio fusse di gentil ingegno, secondo quei tempi, e che in alcuna parte scrivesse con discrezione ed industria, nientedimeno assai meglio scrisse quando si lassò guidar solamente dall'ingegno ed instinto suo naturale, senz'altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenzia e fatica si sforzò d'esser piú culto e castigato. Perciò li medesimi suoi fautori affermano che esso nelle cose sue proprie molto s'ingannò di giudicio, tenendo in poco quelle che gli hanno fatto onore ed in molto quelle che nulla vagliono. Se adunque io avessi imitato quella manera di scrivere che in lui è ripresa da chi nel resto lo lauda, non poteva fuggire almen quelle medesime calunnie, che al proprio Boccaccio son date circa questo; ed io tanto maggiori le meritava, quanto che l'error suo allor fu credendo di far bene ed or il mio sarebbe stato conoscendo di far male. Se ancora avessi imitato quel modo che da molti è tenuto per bono e da esso fu men apprezzato, parevami con tal imitazione far testimonio d'esser discorde di giudicio da colui che io imitava; la qual cosa, secondo me, era inconveniente. E quando ancora questo rispetto non m'avesse mosso, io non poteva nel subietto imitarlo, non avendo esso mai scritto cosa alcuna di materia simile a questi libri del Cortegiano; e nella lingua, al parer mio, non doveva, perché la forza e vera regula del parlar bene consiste piú nell'uso che in altro, e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine. Perciò non era conveniente ch'io usassi molte di quelle del Boccaccio, le quali a' suoi tempi s'usavano ed or sono disusate dalli medesimi Toscani. Non ho ancor voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano d'oggidí, perché il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall'una all'altra, quasi come le mercanzie, cosí ancor novi vocabuli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobati; e questo, oltre il testimonio degli antichi, vedesi chiaramente nel Boccaccio, nel qual son tante parole franzesi, spagnole e provenzali ed alcune forse non ben intese dai Toscani moderni, che chi tutte quelle levasse farebbe il libro molto minore. E perché al parer mio la consuetudine del parlare dell'altre città nobili d'Italia, dove concorrono omini savi, ingeniosi ed eloquenti, e che trattano cose grandi di governo de' stati, di lettere, d'arme e negoci diversi, non deve essere del tutto sprezzata, dei vocabuli che in questi lochi parlando s'usano, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli, che hanno in sé grazia ed eleganzia nella pronunzia e son tenuti communemente per boni e significativi, benché non siano toscani ed ancor abbiano origine di fuor d'Italia. Oltre a questo usansi in Toscana molti vocabuli chiaramente corrotti dal latino, li quali nella Lombardia e nelle altre parti d'Italia son rimasti integri e senza mutazione alcuna, e tanto universalmente s'usano per ognuno, che dalli nobili sono ammessi per boni e dal vulgo intesi senza difficultà. Perciò non penso aver commesso errore, se io scrivendo ho usato alcuni di questi e piú tosto pigliato l'integro e sincero della patria mia che 'l corrotto e guasto della aliena. Né mi par bona regula quella che dicon molti, che la lingua vulgar tanto è piú bella, quanto è men simile alla latina; né comprendo perché ad una consuetudine di parlare si debba dar tanto maggiore autorità che all'altra, che, se la toscana basta per nobilitare i vocabuli latini corrotti e manchi e dar loro tanta grazia che, cosí mutilati, ognun possa usarli per boni (il che non si nega), la lombarda o qualsivoglia altra non debba poter sostener li medesimi latini puri, integri, proprii e non mutati in parte alcuna, tanto che siano tollerabili. E veramente, sí come il voler formar vocabuli novi o mantenere gli antichi in dispetto della consuetudine dir si po temeraria presunzione, cosí il voler contra la forza della medesima consuetudine distruggere e quasi sepelir vivi quelli che durano già molti seculi, e col scudo della usanza si son diffesi dalla invidia del tempo ed han conservato la dignità e 'l splendor loro, quando per le guerre e ruine d'Italia si son fatte le mutazioni della lingua, degli edifici, degli abiti e costumi, oltra che sia difficile, par quasi una impietà. Perciò, se io non ho voluto scrivendo usare le parole del Boccaccio che piú non s'usano in Toscana, né sottopormi alla legge di coloro, che stimano che non sia licito usar quelle che non usano li Toscani d'oggidí, parmi meritare escusazione. Penso adunque, e nella materia del libro e nella lingua, per quanto una lingua po aiutar l'altra, aver imitato autori tanto degni di laude quanto è il Boccaccio; né credo che mi si debba imputare per errore lo aver eletto di farmi piú tosto conoscere per lombardo parlando lombardo, che per non toscano parlando troppo toscano; per non fare come Teofrasto, il qual, per parlare troppo ateniese, fu da una simplice vecchiarella conosciuto per non ateniese. Ma perché circa questo nel primo libro si parla a bastanza, non dirò altro se non che, per rimover ogni contenzione, io confesso ai mei riprensori non sapere questa lor lingua toscana tanto difficile e recondita; e dico aver scritto nella mia, e come io parlo, ed a coloro che parlano come parl'io; e cosí penso non avere fatto ingiuria ad alcuno, ché, secondo me, non è proibito a chi si sia scrivere e parlare nella sua propria lingua; né meno alcuno è astretto a leggere o ascoltare quello che non gli aggrada. Perciò, se essi non vorran leggere il mio Cortegiano, non me tenerò io punto da loro ingiuriato.
III.
Altri dicono che, essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar un omo cosí perfetto come io voglio che sia il cortegiano, è stato superfluo il scriverlo perché vana cosa è insegnare quello che imparare non si po. A questi rispondo che mi contentarò aver errato con Platone, Senofonte e Marco Tullio, lassando il disputare del mondo intelligibile e delle idee; tra le quali, sí come, secondo quella opinione, è la idea della perfetta republica e del perfetto re e del perfetto oratore, cosí è ancora quella del perfetto cortegiano; alla imagine della quale s'io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica averanno i cortegiani d'approssimarsi con l'opere al termine e mèta, ch'io col scrivere ho loro proposto; e se con tutto questo non potran conseguir quella perfezion, qual che ella si sia, ch'io mi son sforzato d'esprimere, colui che piú se le avvicinarà sarà il piú perfetto, come di molti arcieri che tirano ad un bersaglio, quando niuno è che dia nella brocca, quello che piú se le accosta senza dubbio è miglior degli altri.
Alcuni ancor dicono ch'io ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le condizioni, ch'io al cortegiano attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio già negar di non aver tentato tutto quello ch'io vorrei che sapesse il cortegiano; e penso che chi non avesse avuto qualche notizia delle cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato, mal avrebbe potuto scriverle; ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che so desiderare.
La diffesa adunque di queste accusazioni e, forse, di molt'altre rimetto io per ora al parere della commune opinione; perché il piú delle volte la moltitudine, ancor che perfettamente non conosca, sente però per instinto di natura un certo odore del bene e del male e, senza saperne rendere altra ragione, l'uno gusta ed ama e l'altro rifiuta ed odia. Perciò, se universalmente il libro piacerà, terrollo per bono e pensarò che debba vivere; se ancor non piacerà, terrollo per malo e tosto crederò che se n'abbia da perdere la memoria. E se pur i mei accusatori di questo commun giudicio non restano satisfatti, contentinsi almeno di quello del tempo; il quale d'ogni cosa al fin scuopre gli occulti diffetti e, per esser padre della verità e giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scritture giusta sentenzia.
BALDESAR CASTIGLIONE
Parte prima.
IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO.
DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO.
II.
Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, qual di due cose piú difficil mi fusse; o il negarvi quel che con tanta instanzia piú volte m'avete richiesto, o il farlo: perché da un canto mi parea durissimo negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona ch'io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato; dall'altro ancor pigliar impresa, la quale io non conoscessi poter condur a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano. In ultimo, dopo molti pensieri, ho deliberato esperimentare in questo quanto aiuto porger possa alla diligenzia mia quella affezione e desiderio intenso di compiacere, che nell'altre cose tanto sòle accrescere la industria degli omini.
Voi adunque mi richiedete ch'io scriva qual sia, al parer mio, la forma di cortegiania piú conveniente a gentilomo che viva in corte de' príncipi, per la quale egli possa e sappia perfettamente loro servire in ogni cosa ragionevole, acquistandone da essi grazia e dagli altri laude; in somma, di che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto cortegiano, tanto che cosa alcuna non gli manchi. Onde io, considerando tal richiesta, dico che, se a me stesso non paresse maggior biasimo l'esser da voi reputato poco amorevole che da tutti gli altri poco prudente, arei fuggito questa fatica, per dubbio di non esser tenuto temerario da tutti quelli che conoscono come difficil cosa sia, tra tante varietà di costumi che s'usano nelle corti di Cristianità, eleggere la piú perfetta forma e quasi il fior di questa cortegiania, perché la consuetudine fa a noi spesso le medesime cose piacere e dispiacere; onde talor procede che i costumi, gli abiti, i riti e i modi, che un tempo son stati in pregio, divengono vili, e per contrario i vili divengon pregiati. Però si vede chiaramente che l'uso piú che la ragione ha forza d'introdur cose nove tra noi e cancellar l'antiche; delle quali chi cerca giudicar la perfezione, spesso s'inganna. Per il che, conoscendo io questa e molte altre difficultà nella materia propostami a scrivere, son sforzato a fare un poco di escusazione e render testimonio che questo errore, se pur si po dir errore, a me è commune con voi, acciò che, se biasmo a venir me ne ha, quello sia ancor diviso con voi; perché non minor colpa si dee estimar la vostra avermi imposto carico alle mie forze disequale, che a me averlo accettato.
Vegniamo adunque ormai a dar principio a quello che è nostro presuposto e, se possibil è, formiamo un cortegian tale, che quel principe che sarà degno d'esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore. Noi in questi libri non seguiremo un certo ordine o regula di precetti distinti, che 'l piú delle volte nell'insegnare qualsivoglia cosa usar si sòle; ma alla foggia di molti antichi, rinovando una grata memoria, recitaremo alcuni ragionamenti, i quali già passarono tra omini singularissimi a tale proposito; e benché io non v'intervenissi presenzialmente per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra, avendogli poco appresso il mio ritorno intesi da persona che fidelmente me gli narrò, sforzerommi a punto, per quanto la memoria mi comporterà, ricordarli, acciò che noto vi sia quello che abbiano giudicato e creduto di questa materia omini degni di somma laude ed al cui giudicio in ogni cosa prestar si potea indubitata fede. Né fia ancor fuor di proposito, per giungere ordinatamente al fine dove tende il parlar nostro, narrar la causa dei successi ragionamenti.
II.
Alle pendici dell'Appennino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città d'Urbino; la quale, benché tra monti sia, e non cosí ameni come forse alcun'altri che veggiamo in molti lochi, pur di tanto avuto ha il cielo favorevole, che intorno il paese è fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrità dell'aere, si trova abundantissima d'ogni cosa che fa mestieri per lo vivere umano. Ma tra le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo sia la principale, che da gran tempo in qua sempre è stata dominata da ottimi Signori; avvenga che nelle calamità universali delle guerre della Italia essa ancor per un tempo ne sia restata priva. Ma non ricercando piú lontano, possiamo di questo far bon testimonio con la gloriosa memoria del duca Federico, il quale a' dí suoi fu lume della Italia; né mancano veri ed amplissimì testimonii, che ancor vivono, della sua prudenzia, della umanità, della giustizia, della liberalità, dell'animo invitto e della disciplina militare; della quale precipuamente fanno fede le sue tante vittorie, le espugnazioni de lochi inespugnabili, la súbita prestezza nelle espedizioni, l'aver molte volte con pochissime genti fuggato numerosi e validissimi eserciti, né mai esser stato perditore in battaglia alcuna; di modo che possiamo non senza ragione a molti famosi antichi agguagliarlo. Questo, tra l'altre cose sue lodevoli, nell'aspero sito d'Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d'ogni oportuna cosa sí ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva; e non solamente di quello che ordinariamente si usa, come vasi d'argento, apparamenti di camere di ricchissimi drappi d'oro, di seta e d'altre cose simili, ma per ornamento v'aggiunse una infinità di statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime, instrumenti musici d'ogni sorte; né quivi cosa alcuna volse, se non rarissima ed eccellente. Appresso con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d'oro e d'argento, estimando che questa fusse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo.
III.
Costui adunque, seguendo il corso della natura, già di sessantacinque anni, come era visso, cosí gloriosamente morí; ed un figliolino di diece anni, che solo maschio aveva e senza madre, lasciò signore dopo sé; il qual fu Guid'Ubaldo. Questo, come dello stato, cosí parve che di tutte le virtú paterne fosse erede, e súbito con maravigliosa indole cominciò a promettere tanto di sé, quanto non parea che fusse licito sperare da uno uom mortale; di modo che estimavano gli omini delli egregi fatti del duca Federico niuno esser maggiore, che l'avere generato un tal figliolo. Ma la fortuna, invidiosa di tanta virtú, con ogni sua forza s'oppose a cosí glorioso principio, talmente che, non essendo ancor il duca Guido giunto alli venti anni, s'infermò di podagre, le quali con atrocissimi dolori procedendo, in poco spazio di tempo talmente tutti i membri gli impedirono, che né stare in piedi né moversi potea; e cosí restò un dei piú belli e disposti corpi del mondo deformato e guasto nella sua verde età. E non contenta ancor di questo, la fortuna in ogni suo disegno tanto gli fu contraria, ch'egli rare volte trasse ad effetto cosa che desiderasse; e benché in esso fosse il consiglio sapientissimo e l'animo invittissimo, parea che ciò che incominciava, e nell'arme e in ogni altra cosa o piccola o grande, sempre male gli succedesse: e di ciò fanno testimonio molte e diverse sue calamità, le quali esso con tanto vigor d'animo sempre tollerò, che mai la virtú dalla fortuna non fu superata; anzi, sprezzando con l'animo valoroso le procelle di quella, e nella infirmità come sano e nelle avversità come fortunatissimo, vivea con somma dignità ed estimazione appresso ognuno; di modo che, avvenga che cosí fusse del corpo infermo, militò con onorevolissime condicioni a servicio dei serenissimi re di Napoli Alfonso e Ferrando minore; appresso con papa Alessandro VI, coi signori Veneziani e Fiorentini. Essendo poi asceso al pontificato Iulio II, fu fatto Capitan della Chiesa; nel qual tempo, seguendo il suo consueto stile, sopra ogni altra cosa procurava che la casa sua fusse di nobilissimi e valorosi gentilomini piena, coi quali molto familiarmente viveva, godendosi della conversazione di quelli:
nella qual cosa non era minor il piacer che esso ad altrui dava, che quello che d'altrui riceveva, per esser dottissimo nell'una e nell'altra lingua, ed aver insieme con l'affabilità e piacevolezza congiunta ancor la cognizione d'infinite cose; ed oltre a ciò tanto la grandezza dell'animo suo lo stimulava che, ancor che esso non potesse con la persona esercitar l'opere della cavalleria, come avea già fatto, pur si pigliava grandissimo piacer di vederle in altrui; e con le parole, or correggendo or laudando ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava quanto giudicio circa quelle avesse; onde nelle giostre, nei torniamenti, nel cavalcare, nel maneggiar tutte le sorti d'arme, medesimamente nelle feste, nei giochi, nelle musiche, in somma in tutti gli esercizi convenienti a nobili cavalieri, ognuno si sforzava di mostrarsi tale, che meritasse esser giudicato degno di cosí nobile commerzio.
IV.
Erano adunque tutte l'ore del giorno divise in onorevoli e piacevoli esercizi cosí del corpo come dell'animo; ma perché il signor Duca continuamente, per la infirmità, dopo cena assai per tempo se n'andava a dormire, ognuno per ordinario dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga a quell'ora si riduceva; dove ancor sempre si ritrovava la signora Emilia Pia, la qual per esser dotata di così vivo ingegno e giudicio, come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore. Quivi adunque i soavi ragionamenti e l'oneste facezie s'udivano, e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria; né mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; ché, lassando quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quello che già di sopra ho detto, a tutti nascea nell'animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di voluntà o amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commerzio; ché a ciascuno era licito parlare, sedere, scherzare e ridere con chi gli parea: ma tanta era la reverenzia che si portava al voler della signora Duchessa, che la medesima libertà era grandissimo freno; né era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per la qual cosa quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti ed erano i giochi e i risi al suo conspetto conditi, oltre agli argutissimi sali, d'una graziosa e grave maestà; ché quella modestia e grandezza che tutti gli atti e le parole e i gesti componeva della signora Duchessa, motteggiando e ridendo, facea che ancor da chi mai piú veduta non l'avesse, fosse per grandissima signora conosciuta. E cosí nei circonstanti imprimendosi, parea che tutti alla qualità e forma di lei temperasse; onde ciascuno questo stile imitare si sforzava, pigliando quasi una norma di bei costumi dalla presenzia d'una tanta e cosí virtuosa signora:
le ottime condizioni della quale io per ora non intendo narrare, non essendo mio proposito, e per esser assai note al mondo e molto piú ch'io non potrei né con lingua né con penna esprimere; e quelle che forse sariano state alquanto nascoste, la fortuna, come ammiratrice di cosí rare virtú, ha voluto con molte avversità e stimuli di disgrazie scoprire, per far testimonio che nel tenero petto d'una donna in compagnia di singular bellezza possono stare la prudenzia e la fortezza d'animo, e tutte quelle virtú che ancor ne' severi omini sono rarissime.
V.
Ma lassando questo, dico che consuetudine di tutti i gentilomini della casa era ridursi súbito dopo cena alla signora Duchessa; dove, tra l'altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, talor si proponeano belle questioni, talor si faceano alcuni giochi ingeniosi ad arbitrio or d'uno or d'un altro, ne' quali sotto varii velami spesso scoprivano i circonstanti allegoricamente i pensier sui a chi piú loro piaceva. Qualche volta nasceano altre disputazioni di diverse materie, o vero si mordea con pronti detti; spesso si faceano imprese come oggidì chiamiamo; dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissimi ingegni; tra i quali, come sapete, erano celeberrimi il signor Ottaviano Fregoso, messer Federico suo fratello, il Magnifico Iuliano de' Medici, messer Pietro Bembo, messer Cesar Gonzaga, il conte Ludovico da Canossa, il signor Gaspar Pallavicino, il signor Ludovico Pio, il signor Morello da Ortona, Pietro da Napoli, messer Roberto da Bari ed infiniti altri nobilissimi cavalieri; oltra che molti ve n'erano, i quali, avvenga che per ordinario non stessino quivi fermamente, pur la maggior parte del tempo vi dispensavano; come messer Bernardo Bibiena, l'Unico Aretino, Ioanni Cristoforo Romano Pietro Monte, Terpandro, messer Nicolò Frisio; di modo che sempre poeti, musici e d'ogni sorte omini piacevoli e li più eccellenti in ogni facultà che in Italia si trovassino, vi concorrevano.
VI.
Avendo adunque papa Iulio II con la presenzia sua e con l'aiuto de' Franzesi ridutto Bologna alla obedienzia della sede apostolica nell'anno MDVI, e ritornando verso Roma, passò per Urbino; dove quanto era possibile onoratamente e con quel piú magnifico e splendido apparato che si avesse potuto fare in qualsivoglia altra nobil città d'Italia, fu ricevuto; di modo che, oltre il Papa, tutti i signor cardinali ed altri cortegiani restarono summamente satisfatti; e furono alcuni, i quali, tratti dalla dolcezza di questa compagnia, partendo il Papa e la corte, restarono per molti giorni ad Urbino; nel qual tempo non solamente si continuava nell'usato stile delle feste e piaceri ordinari, ma ognuno si sforzava d'accrescere qualche cosa, e massimamente nei giochi, ai quali quasi ogni sera s'attendeva. E l'ordine d'essi era tale che, súbito giunti alla presenzia della signora Duchessa, ognuno si ponea a sedere a piacer suo o, come la sorte portava, in cerchio; ed erano sedendo divisi un omo ed una donna, fin che donne v'erano, che quasi sempre il numero degli omini era molto maggiore; poi, come alla signora Duchessa pareva si governavano, la quale per lo piú delle volte ne lassava il carico alla signora Emilia. Cosí il giorno appresso la partita del Papa, essendo all'ora usata ridutta la compagnia al solito loco, dopo molti piacevoli ragionamenti la signora Duchessa volse pur che la signora Emilia cominciasse i giochi; ed essa, dopo l'aver alquanto rifiutato tal impresa, cosí disse: Signora mia, poiché pur a voi piace ch'io sia quella che dia principio ai giochi di questa sera, non possendo ragionevolmente mancar d'obedirvi, delibero proporre un gioco, del qual penso dover aver poco biasmo e men fatica; e questo sarà ch'ognun proponga secondo il parer suo un gioco non piú fatto; da poi si eleggerà quello che parerà esser piú degno di celebrarsi in questa compagnia . E cosí dicendo, si rivolse al signor Gaspar Pallavicino, imponendogli che 'l suo dicesse; il qual súbito rispose: A voi tocca, signora, dir prima il vostro . Disse la signora Emilia: Eccovi ch'io l'ho detto, ma voi, signora Duchessa, commandategli ch'e' sia obediente .
Allor la signora Duchessa ridendo, Acciò, disse, che vi abbia ad obedire, vi faccio mia locotenente e vi do tutta la mia autorità
VII.
Gran cosa è pur, rispose il signor Gaspar, che sempre alle donne sia licito aver questa esenzione di fatiche, e certo ragion saria volerne in ogni modo intender la cagione; ma per non esser io quello che dia principio a disobedire, lasserò questo ad un altro tempo e dirò quello che mi tocca; e cominciò: A me pare che gli animi nostri, sí come nel resto, cosí ancor nell'amare siano di giudicio diversi, e perciò spesso interviene che quello che all'uno è gratissimo, all'altro sia odiosissimo. Ma con tutto questo, sempre però si concordano in aver ciascuno carissima la cosa amata, talmente che spesso la troppo affezione degli amanti di modo inganna il loro giudicio, che estiman quella persona che amano essere sola al mondo ornata d'ogni eccellente virtú e senza diffetto alcuno; ma perché la natura umana non ammette queste cosí compite perfezioni, né si trova persona a cui qualche cosa non manchi, non si po dire che questi tali non s'ingannino e che lo amante non divenga cieco circa la cosa amata. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fosse, che ciascun dicesse di che virtú precipuamente vorrebbe che fosse ornata quella persona ch'egli ama; e poiché cosí è necessario che tutti abbiano qualche macchia, qual vicio ancor vorrebbe che in essa fosse, per veder chi saprà ritrovare piú lodevoli ed utili virtù e più escusabili vicii, e meno a chi ama nocivi ed a chi è amato . Avendo cosí detto il signor Gaspar, fece segno la signora Emilia a madonna Costanza Fregosa, per esser in ordine vicina, che seguitasse; la qual già s'apparechiava a dire; ma la signora Duchessa súbito disse: Poiché madonna Emilia non vole affaticarsi in trovar gioco alcuno, sarebbe pur ragione che l'altre donne partecipassino di questa commodità, ed esse ancor fussino esente di tal fatica per questa sera, essendoci massimamente tanti omini, che non è pericolo che manchin giochi.
Cosí faremo, rispose la signora Emilia; ed imponendo silenzio a madonna Costanza, si volse a messer Cesare Gonzaga, che le sedeva a canto, e gli commandò che parlasse; ed esso cosí cominciò:
VIII.
Chi vol con diligenzia considerar tutte le nostre azioni, trova sempre in esse varii diffetti; e ciò procede perché la natura, cosí in questo come nell'altre cose varia, ad uno ha dato lume di ragione in una cosa, ad un altro in un'altra: però interviene che, sapendo l'un quello che l'altro non sa ed essendo ignorante di quello che l'altro intende, ciascun conosce facilmente l'error del compagno e non il suo ed a tutti ci pare essere molto savi, e forse piú in quello in che piú siamo pazzi; per la qual cosa abbiam veduto in questa casa esser occorso che molti, i quali al principio son stati reputati savissimi, con processo di tempo si son conosciuti pazzissimi; il che d'altro non è proceduto che dalla nostra diligenzia. Ché, come si dice che in Puglia circa gli atarantati, s'adoprano molti instrumenti di musica e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmità, per una certa convenienzia ch'egli ha con alcuno di que' suoni, sentendolo, súbito si move e tanto agita lo infermo, che per quella agitazion si riduce a sanità, cosí noi, quando abbiamo sentito qualche nascosa virtú di pazzia, tanto sottilmente e con tante varie persuasioni l'abbiamo stimulata e con sí diversi modi, che pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, cosí ben l'abbiam agitato, che sempre s'è ridutto a perfezion di publica pazzia; e chi è riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare, chi in giocar di spada, ciascun secondo la minera del suo metallo; onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato possa multiplicar quasi in infinito. Però vorrei che questa sera il gioco nostro fusse il disputar questa materia e che ciascun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch'io impazzissi e sopra che cosa, giudicando questo esito per le scintille di pazzia che ogni dí si veggono di me uscire; il medesimo si dica de tutti gli altri, servando l'ordine de' nostri giochi, ed ognuno cerchi di fondar la opinion sua sopra qualche vero segno ed argumento.
E cosí di questo nostro gioco ritraremo frutto ciascun di noi di conoscere i nostri diffetti, onde meglio ce ne potrem guardare; e se la vena di pazzia che scopriremo sarà tanto abundante che ci paia senza rimedio, l'aiutaremo e, secondo la dottrina di fra Mariano, averemo guadagnato un'anima, che non fia poco guadagno . Di questo gioco si rise molto, né alcun era che si potesse tener di parlare; chi diceva, Io impazzirei nel pensare ; chi, Nel guardare ; chi dicea, Io già son impazzito in amare ; e tali cose.
IX.
Allor fra Serafino, a modo suo ridendo: Questo, disse, sarebbe troppo lungo; ma se volete un bel gioco, fate che ognuno dica il parer suo, onde è che le donne quasi tutte hanno in odio i ratti ed aman le serpi; e vederete che niuno s'apporrà, se non io, che so questo secreto per una strana via . E già cominciava a dir sue novelle; ma la signora Emilia gli impose silenzio, e trapassando la dama che ivi sedeva, fece segno all'Unico Aretino, al qual per l'ordine toccava; ed esso, senza aspettar altro comandamento, Io, disse, vorrei esser giudice con autorità di poter con ogni sorte di tormento investigar di sapere il vero da' malfattori; e questo per scoprir gl'inganni d'una ingrata, la qual, cogli occhi d'angelo e cor di serpente, mai non accorda la lingua con l'animo e con simulata pietà ingannatrice a niun'altra cosa intende, che a far anatomia de' cori: né se ritrova cosí velenoso serpe nella Libia arenosa, che tanto di sangue umano sia vago, quanto questa falsa; la qual non solamente con la dolcezza della voce e meliflue parole, ma con gli occhi, coi risi, coi sembianti e con tutti i modi è verissima sirena.
Però, poiché non m'è licito, com'io vorrei, usar le catene, la fune o 'l foco per saper una verità, desidero di saperla con un gioco, il quale è questo: che ognun dica ciò che crede che significhi quella lettera S, che la signora Duchessa porta in fronte; perché, avvenga che certamente questo ancor sia un artificioso velame per poter ingannare, per avventura si gli darà qualche interpretazione da lei forse non pensata. e trovarassi che la fortuna, pietosa riguardatrice dei martíri degli omini, l'ha indutta con questo piccol segno a scoprire non volendo l'intimo desiderio suo, di uccidere e sepellir vivo in calamità chi la mira o la serve . Rise la signora Duchessa, e vedendo l'Unico ch'ella voleva escusarsi di questa imputazione, Non, disse, non parlate, Signora, che non è ora il vostro loco di parlare . La signora Emilia allor si volse e disse: Signor Unico, non è alcun di noi qui che non vi ceda in ogni cosa, ma molto piú nel conoscer l'animo della signora Duchessa; e cosí come piú che gli altri lo conoscete per lo ingegno vostro divino, l'amate ancor piú che gli altri; i quali, come quegli uccelli debili di vista, che non affisano gli occhi nella spera del sole, non possono cosí ben conoscer quanto esso sia perfetto; però ogni fatica saria vana per chiarir questo dubbio, fuor che 'l giudicio vostro. Resti adunque questa impresa a voi solo, come a quello che solo po trarla al fine . L'Unico, avendo tacciuto alquanto ed essendogli pur replicato che dicesse, in ultimo disse un sonetto sopra la materia predetta, dechiarando ciò che significava quella lettera S; che da molti fu estimato fatto all'improvviso, ma, per esser ingenioso e culto piú che non parve che comportasse la brevità del tempo, si pensò pur che fosse pensato.
X.
Cosí, dopo l'aver dato un lieto applauso in laude del sonetto ed alquanto parlato, il signor Ottavian Fregoso, al qual toccava, in tal modo ridendo incominciò: Signori, s'io volessi affermare non aver mai sentito passion d'amore, son certo che la signora Duchessa e la signora Emilia, ancor che non lo credessino, mostrarebbon di crederlo, e diriano che ciò procede perch'io mi son diffidato di poter mai indur donna alcuna ad amarmi; di che in vero non ho io insin qui fatto prova con tanta instanzia, che ragionevolmente debba esser disperato di poterlo una volta conseguire. Né già son restato di farlo perch'io apprezzi me stesso tanto, o cosí poco le donne, che non estimi che molte ne siano degne d'esser amate e servite da me; ma piú tosto spaventato dai continui lamenti d'alcuni inamorati, i quali pallidi, mesti e taciturni, par che sempre abbiano la propria scontentezza dipinta negli occhi; e se parlano, accompagnando ogni parola con certi sospiri triplicati, di null'altra cosa ragionano che di lacrime, di tormenti, di disperazioni e desidèri di morte; di modo che, se talor qualche scintilla amorosa pur mi s'è accesa nel core, io súbito sònomi sforzato con ogni industria di spegnerla, non per odio ch'io porti alle donne, come estimano queste signore, ma per mia salute. Ho poi conosciuti alcun'altri in tutto contrari a questi dolenti, i quali non solamente si laudano e contentano dei grati aspetti, care parole e sembianti suavi delle lor donne, ma tutti i mali condiscono di dolcezza; di modo che le guerre, l'ire, i sdegni di quelle per dolcissimi chiamano; perché troppo piú che felici questi tali esser mi paiono. Ché se negli sdegni amorosi, i quali da quell'altri piú che morte sono reputati amarissimi, essi ritrovano tanta dolcezza, penso che nelle amorevoli dimostrazioni debban sentir quella beatitudine estrema, che noi in vano in questo mondo cerchiamo. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fusse che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch'egli ama, qual causa vorrebbe che fosse quella che la inducesse a tal sdegno. Ché se qui si ritrovano alcuni che abbian provato questi dolci sdegni, son certo che per cortesia desideraranno una di quelle cause che cosí dolci li fa, ed io forse m'assicurerò di passar un poco piú avanti in amore, con speranza di trovar io ancora questa dolcezza, dove alcuni trovano l'amaritudine; ed in tal modo non potranno queste signore darmi infamia piú ch'io non ami.
XI.
Piacque molto questo gioco e già ognun si preparava di parlar sopra tal materia; ma non facendone la signora Emilia altramente motto, messer Pietro Bembo, che era in ordine vicino, cosí disse: Signori, non piccol dubbio ha risvegliato nell'animo mio il gioco proposto dal signor Ottaviano, avendo ragionato de' sdegni d'amore: i quali, avvenga che varii siano, pur a me sono essi sempre stati acerbissimi, né da me credo che si potesse imparar condimento bastante per addolcirgli; ma forse sono piú e meno amari secondo la causa donde nascono. Ché mi ricordo già aver veduto quella donna ch'io serviva verso me turbata, o per suspetto vano che da se stessa della fede mia avesse preso, o vero per qualche altra falsa opinione in lei nata dalle altrui parole a mio danno; tanto ch'io credeva niuna pena alla mia potersi agguagliare e parevami che 'l maggior dolor ch'io sentiva fusse il patire non avendolo meritato, ed aver questa afflizione non per mia colpa, ma per poco amor di lei. Altre volte la vidi sdegnata per qualche error mio e conobbi l'ira sua proceder dal mio fallo; ed in quel punto giudicava che 'l passato mal fosse stato levissimo a rispetto di quello ch'io sentiva allora; e pareami che l'esser dispiaciuto, e per colpa mia, a quella persona alla qual sola io desiderava e con tanto studio cercava di piacere, fosse il maggior tormento e sopra tutti gli altri. Vorrei adunque che 'l gioco nostro fusse che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch'egli ama, da chi vorrebbe che nascesse la causa del sdegno, o da lei, o da se stesso; per saper qual è maggior dolore, o far dispiacere a chi s'ama, o riceverlo pur da chi s'ama .
XII.
Attendeva ognun la risposta della signora Emilia; la qual non facendo altrimenti motto al Bembo, si volse e fece segno a messer Federico Fregoso che 'l suo gioco dicesse; ed esso súbito cosí cominciò: Signora, vorrei che mi fusse licito, come qualche volta si sòle, rimettermi alla sentenzia d'un altro; ch'io per me voluntieri approvarei alcun dei giochi proposti da questi signori, perché veramente parmi che tutti sarebben piacevoli: pur, per non guastar l'ordine, dico che chi volesse laudar la corte nostra, lasciando ancor i meriti della signora Duchessa, la qual sola con la sua divina virtú basteria per levar da terra al cielo i piú bassi spiriti che siano al mondo, ben poria senza suspetto d'adulazion dir che in tutta la Italia forse con fatica si ritrovariano altrettanti cavalieri cosí singulari, ed oltre alla principal profession della cavalleria cosí eccellenti in diverse cose, come or qui si ritrovano; però, se in loco alcuno son omini che meritino esser chiamati bon cortegiani e che sappiano giudicar quello che alla perfezion della cortegiania s'appartiene, ragionevolmente si ha da creder che qui siano. Per reprimere adunque molti sciocchi, i quali per esser prosuntuosi ed inetti si credono acquistar nome di bon cortegiano, vorrei che 'l gioco di questa sera fusse tale, che si elegesse uno della compagnia ed a questo si desse carico di formar con parole un perfetto cortegiano, esplicando tutte le condicioni e particular qualità, che si richieggono a chi merita questo nome; ed in quelle cose che non pareranno convenienti sia licìto a ciascun contradire, come nelle scole de' filosofi a chi tien conclusioni . Seguitava ancor piú oltre il suo ragionamento messer Federico, quando la signora Emilia, interrompendolo:
Questo, disse, se alla signora Duchessa piace, sarà il gioco nostro per ora .
Rispose la signora Duchessa: Piacemi . Allor quasi tutti i circunstanti, e verso la signora Duchessa e tra sé, cominciarono a dir che questo era il piú bel gioco che far si potesse; e senza aspettar l'uno la risposta dell'altro, facevano instanzia alla signora Emilia che ordinasse chi gli avesse a dar principio. La qual, voltatasi alla signora Duchessa: Comandate, disse, Signora, a chi piú vi piace che abbia questa impresa; ch'io non voglio, con elegerne uno piú che l'altro, mostrar di giudicare qual in questo io estimi piú sufficiente degli altri, ed in tal modo far ingiuria a chi si sia .
Rispose la signora Duchessa: Fate pur voi questa elezione; e guardatevi col disubedire di non dar esempio agli altri, che siano essi ancor poco ubedienti.
XIII.
Allor la signora Emilia, ridendo, disse al conte Ludovico da Canossa: Adunque, per non perder piú tempo, voi, Conte, sarete quello che averà questa impresa nel modo che ha detto messer Federico; non già perché ci paia che voi siate cosí bon cortegiano, che sappiate quel che si gli convenga, ma perché, dicendo ogni cosa al contrario, come speramo che farete, il gioco sarà piú bello, ché ognun averà che respondervi; onde se un altro che sapesse piú di voi avesse questo carico, non si gli potrebbe contradir cosa alcuna perché diria la verità, e cosí il gioco saria freddo . Súbito rispose il Conte: Signora, non ci saria pericolo che mancasse contradizione a chi dicesse la verità, stando voi qui presente ; ed essendosi di questa ri sposta alquanto riso, seguitò: Ma io veramente, Signora, molto volontier fuggirei questa fatica, parendomi troppo difficile e conoscendo in me ciò che voi avete per burla detto esser verissimo, cioè ch'io non sappia quello che a bon cortegian si conviene; e questo con altro testimonio non cerco di provare, perché, non facendo l'opere, si po estimar ch'io nol sappia; ed io credo che sia minor biasmo mio, perché senza dubbio peggio è non voler far bene, che non saperlo fare. Pur, essendo cosí che a voi piaccia che io abbia questo carico, non posso né voglio rifiutarlo, per non contravenir all'ordine e giudicio vostro, il quale estimo piú assai che 'l mio . Allor messer Cesare Gonzaga, Perché già, disse, è passata bon'ora di notte e qui son apparecchiate molte altre sorti di piaceri, forse bon sarà differir questo ragionamento a domani e darassi tempo al Conte di pensar ciò ch'egli s'abbia a dire; ché in vero di tal subietto parlare improviso è difficil cosa . Rispose il Conte: Io non voglio far come colui, che spogliatosi in giuppone saltò meno che non avea fatto col saio; e perciò parmi gran ventura che l'ora sia tarda, perché per la brevità del tempo sarò sforzato a parlar poco e 'l non avervi pensato mi escuserà talmente che mi sarà licito dir senza biasimo tutte le cose che prima mi verranno alla bocca. Per non tener adunque piú lungamente questo carico di obligazione sopra le spalle, dico che in ogni cosa tanto è difficil il conoscer la vera perfezion, che quasi è impossibile; e questo per la varietà de' giudici. Però si ritrovano molti, ai quali sarà grato un omo che parli assai, e quello chiameranno piacevole; alcuni si diletteranno piú della modestia; alcun'altri d'un omo attivo ed inquieto; altri di chi in ogni cosa mostri riposo e considerazione; e cosí ciascuno sempre coprendo il vicio lauda e vitupera secondo il parer suo, col nome della propinqua virtú, o la virtú col nome del propinquo vicio; come chiamando un prosuntuoso, libero; un modesto, àrrido; un nescio, bono; un scelerato, prudente; e medesimamente nel resto. Pur io estimo in ogni cosa esser la sua perfezione, avvenga che nascosta; e questa potersi con ragionevoli discorsi giudicar da chi di quella tal cosa ha notizia. E perché, come ho detto, spesso la verità sta occulta ed io non mi vanto aver questa cognizione, non posso laudar se non quella sorte di cortegiani ch'io piú apprezzo, ed approvar quello che mi par piú simile al vero, secondo il mio poco giudicio; il qual seguitarete, se vi parerà bono, o vero v'attenerete al vostro, se egli sarà dal mio diverso. Né io già contrasterò che 'l mio sia migliore del vostro; ché non solamente a voi po parer una cosa ed a me un'altra, ma a me stesso poria parer or una cosa ed ora un'altra.
XIV.
Voglio adunque che questo nostro cortegiano sia nato nobile e di generosa famiglia; perché molto men si disdice ad un ignobile mancar di far operazioni virtuose, che ad uno nobile, il qual se desvia dal camino dei sui antecessori, macula il nome della famiglia e non solamente non acquista, ma perde il già acquistato; perché la nobiltà è quasi una chiara lampa, che manifesta e fa veder l'opere bone e le male ed accende e sprona alla virtú cosí col timor d'infamia, come ancor con la speranza di laude; e non scoprendo questo splendor di nobiltà l'opere degli ignobili, essi mancano dello stimulo e del timore di quella infamia, né par loro d'esser obligati passar piú avanti di quello che fatto abbiano i sui antecessori; ed ai nobili par biasimo non giunger almeno al termine da' sui primi mostratogli. Però intervien quasi sempre che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli omini piú segnalati sono nobili perché la natura in ogni cosa ha insito quello occulto seme, che porge una certa forza e proprietà del suo principio a tutto quello che da esso deriva ed a sé lo fa simile; come non solamente vedemo nelle razze de' cavalli e d'altri animali, ma ancor negli alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s'assimigliano al tronco; e se qualche volta degenerano, procede dal mal agricultore. E cosí intervien degli omini, i quali, se di bona crianza sono cultivati, quasi sempre son simili a quelli d'onde procedono e spesso migliorano; ma se manca loro chi gli curi bene, divengono come selvatichi, né mai si maturano. Vero è che, o sia per favor delle stelle, o di natura, nascono alcuni accompagnati da tante grazie, che par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formati gli abbia ed ornati de tutti i beni dell'animo e del corpo; sí come ancor molti si veggono tanto inetti e sgarbati, che non si po credere se non che la natura per dispetto o per ludibrio produtti gli abbia al mondo. Questi sí come per assidua diligenzia e bona crianza poco frutto per lo piú delle volte posson fare, cosí quegli altri con poca fatica vengon in colmo di summa eccellenzia. E per darvi un esempio, vedete il signor don Ippolito da Este cardinal di Ferrara, il quale tanto di felicità ha portato dal nascere suo, che la persona, lo aspetto, le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia composti ed accommodati, che tra i piú antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappresenta una tanto grave autorità, che piú presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d'imparare; medesimamente, nel conversare con omini e con donne d'ogni qualità, nel giocare, nel ridere e nel motteggiare tiene una certa dolcezza e cosí graziosi costumi, che forza è che ciascun che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affezionato. Ma, tornando al proposito nostro, dico che tra questa eccellente grazia e quella insensata sciocchezza si trova ancora il mezzo; e posson quei che non son da natura cosí perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere in gran parte i diffetti naturali. Il cortegiano, adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in questa parte fortunato, ed abbia da natura non solamente lo ingegno e bella forma di persona e di volto, ma una certa grazia e, come si dice, un sangue, che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile; e sia questo un ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue e prometta nella fronte quel tale esser degno del commerzio e grazia d'ogni gran signore .
VX.
Quivi, non aspettando piú oltre, disse il signor Gaspar Pallavicino: Acciò che il nostro gioco abbia la forma ordinata e che non paia che noi estimiam poco l'autorità dataci del contradire, dico che nel cortegiano a me non par cosí necessaria questa nobiltà; e s'io mi pensassi dir cosa che ad alcun di noi fusse nova, io addurrei molti i quali, nati di nobilissimo sangue, son stati pieni di vicii; e per lo contrario molti ignobili, che hanno con la virtú illustrato la posterità loro. E se è vero quello che voi diceste dianzi, cioè che in ogni cosa sia quella occulta forza del primo seme, noi tutti saremmo in una medesima condicione per aver avuto un medesimo principio, né piú un che l'altro sarebbe nobile. Ma delle diversità nostre e gradi d'altezza e di bassezza credo io che siano molte altre cause: tra le quali estimo la fortuna esser precipua, perché in tutte le cose mondane la veggiamo dominare e quasi pigliarsi a gioco d'alzar spesso fin al cielo chi par a lei senza merito alcuno, e sepellir nell'abisso i piú degni d'esser esaltati. Confermo ben ciò che voi dite della felicità di quelli che nascon dotati dei beni dell'animo e del corpo; ma questo cosí si vede negli ignobili come nei nobili, perché la natura non ha queste cosí sottili distinzioni; anzi, come ho detto, spesso si veggono in persone bassissime altissimi doni di natura. Però non acquistandosi questa nobiltà né per ingegno né per forza né per arte, ed essendo piú tosto laude dei nostri antecessori che nostra propria, a me par troppo strano voler che, se i parenti del nostro cortegiano son stati ignobili, tutte le sue bone qualità siano guaste, e che non bastino assai quell'altre condizioni che voi avete nominate, per ridurlo al colmo della perfezione: cioè ingegno, bellezza di volto, disposizion di persona e quella grazia, che al primo aspetto sempre lo faccia a ciascun gratissimo .
VXI.
Allor il conte Ludovico, Non nego io, rispose, che ancora negli omini bassi non possano regnar quelle medesime virtú che nei nobili; ma per non replicar quello che già avemo detto con molte altre ragioni che si poriano addurre in laude della nobilità, la qual sempre ed appresso ognuno è onorata, perché ragionevole cosa è che de' boni nascano i boni, avendo noi a formare un cortegiano senza diffetto alcuno e cumulato d'ogni laude, mi par necessario farlo nobile, sí per molte altre cause, come ancor per la opinion universale, la qual súbito accompagna la nobilità. Ché se saranno dui omini di palazzo, i quali non abbiano per prima dato impression alcuna di se stessi con l'opere o bone o male, súbito che s'intenda l'un esser nato gentilomo e l'altro no, appresso ciascuno lo ignobile sarà molto meno estimato che 'l nobile, e bisognerà che con molte fatiche e con tempo nella mente degli omini imprima la bona opinion di sé, che l'altro in un momento, e solamente con l'esser gentilom, averà acquistata. E di quanta importanzia siano queste impressioni, ognun po facilmente comprendere; ché, parlando di noi, abbiam veduto capitare in questa casa omini, i quali, essendo sciocchi e goffissimi, per tutta Italia hanno però avuto fama di grandissimi cortegiani; e benché in ultimo sian stati scoperti e conosciuti, pur per molti dí ci hanno ingannato, e mantenuto negli animi nostri quella opinion di sé che prima in essi hanno trovato impressa, benché abbiano operato secondo il lor poco valore. Avemo veduti altri, al principio in pochissima estimazione, poi esser all'ultimo riusciti benissimo. E di questi errori sono diverse cause; e tra l'altre la ostinazion dei signori, i quali, per voler far miracoli, talor si mettono a dar favore a chi par loro che meriti disfavore. E spesso ancor essi s'ingannano; ma perché sempre hanno infiniti imitatori, dal favor loro deriva grandissima fama, la qual per lo piú i giudici vanno seguendo; e se ritrovano qualche cosa che paia contraria alla commune opinione, dubitano di ingannar se medesimi e sempre aspettano qualche cosa di nascosto, perché pare che queste opinioni universali debbano pur esser fondate sopra il vero e nascere da ragionevoli cause, e perché gli animi nostri sono prontissimi allo amore ed all'odio, come si vede nei spettaculi de' combattimenti e de' giochi e d'ogni altra sorte contenzione, dove i spettatori spesso si affezionano senza manifesta cagione ad una delle parti, con desiderio estremo che quella resti vincente e l'altra perda. Circa la opinione ancor delle qualità degli omini, la bona fama o la mala nel primo entrare move l'animo nostro ad una di queste due passioni. Però interviene che per lo piú noi giudichiamo con amore, o vero con odio. Vedete adunque di quanta importanzia sia questa prima impressione e come debba sforzarsi d'acquistarla bona nei princípi chi pensa aver grado e nome di bon cortegiano.
VXII.
Ma per venire a qualche particularità, estimo che la principale e vera profession del cortegiano debba esser quella dell'arme; la qual sopra tutto voglio che egli faccia vivamente e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato e fidele a chi serve. E 'l nome di queste bone condicioni si acquisterà facendone l'opere in ogni tempo e loco, imperò che non è licito in questo mancar mai, senza biasimo estremo; e come nelle donne la onestà, una volta macchiata, mai piú non ritorna al primo stato, cosí la fama d'un gentilom che porti l'arme, se una volta in un minimo punto si denigra per coardia o altro rimproccio, sempre resta vituperosa al mondo e piena d'ignominia. Quanto piú adunque sarà eccellente il nostro cortegiano in questa arte, tanto piú sarà degno di laude; bench'io non estimi esser in lui necessaria quella perfetta cognizion di cose e l'altre qualità, che ad un capitano si convengono; ché per esser questo troppo gran mare, ne contentatemo, come avemo detto, della integrità di fede e dell'animo invitto e che sempre si vegga esser tale: perché molte volte piú nelle cose piccole che nelle grandi si conoscono i coraggiosi; e spesso ne' pericoli d'importanzia, e dove son molti testimonii, si ritrovano alcuni li quali, benché abbiano il core morto nel corpo, pur spinti dalla vergogna o dalla compagnia, quasi ad occhi chiusi vanno inanzi e fanno il debito loro, e Dio sa come; e nelle cose che poco premono e dove par che possano senza esser notati restar di mettersi a pericolo, volentier si lasciano acconciare al sicuro. Ma quelli che ancor quando pensano non dover esser d'alcuno né mirati, né veduti, né conosciuti, mostrano ardire e non lascian passar cosa, per minima ch'ella sia, che possa loro esser carico, hanno quella virtú d'animo che noi ricerchiamo nel nostro cortegiano. Il quale non volemo però che si mostri tanto fiero, che sempre stia in su le brave parole e dica aver tolto la corazza per moglie, e minacci con quelle fiere guardature che spesso avemo vedute fare a Berto; ché a questi tali meritamente si po dir quello, che una valorosa donna in una nobile compagnia piacevolmente disse ad uno, ch'io per ora nominar non voglio; il quale, essendo da lei, per onorarlo, invitato a danzare, e rifiutando esso e questo e lo udir musica e molti altri intertenimenti offertigli, sempre con dir cosí fatte novelluzze non esser suo mestiero, in ultimo, dicendo la donna, «Qual è adunque il mestier vostro?», rispose con un mal viso: «Il combattere»; allora la donna súbito: «Crederei», disse, «che or che non siete alla guerra, né in termine de combattere, fosse bona cosa che vi faceste molto ben untare ed insieme con tutti i vostri arnesi da battaglia riporre in un armario finché bisognasse, per non ruginire più di quello che siate»; e cosí, con molte risa de' circunstanti, scornato lasciollo nella sua sciocca prosunzione. Sia adunque quello che noi cerchiamo, dove si veggon gli inimici, fierissimo, acerbo e sempre tra i primi; in ogni altro loco, umano, modesto e ritenuto, fuggendo sopra tutto la ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l'uomo sempre si còncita odio e stomaco da chi ode .
VXIII
Ed io, rispose allora il signor Gaspar, ho conosciuti pochi omini eccellenti in qualsivoglia cosa, che non laudino se stessi; e parmi che molto ben comportar lor si possa, perché chi si sente valere, quando si vede non esser per l'opere dagli ignoranti conosciuto, si sdegna che 'l valor suo stia sepulto e forza è che a qualche modo lo scopra, per non essere defraudato dell'onore, che è il vero premio delle virtuose fatiche. Però tra gli antichi scrittori, chi molto vale rare volte si astien da laudar se stesso. Quelli ben sono intollerabili che, essendo di niun merito, si laudano; ma tal non presumiam noi che sia il nostro cortegiano . Allor il Conte, Se voi, disse, avete inteso, io ho biasmato il laudare se stesso impudentemente e senza rispetto; e certo, come voi dite, non si dee pigliar mala opinion d'un omo valoroso, che modestamente si laudi; anzi toôr quello per testimonio piú certo che se venisse di bocca altrui. Dico ben che chi, laudando se stesso, non incorre in errore, né a sé genera fastidio o invidia da chi ode, quello è discretissimo ed, oltre alle laudi che esso si dà, ne merita ancor dagli altri; perché è cosa difficil assai . Allora il signor Gaspar, Questo, disse, ci avete da insegnar voi . Rispose il Conte: Tra gli antichi scrittori non è ancor mancato chi l'abbia insegnato; ma, al parer mio, il tutto consiste in dir le cose di modo, che paia che non si dicano a quel fine, ma che caggiano talmente a proposito, che non si possa restar di dirle, e sempre mostrando fuggir le proprie laudi, dirle pure; ma non di quella maniera che fanno questi bravi, che aprono la bocca e lascian venir le parole alla ventura; come pochi dí fa disse un de' nostri che, essendogli a Pisa stato passata una coscia con una picca da una banda all'altra, pensò che fosse una mosca che l'avesse punto; ed un altro disse che non teneva specchio in camera perché quando si crucciava diveniva tanto terribile nell'aspetto, che veggendosi aría fatto troppo gran paura a se stesso . Rise qui ognuno; ma messer Cesare Gonzaga suggiunse: Di che ridete voi? Non sapete che Alessandro Magno, sentendo che opinion d'un filosofo era che fussino infiniti mondi, cominciò a piangere, ed essendoli domandato perché piangeva, rispose, «Perch'io non ne ho ancor preso un solo»; come se avesse avuto animo di pigliarli tutti?. Non vi par che questa fosse maggior braveria che il dir della puntura della mosca?
Disse allor il Conte: Anco Alessandro era maggior uom che non era colui che disse quella. Ma agli omini eccellenti in vero si ha da perdonare quando presumono assai di sé; perché chi ha da far gran cose, bisogna che abbia ardir di farle e confidenzia di se stesso e non sia d'animo abbietto o vile, ma sí ben modesto in parole, mostrando di presumer meno di se stesso che non fa, pur che quella presunzione non passi alla temerità .
XIX
Quivi facendo un poco di pausa il Conte, disse ridendo messer Bernardo Bibiena: Ricordomi che dianzi diceste che questo nostro cortegiano aveva da esser dotato da natura di bella forma di volto e di persona, con quella grazia che lo facesse cosí amabile. La grazia e 'l volto bellissimo penso per certo che in me sia e perciò interviene che tante donne, quante sapete, ardeno dell'amor mio; ma della forma del corpo sto io alquanto dubbioso, e massimamente per queste mie gambe, che in vero non mi paiono cosí atte com'io vorrei; del busto e del resto contentomi pur assai bene. Dichiarate adunque un poco piú minutamente questa forma del corpo, quale abbia ella da essere, acciò che io possa levarmi di questo dubbio e star con l'animo riposato . Essendosi di questo riso alquanto, suggiunse il Conte: Certo quella grazia del volto, senza mentire, dir si po esser in voi, né altro esempio adduco che questo, per dechiarire che cosa ella sia; ché senza dubbio veggiamo il vostro aspetto esser gratissimo e piacere ad ognuno, avvenga che i lineamenti d'esso non siano molto delicati; ma tien del virile, e pur è grazioso; e trovasi questa qualità in molte e diverse forme di volti. E di tal sorte voglio io che sia lo aspetto del nostro cortegiano, non cosí molle e feminile come si sforzano d'aver molti, che non solamente si crespano i capegli e spelano le ciglia, ma si strisciano con tutti que' modi che si faccian le piú lascive e disoneste femine del mondo; e pare che nello andare, nello stare ed in ogni altro lor atto siano tanto teneri e languidi, che le membra siano per staccarsi loro l'uno dall'altro; e pronunziano quelle parole cosí afflitte, che in quel punto par che lo spirito loro finisca; e quanto piú si trovano con omini di grado, tanto piú usano tai termini. Questi, poiché la natura, come essi mostrano desiderare di parere ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono non come bone femine esser estimati, ma, come publiche meretrici, non solamente delle corti de' gran signori, ma del consorzio degli omini nobili esser cacciati.
XX.
Vegnendo adunque alla qualità della persona, dico bastar ch'ella non sia estrema in piccolezza né in grandezza, perché e l'una e l'altra di queste condicioni porta seco una certa dispettosa maraviglia e sono gli omini di tal sorte mirati quasi di quel modo che si mirano le cose monstruose; benché, avendo da peccare nell'una delle due estremità, men male è l'esser un poco diminuto, che ecceder la ragionevol misura in grandezza; perché gli omini cosí vasti di corpo, oltra che molte volte di ottuso ingegno si trovano, sono ancor inabili ad ogni esercizio di agilità, la qual cosa io desidero assai nel cortegiano. E perciò voglio che egli sia di bona disposizione e de' membri ben formato, e mostri forza e leggerezza e discioltura, e sappia de tutti gli esercizi di persona, che ad uom di guerra s'appartengono; e di questo penso il primo dever essere maneggiar ben ogni sorte d'arme a piedi ed a cavallo e conoscere i vantaggi che in esse sono, e massimamente aver notizia di quell'arme che s'usano ordinariamente tra' gentilomini; perché, oltre all'operarle alla guerra, dove forse non sono necessarie tante sottilità, intervengono spesso differenzie tra un gentilom e l'altro, onde poi nasce il combattere, e molte volte con quell'arme che in quel punto si trovano a canto; però il saperne è cosa securissima. Né son io già di que' che dicono, che allora l'arte si scorda nel bisogno; perché certamente chi perde l'arte in quel tempo, dà segno che prima ha perduto il core e 'l cervello di paura.
XXI.
Estimo ancora che sia di momento assai il saper lottare, perché questo accompagna molto tutte l'arme da piedi. Appresso bisogna che e per sé e per gli amici intenda le querele e differenzie che possono occorrere, e sia avvertito nei vantaggi, in tutto mostrando sempre ed animo e prudenzia; né sia facile a questi combattimenti, se non quanto per l'onor fosse sforzato; che, oltre al gran pericolo che la dubbiosa sorte seco porta, chi in tai cose precipitosamente e senza urgente causa incorre, merita grandissimo biasimo, avvenga che ben gli succeda. Ma quando si trova l'omo esser entrato tanto avanti, che senza carico non si possa ritrarre, dee e nelle cose che occorrono prima del combattere, e nel combattere, esser deliberatissimo e mostrar sempre prontezza e core; e non far com'alcuni, che passano la cosa in dispute e punti, ed avendo la elezion dell'arme, pigliano arme che non tagliano né pungono e s'armano come s'avessero ad aspettar le cannonate; e parendo lor bastare il non esser vinti, stanno sempre in sul diffendersi e ritirarsi, tanto che mostrano estrema viltà; onde fannosi far la baia da' fanciulli, come que' dui Anconitani, che poco fa combatterono a Perugia e fecero ridere chi gli vide. E quali furon questi? disse il signor Gaspar Pallavicino. Rispose messer Cesare: Dui fratelli consobrini . Disse allora il Conte: Al combattere parvero fratelli carnali; poi suggionse: Adopransi ancor l'arme spesso in tempo di pace in diversi esercizi, e veggonsi i gentilomini nei spettacoli publici alla presenzia de' populi, di donne e di gran signori. Però voglio che 'l nostro cortegiano sia perfetto cavalier d'ogni sella, ed oltre allo aver cognizion di cavalli e di ciò che al cavalcare s'appartiene, ponga ogni studio e diligenzia di passar in ogni cosa un poco piú avanti che gli altri, di modo che sempre tra tutti sia per eccellente conosciuto. E come si legge d'Alcibiade che superò tutte le nazioni presso alle quali egli visse, e ciascuna in quello che piú era suo proprio, cosí questo nostro avanzi gli altri, e ciascuno in quello di che piú fa professione. E perché degli Italiani è peculiar laude il cavalcare bene alla brida, il maneggiar con ragione massimamente cavalli asperi, il correr lance e 'l giostrare, sia in questo de' migliori Italiani; nel torneare, tener un passo, combattere una sbarra, sia bono tra i miglior Franzesi; nel giocare a canne, correr tori, lanzar aste e dardi, sia tra i Spagnoli eccellente. Ma sopra tutto accompagni ogni suo movimento con un certo bon giudicio e grazia, se vole meritar quell'universal favore che tanto s'apprezza.
XXII.
Sono ancor molti altri esercizi, i quali, benché non dependano drittamente dalle arme, pur con esse hanno molta convenienzia e tengono assai d'una strenuità virile; e tra questi parmi la caccia esser de' principali, perché ha una certa similitudine di guerra; ed è veramente piacer da gran signori e conveniente ad uom di corte; e comprendesi che ancor tra gli antichi era in molta consuetudine. Conveniente è ancor saper nuotare, saltare, correre, gittar pietre perché, oltre alla utilità che di questo si po avere alla guerra, molte volte occorre far prova di sé in tai cose; onde s'acquista bona estimazione, massimamente nella moltitudine, con la quale bisogna pur che l'om s'accommodi. Ancor nobile esercizio e convenientissimo ad uom di corte è il gioco di palla, nel quale molto si vede la disposizion del corpo e la prestezza e discioltura d'ogni membro, e tutto quello che quasi in ogni altro esercizio si vede. Né di minor laude estimo il volteggiar a cavallo, il quale, abbenché sia faticoso e difficile, fa l'omo leggerissimo e destro piú che alcun'altra cosa; ed oltre alla utilità, se quella leggerezza è compagnata di bona grazia, fa, al parer mio, piú bel spettaculo che alcun degli altri.
Essendo adunque il nostro cortegiano in questi esercizi piú che mediocremente esperto, penso che debba lasciar gli altri da canto; come volteggiar in terra, andar in su la corda e tai cose, che quasi hanno del giocolare e poco sono a gentilomo convenienti. Ma perché sempre non si po versar tra queste cosí faticose operazioni, oltra che ancor la assiduità sazia molto e leva quella ammirazione che si piglia delle cose rare, bisogna sempre variar con diverse azioni la vita nostra. Però voglio che 'l cortegiano descenda qualche volta a piú riposati e placidi esercizi, e per schivar la invidia e per intertenersi piacevolmente con ognuno faccia tutto quello che gli altri fanno, non s'allontanando però mai dai laudevoli atti e governandosi con quel bon giudicio che non lo lassi incorrere in alcuna sciocchezza; ma rida, scherzi, motteggi, balli e danzi, nientedimeno con tal maniera, che sempre mostri esser ingenioso e discreto ed in ogni cosa che faccia o dica sia aggraziato .
XXIII.
Certo, disse allor messer Cesare Gonzaga, non si dovria già impedir il corso di questo ragionamento; ma, se io tacessi, non satisfarei alla libertà ch'io ho di parlare, né al desiderio di saper una cosa; e siami perdonato s'io, avendo a contradire, dimanderò; perché questo credo che mi sia licito, per esempio del nostro messer Bernardo, il quale per troppo voglia d'esser tenuto bell'omo, ha contrafatto alle leggi del nostro gioco, domandando e non contradicendo. Vedete, disse allora la signora Duchessa, come da un error solo molti ne procedono. Però chi falla e dà mal esempio, come messer Bernardo, non solamente merita esser punito del suo fallo, ma ancor dell'altrui . Rispose allora messer Cesare: Dunque io, Signora, sarò esente di pena, avendo messer Bernardo ad esser punito del suo e del mio errore. Anzi, disse la signora Duchessa, tutti dui devete aver doppio castigo: esso del suo fallo e dello aver indutto voi a fallire; voi del vostro fallo e dello aver imitato chi falliva. Signora, rispose messer Cesare, io fin qui non ho fallito; però, per lasciar tutta questa punizione a messer Bernardo solo, tacerommi . E già si taceva; quando la signora Emilia ridendo, Dite ciò che vi piace, rispose, Ché, con licenzia però della signora Duchessa, io perdono a chi ha fallito e a chi fallirà in cosí piccol fallo . Suggiunse la signora Duchessa: Io son contenta; ma abbiate cura che non v'inganniate, pensando forse meritar piú con l'esser clemente che con l'esser giusta; perché perdonando troppo a chi falla si fa ingiuria a chi non falla. Pur non voglio che la mia austerità per ora, accusando la indulgenzia vostra, sia causa che noi perdiamo d'udir questa domanda di messer Cesare . Cosí esso, essendogli fatto segno dalla signora Duchessa e dalla signora Emilia, súbito disse:
XXIV.
Se ben tengo a memoria, parmi, signor Conte, che voi questa sera piú volte abbiate replicato che 'l cortegiano ha da compagnare l'operazion sue, i gesti, gli abiti, in somma ogni suo movimento con la grazia; e questo mi par che mettiate per un condimento d'ogni cosa, senza il quale tutte l'altre proprietà e bone condicioni sian di poco valore. E veramente credo io che ognun facilmente in ciò si lasciarebbe persuadere, perché per la forza del vocabulo si po dir che chi ha grazia quello è grato. Ma perché voi diceste, questo spesse volte esser don della natura e de' cieli, ed ancor quando non è cosí perfetto potersi con studio e fatica far molto maggiore, quegli che nascono cosí avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro, come alcuni che ne veggiamo, a me par che in ciò abbiano poco bisogno d'altro maestro; perché quel benigno favor del cielo quasi al suo dispetto i guida piú alto che essi non desiderano, e fagli non solamente grati, ma ammirabili a tutto il mondo. Però di questo non ragiono, non essendo in poter nostro per noi medesimi l'acquistarlo. Ma quelli che da natura hanno tanto solamente, che son atti a poter esser aggraziati aggiungendovi fatica, industria e studio, desidero io di saper con qual arte, con qual disciplina e con qual modo possono acquistar questa grazia, cosí negli esercizi del corpo, nei quali voi estimate che sia tanto necessaria, come ancor in ogni altra cosa che si faccia o dica. Però, secondo che col laudarci molto questa qualità a tutti avete, credo, generato una ardente sete di conseguirla, per lo carico dalla signora Emilia impostovi siete ancor con lo insegnarci obligato ad estinguerla
XVX.
Obligato non son io, disse il Conte, ad insegnarvi a diventar aggraziati, né altro, ma solamente a dimostrarvi qual abbia ad essere un perfetto cortegiano.
Né io già pigliarei impresa di insegnarvi questa perfezione, massimamente avendo poco fa detto che 'l cortegiano abbia da saper lottare e volteggiare e tant'altre cose, le quali come io sapessi insegnarvi, non le avendo mai imparate, so che tutti lo conoscete. Basta che sí come un bon soldato sa dire al fabro di che foggia e garbo e bontà hanno ad esser l'arme, né però gli sa insegnar a farle, né come le martelli o tempri, cosí io forse vi saprò dir qual abbia ad esser un perfetto cortegiano, ma non insegnarvi come abbiate a fare per divenirne. Pur, per satisfare ancor quanto è in poter mio alla domanda vostra, benché e' sia quasi in proverbio che la grazia non s'impari, dico che chi ha da esser aggraziato negli esercizi corporali, presuponendo prima che da natura non sia inabile, dee cominciar per tempo ed imparar i princípi da ottimi maestri; la qual cosa quanto paresse a Filippo re di Macedonia importante, si po comprendere, avendo voluto che Aristotele, tanto famoso filosofo e forse il maggior che sia stato al mondo mai, fosse quello che insegnasse i primi elementi delle lettere ad Alessandro suo figliolo. E delli omini che noi oggidí conoscemo, considerate come bene ed aggraziatamente fa il signor Galleazzo Sanseverino, gran scudiero di Francia tutti gli esercizi del corpo; e questo perché, oltre alla natural disposizione ch'egli tiene della persona, ha posto ogni studio d'imparare da bon maestri ed aver sempre presso di sé omini eccellenti e da ognun pigliar il meglio di ciò che sapevano; ché sí come del lottare, volteggiare e maneggiar molte sorti d'armi ha tenuto per guida il nostro messer Pietro Monte, il qual, come sapete, è il vero e solo maestro d'ogni artificiosa forza e leggerezza, cosí del cavalcare, giostrare e qualsivoglia altra cosa ha sempre avuto inanzi agli occhi i piú perfetti, che in quelle professioni siano stati conosciuti.
XVXI.
Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori, cosí il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che piú sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Ferrando minore d'Aragona, né in altro avea posto cura d'imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosí da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand'omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. Ma avendo io già piú volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano piú che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto piú si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch'ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né piú in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e piú tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che 'l studio e l'arte; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l'arte ed un cosí intento studio levi la grazia d'ogni cosa. Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que' saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio è cosí cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti cosí la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar piú ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?
XVXII.
Quivi non aspettando, messer Bernardo Bibiena disse: Eccovi che messer Roberto nostro ha pur trovato chi laudarà la foggia del suo danzare, poiché tutti voi altri pare che non ne facciate caso; ché se questa eccellenzia consiste nella sprezzatura e mostrar di non estimare e pensar piú ad ogni altra cosa che a quello che si fa, messer Roberto nel danzare non ha pari al mondo; ché per mostrar ben di non pensarvi si lascia cader la robba spesso dalle spalle e le pantoffole de' piedi, e senza raccórre né l'uno né l'altro, tuttavia danza . Rispose allor il Conte: Poiché voi volete pur ch'io dica, dirò ancor dei vicii nostri. Non v'accorgete che questo, che voi in messer Roberto chiamate sprezzatura, è vera affettazione? perché chiaramente si conosce che esso si sforza con ogni studio mostrar di non pensarvi, e questo è il pensarvi troppo; e perché passa certi termini di mediocrità quella sprezzatura è affettata e sta male; ed è una cosa che a punto riesce al contrario del suo presuposito, cioè di nasconder l'arte. Però non estimo io che minor vicio della affettazion sia nella sprezzatura, la quale in sé è laudevole, lasciarsi cadere i panni da dosso, che nella attillatura, che pur medesimamente da sé è laudevole, il portar il capo cosí fermo per paura di non guastarsi la zazzera, o tener nel fondo della berretta il specchio e 'l pettine nella manica, ed aver sempre drieto il paggio per le strade con la sponga e la scopetta; perché questa cosí fatta attillatura e sprezzatura tendono troppo allo estremo; il che sempre è vicioso, e contrario a quella pura ed amabile simplicità, che tanto è grata agli animi umani. Vedete come un cavalier sia di mala grazia, quando si sforza d'andare cosí stirato in su la sella e, come noi sogliam dire, alla veneziana, a comparazion d'un altro, che paia che non vi pensi e stia a cavallo cosí disciolto e sicuro come se fosse a piedi. Quanto piace piú e quanto piú è laudato un gentilom che porti arme, modesto, che parli poco e poco si vanti, che un altro, il quale sempre stia in sul laudar se stesso, e biastemando con braveria mostri minacciar al mondo! e niente altro è questo, che affettazione di voler parer gagliardo. Il medesimo accade in ogni esercizio, anzi in ogni cosa che al mondo fare o dir si possa
XVXIII.
Allora il signor Magnifico, Questo ancor, disse, si verifica nella musica, nella quale è vicio grandissimo far due consonanzie perfette l'una dopo l'altra; tal che il medesimo sentimento dell'audito nostro l'aborrisce e spesso ama una seconda o settima, che in sé è dissonanzia aspera ed intollerabile; e ciò procede che quel continuare nelle perfette genera sazietà e dimostra una troppo affettata armonia; il che mescolando le imperfette si fugge, col far quasi un paragone, donde piú le orecchie nostre stanno suspese e piú avidamente attendono e gustano le perfette, e dilettansi talor di quella dissonanzia della seconda o settima, come di cosa sprezzata.
Eccovi adunque, rispose il Conte, che in questo nòce l'affettazione, come nell'altre cose. Dicesi ancor esser stato proverbio presso ad alcuni eccellentissimi pittori antichi troppa diligenzia esser nociva, ed esser stato biasmato Protogene da Apelle, che non sapea levar le mani dalla tavola .
Disse allora messer Cesare: Questo medesimo diffetto parmi che abbia il nostro fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola, almen fin che in tutto non ne sono levate ancora le vivande . Rise il Conte e suggiunse: Voleva dire Apelle che Protogene nella pittura non conoscea quel che bastava; il che non era altro, che riprenderlo d'esser affettato nelle opere sue. Questa virtú adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora chiamiamo sprezzatura, oltra che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro ornamento, il quale accompagnando qualsivoglia azione umana, per minima che ella sia, non solamente súbito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che è in effetto; perché negli animi delli circunstanti imprime opinione, che chi cosí facilmente fa bene sappia molto piú di quello che fa, e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio. E per replicare i medesimi esempi, eccovi che un uom che maneggi l'arme, se per lanzar un dardo, o ver tenendo la spada in mano a altr'arma, si pon senza pensar scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilità che paia che il corpo e tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica alcuna, ancora che non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo in quello esercizio.
Medesimamente nel danzare un passo solo, un sol movimento della persona grazioso e non sforzato, súbito manifesta il sapere de chi danza. Un musico, se nel cantar pronunzia una sola voce terminata con suave accento in un groppetto duplicato, con tal facilità che paia che cosí gli venga fatto a caso, con quel punto solo fa conoscere che sa molto piú di quello che fa.
Spesso ancor nella pittura una linea sola non stentata, un sol colpo di pennello tirato facilmente, di modo che paia che la mano, senza esser guidata da studio o arte alcuna, vada per se stessa al suo termine secondo la intenzion del pittore, scopre chiaramente la eccellenzia dell'artifice, circa la opinion della quale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio e 'l medesimo interviene quasi d'ogni altra cosa. Sarà adunque il nostro cortegiano stimato eccellente ed in ogni cosa averà grazia, massimamente nel parlare, se fuggirà l'affettazione; nel qual errore incorrono molti, e talor piú che gli altri alcuni nostri Lombardi; i quali, se sono stati un anno fuor di casa, ritornati súbito cominciano a parlare romano, talor spagnolo o franzese, e Dio sa come; e tutto questo procede da troppo desiderio di mostrar di saper assai; ed in tal modo l'omo mette studio e diligenzia in acquistar un vicio odiosissimo. E certo a me sarebbe non piccola fatica, se in questi nostri ragionamenti io volessi usar quelle parole antiche toscane, che già sono dalla consuetudine dei Toscani d'oggidí rifiutate; e con tutto questo credo che ognun di me rideria
XXIX.
Allor messer Federico, Veramente, disse, ragionando tra noi, come or facciamo, forse saria male usar quelle parole antiche toscane; perché, come voi dite, dariano fatica a chi le dicesse ed a chi le udisse e non senza difficultà sarebbono da molti intese. Ma chi scrivesse, crederei ben io che facesse errore non usandole perché dànno molta grazia ed autorità alle scritture, e da esse risulta una lingua piú grave e piena di maestà che dalle moderne. Non so, rispose il Conte, che grazia o autorità possan dar alle scritture quelle parole che si deono fuggire, non solamente nel modo del parlare, come or noi facciamo (il che voi stesso confessate), ma ancor in ogni altro che imaginar si possa. Ché se a qualsivoglia omo di bon giudicio occorresse far una orazione di cose gravi nel senato proprio di Fiorenza, che è il capo di Toscana, o ver parlar privatamente con persona di grado in quella città di negoci importanti, o ancor con chi fosse dimestichissimo di cose piacevoli, con donne o cavalieri d'amore, o burlando o scherzando in feste, giochi, o dove si sia, o in qualsivoglia tempo, loco o proposito, son certo che si guardarebbe d'usar quelle parole antiche toscane; ed usandole, oltre al far far beffe di sé, darebbe non poco fastidio a ciascun che lo ascoltasse. Parmi adunque molto strana cosa usare nello scrivere per bone quelle parole, che si fuggono per viciose in ogni sorte di parlare; e voler che quello che mai non si conviene nel parlare, sia il piú conveniente modo che usar si possa nello scrivere. Ché pur, secondo me, la scrittura non è altro che una forma di parlare che resta ancor poi che l'omo ha parlato, e quasi una imagine o piú presto vita delle parole, e però nel parlare, il qual, súbito uscita che è la voce, si disperde, son forse tollerabili alcune cose che non sono nello scrivere; perché la scrittura conserva le parole e le sottopone al giudicio di chi legge e dà tempo di considerarle maturamente. E perciò è ragionevole che in questa si metta maggior diligenzia per farla piú culta e castigata; non però di modo che le parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si eleggano delle piú belle che s'usano nel parlare. E se nello scrivere fosse licito quello che non è licito nel parlare, ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandissimo, che è che più licenzia usar si poria in quella cosa, nella qual si dee usar piú studio; e la industria che si mette nello scrivere in loco di giovar nocerebbe. Però certo è che quello che si conviene nello scrivere si convien ancor nel parlare; e quel parlar è bellissimo, che è simile ai scritti belli. Estimo ancora che molto piú sia necessario l'esser inteso nello scrivere che nel parlare; perché quelli che scrivono non son sempre presenti a quelli che leggono, come quelli che parlano a quelli che parlano. Però io laudarei che l'omo, oltre al fuggir molte parole antiche toscane, si assicurasse ancor d'usare, e scrivendo e parlando, quelle che oggidí sono in consuetudine in Toscana e negli altri lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia. E parmi che chi s'impone altra legge non sia ben sicuro di non incorrere in quella affettazione tanto biasimata, della qual dianzi dicevamo .
XXX.
Allora messer Federico, Signor Conte, disse, io non posso negarvi che la scrittura non sia un modo di parlare. Dico ben che, se le parole che si dicono hanno in sé qualche oscurità, quel ragionamento non penetra nell'animo di chi ode e passando senza esser inteso, diventa vano; il che non interviene nello scrivere, ché se le parole che usa il scrittore portan seco un poco, non dirò di difficultà, ma d'acutezza recondita, e non cosí nota come quelle che si dicono parlando ordinariamente, danno una certa maggior autorità alla scrittura e fanno che 'l lettore va piú ritenuto e sopra di sé, e meglio considera e si diletta dello ingegno e dottrina di chi scrive; e col bon giudicio affaticandosi un poco, gusta quel piacere che s'ha nel conseguir le cose difficili. E se la ignoranzia di chi legge è tanta, che non possa superar quelle difficultà, non è la colpa dello scrittore, né per questo si dee stimar che quella lingua non sia bella. Però, nello scrivere credo io che si convenga usar le parole toscane e solamente le usate dagli antichi Toscani, perché quello è gran testimonio ed approvato dal tempo che sian bone, e significative de quello perché si dicono; ed oltre a questo hanno quella grazia e venerazion che l'antiquità presta non solamente alle parole, ma agli edifici, alle statue, alle pitture e ad ogni cosa che è bastante a conservarla; e spesso solamente con quel splendore e dignità fanno la elocuzion bella, dalla virtú della quale ed eleganzia ogni subietto, per basso che egli sia, po esser tanto adornato, che merita somma laude. Ma questa vostra consuetudine, di cui voi fate tanto caso, a me par molto pericolosa e spesso po esser mala; e se qualche vicio di parlar si ritrova esser invalso in molti ignoranti, non per questo parmi che si debba pigliar per una regula ed esser dagli altri seguitato. Oltre a questo, le consuetudini sono molto varie, né è città nobile in Italia che non abbia diversa maniera di parlar da tutte l'altre. Però non vi ristringendo voi a dechiarir qual sia la megliore, potrebbe l'omo attaccarse alla bergamasca cosí come alla fiorentina, e secondo voi non sarebbe error alcuno. Parmi adunque che a chi vol fuggir ogni dubbio, ed esser ben sicuro, sia necessario proporsi ad imitar uno, il quale di consentimento di tutti sia estimato bono, ed averlo sempre per guida e scudo contra chi volesse riprendere; e questo (nel vulgar dico) non penso che abbia da esser altro che il Petrarca e 'l Boccaccio; e chi da questi dui si discosta va tentoni, come chi camina per le tenebre senza lume e però spesso erra la strada. Ma noi altri siamo tanto arditi, che non degnamo di far quello che hanno fatto i boni antichi, cioè attendere alla imitazione, senza la quale estimo io che non si possa scriver bene. E gran testinionio di questo parmi che ci dimostri Virgilio; il quale, benché con quello ingegno e giudicio tanto divino togliesse la speranza a tutti i posteri che alcun mai potesse ben imitar lui, volse però imitar Omero .
XXXI.
Allora il signor Gaspar Pallavicino, Questa disputazion, disse, dello scrivere in vero è ben degna d'esser udita; nientedimeno piú farebbe al proposito nostro, se voi c'insegnaste di che modo debba parlar il cortegiano, perché parmi che n'abbia maggior bisogno e piú spesso gli occorra il servirsi del parlare che dello scrivere . Rispose il Magnifico: Anzi a cortegian tanto eccellente e cosí perfetto non è dubbio che l'uno e l'altro è necessario a sapere, e che senza queste due condizioni forse tutte l'altre sariano non molto degne di laude; però, se il Conte vorrà satisfare al debito suo, insegnerà al cortegiano non solamente il parlare, ma ancor il scriver bene .
Allor il Conte, Signor Magnifico, disse, questa impresa non accettarò io già, ché gran sciocchezza saria la mia voler insegnare ad altri quello che io non so; e, quando ancor lo sapessi, pensar di poter fare in cosí poche parole quello, che con tanto studio e fatica hanno fatto a pena omini dottissimi, ai scritti de' quali rimetterei il nostro cortegiano, se pur fossi obligato d'insegnargli a scrivere e parlare . Disse messer Cesare: Il signor Magnifico intende del parlare e scriver vulgare, e non latino; però quelle scritture degli omini dotti non sono al proposito nostro; ma bisogna che voi diciate circa questo ciò che ne sapete, ché del resto v'averemo per escusato. Io già l'ho detto, rispose il Conte; ma, parlandosi della lingua toscana, forse piú saria debito del signor Magnifico che d'alcun altro il darne la sentenzia .
Disse il Magnifico: Io non posso né debbo ragionevolmente contradir a chi dice che la lingua toscana sia piú bella dell'altre. E' ben vero che molte parole si ritrovano nel Petrarca e nel Boccaccio, che or son interlassate dalla consuetudine d'oggidí; e queste io, per me, non usarei mai né parlando né scrivendo; e credo che essi ancor, se insin a qui vivuti fossero, non le usarebbono piú . Disse allor messer Federico: Anzi le usarebbono; e voi altri, signori Toscani, dovreste rinovar la vostra lingua e non lassarla perire, come fate; ché ormai si po dire che minor notizia se n'abbia in Fiorenza, che in molti altri lochi della Italia . Rispose allor messer Bernardo: Queste parole che non s'usano piú in Fiorenza sono restate ne' contadini e, come corrotte e guaste dalla vecchiezza, sono dai nobili rifiutate .
XXXII.
Allora la signora Duchessa, Non usciam, disse, del primo proposito e facciam che 'l conte Ludovico insegni al cortegiano il parlare e scriver bene, e sia o toscano o come si voglia . Rispose il Conte: Io già, Signora, ho detto quello che ne so; e tengo che le medesime regule, che serveno ad insegnar l'uno, servano ancor ad insegnar l'altro. Ma poiché mel commandate, risponderò quello che m'occorre a messer Federico, il quale ha diverso parer dal mio; e forse mi bisognerà ragionar un poco più diffusamente che non si conviene; ma questo sarà quanto io posso dire. E primamente dico che, secondo il mio giudicio, questa nostra lingua, che noi chiamiamo vulgare, è ancor tenera e nova, benché già gran tempo si costumi; perché, per essere stata la Italia non solamente vessata e depredata, ma lungamente abitata da' barbari, per lo commerzio di quelle nazioni la lingua latina s'è corrotta e guasta, e da quella corruzione son nate altre lingue; le quai, come i fiumi che dalla cima dell'Appennino fanno divorzio e scorrono nei dui mari, cosí si son esse ancor divise ed alcune tinte di latinità pervenute per diversi camini qual ad una parte e quale ad altra, ed una tinta di barbarie rimasta in Italia. Questa adunque è stata tra noi lungamente incomposta e varia, per non aver avuto chi le abbia posto cura, né in essa scritto, né cercato di darle splendor o grazia alcuna; pur è poi stata alquanto più culta in Toscana, che negli altri lochi della Italia; e per questo par che 'l suo fiore insino da que' primi tempi qui sia rimaso, per aver servato quella nazion gentil accenti nella pronunzia ed ordine grammaticale in quello che si convien, piú che l'altre; ed aver avuti tre nobili scrittori, i quali ingeniosamente e con quelle parole e termini che usava la consuetudine de' loro tempi hanno espresso i lor concetti; il che piú felicemente che agli altri, al parer mio, è successo al Petrarca nelle cose amorose. Nascendo poi di tempo in tempo, non solamente in Toscana ma in tutta la Italia, tra gli omini nobili e versati nelle corti e nell'arme e nelle lettere, qualche studio di parlare e scrivere piú elegantemente, che non si faceva in quella prima età rozza ed inculta, quando lo incendio delle calamità nate da' barbari non era ancor sedato, sonsi lassate molte parole, cosí nella città propria di Fiorenza ed in tutta la Toscana, come nel resto della Italia, ed in loco di quelle riprese dell'altre, e fattosi in questo quella mutazion che si fa in tutte le cose umane; il che è intervenuto sempre ancor delle altre lingue. Ché se quelle prime scritture antiche latine fossero durate insino ad ora, vederemmo che altramente parlavano Evandro e Turno e gli altri Latini di que' tempi, che non fecero poi gli ultimi re romani e i primi consuli. Eccovi che i versi che cantavano i Salii a pena erano dai posteri intesi; ma, essendo di quel modo dai primi institutori ordinati, non si mutavano per riverenzia della religione. Cosí successivamente gli oratori e i poeti andarono lassando molte parole usate dai loro antecessori; ché Antonio, Crasso, Ortensio, Cicerone fuggivano molte di quelle di Catone e Virgilio molte d'Ennio; e cosí fecero gli altri; che, ancor che avessero riverenzia all'antiquità, non la estimavan però tanto, che volessero averle quella obligazion che voi volete che ora le abbiam noi; anzi, dove lor parea, la biasmavano: come Orazio, che dice che i suoi antichi aveano scioccamente laudato Plauto e vol poter acquistare nove parole. E Cicerone in molti lochi riprende molti suoi antecessori; e per biasmare Sergio Galba afferma che le orazioni sue aveano dell'antico; e dice che Ennio ancor sprezzò in alcune cose i suoi antecessori, di modo che, se noi vorremo imitar gli antichi, non gli imitaremo. E Virgilio, che voi dite che imitò Omero, non lo imitò nella lingua.
XXXIII.
Io adunque queste parole antiche, quanto per me, fuggirei sempre di usare, eccetto però che in certi lochi, ed in questi ancor rare volte; e parmi che chi altrimente le usa faccia errore, non meno che chi volesse, per imitar gli antichi, nutrirsi ancora di ghiande, essendosi già trovata copia di grano. E perché voi dite che le parole antiche solamente con quel splendore d'antichitá adornan tanto ogni subietto, per basso ch'egli sia, che possono farlo degno di molta laude, io dico che non solamente di queste parole antiche, ma né ancor delle bone faccio tanto caso, ch'estimi debbano senza 'l suco delle belle sentenzie esser prezzate ragionevolmente perché il divider le sentenzie dalle parole è un divider l'anima dal corpo: la qual cosa né nell'uno né nell'altro senza distruzione far si po. Quello adunque che principalmente importa ed è necessario al cortegiano per parlare e scriver bene, estimo io che sia il sapere; perché chi non sa e nell'animo non ha cosa che meriti esser intesa, non po né dirla né scriverla. Appresso bisogna dispor con bell'ordine quello che si ha a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole: le quali, s'io non m'inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben composte, ma sopra tutto usate ancor dal populo; perché quelle medesime fanno la grandezza e pompa dell'orazione, se colui che parla ha bon giudicio e diligenzia e sa pigliar le piú significative di ciò che vol dire, ed inalzarle, e come cera formandole ad arbitrio suo collocarle in tal parte e con tal ordine. che al primo aspetto mostrino e faccian conoscer la dignità e splendor suo, come tavole di pittura poste al suo bono e natural lume. E questo cosí dico dello scrivere, come del parlare; al qual però si richiedono alcune cose che non son necessarie nello scrivere: come la voce bona, non troppo sottile o molle come di femina, né ancor tanto austera ed orrida che abbia del rustico, ma sonora, chiara, soave e ben composta, con la pronunzia espedita e coi modi e gesti convenienti; li quali, al parer mio, consistono in certi movimenti di tutto 'l corpo, non affettati né violenti, ma temperati con un volto accommodato e con un mover d'occhi che dia grazia e s'accordi con le parole, e piú che si po significhi ancor coi gesti la intenzione ed affetto di colui che parla. Ma tutte queste cose sarian vane e di poco momento se le sentenzie espresse dalle parole non fossero belle, ingeniose, acute, eleganti e gravi, secondo 'l bisogno .
XXXIV.
Dubito, disse allora il signor Morello, che se questo cortegiano parlerà con tanta eleganzia e gravità, fra noi si trovaranno di quei che non lo intenderanno. Anzi da ognuno sarà inteso, rispose il Conte, perché la facilità non impedisce la eleganzia. Né io voglio che egli parli sempre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di burle, secondo il tempo; del tutto però sensatamente e con prontezza e copia non confusa; né mostri in parte alcuna vanità o sciocchezza puerile. E quando poi parlerà di cosa oscura o difficile, voglio che e con le parole e con le sentenzie ben distinte esplichi sottilmente la intenzion sua, ed ogni ambiguità faccia chiara e piana con un certo modo diligente senza molestia. Medesimamente, dove occorrerà, sappia parlar con dignità e veemenzia, e concitar quegli affetti che hanno in sé gli animi nostri, ed accenderli o moverli secondo il bisogno; talor con una simplicità di quel candore, che fa parer che la natura istessa parli, intenerirgli e quasi inebbriargli di dolcezza, e con tal facilità, che chi ode estimi ch'egli ancor con pochissima fatica potrebbe conseguir quel grado, e quando ne fa la prova si gli trovi lontanissimo. Io vorrei che 'l nostro cortegiano parlasse e scrivesse in tal maniera, e non solamente pigliasse parole splendide ed eleganti d'ogni parte della Italia, ma ancora laudarei che talor usasse alcuni di quelli termini e franzesi e spagnoli, che già sono dalla consuetudine nostra accettati. Però a me non dispiacerebbe che, occorrendogli, dicesse primor, dicesse accertare, avventurare; dicesse ripassare una persona con ragionamento, volendo intendere riconoscerla e trattarla per averne perfetta notizia; dicesse un cavalier senza rimproccio, attillato, creato d'un principe ed altri tali termini, pur che sperasse esser inteso. Talor vorrei che pigliasse alcune parole in altra significazione che la lor propria e, traportandole a proposito, quasi le inserisse come rampollo d'albero in piú felice tronco, per farle piú vaghe e belle, e quasi per accostar le cose al senso degli occhi proprii e, come si dice, farle toccar con mano, con diletto di chi ode o legge. Né vorrei che temesse di formarne ancor di nove e con nove figure di dire, deducendole con bel modo dai Latini, come già i Latini le deducevano dai Greci.
XXVX.
Se adunque degli omini litterati e di bon ingegno e giudicio, che oggidí tra noi si ritrovano, fossero alcuni, li quali ponessimo cura di scrivere del modo che s'è detto in questa lingua cose degne d'esser lette, tosto la vederessimo culta ed abundante de termini e belle figure, e capace che in essa si scrivesse cosí bene come in qualsivoglia altra; e se ella non fosse pura toscana antica, sarebbe italiana, commune, copiosa e varia, e quasi come un delicioso giardino pien di diversi fiori e frutti. Né sarebbe questo cosa nova; perché delle quattro lingue che aveano in consuetudine, i scrittori greci, elegendo da ciascuna parole, modi e figure, come ben loro veniva, ne facevano nascere un'altra che si diceva commune, e tutte cinque poi sotto un solo nome chiamavano lingua greca; e benché la ateniese fosse elegante, pura e facunda piú che l'altre, i boni scrittori che non erano di nazion ateniesi, non la affettavan tanto, che nel modo dello scrivere e quasi all'odor e proprietà del suo natural parlare non fossero conosciuti; né per questo però erano sprezzati; anzi quei che volevan parer troppo ateniesi, ne rapportavan biasimo. Tra i scrittori latini ancor furono in prezzo a' suoi dí molti non romani, benché in essi non si vedesse quella purità propria della lingua romana, che rare volte possono acquistar quei che son d'altra nazione.
Già non fu rifutato Tito Livio, ancora che colui dicesse aver trovato in esso la patavinità, né Virgilio, per esser stato ripreso che non parlava romano; e, come sapete, furono ancor letti ed estimati in Roma molti scrittori di nazione barbari. Ma noi, molto piú severi che gli antichi, imponemo a noi stessi certe nove leggi fuor di proposito, ed avendo inanzi agli occhi le strade battute, cerchiamo anelar per diverticuli; perché nella nostra lingua propria, della quale, come di tutte l'altre, l'officio è esprimer bene e chiaramente i concetti dell'animo, ci dilettiamo della oscurità e, chiamandola lingua vulgare, volemo in essa usar parole che non solamente non son dal vulgo, ma né ancor dagli omini nobili e litterati intese, né piú si usano in parte alcuna; senza aver rispetto che tutti i boni antichi biasmano le parole rifutate dalla consuetudine. La qual voi, al parer mio, non conoscete bene; perché dite che, se qualche vicio di parlare è invalso in molti ignoranti non per questo si dee chiamar consuetudine, né esser accettato per una regula di parlare; e, secondo che altre volte vi ho udito dire, volete poi che in loco de Capitolio si dica Campidoglio; per Ieronimo, Girolamo; aldace per audace; e per patrone, padrone, ed altre tai parole corrotte e guaste, perché cosí si trovan scritte da qualche antico Toscano ignorante e perché cosí dicono oggidí i contadini toscani. La bona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli omini che hanno ingegno e che con la dottrina ed esperienzia s'hanno guadagnato il bon giudicio, e con quello concorrono e consentono ad accettar le parole che lor paion bone, le quali si conoscono per un certo giudicio naturale e non per arte o regula alcuna.
Non sapete voi che le figure del parlare, le quai dànno tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni dalle regule grammaticali ma accettate e confirmate dalla usanza, perché, senza poterne render altra ragione, piaceno ed al senso proprio dell'orecchia par che portino suavità e dolcezza? E questa credo io che sia la bona consuetudine; della quale cosí possono essere capaci i Romani, i Napoletani, i Lombardi e gli altri, come i Toscani.
XXVXI.
E' ben vero che in ogni lingua alcune cose sono sempre bone, come la facilità, il bell'ordine, l'abundanzia, le belle sentenzie, le clausule numerose; e, per contrario, l'affettazione e l'altre cose opposite a queste son male. Ma delle parole son alcune che durano bone un tempo, poi s'invecchiano ed in tutto perdono la grazia; altre piglian forza e vengono in prezzo perché, come le stagioni dell'anno spogliano de' fiori e de' frutti la terra e poi di novo d'altri la rivesteno, cosí il tempo quelle prime parole fa cadere e l'uso altre di novo fa rinascere e dà lor grazia e dignità, fin che, dall'invidioso morso del tempo a poco a poco consumate, giungono poi esse ancora alla lor morte; perciò che, al fine, e noi ed ogni nostra cosa è mortale. Considerate che della lingua osca non avemo piú notizia alcuna. La provenzale, che pur mo, si po dir, era celebrata da nobili scrittori, ora dagli abitanti di quel paese non è intesa. Penso io adunque, come ben ha detto il signor Magnifico, che se 'l Petrarca e 'l Boccaccio fossero vivi a questo tempo, non usariano molte parole che vedemo ne' loro scritti: però non mi par bene che noi quelle imitiamo. Laudo ben sommamente coloro che sanno imitar quello che si dee imitare; nientedimeno non credo io già che sia impossibile scriver bene ancor senza imitare; e massimamente in questa nostra lingua, nella quale possiam esser dalla consuetudine aiutati; il che non ardirei dir nella latina .
XXVXII.
Allor messer Federico, Perché volete voi, disse, che piú s'estimi la consuetudine nella vulgare che nella latina? Anzi, dell'una e dell'altra, rispose il Conte, estimo che la consuetudine sia la maestra. Ma perché quegli omini, ai quali la lingua latina era cosí propria come or è a noi la vulgare, non sono piú al mondo, bisogna che noi dalle lor scritture impariamo quello, che essi aveano imparato dalla consuetudine; né altro vol dir il parlar antico che la consuetudine antica di parlare; e sciocca cosa sarebbe amar il parlar antico non per altro, che per voler piú presto parlare come si parlava, che come si parla. Dunque, rispose messer Federico, gli antichi non imitavano?
Credo, disse il Conte, che molti imitavano, ma non in ogni cosa. E se Virgilio avesse in tutto imitato Esiodo, non gli sería passato innanzi; né Cicerone a Crasso, né Ennio ai suoi antecessori. Eccovi che Omero è tanto antico, che da molti si crede che egli cosí sia il primo poeta eroico di tempo, come ancor è d'eccellenzia di dire; e chi vorrete voi che egli imitasse? Un altro, rispose messer Federico, piú antico di lui, del quale non avemmo notizia per la troppo antiquità. Chi direte adunque, disse il Conte, che imitasse il Petrarca e 'l Boccaccio, che pur tre giorni ha, si po dir, che son stati al mondo? Io nol so, rispose messer Federico; ma creder si po che essi ancor avessero l'animo indrizzato alla imitazione, benché noi non sappiam di cui . Rispose il Conte:
Creder si po che que' che erano imitati fossero migliori che que' che imitavano; e troppo maraviglia saria che cosí presto il lor nome e la fama, se eran boni, fosse in tutto spenta. Ma il lor vero maestro cred'io che fosse l'ingegno ed il lor proprio giudicio naturale; e di questo niuno è che si debba maravigliare, perché quasi sempre per diverse vie si po tendere alla sommità d'ogni eccellenzia. Né è natura alcuna che non abbia in sé molte cose della medesima sorte dissimili l'un dall'altra, le quali però son tra sé di equal laude degne. Vedete la musica, le armonie della quale or son gravi e tarde, or velocissime e di novi modi e vie; nientedimeno tutte dilettano, ma per diverse cause, come si comprende nella maniera del cantare di Bidon, la qual è tanto artificiosa, pronta, veemente, concitata e de cosí varie melodie, che i spirti di chi ode tutti si commoveno e s'infiammano e cosí sospesi par che si levino insino al cielo. Né men commove nel suo cantar il nostro Marchetto Cara, ma con piú molle armonia; ché per una via placida e piena di flebile dolcezza intenerisce e penetra le anime imprimendo in esse soavemente una dilettevole passione. Varie cose ancor egualmente piacciono agli occhi nostri, tanto che con difficultà giudicar si po quai piú lor sian grate. Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna, Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco; nientedimeno, tutti son tra sé nel far dissimili, di modo che ad alcun di loro non par che manchi cosa alcuna in quella maniera, perché si conosce ciascun nel suo stilo esser perfettissimo. Il medesimo è di molti poeti greci e latini, i quali, diversi nello scrivere, sono pari nella laude. Gli oratori ancor hanno avuto sempre tanta diversità tra sé, che quasi ogni età ha produtto ed apprezzato una sorte d'oratori peculiar di quel tempo; i quali non solamente dai precessori e successori suoi, ma tra sé son stati dissimili, come si scrive ne' Greci di Isocrate, Lisia, Eschine e molt'altri, tutti eccellenti, ma a niun però simili forche a se stessi. Tra i Latini poi quel Carbone, Lelio, Scipione Affricano, Galba, Sulpizio, Cotta, Gracco, Marc'Antonio, Crasso e tanti che saria lungo nominare, tutti boni e l'un dall'altro diversissimi; di modo che chi potesse considerar tutti gli oratori che son stati al mondo, quanti oratori tante sorti di dire trovarebbe. Parmi ancor ricordare che Cicerone in un loco introduca Marc'Antonio dir a Sulpizio che molti sono i quali non imitano alcuno e nientedimeno pervengono al sommo grado della eccellenzia; e parla di certi, i quali aveano introdutto una nova forma e figura di dire, bella, ma inusitata agli altri oratori di quel tempo, nella quale non imitavano se non se stessi; però afferma ancor che i maestri debbano considerar la natura dei discipuli e, quella tenendo per guida, indrizzargli ed aiutargli alla via, che lo ingegno loro e la natural disposizion gli inclina. Per questo adunque, messer Federico mio, credo, se l'omo da sé non ha convenienzia con qualsivoglia autore, non sia ben sforzarlo a quella imitazione; perché la virtú di quell'ingegno s'ammorza e resta impedita, per esser deviata dalla strada nella quale avrebbe fatto profitto, se non le fosse stata precisa. Non so adunque come sia bene, in loco d'arricchir questa lingua e darle spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e 'l Boccaccio; e che nella lingua non si debba ancor credere al Policiano, a Lorenzo de' Medici, a Francesco Diaceto e ad alcuni altri che pur son toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e 'l Boccaccio. E veramente gran miseria saria metter fine e non passar piú avanti di quello che si abbia fatto quasi il primo che ha scritto, e disperarsi che tanti e cosí nobili ingegni possano mai trovar piú che una forma bella di dire in quella lingua, che ad essi è propria e naturale. Ma oggidí son certi scrupolosi, i quali, quasi con una religion e misterii ineffabili di questa lor lingua toscana, spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono ancor molti omini nobili e litterati in tanta timidità, che non osano aprir la bocca e confessano di non saper parlar quella lingua, che hanno imparata dalle nutrici insino nelle fasce. Ma di questo parmi che abbiam detto pur troppo; però seguitiamo ormai il ragionamento del cortegiano .
XXVXIII.
Allora messer Federico rispose: lo voglio pur ancor dir questo poco: che è ch'io già non niego che le opinioni e gli ingegni degli omini non siano diversi tra sé, né credo che ben fosse che uno, da natura veemente e concitato, si mettesse a scrivere cose placide, né meno un altro, severo e grave, a scrivere piacevolezze: perché in questo parmi ragionevole che ognuno s'accomodi allo instinto suo proprio. E di ciò, credo, parlava Cicerone quando disse che i maestri avessero riguardo alla natura dei discipuli per non fare come i mal agricultori, che talor nel terreno che solamente è fruttifero per le vigne vogliano seminar grano. Ma a me non po caper nella testa che d'una lingua particulare, la quale non è a tutti gli omini cosí propria come i discorsi ed i pensieri e molte altre operazioni, ma una invenzione contenuta sotto certi termini, non sia piú ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso e che, cosí come nel latino l'omo si dee sforzar di assimigliarsi alla lingua di Virgilio e di Cicerone, piú tosto che a quella di Silio o di Cornelio Tacito, cosí nel vulgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d'alcun altro; ma ben in essa esprimere i suoi proprii concetti ed in questo attendere, come insegna Cicerone, allo instinto suo naturale; e cosí si troverà che quella differenzia che voi dite essere tra i boni oratori, consiste nei sensi e non nella lingua . Allor il Conte, Dubito, disse, che noi entraremo in un gran pelago e lassaremo il nostro primo proposito del cortegiano. Pur domando a voi: in che consiste la bontà di questa lingua? Rispose messer Federico: Nel servar ben le proprietà di essa e tórla in quella significazione, usando quello stile e que' numeri che hanno fatto tutti quei che hanno scritto bene. Vorrei, disse il Conte, sapere se questo stile e questi numeri di che voi parlate, nascano dalle sentenzie o dalle parole. Dalle parole, rispose messer Federico. Adunque, disse il Conte, a voi non par che le parole di Silio e di Cornelio Tacito siano quelle medesime che usa Virgilio e Cicerone, né tolte nella medesima significazione? Rispose messer Federico: Le medesime son sí, ma alcune mal osservate e tolte diversamente . Rispose il Conte: E se d'un libro di Cornelio e d'un di Silio si levassero tutte quelle parole che son poste in altra significazion di quello che fa Virgilio e Cicerone, che seriano pochissime, non direste voi poi che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? e che ben fosse imitar quella maniera del dire?
XXXIX.
Allor la signora Emilia, A me par, disse, che questa vostra disputa sia mo troppo lunga e fastidiosa; però fia bene a differirla ad un altro tempo .
Messer Federico pur incominciava a rispondere; ma sempre la signora Emilia lo interrompeva. In ultimo disse il Conte: Molti vogliono giudicare i stili e parlar de' numeri e della imitazione; ma a me non sanno già essi dare ad intendere che cosa sia stile né numero, né in che consista la imitazione, né perché le cose tolte da Omero o da qualche altro stiano tanto bene in Virgilio, che piú presto paiano illustrate che imitate; e ciò forse procede ch'io non son capace d'intendergli. Ma perché grande argumento che l'om sappia una cosa è il saperla insegnare, dubito che essi ancora poco la intendano; e che e Virgilio e Cicerone laudino perché sentono che da molti son laudati, non perché conoscano la differenzia che è tra essi e gli altri; ché in vero non consiste in avere una osservazione di due, di tre o di dieci parole usate a modo diverso dagli altri. In Salustio, in Cesare, in Varrone e negli altri boni si trovano usati alcuni termini diversamente da quello che usa Cicerone; e pur l'uno e l'altro sta bene, perché in cosí frivola cosa non è posta la bontà e forza d'una lingua, come ben disse Demostene ad Eschine, che lo mordeva, domandandogli d'alcune parole le quali egli aveva usate, e pur non erano attiche, se erano monstri o portenti; e Demostene se ne rise, e risposegli che in questo non consistevano le fortune di Grecia. Cosí io ancora poco mi curarei, se da un toscano fossi ripreso d'aver detto piú tosto satisfatto che sodisfatto, ed onorevole che orrevole, e causa che cagione, e populo che popolo, ed altre tai cose . Allor messer Federico si levò in piè e disse: Ascoltatemi, prego, queste poche parole . Rispose ridendo la signora Emilia: Pena la disgrazia mia a qual di voi per ora parla piú di questa materia, perché voglio che la rimettiamo ad un'altra sera. Ma voi, Conte, seguitate il ragionamento del cortegiano; e mostrateci come avete bona memoria, ché, credo, se saprete ritaccarlo ove lo lassaste, non farete poco .
XL.
Signora, rispose il Conte, il filo mi par tronco: pur, s'io non m'inganno, credo che dicevamo che somma disgrazia a tutte le cose dà sempre la pestifera affettazione e per contrario grazia estrema la simplicità e la sprezzatura; a laude della quale e biasmo della affettazione molte altre cose ragionar si potrebbono; ma io una sola ancor dir ne voglio, e non piú. Gran desiderio universalmente tengon tutte le donne di essere e, quando esser non possono, almen di parer belle; però, dove la natura in qualche parte in questo è mancata, esse si sforzano di supplir con l'artificio. Quindi nasce l'acconciarsi la faccia con tanto studio e talor pena, pelarsi le ciglia e la fronte, ed usar tutti que' modi e patire que' fastidi, che voi altre donne credete che agli omini siano molto secreti, e pur tutti si sanno . Rise quivi Madonna Costanza Fregosa e disse: Voi fareste assai piú cortesemente seguitar il ragionamento vostro e dir onde nasca la bona grazia e parlar della cortegiania, che voler scoprir i diffetti delle donne senza proposito. Anzi molto a proposito, rispose il Conte; perché questi vostri diffetti di che io parlo vi levano la grazia, perché d'altro non nascono che da affettazione, per la qual fate conoscere ad ognuno scopertamente il troppo desiderio vostro d'esser belle. Non vi accorgete voi, quanto piú di grazia tenga una donna, la qual, se pur si acconcia, lo fa cosí parcamente e cosí poco, che chi la vede sta in dubbio s'ella è concia o no, che un'altra, empiastrata tanto, che paia aversi posto alla faccia una maschera, e non osi ridere per non farsela crepare, né si muti mai di colore se non quando la mattina si veste; e poi tutto il remanente del giorno stia come statua di legno immobile, comparendo solamente a lume di torze o, come mostrano i cauti mercatanti i lor panni, in loco oscuro? Quanto piú poi di tutte piace una, dico, non brutta, che si conosca chiaramente non aver cosa alcuna in su la faccia, benché non sia cosí bianca né cosí rossa, ma col suo color nativo pallidetta e talor per vergogna o per altro accidente tinta d'un ingenuo rossore, coi capelli a caso inornati e mal composti e coi gesti simplici e naturali, senza mostrar industria né studio d'esser bella? Questa è quella sprezzata purità gratissima agli occhi ed agli animi umani, i quali sempre temono essere dall'arte ingannati.
Piacciono molto in una donna i bei denti, perché non essendo cosí scoperti come la faccia, ma per lo piú del tempo stando nascosi, creder si po che non vi si ponga tanta cura per fargli belli, come nel volto; pur chi ridesse senza proposito e solamente per mostrargli, scopriria l'arte e, benché belli gli avesse, a tutti pareria disgraziatissimo, come lo Egnazio catulliano. Il medesimo è delle mani; le quali, se delicate e belle sono, mostrate ignude a tempo, secondo che occorre operarle, e non per far veder la lor bellezza, lasciano di sé grandissimo desiderio e massimamente revestite di guanti; perché par che chi le ricopre non curi e non estimi molto che siano vedute o no, ma cosí belle le abbia piú per natura che per studio o diligenzia alcuna.
Avete voi posto cura talor, quando, o per le strade andando alle chiese o ad altro loco, o giocando o per altra causa, accade che una donna tanto della robba si leva, che il piede e spesso un poco di gambetta senza pensarvi mostra? non vi pare che grandissima grazia tenga, se ivi si vede con una certa donnesca disposizione leggiadra ed attillata nei suoi chiapinetti di velluto, e calze polite? Certo a me piace egli molto e credo a tutti voi altri, perché ognun estima che la attillatura in parte cosí nascosa e rare volte veduta, sia a quella donna piú tosto naturale e propria che sforzata, e che ella di ciò non pensi acquistar laude alcuna.
XLI.
In tal modo si fugge e nasconde l'affettazione, la qual or potete comprender quanto sia contraria, e levi la grazia d'ogni operazion cosí del corpo come dell'animo; del quale per ancor poco avemo parlato, né bisogna però lasciarlo; ché sí come l'animo piú degno è assai che 'l corpo, cosí ancor merita esser piú culto e piú ornato. E ciò come far si debba nel nostro cortegiano, lasciando li precetti di tanti savi fìlosofi, che di questa materia scrivono e diffiniscono le virtú dell'animo e cosí sottilmente disputano della dignità di quelle, diremo in poche parole, attendendo al nostro proposito, bastar che egli sia, come si dice, omo da bene ed intiero, ché in questo si comprende la prudenzia, bontà, fortezza e temperanzia d'animo e tutte l'altre condizioni che a cosí onorato nome si convengono. Ed io estimo quel solo esser vero filosofo morale, che vol esser bono; ed a ciò gli bisognano pochi altri precetti, che tal voluntà. E però ben dicea Socrate parergli che gli ammaestramenti suoi già avessino fatto bon frutto, quando per quelli chi si fosse si incitava a voler conoscer ed imparar la virtú; perché quelli che son giunti a termine che non desiderano cosa alcuna piú che l'essere boni, facilmente conseguono la scienzia di tutto quello che a ciò bisogna; però di questo non ragionaremo piú avanti.
XLII.
Ma, oltre alla bontà, il vero e principal ornamento dell'animo in ciascuno penso io che siano le lettere, benché i Franzesi solamente conoscano la nobilità delle arme e tutto il resto nulla estimino; di modo che non solamente non apprezzano le lettere, ma le aborriscono, e tutti e litterati tengon per vilissimi omini; e pare lor dir gran villania a chi si sia, quando lo chiamano clero. Allora il Magnifico Iuliano, Voi dite il vero, rispose, che questo errore già gran tempo regna tra' Franzesi; ma se la bona sorte vole che monsignor d'Angolem, come si spera, succeda alla corona, estimo che sí come la gloria dell'arme fiorisce e risplende in Francia, cosí vi debba ancor con supremo ornamento fiorir quella delle lettere; perché non è molto ch'io, ritrovandomi alla corte, vidi questo signore e parvemi che, oltre alla disposizion della persona e bellezza di volto, avesse nell'aspetto tanta grandezza, congiunta però con una certa graziosa umanità, che 'l reame di Francia gli dovesse sempre parer poco. Intesi da poi da molti gentilomini, e franzesi ed italiani, assai dei nobilissimi costumi suoi, della grandezza dell'animo, del valore e della liberalità; e tra l'altre cose fummi detto che egli sommamente amava ed estimava le lettere ed avea in grandissima osservanzia tutti e litterati; e dannava i Franzesi proprii dell'esser tanto alieni da questa professione, avendo massimamente in casa un cosí nobil studio come è quello di Parigi, dove tutto il mondo concorre . Disse allor il Conte: Gran maraviglia è che in cosí tenera età, solamente per instinto di natura, contra l'usanza del paese, si sia da sé a sé volto a cosí bon camino; e perché i sudditi sempre seguitano i costumi de' superiori po esser che, come voi dite, i Franzesi siano ancor per estimar le lettere di quella dignità che sono; il che facilmente, se vorranno intendere, si potrà lor persuadere, perché niuna cosa piú da natura è desiderabile agli omini né piú propria che il sapere; la qual cosa gran pazzia è dire o credere che non sia sempre bona.
XLIII.
E s'io parlassi con essi o con altri che fosseno d'opinion contraria alla mia, mi sforzarei mostrar loro quanto le lettere, le quali veramente da Dio son state agli omini concedute per un supremo dono, siano utili e necessarie alla vita e dignità nostra; né mi mancheriano esempi di tanti eccellenti capitani antichi, i quali tutti giunsero l'ornamento delle lettere alla virtú dell'arme. Ché, come sapete, Alessandro ebbe in tanta venerazione Omero, che la Iliade sempre si teneva a capo del letto; e non solamente a questi studi, ma alle speculazioni filosofice diede grandissima opera sotto la disciplina d'Aristotele. Alcibiade le bone condizioni sue accrebbe e fece maggiori con le lettere e con gli ammaestramenti di Socrate. Cesare quanta opera desse ai studi, ancor fanno testimonio quelle cose che da esso divinamente scritte si ritrovano. Scipion Affricano dicesi che mai di mano non si levava i libri di Senofonte, dove instituisce sotto 'l nome di Ciro un perfetto re. Potrei dirvi di Lucullo, di Silla, di Pompeo, di Bruto e di molt'altri Romani e Greci; ma solamente ricordarò che Annibale, tanto eccellente capitano, ma però di natura feroce ed alieno da ogni umanità, infidele e despregiator degli omini e degli dèi, pur ebbe notizia di lettre e cognizion della lingua greca; e, s'io non erro, parmi aver letto già che esso un libro pur in lingua greca lasciò da sé composto. Ma questo dire a voi è superfluo, ché ben so io che tutti conoscete quanto s'ingannano i Francesi pensando che le lettre nuocciano all'arme. Sapete che delle cose grandi ed arrischiate nella guerra il vero stimulo è la gloria; e chi per guadagno o per altra causa a ciò si move, oltre che mai non fa cosa bona, non merita esser chiamato gentilomo, ma vilissimo mercante. E che la vera gloria sia quella che si commenda al sacro tesauro delle lettre, ognuno po comprendere, eccetto quegli infelici che gustate non l'hanno. Qual animo è cosí demesso, timido ed umile, che leggendo i fatti e le grandezze di Cesare, d'Alessandro, di Scipione, d'Annibale e di tanti altri, non s'infiammi d'un ardentissimo desiderio d'esser simile a quelli e non posponga questa vita caduca di dui giorni per acquistar quella famosa quasi perpetua, la quale, a dispetto della morte, viver lo fa piú chiaro assai che prima? Ma chi non sente la dolcezza delle lettere, saper ancor non po quanta sia la grandezza della gloria cosí lungamente da esse conservata, e solamente quella misura con la età d'un omo, o di dui, perché di piú oltre non tien memoria; però questa breve tanto estimar non po, quanto faria quella quasi perpetua, se per sua desgrazia non gli fosse vetato il conoscerla; e non estimandola tanto, ragionevol cosa è ancor credere che tanto non si metta a periculo per conseguirla come chi la conosce. Non vorrei già che qualche avversario mi adducesse gli effetti contrari per rifiutar la mia opinione, allegandomi gli Italiani col lor saper lettere aver mostrato poco valor nell'arme da un tempo in qua, il che pur troppo è piú che vero; ma certo ben si poria dir la colpa d'alcuni pochi aver dato, oltre al grave danno, perpetuo biasmo a tutti gli altri, e la vera causa delle nostre ruine e della virtú prostrata, se non morta, negli animi nostri, esser da quelli proceduta; ma assai piú a noi saria vergognoso il publicarla, che a' Franzesi il non saper lettere. Però meglio è passar con silenzio quello che senza dolor ricordar non si po; e, fuggendo questo proposito, nel quale contra mia voglia entrato sono, tornar al nostro cortegiano.
XLIV.
Il qual voglio che nelle lettre sia piú che mediocremente erudito, almeno in questi studi che chiamano d'umanità; e non solamente della lingua latina, ma ancor della greca abbia cognizione, per le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono. Sia versato nei poeti e non meno negli oratori ed istorici ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua vulgare; che, oltre al contento che egli stesso pigliarà, per questo mezzo non gli mancheran mai piacevoli intertenimenti con donne, le quali per ordinario amano tali cose. E se, o per altre facende o per poco studio, non giungerà a tal perfezione che i suoi scritti siano degni di molta laude, sia cauto in supprimergli per non far ridere altrui di sé, e solamente i mostri ad amico di chi fidar si possa; perché almeno in tanto li giovaranno, che per quella esercitazion saprà giudicar le cose altrui; che invero rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie de' scrittori, né gustar la dolcezza ed eccellenzia de' stili, e quelle intrinseche avvertenzie che spesso si trovano negli antichi. Ed oltre a ciò, farannolo questi studi copioso e, come rispose Aristippo a quel tiranno, ardito in parlar sicuramente con ognuno. Voglio ben però che 'l nostro cortegiano fisso si tenga nell'animo un precetto: cioè che in questo ed in ogni altra cosa sia sempre avvertito e timido piú presto che audace, e guardi di non persuadersi falsamente di saper quello che non sa: perché da natura tutti siamo avidi troppo piú che non si devria di laude, e piú amano le orecchie nostre la melodia delle parole che ci laudano, che qualunque altro soavissimo canto o suono; e però spesso, come voci di sirene, sono causa di sommergere chi a tal fallace armonia bene non se le ottura. Conoscendo questo pericolo, si è ritrovato tra gli antichi sapienti chi ha scritto libri, in qual modo possa l'omo conoscere il vero amico dall'adulatore. Ma questo che giova, se molti, anzi infiniti son quelli che manifestamente comprendono esser adulati, e pur amano chi gli adula ed hanno in odio chi dice lor il vero? e spesso, parendogli che chi lauda sia troppo parco in dire, essi medesimi lo aiutano e di se stessi dicono tali cose, che lo impudentissimo adulator se ne vergogna? Lasciamo questi ciechi nel lor errore e facciamo che 'l nostro cortegiano sia di cosí bon giudicio, che non si lasci dar ad intendere il nero per lo bianco, né presuma di sé, se non quanto ben chiaramente conosce esser vero; e massimamente in quelle cose, che nel suo gioco, se ben avete a memoria, messer Cesare ricordò che noi piú volte avevamo usate per instrumento di far impazzir molti. Anzi, per non errar, se ben conosce le laudi che date gli sono esser vere, non le consenta cosí apertamente, né cosí senza contradizione le confermi; ma piú tosto modestamente quasi le nieghi, mostrando sempre e tenendo in effetto per sua principal professione l'arme e l'altre bone condizioni tutte per ornamento di quelle; e massimamente tra i soldati, per non far come coloro che ne' studi voglion parere omini di guerra e tra gli omini di guerra litterati. In questo modo, per le ragioni che avemo dette, fuggirà l'affettazione e le cose mediocri che farà parranno grandissime .
XLV.
Rispose quivi messer Pietro Bembo: Io non so, Conte, come voi vogliate che questo cortegiano, essendo litterato e con tante altre virtuose qualità, tenga ogni cosa per ornamento dell'arme, e non l'arme e 'l resto per ornamento delle lettere; le quali senza altra compagnia tanto son di dignità all'arme superiori, quanto l'animo al corpo, per appartenere propriamente la operazion d'esse all'animo, cosí come quella delle arme al corpo . Rispose allor il Conte: Anzi all'animo ed al corpo appartiene la operazion dell'arme. Ma non voglio, messer Pietro, che voi di tal causa siate giudice, perché sareste troppo suspetto ad una delle parti; ed essendo già stata questa disputazione lungamente agitata da omini sapientissimi, non è bisogno rinovarla; ma io la tengo per diffinita in favore dell'arme e voglio che 'l nostro cortegiano, poich'io posso ad arbitrio mio formarlo, esso ancor cosí la estimi. E se voi sète di contrario parer, aspettate d'udirne una disputazion, nella qual cosí sia licito a chi diffende la ragion dell'arme operar l'arme, come quelli che diffendon le lettre oprano in tal diffesa le medesime lettre; ché se ognuno si valerà de' suoi instrumenti, vedrete che i litterati perderanno. Ah, disse messer Pietro, voi dianzi avete dannati i Franzesi che poco apprezzan le lettre e detto quanto lume di gloria esse mostrano agli omini e come gli facciano immortali; ed or pare che abbiate mutata sentenzia. Non vi ricorda che
Giunto Alessandro alla famosa tomba del fero Achille, sospirando disse:
O fortunato, che sí chiara tromba trovasti e chi di te sí alto scrisse!.
E se Alessandro ebbe invidia ad Achille non de' suoi fatti, ma della fortuna che prestato gli avea tanta felicità che le cose sue fosseno celebrate da Omero, comprender si po che estimasse piú le lettre d'Omero, che l'arme d'Achille. Qual altro giudice adunque, o qual altra sentenzia aspettate voi della dignità dell'arme e delle lettre, che quella che fu data da un de' piú gran capitani che mai sia stato?
XLVI.
Rispose allora il Conte: Io biasmo i Franzesi che estiman le lettre nuocere alla profession dell'arme e tengo che a niun piú si convenga l'esser litterato che ad un om di guerra; e queste due condizioni concatenate e l'una dall'altra aiutate, il che è convenientissimo, voglio che siano nel nostro cortegiano; né per questo parmi esser mutato d'opinione. Ma, come ho detto disputar non voglio qual d'esse sia piú degna di laude. Basta che i litterati quasi mai non pigliano a laudare se non omini grandi e fatti gloriosi, i quali da sé meritano laude per la propria essenzial virtute donde nascono; oltre a ciò sono nobilissima materia dei scrittori; il che è grande ornamento ed in parte causa di perpetuare i scritti, li quali forse non sariano tanto letti né apprezzati se mancasse loro il nobile suggetto, ma vani e di poco momento. E se Alessandro ebbe invidia ad Achille per esser laudato da chi fu, non conchiude però questo che estimasse piú le lettre che l'arme; nelle quali se tanto si fosse conosciuto lontano da Achille, come nel scrivere estimava che dovessero esser da Omero tutti quelli che di lui fossero per scrivere, son certo che molto prima averia desiderato il ben fare in sé che il ben dire in altri. Però questa credo io che fosse una tacita laude di se stesso ed un desiderar quello che aver non gli pareva, cioè la suprema eccellenzia d'uno scrittore, e non quello che già si prosumeva aver conseguito, cioè la virtú dell'arme, nella quale non estimava che Achille punto gli fosse superiore; onde chiamollo fortunato, quasi accennando che, se la fama sua per lo inanzi non fosse tanto celebrata al mondo come quella, che era per cosí divin poema chiara ed illustre, non procedesse perché il valore ed i meriti non fossero tanti e di tanta laude degni, ma nascesse dalla fortuna, la quale avea parato inanti ad Achille quel miraculo di natura per gloriosa tromba dell'opere sue; e forse ancor volse eccitar qualche nobile ingegno a scrivere di sé, mostrando per questo dovergli esser tanto grato, quanto amava e venerava i sacri monumenti delle lettre, circa le quali omai si è parlato a bastanza.
Anzi troppo, rispose il signor Ludovico Pio; perché credo che al mondo non sia possibile ritrovar un vaso tanto grande, che fosse capace di tutte le cose, che voi volete che stiano in questo cortegiano . Allor il Conte, Aspettate un poco, disse, che molte altre ancor ve ne hanno da essere . Rispose Pietro da Napoli: A questo modo il Grasso de' Medici averà gran vantaggio da messer Pietro Bembo .
XLVII.
Rise quivi ognuno; e ricominciando il Conte, Signori, disse, avete a sapere ch'io non mi contento del cortegiano e s'egli non è ancor musico e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii instrumenti; perché, se ben pensiamo, niuno riposo de fatiche e medicina d'animi infermi ritrovar si po piú onesta e laudevole nell'ocio, che questa; e massimamente nelle corti, dove, oltre al refrigerio de' fastidi che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satisfar alle donne, gli animi delle quali, teneri e molli, facilmente sono dall'armonia penetrati e di dolcezza ripieni.
Però non è maraviglia se nei tempi antichi e nei presenti sempre esse state sono a' musici inclinate ed hanno avuto questo per gratissimo cibo d'animo .
Allor il signor Gaspar, La musica penso, disse, che insieme con molte altre vanità sia alle donne conveniente sí, e forse ancor ad alcuni che hanno similitudine d'omini, ma non a quelli che veramente sono; i quali non deono con delicie effeminare gli animi ed indurgli in tal modo a temer la morte. Non dite, rispose il Conte; perch'io v'entrarò in un gran pelago di laude della musica; e ricordarò quanto sempre appresso gli antichi sia stata celebrata e tenuta per cosa sacra, e sia stato opinione di sapientissimi filosofi il mondo esser composto di musica e i cieli nel moversi far armonia, e l'anima nostra pur con la medesima ragion esser formata, e però destarsi e quasi vivificar le sue virtú per la musica. Per il che se scrive Alessandro alcuna volta esser stato da quella cosí ardentemente incitato, che quasi contra sua voglia gli bisognava levarsi dai convivii e correre all'arme; poi, mutando il musico la sorte del suono, mitigarsi e tornar dall'arme ai convivii. E dirovvi il severo Socrate, già vecchissimo, aver imparato a sonare la citara. E ricordomi aver già inteso che Platone ed Aristotele vogliono che l'om bene instituito sia ancor musico, e con infinite ragioni mostrano la forza della musica in noi essere grandissima, e per molte cause, che or saria lungo a dir, doversi necessariamente imparar da puerizia; non tanto per quella superficial melodia che si sente, ma per esser sufficiente ad indur in noi un novo abito bono ed un costume tendente alla virtú, il qual fa l'animo piú capace di felicità, secondo che lo esercizio corporale fa il corpo piú gagliardo; e non solamente non nocere alle cose civili e della guerra, ma loro giovar sommamente. Licurgo ancora nelle severe sue leggi la musica approvò. E leggesi i Lacedemonii bellicosissimi ed i Cretensi aver usato nelle battaglie citare ed altri instrumenti molli; e molti eccellentissimi capitani antichi, come Epaminonda, aver dato opera alla musica; e quelli che non ne sapeano, come Temistocle, esser stati molto meno apprezzati. Non avete voi letto che delle prime discipline che insegnò il bon vecchio Chirone nella tenera età ad Achille, il quale egli nutrí dallo latte e dalla culla, fu la musica; e volse il savio maestro che le mani, che aveano a sparger tanto sangue troiano, fossero spesso occupate nel suono della citara? Qual soldato adunque sarà che si vergogni d'imitar Achille, lasciando molti altri famosi capitani ch'io potrei addurre? Però non vogliate voi privar il nostro cortegiano della musica, la qual non solamente gli animi umani indolcisce, ma spesso le fiere fa diventar mansuete; e chi non la gusta si po tener per certo ch'abbia i spiriti discordanti l'un dall'altro. Eccovi quanto essa po, che già trasse un pesce a lassarsi cavalcar da un omo per mezzo il procelloso mare.
Questa veggiamo operarsi ne' sacri tempii nello rendere laude e grazie a Dio; e credibil cosa è che ella grata a lui sia ed egli a noi data l'abbia per dolcissimo alleviamento delle fatiche e fastidi nostri. Onde spesso i duri lavoratori de' campi sotto l'ardente sole ingannano la lor noia col rozzo ed agreste cantare. Con questo la inculta contadinella, che inanzi al giorno a filare o a tessere si lieva, dal sonno si diffende e la sua fatica fa piacevole; questo è iocundissimo trastullo dopo le piogge, i venti e le tempeste ai miseri marinari; con questo consolansi i stanchi peregrini dei noiosi e lunghi viaggi e spesso gli afflitti prigionieri delle catene e ceppi.
Cosí, per maggiore argumento che d'ogni fatica e molestia umana la modulazione, benché inculta, sia grandissimo refrigerio, pare che la natura alle nutrici insegnata l'abbia per rimedio precipuo del pianto continuo de' teneri fanciulli; i quali al suon di tal voce s'inducono a riposato e placido sonno, scordandosi le lacrime così proprie, ed a noi per presagio dei rimanente della nostra vita in quella età da natura date .
XLVIII.
Or quivi tacendo un poco il Conte, disse il Magnifico Iuliano: Io non son già di parer conforme al signor Gaspar; anzi estimo per le ragioni che voi dite e per molte altre esser la musica non solamente ornamento, ma necessaria al cortegiano. Vorrei ben che dechiaraste in qual modo questa e l'altre qualità che voi gli assignate siano da esser operate, ed a che tempo e con che maniera; perché molte cose che da sé meritano laude, spesso con l'operarle fuor di tempo diventano inettissime e, per contrario, alcune che paion di poco momento, usandole bene, sono pregiate assai .
XLIX.
Allora il Conte, Prima che a questo proposito entriamo, voglio, disse, ragionar d'un'altra cosa, la quale io, perciò che di molta importanza la estimo, penso che dal nostro cortegiano per alcun modo non debba esser lasciata addietro: e questo è il saper disegnare ed aver cognizion dell'arte propria del dipingere. Né vi maravigliate s'io desidero questa parte, la qual oggidí forsi par mecanica e poco conveniente a gentilomo; ché ricordomi aver letto che gli antichi, massimamente per tutta Grecia, voleano che i fanciulli nobili nelle scole alla pittura dessero opera come a cosa onesta e necessaria, e fu questa ricevuta nel primo grado dell'arti liberali; poi per publico editto vetato che ai servi non s'insegnasse. Presso ai Romani ancor s'ebbe in onor grandissimo; e da questa trasse il cognome la casa nobilissima de' Fabii, ché il primo Fabio fu cognominato Pittore, per esser in effetto eccellentissimo pittore e tanto dedito alla pittura, che avendo dipinto le mura del tempio della Salute, gli inscrisse il nome suo; parendogli che, benché fosse nato in una famiglia cosí chiara ed onorata di tanti tituli di consulati, di triunfi e d'altre dignità e fosse litterato e perito nelle leggi e numerato tra gli oratori, potesse ancor accrescere splendore ed ornamento alla fama sua lassando memoria d'essere stato pittore. Non mancarono ancor molti altri di chiare famiglie celebrati in quest'arte; della qual, oltre che in sé nobilissima e degna sia, si traggono molte utilità, e massimamente nella guerra, per disegnar paesi, siti, fiumi, ponti, ròcche, fortezze e tai cose; le quali, se ben nella memoria si servassero, il che però è assai difficile, altrui mostrar non si possono. E veramente chi non estima questa arte parmi che molto sia dalla ragione alieno; ché la machina del mondo, che noi veggiamo coll'amplo cielo di chiare stelle tanto splendido e nel mezzo la terra dai mari cinta, di monti, valli e fiumi variata e di sí diversi alberi e vaghi fiori e d'erbe ornata, dir si po che una nobile e gran pittura sia, per man della natura e di Dio composta; la qual chi po imitare parmi esser di gran laude degno; né a questo pervenir si po senza la cognizion di molte cose, come ben sa chi lo prova. Però gli antichi e l'arte e gli artifici aveano in grandissimo pregio, onde pervenne in colmo di summa eccellenzia; e di ciò assai certo argomento pigliar si po dalle statue antiche di marmo e di bronzo, che ancor si veggono. E benché diversa sia la pittura dalla statuaria, pur l'una e l'altra da un medesimo fonte, che è il bon disegno, nasce. Però, come le statue sono divine, cosí ancor creder si po che le pitture fossero; e tanto piú, quanto che di maggior artificio capaci sono .
L.
Allor la signora Emilia, rivolta a Ioan Cristoforo Romano che ivi con gli altri sedeva, Che vi par, disse, di questa sentenzia? confermarete voi, che la pittura sia capace di maggior artificio che la statuaria? Rispose Ioan Cristoforo: Io, Signora, estimo che la statuaria sia di piú fatica, di piú arte e di piú dignità, che non è la pittura, Suggiunse il Conte: Per esser le statue piú durabili, si poria forse dir che fossero di piú dignità; perché, essendo fatte per memoria, satisfanno piú a quello effetto per che son fatte, che la pittura. Ma oltre alla memoria, sono ancor e la pittura e la statuaria fatte per ornare ed in questo la pittura è molto superiore; la quale se non è tanto diuturna, per dir cosí, come la statuaria, è però molto longeva, e tanto che dura è assai piú vaga . Rispose allor Ioan Cristoforo: Credo io veramente che voi parliate contra quello che avete nell'animo e ciò tutto fate in grazia del vostro Rafaello, e forse ancor parvi che la eccellenzia che voi conoscete in lui della pittura sia tanto suprema, che la marmoraria non possa giungere a quel grado: ma considerate che questa è laude d'un artifice, e non dell'arte . Poi suggiunse: Ed a me par bene, che l'una e l'altra sia una artificiosa imitazion di natura; ma non so già come possiate dir che più non sia imitato il vero, e quello proprio che fa la natura, in una figura di marmo o di bronzo, nella qual sono le membra tutte tonde, formate e misurate come la natura le fa, che in una tavola, nella qual non si vede altro che la superficie e que' colori che ingannano gli occhi; né mi direte già, che piú propinquo al vero non sia l'essere che 'l parere. Estimo poi che la marmoraria sia piú difficile, perché se un error vi vien fatto, non si po piú correggere, ché 'l marmo non si ritacca, ma bisogna rifar un'altra figura; il che nella pittura non accade, ché mille volte si po mutar, giongervi e sminuirvi, migliorandola sempre .
LI.
Disse il Conte ridendo: Io non parlo in grazia de Rafaello; né mi dovete già riputar per tanto ignorante, che non conosca la eccellenzia di Michel Angelo e vostra e degli altri nella marmoraria; ma io parlo dell'arte, e non degli artifici. E voi ben dite vero che e l'una e l'altra è imitazion della natura; ma non è gia cosí, che la pittura appaia e la statuaria sia. Ché, avvenga che le statue siano tutte tonde come il vivo e la pittura solamente si veda nella superficie, alle statue mancano molte cose che non mancano alle pitture, e massimamente i lumi e l'ombre; perché altro lume fa la carne ed altro fa il marmo; e questo naturalmente imita il pittore col chiaro e scuro, piú e meno, secondo il bisogno; il che non po far il marmorario. E se ben il pittore non fa la figura tonda, fa que' musculi e membri tondeggiati di sorte che vanno a ritrovar quelle parti che non si veggono con tal maniera, che benissimo comprender si po che 'l pittor ancor quelle conosce ed intende. Ed a questo bisogna un altro artificio maggiore in far quelle membra che scortano e diminuiscono a proporzion della vista con ragion di prospettiva; la qual per forza di linee misurate, di colori, di lumi e d'ombre vi mostra ancora in una superficie di muro dritto il piano e 'l lontano, piú e meno come gli piace. Parvi poi che di poco momento sia la imitazione dei colori naturali in contrafar le carni, i panni e tutte l'altre cose colorate? Questo far non po già il marmorario, né meno esprimer la graziosa vista degli occhi neri o azzurri, col splendor di que' raggi amorosi. Non po mostrare il color de' capegli flavi, non lo splendor dell'arme, non una oscura notte, non una tempesta di mare, non que' lampi e saette, non lo incendio d'una città, non il nascere dell'aurora di color di rose, con quei raggi d'oro e di porpora; non po in somma mostrare cielo, mare, terra, monti, selve, prati, giardini, fiumi, città né case; il che tutto fa il pittore.
LII.
Per questo parmi la pittura piú nobile e piú capace d'artificio che la marmoraria, e penso che presso agli antichi fosse di suprema eccellenzia come l'altre cose; il che si conosce ancor per alcune piccole reliquie che restano, massimamente nelle grotte di Roma, ma molto piú chiaramente si po comprendere per i scritti antichi, nei quali sono tante onorate e frequenti menzioni e delle opre e dei maestri; e per quelli intendesi quanto fossero appresso i gran signori e le republiche sempre onorati. Però si legge che Alessandro amò sommamente Apelle Efesio e tanto, che avendogli fatto ritrar nuda una sua carissima donna ed intendendo il bon pittore per la maravigliosa bellezza di quella restarne ardentissimamente inamorato, senza rispetto alcuno gliela donò: liberalità veramente degna d'Alessandro, non solamente donar tesori e stati, ma i suoi proprii affetti e desidèri; e segno di grandissimo amor verso Apelle, non avendo avuto rispetto, per compiacer a lui, di dispiacere a quella donna che sommamente amava; la qual creder si po che molto si dolesse di cambiar un tanto re con un pittore. Narransi ancor molti altri segni di benivolenzia d'Alessandro verso d'Apelle; ma assai chiaramente dimostrò quanto lo estimasse, avendo per publico commandamento ordinato che niun altro pittore osasse far la imagine sua. Qui potrei dirvi le contenzioni di molti nobili pittori con tanta laude e maraviglia quasi del mondo; potrei dirvi con quanta solennità gli imperadori antichi ornavano di pitture i lor triunfi e ne' lochi publici le dedicavano, e come care le comparavano; e che siansi già trovati alcuni pittori che donavano l'opere sue, parendo loro che non bastasse oro né argento per pagarle; e come tanto pregiata fusse una tavola di Protogene che, essendo Demetrio a campo a Rodi, e possendo intrar dentro appiccandole il foco dalla banda dove sapeva che era quella tavola, per non abbrusciarla restò di darle la battaglia e cosí non prese la terra; e Metrodoro, filosofo e pittore eccellentissimo, esser stato da' Ateniesi mandato a Lucio Paulo per ammaestrargli i figlioli ed ornargli il triunfo che a far avea. E molti nobili scrittori hanno ancora di questa arte scritto; il che è assai gran segno per dimostrare in quanta estimazione ella fosse; ma non voglio che in questo ragionamento piú ci estendiamo. Però basti solamente dire che al nostro cortegiano conviensi ancor della pittura aver notizia, essendo onesta ed utile ed apprezzata in que' tempi che gli omini erano di molto maggior valore, che ora non sono; e quando mai altra utilità o piacer non se ne traesse, oltre che giovi a saper giudicar la eccellenzia delle statue antiche e moderne, di vasi, d'edifici, di medaglie, di camei, d'entagli e tai cose, fa conoscere ancor la bellezza dei corpi vivi, non solamente nella delicatura de' volti, ma nella proporzion di tutto il resto, cosí degli omini come di ogni altro animale. Vedete adunque come lo avere cognizione della pittura sia causa di grandissimo piacere. E questo pensino quei che tanto godono contemplando le bellezze d'una donna che par lor essere in paradiso, e pur non sanno dipingere; il che se sapessero, arian molto maggior contento, perché piú perfettamente conosceriano quella bellezza, che nel cor genera lor tanta satisfazione .
LIII.
Rise quivi messer Cesare Gonzaga e disse: Io già non son pittore; pur certo so aver molto maggior piacere di vedere alcuna donna, che non aría, se or tornasse vivo, quello eccellentissimo Apelle che voi poco fa avete nominato .
Rispose il Conte: Questo piacer vostro non deriva interamente da quella bellezza, ma dalla affezion che voi forse a quella donna portate; e, se volete dir il vero, la prima volta che voi a quella donna miraste, non sentiste la millesima parte del piacere che poi fatto avete, benché le bellezze fossero quelle medesime; però potete comprender quanto piú parte nel piacer vostro abbia l'affezion che la bellezza. Non nego questo, disse messer Cesare; ma secondo che 'l piacer nasce dalla affezione, cosí l'affezion nasce dalla bellezza; però dir si po che la bellezza sia pur causa del piacere . Rispose il Conte: Molte altre cause ancor spesso infiammano gli animi nostri, oltre alla bellezza: come i costumi, il sapere, il parlare, i gesti e mill'altre cose, le quali però a qualche modo forse esse ancor si potriano chiamar bellezze; ma sopra tutto il sentirsi essere amato; di modo che si po ancor senza quella bellezza, di che voi ragionate, amare ardentissimamente; ma quegli amori che solamente nascono dalla bellezza che superficialmente vedemo nei corpi, senza dubbio daranno molto maggior piacere a chi piú la conoscerà, che a chi meno. Però, tornando al nostro proposito, penso che molto piú godesse Apelle contemplando la bellezza di Campaspe, che non faceva Alessandro; perché facilmente si po creder che l'amor dell'uno e dell'altro derivasse solamente da quella bellezza; e che deliberasse forse ancor Alessandro per questo rispetto donarla a chi gli parve che piú perfettamente conoscer la potesse. Non avete voi letto che quelle cinque fanciulle da Crotone, le quali tra l'altre di quel populo elesse Zeusi pittore per far de tutte cinque una sola figura eccellentissima di bellezza, furono celebrate da molti poeti, come quelle che per belle erano state approvate da colui, che perfettissimo giudicio di bellezza aver dovea?
LIV.
Quivi, mostrando messer Cesare non restar satisfatto, né voler consentir per modo alcuno che altri che esso medesimo potesse gustare quel piacere ch'egli sentiva di contemplar la bellezza d'una donna, ricominciò a dire; ma in quello s'udí un gran calpestare di piedi con strepito di parlar alto; e cosí rivolgendosi ognuno, si vide alla porta della stanza comparire un splendor di torchi e súbito drieto giunse con molta e nobil compagnia il signor Prefetto, il qual ritornava, avendo accompagnato il Papa una parte del camino; e già allo entrar del palazzo, dimandando ciò che facesse la signora Duchessa, aveva inteso di che sorte era il gioco di quella sera e 'l carico imposto al conte Ludovico di parlar della cortegiania; però quanto piú gli era possibile studiava il passo, per giungere a tempo d'udir qualche cosa.
Cosí, súbito fatto reverenzia alla signora Duchessa e fatto seder gli altri, che tutti in piedi per la venuta sua s'erano levati, si pose ancor esso a seder nel cerchio con alcuni de' suoi gentilomini; tra i quali erano il marchese Febus e Ghirardino fratelli da Ceva, messer Ettor Romano, Vincenzio Calmeta, Orazio Florido e molti altri; e stando ognun senza parlare, il signor Prefetto disse: Signori, troppo nociva sarebbe stata la venuta mia qui, s'io avessi impedito cosí bei ragionamenti, come estimo che sian quelli che ora tra voi passavano; però non mi fate questa ingiuria di privar voi stessi e me di tal piacere . Rispose allor il conte Ludovico: Anzi, signor mio, penso che 'l tacer a tutti debba esser molto piú grato che 'l parlare; perché, essendo tal fatica a me più che agli altri questa sera toccata, oramai m'ha stanco di dire, e credo tutti gli altri d'ascoltare, per non esser stato il ragionamento mio degno di questa compagnia, né bastante alla grandezza della materia di che io aveva carico; nella quale avendo io poco satisfatto a me stesso, penso molto meno aver satisfatto ad altrui. Però a voi, Signore, è stato ventura il giungere al fine; e bon sarà mo dar la impresa di quello che resta ad un altro che succeda nel mio loco perciò che, qualunque egli si sia, so che si porterà molto meglio ch'io non farei se pur seguitar volessi, essendo oramai stanco come sono .
LV.
Non supportarò io, respose il Magnifico Iuliano, per modo alcuno esser defraudato della promessa che fatta m'avete; e certo so che al signor Prefetto ancor non despiacerà lo intender questa parte. E qual promessa? disse il Conte. Rispose il Magnifico: Di dechiararci in qual modo abbia il cortegiano da usare quelle bone condizioni, che voi avete detto che convenienti gli sono . Era il signor Prefetto, benché di età puerile, saputo e discreto piú che non parea che s'appartenesse agli anni teneri, ed in ogni suo movimento mostrava con la grandezza dell'animo una certa vivacità dello ingegno, vero pronostico dello eccellente grado di virtú dove pervenir doveva. Onde súbito disse: Se tutto questo a dir resta, parmi esser assai a tempo venuto; perché intendendo in che modo dee il cortegiano usar quelle bone condizioni, intenderò ancora quali esse siano e cosí verrò a saper tutto quello che infin qui è stato detto. Però non rifutate, Conte, di pagar questo debito d'una parte del quale già sète uscito. Non arei da pagar tanto debito, rispose il Conte, se le fatiche fossero piú egualmente divise, ma lo errore è stato dar autorità di commandar ad una signora troppo parziale; e cosí, ridendo, si volse alla signora Emilia, la qual súbito disse: Della mia parzialità non dovreste voi dolervi; pur, poiché senza ragion lo fate, daremo una parte di questo onor, che voi chiamate fatica, ad un altro; e rivoltasi a messer Federico Fregoso, Voi, disse, proponeste il gioco del cortegiano; però è ancor ragionevole che a voi tocchi il dirne una parte: e questo sarà il satisfare alla domanda del signor Magnifico, dechiarando in qual modo e maniera e tempo il cortegiano debba usar le sue bone condizioni, ed operar quelle cose che 'l Conte ha detto che se gli convien sapere . Allora messer Federico, Signora, disse, volendo voi separare il modo e 'l tempo e la maniera dalle bone condizioni e ben operare del cortegiano, volete separar quello che separar non si po, perché queste cose son quelle che fanno le condizioni bone e l'operar bono. Però avendo il Conte detto tanto e cosí bene ed ancor parlato qualche cosa di queste circonstanzie, e preparatosi nell'animo il resto che egli avea a dire, era pur ragionevole che seguitasse insin al fine . Rispose la signora Emilia: Fate voi cunto d'essere il Conte e dite quello che pensate che esso direbbe; e cosí sarà satisfatto al tutto .
LVI.
Disse allor il Calmeta: Signori, poiché l'ora è tarda, acciò che messer Federico non abbia escusazione alcuna di non dir ciò che sa, credo che sia bono differire il resto del ragionamento a domani; e questo poco tempo che ci avanza si dispensi in qualche altro piacer senza ambizione . Cosí confermando ognuno, impose la signora Duchessa a madonna Margherita e madonna Costanza Fregosa che danzassero. Onde súbito Barletta, musico piacevolissimo e danzator eccellente, che sempre tutta la corte teneva in festa, cominciò a sonare suoi instrumenti; ed esse, presesi per mano, ed avendo prima danzato una bassa, ballarono una roegarze con estrema grazia e singular piacer di chi le vide; poi, perché già era passata gran pezza della notte, la signora Duchessa si levò in piedi; e cosí ognuno reverentemente presa licenzia, se ne andarono a dormire.
Fine primo libro.
Parte seconda.
IL SECONDO LIBRO DEL CORTEGIANO.
DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO.
I.
Non senza maraviglia ho piú volte considerato onde nasca un errore, il quale, perciò che universalmente ne' vecchi si vede, creder si po che ad essi sia proprio e naturale; e questo è che quasi tutti laudano i tempi passati e biasmano i presenti, vituperando le azioni e i modi nostri e tutto quello che essi nella lor gioventú non facevano; affermando ancor ogni bon costume e bona maniera di vivere, ogni virtú, in somma ogni cosa, andar sempre di mal in peggio. E veramente par cosa molto aliena dalla ragione e degna di maraviglia che la età matura, la qual con la lunga esperienzia suol far nel resto il giudicio degli omini piú perfetto, in questo lo corrompa tanto, che non si avveggano che, se 'l mondo sempre andasse peggiorando e che i padri fossero generalmente migliori che i figlioli, molto prima che ora saremmo giunti a quest'ultimo grado di male, che peggiorar non po. E pur vedemo che non solamente ai dí nostri, ma ancor nei tempi passati, fu sempre questo vicio peculiar di quella età; il che per le scritture de molti autori antichissimi chiaro si comprende e massimamente dei comici, i quali piú che gli altri esprimeno la imagine della vita umana. La causa adunque di questa falsa opinione nei vecchi estimo io per me ch'ella sia perché gli anni fuggendo se ne portan seco molte commodità, e tra l'altre levano dal sangue gran parte degli spiriti vitali; onde la complession si muta e divengono debili gli organi, per i quali l'anima opera le sue virtú. Però dei cori nostri in quel tempo, come allo autunno le foglie degli alberi, caggiono i suavi fiori di contento e nel loco dei sereni e chiari pensieri entra la nubilosa e turbida tristizia, di mille calamità compagnata, di modo che non solamente il corpo, ma l'animo ancora è infermo; né dei passati piaceri riserva altro che una tenace memoria e la imagine di quel caro tempo della tenera età, nella quale quando ci ritrovamo, ci pare che sempre il cielo e la terra ed ogni cosa faccia festa e rida intorno agli occhi nostri, e nel pensiero come in un delizioso e vago giardino fiorisca la dolce primavera d'allegrezza. Onde forse saria utile, quando già nella fredda stagione comincia il sole della nostra vita, spogliandoci de quei piaceri, andarsene verso l'occaso, perdere insieme con essi ancor la loro memoria e trovare, come disse Temistocle, un'arte che a scordar insegnasse; perché tanto sono fallaci i sensi del corpo nostro, che spesso ingannano ancora il giudicio della mente. Però parmi che i vecchi siano alla condizion di quelli, che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta, e pur è il contrario; ché il porto, e medesimamente il tempo ed i piaceri, restano nel suo stato, e noi con la nave della mortalità fuggendo n'andiamo l'un dopo l'altro per quel procelloso mare che ogni cosa assorbe e devora, né mai piú ripigliar terra ci è concesso, anzi, sempre da contrari venti combattuti, al fine in qualche scoglio la nave rompemo. Per esser adunque l'animo senile subietto disproporzionato a molti piaceri, gustar non gli po; e come ai febrecitanti, quando dai vapori corrotti hanno il palato guasto, paiono tutti i vini amarissimi, benché preciosi e delicati siano, cosí ai vecchi per la loro indisposizione, alla qual però non manca il desiderio, paiono i piaceri insipidi e freddi e molto differenti da quelli che già provati aver si ricordano, benché i piaceri in sé siano li medesimi; però sentendosene privi, si dolgono e biasmano il tempo presente come malo, non discernendo che quella mutazione da sé e non dal tempo procede; e, per contrario, recandosi a memoria i passati piaceri, si arrecano ancor il tempo nel quale avuti gli hanno, e però lo laudano come bono perché pare che seco porti un odore di quello che in esso sentiamo quando era presente; perché in effetto gli animi nostri hanno in odio tutte le cose che state sono compagne de' nostri dispiaceri ed amano quelle che state sono compagne dei piaceri. Onde accade che ad uno amante è carissimo talor vedere una finestra, benché chiusa, perché alcuna volta quivi arà avuto grazia di contemplare la sua donna; medesimamente vedere uno anello, una lettera, un giardino o altro loco o qualsivoglia cosa, che gli paia esser stata consapevol testimonio de' suoi piaceri; e per lo contrario, spesso una camera ornatissima e bella sarà noiosa a chi dentro vi sia stato prigione o patito vi abbia qualche altro dispiacere. Ed ho già io conosciuto alcuni, che mai non beveriano in un vaso simile a quello, nel quale già avessero, essendo infermi, preso bevanda medicinale; perché, cosí come quella finestra, o l'anello o la lettera, all'uno rappresenta la dolce memoria che tanto gli diletta, per parergli che quella già fosse una parte de' suoi piaceri, cosí all'altro la camera o 'l vaso par che insieme con la memoria rapporti la infirmità o la prigionia. Questa medesima cagion credo che mova i vecchi a laudare il passato tempo e biasmar il presente.
II.
Però come del resto, cosí parlano ancor delle corti, affermando quelle di che essi hanno memoria esser state molto piú eccellenti e piene di omini singulari, che non son quelle che oggidí veggiamo; e súbito che occorrono tai ragionamenti, cominciano ad estollere con infinite laudi i cortegiani del duca Filippo, o vero del duca Borso; e narrano i detti di Nicolò Piccinino; e ricordano che in quei tempi non si saria trovato, se non rarissime volte, che si fosse fatto un omicidio; e che non erano combattimenti, non insidie, non inganni, ma una certa bontà fidele ed amorevole tra tutti, una sicurtà leale; e che nelle corti allor regnavano tanti boni costumi, tanta onestà, che i cortegiani tutti erano come religiosi; e guai a quello che avesse detto una mala parola all'altro o fatto pur un segno men che onesto verso una donna; e per lo contrario dicono in questi tempi esser tutto l'opposito; e che non solamente tra i cortegiani è perduto quell'amor fraterno e quel viver costumato, ma che nelle corti non regnano altro che invidie e malivolenzie, mali costumi e dissolutissima vita in ogni sorte di vicii; le donne lascive senza vergogna, gli omini effemminati.
Dannano ancora i vestimenti, come disonesti e troppo molli. In somma riprendono infinite cose, tra le quali molte veramente meritano riprensione, perché non si po dir che tra noi non siano molti mali omini e scelerati, e che questa età nostra non sia assai più copiosa di vicii che quella che essi laudano. Parmi ben che mal discernano la causa di questa differenzia e che siano sciocchi, perché vorriano che al mondo fossero tutti i beni senza male alcuno; il che è impossibile, perché, essendo il male contrario al bene e 'l bene al male, è quasi necessario che per la opposizione e per un certo contrapeso l'un sostenga e fortifichi l'altro, e mancando o crescendo l'uno, cosí manchi o cresca l'altro perché niuno contrario è senza l'altro suo contrario. Chi non sa che al mondo non saria la giustizia, se non fossero le ingiurie? la magnanimità, se non fossero li pusilanimi? la continenzia, se non fosse la incontinenzia? la sanità, se non fosse la infirmità? la verità, se non fosse la bugia? la felicità, se non fossero le disgrazie? Però ben dice Socrate appresso Platone maravigliarsi che Esopo non abbia fatto uno apologo, nel quale finga, Dio, poiché non avea mai potuto unire il piacere e 'l dispiacere insieme, avergli attaccati con la estremità, di modo che 'l principio dell'uno sia il fin dell'altro; perché vedemo niuno piacer poterci mai esser grato, se 'l dispiacere non gli precede. Chi po aver caro il riposo, se prima non ha sentito l'affanno della stracchezza? chi gusta il mangiare, il bere e 'l dormire, se prima non ha patito fame, sete e sonno? Credo io, adunque, che le passioni e le infirmità siano date dalla natura agli omini non principalmente per fargli soggetti ad esse, perché non par conveniente che quella, che è madre d'ogni bene, dovesse di suo proprio consiglio determinato darci tanti mali; ma facendo la natura la sanità, il piacere e gli altri beni, conseguentemente dietro a questi furono congiunte le infirmità, i dispiaceri e gli altri mali. Però, essendo le virtú state al mondo concesse per grazia e dono della natura, súbito i vicii, per quella concatenata contrarietà, necessariamente le furono compagni; di modo che sempre, crescendo o mancando l'uno, forza è che cosí l'altro cresca o manchi.
III.
Però quando i nostri vecchi laudano le corti passate, perché non aveano gli omini cosí viciosi come alcuni che hanno le nostre, non conoscono che quelle ancor non gli aveano cosí virtuosi come alcuni che hanno le nostre; il che non è maraviglia, perché niun male è tanto malo, quanto quello che nasce dal seme corrotto del bene; e però producendo adesso la natura molto miglior ingegni che non facea allora, sí come quelli che si voltano al bene fanno molto meglio che non facean quelli suoi, cosí ancor quelli che si voltano al male fanno molto peggio. Non è adunque da dire che quelli che restavano di far male per non saperlo fare, meritassero in quel caso laude alcuna; perché avvenga che facessero poco male, faceano però il peggio che sapeano. E che gli ingegni di que' tempi fossero generalmente molto inferiori a que' che son ora, assai si po conoscere da tutto quello che d'essi si vede, cosí nelle lettere, come nelle pitture, statue, edifici ed ogni altra cosa. Biasimano ancor questi vecchi in noi molte cose che in sé non sono né bone né male, solamente perché essi non le faceano; e dicono non convenirsi ai giovani passeggiar per le città a cavallo, massimamente nelle mule; portar fodre di pelle, né robbe lunghe nel verno; portar berretta, finché almeno non sia l'omo giunto a dieceotto anni ed altre tai cose: di che veramente s'ingannano; perché questi costumi, oltra che sian commodi ed utili, sono dalla consuetudine introdutti ed universalmente piacciono, come allor piacea l'andar in giornea, con le calze aperte e scarpette pulite e, per esser galante, portar tutto dí un sparvieri in pugno senza proposito, e ballar senza toccar la man della donna, ed usar molti altri modi, i quali, come or sariano goffissimi, allor erano prezzati assai. Però sia licito ancor a noi seguitar la consuetudine de' nostri tempi, senza esser calunniati da questi vecchi, i quali spesso, volendosi laudare, dicono: «Io aveva vent'anni, che ancor dormiva con mia madre e mie sorelle, né seppi ivi a gran tempo che cosa fossero donne; ed ora i fanciulli non hanno a pena asciutto il capo, che sanno piú malizie che in que' tempi non sapeano gli omini fatti», né si avveggono che, dicendo cosí, confirmano i nostri fanciulli aver più ingegno che non aveano i loro vecchi.
Cessino adunque di biasmar i tempi nostri, come pieni de vicii perché, levando quelli, levariano ancora le virtú; e ricordinsi che tra i boni antichi, nel tempo che fiorivano al mondo quegli animi gloriosi e veramente divini in ogni virtú e gli ingegni piú che umani, trovavansi ancor molti sceleratissimi; i quali, se vivessero, tanto sariano tra i nostri mali eccellenti nel male, quanto que' boni nel bene; e de ciò fanno piena fede tutte le istorie.
IV.
Ma a questi vecchi penso che omai a bastanza sia risposto. Però lasciaremo questo discorso, forse ormai troppo diffuso ma non in tutto for di proposito; e bastandoci aver dimostrato le corti de' nostri tempi non esser di minor laude degne che quelle che tanto laudano i vecchi, attenderemo ai ragionamenti avuti sopra il cortegiano, per i quali assai facilmente comprender si po in che grado tra l'altre corti fosse quella d'Urbino, e quale era quel Principe e quella Signora a cui servivano cosí nobili spiriti, e come fortunati si potean dir tutti quelli, che in tal commerzio viveano.
V.
Venuto adunque il seguente giorno, tra i cavalieri e le donne della corte furono molti e diversi ragionamenti sopra la disputazion della precedente sera; il che in gran parte nasceva perché il signor Prefetto, avido di sapere ciò che detto s'era, quasi ad ognun ne dimandava e, come suol sempre intervenire, variamente gli era risposto; però che alcuni laudavano una cosa, alcuni un'altra, ed ancor tra molti era discordia della sentenzia propria del Conte, che ad ognuno non erano restate nella memoria cosí compiutamente le cose dette. Però di questo quasi tutto 'l giorno si parlò; e come prima incominciò a farsi notte, volse il signor Prefetto che si mangiasse e tutti i gentilomini condusse seco a cena; e súbito fornito di mangiare, n'andò alla stanza della signora Duchessa; la quale vedendo tanta compagnia, e piú per tempo che consueto non era disse: - Gran peso parmi, messer Federico, che sia quello che posto è sopra le spalle vostre, e grande aspettazione quella a cui corrisponder dovete -. Quivi non aspettando che messer Federico rispondesse: - E che gran peso è però questo? - disse l'Unico Aretino: - Chi è tanto sciocco, che quando sa fare una cosa non la faccia a tempo conveniente? - Cosí di questo parlandosi, ognuno si pose a sedere nel loco e modo usato, con attentissima aspettazion del proposto ragionamento.
VI.
Allora messer Federico, rivolto all'Unico, - A voi adunque non par, - disse, - signor Unico, che faticosa parte e gran carico mi sia imposto questa sera, avendo a dimostrare in qual modo e maniera e tempo debba il cortegiano usar le sue bone condicioni, ed operar quelle cose che già s'è detto convenirsegli?
- A me non par gran cosa, - rispose l'Unico; - e credo che basti in tutto questo dir che 'l cortegiano sia di bon giudicio, come iersera ben disse il Conte esser necessario; ed essendo cosí, penso che senza altri precetti debba poter usar quello che egli sa a tempo e con bona maniera; il che volere piú minutamente ridurre in regola, saria troppo difficile e forse superfluo; perché non so qual sia tanto inetto, che volesse venire a maneggiar l'arme quando gli altri fossero nella musica; o vero andasse per le strade ballando la moresca, avvenga che ottimamente far lo sapesse; o vero andando a confortar una madre, a cui fosse morto il figliolo, cominciasse a dir piacevolezze e far l'arguto. Certo questo a niun gentilomo, credo, interverria, che non fosse in tutto pazzo. - A me par, signor Unico, - disse quivi messer Federico, - che voi andiate troppo in su le estremità perché intervien qualche volta esser inetto di modo che non cosí facilmente si conosce, e gli errori non son tutti pari; e potrà occorrer che l'omo si astenerà da una sciocchezza publica e troppo chiara, come saria quel che voi dite d'andar ballando la moresca in piazza, e non saprà poi astenersi di laudare se stesso fuor di proposito, d'usar una prosunzion fastidiosa, di dir talor una parola pensando di far ridere, la qual, per esser detta fuor di tempo, riuscirà fredda e senza grazia alcuna. E spesso questi errori son coperti d'un certo velo, che scorger non gli lascia da chi gli fa, se con diligenzia non vi si mira; e benché per molte cause la vista nostra poco discerna, pur sopra tutto per l'ambizione divien tenebrosa; ché ognun volentier si mostra in quello che si persuade di sapere, o vera o falsa che sia quella persuasione. Però il governarsi bene in questo parmi che consista in una certa prudenzia e giudicio di elezione, e conoscere il piú e 'l meno che nelle cose si accresce e scema per operarle oportunamente o fuor di stagione. E benché il cortegian sia di cosí bon giudicio che possa discernere queste differenzie, non è però che piú facile non gli sia conseguir quello che cerca essendogli aperto il pensiero con qualche precetto e mostratogli le vie e quasi i lochi dove fondar si debba, che se solamente attendesse al generale.
VII.
Avendo adunque il Conte iersera con tanta copia e bel modo ragionato della cortegiania, in me veramente ha mosso non poco timor e dubbio di non poter cosí ben satisfare a questa nobil audienza in quello che a me tocca a dire, come esso ha fatto in quello che a lui toccava. Pur, per farmi participe piú ch'io posso della sua laude ed esser sicuro di non errare almen in questa parte, non gli contradirò in cosa alcuna. Onde, consentendo con le opinioni sue, ed oltre al resto circa la nobilità del cortegiano e lo ingegno e la disposizion del corpo e grazia dell'aspetto, dico che per acquistar laude meritamente e bona estimazione appresso ognuno, e grazia da quei signori ai quali serve, parmi necessario che e' sappia componere tutta la vita sua e valersi delle sue bone qualità universalmente nella conversazion de tutti gli omini senza acquistarne invidia; il che quanto in sé difficil sia, considerar si po dalla rarità di quelli che a tal termine giunger si veggono; perché in vero tutti da natura siamo pronti piú a biasmare gli errori, che a laudar le cose ben fatte, e par che per una certa innata malignità molti, ancor che chiaramente conoscano il bene, si sforzano con ogni studio ed industria di trovarci dentro o errore o almen similitudine d'errore. Però è necessario che 'l nostro cortegiano in ogni sua operazion sia cauto, e ciò che dice o fa sempre accompagni con prudenzia; e non solamente ponga cura d'aver in sé parti e condizioni eccellenti, ma il tenor della vita sua ordini con tal disposizione, che 'l tutto corrisponda a queste parti, e si vegga il medesimo esser sempre ed in ogni cosa tal che non discordi da se stesso, ma faccia un corpo solo di tutte queste bone condizioni; di sorte che ogni suo atto risulti e sia composto di tutte le virtú, come dicono i Stoici esser officio di chi è savio; benché però in ogni operazion sempre una virtú è la principale; ma tutte sono talmente tra sé concatenate, che vanno ad un fine e ad ogni effetto tutte possono concorrere e servire. Però bisogna che sappia valersene, e per lo paragone e quasi contrarietà dell'una talor far che l'altra sia piú chiaramente conosciuta, come i boni pittori, i quali con l'ombra fanno apparere e mostrano i lumi de' rilevi, e cosí col lume profundano l'ombre dei piani e compagnano i colori diversi insieme di modo, che per quella diversità l'uno e l'altro meglio si dimostra, e 'l posar delle figure contrario l'una all'altra le aiuta a far quell'officio che è intenzion del pittore. Onde la mansuetudine è molto maravigliosa in un gentilomo il qual sia valente e sforzato nell'arme; e come quella fierezza par maggiore accompagnata dalla modestia, cosí la modestia accresce e piú compar per la fierezza. Però il parlar poco, il far assai e 'l non laudar se stesso delle opere laudevoli, dissimulandole di bon modo, accresce l'una e l'altra virtú in persona che discretamente sappia usare questa maniera; e cosí interviene di tutte l'altre bone qualità. Voglio adunque che 'l nostro cortegiano in ciò che egli faccia o dica usi alcune regole universali, le quali io estimo che brevemente contengano tutto quello che a me s'appartien di dire; e per la prima e piú importante fugga, come ben ricordò il Conte iersera, sopra tutto l'affettazione. Appresso consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice e 'l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e cosí con queste avvertenzie s'accommodi discretamente a tutto quello che fare o dir vole -.
VIII.
Poi che cosí ebbe detto messer Federico, parve che si fermasse un poco. Allor súbito, - Queste vostre regule, - disse il signor Morello da Ortona, - a me par che poco insegnino; ed io per me tanto ne so ora, quanto prima che voi ce le mostraste; benché mi ricordi ancor qualche altra volta averle udite da' frati co' quali confessato mi sono, e parmi che le chiamino «le circonstanzie» -. Rise allor messer Federico e disse: - Se ben vi ricorda, volse iersera il Conte che la prima profession del cortegiano fosse quella dell'arme e largamente parlò di che modo far la doveva; però questo non replicaremo piú.
Pur sotto la nostra regula si potrà ancor intendere, che ritrovandosi il cortegiano nella scaramuzza o fatto d'arme o battaglia di terra o in altre cose tali, dee discretamente procurar di appartarsi dalla moltitudine e quelle cose segnalate ed ardite che ha da fare, farle con minor compagnia che po ed al conspetto de tutti i piú nobili ed estimati omini che siano nell'esercito, e massimamente alla presenzia e, se possibil è, inanzi agli occhi proprii del suo re o di quel signore a cui serve; perché in vero è ben conveniente valersi delle cose ben fatte. Ed io estimo che sí come è male cercar gloria falsa e di quello che non si merita, cosí sia ancor male defraudar se stesso del debito onore e non cercarne quella laude, che sola è vero premio delle virtuose fatiche. Ed io ricordomi aver già conosciuti di quelli, che, avvenga che fossero valenti, pur in questa parte erano grossieri; e cosí metteano la vita a pericolo per andar a pigliar una mandra di pecore, come per esser i primi che montassero le mura d'una terra combattuta; il che non farà il nostro cortegiano, se terrà a memoria la causa che lo conduce alla guerra, che dee esser solamente l'onore. E se poi se ritroverà armeggiare nei spettaculi publici, giostrando, torneando, o giocando a canne, o facendo qualsivoglia altro esercizio della persona, ricordandosi il loco ove si trova ed in presenzia di cui, procurerà esser nell'arme non meno attillato e leggiadro che sicuro, e pascer gli occhi dei spettatori di tutte le cose che gli parrà che possano aggiungergli grazia; e porrà cura d'aver cavallo con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appropriati, invenzioni ingeniose, che a sé tirino gli occhi de' circonstanti, come calamita il ferro. Non sarà mai degli ultimi che compariscano a mostrarsi, sapendo che i populi, e massimamente le donne, mirano con molto maggior attenzione i primi che gli ultimi, perché gli occhi e gli animi, che nel principio son avidi di quella novità, notano ogni minuta cosa e di quella fanno impressione; poi per la continuazione non solamente si saziano, ma ancora si stancano. Però fu un nobile istrione antico, il qual per questo rispetto sempre voleva nelle fabule esser il primo che a recitare uscisse.
Cosí ancor, parlando pur d'arme, il nostro cortegiano arà risguardo alla profession di coloro con chi parla, ed a questo accommodarassi, altramente ancor parlandone con omini, altramente con donne; e se vorrà toccar qualche cosa che sia in laude sua propria, lo farà dissimulatamente, come a caso e per transito e con quella discrezione ed avvertenzia, che ieri ci mostrò il conte Ludovico.
IX.
Non vi par ora, signor Morello, che le nostre regule possano insegnar qualche cosa? Non vi par che quello amico nostro, del qual pochi dí sono vi parlai, s'avesse in tutto scordato con chi parlava e perché, quando, per intertenere una gentildonna, la quale per prima mai piú non aveva veduta, nel principio del ragionar le cominciò a dire che avea morti tanti omini e come era fiero e sapea giocar di spada a due mani? né se le levò da canto, che venne a volerle insegnar come s'avessero a riparar alcuni colpi di accia essendo armato, e come disarmato, ed a mostrarle prese di pugnale; di modo che quella meschina stava in su la croce e parvele un'ora mill'anni levarselo da canto, temendo quasi che non ammazzasse lei ancora come quegli altri. In questi errori incorrono coloro che non hanno riguardo alle circonstanzie, che voi dite aver intese dai frati. Dico adunque che degli esercizi del corpo sono alcuni che quasi mai non si fanno se non in publico, come il giostrare, il torneare, il giocare a canne e gli altri tutti che dependono dall'arme.
Avendosi adunque in questi da adoperare il nostro cortegiano, prima ha da procurar d'esser tanto bene ad ordine di cavalli, d'arme e d'abbigliamenti, che nulla gli manchi; e non sentendosi ben assettato del tutto, non vi si metta per modo alcuno; perché, non facendo bene, non si po escusare che questa non sia la profession sua. Appresso dee considerar molto in presenzia di chi si mostra e quali siano i compagni; perché non saria conveniente che un gentilom andasse ad onorare con la persona sua una festa di contado, dove i spettatori e i compagni fossero gente ignobile -.
X.
Disse allor il signor Gasparo Pallavicino: - Nel paese nostro di Lombardia non s'hanno questi rispetti, anzi molti gentilomini giovani trovansi, che le feste ballano tutto 'l dí nel sole coi villani e con essi giocano a lanciar la barra, lottare, correre e saltare; ed io non credo che sia male, perché ivi non si fa paragone della nobilità, ma della forza e destrezza, nelle quai cose spesso gli omini di villa non vaglion meno che i nobili; e par che quella domestichezza abbia in sé una certa liberalità amabile. - Quel ballar nel sole, - rispose messer Federico, a me non piace per modo alcuno, né so che guadagno vi si trovi. Ma chi vol pur lottar, correr e saltar coi villani, dee, al parer mio, farlo in modo di provarsi e, come si suol dir, per gentilezza, non per contender con loro; e dee l'omo esser quasi sicuro di vincere, altramente non vi si metta; perché sta troppo male e troppo è brutta cosa e fuor della dignità vedere un gentilomo vinto da un villano, e massimamente alla lotta; però credo io che sia ben astenersene, almeno in presenzia di molti, perché il guadagno nel vincere è pochissimo e la perdita nell'esser vinto è grandissima. Fassi ancor il gioco della palla quasi sempre in publico; ed è uno di que' spettaculi, a cui la moltitudine apporta assai ornamento.
Voglio adunque che questo e tutti gli altri, dall'armeggiare in fora, faccia il nostro cortegiano come cosa che sua professione non sia e di che mostri non cercar o aspettar laude alcuna, né si conosca che molto studio o tempo vi metta, avvenga che eccellentemente lo faccia; né sia come alcuni che si dilettano di musica e parlando con chi si sia, sempre che si fa qualche pausa nei ragionamenti, cominciano sotto voce a cantare; altri caminando per le strade e per le chiese vanno sempre ballando; altri, incontrandosi in piazza o dove si sia con qualche amico suo, si metton súbito in atto di giocar di spada o di lottare, secondo che piú si dilettano -. Quivi disse messer Cesare Gonzaga: - Meglio fa un cardinale giovane che avemo in Roma, il quale, perché si sente aiutante della persona, conduce tutti quelli che lo vanno a visitare, ancor che mai piú non gli abbia veduti, in un suo giardino ed invitagli con grandissima instanzia a spogliarsi in giuppone e giocar seco a saltare
XI.
Rise messer Federico; poi suggiunse: - Sono alcuni altri esercizi, che far si possono nel publico e nel privato, come è il danzare; ed a questo estimo io che debba aver rispetto il cortegiano; perché danzando in presenzia di molti ed in loco pieno di populo parmi che si gli convenga servare una certa dignità, temperata però con leggiadra ed aerosa dolcezza di movimenti; e benché si senta leggerissimo e che abbia tempo e misura assai, non entri in quelle prestezze de' piedi e duplicati rebattimenti, i quali veggiamo che nel nostro Barletta stanno benissimo e forse in un gentilom sariano poco convenienti; benché in camera privatamente, come or noi ci troviamo, penso che licito gli sia e questo, e ballar moresche e brandi; ma in publico non cosí, fuor che travestito, e benché fosse di modo che ciascun lo conoscesse, non dà noia; anzi per mostrarsi in tai cose nei spettaculi publici, con arme e senza arme, non è miglior via di quella; perché lo esser travestito porta seco una certa libertà e licenzia, la quale tra l'altre cose fa che l'omo po pigliare forma di quello in che si sente valere, ed usar diligenzia ed attillatura circa la principal intenzione della cosa in che mostrar si vole, ed una certa sprezzatura circa quello che non importa, il che accresce molto la grazia: come saria vestirsi un giovane da vecchio, ben però con abito disciolto, per potersi mostrare nella gagliardia; un cavaliero in forma di pastor selvatico o altro tale abito, ma con perfetto cavallo, e leggiadramente acconcio secondo quella intenzione; perché súbito l'animo de' circonstanti corre ad imaginar quello che agli occhi al primo aspetto s'appresenta; e vedendo poi riuscir molto maggior cosa che non prometteva quell'abito, si diletta e piglia piacere.
Però ad un principe in tai giochi e spettaculi, ove intervenga fizione di falsi visaggi, non si converria il voler mantener la persona del principe proprio, perché quel piacere che dalla novità viene ai spettatori mancheria in gran parte, ché ad alcuno non è novo che il principe sia il principe; ed esso, sapendosi che, oltre allo esser principe, vol avere ancor forma di principe, perde la libertà di far tutte quelle cose che sono fuor della dignità di principe; e se in questi giochi fosse contenzione alcuna, massimamente con arme, poria ancor far credere di voler tener la persona di principe per non esser battuto, ma riguardato dagli altri; oltra che, facendo nei giochi quel medesimo che dee far da dovero quando fosse bisogno, levaria l'autorità al vero e pareria quasi che ancor quello fosse gioco; ma in tal caso, spogliandosi il principe la persona di principe e mescolandosi egualmente con i minori di sé, ben però di modo che possa esser conosciuto, col rifutare la grandezza piglia un'altra maggior grandezza, che è il voler avanzar gli altri non d'autorità ma di virtú, e mostrar che 'l valor suo non è accresciuto dallo esser principe.
XII.
Dico adunque che 'l cortegiano dee in questi spettaculi d'arme aver la medesima avvertenzia, secondo il grado suo. Nel volteggiar poi a cavallo, lottar, correre e saltare, piacemi molto fuggir la moltitudine della plebe, o almeno lasciarsi veder rarissime volte; perché non è al mondo cosa tanto eccellente, della quale gli ignoranti non si sazieno e non tengan poco conto, vedendola spesso. E medesimo giudico della musica; però non voglio che 'l nostro cortegiano faccia come molti, che súbito che son giunti ove che sia, e alla presenzia ancor di signori de' quali non abbiano notizia alcuna, senza lasciarsi molto pregare si metteno a far ciò che sanno e spesso ancor quel che non sanno; di modo che par che solamente per quello effetto siano andati a farsi vedere e che quella sia la loro principal professione. Venga adunque il cortegiano a far musica come a cosa per passar tempo e quasi sforzato, e non in presenzia di gente ignobile, né di gran moltitudine; e benché sappia ed intenda ciò che fa, in questo ancor voglio che dissimuli il studio e la fatica che è necessaria in tutte le cose che si hanno a far bene, e mostri estimar poco in se stesso questa condizione, ma, col farla eccellentemente, la faccia estimar assai dagli altri -.
XIII.
Allor il signor Gaspar Pallavicino, - Molte sorti di musica, - disse, - si trovano, cosí di voci vive, come di instrumenti; però a me piacerebbe intendere qual sia la migliore tra tutte ed a che tempo debba il cortegiano operarla. - Bella musica, - rispose messer Federico, - parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto piú il cantare alla viola perché tutta la dolcezza consiste quasi in un solo e con molto maggior attenzion si nota ed intende il bel modo e l'aria non essendo occupate le orecchie in piú che in una sol voce, e meglio ancor vi si discerne ogni piccolo errore; il che non accade cantando in compagnia perché l'uno aiuta l'altro. Ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare; il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran maraviglia. Sono ancor armoniosi tutti gli instrumenti da tasti, perché hanno le consonanzie molto perfette e con facilità vi si possono far molte cose che empiono l'animo di musicale dolcezza. E non meno diletta la musica delle quattro viole da arco, la quale è soavissima ed artificiosa. Dà ornamento e grazia assai la voce umana a tutti questi instrumenti, de' quali voglio che al nostro cortegian basti aver notizia; e quanto piú però in essi sarà eccellente, tanto sarà meglio, senza impacciarsi molto di quelli che Minerva refiutò ed Alcibiade, perché pare che abbiano del schifo. Il tempo poi nel quale usar si possono queste sorti di musica estimo io che sia, sempre che l'omo si trova in una domestica e cara compagnia, quando altre facende non vi sono; ma sopra tutto conviensi in presenzia di donne, perché quegli aspetti indolciscono gli animi di chi ode e piú i fanno penetrabili dalla suavità della musica, e ancor svegliano i spiriti di chi la fa; piacemi ben, come ancor ho detto, che si fugga la moltitudine, e massimamente degli ignobili. Ma il condimento del tutto bisogna che sia la discrezione; perché in effetto saria impossibile imaginar tutti i casi che occorrono; e se il cortegiano sarà giusto giudice di se stesso, s'accommoderà bene ai tempi e conoscerà quando gli animi degli auditori saranno disposti ad udire, e quando no; conoscerà l'età sua; ché in vero non si conviene e dispare assai vedere un omo di qualche grado, vecchio canuto e senza denti, pien di rughe, con una viola in braccio sonando, cantare in mezzo d'una compagnia di donne, avvenga ancor che mediocremente lo facesse, e questo, perché il piú delle volte cantando si dicono parole amorose e ne' vecchi l'amor è cosa ridicula; benché qualche volta paia che egli si diletti, tra gli altri suoi miracoli, d'accendere in dispetto degli anni i cori agghiacciati -.
XIV.
Rispose allora il Magnifico: - Non private, messer Federico, i poveri vecchi di questo piacere; perché io già ho conosciuti omini di tempo, che hanno voci perfettissime e mani dispostissime agli instrumenti; molto piú che alcuni giovani. - Non voglio, - disse messer Federico, - privare i vecchi di questo piacere, ma voglio ben privar voi e queste donne del ridervi di quella inezia; e se vorranno i vecchi cantare alla viola, faccianlo in secreto e solamente per levarsi dell'animo que' travagliosi pensieri e gravi molestie di che la vita nostra è piena, e per gustar quella divinità ch'io credo che nella musica sentivano Pitagora e Socrate. E se bene non la eserciteranno, per aver fattone già nell'animo un certo abito la gustaran molto piú udendola, che chi non ne avesse cognizione; perché, sí come spesso le braccia d'un fabro, debile nel resto, per esser piú esercitate sono piú gagliarde che quelle de un altro omo robusto, ma non assueto a faticar le braccia, cosí le orecchie esercitate nell'armonia molto meglio e piú presto la discerneno e con molto maggior piacere la giudicano, che l'altre, per bone ed acute che siano, non essendo versate nelle varietà delle consonanzie musicali; perché quelle modulazioni non entrano, ma senza lassare gusto di sé via trapassano da canto l'orecchie non assuete d'udirle; avvenga che insino le fiere sentono qualche dilettazion della melodia. Questo è adunque il piacer, che si conviene ai vecchi pigliare della musica. Il medesimo dico del danzare; perché in vero questi esercizi si deono lasciare prima che dalla età siamo sforzati a nostro dispetto lasciargli. - Meglio è adunque, - rispose quivi il signor Morello quasi adirato, - escludere tutti i vecchi e dir che solamente i giovani abbian da esser chiamati cortegiani -. Rise allor messer Federico, e disse: - Vedete voi, signor Morello, che quelli che amano queste cose, se non son giovani, si studiano d'apparere; e però si tingono i capelli e fannosi la barba due volte la settimana; e ciò procede che la natura tacitamente loro dice che tali cose non si convengono se non a' giovani -. Risero tutte le donne, perché ciascuna comprese che quelle parole toccavano al signor Morello; ed esso parve che un poco se ne turbasse.
VX.
- Ma sono ben degli altri intertenimenti con donne, - suggiunse súbito messer Federico, - che si convengono ai vecchi. - E quali? - disse el signor Morello; - dir le favole? - E questo ancor, - rispose messer Federico. - Ma ogni età, come sapete, porta seco i suoi pensieri ed ha qualche peculiar virtú e qualche peculiar vicio; ché i vecchi, come che siano ordinariamente prudenti piú che i giovani, piú continenti e piú sagaci, sono anco poi piú parlatori, avari, difficili, timidi; sempre cridano in casa, asperi ai figlioli, vogliono che ognun faccia a modo loro; e per contrario i giovani, animosi, liberali, sinceri, ma pronti alle risse, volubili, che amano e disamano in un punto, dati a tutti i lor piaceri, nimici a chi lor ricorda il bene. Ma di tutte le età la virile è piú temperata, che già ha lassato le parti male della gioventú ed ancor non è pervenuta a quelle della vecchiezza. Questi adunque, posti quasi nelle estremità, bisogna che con la ragion sappiano correggere i vicii che la natura porge. Però deono i vecchi guardarse dal molto laudar se stessi e dall'altre cose viciose che avemo detto esser loro proprie, e valersi di quella prudenzia e cognizion che per lungo uso avranno acquistata, ed esser quasi oraculi a cui ognun vada per consiglio, ed aver grazia in dir quelle cose che sanno, accommodatamente ai propositi, accompagnando la gravità degli anni con una certa temperata e faceta piacevolezza. In questo modo saranno boni cortegiani ed interterrannosi bene con omini e con donne ed in ogni tempo saranno gratissimi, senza cantare o danzare; e quando occorrerà il bisogno, mostreranno il valor loro nelle cose d'importanzia.
VXI.
Questo medesimo rispetto e giudicio abbian i giovani, non già di tener lo stile dei vecchi, ché quello che all'uno conviene non converrebbe in tutto all'altro, e suolsi dir che ne' giovani troppa saviezza è mal segno, ma di corregger in sé i vicii naturali. Però a me piace molto veder un giovane, e massimamente nell'arme, che abbia un poco del grave e del taciturno; che stia sopra di sé, senza que' modi inquieti che spesso in tal età si veggono; perché par che abbian non so che di piú che gli altri giovani. Oltre a ciò quella maniera cosí riposata ha in sé una certa fierezza riguardevole, perché par mossa non da ira ma da giudicio, e piú presto governata dalla ragione che dallo appetito; e questa quasi sempre in tutti gli omini di gran core si conosce; e medesimamente vedemola negli animali bruti, che hanno sopra gli altri nobilità e fortezza, come nello leone e nella aquila, né ciò è fuor di ragione, perché quel movimento impetuoso e súbito, senza parole o altra dimostrazion di collera, che con tutta la forza unitamente in un tratto, quasi come scoppio di bombarda, erumpe dalla quiete, che è il suo contrario, è molto piú violento e furioso che quello che, crescendo per gradi, si riscalda a poco a poco. Però questi che, quando son per far qualche impresa, parlan tanto e saltano, né possono star fermi, pare che in quelle tali cose si svampino e, come ben dice il nostro messer Pietro Monte, fanno come i fanciulli, che andando di notte per paura cantano, quasi che con quel cantare da se stessi si facciano animo. Cosí adunque come in un giovane la gioventú riposata e matura è molto laudevole, perché par che la leggerezza, che è vizio peculiar di quella età, sia temperata e corretta, cosí in un vecchio è da estimare assai la vecchiezza verde e viva, perché pare che 'l vigor dell'animo sia tanto, che riscaldi e dia forza a quella debile e fredda età e la mantenga in quello stato mediocre, che è la miglior parte della vita nostra.
VXII.
Ma in somma non bastaranno ancor tutte queste condizioni del nostro cortegiano per acquistar quella universal grazia de' signori, cavalieri e donne, se non arà insieme una gentil ed amabile manera nel conversare cottidiano; e di questo credo veramente che sia difficile dar regola alcuna per le infinite e varie cose che occorrono nel conversare, essendo che tra tutti gli omini del mondo non si trovano dui, che siano d'animo totalmente simili. Però chi ha da accommodarsi nel conversare con tanti, bisogna che si guidi col suo giudicio proprio e, conoscendo le differenzie dell'uno e dell'altro, ogni dí muti stile e modo, secondo la natura di quelli con chi a conversar si mette. Né io per me altre regole circa ciò dare gli saprei eccetto le già date, le quali sin da fanciullo, confessandosi, imparò il nostro signor Morello -. Rise quivi la signora Emilia e disse: - Voi fuggite troppo la fatica, messer Federico: ma non vi verrà fatto, ché pur avete da dire fin che l'ora sia d'andare a letto.
- E s'io, Signora, non avessi che dire? - rispose messer Federico. Disse la signora Emilia: - Qui si vederà il vostro ingegno; e se è vero quello ch'io già ho inteso, essersi trovato omo tanto ingenioso ed eloquente, che non gli sia mancato subietto per comporre un libro in laude d'una mosca, altri in laude della febre quartana, un altro in laude del calvizio, non dà il core a voi ancor di saper trovar che dire per una sera sopra la cortegiania? - Ormai, - rispose messer Federico, - tanto ne avemo ragionato, che ne sariano fatti doi libri; ma poiché non mi vale escusazione, dirò pur fin che a voi paia ch'io abbia satisfatto, se non all'obligo, almeno al poter mio.
VXIII.
Io estimo che la conversazione, alla quale dee principalmente attendere il cortegiano con ogni suo studio per farla grata, sia quella che averà col suo principe; e benché questo nome di conversare importi una certa parità, che pare che non possa cader tra 'l signore e 'l servitore, pur noi per ora la chiamaremo cosí. Voglio adunque che 'l cortegiano, oltre lo aver fatto ed ogni di far conoscere ad ognuno sé esser di quel valore che già avemo detto, si volti con tutti i pensieri e forze dell'animo suo ad amare e quasi adorare il principe a chi serve sopra ogni altra cosa; e le voglie sue e costumi e modi tutti indrizzi a compiacerlo -. Quivi non aspettando piú, disse Pietro da Napoli: - Di questi cortegiani oggidí trovarannosi assai, perché mi pare che in poche parole ci abbiate dipinto un nobile adulatore. - Voi vi ingannate assai, - rispose messer Federico; - perché gli adulatori non amano i signori né gli amici, il che io vi dico che voglio che sia principalmente nel nostro cortegiano; e 'l compiacere e secondar le voglie di quello a chi si serve si po far senza adulare, perché io intendo delle voglie che siano ragionevoli ed oneste, o vero di quelle che in sé non sono né bone né male, come saria il giocare, darsi piú ad uno esercizio che ad un altro; ed a questo voglio che il cortegiano si accommodi, se ben da natura sua vi fosse alieno, di modo che, sempre che 'l signore lo vegga, pensi che a parlar gli abbia di cosa che gli sia grata; il che interverrà, se in costui sarà il bon giudicio per conoscere ciò che piace al principe, e lo ingegno e la prudenzia per sapersegli accommodare, e la deliberata voluntà per farsi piacer quello che forse da natura gli despiacesse; ed avendo queste avvertenze, inanzi al principe non starà mai di mala voglia né melanconico, né cosí taciturno, come molti che par che tenghino briga coi patroni, che è cosa veramente odiosa. Non sarà malèdico, e specialmente dei suoi signori; il che spesso interviene, ché pare che nelle corti sia una procella che porti seco questa condizione che sempre quelli che sono piú beneficati dai signori, e da bassissimo loco ridutti in alto stato, sempre si dolgono e dicono mal d'essi; il che è disconveniente, non solamente a questi tali, ma ancor a quelli che fossero mal trattati. Non usarà il nostro cortegiano prosonzione sciocca; non sarà apportator di nove fastidiose; non sarà inavvertito in dir talor parole che offendano in loco di voler compiacere; non sarà ostinato e contenzioso, come alcuni, che par che non godano d'altro che d'essere molesti e fastidiosi a guisa di mosche e fanno profession di contradire dispettosamente ad ognuno senza rispetto; non sarà cianciatore, vano o bugiardo, vantatore né adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando sempre, e massimamente in publico, quella reverenzia e rispetto che si conviene al servitor verso il signor; e non farà come molti i quali, incontrandosi con qualsivoglia gran principe, se pur una sol volta gli hanno parlato, se gli fanno inanti con un certo aspetto ridente e da amico, cosí come se volessero accarezzar un suo equale, o dar favor ad un minore di sé. Rarissime volte o quasi mai non domanderà al signore cosa alcuna per se stesso, acciò che quel signor, avendo rispetto di negarla cosí a lui stesso, talor non la conceda con fastidio, che è molto peggio. Domandando ancor per altri, osserverà discretamente i tempi e domanderà cose oneste e ragionevoli; ed assettarà talmente la petizion sua, levandone quelle parti che esso conoscerà poter dispiacere e facilitando con destrezza le difficultà, che 'l signor la concederà sempre, o se pur la negarà, non crederà aver offeso colui a chi non ha voluto compiacere: perché spesso i signori, poi che hanno negato una grazia a chi con molta importunità la domanda, pensano che colui che l'ha domandata con tanta instanzia la desiderasse molto; onde, non avendo potuto ottenerla, debba voler male a chi gliel'ha negata; e per questa credenza essi cominciano ad odiare quel tale, e mai piú nol possono vedere con bon occhio.
XIX.
Non cercherà d'intromettersi in camera o nei lochi secreti col signore suo non essendo richiesto, se ben sarà di molta autorità; perché spesso i signori, quando stanno privatamente, amano una certa libertà di dire e far ciò che lor piace, e però non vogliono essere né veduti né uditi da persona da cui possano esser giudicati; ed è ben conveniente. Onde quelli che biasimano i signori che tengono in camera persone di non molto valore in altre cose che in sapergli ben servire alla persona, parmi che facciano errore, perché non so per qual causa essi non debbano aver quella libertà per relassare gli animi loro, che noi ancor volemo per relassare i nostri. Ma se 'l cortegiano, consueto di trattar cose importanti, si ritrova poi secretamente in camera, dee vestirsi un'altra persona, e differir le cose severe ad altro loco e tempo ed attendere a ragionamenti piacevoli e grati al signor suo, per non impedirgli quel riposo d'animo. Ma in questo ed in ogni altra cosa sopra tutto abbia cura di non venirgli a fastidio ed aspetti che i favori gli siano offerti, piú presto che uccellargli cosí scopertamente come fan molti, che tanto avidi ne sono, che pare che, non conseguendogli, abbiano da perder la vita; e se per sorte hanno qualche disfavore, o vero veggono altri esser favoriti, restano con tanta angonia, che dissimular per modo alcuno non possono quella invidia; onde fanno ridere di sé ognuno e spesso sono causa che i signori dian favore a chi si sia solamente per far lor dispetto. Se poi ancor si ritrovano in favor che passi la mediocrità, tanto si inebriano in esso, che restano impediti d'allegrezza; né par che sappian ciò che si far delle mani né dei piedi e quasi stanno per chiamar la brigata che venga a vedergli e congratularsi seco, come di cosa che non siano consueti mai piú d'avere. Di questa sorte non voglio che sia il nostro cortegiano. Voglio ben che ami i favori, ma non però gli estimi tanto, che non paia poter anco star senz'essi; e quando gli consegue, non mostri d'esservi dentro novo né forestiero, né maravigliarse che gli siano offerti; né gli rifuti di quel modo che fanno alcuni, che per vera ignoranzia restano d'accettargli e cosí fanno vedere ai circonstanti che se ne conoscono indegni. Dee ben l'omo star sempre un poco piú rimesso che non comporta il grado suo; e non accettar cosí facilmente i favori ed onori che gli sono offerti, e rifutargli modestamente, mostrando estimargli assai, con tal modo però, che dia occasione a chi gli offerisce d'offerirgli con molto maggior instanzia; perché quanto piú resistenzia con tal modo s'usa nello accettargli, tanto piú pare a quel principe che gli concede d'esser estimato e che la grazia che fa tanto sia maggiore, quanto piú colui che la riceve mostra apprezzarla e piú di essa tenersi onorato. E questi sono i veri e sodi favori, e che fanno l'omo esser estimato da chi di fuor li vede; perché, non essendo mendicati, ognun presume che nascano da vera virtú; e tanto piú, quanto sono accompagnati dalla modestia -.
XX.
Disse allor messer Cesare Gonzaga: - Parmi che abbiate rubato questo passo allo Evangelio, dove dice: «Quando sei invitato a nozze, va' ed assèttati nell'infimo loco, acciò che, venendo colui che t'ha invitato, dica: Amico, ascendi piú su; e cosí ti sarà onore alla presenzia dei convitati» -. Rise messer Federico e disse: - Troppo gran sacrilegio sarebbe rubare allo Evangelio; ma voi siete piú dotto nella Sacra Scrittura ch'io non mi pensava; - poi suggiunse: - Vedete come a gran pericolo si mettano talor quelli che temerariamente inanzi ad un signore entrano in ragionamento, senza che altri li ricerchi; e spesso quel signore, per far loro scorno, non risponde e volge il capo ad un'altra mano, e se pur risponde loro, ognun vede che lo fa con fastidio. Per aver adunque favore dai signori, non è miglior via che meritargli; né bisogna che l'omo si confidi vedendo un altro che sia grato ad un principe per qualsivoglia cosa di dover, per imitarlo, esso ancor medesimamente venire a quel grado; perché ad ognun non si convien ogni cosa e trovarassi talor un omo, il qual da natura sarà tanto pronto alle facezie, che ciò che dirà porterà seco il riso e parerà che sia nato solamente per quello; e s'un altro che abbia manera di gravità, avvenga che sia di bonissimo ingegno, vorrà mettersi far il medesimo, sarà freddissimo e disgraziato, di sorte che farà stomaco a chi l'udirà e riuscirà a punto quell'asino, che ad imitazion del cane volea scherzar col patrone. Però bisogna che ognun conosca se stesso e le forze sue ed a quello s'accommodi, e consideri quali cose ha da imitare e quali no -.
XXI.
- Prima che piú avanti passate, - disse quivi Vincenzio Calmeta, - s'io ho ben inteso, parmi che dianzi abbiate detto che la miglior via per conseguir favori sia il meritargli; e che piú presto dee il cortegiano aspettar che gli siano offerti, che prosuntuosamente ricercargli. Io dubito assai che questa regula sia poco al proposito e parmi che la esperienzia ci faccia molto ben chiari del contrario; perché oggidí pochissimi sono favoriti da' signori, eccetto i prosuntuosi; e so che voi potete esser bon testimonio d'alcuni, che, ritrovandosi in poca grazia dei lor príncipi, solamente con la prosunzione si son loro fatti grati; ma quelli che per modestia siano ascesi, io per me non cognosco ed a voi ancor do spacio di pensarvi, e credo che pochi ne trovarete. E se considerate la corte di Francia, la qual oggidí è una delle piú nobili de Cristianità, trovarete che tutti quelli che in essa hanno grazia universale tengon del prosuntuoso; e non solamente l'uno con l'altro, ma col re medesimo. - Questo non dite già, - rispose messer Federico; - anzi in Francia sono modestissimi e cortesi gentilomini; vero è che usano una certa libertà e domestichezza senza cerimonia, la qual ad essi è propria e naturale; e però non si dee chiamar prosunzione, perché in quella sua cosí fatta maniera, benché ridano e piglino piacere dei prosuntuosi, pur apprezzano molto quelli che loro paiono aver in sé valore e modestia -. Rispose il Calmeta: - Guardate i Spagnoli, i quali par che siano maestri della cortegiania e considerate quanti ne trovate, che con donne e con signori non siano prosuntuosissimi; e tanto piú de' Franzesi, quanto che nel primo aspetto mostrano grandissima modestia: e veramente in ciò sono discreti perché, come ho detto, i signori de' nostri tempi tutti favoriscono que' soli che hanno tai costumi -.
XXII.
Rispose allor messer Federico: - Non voglio già comportar, messer Vincenzio, che voi questa nota diate ai signori de' nostri tempi; perché pur ancor molti sono che amano la modestia, la quale io non dico però che sola basti per far l'uom grato; dico ben, che quando è congiunta con un gran valore, onora assai chi la possede; e se ella di se stessa tace, l'opere laudevoli parlano largamente, e son molto piú maravigliose che se fossero compagnate dalla prosunzione e temerità. Non voglio già negar che non si trovino molti Spagnoli prosuntuosi; dico ben che quelli che sono assai estimati, per il piú sono modestissimi. Ritrovansi poi ancor alcun'altri tanto freddi che fuggono il consorzio degli omini troppo fuor di modo, e passano un certo grado di mediocrità, tal che si fanno estimare o troppo timidi o troppo superbi; e questi per niente non laudo, né voglio che la modestia sia tanto asciutta ed àrrida, che diventi rusticità. Ma sia il cortegiano, quando gli vien in proposito, facundo e nei discorsi de' stati prudente e savio, ed abbia tanto giudicio, che sappia accommodarsi ai costumi delle nazioni ove si ritrova; poi nelle cose piú basse sia piacevole e ragioni ben d'ogni cosa; ma sopra tutto tenda sempre al bene: non invidioso, non maldicente; né mai s'induca a cercar grazia o favor per via viciosa, né per mezzo di mala sorte -. Disse allora il Calmeta: - Io v'assicuro che tutte l'altre vie son molto piú dubbiose e piú lunghe, che non è questa che voi biasimate; perché oggidí, per replicarlo un'altra volta, i signori non amano se non que' che son volti a tal camino. - Non dite cosí, - rispose allor messer Federico, - perché questo sarebbe troppo chiaro argumento che i signori de' nostri tempi fossero tutti viciosi e mali; il che non è, perché pur se ne trovano alcuni di boni. Ma se 'l nostro cortegiano per sorte sua si troverà essere a servicio d'un che sia vicioso e maligno, súbito che lo conosca, se ne levi, per non provar quello estremo affanno che senton tutti i boni che serveno ai mali. - Bisogna pregar Dio, - rispose il Calmeta, - che ce gli dia boni, perché quando s'hanno è forza patirgli tali, quali sono; perché infiniti rispetti astringono chi è gentilomo, poi che ha cominciato a servire ad un patrone, a non lasciarlo; ma la disgrazia consiste nel principio; e sono i cortegiani in questo caso alla condizion di que' mal avventurati uccelli, che nascono in trista valle. - A me pare, - disse messer Federico, - che 'l debito debba valer piú che tutti i rispetti; e purché un gentilomo non lassi il patrone quando fosse in su la guerra o in qualche avversità, di sorte che si potesse credere che ciò facesse per secondar la fortuna, o per parergli che gli mancasse quel mezzo del qual potesse trarre utilità, da ogni altro tempo credo che possa con ragion e debba levarsi da quella servitú, che tra i boni sia per dargli vergogna; perché ognun presume che chi serve ai boni sia bono e chi serve ai mali sia malo -.
XXIII.
- Vorrei, - disse allor il signor Ludovico Pio, - che voi mi chiariste un dubbio ch'io ho nella mente; il qual è, se un gentilomo, mentre che serve ad un principe, è obligato ad ubidirgli in tutte le cose che gli commanda, ancor che fossero disoneste e vituperose. - In cose disoneste non siamo noi obligati ad ubedire a persona alcuna, - respose messer Federico. - E come, - replicò il signor Ludovico, - s'io starò al servizio d'un principe il qual mi tratti bene, e si confidi ch'io debba far per lui ciò che far si po, commandandomi ch'io vada ad ammazzare un omo, o far qualsivoglia altra cosa, debbo io rifutar di farla? - Voi dovete, - rispose messer Federico, - ubidire al signor vostro in tutte le cose che a lui sono utili ed onorevoli, non in quelle che gli sono di danno e di vergogna; però se esso vi comandasse che faceste un tradimento, non solamente non sète obligato a farlo, ma sète obligato a non farlo, e per voi stesso, e per non esser ministro della vergogna del signor vostro. Vero è che molte cose paiono al primo aspetto bone, che sono male, e molte paiono male, e pur son bone. Però è licito talor per servicio de' suoi signori ammazzare non un omo, ma diece milia, e far molt'altre cose, le quali, a chi non le considerasse come si dee, pareriano male, e pur non sono -.
Rispose allor il signor Gaspar Pallavicino: - Deh, per vostra fé, ragionate un poco sopra questo, ed insegnateci come si possan discerner le cose veramente bone dalle apparenti. - Perdonatemi, - disse messer Federico; - io non voglio entrar qua, ché troppo ci saria che dire, ma il tutto si rimetta alla discrezion vostra -.
XXIV.
- Chiaritemi almen un altro dubbio, - replicò il signor Gasparo. - E che dubbio? - disse messer Federico. - Questo, - rispose il signor Gasparo: - Vorrei sapere, essendomi imposto da un mio signor terminatamente quello ch'io abbia a fare in una impresa o negocio di qualsivoglia sorte, s'io, ritrovandomi in fatto, e parendomi con l'operare piú o meno o altrimenti di quello che m'è stato imposto, poter fare succedere la cosa piú prosperamente o con piú utilità di chi m'ha dato tal carico, debbo io governarmi secondo quella prima norma senza passar i termini del comandamento, o pur far quello che a me pare esser meglio? - Rispose allora messer Federico: - Io, circa questo, vi darei la sentenzia con lo esempio di Manlio Torquato, che in tal caso per troppo pietà uccise il figliolo, se lo estimasse degno di molta laude, che in vero non l'estimo; benché ancor non oso biasmarlo, contra la opinion di tanti seculi: perché senza dubbio è assai pericolosa cosa desviare dai comandamenti de' suoi maggiori, confidandosi piú del giudicio di se stessi che di quegli ai quali ragionevolmente s'ha da ubedire; perché se per sorte il pensier vien fallito e la cosa succeda male, incorre l'omo nell'error della disubidienza e ruina quello che ha da far senza via alcuna di escusazione o speranza di perdono; se ancor la cosa vien secondo il desiderio, bisogna laudarne la ventura e contentarsene. Pur con tal modo s'introduce una usanza d'estimar poco i comandamenti de' superiori; e per esempio di quello a cui sarà successo bene, il quale forse sarà prudente ed arà discorso con ragione ed ancor sarà stato aiutato dalla fortuna, vorranno poi mille altri ignoranti e leggeri pigliar sicurtà nelle cose importantissime di far a lor modo, e per mostrar d'esser savi ed aver autorità desviar dai comandamenti de' signori: il che è malissima cosa, e spesso causa d'infiniti errori. Ma io estimo che in tal caso debba quello a cui tocca considerar maturamente, e quasi porre in bilancia il bene e la commodità che gli è per venire del fare contra il commandamento ponendo che 'l disegno suo gli succeda secondo la speranza; dall'altra banda, contrapesare il male e la incommodità che gliene nasce, se per sorte, contrafacendo al commandamento, la cosa gli vien mal fatta; e conoscendo che 'l danno possa esser maggiore e di piú importanzia succedendo il male, che la utilità succedendo il bene, dee astenersene e servar a puntino quello che imposto gli è; e per contrario, se la utilità è per esser di piú importanzia succedendo il bene, che 'l danno succedendo il male, credo che possa ragionevolmente mettersi a far quello che piú la ragione e 'l giudicio suo gli detta, e lasciar un poco da canto quella propria forma del commandamento; per fare come i boni mercatanti, li quali per guadagnare l'assai, avventurano il poco, ma non l'assai per guadagnar il poco. Laudo ben che sopra tutto abbia rispetto alla natura di quel signore a cui serve e secondo quella si governi; perché se fosse cosí austera, come di molti che se ne trovano, io non lo consigliarei mai, se amico mio fosse, che mutasse in parte alcuna l'ordine datogli: acciò che non gl'intravenisse quel che si scrive esser intervenuto ad un maestro ingegnero d'Ateniesi, al quale, essendo Publio Crasso Muziano in Asia e volendo combattere una terra, mandò a dimandare un de' dui alberi da nave che esso in Atene avea veduto, per far uno ariete da battere il muro, e disse voler il maggiore. L'ingegnero, come quello che era intendentissimo, conobbe quel maggiore esser poco a proposito per tal effetto; e per esser il minore piú facile a portare ed ancor piú conveniente a far quella machina, mandollo a Muziano. Esso, intendendo come la cosa era ita, fecesi venir quel povero ingegnero e domandatogli perché non l'avea ubidito, non volendo ammettere ragione alcuna che gli dicesse, lo fece spogliar nudo e battere e frustare con verghe tanto che si morí, parendogli che in loco d'ubidirlo avesse voluto consigliarlo; sí che con questi cosí severi omini bisogna usar molto rispetto.
XVX.
Ma lasciamo da canto omai questa pratica de' signori e vengasi alla conversazione coi pari o poco diseguali; ché ancor a questa bisogna attendere per esser universalmente piú frequentata e trovarsi l'omo piú spesso in questa, che in quella de' signori. Benché son alcuni sciocchi, che se fossero in compagnia del maggior amico che abbiano al mondo, incontrandosi con un meglio vestito, súbito a quel si attaccano; se poi gli ne occorre un altro meglio, fanno pur il medesimo. E quando poi il principe passa per le piazze, chiese, o altri lochi publici, a forza di cubiti si fanno far strada a tutti, tanto che se gli metteno al costato; e se ben non hanno che dirgli, pur lor voglion parlare e tengono lunga la diceria, e rideno, e batteno le mani e 'l capo, per mostrar ben aver facende di importanzia, acciò che 'l populo gli vegga in favore. Ma poiché questi tali non si degnano di parlare se non coi signori, io non voglio che noi degnimo parlar d'essi -.
XVXI.
Allora il Magnifico Iuliano, - Vorrei, - disse, - messer Federico, poiché avete fatto menzion di questi che s'accompagnano cosí voluntieri coi ben vestiti, che ci mostraste di qual manera si debba vestire il cortegiano e che abito piú se gli convenga, e circa tutto l'ornamento del corpo in che modo debba governarsi; perché in questo veggiamo infinite varietà; e chi si veste alla franzese, chi alla spagnola, chi vol parer tedesco; né ci mancano ancor di quelli che si vestono alla foggia de' Turchi; chi porta la barba, chi no.
Saria adunque ben fatto saper in questa confusione eleggere il meglio -. Disse messer Federico: - Io in vero non saprei dar regula determinata circa il vestire, se non che l'uom s'accommodasse alla consuetudine dei piú; e poiché, come voi dite, questa consuetudine è tanto varia e che gli Italiani tanto son vaghi d'abbigliarsi alle altrui fogge, credo che ad ognuno sia licito vestirsi a modo suo. Ma io non so per qual fato intervenga che la Italia non abbia, come soleva avere, abito che sia conosciuto per italiano; che, benché lo aver posto in usanza questi novi faccia parer quelli primi goffissimi, pur quelli forse erano segno di libertà, come questi son stati augurio di servitú; il quale ormai parmi assai chiaramente adempiuto. E come si scrive che, avendo Dario l'anno prima che combattesse con Alessandro fatto acconciar la spada che egli portava a canto, la quale era persiana, alla foggia di Macedonia, fu interpretato dagli indovini che questo significava, che coloro, nella foggia de' quali Dario avea tramutato la forma della spada persiana, verriano a dominar la Persia; cosí l'aver noi mutato gli abiti italiani nei stranieri parmi che significasse, tutti quelli, negli abiti de' quali i nostri erano trasformati, dever venire a subiugarci; il che è stato troppo piú che vero, ché ormai non resta nazione che di noi non abbia fatto preda, tanto che poco piú resta che predare e pur ancor di predar non si resta.
XVXII.
Ma non voglio che noi entriamo in ragionamenti di fastidio; però ben sarà dir degli abiti del nostro cortegiano; i quali io estimo che, pur che non siano fuor della consuetudine, né contrari alla professione, possano per lo resto tutti star bene, pur che satisfacciano a chi gli porta. Vero è ch'io per me amerei che non fossero estremi in alcuna parte, come talor sòl essere il franzese in troppo grandezza e 'l tedesco in troppo piccolezza, ma come sono e l'uno e l'altro corretti e ridutti in meglior forma dagli Italiani. Piacemi ancor sempre che tendano un poco piú al grave e riposato, che al vano; però parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero, che alcun altro; e se pur non è nero, che almen tenda al scuro; e questo intendo del vestir ordinario, perché non è dubbio che sopra l'arme piú si convengan colori aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e superbi. Medesimamente nei spettaculi publici di feste, di giochi, di mascare e di tai cose; perché cosí divisati portan seco una certa vivezza ed alacrità, che in vero ben s'accompagna con l'arme e giochi; ma nel resto vorrei che mostrassino quel riposo che molto serva la nazion spagnola, perché le cose estrinseche spesso fan testimonio delle intrinseche -. Allor disse messer Cesare Gonzaga: - Questo a me daria poca noia perché, se un gentilom nelle altre cose vale, il vestire non gli accresce né scema mai riputazione -. Rispose messer Federico: - Voi dite il vero. Pur qual è di noi che, vedendo passeggiar un gentilomo con una robba addosso quartata di diversi colori, o vero con tante stringhette e fettuzze annodate e fregi traversati, non lo tenesse per pazzo o per buffone? - Né pazzo, né buffone, - disse messer Pietro Bembo, - sarebbe costui tenuto da chi fosse qualche tempo vivuto nella Lombardia perché cosí vanno tutti. - Adunque, - rispose la signora Duchessa ridendo, - se cosí vanno tutti, opporre non se gli dee per vizio, essendo a loro questo abito tanto conveniente e proprio quanto ai Veneziani il portar le maniche a cómeo ed ai Fiorentini il capuzzo. - Non parlo io, - disse messer Federico, - piú della Lombardia che degli altri lochi, perché d'ogni nazion se ne trovano e di sciocchi e d'avveduti. Ma per dir ciò che mi par d'importanzia nel vestire, voglio che 'l nostro cortegiano in tutto l'abito sia pulito e delicato ed abbia una certa conformità di modesta attillatura ma non però di manera feminile o vana, né piú in una cosa che nell'altra, come molti ne vedemo, che pongon tanto studio nella capigliatura, che si scordano il resto; altri fan professione de denti, altri di barba, altri di borzachini, altri di berrette, altri di cuffie; e cosí intervien che quelle poche cose piú culte paiono lor prestate, e tutte l'altre che sono sciocchissime si conoscono per le loro. E questo tal costume voglio che fugga il nostro cortegiano, per mio consiglio; aggiungendovi ancor che debba fra se stesso deliberar ciò che vol parere e di quella sorte che desidera esser estimato, della medesima vestirsi, e far che gli abiti lo aiutino ad esser tenuto per tale ancor da quelli che non l'odono parlare, né veggono far operazione alcuna -.
XVXIII.
- A me non pare, - disse allor el signor Gaspar Pallavicino, - che si convenga, né ancor che s'usi tra persone di valore giudicar la condicion degli omini agli abiti, e non alle parole ed alle opere, perché molti s'ingannariano; né senza causa dicesi quel proverbio che l'abito non fa 'l monaco. - Non dico io, rispose messer Federico, - che per questo solo s'abbiano a far i giudici resoluti delle condizion degli omini, né che piú non si conoscano per le parole e per l'opere che per gli abiti; dico ben che ancor l'abito non è piccolo argomento della fantasia di chi lo porta, avvenga che talor possa esser falso; e non solamente questo, ma tutti i modi e costumi, oltre all'opere e parole, sono giudicio delle qualità di colui in cui si veggono. - E che cose trovate voi, - rispose il signor Gasparo, - sopra le quali noi possiam far giudicio, che non siano né parole né opere? - Disse allor messer Federico: - Voi sète troppo sottile loico. Ma per dirvi come io intendo, si trovano alcune operazioni che poi che son fatte restano ancora, come l'edificare, scrivere ed altre simili; altre non restano, come quelle di che io voglio ora intendere: però non chiamo in questo proposito che 'l passeggiare, ridere, guardare e tai cose, siano operazioni; e pur tutto questo di fuori dà notizia spesso di quel dentro. Ditemi, non faceste voi giudicio che fosse un vano e legger omo quello amico nostro, del quale ragionammo pur questa mattina, sùbito che lo vedeste passeggiar con quel torzer di capo, dimenandosi tutto, ed invitando con aspetto benigno la brigata a cavarsegli la berretta? Cosí ancora quando vedete uno che guarda troppo intento con gli occhi stupidi a foggia d'insensato, o che rida cosí scioccamente come que' mutoli gozzuti delle montagne di Bergamo, avvenga che non parli o faccia altro, non lo tenete voi per un gran babuasso? Vedete adunque che questi modi e costumi, che io non intendo per ora che siano operazioni, fanno in gran parte che gli omini siano conosciuti.
XXIX.
Ma un'altra cosa parmi che dia e lievi molto la riputazione, e questa è la elezion degli amici coi quali si ha da tenere intrinseca pratica; perché indubitatamente la ragion vol che di quelli che sono con stretta amicizia ed indissolubil compagnia congiunti, siano ancor le voluntà, gli animi, i giudici e gli ingegni conformi. Cosí, chi conversa con ignoranti o mali è tenuto per ignorante o malo; e per contrario chi conversa con boni e savi e discreti è tenuto per tale; ché da natura par che ogni cosa volentieri si congiunga col suo simile. Però gran riguardo credo che si convenga aver nel cominciar queste amicizie, perché di dui stretti amici chi conosce l'uno, súbito imagina l'altro esser della medesima condizione -. Rispose allor messer Pietro Bembo:
- Del restringersi in amicizia cosí unanime, come voi dite, parmi veramente che si debba aver assai riguardo, non solamente per l'acquistar o perdere la riputazione, ma perché oggidí pochissimi veri amici si trovano, né credo che piú siano al mondo quei Piladi ed Oresti, Tesei e Piritoi, né Scipioni e Lelii; anzi non so per qual destin interviene ogni dí che dui amici, i quali saranno vivuti in cordialissimo amore molt'anni, pur al fine l'un l'altro in qualche modo s'ingannano, o per malignità, o per invidia, o per leggerezza, o per qualche altra mala causa; e ciascun dà la colpa al compagno di quello, che forse l'uno e l'altro la merita. Però essendo a me intervenuto piú d'una volta l'esser ingannato da chi piú amava e da chi sopra ogni altra persona aveva confidenzia d'esser amato, ho pensato talor da me a me che sia ben non fidarsi mai di persona del mondo, né darsi cosí in preda ad amico, per caro ed amato che sia, che senza riserva l'omo gli comunichi tutti i suoi pensieri come farebbe a se stesso; perché negli animi nostri sono tante latebre e tanti recessi, che impossibil è che prudenzia umana possa conoscer quelle simulazioni, che dentro nascose vi sono. Credo adunque che ben sia amare e servire l'un piú che l'altro, secondo i meriti e 'l valore; ma non però assicurarsi tanto con questa dolce esca d'amicizia, che poi tardi se n'abbiamo a pentire -.
XXX.
Allor messer Federico, - Veramente, - disse, - molto maggior saria la perdita che 'l guadagno, se del consorzio umano si levasse quel supremo grado d'amicizia che, secondo me, ci dà quanto di bene ha in sé la vita nostra; e però io per alcun modo non voglio consentirvi che ragionevol sia, anzi mi daria il core di concludervi, e con ragioni evidentissime, che senza questa perfetta amicizia gli omini sariano piú infelici che tutti gli altri animali; e se alcuni guastano, come profani, questo santo nome d'amicizia, non è però da estirparla cosí degli animi nostri e per colpa dei mali privar i boni di tanta felicità. Ed io per me estimo che qui tra noi sia piú di un par di amici, l'amor de' quali sia indissolubile e senza inganno alcuno, e per durar fin alla morte con le voglie conformi, non meno che se fossero quegli antichi che voi dianzi avete nominati; e cosí interviene quando, oltre alla inclinazion che nasce dalle stelle, l'omo s'elegge amico a sé simile di costumi; e 'l tutto intendo che sia tra boni e virtuosi, perché l'amicizia de' mali non è amicizia. Laudo ben che questo nodo cosí stretto non comprenda o leghi piú che dui, ché altramente forse saria pericoloso; perché, come sapete, piú difficilmente s'accordano tre instromenti di musica insieme, che dui.
Vorrei adunque che 'l nostro cortegiano avesse un precipuo e cordial amico, se possibil fosse, di quella sorte che detto avemo; poi, secondo 'l valore e meriti, amasse, onorasse ed osservasse tutti gli altri, e sempre procurasse d'intertenersi piú con gli estimati e nobili e conosciuti per boni, che con gli ignobili e di poco pregio; di manera che esso ancor da loro fosse amato ed onorato; e questo gli verrà fatto se sarà cortese, umano, liberale, affabile e dolce in compagnia, officioso e diligente nel servire e nell'aver cura dell'utile ed onor degli amici cosí assenti come presenti, supportando i lor diffetti naturali e supportabili, senza rompersi con essi per piccol causa, e correggendo in se stesso quelli che amorevolmente gli saranno ricordati; non si anteponendo mai agli altri con cercar i primi e i piú onorati lochi, né con fare come alcuni che par che sprezzino il mondo e vogliano con una certa austerità molesta dar legge ad ognuno; ed oltre allo essere contenziosi in ogni minima cosa e fuor di tempo, riprender ciò che essi non fanno e sempre cercar causa di lamentarsi degli amici; il che è cosa odiosissima -.
XXXI.
Quivi essendosi fermato di parlare messer Federico, - Vorrei, - disse il signor Gasparo Pallavicino, - che voi ragionaste un poco piú minutamente di questo conversar con gli amici che non fate; ché in vero vi tenete molto al generale e quasi ci mostrate le cose per transito. - Come per transito? - rispose messer Federico. - Vorreste voi forse che io vi dicessi ancor le parole proprie che si avessero ad usare? non vi par adunque che abbiamo ragionato a bastanza di questo? - A bastanza parmi, - rispose el signor Gasparo. - Pur desidero io d'intendere qualche particularità ancor della foggia dell'intertenersi con omini e con donne; la qual cosa a me par di molta importanzia, considerato che 'l piú del tempo in ciò si dispensa nelle corti; e se questa fosse sempre uniforme, presto verria a fastidio. - A me pare, - rispose messer Federico, - che noi abbiam dato al cortegiano cognizion di tante cose, che molto ben po variar la conversazione ed accommodarsi alle qualità delle persone con le quai ha da conversare, presuponendo che egli sia di bon giudicio e con quello si governi, e secondo i tempi talor intenda nelle cose gravi, talor nelle feste e giochi. - E che giochi? - disse il signor Gasparo. Rispose allor messer Federico ridendo: - Dimandiamone consiglio a fra Serafino, che ogni dí ne trova de' novi. - Senza motteggiare, - replicò il signor Gasparo, - parvi che sia vicio nel cortegiano il giocare alle carte ed ai dadi? - A me no, - disse messer Federico, eccetto a cui nol facesse troppo assiduamente e per quello lasciasse l'altre cose di maggior importanzia, o veramente non per altro che per vincer denari, ed ingannasse il compagno e perdendo mostrasse dolore e dispiacere tanto grande, che fosse argomento d'avarizia -. Rispose il signor Gasparo: - E che dite del gioco de' scacchi? - Quello certo è gentile intertenimento ed ingenioso, - disse messer Federico, - ma parmi che un sol diffetto vi si trovi; e questo è che se po saperne troppo, di modo che a cui vol esser eccellente nel gioco de' scacchi credo bisogni consumarvi molto tempo e mettervi tanto studio, quanto se volesse imparar qualche nobil scienzia, o far qualsivoglia altra cosa ben d'importanzia; e pur in ultimo con tanta fatica non sa altro che un gioco; però in questo penso che intervenga una cosa rarissima, cioè che la mediocrità sia piú laudevole che la eccellenzia -. Rispose il signor Gasparo: - Molti Spagnoli trovansi eccellenti in questo ed in molti altri giochi, i quali però non vi mettono molto studio, né ancor lascian di far l'altre cose. - Credete, - rispose messer Federico, - che gran studio vi mettano, benché dissimulatamente. Ma quegli altri giochi che voi dite, oltre agli scacchi, forse sono come molti ch'io ne ho veduti fare pur di poco momento, i quali non serveno se non a far maravigliare il vulgo; però a me non pare che meritino altra laude né altro premio, che quello che diede Alessandro Magno a colui che, stando assai lontano, cosí ben infilzava i ceci in un ago.
XXXII.
Ma perché par che la fortuna, come in molte altre cose, cosí ancor abbia grandissima forza nelle opinioni degli omini, vedesi talor che un gentilomo, per ben condizionato che egli sia e dotato di molte grazie, sarà poco grato ad un signore e, come si dice, non gli arà sangue, e questo senza causa alcuna che si possa comprendere; però giungendo alla presenzia di quello e non essendo dagli altri per prima conosciuto, benché sia arguto e pronto nelle risposte e si mostri bene nei gesti, nelle manere, nelle parole ed in ciò che si conviene, quel signore poco mostrarà d'estimarlo, anzi piú presto gli farà qualche scorno; e da questo nascerà che gli altri súbito s'accommodaranno alla voluntà del signore e ad ognun parerà che quel tale non vaglia, né sarà persona che l'apprezzi o stimi, o rida de' suoi detti piacevoli, o ne tenga conto alcuno; anzi cominciaranno tutti a burlarlo e dargli la caccia; né a quel meschino basteran bone risposte, né pigliar le cose come dette per gioco ché insino a' paggi si gli metteranno attorno, di sorta che, se fosse il piú valoroso uomo del mondo, sarà forza che resti impedito e burlato. E per contrario se 'l principe se mostrarà inclinato ad un ignorantissimo, che non sappia né dir né fare, saranno spesso i costumi e i modi di quello, per sciocchi ed inetti che siano, laudati con le esclamazioni e stupore da ognuno, e parerà che tutta la corte lo ammiri ed osservi, e ch'ognun rida de' suoi motti e di certe arguzie contadinesche e fredde, che piú presto devrian mover vomito che riso: tanto son fermi ed ostinati gli omini nelle opinioni che nascono da' favori e disfavori de' signori. Però voglio che 'l nostro cortegiano, il meglio che po, oltre al valore s'aiuti ancora con ingegno ed arte; e sempre che ha d'andare in loco dove sia novo e non conosciuto, procuri che prima vi vada la bona opinion di sé che la persona, e faccia che ivi s'intenda che esso in altri lochi, appresso altri signori, donne e cavalieri, sia ben estimato; perché quella fama che par che nasca da molti giudici genera una certa ferma credenza di valore, che poi, trovando gli animi cosí disposti e preparati, facilmente con l'opere si mantiene ed accresce; oltra che si fugge quel fastidio ch'io sento, quando mi viene domandato chi sono e quale è il nome mio -.
XXXIII.
- Io non so come questo giovi, - rispose messer Bernardo Bibiena; - perché a me piú volte è intervenuto e, credo, a molt'altri, che avendomi formato nell'animo, per detto di persone di giudicio, una cosa esser di molta eccellenzia prima che veduta l'abbia, vedendola poi, assai mi è mancata e di gran lunga restato son ingannato di quello ch'io estimava; e ciò d'altro non è proceduto che dall'aver troppo creduto alla fama ed aver fatto nell'animo mio un tanto gran concetto, che, misurandolo poi col vero, l'effetto avvenga che sia stato grande ed eccellente, alla comparazion di quello che imaginato aveva, m'è parso piccolissimo. Cosí dubito ancor che possa intervenir del cortegiano. Però non so come sia bene dar queste aspettazioni e mandar innanzi quella fama; perché gli animi nostri spesso formano cose alle quali impossibil è poi corrispondere, e cosí piú se ne perde che non si guadagna -. Quivi disse messer Federico: - Le cose che a voi ed a molt'altri riescono minori assai che la fama, son per il piú di sorte, che l'occhio al primo aspetto le po giudicare; come se voi non sarete mai stato a Napoli o a Roma, sentendone ragionar tanto imaginarete piú assai di quello che forse poi alla vista vi riuscirà; ma delle condizioni degli omini non intervien cosí, perché quello che si vede di fuori è il meno. Però se 'l primo giorno, sentendo ragionare un gentilomo, non comprenderete che in lui sia quel valore che avevate prima imaginato, non cosí presto vi spogliarete della bona opinione come in quelle cose delle quali l'occhio súbito è giudice, ma aspettarete di dí in dí scoprir qualche altra nascosta virtú tenendo pur ferma sempre quella impressione che v'è nata dalle parole di tanti; ed essendo poi questo (come io presupongo che sia il nostro cortegiano) cosí ben qualificato, ogn'ora meglio vi confermarà a credere a quella fama, perché con l'opere ve ne darà causa, e voi sempre estimarete qualche cosa piú di quello che vederete -.
XXXIV.
E certo non si po negar che queste prime impressioni non abbiano grandissima forza e che molta cura aver non vi si debba; ed acciò che comprendiate quanto importino, dicovi che io ho a' miei dí conosciuto un gentilomo, il quale, avvenga che fosse di assai gentil aspetto e di modesti costumi ed ancor valesse nell'arme, non era però in alcuna di queste condizioni tanto eccellente, che non se gli trovassino molti pari ed ancor superiori. Pur, come la sorte sua volse, intervenne che una donna si voltò ad amarlo ferventissimamente; e crescendo ogni dí questo amore per la dimostrazion di correspondenzia che faceva il giovane, e non vi essendo modo alcun da potersi parlare insieme, spinta la donna da troppo passione, scoperse il suo desiderio ad un'altra donna, per mezzo della quale sperava qualche commodità. Questa né di nobiltà né di bellezza non era punto inferior alla prima; onde intervenne che sentendo ragionare cosí affettuosamente di questo giovane, il qual essa mai non aveva veduto, e conoscendo che quella donna, la quale ella sapeva ch'era discretissima e d'ottimo giudicio, l'amava estremamente, súbito imaginò che costui fosse il piú bello e 'l piú savio e 'l piú discreto ed in somma il piú degno omo da esser amato, che al mondo si trovasse; e cosí, senza vederlo, tanto fieramente se ne innamorò, che non per l'amica sua ma per se stessa cominciò a far ogni opera per acquistarlo e farlo a sé corrispondente in amore; il che con poca fatica le venne fatto, perché in vero era donna piú presto da esser pregata, che da pregare altrui. Or udite bel caso. Non molto tempo appresso occorse che una lettera, la qual scrivea questa ultima donna allo amante, pervenne in mano d'un'altra pur nobilissima e di costumi e di bellezza rarissima, la quale essendo, come è il piú delle donne, curiosa e cupida di saper secreti, e massimamente d'altre donne, aperse questa lettera, e leggendola comprese ch'era scritta con estremo affetto d'amore; e le parole dolci e piene di foco che ella lesse, prima la mossero a compassion di quella donna, perché molto ben sapea da chi veniva la lettera ed a cui andava; poi tanta forza ebbero, che rivolgendole nell'animo e considerando di che sorte doveva esser colui che avea potuto indur quella donna a tanto amore, súbito essa ancor se ne innamorò; e fece quella lettera forse maggior effetto, che non averia fatto se dal giovane a lei fosse stata mandata. E come talor interviene che 'l veneno in qualche vivanda preparato per un signore ammazza il primo che 'l gusta, cosí questa meschina, per esser troppo ingorda, bevvé quel veneno amoroso che per altrui era preparato. Che vi debbo io dire? la cosa fu assai palese ed andò di modo, che molte donne oltre a queste, parte per far dispetto all'altre, parte per far come l'altre, posero ogni industria e studio per goder dell'amore di costui e ne fecero per un tempo alla grappa, come i fanciulli delle cerase; e tutto procedette dalla prima opinione che prese quella donna, vedendolo tanto amato da un'altra -.
XXVX.
Or quivi ridendo rispose il signor Gasparo Pallavicino: - Voi per confirmare il parer vostro con ragione m'allegate opere di donne, le quali per lo piú son fuori d'ogni ragione; e se voi voleste dir ogni cosa, questo cosí favorito da tante donne dovea essere un nescio e da poco omo in effetto; perché usanza loro è sempre attaccarsi ai peggiori e, come le pecore, far quello che veggon fare alla prima, o bene o male che si sia; oltra che son tanto invidiose tra sé, che se costui fosse stato un monstro, pur averian voluto rubarsilo l'una all'altra -. Quivi molti cominciorono, e quasi tutti, a voler contradire al signor Gasparo; ma la signora Duchessa impose silenzio a tutti; poi, pur ridendo, disse: - Se 'l mal che voi dite delle donne non fosse tanto alieno dalla verità, che nel dirlo piú tosto desse carico e vergogna a chi lo dice che ad esse, io lassarei che vi fosse risposto; ma non voglio che col contradirvi con tante ragioni come si poria, siate rimosso da questo mal costume, acciò che del peccato vostro abbiate gravissima pena; la qual sarà la mala opinion che di voi pigliaran tutti quelli, che di tal modo vi sentiranno ragionare -. Allor messer Federico, - Non dite, signor Gasparo, - rispose, - che le donne siano cosí fuor di ragione, se ben talor si moveno ad amar piú per l'altrui giudicio che per lo loro; perché i signori e molti savi omini spesso fanno il medesimo; e se licito è dir il vero, voi stesso e noi altri tutti molte volte, ed ora ancor, credemo piú alla altrui opinione che alla nostra propria. E che sia 'l vero, non è ancor molto tempo, che essendo appresentati qui alcuni versi sotto 'l nome del Sanazaro, a tutti parvero molto eccellenti e furono laudati con le maraviglie ed esclamazioni; poi, sapendosi per certo che erano d'un altro, persero súbito la reputazione e parvero men che mediocri. E cantandosi pur in presenzia della signora Duchessa un mottetto, non piacque mai né fu estimato per bono, fin che non si seppe che quella era composizion di Josquin de Pris. Ma che piú chiaro segno volete voi della forza della opinione? Non vi ricordate che, bevendo voi stesso d'un medesimo vino, dicevate talor che era perfettissimo, talor insipidissimo? e questo perché a voi era persuaso che eran dui vini, l'un di Rivera di Genoa e l'altro di questo paese; e poi ancor che fu scoperto l'errore, per modo alcuno non volevate crederlo, tanto fermamente era confermata nell'animo vostro quella falsa opinione, la qual però dalle altrui parole nasceva.
XXVXI.
Deve adunque il cortegiano por molta cura nei princípi di dar bona impression di sé e considerar come dannosa e mortal cosa sia lo incorrer nel contrario; ed a tal pericolo stanno piú che gli altri quei che voglion far profession d'esser molto piacevoli, ed aversi con queste sue piacevolezze acquistato una certa libertà, per la qual lor convenga e sia licito e fare e dire ciò che loro occorre cosí senza pensarvi. Però spesso questi tali entrano in certe cose, delle quai non sapendo uscire, Voglion poi aiutarsi col far ridere; e quello ancor fanno cosí disgraziatamente che non riesce, tanto che inducono in grandissimo fastidio chi gli vede ed ode, ed essi restano freddissimi. Alcuna volta, pensando per quello esser arguti e faceti, in presenzia d'onorate donne e spesso a quelle medesime, si mettono a dir sporchissime e disoneste parole; e quanto piú le veggono arrossire tanto piú si tengon bon cortegiani, e tuttavia ridono e godono tra sé di cosí bella virtú, come lor pare avere. Ma per niuna altra causa fanno tante pecoragini, che per esser estimati bon compagni; questo è quel nome solo che lor pare degno di laude e del quale piú che di niun altro essi si vantano; e per acquistarlo si dicon le piú scorrette e vituperose villanie del mondo.
Spesso s'urtano giú per le scale, si dàn de' legni e de' mattoni l'un l'altro nelle reni, mettonsi pugni di polvere negli occhi, fannosi ruinare i cavalli addosso ne' fossi o giú di qualche poggio; a tavola poi, minestre, sapori, gelatine, tutte si dànno nel volto, e poi ridono; e chi di queste cose sa far piú, quello per meglior cortegiano e piú galante da se stesso s'apprezza e pargli aver guadagnato gran gloria; e se talor invitano a cotai sue piacevolezze un gentilomo, e che egli non voglia usar questi scherzi selvatichi, súbito dicono ch'egli si tien troppo savio e gran maestro e che non è bon compagno. Ma io vi vo' dir peggio. Sono alcuni che contrastano e mettono il prezio a chi può mangiare e bere piú stomacose e fetide cose; e trovanle tanto aborrenti dai sensi umani, che impossibil è ricordarle senza grandissimo fastidio -.
XXVXII.
- E che cose possono esser queste? - disse il signor Ludovico Pio. Rispose messer Federico: - Fatevele dire al marchese Febus, che spesso l'ha vedute in Francia, e forse gli è intravenuto -. Rispose il marchese Febus: - Io non ho veduto far cosa in Francia di queste, che non si faccia ancor in Italia, ma ben ciò che hanno di bon gli Italiani, nei vestimenti, nel festeggiare, banchettare, armeggiare ed in ogni altra cosa che a cortegian si convenga, tutto l'hanno dai Franzesi. - Non dico io, - rispose messer Federico, - che ancor tra' Franzesi non si trovino de' gentilissimi e modesti cavalieri; ed io per me n'ho conosciuti molti veramente degni d'ogni laude; ma pur alcuni se ne trovan poco riguardati; e, parlando generalmente, a me par che con gli Italiani piú si confaccian nei costumi i Spagnoli che i Franzesi, perché quella gravità riposata peculiar dei Spagnoli mi par molto piú conveniente a noi altri che la pronta vivacità, la qual nella nazion franzese quasi in ogni movimento si conosce; il che in essi non disdice, anzi ha grazia, perché loro è cosí naturale e propria, che non si vede in loro affettazione alcuna.
Trovansi ben molti Italiani che vorriano pur sforzarsi de imitare quella manera; e non sanno far altro che crollar la testa parlando, e far riverenze in traverso di mala grazia, e quando passeggian per la terra caminar tanto forte, che i staffieri non possano lor tener drieto; e con questi modi par loro esser bon Franzesi, ed aver di quella libertà; la qual cosa in vero rare volte riesce, eccetto a quelli che son nutriti in Francia e da fanciulli hanno presa quella manera. Il medesimo intervien del saper diverse lingue; il che io laudo molto nel cortegiano, e massimamente la spagnola e la franzese, perché il commerzio dell'una e dell'altra nazion è molto frequente in Italia e con noi sono queste due piú conformi che alcuna dell'altre; e que' dui príncipi, per esser potentissimi nella guerra e splendidissimi nella pace, sempre hanno la corte piena di nobili cavalieri, che per tutto 'l mondo si spargono; e a noi pur bisogna conversar con loro.
XXVXIII.
Or io non voglio seguitar piú minutamente in dir cose troppo note, come che 'l nostro cortegian non debba far profession d'esser gran mangiatore, né bevitore, né dissoluto in alcun mal costume, né laido e mal assettato nel vivere, con certi modi da contadino, che chiamano la zappa e l'aratro mille miglia di lontano; perché chi è di tal sorte, non solamente non s'ha da sperar che divenga bon cortegiano, ma non se gli po dar esercizio conveniente, altro che di pascer le pecore. E per concluder dico, che bon saria che 'l cortegian sapesse perfettamente ciò che detto avemo convenirsigli, di sorte che tutto 'l possibile a lui fosse facile ed ognuno di lui si maravigliasse, esso di niuno; intendendo però che in questo non fosse una certa durezza superba ed inumana, come hanno alcuni, che mostrano non maravigliarsi delle cose che fanno gli altri, perché essi presumon poterle far molto meglio, e col tacere le disprezzano, come indegne che di lor si parli; e quasi voglion far segno che niuno altro sia non che lor pari, ma pur capace d'intendere la profundità del saper loro. Però deve il cortegian fuggir questi modi odiosi e con umanità e benivolenzia laudar ancor le bone opere degli altri; e benché esso si senta ammirabile e di gran lunga superior a tutti, mostrar però di non estimarse per tale. Ma perché nella natura umana rarissime volte e forse mai non si trovano queste cosí compite perfezioni, non dee l'omo che si sente in qualche parte manco diffidarse però di se stesso, né perder la speranza di giungere a bon grado, avvenga che non possa conseguir quella perfetta e suprema eccellenzia dove egli aspira; perché in ogni arte son molti lochi, laudevoli oltr'al primo; e chi tende alla summità, rare volte interviene che non passi il mezzo. Voglio adunque che 'l nostro cortegiano, se in qualche cosa oltr'all'arme si trovarà eccellente, se ne vaglia e se ne onori di bon modo; e sia tanto discreto e di bon giudicio, che sappia tirar con destrezza e proposito le persone a vedere ed udir quello, in che a lui par d'essere eccellente, mostrando sempre farlo non per ostentazione, ma a caso, e pregato d'altrui piú presto che di voluntà sua; ed in ogni cosa che egli abbia da far o dire, se possibil è, sempre venga premeditato e preparato, mostrando però il tutto esser all'improviso. Ma le cose nelle quai si sente mediocre, tocchi per transito, senza fondarsici molto, ma di modo che si possa credere che piú assai ne sappia di ciò ch'egli mostra; come talor alcuni poeti che accennavan cose suttilissime di filosofia o d'altre scienzie, e per avventura n'intendevan poco. Di quello poi di che si conosce totalmente ignorante non voglio che mai faccia professione alcuna, né cerchi d'acquistarne fama; anzi, dove occorre, chiaramente confessi di non saperne -.
XXXIX.
- Questo, - disse il Calmeta, - non arebbe fatto Nicoletto, il qual, essendo eccellentissimo filosofo, né sapendo piú leggi che volare, benché un podestà di Padoa avesse deliberato dargli di quelle una lettura, non volse mai, a persuasion di molti scolari, desingannar quel podestà e confessargli di non saperne, sempre dicendo, non si accordar in questo con la opinione di Socrate, né esser cosa da filosofo il dir mai di non sapere. - Non dico io, - rispose messer Federico, - che 'l cortegian da se stesso, senza che altri lo ricerchi, vada a dire di non sapere; ché a me ancor non piace questa sciocchezza d'accusar o disfavorir se medesimo; e però talor mi rido di certi omini, che ancor senza necessità narrano volentieri alcune cose, le quali, benché forse siano intervenute senza colpa loro, portan però seco un'ombra d'infamia; come faceva un cavalier che tutti conoscete, il qual, sempre che udiva far menzion del fatto d'arme che si fece in Parmegiana contra 'l re Carlo, súbito cominciava a dir in che modo egli era fuggito, né parea che di quella giornata altro avesse veduto o inteso; parlandosi poi d'una certa giostra famosa, contava pur sempre come egli era caduto; e spesso ancor parea che nei ragionamenti andasse cercando di far venire a proposito il poter narrar che una notte, andando a parlar ad una donna, avea ricevuto di molte bastonate. Queste sciocchezze non voglio io che dica il nostro cortegiano, ma parmi ben che offerendosegli occasion di mostrarsi in cosa di che non sappia punto, debba fuggirla; e se pur la necessità lo stringe, confessar chiaramente di non saperne, piú presto che mettersi a quel rischio; e cosí fuggirà un biasimo che oggidí meritano molti i quali, non so per qual loro perverso instinto o giudicio fuor di ragione, sempre si mettan a far quel che non sanno e lascian quel che sanno. E per confirmazion di questo, io conosco uno eccellentissimo musico, il qual, lasciata la musica, s'è dato totalmente a compor versi e credesi in quello esser grandissimo omo, e fa ridere ognun di sé e omai ha perduta ancor la musica. Un altro de' primi pittori del mondo sprezza quell'arte dove è rarissimo ed èssi posto ad imparar filosofia, nella quale ha cosi strani concetti e nove chimere, che esso con tutta la sua pittura non sapria depingerle. E di questi tali infiniti si trovano. Son bene alcuni, i quali, conoscendosi avere eccellenzia in una cosa, fanno principal professione d'un'altra, della qual però non sono ignoranti; ma ogni volta che loro occorre mostrarsi in quella dove si senton valere, si mostran gagliardamente; e vien lor talor fatto che la brigata, vedendogli valer tanto in quello che non è sua professione, estima che vaglian molto piú in quello di che fan professione. Quest'arte, s'ella è compagnata da bon giudicio, non mi dispiace punto -.
XL.
Rispose allor il signor Gaspar Pallavicino: - Questa a me non par arte, ma vero inganno; né credo che si convenga, a chi vol esser omo da bene, mai lo ingannare. - Questo, - disse messer Federico, - è piú presto un ornamento, il quale accompagna quella cosa che colui fa, che inganno; e se pur è inganno, non è da biasimare. Non direte voi ancora, che di dui che maneggian l'arme quel che batte il compagno lo inganna! e questo è perché ha piú arte che l'altro. E se voi avete una gioia, la qual dislegata mostri esser bella, venendo poi alle mani d'un bon orefice, che col legarla bene la faccia parer molto piú bella, non direte voi che quello orefice inganna gli occhi di chi la vede! E pur di quello inganno merita laude, perché col bon giudicio e con l'arte le maestrevoli mani spesso aggiungon grazia ed ornamento allo avorio o vero allo argento, o vero ad una bella pietra circondandola di fin oro. Non diciamo adunque che l'arte o tal inganno, se pur voi lo volete cosí chiamare, meriti biasimo alcuno. Non è ancor disconveniente che un omo che si senta valere in una cosa, cerchi destramente occasion di mostrarsi in quella, e medesimamente nasconda le parti che gli paian poco laudevoli, il tutto però con una certa avvertita dissimulazione. Non vi ricorda come, senza mostrar di cercarle, ben pigliava l'occasioni il re Ferrando di spogliarsi talor in giuppone, e questo perché si sentiva dispostissimo? e perché non avea troppo bone mani, rare volte o quasi mai non si cavava i guanti? e pochi erano che di questa sua avvertenza s'accorgessero. Parmi ancor aver letto che Iulio Cesare portasse volentieri la laurea per nascondere il calvizio. Ma circa questi modi bisogna esser molto prudente e di bon giudicio, per non uscire de' termini; perché molte volte l'omo per fuggir un errore incorre nell'altro e per voler acquistar laude acquista biasimo.
XLI.
E' adunque securissima cosa nel modo del vivere e nel conversare governarsi sempre con una certa onesta mediocrità, che nel vero è grandissimo e fermissimo scudo contra la invidia, la qual si dee fuggir quanto piú si po.
Voglio ancor che 'l nostro cortegiano si guardi di non acquistar nome di bugiardo, né di vano; il che talor interviene a quegli ancora che nol meritano; però ne' suoi ragionamenti sia sempre avvertito di non uscir della verisimilitudine e di non dir ancor troppo spesso quelle verità che hanno faccia di menzogna, come molti che non parlan mai se non di miracoli e voglion esser di tanta autorità, che ogni incredibil cosa a loro sia creduta. Altri nel principio d'una amicizia, per acquistar grazia col novo amico, il primo dí che gli parlano giurano non aver persona al mondo che piú amino che lui, e che vorrebben voluntier morir per fargli servizio e tai cose for di ragione; e quando da lui si partono, fanno le viste di piangere e di non poter dir parola per dolore; cosí, per volere esser tenuti troppo amorevoli, si fanno estimar bugiardi e sciocchi adulatori. Ma troppo lungo e faticoso saria voler discorrer tutti i vicii che possono occorrere nel modo del conversare; però per quello ch'io desidero nel cortegiano basti dire, oltre alle cose già dette, che 'l sia tale, che mai non gli manchin ragionamenti boni e commodati a quelli co' quali parla, e sappia con una certa dolcezza recrear gli animi degli auditori e con motti piacevoli e facezie discretamente indurgli a festa e riso, di sorte che, senza venir mai a fastidio o pur a saziare, continuamente diletti.
XLII.
Io penso che ormai la signora Emilia mi darà licenzia di tacere; la qual cosa s'ella mi negarà, io per le parole mie medesime sarò convinto non esser quel bon cortegiano di cui ho parlato; ché non solamente i boni ragionamenti, i quali né mo né forsi mai da me avete uditi, ma ancor questi mei, come voglia che si siano, in tutto mi mancono -. Allor disse ridendo il signor Prefetto: - Io non voglio che questa falsa opinion resti nell'animo d'alcun di noi, che voi non siate bonissimo cortegiano; ché certo il desiderio vostro di tacere più presto procede dal voler fuggir fatica, che da mancarvi ragionamenti.
Però, acciò che non paia che in compagnia cosí degna, come è questa, e ragionamento tanto eccellente, si sia lassato a drieto parte alcuna, siate contento d'insegnarci come abbiamo ad usar le facezie delle quali avete or fatta menzione, e mostrarci l'arte che s'appartiene a tutta questa sorte di parlar piacevole per indurre riso e festa con gentil modo, perché in vero a me pare che importi assai e molto si convenga al cortegiano. - Signor mio, - rispose allor messer Federico, - le facezie e i motti sono più presto dono e grazia di natura che d'arte; ma bene in questo si trovano alcune nazioni pronte piú l'una che l'altra come i Toscani, che in vero sono acutissimi. Pare ancor che ai Spagnoli sia assai proprio il motteggiare. Trovansi ben però molti, e di queste e d'ogni altra nazione, i quali per troppo loquacità passan talor i termini e diventano insulsi ed inetti, perché non han rispetto alla sorte delle persono con le quai parlano, al loco ove si trovano, al tempo, alla gravità ed alla modestia, che essi proprii mantenere devriano -.
XLIII.
Allor il signor Prefetto rispose: - Voi negate che nelle facezie sia arte alcuna; e pur, dicendo mal di que' che non servano in esse la modestia e gravità e non hanno rispetto al tempo ed alle persone con le quai parlano, parmi che dimostriate che ancor questo insegnar si possa ed abbia in sé qualche disciplina. - Queste regule, Signor mio, - rispose messer Federico, - son tanto universali, che ad ogni cosa si confanno e giovano. Ma io ho detto nelle facezie non esser arte, perché di due sorti solamente parmi che se ne trovino: delle quai l'una s'estende nel ragionar lungo e continuato; come si vede di alcun'omini, che con tanto bona grazia e cosí piacevolmente narrano ed esprimono una cosa che sia loro intervenuta, o veduta o udita l'abbiano, che coi gesti e con le parole la mettono inanzi agli occhi e quasi la fan toccar con mano; e questa forse, per non ci aver altro vocabulo, si poria chiamar «festività», o vero «urbanità». L'altra sorte di facezie è brevissima e consiste solamente nei detti pronti ed acuti, come spesso tra noi se n'odono, e de' mordaci; né senza quel poco di puntura par che abbian grazia; e questi presso gli antichi ancor si nominavano «detti»; adesso alcuni le chiamano «arguzie». Dico adunque che nel primo modo, che è quella festiva narrazione, non è bisogno arte alcuna perché la natura medesima crea e forma gli omini atti a narrare piacevolmente; e dà loro il volto, i gesti, la voce e le parole appropriate ad imitar ciò che vogliono. Nell'altro, delle arguzie, che po far l'arte? con ciò sia cosa che quel salso detto dee esser uscito ed aver dato in brocca, prima che paia che colui che lo dice v'abbia potuto pensare; altramente è freddo e non ha del bono. Però estimo che 'l tutto sia opera dell'ingegno e della natura -. Riprese allor le parole messer Pietro Bembo e disse: - Il signor Prefetto non vi nega quello che voi dite, cioè che la natura e lo ingegno non abbiano le prime parti, massimamente circa la invenzione; ma certo è che nell'animo di ciascuno, sia pur l'omo di quanto bono ingegno po essere, nascono dei concetti boni e mali, e piú e meno; ma il giudicio poi e l'arte i lima e corregge, e fa elezione dei boni e rifiuta i mali. Però, lasciando quello che s'appartiene allo ingegno, dechiarateci quello che consiste nell'arte; cioè delle facezie e dei motti che inducono a ridere, quai son convenienti al cortegiano e quai no, ed in qual tempo e modo si debbano usare; ché questo è quello che 'l signor Prefetto v'addimanda -.
XLIV.
Allor messer Federico, pur ridendo, disse: - Non è alcun qui di noi al qual io non ceda in ogni cosa, e massimamente nell'esser faceto; eccetto se forse le sciocchezze, che spesso fanno rider altrui piú che i bei detti, non fossero esse ancora accettate per facezie -. E cosí, voltandosi al conte Ludovico ed a messer Bernardo Bibiena, disse: - Eccovi i maestri di questo, dai quali, s'io ho da parlare de' detti giocosi, bisogna che prima impari ciò che m'abbia a dire -. Rispose il conte Ludovico: - A me pare che già cominciate ad usar quello di che dite non saper niente, cioè di voler far ridere questi signori, burlando messer Bernardo e me; perché ognun di lor sa che quello di che ci laudate, in voi è molto piú eccellentemente. Però se siete faticato, meglio è dimandar grazia alla signora Duchessa, che faccia differire il resto del ragionamento a domani, che voler con inganni subterfugger la fatica -.
Cominciava messer Federico a rispondere, ma la signora Emilia súbito l'interruppe e disse: - Non è l'ordine che la disputa se ne vada in laude vostra; basta che tutti siete molto ben conosciuti. Ma perché ancor mi ricordo che voi, Conte, iersera mi deste imputazione ch'io non partiva egualmente le fatiche, sarà bene che messer Federico si riposi un poco; e 'l carico del parlar delle facezie daremo a messer Bernardo Bibiena, perché non solamente nel ragionar continuo lo conoscemo facetissimo, ma avemo a memoria che di questa materia piú volte ci ha promesso voler scrivere, e però possiam creder che già molto ben vi abbia pensato e per questo debba compiutamente satisfarci. Poi, parlato che si sia delle facezie, messer Federico seguirà in quello che dir gli avanza del cortegiano -. Allor messer Federico disse: - Signora, non so ciò che più mi avanzi; ma io, a guisa di viandante già stanco dalla fatica del lungo caminare a mezzo giorno, riposerommi nel ragionar di messer Bernardo al suon delle sue parole, come sotto qualche amenissimo ed ombroso albero al mormorar suave d'un vivo fonte; poi forse, un poco ristorato, potrò dir qualche altra cosa -. Rispose ridendo messer Bernardo: - S'io vi mostro il capo, vederete che ombra si po aspettar dalle foglie del mio albero. Di sentire il mormorio di quel fonte vivo forse vi verrà fatto, perch'io fui già converso in un fonte, non d'alcuno degli antichi dèi, ma dal nostro fra Mariano, e da indi in qua mai non m'è mancata l'acqua -, Allor ognun cominciò a ridere, perché questa piacevolezza, di che messer Bernardo intendeva, essendo intervenuta in Roma alla presenzia di Galeotto cardinale di San Pietro ad Vincula, a tutti era notissima.
XLV.
Cessato il riso, disse la signora Emilia: - Lasciate voi adesso il farci ridere con l'operar le facezie ed a noi insegnate come l'abbiamo ad usare e donde si cavino, e tutto quello che sopra questa materia voi conoscete. E per non perder piú tempo cominciate omai. - Dubito, - disse messer Bernardo, - che l'ora sia tarda; ed acciò che 'l mio parlar di facezie non sia infaceto e fastidioso, forse bon sarà differirlo insino a dimani -. Quivi súbito risposero molti non essere ancor, né a gran pezza, l'ora consueta di dar fine al ragionare. Allora rivoltandosi messer Bernardo alla signora Duchessa ed alla signora Emilia, - Io non voglio fuggir, - disse, - questa fatica; bench'io, come soglio maravigliarmi dell'audacia di color che osano cantar alla viola in presenzia del nostro Iacomo Sansecondo, cosí non devrei in presenzia d'auditori che molto meglio intendon quello che io ho a dire che io stesso, ragionar delle facezie. Pur, per non dar causa ad alcuno di questi signori di ricusar cosa che imposta loro sia, dirò quanto piú brevemente mi sarà possibile ciò che mi occorre circa le cose che movono il riso; il qual tanto a noi è proprio, che per descriver l'omo si suol dire che egli è un animal risibile; perché questo riso solamente negli omini si vede ed è quasi sempre testimonio d'una certa ilarità che dentro si sente nell'animo, il qual da natura è tirato al piacere ed appetisce il riposo e 'l recrearsi; onde veggiamo molte cose dagli omini ritrovate per questo effetto, come le feste e tante varie sorti di spettaculi. E perché noi amiamo que' che son causa di tal nostra recreazione, usavano i re antichi, i Romani, gli Ateniesi e molt'altri, per acquistar la benivolenzia dei populi e pascer gli occhi e gli animi della moltitudine, far magni teatri ed altri publici edifizi; ed ivi mostrar novi giochi, corsi di cavalli e di carrette, combattimenti, strani animali, comedie, tragedie e moresche; né da tal vista erano alieni i severi filosofi, che spesso e coi spettaculi di tal sorte e conviti rilassavano gli animi affaticati in quegli alti lor discorsi e divini pensieri; la qual cosa volentier fanno ancor tutte le qualità d'omini; ché non solamente i lavoratori de' campi, i marinari e tutti quelli che hanno duri ed asperi esercizi alle mani, ma i santi religiosi, i prigionieri che d'ora in ora aspettano la morte, pur vanno cercando qualche rimedio e medicina per recrearsi. Tutto quello adunque che move il riso esilara l'animo e dà piacere, né lascia che in quel punto l'omo si ricordi delle noiose molestie, delle quali la vita nostra è piena. Però a tutti, come vedete, il riso è gratissimo, ed è molto da laudare chi lo move a tempo e di bon modo. Ma che cosa sia questo riso, e dove stia, ed in che modo talor occupi le vene, gli occhi, la bocca e i fianchi, che par che ci voglia far scoppiare, tanto che, per forza che vi mettiamo, non è possibile tenerlo, lasciarò disputare a Democrito; il quale, se forse ancora lo promettesse, non lo saprebbe dire.
XLVI.
Il loco adunque e quasi il fonte onde nascono i ridiculi consiste in una certa deformità; perché solamente si ride di quelle cose che hanno in sé disconvenienza e par che stian male, senza però star male. Io non so altrimenti dichiarirlo; ma se voi da voi stessi pensate, vederete che quasi sempre quel di che si ride è una cosa che non si conviene, e pur non sta male.
Quali adunque siano quei modi che debba usar il cortegiano per mover il riso e fin a che termine, sforzerommi di dirvi, per quanto mi mostrerà il mio giudicio; perché il far rider sempre non si convien al cortegiano, né ancor di quel modo che fanno i pazzi e gli imbriachi e i sciocchi ed inetti, e medesimamente i buffoni; e benché nelle corti queste sorti d'omini par che si richieggano, pur non meritano esser chiamati cortegiani, ma ciascun per lo nome suo ed estimati tali quai sono. Il termine e misura del far ridere mordendo bisogna ancor esser diligentemente considerato, e chi sia quello che si morde; perché non s'induce riso col dileggiar un misero e calamitoso, né ancora un ribaldo e scelerato publico, perché questi par che meritino maggior castigo che l'esser burlati; e gli animi umani non sono inclinati a beffare i miseri, eccetto se quei tali nella sua infelicità non si vantassero e fossero superbi e prosuntuosi. Deesi ancora aver rispetto a quei che sono universalmente grati ed amati da ognuno e potenti, perché talor col dileggiar questi poria l'uom acquistarsi inimicizie pericolose. Però conveniente cosa è beffare e ridersi dei vizi collocati in persone né misere tanto che movano compassione, né tanto scelerate che paia che meritino esser condennate a pena capitale, né tanto grandi che un loro piccol sdegno possa far gran danno.
XLVII.
Avete ancor a sapere che dai lochi donde si cavano motti da ridere, si posson medesimamente cavare sentenzie gravi per laudare e per biasimare, e talor con le medesime parole; come, per laudar un om liberale, che metta la robba sua in commune con gli amici, suolsi dire che ciò ch'egli ha non è suo; il medesimo si po dir per biasimo d'uno che abbia rubato, o per altre male arti acquistato quel che tiene. Dicesi ancor: «Colei è una donna d'assai», volendola laudar di prudenzia e bontà; il medesimo poria dir chi volesse biasimarla, accennando che fosse donna di molti. Ma piú spesso occorre servirsi dei medesimi lochi a questo proposito, che delle medesime parole; come a questi dí, stando a messa in una chiesa tre cavalieri ed una signora, alla quale serviva d'amore uno dei tre, comparve un povero mendico, e postosi avanti alla signora, cominciolle a dimandare elemosina; e cosí con molta importunità e voce lamentevole gemendo replicò piú volte la sua domanda: pur, con tutto questo essa non gli diede mai elimosina, né ancor gliela negò con fargli segno che s'andasse con Dio, ma stette sempre sopra di sé, come se pensasse in altro. Disse allor il cavalier inamorato ai dui compagni: «Vedete ciò ch'io posso sperare dalla mia signora, che è tanto crudele, che non solamente non dà elemosina a quel poveretto ignudo morto di fame, che con tanta passion e tante volte a lei la domanda, ma non gli dà pur licenzia; tanto gode di vedersi inanzi una persona che languisca in miseria e in van le domandi mercede». Rispose un dei dui: «Questa non è crudeltà, ma un tacito ammaestramento di questa signora a voi, per farvi conoscere che essa non compiace mai a chi le dimanda con molta importunità».
Rispose l'altro: «Anzi è un avvertirlo che, ancor ch'ella non dia quello che se gli domanda, pur le piace d'esserne pregata». Eccovi, dal non aver quella signora dato licenzia al povero, nacque un detto di severo biasmo, uno di modesta laude ed un altro di gioco mordace.
XLVIII.
Tornando adunque a dechiarir le sorti delle facezie appartenenti al proposito nostro, dico che, secondo me, di tre maniere se ne trovano, avvenga che messer Federico solamente di due abbia fatto menzione; cioè di quella urbana e piacevole narrazion continuata, che consiste nell'effetto d'una cosa; e della súbita ed arguta prontezza, che consiste in un detto solo. Però noi ve ne giungeremo la terza sorte, che chiamano «burle»; nelle quali intervengon le narrazioni lunghe e i detti brevi ed ancor qualche operazione. Quelle prime adunque, che consistono nel parlar continuato, son di manera tale, quasi che l'omo racconti una novella. E per darvi uno esempio: «In quei proprii giorni che morí papa Alessandro Sesto e fu creato Pio Terzo, essendo in Roma e nel Palazzo messer Antonio Agnello, vostro mantuano, signora Duchessa, e ragionando a punto della morte dell'uno e creazion dell'altro, e di ciò facendo varii giudici con certi suoi amici, disse: "Signori, fin al tempo di Catullo cominciarono le porte a parlare senza lingua ed udir senza orecchie ed in tal modo scoprir gli adultèri; ora, se ben gli omini non sono di tanto valor com'erano in que' tempi, forse che le porte, delle quai molte, almen qui in Roma, si fanno de' marmi antichi, hanno la medesima virtú che aveano allora; ed io per me credo che queste due ci saprian chiarir tutti i nostri dubbi, se noi da loro i volessimo sapere". Allor quei gentilomini stettero assai sospesi ed aspettavano dove la cosa avesse a riuscire; quando messer Antonio, seguitando pur l'andar inanzi e 'ndietro, alzò gli occhi, come all'improviso, ad una delle due porte della sala nella qual passeggiavano, e fermatosi un poco mostrò col dito a' compagni la inscrizion di quella, che era il nome di papa Alessandro, nel fin del quale era un V ed un I, perché significasse, come sapete, Sesto; e disse: "Eccovi che questa porta dice:
ALEXANDER PAPA VI, che vol significare, che è stato papa per la forza che egli ha usata e piú di quella si è valuto che della ragione. Or veggiamo se da quest'altra potemo intender qualche cosa del novo pontefice"; e voltatosi, come per ventura, a quell'altra porta, mostrò la inscrizione d'un N, dui PP ed un V, che significava NICOLAUS PAPA QUINTUS, e súbito disse: "Oimè, male nove; eccovi che questa dice: Nihil Papa Valet "».
XLIX.
Or vedete come questa sorte di facezie ha dello elegante e del bono, come si conviene ad uom di corte, o vero o finto che sia quello che si narra; perché in tal caso è licito fingere quanto all'uom piace, senza colpa; e dicendo la verità, adornarla con qualche bugietta, crescendo o diminuendo secondo 'l bisogno. Ma la grazia perfetta e vera virtú di questo è il dimostrar tanto bene e senza fatica, cosí coi gesti come con le parole, quello che l'omo vole esprimere, che a quelli che odono paia vedersi innanzi agli occhi far le cose che si narrano. E tanta forza ha questo modo cosí espresso, che talor adorna e fa piacer sommamente una cosa, che in se stessa non sarà molto faceta né ingeniosa. E benché a queste narrazioni si ricerchino i gesti e quella efficacia che ha la voce viva, pur ancor in scritto qualche volta si conosce la lor virtú. Chi non ride quando nella ottava giornata delle sue Cento novelle narra Giovan Boccaccio come ben si sforzava di cantare un Chirie ed un Sanctus il prete di Varlungo quando sentía la Belcolore in chiesa?
Piacevoli narrazioni sono ancora in quelle di Calandrino ed in molte altre.
Della medesima sorte pare che sia il far ridere contrafacendo o imitando, come noi vogliam dire; nella qual cosa fin qui non ho veduto alcuno piú eccellente di messer Roberto nostro da Bari -.
L.
- Questa non saria poca laude, - disse messer Roberto, se fosse vera, perch'io certo m'ingegnerei d'imitare piú presto il ben che 'l male, e s'io potessi assimigliarmi ad alcuni ch'io conosco, mi terrei per molto felice; ma dubito non saper imitare altro che le cose che fanno ridere, le quali voi dianzi avete detto che consistono in vicio -. Rispose messer Bernardo: - In vicio sí, ma che non sta male. E saper dovete che questa imitazione di che noi parliamo non po essere senza ingegno; perché, oltre alla manera d'accommodar le parole e i gesti, e mettere innanzi agli occhi degli auditori il volto e i costumi di colui di cui si parla, bisogna esser prudente ed aver molto rispetto al loco, al tempo ed alle persone con le quai si parla e non descendere alla buffoneria, né uscire de' termini; le quai cose voi mirabilmente osservate, e però estimo che tutte le conosciate. Ché in vero ad un gentilomo non si converria fare i volti, piangere e ridere, far le voci, lottare da sé a sé, come fa Berto, vestirsi da contadino in presenzia d'ognuno, come Strascino; e tai cose, che in essi son convenientissime, per esser quella la lor professione. Ma a noi bisogna per transito e nascostamente rubar questa imitazione, servando sempre la dignità del gentilomo, senza dir parole sporche o far atti men che onesti, senza distorgersi il viso o la persona cosí senza ritegno; ma far i movimenti d'un certo modo, che chi ode e vede per le parole e gesti nostri imagini molto piú di quello che vede ed ode, e perciò s'induca a ridere. Deesi ancor fuggir in questa imitazione d'esser troppo mordace nel riprendere, massimamente le deformità del volto o della persona; ché sí come i vicii del corpo dànno spesso bella materia di ridere a chi discretamente se ne vale, cosí l'usar questo modo troppo acerbamente è cosa non sol da buffone, ma ancor da inimico. Però bisogna, benché difficil sia, circa questo tener, come ho detto, la manera del nostro messer Roberto, che ognun contrafà, e non senza pungerl'in quelle cose dove hanno diffetti, ed in presenzia d'essi medesimi; e pur niuno se ne turba né par che possa averlo per male; e di questo non ne darò esempio alcuno, perché ogni dí in esso tutti ne vedemo infiniti.
LI.
Induce ancor molto a ridere, che pur si contiene sotto la narrazione, il recitar con bona grazia alcuni diffetti d'altri, mediocri però e non degni di maggior supplicio, come le sciocchezze talor simplici, talor accompagnate da un poco di pazzia pronta e mordace; medesimamente certe affettazioni estreme; talor una grande e ben composta bugia. Come narrò pochi dí sono messer Cesare nostro una bella sciocchezza, che fu, che ritrovandosi alla presenzia del podestà di questa terra, vide venire un contadino a dolersi che gli era stato rubato un asino; il qual, poi che ebbe detto della povertà sua e dell'inganno fattogli da quel ladro, per far piú grave la perdita sua, disse:
«Messere, se voi aveste veduto il mio asino, ancor piú conoscereste quanto io ho ragion di dolermi; ché quando aveva il suo basto addosso, parea propriamente un Tullio». Ed un de' nostri, incontrandosi in una mattà di capre, innanzi alle quali era un gran becco, si fermò e con un volto maraviglioso disse: «Guardate bel becco! pare un san Paulo». Un altro dice il signor Gasparo aver conosciuto, il qual, per essere antico servitore del duca Ercole di Ferrara, gli avea offerto dui suoi piccoli figlioli per paggi; e questi, prima che potessero venirlo a servire, erano tutti dui morti; la qual cosa intendendo il signore, amorevolmente si dolse col padre, dicendo che gli pesava molto perché in avergli veduti una sol volta gli eran parsi molto belli e discreti figlioli. E padre gli rispose: «Signor mio, voi non avete veduto nulla; ché da pochi giorni in qua erano riusciti molto piú belli e virtuosi ch'io non arei mai potuto credere e già cantavano insieme come dui sparvieri». E stando a questi dí un dottor de' nostri a vedere uno, che per giustizia era frustato intorno alla piazza, ed avendone compassione, perché 'l meschino, benché le spalle fieramente gli sanguinassero, andava cosí lentamente come se avesse passeggiato a piacere per passar tempo, gli disse:
«Camina, poveretto, ed esci presto di questo affanno». Allor il bon omo rivolto, guardandolo quasi con maraviglia, stette un poco senza parlare, poi disse: «Quando sarai frustato tu, anderai a modo tuo; ch'io adesso voglio andar al mio». Dovete ancora ricordarvi quella sciocchezza, che poco fa raccontò il signor Duca di quell'abbate; il quale, essendo presente un dí che 'l duca Federico ragionava di ciò che si dovesse far di cosí gran quantità di terreno, come s'era cavata per far i fondamenti di questo palazzo, che tuttavia si lavorava, disse: «Signor mio, io ho pensato benissimo dove e' s'abbia a mettere. Ordinate che si faccia una grandissima fossa e quivi reponere si potrà, senza altro impedimento». Rispose il duca Federico, non senza risa: «E dove metteremo noi quel terreno che si caverà di questa fossa?» Suggiunse l'abbate: «Fatela far tanto grande, che l'uno e l'altro vi stia».
Cosí, benché il Duca piú volte replicasse, che quanto la fossa si facea maggiore, tanto piú terren si cavava, mai non gli poté caper nel cervello ch'ella non si potesse far tanto grande, che l'uno e l'altro metter non vi si potesse, né mai rispose altro se non: «Fatela tanto maggiore». Or vedete che bona estimativa avea questo abbate -.
LII.
Disse allora messer Pietro Bembo: - E perché non dite voi quella del vostro commissario fiorentino? il quale era assediato nella Castellina dal duca di Calavria, e dentro essendosi trovato un giorno certi passatori avvelenati, che erano stati tirati dal campo, scrisse al Duca che, se la guerra s'aveva da far cosí crudele, esso ancor farebbe porre il medicame in su le pallotte dell'artiglieria e poi chi n'avesse il peggio, suo danno -.
Rise messer Bernardo e disse: - Messer Pietro, se voi non state cheto, io dirò tutte quelle che io stesso ho vedute e udite de' vostri Veneziani che non son poche, e massimamente quando voglion fare il cavalcatore. - Non dite, di grazia, - rispose messer Pietro, - che io ne tacerò due altre bellissime che so de' Fiorentini -. Disse messer Bernardo: - Deono esser piú presto Sanesi, che spesso vi cadeno. Come a questi dí uno, sentendo leggere in consiglio certe lettere, nelle quali, per non dir tante volte il nome di colui di chi si parlava, era replicato questo termine «il prelibato», disse a colui che leggeva: «Fermatevi un poco qui, e ditemi: cotesto Prelibato, è egli amico del nostro commune?» - Rise messer Pietro, poi disse: - Io parlo de' Fiorentini e non de' Sanesi. - Dite adunque liberamente, - suggiunse la signora Emilia, - e non abbiate tanti rispetti -. Seguitò messer Pietro: - Quando i signori Fiorentini faceano la guerra contra' Pisani, trovaronsi talor per le molte spese esausti di denari; e parlandosi un giorno in consiglio del modo di trovarne per i bisogni che occorreano, dopo l'essersi proposto molti partiti, disse un cittadino de' piú antichi: «Io ho pensato dui modi, per li quali senza molto impazzo presto potrem trovar bona somma di denari; e di questi l'uno è che noi, perché non avemo le piú vive intrate che le gabelle delle porte di Firenze, secondo che v'abbiam undeci porte, súbito ve ne facciam far undeci altre, e cosí radoppiaremo quella entrata. L'altro modo è, che si dia ordine che súbito in Pistoia e Prato s'aprino le zecche, né piú né meno come in Firenze, e quivi non si faccia altro, giorno e notte, che batter denari e tutti siano ducati d'oro; e questo partito, secondo me, è piú breve e ancor de minor spesa» -.
LIII.
Risesi molto del sottil avvedimento di questo cittadino; e, racchetato il riso, disse la signora Emilia: - Comportarete voi, messer Bernardo, che messer Pietro burli cosí i Fiorentini senza farne vendetta? - Rispose, pur ridendo, messer Bernardo: Io gli perdono questa ingiuria, perché s'egli m'ha fatto dispiacere in burlar i Fiorentini, hammi compiacciuto in obedir voi, il che io ancor farei sempre -. Disse allor messer Cesare: Bella grosseria udi' dir io da un bresciano, il quale, essendo stato quest'anno a Venezia alla festa dell'Ascensione, in presenza mia narrava a certi suoi compagni le belle cose che v'avea vedute; e quante mercanzie e quanti argenti, speziarie, panni e drappi v'erano; poi la Signoria con gran pompa esser uscita a sposar il mare in Bucentoro, sopra il quale erano tanti gentilomini ben vestiti, tanti suoni e canti, che parea un paradiso; e dimandandogli un di que' suoi compagni, che sorte di musica piú gli era piaciuta di quelle che avea udite, disse: «Tutte eran bone; pur tra l'altre io vidi uno sonar con certa tromba strana, che ad ogni tratto se ne ficcava in gola piú di dui palmi e poi súbito la cavava e di novo la reficcava; che non vedeste mai la piú gran maraviglia» -. Risero allora tutti, conoscendo il pazzo pensier di colui, che s'avea imaginato che quel sonatore si ficcasse nella gola quella parte del trombone, che rientrando si nasconde.
LIV.
Suggiunse allor messer Bernardo: - Le affettazioni poi mediocri fanno fastidio, ma quando son fuor di misura inducono da ridere assai; come talor se ne sentono di bocca d'alcuni circa la grandezza, circa l'esser valente, circa la nobilità; talor di donne circa la bellezza, circa la delicatura. Come a questi giorni fece una gentildonna, la qual stando in una gran festa di mala voglia e sopra di sé, le fu domandato a che pensava che star la facesse cosí mal contenta; ed essa rispose: «Io pensava ad una cosa, che sempre che mi si ricorda mi dà grandissima noia, né levar me la posso del core; e questo è, che avendo il dí del giudicio universale tutti i corpi a resuscitare e comparir ignudi innanzi al tribunal di Cristo, io non posso tollerar l'affanno che sento, pensando che il mio ancor abbia ad esser veduto ignudo». Queste tali affettazioni, perché passano il grado, inducono piú riso che fastidio. Quelle belle bugie mo, cosí ben assettate, come movano a ridere, tutti sapete. E quell'amico nostro, che non ce ne lassa mancare, a questi dí me ne raccontò una molto eccellente -.
LV.
Disse allora il Magnifico Iuliano: - Sia come si vole, né piú eccellente né piú sottile non po ella esser di quella che l'altro giorno per cosa certissima affermava un nostro toscano, mercatante luchese. - Ditela, - suggiunse la signora Duchessa -. Rispose il Magnifico Iuliano, ridendo: - Questo mercatante, sí come egli dice, ritrovandosi una volta in Polonia deliberò di comprare una quantità di zibellini, con opinion di portargli in Italia e farne un gran guadagno; e dopo molte pratiche, non potendo egli stesso in persona andar in Moscovia per la guerra che era tra 'l re di Polonia e 'l duca di Moscovia, per mezzo d'alcuni del paese ordinò che un giorno determinato certi mercatanti moscoviti coi lor zibellini venissero ai confini di Polonia e promise esso ancor di trovarvisi, per praticar la cosa. Andando adunque il luchese coi suoi compagni verso Moscovia, giunse al Boristene, il quale trovò tutto duro di ghiaccio come un marmo, e vide che i Moscoviti, li quali per lo suspetto della guerra dubitavano essi ancor de' Poloni, erano già sull'altra riva, ma non s'accostavano, se non quanto era largo il fiume. Cosí conosciutisi l'un l'altro dopo alcuni cenni, li Moscoviti cominciarono a parlar alto e domandare il prezzo che volevano de' loro zibellini, ma tanto era estremo il freddo, che non erano intesi; perché le parole, prima che giungessero all'altra riva, dove era questo luchese e i suoi interpreti, si gelavano in aria e vi restavano ghiacciate e prese di modo, che quei Poloni che sapeano il costume, presero per partito di far un gran foco proprio al mezzo del fiume, perché a lor parere quello era il termine dove giungeva la voce ancor calda prima che ella fosse dal ghiaccio intercetta; ed ancora il fiume era tanto sodo, che ben poteva sostenere il foco. Onde, fatto questo, le parole, che per spacio d'un'ora erano state ghiacciate, cominciarono a liquefarsi e descender giú mormorando, come la neve dai monti il maggio; e cosí súbito furono intese benissimo, benché già gli omini di là fossero partiti; ma perché a lui parve che quelle parole dimandassero troppo gran prezzo per i zibellini, non volle accettar il mercato e cosí se ne ritornò senza -.
LVI.
Risero allora tutti; e messer Bernardo, - In vero, - disse, quella ch'io voglio raccontarvi non è tanto sottile; pur è bella, ed è questa. Parlandosi pochi dí sono del paese o mondo novamente trovato dai marinari portoghesi, e dei varii animali e d'altre cose che essi di colà in Portogallo riportano, quello amico del qual v'ho detto affermò aver veduto una simia di forma diversissima da quelle che noi siamo usati di vedere, la quale giocava a scacchi eccellentissimamente; e, tra l'altre volte, un dí essendo innanzi al re di Portogallo il gentilom che portata l'avea e giocando con lei a scacchi, la simia fece alcuni tratti sottilissimi, di sorte che lo strinse molto; in ultimo gli diede scaccomatto; per che il gentilomo turbato, come soglion esser tutti quelli che perdono a quel gioco, prese in mano il re, che era assai grande, come usano i Portoghesi, e diede in su la testa alla simia una gran scaccata; la qual súbito saltò da banda, lamentandosi forte, e parea che domandasse ragione al Re del torto che le era fatto. Il gentilomo poi la reinvitò a giocare; essa avendo alquanto ricusato con cenni, pur si pose a giocar di novo e, come l'altra volta avea fatto, cosí questa ancora lo ridusse a mal termine; in ultimo, vedendo la simia poter dar scaccomatto al gentilom, con una nova malizia volse assicurarsi di non esser piú battuta; e chetamente, senza mostrar che fosse suo fatto, pose la man destra sotto 'l cubito sinistro del gentilomo, il quale esso per delicatura riposava sopra un guancialetto di taffetà, e prestamente levatoglielo, in un medesimo tempo con la man sinistra gliel diede matto di pedina e con la destra si pose il guancialetto in capo, per farsi scudo alle percosse; poi fece un salto inanti al Re allegramente, quasi per testimonio della vittoria sua. Or vedete se questa simia era savia, avveduta e prudente -. Allora messer Cesare Gonzaga, - Questa è forza, - disse, - che tra l'altre simie fosse dottore, e di molta autorità; e penso che la Republica delle simie indiane la mandasse in Portogallo per acquistar riputazione in paese incognito -. Allora ognun rise e della bugia e della aggiunta fattagli per messer Cesare.
LVII.
Cosí, seguitando il ragionamento, disse messer Bernardo: - Avete adunque inteso delle facezie che sono nell'effetto e parlar continuato, ciò che m'occorre; perciò ora è ben dire di quelle che consistono in un detto solo ed hanno quella pronta acutezza posta brevemente nella sentenzia o nella parola; e sí come in quella prima sorte di parlar festivo s'ha da fuggir, narrando ed imitando, di rassimigliarsi ai buffoni e parassiti ed a quelli che inducono altrui a ridere per le lor sciocchezze; cosí in questo breve devesi guardare il cortegiano di non parer maligno e velenoso, e dir motti ed arguzie solamente per far dispetto e dar nel core; perché tali omini spesso per diffetto della lingua meritamente hanno castigo in tutto 'l corpo.
LVIII.
Delle facezie adunque pronte, che stanno in un breve detto, quelle sono acutissime, che nascono dalla ambiguità, benché non sempre inducano a ridere, perché piú presto sono laudate per ingeniose che per ridicule: come pochi dí sono disse il nostro messer Annibal Paleotto ad uno che gli proponea un maestro per insegnar grammatica a' suoi figlioli, e poi che gliel'ebbe laudato per molto dotto, venendo al salario disse che oltre ai denari volea una camera fornita per abitare e dormire, perché esso non avea letto: allor messer Annibal súbito rispose: «E come po egli esser dotto, se non ha letto?» Eccovi come ben si valse del vario significato di quello «non aver letto». Ma perché questi motti ambigui hanno molto dell'acuto, per pigliar l'omo le parole in significato diverso da quello che le pigliano tutti gli altri, pare, come ho detto, che piú presto movano maraviglia che riso, eccetto quando sono congiunti con altra manera di detti. Quella sorte adunque di motti che piú s'usa per far ridere è quando noi aspettiamo d'udir una cosa, e colui che risponde ne dice un'altra e chiamasi «fuor d'opinione». E se a questo è congiunto lo ambiguo, il motto diventa salsissimo; come l'altr'ieri, disputandosi di fare un bel «mattonato» nel camerino della signora Duchessa, dopo molte parole voi, Ioan Cristoforo, diceste: «Se noi potessimo avere il vescovo di Potenzia e farlo ben spianare, saria molto a proposito, perché egli è il piú bel "matto nato" ch'io vedessi mai». Ognun rise molto, perché dividendo quella parola «mattonato» faceste lo ambiguo; poi dicendo che si avesse a spianare un vescovo e metterlo per pavimento d'un camerino, fu for di opinione di chi ascoltava; cosí riuscí il motto argutissimo e risibile.
LIX.
Ma dei motti ambigui sono molte sorti; però bisogna essere avvertito ed uccellar sottilissimamente alle parole, e fuggir quelle che fanno il motto freddo, o che paia che siano tirate per i capelli, o vero, secondo che avemo detto, che abbian troppo dello acerbo. Come ritrovandosi alcuni compagni in casa d'un loro amico, il quale era cieco da un occhio, e invitando quel cieco la compagnia a restar quivi a desinare, tutti si partirono eccetto uno; il qual disse: «Ed io vi restarò, perché veggo esserci vuoto il loco per uno»; e cosí col dito mostrò quella cassa d'occhio vuota. Vedete che questo è acerbo e discortese troppo, perché morse colui senza causa e senza esser stato esso prima punto, e disse quello che dir si poria contra tutti i ciechi; e tai cose universali non dilettano, perché pare che possano essere pensate. E di questa sorte fu quel detto ad un senza naso: «E dove appicchi tu gli occhiali?» o:
«Con che fiuti tu l'anno le rose?»
LX.
Ma tra gli altri motti, quegli hanno bonissima grazia, che nascono quando dal ragionar mordace del compagno l'omo piglia le medesime parole nel medesimo senso e contra di lui le rivolge, pungendolo con le sue proprie arme; come un litigante, a cui in presenzia del giudice dal suo avversario fu detto: «Che bai tu?», súbito rispose: «Perché veggo un ladro». E di questa sorte fu ancor, quando Galeotto da Narni, passando per Siena, si fermò in una strada a domandar dell'osteria; vedendolo un Sanese cosí corpulento come era, disse ridendo: «Gli altri portano le bolge dietro, e costui le porta davanti».
Galeotto súbito rispose: «Cosí si fa in terra de' ladri».
LXI.
Un'altra sorte è ancor, che chiamiamo «bischizzi»; e questa consiste nel mutare o vero accrescere o minuire una lettera o sillaba, come colui che disse: «Tu dèi esser piú dotto nella lingua "latrina", che nella greca». Ed a voi, Signora, fu scritto nel titulo d'una lettera: «Alla signora Emilia impia». E' ancora faceta cosa interporre un verso o piú, pigliandolo in altro proposito che quello che lo piglia l'autore, o qualche altro detto vulgato; talor al medesimo proposito, ma mutando qualche parola; come disse un gentilomo che avea una brutta e despiacevole moglie, essendogli domandato come stava, rispose: «Pensalo tu, ché Furiarum maxima iuxta me cubat». E messer Ieronimo Donato, andando alle Stazioni di Roma la Quadragesima insieme con molti altri gentilomini, s'incontrò in una brigata di belle donne romane, e dicendo uno di quei gentilomini:
Quot coelum stellas, tot habet tua Roma puellas;
súbito suggiunse:
Pascua quotque haedos, tot habet tua Roma cinaedos,
mostrando una compagnia di giovani, che dall'altra banda venivano. Disse ancora messer Marc'Antonio dalla Torre al vescovo di Padoa di questo modo:
«Essendo un monasterio di donne in Padoa sotto la cura d'un religioso estimato molto di bona vita e dotto, intervenne che 'l padre, praticando nel monasterio domesticamente e confessando spesso le madri, cinque d'esse, che altrettante non ve n'erano, ingravidarono; e scoperta la cosa, il padre volse fuggire e non seppe; il vescovo lo fece pigliare ed esso súbito confessò, per tentazion del diavolo aver ingravidate quelle cinque monache; di modo che monsignor il vescovo era deliberatissimo castigarlo acerbamente. E perché costui era dotto, avea molti amici, i quali tutti fecer prova d'aiutarlo, e con gli altri ancor andò messer Marc'Antonio al vescovo per impetragli qualche perdono. Il vescovo per modo alcuno non gli volea udire; al fine facendo pur essi instanzia, e raccommandando il reo ed escusandolo per la commodità del loco, per la fragilità umana e per molte altre cause, disse il vescovo: "Io non ne voglio far niente, perché di questo ho io a render ragione a Dio"; e replicando essi, disse il vescovo: "Che responderò io a Dio, il dí del giudicio quando mi dirà:
Redde rationem villicationis tuae? - rispose allor súbito messer Marc'Antonio: "Monsignor mio, quello che dice lo Evangelio: Domine, quinque talenta tradidisti mihi; ecce alia quinque superlucratus sum. Allora il vescovo non si poté tenere di ridere, e mitigò assai l'ira sua e la pena preparata al malfattore».
LXII.
E' medesimamente bello interpretare i nomi e finger qualche cosa, perché colui di chi si parla si chiami cosí, o vero perché una qualche cosa si faccia; come pochi dí sono domandando il Proto da Luca, il qual, come sapete, è molto piacevole, il vescovato di Caglio, il Papa gli rispose: «Non sai tu che "caglio" in lingua spagnola vol dire "taccio"? e tu sei un cianciatore; però non si converria ad un vescovo non poter mai nominare il suo titulo senza dir bugia; or "caglia" adunque». Quivi diede il Proto una risposta, la quale, ancor che non fosse di questa sorte, non fu però men bella della proposta; ché avendo replicato la domanda sua piú volte e vedendo che non giovava, in ultimo disse: «Padre Santo, se la Santità vostra mi dà questo vescovato, non sarà senza sua utilità, perch'io le lassarò dui officii». «E che offici hai tu da lassare?», disse il Papa. Rispose il Proto: «Io lasserò l'officio grande e quello della Madonna». Allora non poté il Papa, ancor che fosse severissimo, tenersi di ridere. Un altro ancor a Padoa disse che Calfurnio si dimandava cosí, perché solea scaldare i forni. E domandando io un giorno a Fedra perché era, che facendo la Chiesa il Vener santo orazioni non solamente per i cristiani, ma ancor per i pagani e per i giudei, non si facea menzione dei cardinali, come dei vescovi e d'altri prelati, risposemi che i cardinali s'intendevano in quella orazione che dice: Oremus pro haereticis et scismaticis. E 'l conte Ludovico nostro disse che io riprendeva una signora che usava un certo liscio che molto lucea, perché in quel volto, quando era acconcio, cosí vedeva me stesso come nello specchio; e però, per esser brutto, non arei voluto vedermi. Di questo modo fu quello di messer Camillo Palleotto a messer Antonio Porcaro, il qual parlando d'un suo compagno, che confessandosi diceva al sacerdote che digiunava volentieri ed andava alle messe ed agli offici divini e facea tutti i beni del mondo, disse: «Costui in loco d'accusarsi si lauda»; a cui rispose messer Camillo: «Anzi si confessa di queste cose, perché pensa che il farle sia gran peccato». Non vi ricorda come ben disse l'altro giorno il signor Prefetto quando Giovantomaso Galeotto si maravigliava d'un che domandava ducento ducati d'un cavallo? perché, dicendo Giovantomaso che non valeva un quattrino e che, tra gli altri diffetti, fuggiva dall'arme tanto, che non era possibile farglielo accostare, disse il signor Prefetto, volendo riprendere colui di viltà: «Se 'l cavallo ha questa parte di fuggir dall'arme, maravegliomi che egli non ne domandi mille ducati».
LXIII.
Dicesi ancora qualche volta una parola medesima, ma ad altro fin di quello che s'usa. Come essendo il signor Duca per passar un fiume rapidissimo e dicendo ad un trombetta: «Passa», il trombetta si voltò con la berretta in mano e con atto di reverenzia disse: «Passi la Signoria vostra». E' ancor piacevol manera di motteggiare, quando l'omo par che pigli le parole e non la sentenzia di colui che ragiona; come quest'anno un Tedesco a Roma, incontrando una sera il nostro messer Filippo Beroaldo, del qual era discipulo, disse: «Domine magister, Deus det vobis bonum sero»; e 'l Beroaldo súbito rispose: «Tibi malum cito». Essendo ancor a tavola col Gran Capitano Diego de Chignones, disse un altro Spagnolo, che pur vi mangiava, per domandar da bere: «Vino»; rispose Diego, «Y no lo conocistes», per mordere colui d'esser marano. Disse ancor messer lacomo Sadoletto al Beroaldo, che affermava voler in ogni modo andare a Bologna: «Che causa v'induce cosí adesso lasciar Roma, dove son tanti piaceri, per andar a Bologna, che tutta è involta nei travagli?» Rispose il Beroaldo: «Per tre conti m'è forza andar a Bologna», e già aveva alzati tre dita della man sinistra per assignar tre cause dell'andata sua; quando messer Iacomo súbito l'interruppe e disse:
«Questi tre conti che vi fanno andare a Bologna sono: l'uno il conte Ludovico da San Bonifacio, l'altro il conte Ercole Rangone, il terzo il conte de' Pepoli». Ognun allora rise, perché questi tre conti eran stati discipuli del Beroaldo e bei giovani, e studiavano in Bologna. Di questa sorte di motti adunque assai si ride, perché portan seco risposte contrarie a quello che l'omo aspetta d'udire, e naturalmente dilettaci in tai cose il nostro errore medesimo; dal quale quando ci trovamo ingannati di quello che aspettiamo, ridemo.
LXIV.
Ma i modi del parlare e le figure che hanno grazia nei ragionamenti gravi e severi, quasi sempre ancor stanno ben nelle facezie e giochi. Vedete che le parole contraposte dànno ornamento assai, quando una clausola contraria s'oppone all'altra. Il medesimo modo spesso è facetissimo. Come un Genoese, il quale era molto prodigo nello spendere, essendo ripreso da un usuraio avarissimo che gli disse: «E quando cessarai tu mai di gittar via le tue facultà?», «Allor», rispose, «che tu di robar quelle d'altri». E perché, come già avemo detto, dai lochi donde si cavano facezie che mordono, dai medesimi spesso si possono cavar detti gravi che laudino, per l'uno e l'altro effetto è molto grazioso e gentil modo quando l'omo consente o conferma quello che dice colui che parla, ma lo interpreta altramente di quello che esso intende. Come a questi giorni, dicendo un prete di villa la messa ai suoi populani, dopo l'aver publicato le feste di quella settimana, cominciò in nome del populo la confession generale; e dicendo: «Io ho peccato in mal fare, in mal dire, in mal pensare», e quel che séguita, facendo menzion de tutti i peccati mortali un compare, e molto domestico del prete, per burlarlo disse ai circunstanti: «Siate testimonii tutti di quello che per sua bocca confessa aver fatto perch'io intendo notificarlo al vescovo». Questo medesimo modo usò Sallaza dalla Pedrada per onorar una signora, con la quale parlando, poi che l'ebbe laudata, oltre le virtuose condizioni, ancor di bellezza, ed essa rispostogli che non meritava tal laude, per esser già vecchia, le disse:
«Signora, quello che di vecchio avete, non è altro che lo assimigliarvi agli angeli, che furono le prime e piú antiche creature che mai formasse Dio».
LVX.
Molto serveno ancor cosí i detti giocosi per pungere, come i detti gravi per laudare, le metafore bene accomodate, e massimamente se son risposte e se colui che risponde persiste nella medesima metafora detta dall'altro. E di questo modo fu risposto a messer Palla de' Strozzi, il quale, essendo forauscito di Fiorenza e mandandovi un suo per altri negozi, gli disse quasi minacciando: «Dirai da mia parte a Cosimo de' Medici che la gallina cova». Il messo fece l'ambasciata impostagli; e Cosimo, senza pensarvi, súbito gli rispose: «E tu da mia parte dirai a messer Palla che le galline mal possono covar fuor del nido». Con una metafora laudò ancor messer Camillo Porcaro gentilmente il signor Marc'Antonio Colonna; il quale, avendo inteso che messer Camillo in una sua orazione aveva celebrato alcuni signori italiani famosi nell'arme e, tra gli altri, d'esso aveva fatto onoratissima menzione, dopo l'averlo ringraziato. gli disse: «Voi, messer Camillo, avete fatto degli amici vostri quello che de' suoi denari talor fanno alcuni mercatanti, li quali quando si ritrovano aver qualche ducato falso, per spazzarlo pongon quel solo tra molti boni ed in tal modo lo spendeno; cosí voi, per onorarmi, bench'io poco vaglia, m'avete posto in compagnia di cosí virtuosi ed eccellenti signori, ch'io col merito loro forsi passerò per buono». Rispose allor messer Camillo: «Quelli che falsifican li ducati sogliono cosí ben dorarli, che all'occhio paiono molto piú belli che i boni; però se cosí si trovassero alchimisti d'omini, come si trovano de' ducati, ragion sarebbe suspettar che voi foste falso, essendo, come sète, di molto piú bello e lucido metallo, che alcun degli altri». Eccovi che questo loco è commune all'una e l'altra sorte de' motti; e cosí sono molt'altri, dei quali si potrebbon dare infiniti esempi, e massimamente in detti gravi; come quello che disse il Gran Capitano, il quale, essendosi posto a tavola ed essendo già occupati tutti i lochi, vide che in piedi erano restati dui gentilomini italiani i quali avean servito nella guerra molto bene; e súbito esso medesimo si levò e fece levar tutti gli altri e far loco a que' doi e disse: «Lassate sentare a mangiar questi signori, che se essi non fossero stati, noi altri non aremmo ora che mangiare». Disse ancor a Diego Garzia, che lo confortava a levarsi d'un loco pericoloso, dove batteva l'artigliaria:
«Dapoi che Dio non ha messo paura nell'animo vostro, non la vogliate voi metter nel mio». E 'l re Luigi, che oggi è re di Francia, essendogli, poco dapoi che fu creato re, detto che allor era il tempo di castigar i suoi nemici, che lo aveano tanto offeso mentre era duca d'Orliens, rispose che non toccava al re di Francia vendicar l'ingiurie fatte al duca d'Orliens.
LVXI.
Si morde ancora spesso facetamente con una certa gravità senza indur riso:
come disse Gein Ottomanni, fratello del Gran Turco, essendo pregione in Roma, che 'l giostrare, come noi usiamo in Italia, gli parea troppo per scherzare e poco per far da dovero. E disse, essendogli referito quanto il re Ferrando minore fosse agile e disposto della persona nel correre, saltare, volteggiare e tai cose, che nel suo paese i schiavi facevano questi esercizi, ma i signori imparavano da fanciulli la liberalità e di questa si laudavano.
Quasi ancora di tal manera, ma un poco piú ridiculo, fu quello che disse l'arcivescovo di Fiorenza al cardinale Alessandrino, che gli omini non hanno altro che la robba, il corpo e l'anima: la robba è lor posta in travaglio dai iurisconsulti, il corpo dai medici e l'anima dai teologi -. Rispose allor il Magnifico Iuliano: - A questo giunger si potrebbe quello che diceva Nicoletto, cioè che di raro si trova mai iurisconsulto che litighi, né medico che pigli medicina, né teologo che sia bon cristiano -.
LVXII.
Rise messer Bernardo, poi suggiunse: - Di questi sono infiniti esempi, detti da gran signori ed omini gravissimi. Ma ridesi ancora spesso delle comparazioni, come scrisse il nostro Pistoia a Serafino: «Rimanda il valigion che t'assimiglia»; ché, se ben vi ricordate, Serafino s'assimigliava molto ad una valigia. Sono ancora alcuni che si dilettano di comparar omini e donne a cavalli, a cani, ad uccelli e spesso a casse, a scanni, a carri, a candeglieri; il che talor ha grazia, talor è freddissimo. Però in questo bisogna considerare il loco, il tempo, le persone e l'altre cose che già tante volte avemo detto -. Allor il signor Gaspar Pallavicino: - Piacevole comparazione, - disse, - fu quella che fece il signor Giovanni Gonzaga nostro, di Alessandro Magno al signor Alessandro suo figliolo. - Io non lo so - rispose messer Bernardo. Disse il signor Gasparo: - Giocava il signor Giovanni a tre dadi e, come è sua usanza, aveva perduto molti ducati e tuttavia perdea; ed il signor Alessandro suo figliolo, il quale, ancor che sia fanciullo, non gioca men volentieri che 'l padre, stava con molta attenzione mirandolo, e parea tutto tristo. Il Conte di Pianella, che con molti altri gentilomini era presente, disse: «Eccovi, signore, che 'l signor Alessandro sta mal contento della vostra perdita e si strugge aspettando pur che vinciate, per aver qualche cosa di vinta; però cavatilo di questa angonia, e prima che perdiate il resto donategli almen un ducato, acciò che esso ancor possa andare a giocare co' suoi compagni». Disse allor il signor Giovanni: «Voi v'ingannate, perché Alessandro non pensa a cosí piccol cosa; ma, come si scrive che Alessandro Magno, mentre che era fanciullo, intendendo che Filippo suo padre avea vinto una gran battaglia ed acquistato un certo regno, cominciò a piangere, ed essendogli domandato perché piangeva rispose, perché dubitava che suo padre vincerebbe tanto paese, che non lassarebbe che vincere a lui; cosí ora Alessandro mio figliolo si dole e sta per pianger vedendo ch'io suo padre perdo, perché dubita ch'io perda tanto, che non lassi che perder a lui» -.
LVXIII.
E quivi essendosi riso alquanto, suggiunse messer Bernardo: - E' ancora da fuggire che 'l motteggiar non sia impio; ché la cosa passa poi al voler esser arguto nel biastemmare e studiare di trovare in ciò novi modi; onde di quello che l'omo merita non solamente biasimo, ma grave castigo, par che ne cerchi gloria; il che è cosa abominevole; e però questi tali, che voglion mostrar di esser faceti con poca reverenzia di Dio, meritano esser cacciati dal consorzio d'ogni gentilomo. Né meno quelli che son osceni e sporchi nel parlare e che in presenzia di donne non hanno rispetto alcuno, e pare che non piglino altro piacer che di farle arrossire di vergogna, e sopra di questo vanno cercando motti ed arguzie. Come quest'anno in Ferrara ad un convito in presenzia di molte gentildonne ritrovandosi un Fiorentino ed un Sanese, i quali per lo piú, come sapete, sono nemici, disse il Sanese per mordere il Fiorentino: «Noi abbiam maritato Siena allo Imperatore ed avemogli dato Fiorenza in dota»; e questo disse, perché di que' dí s'era ragionato ch'e Sanesi avean dato una certa quantità di denari allo Imperatore ed esso aveva tolto la lor protezione. Rispose súbito il Fiorentino: «Siena sarà la prima cavalcata (alla franzese, ma disse il vocabulo italiano); poi la dote si litigherà a bell'aggio». Vedete che il motto fu ingenioso ma, per esser in presenzia di donne, diventò osceno e non conveniente -.
LXIX.
Allora il signor Gaspar Pallavicino, - Le donne, - disse, non hanno piacere di sentir ragionar d'altro; e voi volete levarglielo. Ed io per me sonomi trovato ad arrossirmi di vergogna per parole dettemi da donne, molto piú spesso che da omini. - Di queste tai donne non parlo io, - disse messer Bernardo; - ma di quelle virtuose, che meritano riverenzia ed onore da ogni gentilomo -. Disse il signor Gasparo: - Bisogneria ritrovare una sottil regola per cognoscerle, perché il piú delle volte quelle che sono in apparenzia le migliori in effetto sono il contrario -. Allor messer Bernardo ridendo disse: - Se qui presente non fosse il signor Magnifico nostro, il quale in ogni loco è allegato per protettor delle donne, io pigliarei l'impresa di rispondervi; ma non voglio far ingiuria a lui -. Quiv gnora Emilia, pur ridendo, disse: - Le donne non hanno bisogno di diffensore alcuno contra accusatore di cosí poca autorità; però lasciate pur il signor Gasparo in questa perversa opinione, e nata piú presto dal suo non aver mai trovato donna che l'abbia voluto vedere, che da mancamento alcuno delle donne; e seguitate voi il ragionamento delle facezie -.
LXX.
Allora messer Bernardo, - Veramente, signora, - disse, - omai parmi aver detto de' molti lochi onde cavar si possono motti arguti, i quali poi hanno tanto piú grazia quanto sono accompagnati da una bella narrazione. Pur ancor molt'altri si potrian dire; come quando, o per accrescere o per minuire, si dicon cose che eccedeno incredibilmente la verisimilitudine; e di questa sorte fu quella che disse Mario da Volterra d'un prelato, che si tenea tanto grand'omo, che quando egli entrava in san Pietro s'abbassava per non dare della testa nell'architravo della porta. Disse ancora il Magnifico nostro qui che Golpino suo servitore era tanto magro e secco, che una mattina, soffiando sott'il foco per accenderlo, era stato portato dal fumo su per lo camino insino alla cima; ed essendosi per sorte traversato ad una di quelle finestrette, aveva aúto tanto di ventura, che non era volato via insieme con esso. Disse ancor messer Augustino Bevazzano che uno avaro, il quale non aveva voluto vendere il grano mentre che era caro, vedendo che poi s'era molto avvilito, per disperazione s'impiccò ad un trave della sua camera; ed avendo un servitor suo sentito il strepito, corse e vide il patron impiccato, e prestamente tagliò la fune e cosí liberollo dalla morte; da poi l'avaro, tornato in sé, volse che quel servitor gli pagasse la sua fune che tagliata gli avea. Di questa sorte pare ancor che sia quello che disse Lorenzo de' Medici ad un buffon freddo: «Non mi faresti ridere, se mi solleticasti».
E medesimamente rispose ad un altro sciocco, il quale una mattina l'avea trovato in letto molto tardi, e gli rimproverava il dormir tanto, dicendogli:
«Io a quest'ora son stato in Mercato Novo e Vecchio, poi fuor della Porta a san Gallo, intorno alle mura a far esercizio ed ho fatto mill'altre cose; e voi ancor dormite?» Disse allora Lorenzo: «Piú vale quello che ho sognato in un'ora io, che quello che avete fatto in quattro voi».
LXXI.
E' ancor bello, quando con una risposta l'omo riprende quello che par che riprendere non voglia. Come il marchese Federico di Mantua, padre della signora Duchessa nostra, essendo a tavola con molti gentilomini, un d'essi, dapoi che ebbe mangiato tutto un minestro, disse: «Signor Marchese, perdonatimi»; e cosí detto, cominciò a sorbire quel brodo che gli era avanzato. Allora il Marchese súbito disse: «Domanda pur perdono ai porci, ché a me non fai tu ingiuria alcuna». Disse ancora messer Nicolò Leonico per tassar un tiranno ch'avea falsamente fama di liberale: «Pensate quanta liberalità regna in costui, che non solamente dona la robba sua, ma ancor l'altrui».
LXXII.
Assai gentil modo di facezie è ancor quello che consiste in una certa dissimulazione, quando si dice una cosa e tacitamente se ne intende un'altra; non dico già di quella manera totalmente contraria, come se ad un nano si dicesse gigante, e ad un negro, bianco; o vero, ad un bruttissimo, bellissimo, perché son troppo manifeste contrarietà, benché queste ancor alcuna volta fanno ridere; ma quando con un parlar severo e grave giocando si dice piacevolmente quello che non s'ha in animo. Come dicendo un gentilomo una espressa bugia a messer Augustin Foglietta ed affermandola con efficacia, perché gli parea pur che esso assai difficilmente la credesse, disse in ultimo messer Augustino: «Gentilomo, se mai spero aver piacer da voi, fatemi tanta grazia che siate contento, ch'io non creda cosa che voi dicate». Replicando pur costui, e con sacramento, esser la verità, in fine disse: «Poiché voi pur cosí volete, io lo crederò per amor vostro, perché in vero io farei ancor maggior cosa per voi». Quasi di questa sorte disse don Giovanni di Cardona d'uno che si voleva partir di Roma: «Al parer mio costui pensa male; perché è tanto scelerato, che stando in Roma ancor col tempo poria esser cardinale». Di questa sorte è ancor quello che disse Alfonso Santa Croce; il qual, avendo avuto poco prima alcuni oltraggi dal Cardinale di Pavia, e passeggiando fuor di Bologna con alcuni gentilomini presso al loco dove si fa la giustizia, e vedendovi un omo poco prima impiccato, se gli rivoltò con un certo aspetto cogitabundo e disse tanto forte che ognun lo sentí: «Beato tu, che non hai che fare col Cardinale di Pavia!»
LXXIII.
E questa sorte di facezie che tiene dell'ironico pare molto conveniente ad omini grandi, perché è grave e salsa e possi usare nelle cose giocose ed ancor nelle severe. Però molti antichi, e dei piú estimati, l'hanno usata, come Catone, Scipione Affricano minore; ma sopra tutti in questa dicesi esser stato eccellente Socrate filosofo, ed a' nostri tempi il re Alfonso Primo d'Aragona; il quale essendo una mattina per mangiare, levossi molte preciose anella che nelli diti avea per non bagnarle nello lavar delle mani e cosí le diede a quello che prima gli occorse, quasi senza mirar chi fusse. Quel servitore pensò che 'l re non avesse posto cura a cui date l'avesse e che, per i pensieri di maggior importanzia, facil cosa fosse che in tutto se lo scordasse; ed in questo piú si confirmò, vedendo che 'l re piú non le ridomandava; e stando giorni e settimane e mesi senza sentirne mai parola, si pensò di certo esser sicuro. E cosí essendo vicino all'anno che questo gli era occorso, un'altra mattina, pur quando il re voleva mangiare, si rappresentò, e porse la mano per pigliar le anella; allora il re, accostatosegli all'orecchio, gli disse: «Bastinti le prime, ché queste saran bone per un altro». Vedete come il motto è salso, ingenioso e grave e degno veramente della magnanimità d'uno Alessandro.
LXXIV.
Simile a questa maniera che tende all'ironico è ancora un altro modo, quando con oneste parole si nomina una cosa viciosa. Come disse il Gran Capitano ad un suo gentilomo, il quale dopo la giornata della Cirignola, e quando le cose già erano in securo, gli venne incontro armato riccamente quanto dir si possa, come apparechiato di combattere; ed allor il Gran Capitano, rivolto a don Ugo di Cardona, disse: «Non abbiate ormai piú paura di tormento di mare, ché santo Ermo è comparito»; e con quella onesta parola lo punse, perché sapete che santo Ermo sempre ai marinari appar dopo la tempesta e dà segno di tranquillità; e cosí volse dire il Gran Capitano che, essendo comparito questo gentilomo, era segno che il pericolo già era in tutto passato. Essendo ancora il signor Ottaviano Ubaldino a Fiorenza in compagnia d'alcuni cittadini di molta autorità, e ragionando di soldati, un di quei gli addimandò se conosceva Antonello da Forlí, il qual allor s'era fuggito dal stato di Fiorenza.
Rispose il signor Ottaviano: «Io non lo conosco altrimenti, ma sempre l'ho sentito ricordare per un sollicito soldato»; disse allor un altro Fiorentino:
«Vedete come egli è sollicito, che si parte prima che domandi licenzia».
LXVX.
Arguti motti son ancor quelli, quando del parlar proprio del compagno l'omo cava quello che esso non vorria; e di tal modo intendo che rispose il signor Duca nostro a quel castellano che perdé San Leo quando questo stato fu tolto da papa Alessandro e dato al duca Valentino; e fu, che essendo il signor Duca in Venezia in quel tempo ch'io ho detto, venivano di continuo molti de' suoi sudditi a dargli secretamente notizia come passavan le cose del stato; e fra gli altri vennevi ancor questo castellano, il quale, dopo l'aversi escusato il meglio che seppe, dando la colpa alla sua disgrazia, disse: «Signor, non dubitate, ché ancor mi basta l'animo di far di modo, che si potrà ricuperar San Leo». Allor rispose el signor Duca: «Non ti affaticar piú in questo; ché già il perderlo è stato un far di modo, che 'l si possa ricuperare». Son alcun'altri detti quando un omo, conosciuto per ingenioso, dice una cosa che par che proceda da sciocchezza. Come l'altro giorno disse messer Camillo Palleotto d'uno: «Questo pazzo, súbito che ha cominciato ad arricchire, s'è morto». E' simile a questo modo una certa dissimulazion salsa ed acuta, quando un omo, come ho detto, prudente, mostra non intender quello che intende. Come disse il marchese Federico de Mantua, il quale, essendo stimulato da un fastidioso, che si lamentava che alcuni suoi vicini con lacci gli pigliavano i colombi della sua colombara e tuttavia in mano ne tenea uno impiccato per un piè insieme col laccio, che cosí morto trovato l'aveva, gli rispose che si provederia. Il fastidioso non solamente una volta ma molte replicando questo suo danno, col mostrar sempre il colombo cosí impiccato, dicea pur: «E che vi par, Signor, che far si debba di questa cosa?» Il Marchese in ultimo, «A me par,» disse, «che per niente quel colombo non sia sepellito in chiesa, perché essendosi impiccato da se stesso, è da credere che fosse disperato». Quasi di tal modo fu quel di Scipione Nasica ad Ennio; ché, essendo andato Scipione a casa d'Ennio per parlargli, e chiamandol giú dalla strada, una sua fante gli rispose che egli non era in casa: e Scipione udí manifestamente che Ennio proprio avea detto alla fante che dicesse ch'egli non era in casa: cosí si partí. Non molto appresso venne Ennio a casa di Scipione e pur medesimamente lo chiamava stando da basso; a cui Scipione ad alta voce esso medesimo rispose che non era in casa. Allora Ennio, «Come? non conosco io», rispose, «la voce tua?» Disse Scipione: «Tu sei troppo discortese; l'altro giorno io credetti alla fante tua che tu non fossi in casa e ora tu nol vòi credere a me stesso».
LXVXI.
E' ancor bello, quando uno vien morso in quella medesima cosa che esso prima ha morso il compagno; come essendo Alonso Carillo alla corte di Spagna ed avendo commesso alcuni errori giovenili e non di molta importanzia, per comandamento del re fu posto in prigione e quivi lasciato una notte. Il dí seguente ne fu tratto, e cosí, venendo a palazzo la mattina, giunse nella sala dove eran molti cavalieri e dame; e ridendosi di questa sua prigionia, disse la signora Boadilla: «Signor Alonso, a me molto pesava di questa vostra disavventura, perché tutti quelli che vi conoscono pensavan che 'l re dovesse farvi impiccare». Allora Alonso súbito, «Signora», disse, «io ancor ebbi gran paura di questo; pur aveva speranza che voi mi dimandaste per marito». Vedete come questo è acuto ed ingenioso; perché in Spagna, come ancor in molti altri lochi, usanza è che quando si mena uno alle forche, se una meretrice publica l'addimanda per marito, donasegli la vita. Di questo modo rispose ancor Rafaello pittore a dui cardinali suoi domestici, i quali, per farlo dire, tassavano in presenzia sua una tavola che egli avea fatta, dove erano san Pietro e san Paulo, dicendo che quelle due figure eran troppo rosse nel viso.
Allora Rafaello súbito disse: «Signori, non vi maravigliate; ché io questi ho fatto a sommo studio, perché è da credere che san Pietro e san Paulo siano, come qui gli vedete, ancor in cielo cosí rossi, per vergogna che la Chiesa sua sia governata da tali omini come siete voi».
LXVXII.
Sono ancor arguti quei motti che hanno in sé una certa nascosa suspizion di ridere, come, lamentandosi un marito molto e piangendo sua moglie, che da se stessa s'era ad un fico impiccata, un altro se gli accostò e, tiratolo per la veste, disse: «Fratello, potrei io per grazia grandissima aver un rametto de quel fico, per inserire in qualche albero dell'orto mio?» Son alcuni altri motti pazienti e detti lentamente con una certa gravità; come, portando un contadino una cassa in spalla, urtò Catone con essa, poi disse: «Guarda».
Rispose Catone: «Hai tu altro in spalla che quella cassa?» Ridesi ancor quando un omo, avendo fatto un errore, per remediarlo dice una cosa a sommo studio, che par sciocca, e pur tende a quel fine che esso disegna, e con quella s'aiuta. Come a questi dí, in consiglio di Fiorenza ritrovandosi doi nemici, come spesso interviene in queste republice, l'uno d'essi, il quale era di casa Altoviti, dormiva; e quello che gli sedeva vicino, per ridere, benché 'l suo avversario, che era di casa Alamanni, non parlasse né avesse parlato, toccandolo col cubito lo risvegliò e disse: «Non odi tu ciò che il tale dice?
rispondi, ché gli Signori dimandano del parer tuo». Allora l'Altoviti, tutto sonnachioso e senza pensar altro, si levò in piedi e disse: «Signori, io dico tutto il contrario di quello che ha detto l'Alamanni». Rispose l'Alamanni: «Oh, io non ho detto nulla». Súbito disse l'Altoviti: «Di quello che tu dirai». Disse ancor di questo modo maestro Serafino, medico vostro urbinate, ad un contadino, il qual, avendo avuta una gran percossa in un occhio, di sorte che in vero glielo avea cavato, deliberò pur d'andar per rimedio a maestro Serafino; ed esso, vedendolo, benché conoscesse esser impossibile il guarirlo, per cavargli denari delle mani, come quella percossa gli avea cavato l'occhio della testa, gli promise largamente di guarirlo; e cosí ogni dí gli addimandava denari, affermando che fra cinque o sei dí cominciaria a riaver la vista. Il pover contadino gli dava quel poco che aveva; pur, vedendo che la cosa andava in lungo, cominciò a dolersi del medico e dir che non sentiva miglioramento alcuno, né discernea con quello occhio piú che se non l'avesse aúto in capo. In ultimo, vedendo maestro Serafino che poco piú potea trargli di mano, disse: «Fratello mio, bisogna aver pacienzia: tu hai perduto l'occhio, né piú v'è rimedio alcuno; e Dio voglia che tu non perdi anco quell'altro». Udendo questo, il contadino si mise a piangere e dolersi forte e disse: «Maestro, voi m'avete assassinato e rubato i miei denari; io mi lamentarò al signor Duca»; e facea i maggior stridi del mondo. Allora maestro Serafino in collera e per svilupparsi, «Ah villan traditor», disse, «dunque tu ancor vorresti avere dui occhi, come hanno i cittadini e gli omini da bene?
vattene in malora»: e queste parole accompagnò con tanta furia, che quel povero contadino spaventato si tacque e cheto cheto se n'andò con Dio, credendosi d'aver il torto.
LXVXIII.
E' ancor bello quando si dechiara una cosa o si interpreta giocosamente.
Come alla corte di Spagna comparendo una mattina a palazzo un cavaliero, il quale era bruttissimo, e la moglie, che era bellissima, l'uno e l'altro vestiti di damasco bianco, disse la Reina ad Alonso Carillo: «Che vi par, Alonso, di questi dui?» «Signora», rispose Alonso, «parmi che questa sia la dama e questo lo asco», che vol dir schifo. Vedendo ancor Rafaello de' Pazzi una lettra del Priore di Messina, che egli scriveva ad una sua signora, il soprascritto della qual dicea: Esta carta s'ha de dar a quien causa mi penar, «Parmi», disse, «Che questa lettera vada a Paolo Tolosa».
Pensate come risero i circunstanti, perché ognuno sapea che Paolo Tolosa aveva prestato al Prior dieci mila ducati; ed esso, per esser gran spenditor, non trovava modo di rendergli. A questo è simile quando si dà una ammonizion famigliare in forma di consiglio, pur dissimulatamente. Come disse Cosimo de' Medici ad un suo amico, il qual era assai ricco, ma di non molto sapere, e per mezzo pur di Cosimo aveva ottenuto un officio fuor di Firenze; e dimandando costui nel partir suo a Cosimo, che modo gli parea che egli avesse a tenere per governarsi bene in questo suo officio, Cosimo gli rispose: «Vesti di rosato, e parla poco». Di questa sorte fu quello che disse il conte Ludovico ad uno che volea passar incognito per un certo loco pericoloso e non sapea come travestirsi; ed essendone il Conte addimandato, rispose: «Véstiti da dottore, o di qualche altro abito da savio». Disse ancor Giannotto de' Pazzi ad un che volea far un saio d'arme dei piú diversi colori che sapesse trovare: «Piglia parole ed opre del Cardinale di Pavia».
LXXIX.
Ridesi ancor d'alcune cose discrepanti; come disse uno l'altro giorno a messer Antonio Rizzo d'un certo Forlivese: «Pensate s'è pazzo, che ha nome Bartolomeo». Ed un altro: «Tu cerchi un maestro Stalla, e non hai cavalli»; ed, «A costui non manca però altro che la robba e 'l cervello». E d'alcun'altre che paion consentanee; come, a questi dí, essendo stato suspizione che uno amico nostro avesse fatto fare una renunzia falsa d'un beneficio, essendo poi malato un altro prete, disse Antonio Torello a quel tale: «Che stai tu a far, che non mandi per quel tuo notaro, e vedi di carpir quest'altro beneficio?» Medesimamente d'alcune che non sono consentanee; come l'altro giorno avendo il Papa mandato per messer Giovan Luca da Pontremolo e per messer Domenico dalla Porta, i quali, come sapete, son tutti dui gobbi, e fattogli Auditori, dicendo voler indrizzare la Rota, disse messer Latin Iuvenale: «Nostro Signore s'inganna, volendo con dui torti indrizzar la Rota».
LXXX.
Ridesi ancor spesso quando l'omo concede quello che se gli dice, ed ancor piú, ma mostra intenderlo altramente. Come, essendo il capitan Peralta già condutto in campo per combattere con Aldana e domandando il capitan Molart, che era patrino d'Aldana, a Peralta il sacramento, s'avea addosso brevi o incanti che lo guardassero da esser ferito, Peralta giurò che non avea addosso né brevi né incanti né reliquie né devozione alcuna in che avesse fede. Allor Molart, per pungerlo che fosse marano, disse «Non vi affaticate in questo, ché senza giurare credo che non abbiate fede né anco in Cristo». E' ancor bello usar le metafore a tempo in tai propositi; come il nostro maestro Marco Antonio, che disse a Botton da Cesena, che lo stimulava con parole:
«Botton, Bottone, tu sarai un dí il bottone e 'l capestro sarà la fenestrella». Ed avendo ancor maestro Marco Antonio composto una molto lunga comedia e di varii atti, disse il medesimo Botton pur a maestro Marc'Antonio: «A far la vostra comedia bisogneranno per lo apparato quanti legni sono in Schiavonia»; rispose maestro Marc'Antonio: «E per l'apparato della tua tragedia basteran tre solamente».
LXXXI.
Spesso si dice ancor una parola, nella quale è una nascosta significazione lontana da quello che par che dir si voglia. Come il signor Prefetto qui, sentendo ragionare d'un capitano, il quale in vero a' suoi dí il piú delle volte ha perduto, e allor pur per avventura avea vinto; e dicendo colui che ragionava, che nella entrata che egli avea fatta in quella terra s'era vestito un bellissimo saio di velluto cremosí il qual portava sempre dopo le vittorie, disse il signor Prefetto: «Dee esser novo». Non meno induce il riso, quando talor si risponde a quello che non ha detto colui con cui si parla, o ver si mostra creder che abbia fatto quello che non ha fatto, e dovea fare.
Come Andrea Coscia, essendo andato a visitare un gentilomo, il quale discortesemente lo lasciava stare in piedi, ed esso sedea, disse: «Poiché vostra Signoria me lo commanda, per obedire io sederò»; e cosí si pose a sedere.
LXXXII.
Ridesi ancor quando l'omo con bona grazia accusa se stesso di qualche errore; come l'altro giorno, dicendo io al capellan del signor Duca, che Monsignor mio avea un capellano che dicea messa piú presto di lui, mi rispose: «Non è possibile»; ed accostatomisi all'orecchio, disse: «Sapiate ch'io non dico un terzo delle secrete». Biagin Crivello ancor, essendo stato morto un prete a Milano, domandò il beneficio al Duca, il qual pur stava in opinion di darlo ad un altro. Biagin in ultimo, vedendo che altra ragione non gli valea, «E come?» disse; «s'io ho fatto ammazzar il prete, perché non mi volete voi dar il beneficio?» Ha grazia ancor spesso desiderare quelle cose che non possono essere; come l'altro giorno un de' nostri, vedendo questi signori che tutti giocavano d'arme ed esso stava colcato sopra un letto, disse: «Oh come mi piaceria, che ancor questo fosse esercizio da valente omo e bon soldato!» E' ancor bel modo e salso di parlare, e massimamente in persone gravi e d'autorità, rispondere al contrario di quello che vorria colui con chi si parla, ma lentamente, e quasi con una certa considerazione dubbiosa e suspesa.
Come già il re Alfonso primo d'Aragona, avendo donato ad un suo servitore arme, cavalli e vestimenti, perché gli avea detto che la notte avanti sognava che sua Altezza gli dava tutte quelle cose; e non molto poi dicendogli pur il medesimo servitore, che ancor quella notte avea sognato che gli dava una bona quantità di fiorin d'oro, gli rispose: «Non crediate da mo inanzi ai sogni, ché non sono veritevoli». Di questa sorte rispose ancor il Papa al Vescovo di Cervia, il qual, per tentar la voluntà sua, gli disse: «Padre Santo, per tutta Roma e per lo palazzo ancora si dice che vostra Santità mi fa governatore». Allor il Papa, «Lasciategli dire», rispose, «ché son ribaldi; non dubitate, che non è vero niente».
LXXXIII.
Potrei forsi ancor, signori, raccórre molti altri lochi, donde si cavano motti ridiculi; come le cose dette con timidità, con maraviglia, con minacce for d'ordine, con troppo collera; oltra di questo, certi casi novi, che intervenuti inducono il riso; talor la taciturnità, con una certa maraviglia; talor il medesimo ridere senza proposito; ma a me pare ormai aver detto a bastanza, perché le facezie che consistono nelle parole credo che non escano di que' termini di che noi avemo ragionato. Quelle poi che sono nell'effetto, avvenga che abbian infinite parti, pur si riducono a pochi capi; ma nell'una e nell'altra sorte la principal cosa è lo ingannar la opinione e rispondere altramente che quello che aspetta l'auditore; ed è forza, se la facezia ha d'aver grazia, sia condita di quello inganno, o dissimulare o beffare o riprendere o comparare, o qual altro modo voglia usar l'omo. E benché le facezie inducano tutte a ridere, fanno però ancor in questo ridere diversi effetti; perché alcune hanno in sé una certa eleganzia e piacevolezza modesta, altre pungono talor copertamente, talor publico, altre hanno del lascivetto, altre fanno ridere súbito che s'odono, altre quanto piú vi si pensa, altre col riso fanno ancor arrossire, altre inducono un poco d'ira; ma in tutti i modi s'ha da considerar la disposizion degli animi degli auditori, perché agli afflitti spesso i giochi dànno maggior afflizione; e sono alcune infirmità che, quanto piú vi si adopra medicina, tanto piú si incrudiscono. Avendo adunque il cortegiano nel motteggiare e dir piacevolezze rispetto al tempo, alle persone, al grado suo e di non esser in ciò troppo frequente (ché in vero dà fastidio, tutto il giorno, in tutti i ragionamenti e senza proposito, star sempre su questo), potrà esser chiamato faceto; guardando ancor di non esser tanto acerbo e mordace, che si faccia conoscer per maligno, pungendo senza causa o ver con odio manifesto; o ver persone troppo potenti, che è imprudenzia; o ver troppo misere, che è crudeltà; o ver troppo scelerate, che è vanità; o ver dicendo cose che offendan quelli che esso non vorria offendere, che è ignoranzia; perché si trovano alcuni che si credono esser obligati a dir e punger senza rispetto ogni volta che possono, vada pur poi la cosa come vole. E tra questi tali son quelli, che per dire una parola argutamente, non guardan di macular l'onor d'una nobil donna; il che è malissima cosa e degna di gravissimo castigo, perché in questo caso le donne sono nel numero dei miseri, e però non meritano in ciò essere mordute, ché non hanno arme da diffendersi. Ma, oltre a questi rispetti, bisogna che colui che ha da esser piacevole e faceto, sia formato d'una certa natura atta a tutte le sorti di piacevolezze ed a quelle accommodi li costumi, i gesti e 'l volto; il quale quant'è piú grave e severo e saldo, tanto piú fa le cose che son dette parer salse ed argute.
LXXXIV.
Ma voi, messer Federico, che pensaste di riposarvi sotto questo sfogliato albero e nei mei secchi ragionamenti, credo che ne siate pentito e vi paia esser entrato nell'ostaria di Montefiore; però ben sarà che, a guisa di pratico corrieri, per fuggir un tristo albergo, vi leviate un poco piú per tempo che l'ordinario e seguitiate il camin vostro. - Anzi, - rispose messer Federico, - a cosí bon albergo sono io venuto, che penso di starvi piú che prima non aveva deliberato; però riposerommi pur ancor fin a tanto che voi diate fine a tutto 'l ragionamento proposto, del quale avete lasciato una parte che al principio nominaste, che son le «burle»; e di ciò non è bono che questa compagnia sia defraudata da voi. Ma sí come circa le facezie ci avete insegnato molte belle cose e fattoci audaci nello usarle, per esempio di tanti singulari ingegni e grandi omini, e príncipi e re e papi, credo medesimamente che nelle burle ci darete tanto ardimento, che pigliaremo segurtà di metterne in opera qualcuna ancor contra di voi -. Allor messer Bernardo ridendo, - Voi non sarete, - disse, i primi; ma forse non vi verrà fatto, perché ormai tante n'ho ricevute, che mi guardo da ogni cosa, come i cani che, scottati dall'acqua calda, hanno paura della fredda. Pur, poiché di questo ancor volete ch'io dica, penso potermene espedir con poche parole.
LXXVX.
E' parmi che la burla non sia altro che un inganno amichevole di cose che non offendano, o almen poco; e sí come nelle facezie il dir contra l'aspettazione, cosí nelle burle il far contra l'aspettazione induce il riso. E queste tanto piú piacciono e sono laudate quanto piú hanno dello ingenioso e modesto; perché chi vol burlar senza rispetto spesso offende e poi ne nascono disordini e gravi inimicizie. Ma i lochi donde cavar si posson le burle son quasi i medesimi delle facezie. Però, per non replicargli, dico solamente che di due sorti burle si trovano, ciascuna delle quali in piú parti poi divider si poria. L'una è, quando s'inganna ingeniosamente con bel modo e piacevolezza chi si sia; l'altra, quando si tende quasi una rete e mostra un poco d'esca, talché l'omo corre ad ingannarsi da se stesso. Il primo modo è tale, quale fu la burla che a questi dí due gran signore, ch'io non voglio nominare, ebbero per mezzo d'un Spagnolo chiamato Castiglio -. Allora la signora Duchessa, - E perché, - disse, - non le volete voi nominare? - Rispose messer Bernardo: - Non vorrei che lo avessero a male -. Replicò la signora Duchessa ridendo: - Non si disconvien talor usare le burle ancor coi gran signori; ed io già ho udito molte esserne state fatte al duca Federico, al re Alfonso d'Aragona, alla reina donna Isabella di Spagna ed a molti altri gran príncipi; ed essi non solamente non lo aver avuto a male, ma aver premiato largamente i burlatori -. Rispose messer Bernardo: - Né ancor con questa speranza le nominarò io. - Dite come vi piace, - suggiunse la signora Duchessa. Allor seguitò messer Bernardo e disse: - Pochi dí sono che nella corte di chi io intendo capitò un contadin bergamasco per servizio di un gentilom cortegiano, il qual fu tanto ben divisato di panni ed acconcio cosí attillatamente che, avvenga che fosse usato solamente a guardar buoi, né sapesse far altro mestiero, da chi non l'avesse sentito ragionare saria stato tenuto per un galante cavaliero; e cosí essendo detto a quelle due signore che quivi era capitato un Spagnolo servitore del cardinale Borgia che si chiamava Castiglio, ingeniosissimo, musico, danzatore, ballatore e piú accorto cortegiano che fosse in tutta Spagna, vennero in estremo desiderio di parlargli, e súbito mandarono per esso; e dopo le onorevoli accoglienze, lo fecero sedere e cominciarono a parlargli con grandissimo riguardo in presenzia d'ognuno; e pochi eran di quelli che si trovavano presenti, che non sapessero che costui era un vaccaro bergamasco. Però, vedendosi che quelle signore l'intertenevano con tanto rispetto e tanto l'onoravano, furono le risa grandissime; tanto piú che 'l bon omo sempre parlava del suo nativo parlare zaffi bergamasco. Ma quei gentilomini che faceano la burla aveano prima detto a queste signore che costui, tra l'altre cose, era gran burlatore, e parlava eccellentemente tutte le lingue, e massimamente lombardo contadino; di sorte che sempre estimarono che fingesse; e spesso si voltavano l'una all'altra con certe maraviglie e diceano: «Udite gran cosa, come contrafà questa lingua!» In somma, tanto durò questo ragionamento, che ad ognuno doleano gli fianchi per le risa; e fu forza che esso medesimo desse tanti contrasegni della sua nobilità, che pur in ultimo queste signore, ma con gran fatica, credettero che 'l fusse quello che egli era.
LXXVXI.
Di questa sorte burle ogni dí veggiamo; ma tra l'altre quelle son piacevoli, che al principio spaventano e poi riescono in cosa sicura, perché il medesimo burlato si ride di se stesso, vedendosi aver avuto paura di niente. Come essendo io una notte alloggiato in Paglia, intervenne che nella medesima ostaria ov'ero io erano ancor tre altri compagni, dui da Pistoia, l'altro da Prato, i quali dopo cena si misero, come spesso si fa, a giocare: cosí non v'andò molto che uno dei dui Pistolesi, perdendo il resto, restò senza un quattrino, di modo che cominciò a desperarsi e maledire e biastemare fieramente; e cosí rinegando se n'andò a dormire. Gli altri dui, avendo alquanto giocato, deliberarono fare una burla a questo che era ito a letto.
Onde, sentendo che esso già dormiva, spensero tutti i lumi e velarono il foco; poi si misero a parlar alto e far i maggiori romori del mondo, mostrando venire a contenzione del gioco, dicendo uno: «Tu hai tolto la carta di sotto»; l'altro negandolo, con dire: «E tu hai invitato sopra flusso; il gioco vadi a monte»; e cotai cose, con tanto strepito, che colui che dormiva si risvegliò; e sentendo che costoro giocavano e parlavano cosí come se vedessero le carte, un poco aperse gli occhi, e non vedendo lume alcuno in camera, disse: «E che diavol farete voi tutta notte di cridare?» Poi súbito se rimise giú, come per dormire. I dui compagni non li diedero altrimenti risposta, ma seguitarono l'ordine suo; di modo che costui, meglio risvegliato, cominciò a maravigliarsi, e vedendo certo che ivi non era né foco né splendor alcuno e che pur costoro giocavano e contendevano, disse: «E come potete voi veder le carte senza lume?» Rispose uno delli dui: «Tu dèi aver perduto la vista insieme con li danari; non vedi tu, se qui abbiam due candele?» Levossi quello che era in letto su le braccia e quasi adirato disse: «O ch'io sono ebriaco o cieco, o voi dite le bugie». Li due levaronsi ed andarono a letto tentoni, ridendo e mostrando di credere che colui si facesse beffe di loro; ed esso pur replicava: «Io dico che non vi veggo». In ultimo li dui cominciarono a mostrare di maravigliarsi forte e l'uno disse all'altro: «Oimè, parmi che 'l dica da dovero; da' qua quella candela, e veggiamo se forse gli si fosse inturbidata la vista». Allor quel meschino tenne per fermo d'esser diventato cieco, e piangendo dirottamente disse: «O fratelli mei, io son cieco»; e súbito cominciò a chiamar la Nostra Donna di Loreto e pregarla che gli perdonasse le biastemme e le maledizioni che gli avea date per aver perduto i denari. I dui compagni pur lo confortavano e dicevano: «E' non è possibile che tu non ci vegghi; egli è una fantasia che tu t'hai posta in capo». «Oimè», replicava l'altro, «che questa non è fantasia, né vi veggo io altrimenti che se non avessi mai avuti occhi in testa». «Tu hai pur la vista chiara», rispondeano li dui e diceano l'un altro: «Guarda come egli apre ben gli occhi e come gli ha belli! e chi poria creder ch'ei non vedesse?» Il poveretto tuttavia piangea piú forte e dimandava misericordia a Dio. In ultimo costoro gli dissero: «Fa' voto d'andare alla Nostra Donna di Loreto devotamente scalzo ed ignudo, ché questo è il miglior rimedio che si possa avere; e noi fra tanto andaremo ad Acqua Pendente e quest'altre terre vicine per veder di qualche medico, e non ti mancaremo di cosa alcuna possibile».
Allora quel meschino súbito s'inginocchiò nel letto, e con infinite lacrime ed amarissima penitenzia dello aver biastemato fece voto solenne d'andar ignudo a Nostra Signora di Loreto ed offerirgli un paio d'occhi d'argento e non mangiar carne il mercore, né ova il venere, e digiunar pane ed acqua ogni sabbato ad onore di Nostra Signora, se gli concedeva grazia di ricuperar la vista. I dui compagni, entrati in un'altra camera, accesero un lume e se ne vennero con le maggior risa del mondo davanti a questo poveretto; il quale, benché fosse libero di cosí grande affanno, come potete pensare, pur era tanto attonito della passata paura, che non solamente non potea ridere, ma né pur parlare; e li dui compagni non faceano altro che stimularlo, dicendo che era obligato a pagar tutti questi voti, perché avea ottenuta la grazia domandata.
LXXVXII.
Dell'altra sorte di burle, quando l'omo inganna se stesso, non darò io altro esempio, se non quello che a me intervenne, non è gran tempo: perché a questo carneval passato Monsignor mio di San Pietro ad Vincula, il qual sa come io mi piglio piacer, quando son maschera, di burlar frati, avendo prima ben ordinato ciò che fare intendeva, venne insieme un dí con Monsignor d'Aragona ed alcuni altri cardinali a certe finestre in Banchi, mostrando voler star quivi a veder passar le maschere, come è usanza di Roma.
Io, essendo maschera, passai, e vedendo un frate cosí da un canto che stava un poco suspeso, giudicai aver trovata la mia ventura e súbito gli corsi come un famelico falcone alla preda; e prima domandatogli chi egli era, ed esso rispostomi, mostrai di conoscerlo e con molte parole cominciai ad indurlo a credere che 'l barigello l'andava cercando per alcune male informazioni che di lui s'erano avute, e confortarlo che venisse meco insino alla cancelleria, ché io quivi lo salvarei. Il frate, pauroso e tutto tremante, parea che non sapesse che si fare e dicea dubitar, se si dilungava da San Celso, d'esser preso. Io pur facendogli bon animo, gli dissi tanto, che mi montò di groppa, ed allor a me parve d'aver a pien compíto il mio disegno; cosí súbito cominciai a rimettere il cavallo per Banchi, il qual andava saltellando e traendo calci. Imaginate or voi che bella vista facea un frate in groppa di una maschera, col volare del mantello e scuotere il capo innanzi e 'ndietro, che sempre parea che andasse per cadere. Con questo bel spettaculo cominciarono que' signori a tirarci ova dalle finestre, poi tutti i banchieri e quante persone v'erano; di modo che non con maggior impeto cadde dal cielo mai la grandine, come da quelle finestre cadeano l'ova, le quali per la maggior parte sopra di me venivano; ed io per esser maschera non mi curava, e pareami che quelle risa fossero tutte per lo frate e non per me; e per questo piú volte tornai innanzi e 'ndietro per Banchi, sempre con quella furia alle spalle; benché il frate quasi piangendo mi pregava ch'io lo lassassi scendere, e non facessi questa vergogna all'abito; poi, di nascosto, il ribaldo si facea dar ova ad alcuni staffieri posti quivi per questo effetto, e mostrando tenermi stretto per non cadere me le schiacciava nel petto, spesso in sul capo, e talor in su la fronte medesima; tanto ch'io era tutto consumato. In ultimo, quando ognuno era stanco e di ridere e di tirar ova, mi saltò di groppa, e callatosi indrieto lo scapularo mostrò una gran zazzera e disse:
«Messer Bernardo, io son un famiglio di stalla di San Pietro ad Vincula e son quello che governa il vostro muletto». Allor io non so qual maggiore avessi o dolore o ira o vergogna; pur, per men male, mi posi a fuggire verso casa e la mattina seguente non osava comparere; ma le risa di questa burla non solamente il dí seguente, ma quasi insino adesso son durate -.
LXXVXIII.
E cosí essendosi per lo raccontarla alquanto rinovato il ridere, suggiunse messer Bernardo: - E' ancor un modo di burlare assai piacevole, onde medesimamente si cavano facezie, quando si mostra credere che l'omo voglia fare una cosa, che in vero non vol fare. Come essendo io in sul ponte di Leone una sera dopo cena, e andando insieme con Cesare Beccadello scherzando, cominciammo l'un l'altro a pigliarsi alle braccia, come se lottare volessimo; e questo perché allor per sorte parca che in su quel ponte non fusse persona; e stando cosí, sopragiunsero dui Franzesi i quali, vedendo questo nostro debatto, dimandarono che cosa era e fermaronsi per volerci spartire, con opinion che noi facessimo questione da dovero. Allor io tosto, «Aiutatemi», dissi, «signori, ché questo povero gentilomo a certi tempi di luna ha mancamento di cervello; ed ecco che adesso si vorria pur gittar dal ponte nel fiume». Allora quei dui corsero, e meco presero Cesare e tenevanlo strettissimo; ed esso, sempre dicendomi ch'io era pazzo, mettea piú forza per svilupparsi loro dalle mani e costoro tanto piú lo stringevano; di sorte che la brigata cominciò a vedere questo tumulto ed ognun corse; e quanto piú il bon Cesare battea delle mani e piedi, ché già cominciava entrare in collera, tanto piú gente sopragiungeva; e per la forza grande che esso metteva, estimavano fermamente che volesse saltar nel fiume, e per questo lo stringevan piú; di modo che una gran brigata d'omini lo portarono di peso all'osteria, tutto scarmigliato e senza berretta, pallido dalla collera e dalla vergogna; ché non gli valse mai cosa che dicesse, tra perché quei Franzesi non lo intendevano, tra perché io ancor conducendogli all'osteria sempre andava dolendomi della disavventura del poveretto, che fosse cosí impazzito.
LXXXIX.
Or, come avemo detto, delle burle si poria parlar largamente; ma basti il replicare che i lochi onde si cavano sono i medesimi delle facezie. Degli esempi poi n'avemo infiniti, ché ogni dí ne veggiamo; e tra gli altri, molti piacevoli ne sono nelle novelle del Boccaccio, come quelle che faceano Bruno e Buffalmacco al suo Calandrino ed a maestro Simone, e molte altre di donne, che veramente sono ingeniose e belle. Molti omini piacevoli di questa sorte ricordomi ancor aver conosciuti a' mei dí, e tra gli altri in Padoa uno scolar siciliano, chiamato Ponzio; il qual vedendo una volta un contadino che aveva un paro di grossi caponi, fingendo volergli comperare fece mercato con esso e disse che andasse a casa seco, ché, oltre al prezzo, gli darebbe da far colazione; e cosí lo condusse in parte dove era un campanile, il quale è diviso dalla chiesa, tanto che andar vi si po d'intorno; e proprio ad una delle quattro facce del campanile rispondeva una stradetta piccola. Quivi Ponzio, avendo prima pensato ciò che far intendeva, disse al contadino: «Io ho giocato questi caponi con un mio compagno, il qual dice che questa torre circunda ben quaranta piedi, ed io dico di no; e a punto allora quand'io ti trovai aveva comperato questo spago per misurarla; però, prima che andiamo a casa, voglio chiarirmi chi di noi abbia vinto»; e cosí dicendo trassesi dalla manica quel spago e diello da un capo in mano al contadino e disse: «Da' qua»; e tolse i caponi e prese il spago dall'altro capo; e, come misurar volesse, cominciò a circundar la torre avendo prima fatto affermar il contadino, e tener il spago dalla parte che era opposta a quella faccia che rispondeva nella stradetta; alla quale come esso fu giunto, cosí ficcò un chiodo nel muro, a cui annodò il spago; e lasciatolo in tal modo, cheto cheto se n'andò per quella stradetta coi caponi. Il contadino per bon spazio stette fermo, aspettando pur che colui finisse di misurare; in ultimo, poi che piú volte ebbe detto: «Che fate voi tanto?», volse vedere, e trovò che quello che tenea lo spago non era Ponzio, ma era un chiodo fitto nel muro, il qual solo gli restò per pagamento dei caponi. Di questa sorte fece Ponzio infinite burle.
Molti altri sono ancora stati omini piacevoli di tal manera, come il Gonella, il Meliolo in que' tempi, ed ora il nostro frate Mariano e frate Serafino qui, e molti che tutti conoscete. Ed in vero questo modo è lodevole in omini che non facciano altra professione; ma le burle del cortegiano par che si debbano allontanar un poco piú dalla scurilità. Deesi ancora guardar che le burle non passino alla barraria come vedemo molti mali omini che vanno per lo mondo con diverse astuzie per guadagnar denari, fingendo or una cosa ed or un'altra; e che non siano anco troppo acerbe, e sopra tutto aver rispetto e riverenzia, cosí in questo come in tutte l'altre cose, alle donne, e massimamente dove intervenga offesa della onestà -.
XC.
Allora il signor Gasparo, - Per certo, - disse, - messer Bernardo, voi sète pur troppo parziale a queste donne. E per ché volete voi che piú rispetto abbiano gli omini alle donne, che le donne agli omini? Non dee a noi forse esser tanto caro l'onor nostro, quanto ad esse il loro? A voi pare adunque che le donne debban pungere e con parole e con beffe gli omini in ogni cosa senza riservo alcuno, e gli omini se ne stiano muti e le ringrazino da vantaggio?
- Rispose allor messer Bernardo: - Non dico io che le donne non debbano aver nelle facezie e nelle burle quei respetti agli omini che avemo già detti; dico ben che esse possono con piú licenzia morder gli omini di poca onestà, che non possono gli omini mordere esse; e questo perché noi stessi avemo fatta una legge, che in noi non sia vicio né mancamento né infamia alcuna la vita dissoluta e nelle donne sia tanto estremo obbrobrio e vergogna, che quella di chi una volta si parla male, o falsa o vera che sia la calunnia che se le dà, sia per sempre vituperata. Però essendo il parlar dell'onestà delle donne tanto pericolosa cosa d'offenderle gravemente, dico che dovemo morderle in altro ed astenerci da questo; perché pungendo la facezia o la burla troppo acerbamente, esce del termine che già avemo detto convenirsi a gentilomo -.
XCI.
Quivi, facendo un poco di pausa messer Bernardo, disse il signor Ottavian Fregoso ridendo: - Il signor Gaspar potrebbe rispondervi che questa legge, che voi allegate che noi stessi avemo fatta, non è forse cosí fuor di ragione come a voi pare; perché essendo le donne animali imperfettissimi e di poca o niuna dignità a rispetto degli omini, bisognava, poiché da sé non erano capaci di far atto alcun virtuoso, che con la vergogna e timor d'infamia si ponesse loro un freno, che quasi per forza in esse introducesse qualche bona qualità; e parve che piú necessaria loro fosse la continenzia che alcuna altra, per aver certezza dei figlioli; onde è stato forza con tutti gl'ingegni ed arti e vie possibili far le donne continenti, e quasi conceder loro che in tutte l'altre cose siano di poco valore, e che sempre facdano il contrario di ciò che devriano. Però essendo lor licito far tutti gli altri errori senza biasimo, se noi le vorremo mordere di quei diffetti i quali, come avemo detto, tutti ad esse sono conceduti e però a loro non sono disconvenienti, né esse se ne curano, non moveremo mai il riso; perché già voi avete detto che 'l riso si move con alcune cose che son disconvenienti -.
XCII.
Allor la signora Duchessa, - In questo modo, - disse, signor Ottaviano, parlate delle donne; e poi vi dolete che esse non v'amino? - Di questo non mi dolgo io, - rispose il signor Ottaviano, - anzi le ringrazio, poiché con lo amarmi non m'obligano ad amar loro; né parlo di mia opinione, ma dico che 'l signor Gasparo potrebbe allegar queste ragioni -. Disse messer Bernardo: - Gran guadagno in vero fariano le donne se potessero riconciliarsi con dui suoi tanto gran nemici, quanto siete voi e 'l signor Gasparo. - Io non son lor nemico, - rispose il signor Gasparo, - ma voi sète ben nemico degli omini; ché se pur volete che le donne non siano mordute circa questa onestà, dovreste mettere una legge ad esse ancor, che non mordessero gli omini in quello che a noi cosi è vergogna, come alle donne la incontinenzia. E perché non fu cosí conveniente ad Alonso Cariglio la risposta che diede alla signora Boadiglia della speranza che avea di campar la vita, perché essa lo pigliasse per marito, come a lei la proposta che ognun che lo conoscea pensava che 'l Re lo avesse da far impiccare? E perché non fu cosí licito a Riciardo Minutoli gabbar la moglie di Filippello e farla venir a quel bagno, come a Beatrice far uscire del letto Egano suo marito e fargli dare delle bastonate da Anichino, poi che un gran pezzo con lui giacciuta si fu? E quell'altra che si legò lo spago al dito del piede e fece credere al marito proprio non esser dessa?
Poiché voi dite che quelle burle di donne nel Giovan Boccaccio son cosí ingeniose e belle -.
XCIII.
Allora messer Bernardo ridendo, - Signori, - disse, essendo stato la parte mia solamente disputar delle facezie, io non intendo passar quel termine; e già penso aver detto perché a me non paia conveniente morder le donne né in detti né in fatti circa l'onestà, e ancor ad esse aver posto regula, che non pungan gli omini dove lor dole. Dico ben che delle burle e motti che voi, signor Gasparo, allegate, quello che disse Alonso alla signora Boadiglia, avvegna che tocchi un poco la onestà, non mi dispiace, perché è tirato assai da lontano ed è tanto occulto che si po intendere simplicemente, di modo che esso potea dissimularlo ed affermare non l'aver detto a quel fine. Un altro ne disse al parer mio disconveniente molto; e questo fu, che passando la Regina davanti la casa pur della signora Boadiglia, vide Alonso la porta tutta dipinta con carboni di quegli animali disonesti che si dipingono per l'osterie in tante forme; ed accostatosi alla Contessa di Castagneto, disse: «Eccovi, Signora, le teste delle fiere che ogni giorno ammazza la signora Boadiglia alla caccia». Vedete che questo, avvegna che sia ingeniosa metafora, e ben tolta dai cacciatori, che hanno per gloria aver attaccate alle lor porte molte teste di fiere, pur è scurile e vergognoso; oltra che non fu risposta, ché il rispondere ha molto piú del cortese, perché par che l'omo sia provocato; e forza è che sia all'improviso. Ma tornando a proposito delle burle delle donne, non dico io che faccian bene ad ingannare i mariti, ma dico che alcuni di quegli inganni che recita Giovan Boccaccio delle donne son belli ed ingeniosi assai, e massimamente quelli che voi proprio avete detti. Ma, secondo me, la burla di Riciardo Minutoli passa il termine ed è piú acerba assai che quella di Beatrice, ché molto piú tolse Riciardo Minutoli alla moglie di Filippello, che non tolse Beatrice ad Egano suo marito; perché Riciardo con quello inganno sforzò colei e fecela far di se stessa quello che ella non voleva; e Beatrice ingannò suo marito per far essa di se stessa quello che le piaceva -.
XCIV.
Allor il signor Gasparo, - Per niuna altra causa, - disse, si po escusar Beatrice eccetto che per amore; il che si deve cosí ammettere negli omini, come nelle donne -. Allora messer Bernardo, - In vero, - rispose, - grande escusazione d'ogni fallo portan seco le passioni d'amore; nientedimeno io per me giudico che un gentilomo di valore il quale ami, debba, cosí in questo come in tutte l'altre cose, esser sincero e veridico; e se è vero che sia viltà e mancamento tanto abominevole l'esser traditore ancora contra un nemico, considerate quanto piú si deve estimar grave tal errore contra persona che s'ami; ed io credo che ogni gentil innamorato tolleri tante fatiche, tante vigilie, si sottoponga a tanti pericoli, sparga tante lacrime, usi tanti modi e vie di compiacere l'amata donna, non per acquistarne principalmente il corpo, ma per vincer la ròcca di quell'animo, spezzare quei durissimi diamanti, scaldar que' freddi ghiacci, che spesso ne' delicati petti stanno di queste donne; e questo credo sia il vero e sodo piacere e 'l fine dove tende la intenzione d'un nobil core; e certo io per me amerei meglio, essendo innamorato, conoscer chiaramente che quella a cui io servissi mi redamasse di core e m'avesse donato l'animo, senza averne mai altra satisfazione, che goderla ed averne ogni copia contra sua voglia; ché in tal caso a me pareria esser patrone d'un corpo morto. Però quelli che consegueno e suoi desidèri per mezzo di queste burle, che forse piú tosto tradimenti che burle chiamar si poriano, fanno ingiuria ad altri; né con tutto ciò han quella satisfazione che in amor desiderar si deve, possedendo il corpo senza la voluntà. Il medesimo dico d'alcun'altri, che in amore usano incantesini, malie e talor forza, talor sonniferi e simili cose; e sappiate che li doni ancora molto diminuiscono i piaceri d'amore, perché l'omo po star in dubbio di non essere amato, ma che quella donna faccia dimostrazion d'amarlo per trarne utilità. Però vedete gli amori di gran donne essere estimati, perché par che non possano proceder d'altra causa che da proprio e vero amore, né si dee credere che una gran signora mai dimostri amare un suo minore, se non l'ama veramente -.
XCV.
Allor il signor Gaspar, - Io non nego, - rispose, - che la intenzione, le fatiche e i periculi degli innamorati non debbano aver principalmente il fin suo indrizzato alla vittoria dell'animo piú che del corpo della donna amata; ma dico che questi inganni, che voi negli omini chiamate tradimenti e nelle donne burle, son ottimi mezzi per giungere a questo fine, perché sempre chi possede il corpo delle donne è ancora signor dell'animo; e se ben vi ricorda, la moglie di Filippello, dopo tanto ramarico per lo inganno fattoli da Riciardo, conoscendo quanto piú saporiti fossero i basci dell'amante che que' del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Riciardo, tenerissimamente da quel giorno innanzi l'amò. Eccovi che quello che non avea potuto far il sollicito frequentare, i doni e tant'altri segni cosí lungamente dimostrati, in poco d'ora fece lo star con lei. Or vedete che pur questa burla, o tradimento, come vogliate dire, fu bona via per acquistar la ròcca di quell'animo -. Allora messer Bernardo, - Voi, - disse, - fate un presuposto falsissimo, ché se le donne dessero sempre l'animo a chi lor tiene il corpo, non se ne trovaria alcuna che non amasse il marito piú che altra persona del mondo; il che si vede in contrario. Ma Giovan Boccaccio era, come sète ancor voi, a gran torto nemico delle donne -.
XCVI.
Rispose il signor Gaspar: - Io non son già lor nemico; ma ben pochi omini di valor si trovano, che generalmente tengan conto alcuno di donne, se ben talor per qualche suo disegno mostrano il contrario -. Rispose allora messer Bernardo: - Voi non solamente fate ingiuria alle donne, ma ancor a tutti gli omini che l'hanno in riverenzia; nientedimeno io, come ho detto, non voglio per ora uscir del mio primo proposito delle burle ed entrar in impresa cosí difficile, come sarebbe il diffender le donne contra voi, che sète grandissimo guerriero; però darò fine a questo mio ragionamento, il qual forse è stato molto piú lungo che non bisognava, ma certo men piacevole che voi non aspettavate. E poich'io veggio le donne starsi cosí chete e supportar le ingiurie da voi cosí pazientemente come fanno, estimarò da mo innanzi esser vera una parte di quello che ha detto el signor Ottaviano, cioè che esse non si curano che di lor sia detto male in ogni altra cosa, pur che non siano mordute di poca onestà -. Allora una gran parte di quelle donne, ben per averle la signora Duchessa fatto cosí cenno, si levarono in piedi e ridendo tutte corsero verso il signor Gasparo, come per dargli delle busse, e farne come le Baccanti d'Orfeo, tuttavia dicendo: - Ora vedrete, se ci curiamo che di noi si dica male -.
XCVII.
Cosí, tra per le risa, tra per lo levarsi ognun in piedi, parve che 'l sonno, il quale omai occupava gli occhi e l'animo d'alcuni, si partisse; ma il signor Gasparo cominciò a dire: - Eccovi che per non aver ragione voglion valersi della forza ed a questo modo finire il ragionamento, dandoci, come si sòl dire, una licenzia braccesca -. Allor, - Non vi verrà fatto, - rispose la signora Emilia; - ché, poiché avete veduto messer Bernardo stanco del lungo ragionare, avete cominciato a dir tanto mal delle donne, con opinione di non aver chi vi contradica; ma noi metteremo in campo un cavalier piú fresco, che combatterà con voi, acciò che l'error vostro non sia cosí lungamente impunito -. Cosí rivoltandosi al Magnifico Iuliano, il qual fin allora poco parlato avea, disse: - Voi sète estimato protettor dell'onor delle donne; però adesso è tempo che dimostriate non aver acquistato questo nome falsamente; e se per lo addietro di tal professione avete mai avuto remunerazione alcuna, ora pensar dovete, reprimendo cosí acerbo nemico nostro, d'obligarvi molto piú tutte le donne, e tanto che, avvegna che mai non si faccia altro che pagarvi, pur l'obligo debba sempre restar vivo, né mai si possa finir di pagare -.
XCVIII.
Allora il Magnifico Iuliano, - Signora mia, - rispose, parmi che voi facciate molto onore al vostro nemico e pochissimo al vostro diffensore; perché certo insin a qui niuna cosa ha detta il signor Gasparo contra le donne, che messer Bernardo non gli abbia ottimamente risposto; e credo che ognun di noi conosca che al cortegiano si convien aver grandissima riverenzia alle donne, e che chi è discreto e cortese non deve mai pungerle di poca onestà, né scherzando né da dovero; però il disputar questa cosí palese verità è quasi un metter dubbio nelle cose chiare. Parmi ben che 'l signor Ottaviano sia un poco uscito de' termini, dicendo che le donne sono animali imperfettissimi e non capaci di far atto alcuno virtuoso e di poca o niuna dignità a rispetto degli omini; e perché spesso si dà fede a coloro che hanno molta autorità se ben non dicono cosí compitamente il vero, ed ancor quando parlano da beffe, hassi il signor Gaspar lassato indur dalle parole del signor Ottaviano a dire che gli omini savi d'esse non tengon conto alcuno; il che è falsissimo; anzi, pochi omini di valore ho io mai conosciuti, che non amino ed osservino le donne; la virtú delle quali, e conseguentemente la dignità, estimo io che non sia punto inferior a quella degli omini. Nientedimeno, se si avesse da venire a questa contenzione, la causa delle donne averebbe grandissimo disfavore; perché questi signori hanno formato un cortegiano tanto eccellente e con tante divine condizioni, che chi averà il pensiero a considerarlo tale, imaginerà i meriti delle donne non poter aggiungere a quel termine. Ma, se la cosa avesse da esser pari, bisognarebbe prima che un tanto ingenioso e tanto eloquente quanto sono il conte Ludovico e messer Federico, formasse una donna di palazzo con tutte le perfezioni appartenenti a donna, cosí come essi hanno formato il cortegiano con le perfezioni appartenenti ad omo; ed allor se quel che diffendesse la lor causa fosse d'ingegno e d'eloquenzia mediocre, penso che, per esser aiutato dalla verità, dimostraria chiaramente che le donne son cosí virtuose come gli omini -. Rispose la signora Emilia: - Anzi molto piú; e che cosí sia, vedete che la virtú è femina e 'l vicio maschio -.
XCIX.
Rise allor il signor Gasparo, e voltatosi a messer Nicolò Frigio, - Che ne credete voi, Frigio? - disse. Rispose il Frigio: - Io ho compassione al signor Magnifico, il quale, ingannato dalle promesse e lusinghe della signora Emilia, è incorso in errore di dir quello di che io in suo servizio mi vergogno -.
Rispose la signora Emilia pur ridendo: - Ben vi vergognarete voi di voi stesso quando vedrete il signor Gasparo, convinto, confessar il suo e 'l vostro errore e domandar quel perdono, che noi non gli vorremo concedere -. Allora la signora Duchessa: - Per esser l'ora molto tarda voglio, - disse, - che differiamo il tutto a domani; tanto piú perché mi par ben fatto pigliar il consiglio del signor Magnifico: cioè che, prima che si venga a questa disputa, cosí si formi una donna di palazzo con tutte le perfezioni, come hanno formato questi signori il perfetto cortegiano. - Signora, - disse allor la signora Emilia, - Dio voglia che noi non ci abbattiamo a dar questa impresa a qualche congiurato col signor Gasparo, che ci formi una cortegiana che non sappia far altro che la cucina e filare -. Disse il Frigio: - Ben è questo il suo proprio officio -. Allor la signora Duchessa, - Io voglio, - disse, - confidarmi del signor Magnifico, il qual, per esser di quello ingegno e giudicio che è, son certa che imaginerà quella perfezion maggiore che desiderar si po in donna ed esprimeralla ancor ben con le parole; e cosí averemo che opporre alle false calunnie del signor Gasparo -.
C.
- Signora mia, - rispose il Magnifico, - io non so come bon consiglio sia il vostro impormi impresa di tanta importanzia, ch'io in vero non mi vi sento sufficiente; né sono io come il Conte e messer Federico, i quali con la eloquenzia sua hanno formato un cortegiano che mai non fu né forse po essere.
Pur, se a voi piace ch'io abbia questo carico, sia almen con quei patti che hanno avuti quest'altri signori: cioè che ognun possa dove gli parerà contradirmi, ch'io questo estimarò non contradizione, ma aiuto; e forse col correggere gli errori mei, scoprirassi quella perfezion della donna di palazzo, che si cerca. - Io spero, - rispose la signora Duchessa, - che 'l vostro ragionamento sarà tale, che poco vi si potrà contradire. Sí che mettete Pur l'animo a questo sol pensiero e formateci una tal donna, che questi nostri avversari si vergognino a dir ch'ella non sia pari di virtú al cortegiano; del quale ben sarà che messer Federico non ragioni piú, ché pur troppo l'ha adornato, avendogli massimamente da esser dato paragone d'una donna. - A me, Signora, - disse allor messer Federico, - ormai poco o niente avanza che dir sopra il cortegiano; e quello che pensato aveva, per le facezie di messer Bernardo m'è uscito di mente. - Se cosí è, - disse la signora Duchessa, - dimani riducendoci insieme a bon'ora, aremo tempo di satisfar all'una cosa e l'altra -. E cosí detto si levarono tutti in piedi; e presa riverentemente licenzia dalla signora Duchessa, ciascun si fu alla stanzia sua.
Fine secondo libro.
Parte terza.
IL TERZO LIBRO DEL CORTEGIANO.
DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO.
I.
Leggesi che Pitagora sottilissimamente e con bel modo trovò la misura del corpo d'Ercule; e questo, che sapendosi quel spazio nel quale ogni cinque anni si celebravan i giochi Olimpici in Acaia presso Elide inanzi al tempio di Iove Olimpico esser stato misurato da Ercule, e fatto un stadio di seicento e vinticinque piedi, de' suoi proprii; e gli altri stadi, che per tutta Grecia dai posteri poi furono instituiti, esser medesimamente di seicento e vinticinque piedi, ma con tutto ciò alquanto piú corti di quello, Pitagora facilmente conobbe a quella proporzion quanto il piè d'Ercule fosse stato maggior degli altri piedi umani; e cosí, intesa la misura del piede, a quella comprese tutto 'l corpo d'Ercule tanto esser stato di grandezza superiore agli altri omini proporzionalmente, quanto quel stadio agli altri stadi. Voi adunque, messer Alfonso mio, per la medesima ragione, da questa piccol parte di tutto 'l corpo potete chiaramente conoscer quanto la corte d'Urbino fosse a tutte l'altre della Italia superiore, considerando quanto i giochi, li quali son ritrovati per recrear gli animi affaticati dalle facende piú ardue, fossero a quelli che s'usano nell'altre corti della Italia superiori. E se queste eran tali, imaginate qualin eran poi l'altre operazion virtuose, ov'eran gli animi intenti e totalmente dediti; e di questo io confidentemente ardisco di parlare con speranza d'esser creduto, non laudando cose tanto antiche che mi sia licito fingere, e possendo approvar quant'io ragiono col testimonio de molti omini degni di fede che vivono ancora, e presenzialmente hanno veduto e conosciuto la vita e i costumi che in quella casa fiorirono un tempo; ed io mi tengo obligato, per quanto posso, di sforzarmi con ogni studio vendicar dalla mortal oblivione questa chiara memoria e scrivendo farla vivere negli animi dei posteri. Onde forse per l'avvenire non mancherà chi per questo ancor porti invidia al secol nostro; ché non è alcun che legga le maravigliose cose degli antichi, che nell'animo suo non formi una certa maggior opinion di coloro di chi si scrive, che non pare che possano esprimer quei libri, avvegna che divinamente siano scritti.
Cosí noi desideramo che tutti quelli, nelle cui mani verrà questa nostra fatica, se pur mai sarà di tanto favor degna che da nobili cavalieri e valorose donne meriti esser veduta, presumano e per fermo tengano la corte d'Urbino esser stata molto piú eccellente ed ornata d'omini singulari, che noi non potemo scrivendo esprimere; e se in noi fosse tanta eloquenzia, quanto in essi era valore, non aremmo bisogno d'altro testimonio per far che alle parole nostre fosse da quelli che non l'hanno veduto dato piena fede.
II.
Essendosi adunque ridutta il seguente giorno all'ora consueta la compagnia al solito loco e postasi con silenzio a sedere, rivolse ognun gli occhi a messer Federico ed al Magnifico Iuliano, aspettando qual di lor desse principio a ragionare. Onde la signora Duchessa, essendo stata alquanto cheta, - Signor Magnifico, - disse, - ognun desidera veder questa vostra donna ben ornata; e se non ce la mostrate di tal modo che le sue bellezze tutte si veggano, estimaremo che ne siate geloso -. Rispose il Magnifico: - Signora, se io la tenessi per bella, la mostrarei senza altri ornamenti e di quel modo che volse veder Paris le tre dee; ma se queste donne, che pur lo san fare, non m'aiutano ad acconciarla, io dubito che non solamente il signor Gasparo e 'l Frigio, ma tutti quest'altri signori aranno giusta causa di dirne male. Però, mentre che ella sta pur in qualche opinion di bellezza, forse sarà meglio tenerla occulta e veder quello che avanza a messer Federico a dir del cortegiano, che senza dubbio è molto piú bello che non po esser la mia donna.
- Quello ch'io mi avea posto in animo, - rispose messer Federico, - non è tanto appertenente al cortegiano, che non si possa lassar senza danno alcuno; anzi è quasi diversa materia da quella che sin qui s'è ragionata. - E che cosa è egli adunque? - disse la signora Duchessa. Rispose messer Federico:
- io m'era deliberato, per quanto poteva, dichiarir le cause de queste compagnie ed ordini de cavalieri fatti da gran príncipi sotto diverse insegne, com'è quel di San Michele nella casa di Francia; quel del Gartier, che è sotto il nome di San Georgio, nella casa d'Inghilterra; il Toison d'oro in quella di Borgogna; ed in che modo si diano queste dignità e come se ne privino quelli che lo meritano; onde siano nate, chi ne sian stati gli autori ed a che fine l'abbiano instituite; perché pur nelle gran corti son questi cavalieri sempre onorati. Pensavo ancor, se 'l tempo mi fosse bastato, oltre alla diversità de' costumi che s'usano nelle corti de' príncipi cristiani nel servirgli, nel festeggiare e farsi vedere nei spettaculi publici, parlar medesimamente qualche cosa di quella del Gran Turco, ma molto piú particularmente di quella del Sofi re di Persia; ché, avendo io inteso da mercatanti che lungamente son stati in quel paese, gli omini nobili di là esser molto valorosi e di gentil costumi ed usar nel conversar l'un con l'altro, nel servir donne, ed in tutte le sue azioni molta cortesia e molta discrezione e, quando occorre, nell'arme, nei giochi e nelle feste molta grandezza, molta liberalità e leggiadria, sonomi dilettato di saper quali siano in queste cose i modi di che essi piú s'apprezzano, in che consisteno le lor pompe ed attillature d'abiti e d'arme; in che siano da noi diversi ed in che conformi; che manera d'intertenimenti usino le lor donne, e con quanta modestia favoriscano chi le serve per amore. Ma invero non è ora conveniente entrar in questo ragionamento, essendovi massimamente altro che dire, e molto piú al nostro proposito che questo -.
III.
- Anzi, - disse il signor Gasparo, - e questo e molte altre cose son piú al proposito che 'l formar questa donna di palazzo, atteso che le medesime regule che son date per lo cortegiano, servono ancor alla donna; perché cosí deve ella aver rispetto ai tempi e lochi ed osservar, per quanto comporta la sua imbecillità, tutti quegli altri modi di che tanto s'è ragionato, come il cortegiano. E però in loco di questo non sarebbe forse stato male insegnar qualche particularità di quelle che appartengono al servizio della persona del principe, ché pur al cortegian si convien saperle ed aver grazia in farle; o veramente dir del modo che s'abbia a tener negli esercizi del corpo e come cavalcare, maneggiar l'arme, lottare ed in che consiste la difficultà di queste operazioni -. Disse allor la signora Duchessa ridendo: - I signori non si servono alla persona di cosí eccellente cortegiano, come è questo: gli esercizi poi del corpo e forze e destrezze della persona lassaremo che messer Pietro Monte nostro abbia cura d'insegnar, quando gli parerà tempo piú commodo; perché ora il Magnifico non ha da parlar d'altro che di questa donna della qual parmi che voi già cominciate aver paura, e però vorreste farci uscir di proposito -. Rispose il Frigio: - Certo è che impertinente e for di proposito è ora il parlar di donne, restando massimamente ancora che dire del cortegiano, perché non si devria mescolar una cosa con l'altra. - Voi sète in grande errore, - rispose messer Cesare Gonzaga; - perché come corte alcuna, per grande che ella sia, non po aver ornamento o splendore in sé, né allegria senza donne, né cortegiano alcun essere aggraziato, piacevole o ardito, né far mai opera leggiadra di cavalleria, se non mosso dalla pratica e dall'amore e piacer di donne, cosí ancora il ragionar del cortegiano è sempre imperfettissimo, se le donne, interponendovisi, non dànno lor parte di quella grazia, con la quale fanno perfetta ed adornano la cortegiania -. Rise il signor Ottaviano e disse: Eccovi un poco di quell'esca che fa impazzir gli omini -.
IV.
Allor il signor Magnifico, voltatosi alla signora Duchessa, - Signora, - disse, - poiché pur cosí a voi piace, io dirò quello che m'occorre, ma con grandissimo dubbio di non satisfare; e certo molto minor fatica mi saria formar una signora che meritasse esser regina del mondo, che una perfetta cortegiana, perché di questa non so io da chi pigliarne lo esempio; ma della regina non mi bisogneria andar troppo lontano e solamente basteriami imaginar le divine condizioni d'una Signora ch'io conosco e, quelle contemplando, indrizzar tutti i pensier mei ad esprimer chiaramente con le parole quello che molti veggon con gli occhi; e quando altro non potessi, lei nominando solamente arei satisfatto all'obligo mio -. Disse allora la signora Duchessa:
- Non uscite dei termini, signor Magnifico, ma attendete all'ordine dato e formate la donna di palazzo, acciò che questa cosí nobil signora abbia chi possa degnamente servirla -. Seguitò il Magnifico: - Io adunque, Signora, acciò che si vegga che i comandamenti vostri possono indurmi a provar di far quello ancora ch'io non so fare, dirò di questa donna eccellente come io la vorrei; e formata ch'io l'averò a modo mio, non potendo poi averne altra, terrolla come mia a guisa di Pigmalione. E perché il signor Gaspar ha detto che le medesime regule che son date per lo cortegiano serveno ancor alla donna, io son di diversa opinione; ché, benché alcune qualità siano communi e cosí necessarie all'omo come alla donna, sono poi alcun'altre che piú si convengono alla donna che all'omo, ed alcune convenienti all'omo dalle quali essa deve in tutto esser aliena. Il medesimo dico degli esercizi del corpo; ma sopra tutto parmi che nei modi, maniere, parole, gesti e portamenti suoi, debba la donna essere molto dissimile dall'omo; perché come ad esso conviene mostrar una certa virilità soda e ferma, cosí alla donna sta ben aver una tenerezza molle e delicata, con maniera in ogni suo movimento di dolcezza feminile, che nell'andar e stare e dir ciò che si voglia sempre la faccia parer donna, senza similitudine alcuna d'omo. Aggiungendo adunque questa avvertenzia alle regule che questi signori hanno insegnato al cortegiano, penso ben che di molte di quelle ella debba potersi servire ed ornarsi d'ottime condizioni, come dice il signor Gaspar; perché molte virtú dell'animo estimo io che siano alla donna necessarie cosí come all'omo; medesimamente la nobilità, il fuggire l'affettazione, l'esser aggraziata da natura in tutte l'operazion sue, l'esser di boni costumi, ingeniosa, prudente, non superba, non invidiosa, non malèdica, non vana, non contenziosa, non inetta, sapersi guadagnar e conservar la grazia della sua signora e de tutti gli altri, far bene ed aggraziatamente gli esercizi che si convengono alle donne. Parmi ben che in lei sia poi piú necessaria la bellezza che nel cortegiano, perché in vero molto manca a quella donna a cui manca la bellezza. Deve ancor esser piú circunspetta ed aver piú riguardo di non dar occasion che di sé si dica male, e far di modo che non solamente non sia macchiata di colpa, ma né anco di suspizione, perché la donna non ha tante vie da diffendersi dalle false calunnie, come ha l'omo. Ma perché il conte Ludovico ha esplicato molto minutamente la principal profession del cortegiano ed ha voluto ch'ella sia quella dell'arme, parmi ancora conveniente dir, secondo il mio giudicio, qual sia quella della donna di palazzo; alla qual cosa quando io averò satisfatto, pensaromi d'esser uscito della maggior parte del mio debito.
V.
Lassando adunque quelle virtú dell'animo che le hanno da esser communi col cortegiano, come la prudenzia, la magnanimità, la continenzia e molte altre; e medesimamente quelle condizioni che si convengono a tutte le donne, come l'esser bona e discreta, il saper governar le facultà del marito e la casa sua e i figlioli quando è maritata, e tutte quelle parti che si richieggono ad una bona madre di famiglia, dico che a quella che vive in corte parmi convenirsi sopra ogni altra cosa una certa affabiità piacevole, per la quale sappia gentilmente intertenere ogni sorte d'omo con ragionamenti grati ed onesti, ed accommodati al tempo e loco ed alla qualità di quella persona con cui parlerà, accompagnando coi costumi placidi e modesti e con quella onestà che sempre ha da componer tutte le sue azioni una pronta vivacità d'ingegno, donde si mostri aliena da ogni grosseria; ma con tal maniera di bontà, che si faccia estimar non men pudica, prudente ed umana, che piacevole, arguta e discreta; e però le bisogna tener una certa mediocrità difficile e quasi composta di cose contrarie, e giunger a certi termini a punto, ma non passargli. Non deve adunque questa donna, per volersi far estimar bona ed onesta, esser tanto ritrosa e mostrar tanto d'aborrire e le compagnie e i ragionamenti ancor un poco lascivi, che ritrovandovisi se ne levi; perché facilmente si poria pensar ch'ella fingesse d'esser tanto austera per nascondere di sé quello ch'ella dubitasse che altri potesse risapere; e i costumi cosí selvatichi son sempre odiosi. Non deve tampoco, per mostrar d'esser libera e piacevole, dir parole disoneste, né usar una certa domestichezza intemperata e senza freno e modi da far creder di sé quello che forse non è; ma ritrovandosi a tai ragionamenti, deve ascoltargli con un poco di rossore e vergogna. Medesimamente fuggir un errore, nel quale io ho veduto incorrer molte; che è il dire ed ascoltare volentieri chi dice mal d'altre donne; perché quelle che, udendo narrare modi disonesti d'altre donne, se ne turbano e mostrano non credere, ed estimar quasi un mostro che una donna sia impudica, dànno argumento che, parendo lor quel diffetto tanto enorme, esse non lo commettano; ma quelle che van sempre investigando gli amori dell'altre e gli narrano cosí minutamente e con tanta festa, par che lor n'abbiano invidia e che desiderino che ognun lo sappia, acciò che il medesimo ad esse non sia ascritto per errore; e cosí vengon in certi risi, con certi modi, che fanno testimonio che allor senton sommo piacere. E di qui nasce che gli omini, benché paia che le ascoltino voluntieri, per lo piú delle volte le tengono in mala opinione ed hanno lor pochissimo riguardo, e par loro che da esse con que' modi siano invitati a passar piú avanti, e spesso poi scorrono a termini che dàn loro meritamente infamia ed in ultimo le estimano cosí poco, che non curano il lor commercio, anzi le hanno in fastidio; e, per contrario, non è omo tanto procace ed insolente, che non abbia riverenzia a quelle che sono estimate bone ed oneste; perché quella gravità temperata di sapere e bontà è quasi un scudo contra la insolenzia e bestialità dei prosuntuosi; onde si vede che una parola, un riso, un atto di benivolenzia, per minimo ch'egli sia, d'una donna onesta, è piú apprezzato da ognuno, che tutte le demostrazioni e carezze di quelle che cosí senza riservo mostran poca vergogna; e se non sono impudiche, con que' risi dissoluti, con la loquacità, insolenzia e tai costumi scurili fanno segno d'essere.
VI.
E perché le parole sotto le quali non è subietto di qualche importanzia son vane e puerili, bisogna che la donna di palazzo, oltre al giudicio di conoscere la qualità di colui con cui parla, per intertenerlo gentilmente, abbia notizia di molte cose; e sappia parlando elegger quelle che sono a proposito della condizion di colui con cui parla e sia cauta in non dir talor non volendo parole che lo offendano. Si guardi, laudando se stessa indiscretamente, o vero con l'esser troppo prolissa, non gli generar fastidio.
Non vada mescolando nei ragionamenti piacevoli e da ridere cose di gravità, né meno nei gravi facezie e burle. Non mostri inettamente di saper quello che non sa, ma con modestia cerchi d'onorarsi di quello che sa, fuggendo, come s'è detto, l'affettazione in ogni cosa. In questo modo sarà ella ornata de boni costumi e gli esercizi del corpo convenienti a donna farà con suprema grazia e i ragionamenti soi saranno copiosi e pieni di prudenzia, onestà e piacevolezza; e cosí sarà essa non solamente amata, ma reverita da tutto 'l mondo e forse degna d'esser agguagliata a questo gran cortegiano, cosí delle condizioni dell'animo come di quelle del corpo -.
VII.
Avendo insin qui detto, il Magnifico si tacque e stette sopra di sé, quasi come avesse posto fine al suo ragionamento. Disse allor il signor Gasparo: - Voi avete veramente, signor Magnifico, molto adornata questa donna e fattola di eccellente condizione; nientedimeno parmi che vi siate tenuto assai al generale e nominato in lei alcune cose tanto grandi, che credo vi siate vergognato di chiarirle; e piú presto le avete desiderate, a guisa di quelli che bramano talor cose impossibili e sopranaturali, che insegnate. Però vorrei che ci dichiariste un poco meglio quai siano gli esercizi del corpo convenienti a donna di palazzo, e di che modo ella debba intertenere, e quai sian queste molte cose di che voi dite che le si conviene aver notizia; e se la prudenzia, la magnanimità, la continenzia e quelle molte altre virtú che avete detto, intendete che abbiano ad aiutarla solamente circa il governo della casa, dei figlioli e della famiglia (il che però voi non volete che sia la sua prima professione), o veramente allo intertenere e far aggraziatamente questi esercizi del corpo; e per vostra fé guardate a non mettere queste povere virtú a cosí vile officio, che abbiano da vergognarsene -. Rise il Magnifico e disse: - Pur non potete far, signor Gasparo, che non mostriate mal animo verso le donne; ma in vero a me pareva aver detto assai, e massimamente presso a tali auditori; ché non penso già che sia alcun qui che non conosca che, circa gli esercizi del corpo, alla donna non si convien armeggiare, cavalcare, giocare alla palla, lottare e molte altre cose che si convengono agli omini -. Disse allora l'Unico Aretino: - Appresso gli antichi s'usava che le donne lottavano nude con gli omini; ma noi avemo perduta questa bona usanza insieme con molt'altre -. Suggiunse messer Cesare Gonzaga: - Ed io a' mei dí ho veduto donne giocare alla palla, maneggiar l'arme, cavalcare, andar a caccia e far quasi tutti gli esercizi che possa fare un cavaliero -.
VIII.
Rispose il Magnifico: - Poich'io posso formar questa donna a modo mio, non solamente non voglio ch'ella usi questi esercizi virili cosí robusti ed asperi, ma voglio che quegli ancora che son convenienti a donna faccia con riguardo, e con quella molle delicatura che avemo detto convenirsele; e però nel danzar non vorrei vederla usar movimenti troppo gagliardi e sforzati, né meno nel cantar o sonar quelle diminuzioni forti e replicate, che mostrano piú arte che dolcezza; medesimamente gli instrumenti di musica che ella usa, secondo me, debbono esser conformi a questa intenzione. Imaginatevi come disgraziata cosa saria veder una donna sonare tamburri, piffari o trombe, o altri tali instrumenti; e questo perché la loro asprezza nasconde e leva quella soave mansuetudine, che tanto adorna ogni atto che faccia la donna.
Però quando ella viene a danzar o a far musica di che sorte si sia, deve indurvisi con lassarsene alquanto pregare e con una certa timidità, che mostri quella nobile vergogna che è contraria della impudenzia. Deve ancor accommodar gli abiti a questa intenzione e vestirsi di sorte, che non paia vana e leggera. Ma perché alle donne è licito e debito aver piú cura della bellezza che agli omini e diverse sorti sono di bellezza, deve questa donna aver iudicio di conoscer quai sono quegli abiti che le accrescon grazia e piú accommodati a quelli esercizi ch'ella intende di fare in quel punto, e di quelli servirsi; e conoscendo in sé una bellezza vaga ed allegra, deve aiutarla coi movimenti, con le parole e con gli abiti, che tutti tendano allo allegro; cosí come un'altra, che si senta aver maniera mansueta e grave, deve ancor accompagnarla con modi di quella sorte, per accrescer quello che è dono della natura. Cosí, essendo un poco piú grassa o piú magra del ragionevole, o bianca o bruna, aiutarsi con gli abiti, ma dissimulatamente piú che sia possibile; e tenendosi delicata e polita, mostrar sempre di non mettervi studio o diligenzia alcuna.
IX.
E perché il signor Gasparo dimanda ancor quai siano queste molte cose di che ella deve aver notizia, e di che modo intertenere, e se le virtú deono servire a questo intertenimento, dico che voglio che ella abbia cognizion de ciò che questi signori hanno voluto che sappia il cortegiano; e de quelli esercizi che avemo detto che a lei non si convengono, voglio che ella n'abbia almen quel giudicio che possono aver delle cose coloro che non le oprano; e questo per saper laudare ed apprezzar i cavalieri piú e meno, secondo i meriti. E per replicar in parte con poche parole quello che già s'è detto, voglio che questa donna abbia notizie di lettere, di musica, di pittura e sappia danzar e festeggiare; accompagnando con quella discreta modestia e col dar bona opinion di sé ancora le altre avvertenze che son state insegnate al cortegiano. E cosí sarà nel conversare, nel ridere, nel giocare, nel motteggiare, in somma in ogni cosa graziatissima; ed intertenerà accommodatamente e con motti e facezie convenienti a lei ogni persona che le occorrerà. E benché la continenzia, la magnanimità, la temperanzia, la fortezza d'animo, la prudenzia e le altre virtú paia che non importino allo intertenere, io voglio che di tutte sia ornata, non tanto per lo intertenere, benché però ancor a questo possono servire, quanto per esser virtuosa ed acciò che queste virtú la faccian tale, che meriti esser onorata e che ogni sua operazion sia di quelle composta -.
X.
- Maravigliomi pur, - disse allora ridendo il signor Gaspar, - che poiché date alle donne e le lettere e la continenzia e la magnanimità e la temperanzia, che non vogliate ancor che esse governino le città e faccian le leggi e conducano gli eserciti; e gli omini si stiano in cucina o a filare -. Rispose il Magnifico, pur ridendo: - Forse che questo ancora non sarebbe male; - poi suggiunse: - Non sapete voi che Platone, il quale in vero non era molto amico delle donne, dà loro la custodia della città e tutti gli altri offici marziali dà agli omini? Non credete voi che molte se ne trovassero, che saprebbon cosí ben governar le città e gli eserciti, come si faccian gli omini? Ma io non ho lor dati questi offici, perché formo una donna di palazzo, non una regina. Conosco ben che voi vorreste tacitamente rinovar quella falsa calunnia, che ieri diede il signor Ottaviano alle donne: cioè che siano animali imperfettissimi e non capaci di far atto alcun virtuoso, e di pochissimo valore e di niuna dignità a rispetto degli omini; ma in vero ed esso e voi sareste in grandissimo errore, se pensaste questo -.
XI.
Disse allora il signor Gaspar: - Io non voglio rinovar le cose già dette, ma voi ben vorreste indurmi a dir qualche parola che offendesse l'animo di queste signore, per farmele nemiche, cosí come voi col lusingarle falsamente volete guadagnar la loro grazia. Ma esse sono tanto discrete sopra le altre, che amano piú la verità, ancora che non sia tanto in suo favore, che le laudi false; né hanno a male, che altri dica che gli omini siano di maggior dignità, e confessaranno che voi avete detto gran miraculi ed attribuito alla donna di palazzo alcune impossibilità ridicule e tante virtú, che Socrate e Catone e tutti i filosofi del mondo vi sono per niente; ché, a dir pur il vero, maravigliomi che non abbiate avuto vergogna a passar i termini di tanto. Ché ben bastar vi dovea far questa donna di palazzo bella, discreta, onesta, affabile e che sapesse intertenere senza incorrere in infamia con danze, musiche, giochi, risi, motti e l'altre cose che ogni dí vedemo che s'usano in corte; ma il volerle dar cognizion di tutte le cose del mondo ed attribuirle quelle virtú che cosí rare volte si son vedute negli omini, ancora nei seculi passati, è una cosa che né supportare né a pena ascoltare si po. Che le donne siano mo animali imperfetti e per conseguente di minor dignità che gli omini e non capaci di quelle virtú che sono essi, non voglio io altrimenti affirmare, perché il valor di queste signore bastaria a farmi mentire; dico ben che omini sapientissimi hanno lassato scritto che la natura, perciò che sempre intende e disegna far le cose piú perfette, se potesse, produria continuamente omini; e quando nasce una donna, è diffetto o error della natura e contra quello che essa vorrebbe fare. Come si vede ancor d'uno che nasce cieco, zoppo, o con qualche altro mancamento e negli arbori molti frutti che non maturano mai, cosí la donna si po dire animal produtto a sorte e per caso; e che questo sia, vedete l'operazion dell'omo e della donna e da quelle pigliate argumento della perfezion dell'uno e dell'altro. Nientedimeno essendo questi diffetti delle donne colpa di natura che l'ha produtte tali, non devemo per questo odiarle, né mancar di aver loro quel rispetto che vi si conviene; ma estimarle da piú di quello che elle si siano, parmi error manifesto -.
XII.
Aspettava il Magnifico Iuliano che 'l signor Gasparo seguitasse piú oltre; ma vedendo che già tacea, disse: - Della imperfezion delle donne parmi che abbiate addutto una freddissima ragione; alla quale, benché non si convenga forse ora entrar in queste suttilità, rispondo secondo il parere di chi sa e secondo la verità che la sustanzia in qualsivoglia cosa non po in sé ricevere il piú o il meno; ché, come niun sasso po esser piú perfettamente sasso che un altro quanto alla essenzia del sasso, né un legno piú perfettamente legno che l'altro, cosí un omo non po essere piú perfettamente omo che l'altro, e conseguentemente non sarà il maschio piú perfetto che la femina, quanto alla sustanzia sua formale, perché l'uno e l'altro si comprende sotto la specie dell'omo e quello in che l'uno dall'altro son differenti è cosa accidentale e non essenziale. Se mi direte adunque che l'omo sia piú perfetto che la donna, se non quanto alla essenzia, almen quanto agli accidenti, rispondo che questi accidenti bisogna che consistano o nel corpo o nell'animo; se nel corpo, per esser l'omo piú robusto, piú agile, piú leggero, o piú tollerante di fatiche, dico che questo è argumento di pochissima perfezione, perché tra gli omini medesimi quelli che hanno queste qualità piú che gli altri non son per quelle piú estimati; e nelle guerre, dove son la maggior parte delle opere laboriose e di forza, i piú gagliardi non son però i piú pregiati; se nell'animo, dico che tutte le cose che possono intender gli omini, le medesime possono intendere anche le donne; e dove penetra l'intelletto dell'uno, po penetrare eziandio quello dell'altra -.
XIII.
Quivi avendo il Magnifico Iuliano fatto un poco di pausa, suggiunse ridendo: - Non sapete voi che in filosofia si tiene questa proposizione, che quelli che sono molli di carne sono atti della mente? perciò non è dubbio che le donne, per esser piú molli di carne, sono ancor piú atte della mente e de ingegno piú accommodato alle speculazioni che gli omini -. Poi seguitò: - Ma lassando questo, perché voi diceste ch'io pigliassi argumento della perfezion dell'un e dell'altro dalle opere, dico, se voi considerate gli effetti della natura, trovarete ch'ella produce le donne tali come sono, non a caso, ma accommodate al fine necessario; ché, benché le faccia del corpo non gagliarde e di animo placido, con molte altre qualità contrarie a quelle degli omini, pur le condizioni dell'uno e dell'altro tendono ad un sol fine concernente alla medesima utilità. Ché secondo che per quella debole fievolezza le donne son men animose, per la medesima sono ancor poi piú caute; però le madri nutriscono i figlioli, i padri gli ammaestrano e con la fortezza acquistano di fori quello, che esse con la sedulità conservano in casa, che non è minor laude. Se considerarete poi l'istorie antiche (benché gli omini sempre siano stati parcissimi nello scrivere le laudi delle donne) e le moderne, trovarete che continuamente la virtú è stata tra le donne cosí come tra gli omini; e che ancor sonosi trovate di quelle che hanno mosso delle guerre e conseguitone gloriose vittorie; governato i regni con somma prudenzia e giustizia e fatto tutto quello che s'abbian fatto gli omini. Circa le scienzie, non vi ricorda aver letto di tante che hanno saputo filosofia? altre che sono state eccellentissime in poesia? altre che han trattato le cause ed accusato e diffeso inanti ai giudici eloquentissimamente? Dell'opere manuali saria lungo narrare, né di ciò bisogna far testimonio. Se adunque nella sustanzia essenziale l'omo non è piú perfetto della donna, né meno negli accidenti (e di questo, oltre la ragione, veggonsi gli effetti), non so in che consista questa sua perfezione.
XIV.
E perché voi diceste che intento della natura è sempre di produr le cose piú perfette e però, s'ella potesse, sempre produria l'omo, e che il produr la donna è piú presto errore o diffetto della natura che intenzione, rispondo che questo totalmente si nega; né so come possiate dire che la natura non intenda produr le donne, senza le quali la specie umana conservar non si po, di che piú che d'ogni altra cosa è desiderosa essa natura. Perciò col mezzo di questa compagnia di maschio e di femina produce i figlioli, i quali rendono i benefici ricevuti in puerizia ai padri già vecchi, perché gli nutriscono, poi gli rinovano col generar essi ancor altri figlioli, dai quali aspettano in vecchiezza ricever quello, che essendo giovani ai padri hanno prestato; onde la natura, quasi tornando in circulo, adempie la eternità ed in tal modo dona la immortalità ai mortali. Essendo adunque a questo tanto necessaria la donna quanto l'omo, non vedo per qual causa l'una sia fatta a caso piú che l'altro. E' ben vero che la natura intende sempre produr le cose piú perfette e però intende produr l'omo in specie sua, ma non piú maschio che femina; anzi, se sempre producesse maschio, faria una imperfezione; perché come del corpo e dell'anima risulta un composito piú nobile che le sue parti, che è l'omo, cosí della compagnia di maschio e di femina risulta un composito conservativo della specie umaria, senza il quale le parti si destruiriano.
E però maschio e femina da natura son sempre insieme, né po esser l'un senza l'altro; cosí quello non si dee chiamar maschio che non ha la femina, secondo la diffinizione dell'uno e dell'altro; né femina quella che non ha maschio. E perché un sesso solo dimostra imperfezione, attribuiscono gli antichi teologi l'uno e l'altro a Dio: onde Orfeo disse che Iove era maschio e femina; e leggesi nella Sacra Scrittura che Dio formò gli omini maschio e femina a sua similitudine, e spesso i poeti, parlando dei dèi, confondono il sesso -.
VX.
Allora il signor Gasparo, - Io non vorrei, - disse, - che noi entrassimo in tali suttilità, perché queste donne non c'intenderanno; e benché io vi risponda con ottime ragioni, esse crederanno, o almen mostraranno di credere, ch'io abbia il torto, e súbito daranno la sentenzia a suo modo. Pur, poiché noi vi siamo entrati, dirò questo solo che, come sapete essere opinion d'omini sapientissimi, l'omo s'assimiglia alla forma, la donna alla materia; e però, cosí come la forma è piú perfetta che la materia, anzi le dà l'essere, cosí l'omo è piú perfetto assai che la donna. E ricordomi aver già udito che un gran filosofo in certi suoi Problemi dice: «Onde è che naturalmente la donna ama sempre quell'omo che è stato il primo a ricever da lei amorosi piaceri? e per contrario l'omo ha in odio quella donna che è stata la prima a congiungersi in tal modo con lui?» e suggiungendo la causa afferma, questo essere perché in tal atto la donna riceve dall'omo perfezione e l'omo dalla donna imperfezione; e però ognun ama naturalmente quella cosa che lo fa perfetto ed odia quella che lo fa imperfetto. Ed oltre a ciò grande argumento della perfezion dell'omo e della imperfezion della donna è che universalmente ogni donna desidera esser omo, per un certo instinto di natura, che le insegna desiderar la sua perfezione -.
VXI.
Rispose súbito il Magnifico Iuliano: - Le meschine non desiderano l'esser omo per farsi piú perfette, ma per aver libertà e fuggir quel dominio che gli omini si hanno vendicato sopra esse per sua propria autorità. E la similitudine che voi date della materia e forma non si confà in ogni cosa; perché non cosí è fatta perfetta la donna dall'omo, come la materia dalla forma; perché la materia riceve l'essere dalla forma e senza essa star non po, anzi quanto piú di materia hanno le forme, tanto piú hanno d'imperfezione, e separate da essa son perfettissime; ma la donna non riceve lo essere dall'omo, anzi cosí come essa è fatta perfetta da lui, essa ancor fa perfetto lui; onde l'una e l'altro insieme vengono a generare, la qual cosa far non possono alcun di loro per se stessi. La causa poi dell'amor perpetuo della donna verso 'l primo con cui sia stata e dell'odio dell'omo verso la prima donna, non darò io già a quello che dà il vostro filosofo ne' suoi Problemi, ma alla fermezza e stabilità della donna ed alla instabilità dell'omo; né senza ragion naturale, perché essendo il maschio calido, naturalmente da quella qualità piglia la leggerezza, il moto e la instabilità; e, per contrario, la donna dalla frigidità, la quiete e gravità ferma e piú fisse impressioni -.
VXII.
Allora la signora Emilia rivolta al signor Magnifico, - Per amor di Dio, - disse, - uscite una volta di queste vostre «materie» e «forme» e maschi e femine e parlate di modo che siate inteso; perché noi avemo udito e molto ben inteso il male che di noi ha detto el signor Ottaviano e 'l signor Gasparo, ma or non intendemo già in che modo voi ci diffendiate; però questo mi par un uscir di proposito e lassar nell'animo d'ognuno quella mala impressione, che di noi hanno data questi nostri nemici. - Non ci date questo nome, Signora, - rispose il signor Gaspar, - ché piú presto si conviene al signor Magnifico, il qual col dar laudi false alle donne, mostra che per esse non ne sian di vere -. Suggiunse il Magnifico Iuliano: - Non dubitate, Signora, che al tutto si risponderà; ma io non voglio dir villania agli omini cosí senza ragione, come hanno fatto essi alle donne; e se per sorte qui fusse alcuno che scrivesse i nostri ragionamenti, non vorrei che poi in loco dove fossero intese queste «materie» e «forme», si vedessero senza risposta gli argomenti e le ragioni che 'l signor Gaspar contra di voi adduce. - Non so, signor Magnifico, - disse allora il signor Gasparo, - come in questo negar potrete che l'omo per le qualità naturali non sia piú perfetto che la donna, la quale è frigida di sua complessione, e l'omo calido; e molto piú nobile e piú perfetto è il caldo che 'l freddo, per essere attivo e produttivo; e, come sapete, i cieli qua giú tra noi infondono il caldo solamente e non il freddo, il quale non entra nelle opere della natura; e però lo esser le donne frigide di complessione credo che sia causa della viltà e timidità loro.
VXIII.
- Ancor volete, - rispose il Magnifico Iuliano, - pur entrare nelle sottilità; ma vederete che ogni volta peggio ve n'avverrà: e che cosí sia, udite. Io vi confesso che la calidità in sé è piú perfetta che la frigidità; ma questo non séguita nelle cose miste e composite perché, se cosí fusse, quel corpo che piú caldo fusse, quel saria piú perfetto; il che è falso, perché i corpi temperati sono perfettissimi. Dicovi ancora che la donna è di complession frigida in comparazion dell'omo, il quale per troppo caldo è distante dal temperamento; ma, quanto in sé, è temperata, o almen piú propinqua al temperamento che non è l'omo, perché ha in sé quell'umido proporzionato al calor naturale che nell'uomo per la troppa siccità piú presto se risolve e si consuma. Ha ancor una tal frigidità che resiste e conforta il calor naturale e lo fa piú vicino al temperamento; e nell'omo il superfluo caldo presto riduce il calor naturale all'ultimo grado, il quale, mancandoli il nutrimento, pur si risolve; e però, perché gli omini nel generar si diseccano piú che le donne, spesso interviene che son meno vivaci che esse; onde questa perfezione ancor si po attribuire alle donne che, vivendo piú lungamente che gli omini, eseguiscono piú quello che è intento della natura, che gli omini. Del calore che infundono i cieli sopra noi non si parla ora, perché è equivoco a quello di che ragioniamo; ché essendo conservativo di tutte le cose che son sotto 'l globo della luna, cosí calde come fredde, non po esser contrario al freddo. Ma la timidità nelle donne, avvegna che dimostri qualche imperfezione, nasce però da laudabil causa, che è la sottilità e prontezza dei spiriti, i quali rappresentano tosto le specie allo intelletto e però si perturbano facilmente per le cose estrinseche.
Vederete ben molte volte alcuni, che non hanno paura né di morte né d'altro, né con tutto ciò si possono chiamare arditi, perché non conoscono il periculo e vanno come insensati dove vedeno la strada e non pensano piú; e questo procede da una certa grossezza di spiriti ottusi; però non si po dire che un pazzo sia animoso, ma la vera magnanimità viene da una propria deliberazione e determinata voluntà di far cosí e da estimare piú l'onore e 'l debito che tutti i pericoli del mondo; e benché si conosca la morte manifesta, esser di core e d'animo tanto saldo, che i sentimenti non restino impediti né si spaventino, ma faccian l'officio loro circa il discorrere e pensare, cosí come se fossero quietissimi. Di questa sorte avemo veduto ed inteso esser molti grandi omini; medesimamente molte donne, le quali e negli antichi seculi e nei presenti hanno mostrato grandezza d'animo e fatto al mondo effetti degni d'infinita laude, non men che s'abbian fatto gli omini -.
XIX.
Allor il Frigio, - Quelli effetti, - disse, - cominciarono quando la prima donna errando fece altrui errar contra Dio e per eredità lassò all'umana generazion la morte, gli affanni e i dolori e tutte le miserie e calamità, che oggidí al mondo si sentono -. Rispose il Magnifico Iuliano: - Poiché nella sacrestia ancor vi giova d'entrare, non sapete voi che quello error medesimamente fu corretto da una Donna, che ci apportò molto maggior utilità che quella non v'avea fatto danno, di modo che la colpa che fu pagata con tai meriti si chiama felicissima? Ma io non voglio or dirvi quanto di dignità tutte le creature umane siano inferiori alla Vergine Nostra Signora, per non mescolar le cose divine in questi nostri folli ragionamenti; né raccontar quante donne con infinita constanzia s'abbiano lassato crudelmente ammazzare dai tiranni per lo nome di Cristo, né quelle che con scienzia disputando hanno confuso tanti idolatri: e se mi diceste che questo era miracolo e grazia dello Spirito Santo, dico che niuna virtú merita piú laude, che quella che è approvata per testimonio de Dio. Molte altre ancor, delle quali tanto non si ragiona, da voi stesso potete vedere, massimamente legendo san Ieronimo, che alcune de' suoi tempi celebra con tante maravigliose laudi, che ben poriano bastar a qualsivoglia santissimo omo.
XX.
Pensate poi quante altre ci sono state delle quali non si fa menzione alcuna, perché le meschine stanno chiuse senza quella pomposa superbia di cercare appresso il vulgo nome di santità, come fanno oggidí molt'omini ippocriti maledetti, i quali, scordati o piú presto facendo poco caso della dottrina di Cristo, che vole che quando l'om digiuna se unga la faccia perché non paia che degiuni e comanda che le orazioni, le elemosine e l'altre bone opere si facciano non in piazza, né in sinagoge, ma in secreto, tanto che la man sinistra non sappia della destra, affermano non esser maggior bene al mondo che 'l dar bon esempio; e cosí, col collo torto e gli occhi bassi, spargendo fama di non voler parlare a donne, né mangiar altro che erbe crude, affumati con le toniche squarciate, gàbbano i semplici; che non si guardan poi da falsar testamenti, mettere inimicizie mortali tra marito e moglie e talor veneno, usar malie, incanti ed ogni sorte de ribalderia; e poi allegano una certa autorità di suo capo che dice «Si non caste, tamen caute»; e par loro con questa medicare ogni gran male e con bona ragione persuadere a chi non è ben cauto che tutti i peccati, per gravi che siano, facilmente perdona Idio, purché stiano secreti e non ne nasca il mal esempio. Cosí, con un velo di santità e con questa secretezza, spesso tutti i lor pensieri volgono a contaminare il casto animo di qualche donna; spesso a seminare odii tra fratelli, a governar stati, estollere l'uno e deprimer l'altro, far decapitare, incarcerare e proscrivere omini, esser ministri delle scelerità e quasi depositari delle rubbarie che fanno molti príncipi. Altri senza vergogna si dilettano d'apparer morbidi e freschi, con la cotica ben rasa e ben vestiti; ed alzano nel passeggiar la tonica per mostrar le calze tirate e la disposizion della persona nel far le riverenzie. Altri usano certi sguardi e movimenti ancor nel celebrar la messa, per i quali presumeno essere aggraziati e farsi mirare. Malvagi e scelerati omini, alienissimi non solamente dalla religione, ma d'ogni bon costume; e quando la lor vita dissoluta è lor rimproverata, si fanno beffe e ridonsi di chi lor ne parla e quasi si ascrivono i vicii a laude -. Allora la signora Emilia: - Tanto piacer, - disse, - avete di dir mal de' frati, che for d'ogni proposito siete entrato in questo ragionamento. Ma voi fate grandissimo male a mormorar dei religiosi e senza utilità alcuna vi caricate la coscienzia; ché, se non fossero quelli che pregan Dio per noi altri, aremmo ancor molto maggior flagelli che non avemo -.
Rise allora il Magnifico Iuliano e disse: - Come avete voi, Signora, cosí ben indovinato ch'io parlava de' frati, non avendo io loro fatto il nome? ma in vero il mio non si chiama mormorare, anzi parlo io ben aperto e chiaramente; né dico dei boni, ma dei malvagi e rei, de' quali ancor non parlo la millesima parte di ciò ch'io so. - Or non parlate de' frati, - rispose la signora Emilia; - ch'io per me estimo grave peccato l'ascoltarvi e però io, per non ascoltarvi, levarommi di qui -.
XXI.
Son contento - disse il Magnifico Iuliano, - non parlar piú di questo; ma tornando alle laudi delle donne, dico che 'l signor Gasparo non mi troverà omo alcun singulare, ch'io non vi trovi la moglie, o figliola, o sorella di merito eguale e talor superiore; oltra che molte son state causa d'infiniti beni ai loro omini e talor hanno corretto di molti loro errori. Però essendo, come avemo dimostrato, le donne naturalmente capaci di quelle medesime virtú che son gli omini, ed essendosene piú volte veduto gli effetti, non so perché, dando loro io quello che è possibile che abbiano e spesso hanno aúto e tuttavia hanno, debba esser estimato dir miracoli, come m'ha apposto il signor Gasparo; atteso che sempre sono state al mondo, ed ora ancor sono, donne cosí vicine alla donna di palazzo che ho formata io, come omini vicini all'omo che hanno formato questi signori -. Disse allora il signor Gasparo: - Quelle ragioni che hanno la esperienzia in contrario non mi paion bone; e certo s'io vi addimandassi quali siano, o siano state queste gran donne tanto degne di laude, quanto gli omini grandi ai quali son state moglie, sorelle o figliole, o che siano loro state causa di bene alcuno, o quelle che abbiano corretto i loro errori, penso che restareste impedito -.
XXII.
- Veramente, - rispose il Magnifico Iuliano, - niuna altra cosa poria farmi restar impedito, eccetto la moltitudine; e se 'l tempo mi bastasse, vi contarei a questo proposito la istoria d'Ottavia, moglie di Marc'Antonio e sorella d'Augusto; quella di Porcia, figliola di Catone e moglie di Bruto; quella di Gaia Cecilia, moglie di Tarquino Prisco; quella di Cornelia, figliola di Scipione; e d'infinite altre che sono notissime; e non solamente delle nostre, ma ancor delle barbare: come di quella Alessandra, moglie pur d'Alessandro re de' Giudei, la quale dopo la morte del marito, vedendo i populi accesi di furore e già corsi all'arme per ammazzare doi figlioli che di lui le erano restati, per vendetta della crudele e dura servitú nella quale il padre sempre gli avea tenuti, fu tale, che súbito mitigò quel giusto sdegno e con prudenzia in un punto fece benivoli ai figlioli quegli animi, che 'l padre con infinite ingiurie in molti anni avea fatti loro inimicissimi. - Dite almen, - rispose la signora Emilia, - come ella fece -. Disse il Magnifico: - Questa, vedendo i figlioli in tanto pericolo, incontinente fece gittare il corpo d'Alessandro in mezzo della piazza; poi, chiamatisi i cittadini, disse che sapea gli animi loro esser accesi di giustissimo sdegno contra suo marito, perché le crudeli ingiurie che esso iniquamente gli avea fatte lo meritavano; e che come mentre era vivo avrebbe sempre voluto poterlo far rimanere da tal scelerata vita, cosí adesso era apparecchiata a farne fede, e loro aiutar a castigarnelo cosí morto, per quanto si potea; e però si pigliassero quel corpo e lo facessino mangiar ai cani e lo straziassero con que' modi piú crudeli che imaginar sapeano; ma ben gli pregava che avessero compassione a quegli innocenti fanciulli, i quali non potevano non che aver colpa, ma pur esser consapevoli delle male opere del padre. Di tanta efficacia furono queste parole, che 'l fiero sdegno già conceputo negli animi di tutto quel populo súbito fu mitigato, e converso in cosí piatoso affetto, che non solamente di concordia elessero quei figlioli per loro signori, ma ancor al corpo del morto diedero onoratissima sepoltura -. Quivi fece il Magnifico un poco di pausa; poi suggiunse: - Non sapete voi che la moglie e le sorelle di Mitridate mostrarono molto minor paura della morte che Mitridate? e la moglie d'Asdrubale che Asdrubale? Non sapete ch'Armonia, figliola di leron siracusano, volse morire nell'incendio della patria sua? - Allor il Frigio, - Dove vada ostinazione certo è, - disse, - che talor si trovano alcune donne che mai non mutariano proposito; come quella che non potendo piú dir al marito «forbeci», con le mani gli ne facea segno -.
XXIII.
Rise il Magnifico Iuliano e disse: - La ostinazione che tende a fine virtuoso si dee chiamar constanzia; come fu di quella Epicari, libertina romana, che essendo consapevole d'una gran congiura contra di Nerone, fu di tanta constanzia che, straziata con tutti i piú asperi tormenti che imaginar si possano, mai non palesò alcuno delli complici; e nel medesimo pericolo molti nobili cavalieri e senatori timidamente accusarono fratelli, amici e le piú care ed intime persone che avessero al mondo. Che direte voi di quell'altra che si chiamava Leona? in onor della quale gli Ateniesi dedicorono innanzi alla porta della ròcca una leona di bronzo senza lingua, per dimostrar in lei la constante virtú della taciturnità; perché essendo essa medesimamente consapevole d'una congiura contra i tiranni, non si spaventò per la morte di dui grandi omini suoi amici, e benché con infiniti e crudelissimi tormenti fusse lacerata, mai non palesò alcuno dei congiurati -. Disse allor madonna Margherita Gonzaga: - Parmi che voi narriate troppo brevemente queste opere virtuose fatte da donne; ché se ben questi nostri nemici l'hanno udite e lette, mostrano non saperle e vorriano che se ne perdesse la memoria: ma se fate che noi altre le intendiamo, almen ce ne faremo onore -.
XXIV.
Allor il Magnifico Iuliano, - Piacemi, - rispose. - Or io voglio dirvi d'una, la qual fece quello che io credo che 'l signor Gasparo medesimo confessarà che fanno pochissimi omini; - e cominciò: - In Massilia fu già una consuetudine, la quale s'estima che di Grecia fusse traportata, la quale era che publicamente si servava veneno temperato con cicuta e concedevasi il pigliarlo a chi approvava al senato doversi levar la vita, per qualche incommodo che in essa sentisse, o ver per altra giusta causa, acciò che chi troppo avversa fortuna patito avea o troppo prospera gustato, in quella non perseverasse o questa non mutasse. Ritrovandosi adunque Sesto Pompeo... - Quivi il Frigio, non aspettando che 'l Magnifico Iuliano passasse piú avanti, Questo mi par, - disse, - il principio d'una qualche lunga fabula -. Allora il Magnifico Iuliano, voltatosi ridendo a madonna Margherita, - Eccovi, - disse, - che 'l Frigio non mi lascia parlare. Io voleva or contarvi d'una donna, la quale, avendo dimostrato al senato che ragionevolmente dovea morire, allegra e senza timor alcuno tolse in presenzia di Sesto Pompeo il veneno, con tanta constanzia d'animo e cosí prudenti ed amorevoli ricordi ai suoi, che Pompeo e tutti gli altri che videro in una donna tanto sapere e sicurezza nel tremendo passo della morte, restarono non senza lacrime confusi di molta maraviglia -.
XVX.
Allora il signor Gasparo ridendo, - Io ancora mi ricordo, - disse, - aver letto una orazione, nella quale un infelice marito dimanda licenzia al senato di morire ed approva averne giusta cagione, per non poter tollerare il continuo fastidio del cianciare di sua moglie e piú presto vol bere quel veneno, che voi dite che si servava publicamente per tali effetti, che le parole della moglie -. Rispose il Magnifico Iuliano: - Quante meschine donne aríano giusta causa di dimandar licenzia di morir, per non poter tollerare, non dirò le male parole, ma i malissimi fatti dei mariti! ch'io alcune ne conosco, che in questo mondo patiscono le pene che si dicono esser nell'inferno. - Non credete voi, - rispose il signor Gasparo, - che molti mariti ancor siano che dalle mogli hanno tal tormento, che ogni ora desiderino la morte? - E che dispiacere, - disse il Magnifico, - possono far le mogli ai mariti, che sia cosí senza rimedio come son quelli che fanno i mariti alle mogli? le quali, se non per amore, almen per timor sono ossequenti ai mariti.
- Certo è, - disse il signor Gaspar, - che quel poco che talor fanno di bene procede da timore, perché poche ne sono al mondo che nel secreto dell'animo suo non abbiano in odio il marito. - Anzi in contrario, - rispose il Magnifico; - e se ben vi ricorda quanto avete letto, in tutte le istorie si conosce che quasi sempre le mogli amano i mariti piú che essi le mogli. Quando vedeste voi o leggeste mai che un marito facesse verso la moglie un tal segno d'amore, quale fece quella Camma verso suo marito? - Io non so, - rispose il signor Gaspar, - chi si fosse costei, né che segno la si facesse. - Né io, - disse il Frigio. Rispose il Magnifico: - Uditelo; e voi, madonna Margherita, mettete cura di tenerlo a memoria.
XVXI.
Questa Camma fu una bellissima giovane, ornata di tanta modestia e gentil costumi, che non men per questo che per la bellezza era maravigliosa; e sopra l'altre cose con tutto il core amava suo marito, il quale si chiamava Sinatto.
Intervenne che un altro gentilomo, il quale era di molto maggior stato che Sinatto e quasi tiranno di quella città dove abitavano, s'innamorò di questa giovane; e dopo l'aver lungamente tentato per ogni via e modo d'acquistarla, e tutto in vano, persuadendosi che lo amor che essa portava al marito fosse la sola cagione che ostasse a' suoi desidèri, fece ammazzar questo Sinatto. Cosí poi sollicitando continuamente, non ne poté mai trar altro frutto che quello che prima avea fatto; onde, crescendo ogni dí piú questo amore, deliberò tôrla per moglie, benché essa di stato gli fosse molto inferiore. Cosí richiesti li parenti di lei da Sinorige (ché cosí si chiamava lo innamorato), cominciarono a persuaderla a contentarsi di questo, mostrandole il consentir essere utile assai e 'l negarlo pericoloso per lei e per tutti loro. Essa, poi che loro ebbe alquanto contradetto, rispose in ultimo esser contenta. I parenti fecero intendere la nova a Sinorige; il qual allegro sopra modo procurò che súbito si celebrassero le nozze. Venuto adunque l'uno e l'altro a questo effetto solennemente nel tempio di Diana, Camma fece portar una certa bevanda dolce, la quale essa avea composta; e cosí davanti al simulacro di Diana in presenzia di Sinorige ne bevé la metà; poi di sua mano, perché questo nelle nozze s'usava di fare, diede il rimanente allo sposo; il qual tutto lo bevé. Camma, come vide il disegno suo riuscito, tutta lieta a piè della imagine di Diana s'inginochiò, e disse: «O Dea, tu che conosci lo intrinseco del cor mio, siami bon testimonio, come difficilmente dopo che 'l mio caro consorte morí, contenuta mi sia di non mi dar la morte e con quanta fatica abbia sofferto il dolore di star in questa amara vita, nella quale non ho sentito alcuno altro bene o piacere, fuor che la speranza di quella vendetta che or mi trovo aver conseguita; però allegra e contenta vado a trovar la dolce compagnia di quella anima, che in vita ed in morte piú che me stessa ho sempre amata. E tu, scelerato, che pensasti esser mio marito, in iscambio del letto nuziale dà ordine che apparecchiato ti sia il sepulcro, ch'io di te fo sacrificio all'ombra di Sinatto». Sbigottito Sinorige di queste parole e già sentendo la virtú de veneno che lo perturbava, cercò molti rimedi; ma non valsero; ed ebbe Camma di tanto la fortuna favorevole, o altro che si fosse, che innanzi che essa morisse seppe che Sinorige era morto. La qual cosa intendendo, contentissima si pose a letto con gli occhi al cielo, chiamando sempre il nome di Sinatto e dicendo: «O dolcissimo consorte, or ch'io ho dato per gli ultimi doni alla tua morte e lacrime e vendetta, né veggio che piú altra cosa qui a far per te mi resti, fuggo il mondo e questa senza te crudel vita, la quale per te solo già mi fu cara. Viemmi adunque incontra, signor mio, ed accogli cosí voluntieri questa anima, come essa voluntieri a te ne viene»: e di questo modo parlando, e con le braccia aperte, quasi che in quel punto abbracciar lo volesse, se ne morí. Or dite, Frigio, che vi par di questa? - Rispose il Frigio: - Parmi che voi vorreste far piangere queste donne. Ma poniamo che questo ancor fosse vero, io vi dico che tai donne non si trovano piú al mondo -.
XVXII.
Disse il Magnifico: - Si trovan sí; e che sia vero, udite. A' dí mei fu in Pisa un gentilomo, il cui nome era messer Tomaso; non mi ricordo di qual famiglia, ancora che da mio padre, che fu suo gran amico, sentissi piú volte ricordarla. Questo messer Tomaso adunque, passando un dí sopra un piccolo legnetto da Pisa in Sicilia per sue bisogne, fu soprapreso d'alcune fuste de' Mori, che gli furono addosso cosí all'improviso, che quelli che governavano il legnetto non se n'accorsero; e benché gli omini che dentro v'erano si diffendessino assai, pur, per esser essi pochi, e i nimici molti, il legnetto con quanti v'eran sopra rimase nel poter dei Mori, chi ferito e chi sano, secondo la sorte, e con essi messer Tomaso, il qual s'era portato valorosamente ed avea morto di sua mano un fratello d'un dei capitani di quelle fuste. Della qual cosa il capitano sdegnato, come possete pensare, della perdita del fratello, volse costui per suo prigioniero; e battendolo e straziandolo ogni giorno, lo condusse in Barbaria, dove in gran miseria aveva deliberato tenerlo in vita sua cattivo e con gran pena. Gli altri tutti, chi per una e chi per un'altra via, furono in capo d'un tempo liberi e ritornarono a casa; e riportarono alla moglie, che madonna Argentina avea nome, ed ai figlioli la dura vita e 'l gran affanno in che messer Tomaso viveva ed era continuamente per vivere senza speranza, se Dio miraculosamente non l'aiutava. Della qual cosa poi che essa e loro furono chiariti, tentati alcun altri modi di liberarlo, e dove esso medesimo già s'era acquetato di morire, intervenne che una solerte pietà svegliò tanto l'ingegno e l'ardir d'un suo figliolo, che si chiamava Paulo, che non ebbe riguardo a niuna sorte di pericolo e deliberò o morir o liberar il padre; la qual cosa gli venne fatta, di modo che lo condusse cosí cautamente, che prima fu in Ligorno, che si risapesse in Barberia ch'e' fusse di là partito. Di quivi messer Tomaso sicuro scrisse alla moglie e le fece intendere la liberazion sua, e dove era, e come il dí seguente sperava di vederla. La bona e gentil donna, sopragiunta da tanta e non pensata allegrezza di dover cosí presto, e per pietà e per virtú del figliolo, vedere il marito, il quale amava tanto e già credea fermamente non dover mai piú vedere, letta la lettera, alzò gli occhi al cielo e, chiamato il nome del marito, cadde morta in terra; né mai con rimedi che se le facessero, la fuggita anima piú ritornò nel corpo. Crudel spettaculo, e bastante a temperar le voluntà umane e ritrarle dal desiderar troppo efficacemente le soverchie allegrezze!
XVXIII.
Disse allora ridendo il Frigio: - Che sapete voi ch'ella non morisse di dispiacere, intendendo che 'l marito tornava a casa? - Rispose il Magnifico: - Perché il resto della vita sua non si accordava con questo; anzi penso che quell'anima, non potendo tollerare lo indugio di vederlo con gli occhi del corpo, quello abbandonasse, e tratta dal desiderio volasse súbito dove, leggendo quella lettera, era volato il pensiero -. Disse il signor Gasparo: - Po esser che questa donna fosse troppo amorevole, perché le donne in ogni cosa sempre s'attaccano allo estremo, che è male; e vedete che per essere troppo amorevole fece male a se stessa ed al marito ed ai figlioli, ai quali converse in amaritudine il piacere di quella pericolosa e desiderata liberazione. Però non dovete già allegar questa per una di quelle donne, che sono state causa di tanti beni -. Rispose il Magnifico: - Io la allego per una di quelle che fanno testimonio che si trovino mogli che amino i mariti; ché di quelle che siano state causa de molti beni al mondo potrei dirvi un numero infinito, e narrarvi delle tanto antiche che quasi paion fabule; e di quelle che appresso agli omini sono state inventrici di tai cose, che hanno meritato esser estimate dee, come Pallade, Cerere; e delle Sibille, per bocca delle quali Dio tante volte ha parlato e rivelato al mondo le cose che aveano a venire; e di quelle che hanno insegnato a grandissimi omini, come Aspasia e Diotima, la quale ancora con sacrifici prolungò dieci anni il tempo d'una peste che aveva da venire in Atene. Potrei dirvi di Nicostrata, madre d'Evandro, la quale mostrò le lettere ai Latini; e d'un'altra donna ancor che fu maestra di Pindaro lirico; e di Corinna e di Saffo, che furono eccellentissime in poesia: ma io non voglio cercar le cose tanto lontane. Dicovi ben, lassando il resto, che della grandezza di Roma furono forse non minor causa le donne che gli omini. - Questo, - disse il signor Gasparo, - sarebbe bello da intendere -.
XXIX.
Rispose il Magnifico: - Or uditelo. Dopo la espugnazion di Troia molti Troiani, che a tanta ruina avanzarono, fuggirono chi ad una via, chi ad un'altra; dei quali una parte, che da molte procelle forno battuti, vennero in Italia, nella contrata ove il Tevere entra in mare. Cosí discesi in terra per cercar de' bisogni loro, cominciarono a scorrere il paese; le donne, che erano restate nelle navi, pensarono tra sé un utile consiglio, il qual ponesse fine al periculoso e lungo error maritimo ed in loco della perduta patria una nova loro ne recuperasse; e, consultate insieme, essendo assenti gli omini, abbrusciarono le navi; e la prima che tal opera cominciò si chiamava Roma. Pur, temendo la iracundia degli omini i quali ritornavano, andarono contra essi; ed alcune i mariti, alcune i soi congiunti di sangue abbracciando e basciando con segno di benivolenzia, mitigarono quel primo impeto; poi manifestarono loro quietamente la causa del lor prudente pensiero. Onde i Troiani, si per la necessità, sí per esser benignamente accettati dai paesani, furono contentissimi di ciò che le donne aveano fatto e quivi abitarono con i Latini, nel loco dove poi fu Roma; e da questo processe il costume antico appresso i Romani, che le donne incontrando basciavano i parenti. Or vedete quanto queste donne giovassero a dar principio a Roma.
XXX.
Né meno giovarono allo augumento di quella le donne sabine, che si facessero le troiane al principio; ché avendosi Romulo concitato generale inimicizia de tutti i suoi vicini per la rapina che fece delle lor donne, fu travagliato di guerre da ogni banda; delle quali, per esser omo valoroso, tosto si espedí con vittoria, eccetto di quella de' Sabini, che fu grandissima, perché Tito Tacio, re de' Sabini, era valentissimo e savio; onde, essendo stato fatto uno acerbo fatto d'arme tra Romani e Sabini con gravissimo danno dell'una e dell'altra parte, ed apparecchiandosi nova e crudel battaglia, le donne sabine, vestite di nero, co' capelli sparsi e lacerati, piangendo, meste, senza timore dell'arme che già erano per ferir mosse, vennero nel mezzo tra i padri e i mariti, pregandogli che non volessero macchiarsi le mani del sangue de' soceri e dei generi; e se pur erano mal contenti di tal parentato, voltassero l'arme contra esse, ché molto meglio loro era il morire che vivere vedove, o senza padri e fratelli, e ricordarsi che i suoi figlioli fossero nati di chi loro avesse morti i lor padri, o che esse fossero nate de chi lor avesse morti i lor mariti. Con questi gemiti piangendo, molte di loro nelle braccia portavano i suoi piccoli figliolini, de' quali già alcuni cominciavano a snodar la lingua e parea che chiamar volessero e far festa agli avoli loro; ai quali le donne mostrando i nepoti e piangendo, «Ecco», diceano, «il sangue vostro, il quale voi con tanto impeto e furor cercate di sparger con le vostre mani». Tanta forza ebbe in questo caso la pietà e la prudenzia delle donne, che non solamente tra li dui re nemici fu fatta indissolubile amicizia e confederazione, ma, che piú maravigliosa cosa fu, vennero i Sabini ad abitare in Roma, e dei dui popoli fu fatto un solo; e cosí molto accrebbe questa concordia le forze di Roma, mercè delle sagge e magnanime donne; le quali in tanto da Romulo furono remunerate che, dividendo il populo in trenta curie, a quelle pose i nomi delle donne sabine -.
XXXI.
Quivi essendosi un poco il Magnifico Iuliano fermato vedendo che 'l signor Gasparo non parlava, - Non vi par, disse, - che queste donne fussero causa di bene agli loro omini e giovassero alla grandezza di Roma? - Rispose il signor Gasparo: - In vero queste furono degne di molta laude; ma se voi cosí voleste dir gli errori delle donne come le bone opere, non areste tacciuto che in questa guerra di Tito Tacio una donna tradì Roma ed insegnò la strada ai nemici d'occupar il Capitolio, onde poco mancò che i Romani tutti non fussero destrutti -. Rispose il Magnifico Iuliano: - Voi mi fate menzion d'una sola donna mala ed io a voi d'infinite bone; ed oltre le già dette io potrei addurvi al mio proposito mille altri esempi delle utilità fatte a Roma dalle donne e dirvi perché già fusse edificato un tempio a Venere Armata ed un altro a Venere Calva, e come ordinata la festa delle Ancille a Iunone, perché le ancille già liberarono Roma dalle insidie de' nemici. Ma lassando tutte queste cose, quel magnanimo fatto d'aver scoperto la congiurazion di Catilina, di che tanto si lauda Cicerone, non ebbe egli principalmente origine da una vil femina? la quale per questo si poria dir che fosse stata causa di tutto 'l bene che si vanta Cicerone aver fatto alla republica romana. E se 'l tempo mi bastasse, vi mostrarei forse ancor le donne spesso aver corretto di molti errori degli omini; ma temo che questo mio ragionamento ormai sia troppo lungo e fastidioso; perché avendo, secondo il poter mio, satisfatto al carico datomi da queste signore, penso di dar loco a chi dica cose piú degne d'esser udite, che non posso dir io -.
XXXII.
Allor la signora Emilia, - Non defraudate, - disse, - le donne di quelle vere laudi che loro sono debite; e ricordatevi che se 'l signor Gasparo ed ancor forse il signor Ottaviano vi odono con fastidio, noi e tutti quest'altri signori ve udiamo con piacere -. Il Magnifico pur volea por fine, ma tutte le donne cominciarono a pregarlo che dicesse; onde egli ridendo, - Per non mi provocar, - disse, - per nemico il signor Gaspar piú di quello che egli si sia, dirò brevemente d'alcune che mi occorreno alla memoria, lassandone molte ch'io potrei dire; - poi suggiunse: - Essendo Filippo di Demetrio intorno alla città di Chio ed avendola assediata, mandò un bando, che a tutti i servi che della città fuggivano ed a sé venissero prometteva la libertà e le mogli dei lor patroni. Fu tanto lo sdegno delle donne per cosí ignominioso bando, che con l'arme vennero alle mura e tanto ferocemente combatterono, che in poco tempo scacciarono Filippo con vergogna e danno; il che non aveano potuto far gli omini. Queste medesime donne, essendo coi lor mariti, padri e fratelli, che andavano in esilio, pervenute in Leuconia, fecero un atto non men glorioso di questo; ché gli Eritrei, che ivi erano co' suoi confederati, mossero guerra a questi Chii; li quali non potendo contrastare, tolsero patto col giuppon solo e la camiscia uscir della città. Intendendo le donne cosí vituperoso accordo, si dolsero, rimproverandogli che, lassando l'arme, uscissero come ignudi tra' nemici; e rispondendo essi già aver stabilito il patto, dissero che portassero lo scudo e la lanza e lassassero i panni, e rispondessero ai nemici questo essere il loro abito. E cosí facendo essi per consiglio delle lor donne ricopersero in gran parte la vergogna, che in tutto fuggir non poteano. Avendo ancor Ciro in un fatto d'arme rotto un esercito di Persiani, essi in fuga, correndo verso la città incontrarono le lor donne fuor della porta, le quali fattosi loro incontra dissero: «Dove fuggite voi, vili omini? volete voi forsi nascondervi in noi, onde sète usciti?» Queste ed altre tai parole udendo gli omini e conoscendo quanto d'animo erano inferiori alle lor donne, si vergognarono di se stessi, e ritornando verso i nemici, di novo con essi combatterono e gli ruppero -.
XXXIII.
Avendo insin qui detto, il Magnifico Iuliano fermossi e rivolto alla signora Duchessa disse: - Or, Signora, mi darete licenzia di tacere -. Rispose il signor Gasparo: - Bisogneravi pur tacere, poiché non sapete piú che vi dire -.
Disse il Magnifico ridendo: - Voi mi stimulate di modo che vi mettete a pericolo di bisognar tutta notte udir laudi di donne; ed intendere di molte spartane, che hanno avuta cara la morte gloriosa dei figlioli; e di quelle che gli hanno rifutati, o morti esse medesime, quando gli hanno veduti usar viltà. Poi, come le donne saguntine nella ruina della patria loro prendessero l'arme contra le genti d'Annibale; e come essendo lo esercito de' Tedeschi superato da Mario, le lor donne, non potendo ottener grazia di viver libere in Roma al servizio delle vergini vestali, tutte s'ammazzassero insieme coi lor piccoli figliolini; e di mille altre, delle quali tutte le istorie antiche son piene -. Allor il signor Gasparo, - Deh, signor Magnifico, - disse, - Dio sa come passarono quelle cose; perché que' secoli son tanto da noi lontani, che molte bugie si posson dire e non v'è chi le riprovi -.
XXXIV.
Disse il Magnifico: - Se in ogni tempo vorrete misurare il valor delle donne con quel degli omini, trovarete che elle non son mai state né ancor sono adesso de virtú punto inferiori agli omini; ché, lassando quei tanto antichi, se venite al tempo che i Goti regnarono in Italia, trovarete tra loro essere stata una regina Amalasunta, che governò lungamente con maravigliosa prudenzia; poi Teodelinda, regina de' Longobardi, di singular virtú; Teodora, greca imperatrice; ed in Italia fra molte altre fu singularissima signora la contessa Matilda, delle laudi della quale lasserò parlare al conte Ludovico, perché fu della casa sua. - Anzi, - disse il Conte, - a voi tocca, perché sapete ben che non conviene che l'omo laudi le cose sue proprie -. Suggiunse il Magnifico: - E quante donne famose ne' tempi passati trovate voi di questa nobilissima casa di Montefeltro! quante della casa da Gonzaga, da Este, de' Pii! Se de' tempi presenti poi parlare vorremo, non ci bisogna cercar esempi troppo di lontano, ché gli avemo in casa. Ma io non voglio aiutarmi di quelli che in presenzia vedemo, acciò che voi non mostriate consentirmi per cortesia quello che in alcun modo negar non mi potete. E per uscir di Italia, ricordatevi che a' dí nostri avemo veduto Anna regina di Franza, grandissima signora non meno di virtú che di stato; ché se di giustizia e clemenzia, liberalità e santità di vita, comparare la vorrete alli re Carlo e Ludovico, dell'uno e dell'altro de' quali fu moglie, non la trovarete punto inferiore d'essi. Vedete madonna Margherita, figliola di Massimiliano imperatore, la quale con somma prudenzia e giustizia insino a qui ha governato e tuttora governa il stato suo.
XXVX.
- Ma lassando a parte tutte l'altre ditemi, signor Gaspar, qual re o qual principe è stato a' nostri dí ed ancor molt'anni prima in Cristianità, che meriti esser comparato alla regina Isabella di Spagna? - Rispose il signor Gasparo: - Il re Ferrando suo marito -. Suggiunse il Magnifico: - Questo non negherò io; ché, poiché la Regina lo giudicò degno d'esser suo marito e tanto lo amò ed osservò, non si po dire che 'l non meritasse d'esserle comparato: ben credo che la riputazion ch'egli ebbe da lei fusse dote non minor che 'l regno di Castiglia. - Anzi, rispose il signor Gaspar, - penso io che di molte opere del re Ferrando fusse laudata la regina Isabella -. Allor il Magnifico, - Se i populi di Spagna, - disse, - i signori, i privati, gli omini e le donne, poveri e ricchi, non si son tutti accordati a voler mentire in laude di lei, non è stato a' tempi nostri al mondo piú chiaro esempio di vera bontà, di grandezza d'animo, di prudenzia, di religione, d'onestà, di cortesia, di liberalità, in somma d'ogni virtú, che la regina Isabella; e benché la fama di quella signora in ogni loco e presso ad ogni nazione sia grandissima, quelli che con lei vissero e furono presenti alle sue azioni tutti affermano questa fama esser nata dalla virtú e meriti di lei. E chi vorrà considerare l'opere sue, facilmente conoscerà esser cosí il vero; ché, lassando infinite cose che fanno fede di questo e potrebbonsi dire, se fusse nostro proposito, ognun sa che quando essa venne a regnare trovò la maggior parte di Castiglia occupata dai grandi; nientedimeno il tutto ricuperò cosí giustificatamente e con tal modo, che i medesimi che ne furono privati le restarono affezionatissimi, e contenti di lassar quello che possedevano.
Notissima cosa è ancora con quanto animo e prudenzia sempre diffendesse i regni suoi da potentissimi inimici; e medesimamente a lei sola si po dar l'onore del glorioso acquisto del regno di Granata; ché in cosí lunga e difficil guerra contra nimici ostinati, che combattevano per le facultà, per la vita, per la legge sua e, al parer loro, per Dio, mostrò sempre col consiglio e con la persona propria tanta virtú, che forse a' tempi nostri pochi príncipi hanno avuto ardire non che di imitarla, ma pur d'averle invidia. Oltre a ciò, affermano tutti quegli che la conobbero, esser stato in lei tanto divina maniera di governare, che parea quasi che solamente la voluntà sua bastasse, perché senza altro strepito ognuno facesse quello che doveva; tal che a pena osavano gli omini in casa sua propria e secretamente far cosa che pensassino che a lei avesse da dispiacere; e di questo in gran parte fu causa il maraviglioso giudicio ch'ella ebbe in conoscere ed elegere i ministri atti a quelli offici nei quali intendeva d'adoperargli; e cosí ben seppe congiungere il rigor della giustizia con la mansuetudine della clemenzia e la liberalità, che alcun bono a' suoi dí non fu che si dolesse d'esser poco remunerato, né alcun malo d'esser troppo castigato. Onde nei populi verso di lei nacque una somma riverenzia, composta d'amore e timore; la quale negli animi di tutti ancor sta cosí stabilita, che par quasi che aspettino che essa dal cielo i miri e di là su debba dargli laude o biasmo; e perciò col nome suo e con i modi da lei ordinati si governano ancor que' regni, di maniera che, benché la vita sia mancata, vive l'autorità, come rota che, lungamente con impeto voltata, gira ancor per bon spacio da sé, benché altri piú non la mova. Considerate oltre di questo, signor Gasparo, che a' nostri tempi quasi tutti gli omini grandi di Spagna e famosi in qualsivoglia cosa, sono stati creati dalla regina Isabella; e Gonsalvo Ferrando, Gran Capitano, molto piú di questo si preziava, che di tutte le sue famose vittorie, e di quelle egregie e virtuose opere, che in pace ed in guerra fatto l'hanno cosí chiaro ed illustre, che se la fama non è ingratissima, sempre al mondo publicherà le immortali sue lode, e farà fede che alla età nostra pochi re o gran príncipi avemo aúti, i quali stati non siano da lui di magnanimità, sapere e d'ogni virtú superati.
XXVXI.
Ritornando adunque in Italia, dico che ancor qui non ci mancano eccellentissime signore; che in Napoli avemo due singular regine; e poco fa pur in Napoli morí l'altra regina d'Ongaría, tanto eccellente signora quanto voi sapete e bastante di far paragone allo invitto e glorioso re Matia Corvino suo marito. Medesimamente la duchessa Isabella d'Aragona, degna sorella del re Ferrando di Napoli; la quale, come oro nel foco, cosí nelle procelle di fortuna ha mostrata la virtú e 'l valor suo. Se nella Lombardia verrete, v'occorrerà la signora Isabella marchesa di Mantua; alle eccellentissime virtú della quale ingiuria si faria parlando cosí sobriamente, come saria forza in questo loco a chi pur volesse parlarne. Pesami ancora che tutti non abbiate conosciuta la duchessa Beatrice di Milano sua sorella, per non aver mai piú a maravigliarvi di ingegno di donna. E la duchessa Eleonora d'Aragona, duchessa di Ferrara e madre dell'una e l'altra di queste due signore ch'io v'ho nominate, fu tale che le eccellentissime sue virtú faceano bon testimonio a tutto 'l mondo, che essa non solamente era degna figliola di Re, ma che meritava esser regina di molto maggior stato che non aveano posseduto tutti i suoi antecessori. E per dirvi d'un'altra, quanti omini conoscete voi al mondo, che avessero tollerato gli acerbi colpi della fortuna cosí moderatamente, come ha fatto la regina Isabella di Napoli?
la quale, dopo la perdita del regno, lo esilio e morte del re Federico suo marito e di duo figlioli e la pregionia del Duca di Calabria suo primogenito, pur ancor si dimostra esser regina e di tal modo supporta i calamitosi incommodi della misera povertà, che ad ognuno fa fede che, ancor che ella abbia mutato fortuna, non ha mutato condizione. Lasso di nominar infinite altre signore, ed ancor donne di basso grado; come molte pisane, che alla diffesa della lor patria contra' Fiorentini hanno mostrato quell'ardire generoso, senza timore alcuno di morte, che mostrar potessero i piú invitti animi che mai fossero al mondo; onde da molti nobili poeti sono state alcune di lor celebrate. Potrei dirvi d'alcune eccellentissime in lettere, in musica, in pittura, in scultura; ma non voglio andarmi piú rivolgendo tra questi esempi, che a voi tutti sono notissimi. Basta che, se nell'animo vostro pensate alle donne che voi stesso conoscete, non vi fia difficile comprendere che esse per il piú non sono di valore o meriti inferiori ai padri, fratelli e mariti loro; e che molte sono state causa di bene agli omini e spesso hanno corretto di molti loro errori; e se adesso non si trovano al mondo quelle gran regine, che vadano a subiugare paesi lontani e facciano magni edifici, piramidi e città, come quella Tomiris, regina di Scizia, Artemisia, Zenobia, Semiramìs, o Cleopatra, non ci son ancor omini come Cesare, Alessandro, Scipione, Lucullo e quegli altri imperatori romani
XXVXII.
- Non dite cosí, - rispose allora ridendo il Frigio, - ché adesso piú che mai si trovan donne come Cleopatra o Semiramis; e se già non hanno tanti stati, forze e ricchezze, loro non manca però la bona voluntà di imitarle almen nel darsi piacere e satisfare piú che possano a tutti i suoi appetiti -. Disse il Magnifico Iuliano: - Voi volete pur, Frigio, uscire de' termini: ma se si trovano alcune Cleopatre, non mancano infiniti Sardanapali; che è assai peggio. - Non fate, - disse allor il signor Gasparo, - queste comparazioni, né crediate già che gli omini siano piú incontinenti che le donne; e quando ancor fossero, non sarebbe peggio, perché dalla incontinenzia delle donne nascono infiniti mali, che non nascono da quella degli omini; e però, come ieri fu detto, èssi prudentemente ordinato che ad esse sia licito senza biasimo mancar in tutte l'altre cose, acciò che possano metter ogni lor forza per mantenerse in questa sola virtú della castità, senza la quale i figlioli sariano incerti, e quello legame che stringe tutto 'l mondo per lo sangue, e per amar naturalmente ciascun quello che ha produtto, si discioglieria: però alle donne piú si disdice la vita dissoluta che agli omini, i quali non portano nove mesi ì figlioli in corpo -.
XXVXIII.
Allora il Magnifico, - Questi, - rispose, - veramente sono belli argumenti che voi fate e non so Perché non gli mettiate in scritto. Ma ditemi per qual causa non s'è ordinato che negli omini cosí sia vituperosa cosa la vita dissoluta come nelle donne, atteso che se essi sono da natura piú virtuosi e di maggior valore, piú facilmente ancora poriano mantenersi in questa virtú della continenzia e i figlioli né piú né meno saríano certi; ché se ben le donne fossero lascive, purché gli omini fossero continenti e non consentissero alla lascivia delle donne, esse da sé a sé e senza altro aiuto già non porian generare. Ma se volete dir il vero, voi ancor conoscete che noi di nostra autorità ci avemo vendicato una licenzia, per la quale volemo che i medesimi peccati in noi siano leggerissimi e talor meritino laude, e nelle donne non possano a bastanza esser castigati se non con una vituperosa morte, o almen perpetua infamia. Però, poiché questa opinion è invalsa, parmi che conveniente cosa sia castigar ancor acerbamente quelli che con bugie dànno infamia alle donne; ed estimo ch'ogni nobil cavaliero sia obligato a diffender sempre con l'arme, dove bisogna, la verità, e massimamente quando conosce qualche donna esser falsamente calunniata di poca onestà -.
XXXIX.
- Ed io, - rispose ridendo il signor Gasparo, - non solamente affermo esser debito d'ogni nobil cavaliero quello che voi dite, ma estimo gran cortesia e gentilezza coprir qualche errore, ove per disgrazia, o troppo amore, una donna sia incorsa; e cosí veder potete ch'io tengo piú alla parte delle donne, dove la ragion me lo comporta, che non fate voi. Non nego già che gli omini non si abbiano preso un poco di libertà; e questo perché sanno che per la opinion universale ad essi la vita dissoluta non porta cosí infamia come alle donne; le quali, per la imbecillità del sesso, sono molto piú inclinate agli appetiti che gli omini, e se talor si astengono dal satisfare ai suoi desidèri, lo fanno per vergogna, non perché la voluntà non sia loro prontissima; e però gli omini hanno posto loro il timor d'infamia per un freno che le tenga quasi per forza in questa virtú, senza la quale, per dir il vero, sariano poco d'apprezzare; perché il mondo non ha utilità dalle donne, se non per lo generare dei figlioli. Ma ciò non intervien degli omini, i quali governano le città, gli eserciti e fanno tante altre cose d'importanzia: il che, poiché voi volete cosí, non voglio disputar come sapessero far le donne; basta che non lo fanno; e quando è occorso agli omini far paragon della continenzia, cosí hanno superato le donne in questa virtú come ancora nell'altre, benché voi non lo consentiate. Ed io circa questo non voglio recitarvi tante istorie o fabule quante avete fatto voi, e rimettovi alla continenzia solamente di dui grandissimi signori giovani, e su la vittoria, la quale suol far insolenti ancora gli omini bassissimi; e dell'uno è quella d'Alessandro Magno verso le donne bellissime di Dario, nemico e vinto; l'altra di Scipione, a cui, essendo di ventiquattro anni ed avendo in Ispagna vinto per forza una città, fu condutta una bellissima e nobilissima giovane, presa tra molt'altre; e intendendo Scipione questa esser sposa d'un signor del paese, non solamente s'astenne da ogni atto disonesto verso di lei, ma immaculata la rese al marito, facendole di sopra un ricco dono. Potrei dirvi di Senocrate, il quale fu tanto continente, che una bellissima donna, essendosegli colcata accanto ignuda e facendogli tutte le carezze ed usando tutti i modi che sapea, delle quai cose era bonissima maestra, non ebbe forza mai di far che mostrasse pur un minimo segno d'impudicizia, avvenga che ella in questo dispensasse tutta una notte; e di Pericle, che udendo solamente uno che laudava con troppo efficacia la bellezza d'un fanciullo, lo riprese agramente; e di molt'altri continentissimi di lor propria voluntà, e non per vergogna o paura di castigo, da che sono indutte la maggior parte di quelle donne che in tal virtú si mantengono; le quali però ancor con tutto questo meritano esser laudate assai, e chi falsamente dà loro infamia d'impudicizia è degno, come avete detto, di gravissima punizione -.
XL.
Allora messer Cesare, il qual per bon spacio tacciuto avea, - Pensate, - disse, - di che modo parla il signor Gasparo a biasimo delle donne, quando queste son quelle cose ch'ei dice in laude loro. Ma se 'l signor Magnifico mi concede ch'io possa in loco suo respondergli alcune poche cose circa quanto egli, al parer mio, falsamente ha detto contra le donne, sarà bene per l'uno e per l'altro: perché esso si riposerà un poco e meglio poi potrà seguitare in dir qualche altra eccellenzia della donna di palazzo; ed io mi terrò per molta grazia l'aver occasione di far insieme con lui questo officio di bon cavaliero, cioè diffender la verità. - Anzi ve ne priego, - rispose il signor Magnifico; - ché già a me parea aver satisfatto, secondo le forze mie, a quanto io doveva e che questo ragionamento fosse ormai fuor del proposito mio -. Suggiunse messer Cesare: - Non voglio già parlare della utilità che ha il mondo dalle donne, oltre al generar i figlioli, perché a bastanza s'è dimostrato quanto esse siano necessarie non solamente all'esser ma ancor al ben esser nostro; ma dico, signor Gaspar, che se esse sono, come voi dite, piú inclinate agli appetiti che gli omini, e con tutto questo se ne astengano piú che gli omini, il che voi stesso consentite, sono tanto piú degne di laude, quanto il sesso loro è men forte per resistere agli appetiti naturali; e se dite che lo fanno per vergogna, parmi che in loco d'una virtú sola ne diate lor due; ché se in esse piú po la vergogna che l'appetito e perciò i astengono dalle cose mal fatte, estimo che questa vergogna, che in fine non è altro che timor d'infamia, sia una rarissima virtú e da pochissimi omini posseduta. E s'io potessi senza infinito vituperio degli omini dire come molti d'essi siano immersi nella impudenzia, che è il vicio contrario a questa virtú, contaminarei queste sante orecchie che m'ascoltano: e per il piú questi tali ingiuriosi a Dio ed alla natura sono omini già vecchi, i quali fan professione chi di sacerdozio, chi di filosofia, chi delle sante leggi; e governano le republiche con quella severità catoniana nel viso, che promette tutta la integrità del mondo; e sempre allegano il sesso feminile esser incontinentissimo; né mai essi d'altro si dolgon piú, che del mancar loro il vigor naturale per poter satisfare ai loro abominevoli desidèri, i quali restano ancor nell'animo, quando già la natura li nega al corpo; e però spesso trovano modi dove le forze non sono necessarie.
XLI.
Ma io non voglio dir piú avanti e bastami che mi consentiate che le donne si astengano piú dalla vita impudica che gli omini; e certo è che d'altro freno non sono ritenute, che da quello che esse stesse si mettono; e che sia vero, la piú parte di quelle che son custodite con troppa stretta guardia, o battute dai mariti o padri, sono men pudiche che quelle che hanno qualche libertà. Ma gran freno è generalmente alle donne l'amor della vera virtú e 'l desiderio d'onore, del qual molte, che io a' miei dí ho conosciute, fanno piú stima che della vita propria; e se volete dir il vero, ognun di noi ha veduto giovani nobilissimi, discreti, savi, valenti e belli, aver dispensato molt'anni amando, senza lassare adrieto cosa alcuna di sollicitudine, di doni, di preghi, di lacrime, in somma di ciò che imaginar si po; e tutto in vano. E se a me non si potesse dire che le qualità mie non meritarono mai ch'io fossi amato, allegherei il testimonio di me stesso, che piú d'una volta per la immutabile e troppo severa onestà d'una donna fui vicino alla morte -. Rispose il signor Gasparo: - Non vi maravigliate di questo, perché le donne che son pregate sempre negano di compiacer chi le prega e quelle che non son pregate pregano altrui -.
XLII.
Disse messer Cesare: - Io non ho mai conosciuti questi, che siano dalle donne pregati; ma sí ben molti, li quali, vedendosi aver in vano tentato e speso il tempo scioccamente, ricorrono a questa nobil vendetta e dicono aver avuto abondanzia di quello che solamente s'hanno imaginato; e par loro che il dir male e trovare invenzioni, acciò che di qualche nobil donna per lo vulgo si levino fabule vituperose, sia una sorte di cortegiania. Ma questi tali, che di qualche donna di prezzo villanamente si dànno vanto, o vero o falso, meritano castigo e supplicio gravissimo; e se talor loro vien dato, non si po dir quanto siano da laudar quelli che tale officio fanno. Ché se dicon bugie, qual scelerità po esser maggiore, che privar con inganno una valorosa donna di quello che essa piú che la vita estima? e non per altra causa, che per quella che la devria fare d'infinite laudi celebrata? Se ancora dicon vero, qual pena poria bastare a chi è cosí perfido, che renda tanta ingratitudine per premio ad una donna, la qual, vinta dalle false lusinghe, dalle lacrime finte, dai preghi continui, dai lamenti, dalle arti, insidie e periuri, s'ha lassato indurre ad amar troppo; poi, senza riservo, s'è data incautamente in preda a cosí maligno spirto? Ma per respondervi ancor a questa inaudita continenzia d'Alessandro e di Scipione, che avete allegata, dico ch'io non voglio negare che e l'uno e l'altro non facesse atto degno di molta laude; nientedimeno, acciò che non possiate dire che per raccontarvi cose antiche io vi narri fabule, voglio allegarvi una donna de' nostri tempi di bassa condizione, la quale mostrò molto maggior continenzia che questi cui grand'omini.
XLIII.
Dico adunque che io già conobbi una bella e delicata giovane, il nome della quale non vi dico per non dar materia di dir male a molti ignoranti, i quali súbito che intendono una donna esser innamorata, ne fan mal concetto. Questa adunque, essendo lungamente amata da un nobile e ben condicionato giovane, si volse con tutto l'animo e cor suo ad amar lui; e di questo non solamente io, al quale essa di sua voluntà ogni cosa confidentemente dicea, non altrimenti che s'io non dirò fratello, ma una sua intima sorella fussi stato, ma tutti quelli che la vedeano in presenzia dell'amato giovane erano ben chiari della sua passione. Cosí, amando essa ferventissimamente quanto amar possa un amorevolissimo animo, durò dui anni in tanta continenzia, che mai non fece segno alcuno a questo giovane d'amarlo, se non quelli che nasconder non potea; né mai parlare gli volse, né da lui accettar lettere, né presenti, che dell'uno e dell'altro non passava mai giorno che non fosse sollicitata; e quanto lo desiderasse, io ben lo so; ché se talor nascostamente potea aver cosa che del giovane fosse stata, la tenea in tante delizie, che parea che da quella le nascesse la vita ed ogni suo bene; né pur mai in tanto tempo d'altro compiacer gli volse che di vederlo e di lassarsi vedere, e qualche volta intervenendo alle feste publiche ballar con lui, come con gli altri. E perché le condicioni dell'uno e dell'altra erano assai convenienti, essa e 'l giovane desideravano che un tanto amor terminasse felicemente ed esser insieme marito e moglie. Il medesimo desideravano tutti gli altri omini e donne di quella città, eccetto il crudel padre di lei, il qual per una perversa e strana opinion volse maritarla ad un altro piú ricco; ed in ciò dalla infelice fanciulla non fu con altro contradetto, che con amarissime lacrime. Ed essendo successo cosí mal avventurato matrimonio con molta compassion di quel populo e desperazion dei poveri amanti, non bastò però questa percossa di fortuna per estirpare cosí fundato amor dei cori né dell'uno né dell'altra; che dopo ancor per spacio di tre anni durò, avvegna che essa prudentissimamente lo dissimulasse e per ogni via cercasse di troncar que' desidèri, che ormai erano senza speranza. Ed in questo tempo seguitò sempre la sua ostinata voluntà della continenzia; e vedendo che onestamente aver non potea colui che essa adorava al mondo, elesse non volerlo a modo alcuno e seguitar il suo costume di non accettare ambasciate, né doni, né pur sguardi suoi; e con questa terminata voluntà la meschina, vinta dal crudelissimo affanno e divenuta per la lunga passione estenuatissima, in capo di tre anni se ne morí; e prima volse rifutare i contenti e piacer suoi tanto desiderati, in ultimo la vita propria, che la onestà. Né le mancavan modi e vie da satisfarsi secretissimamente e senza pericolo d'infamia o d'altra perdita alcuna; e pur s'astenne da quello che tanto da sé desiderava e di che tanto era continuamente stimulata da quella persona, che sola al mondo desiderava di compiacere; né a ciò si mosse per paura, o per alcun altro rispetto, che per lo solo amore della vera virtú. Che direte voi d'un'altra, la quale in sei mesi quasi ogni notte giacque con un suo carissimo innamorato; nientedimeno, in un giardino copioso di dolcissimi frutti, invitata dall'ardentissimo suo proprio desiderio e da' preghi e lacrime di chi piú che la propria vita le era caro, s'astenne dal gustarli; e benché fosse presa e legata ignuda nella stretta catena di quelle amate braccia, non si rese mai per vinta, ma conservò immaculato il fior della onestà sua?
XLIV.
Parvi, signor Gasparo, che questi sian atti di continenzia equali a quella d'Alessandro? il quale, ardentissimamente innamorato non delle donne di Dario, ma di quella fama e grandezza che lo spronava coi stimuli della gloria a patir fatiche e pericoli per farsi immortale, non che le altre cose ma la propria vita sprezzava per acquistar nome sopra tutti gli omini; e noi ci maravigliamo che con tai pensieri nel core s'astenesse da una cosa la qual molto non desiderava? Ché, per non aver mai piú vedute quelle donne, non è possibile che in un punto l'amasse, ma ben forse l'aborriva, per rispetto di Dario suo nemico; ed in tal caso ogni suo atto lascivo verso di di quelle saria stato iniuria e non amore; e però non è gran cosa che Alessandro, il quale non meno con la magnanimità che con l'arme vinse il mondo, s'astenesse da far ingiuria a femine. La continenzia ancor di Scipione è veramente da laudar assai; nientedimeno, se ben considerate, non è da agguagliare a quella di queste due donne; perché esso ancora medesimamente s'astenne da cosa non desiderata, essendo in paese nemico, capitano novo, nel principio d'una impresa importantissima; avendo nella patria lassato tanta aspettazion di sé ed avendo ancor a rendere cunto a giudici severissimi, i quali spesso castigavano non solamente i grandi ma i piccolissimi errori; e tra essi sapea averne de' nemici; conoscendo ancor che, s'altramente avesse fatto, per esser quella donna nobilissima e ad un nobilissimo signor maritata, potea concitarsi tanti nemici e talmente, che molto gli arian prolungata e forse in tutto tolta la vittoria. Cosí per tante cause e di tanta importanzia s'astenne da un leggero e dannoso appetito, mostrando continenzia ed una liberale integrità; la quale, come si scrive, gli diede tutti gli animi di que' populi e gli valse un altro esercito ad espugnar con benivolenzia i cori, che forse per forza d'arme sariano stati inespugnabili; sicché questo piú tosto un stratogema militare dir si poria, che pura continenzia: avvegna ancora che la fama di questo non sia molto sincera, perché alcuni scrittori d'autorità affermano questa giovane esser stata da Scipion goduta in amorose delizie; ma di quello che vi dico io, dubbio alcuno non è -.
XLV.
Disse il Frigio: - Dovete averlo trovato negli Evangeli. - Io stesso l'ho veduto, - rispose messer Cesare, - e però n'ho molto maggior certezza che non potete aver né voi né altri, che Alcibiade si levasse dal letto di Socrate non altrimenti che si facciano i figioli dal letto dei padri; ché pur strano loco e tempo era il letto e la notte per contemplar quella pura bellezza, la qual si dice che amava Socrate senza alcun desiderio disonesto; massimamente amando piú la bellezza dell'animo che del corpo, ma nei fanciulli e no nei vecchi, ancor che siano piú savi. E certo non si potea già trovar miglior esempio per laudar la continenzia degli omini che quello di Senocrate; che essendo versato negli studi, astretto ed obligato dalla profession sua, che è la filosofia, la quale consiste nei boni costumi e non nelle parole, vecchio, esausto del vigor naturale, non potendo né mostrando segno di potere, s'astenne da una femina publica, la quale per questo nome solo potea venirgli a fastidio. Piú crederci che fosse stato continente se qualche segno de risentirsi avesse dimostrato, ed in tal termine usato la continenzia; o vero astenutosi da quello che i vecchi piú desiderano che le battaglie di Venere, cioè dal vino; ma per comprobar ben la continenzia senile, scrivesi che di questo era pieno e grave. E qual cosa dir si po piú aliena dalla continenzia d'un vecchio, che la ebrietà? e se lo astenerse dalle cose veneree in quella pigra e fredda età merita tanta laude, quanta ne deve meritar in una tenera giovane, come quelle due di chi dianzi v'ho detto? delle quali l'una imponendo durissime leggi a tutti i sensi suoi, non solamente agli occhi negava la sua luce, ma toglieva al core quei pensieri, che soli lungamente erano stati dulcissimo cibo per tenerlo in vita; l'altra, ardente inamorata, ritrovandosi tante volte sola nelle braccia di quello che piú assai che tutto 'l resto del mondo amava, contra se stessa e contra colui che piú che se stessa le era caro combattendo, vincea quello ardente desiderio che spesso ha vinto e vince tanti savi omini.
Non vi pare ora, signor Gasparo, che dovessino i scrittori vergognarsi di far memoria di Senocrate in questo caso e chiamarlo per continente? ché chi potesse sapere, io metterei pegno che esso tutta quella notte sino al giorno seguente ad ora di desinare dormí come morto, sepulto nel vino; né mai, per stropicciar che gli facesse quella femina, poté aprir gli occhi, come se fusse stato allopiato -.
XLVI.
Quivi risero tutti gli omini e donne; e la signora Emilia, pur ridendo, - Veramente, - disse, - signor Gasparo, se vi pensate un poco meglio, credo che trovarete ancor qualche altro bello esempio di continenzia simile a questo -.
Rispose messer Cesare: - Non vi pare, Signora, che bello esempio di continenzia sia quello altro che egli ha allegato di Pericle? Maravigliomi ben che 'l non abbia ancor ricordato la continenzia e quel bel detto che si scrive di colui, a chi una donna domandò troppo gran prezzo per una notte ed esso le rispose che non comprava cosí caro il pentirsi -. Rideasi tuttavia; e messer Cesare, avendo alquanto tacciuto, - Signor Gasparo, - disse, - perdonatime s'io dico il vero, perché in somma queste sono le miraculose continenzie che di se stessi scrivono gli omini, accusando per incontinenti le donne, nelle quali ogni dí si veggono infiniti segni di continenzia; ché certo, se ben considerate, non è ròcca tanto inespugnabile né cosí ben diffesa, che essendo combattuta con la millesima parte delle machine ed insidie, che per espugnar il constante animo d'una donna s'adoprano, non si rendesse al primo assalto. Quanti creati da signori, e da essi fatti ricchi e posti in grandissima estimazione, avendo nelle mani le lor fortezze e ròcche, onde dependeva tutto 'l stato e la vita ed ogni ben loro, senza vergogna o cura d'esser chiamati traditori, le hanno perfidamente per avarizia date a chi non doveano? e Dio volesse che a' dí nostri di questi tali fosse tanta carestia, che non avessimo molto maggior fatica a ritrovar qualcuno che in tal caso abbia fatto quello che dovea, che nominar quelli che hanno mancato. Non vedemo noi tant'altri che vanno ogni dí ammazzando omini per le selve e scorrendo per mare, solamente per rubar denari? Quanti prelati vendono le cose della chiesa di Dio? quanti iurisconsulti falsificano testamenti? quanti periuri fanno? quanti falsi testimoni, solamente per aver denari? quanti medici avvelenano gl'infermi per tal causa? quanti poi per paura della morte fanno cose vilissime? E pur a tutte queste cosí efficaci e dure battaglie spesso resiste una tenera e delicata giovane; ché molte sonosi trovate, le quali hanno eletto la morte piú presto che perder l'onestà -.
XLVII.
Allora il signor Gasparo, - Queste, - disse, - messer Cesare, credo che non siano al mondo oggidí -. Rispose messer Cesare: - Io non voglio ora allegarvi le antiche; dicovi ben questo, che molte si trovariano e trovansi, che in tal caso non si curan di morire. Ed or m'occorre nell'animo che quando Capua fu saccheggiata dai Franzesi, che ancora non è tanto tempo che voi nol possiate molto bene avere a memoria, una bella giovane gentildonna capuana, essendo condotta fuor di casa sua, dove era stata presa da una compagnia di Guasconi, quando giunse al fiume che passa per Capua finse volersi attaccare una scarpa tanto che colui che la menava un poco la lassò, ed essa súbito si gittò nel fiume. Che direte voi d'una contadinella, che non molti mesi fa, a Gazuolo in Mantoana, essendo ita con una sua sorella a raccórre spiche ne' campi, vinta dalla sete entrò in una casa per bere dell'acqua; dove il patron della casa, che giovane era, vedendola assai bella e sola, presala in braccio, prima con bone parole, poi con minacce, cercò d'indurla a far i suoi piaceri; e contrastando essa sempre piú ostinatamente, in ultimo con molte battiture e per forza la vinse. Essa cosí scapigliata e piangendo ritornò nel campo alla sorella, né mai, per molto ch'ella le facesse instanzia, dir volse che dispiacere avesse ricevuto in quella casa; ma tuttavia, caminando verso l'albergo e mostrando di racchetarsi a poco a poco e parlar senza perturbazione alcuna, le diede certe commissioni; poi, giunta che fu sopra Oglio, che è il fiume che passa accanto Gazuolo, allontanatasi un poco dalla sorella, la quale non sapea né imaginava ciò ch'ella si volesse fare, súbito vi si gittò dentro. La sorella dolente e piangendo l'andava secondando quanto piú potea lungo la riva del fiume, che assai velocemente la portava all'ingiú; ed ogni volta che la meschina risurgeva sopra l'acqua, la sorella le gittava una corda che seco avea recata per legar le spiche; e benché la corda piú d'una volta le pervenisse alle mani, perché pur era ancor vicina alla ripa, la costante e deliberata fanciulla sempre la rifiutava e dilungava da sé; e cosí fuggendo ogni soccorso che dar le potea vita, in poco spacio ebbe la morte; né fu questa mossa dalla nobilità di sangue, né da paura di piú crudel morte o d'infamia, ma solamente dal dolore della perduta virginità. Or di qui potete comprendere quante altre donne facciano atti dignissimi di memoria che non si sanno, poiché avendo questa, tre dí sono, si po dir, fatto un tanto testimonio della sua virtú, non si parla di lei, né pur se ne sa il nome. Ma se non sopragiungea in quel tempo la morte del vescovo di Mantua, zio della signora Duchessa nostra, ben saria adesso quella ripa d'Oglio, nel loco onde ella se gittò, ornata d'un bellissimo sepulcro per memoria di cosí gloriosa anima, che meritava tanto piú chiara fama dopo la morte, quanto in men nobil corpo vivendo era abitata -.
XLVIIL
Quivi fece messer Cesare un poco di pausa; poi suggiunse: - A' mei dí ancora in Roma intervenne un simil caso; e fu che una bella e nobil giovane romana, essendo lungamente seguitata da uno che molto mostrava amarla, non volse mai, non che d'altro, ma d'un sguardo solo compiacergli; di modo che costui per forza di denari corruppe una sua fante; la quale, desiderosa di satisfarlo per toccarne piú denari, persuase alla patrona che un certo giorno non molto celebrato andasse a visitar la chiesa di san Sebastiano; ed avendo il tutto fatto intendere allo amante e mostratogli ciò che far dovea, condusse la giovane in una di quelle grotte oscure che soglion visitar quasi tutti quei che vanno a san Sebastiano; ed in questa tacitamente s'era nascosto prima il giovane, il quale, ritrovandosi solo con quella che amava tanto, cominciò con tutti i modi a pregarla piú dolcemente che seppe che volesse avergli compassione e mutar la sua passata durezza in amore; ma poi che vide tutti i prieghi esser vani, si volse alle minacce; non giovando ancora queste, cominciò a batterla fieramente; in ultimo, essendo in ferma disposizion d'ottener lo intento suo, se non altrimenti, per forza, ed in ciò operando il soccorso della malvagia femina che quivi l'aveva condotta, mai non potè tanto fare che essa consentisse; anzi e con parole e con fatti, benché poche forze avesse, la meschina giovane si diffendeva quanto le era possibile; di modo che tra per lo sdegno conceputo, vedendosi non poter ottener quello che volea, tra per la paura che non forse i parenti di lei, se risapeano la cosa, gli ne facessino portar la pena, questo scelerato, aiutato dalla fante, la quale del medesimo dubitava, affogò la mal avventurata giovane e quivi la lassò; e fuggitosi, procurò di non esser trovato. La fante, dallo error suo medesimo acciecata, non seppe fuggire, e presa per alcuni indici confessò ogni cosa; onde ne fu come meritava castigata. Il corpo della costante e nobil donna con grandissimo onore fu levato di quella grotta e portato alla sepultura in Roma, con una corona in testa di lauro, accompagnato da un numero infinito d'omini e di donne, tra' quali non fu alcuno che a casa riportasse gli occhi senza lacrime; e cosí universalmente da tutto 'l populo fu quella rara anima non men pianta che laudata.
XLIX.
Ma per parlarvi di quelle che voi stesso conoscete, non vi ricorda aver inteso che andando la signora Felice dalla Rovere a Saona, e dubitando che alcune vele che s'erano scoperte fossero legni di papa Alessandro che la seguitassero, s'apparecchiò con ferma deliberazione, se si accostavano, e che rimedio non vi fusse di fuga, di gittarsi nel mare; e questo non si po già credere che lo facesse per leggerezza, perché voi cosí come alcun altro conoscete ben di quanto ingegno e prudenzia sia accompagnata la singular bellezza di quella signora. Non posso pur tacere una parola della signora Duchessa nostra, la quale, essendo vivuta quindeci anni in compagnia del marito come vidua, non solamente è stata costante di non palesar mai questo a persona del mondo, ma essendo dai suoi proprii stimulata ad uscir di questa viduità, elesse piú presto patir esilio, povertà ed ogn'altra sorte d'infelicità, che accettar quello che a tutti gli altri parea gran grazia e prosperità di fortuna; - e seguitando pur messer Cesare circa questo, disse la signora Duchessa: - Parlate d'altro e non intrate piú in tal proposito, ché assai dell'altre cose avete che dire -. Suggiunse messer Cesare: - So pur che questo non mi negherete, signor Gasparo, né voi, Frigio. - Non già, - rispose il Frigio; - ma una non fa numero -.
L.
Disse allora messer Cesare: - Vero è che questi cosí grandi effetti occorrono in poche donne; pur ancora quelle che resistono alle battaglie d'amore, tutte sono miracolose; e quelle che talor restano vinte sono degne di molta compassione; ché certo i stimuli degli amanti, le arti che usano, i lacci che tendono son tanti e cosí continui, che troppa maraviglia è che una tenera fanciulla fuggir gli possa. Qual giorno, qual ora passa mai, che quella combattuta giovane non sia dallo amante sollicitata con denari, con presenti e con tutte quelle cose che imaginar sa che le abbiano a piacere? A qual tempo affacciar mai si po alla finestra, che sempre non veda passar l'ostinato amante con silenzio di parole ma con gli occhi che parlano, col viso afflitto e languido, con quegli accesi sospiri, spesso con abundantissime lacrime?
Quando mai si parte di casa per andar a chiesa o ad altro loco, che questo sempre non le sia innanzi e ad ogni voltar di contrata non se le affronti con quella trista passion dipinta negli occhi, che par che allor allora aspetti la morte? Lasso tante attillature, invenzioni, motti, imprese, feste, balli, giochi, maschere, giostre, torniamenti, le quai cose essa conosce tutte esser fatte per sé. La notte poi mai risvegliarsi non sa, che non oda musica, o almen quello inquieto spirito intorno alle mura della casa gittar sospiri e voci lamentevoli. Se per avventura parlar vole con una delle sue fanti, quella, già corrotta per denari, súbito ha apparecchiato un presentuzzo, una lettera, un sonetto, o tal cosa, da darle per parte dello amante; e quivi entrando a proposito, le fa intendere quanto arde questo meschino, come non cura la propria vita per servirla; e come da lei niuna cosa ricerca men che onesta e che solamente desidera parlarle. Quivi a tutte le difficultà si trovano rimedi, chiavi contrafatte, scale di corde, sonniferi; la cosa si dipinge di poco momento; dànnosi esempi di molt'altre che fanno assai peggio; di modo che ogni cosa tanto si fa facile, che essa niuna altra fatica ha che di dire: «Io son contenta»; e se pur la poverella per un tempo resiste, tanti stimuli le aggiungono, tanti modi trovano, che col continuo battere rompeno ciò che le osta. E molti sono che, vedendo le blandicie non giovargli, si voltano alle minacce e dicono volerle publicar per quelle che non sono ai lor mariti. Altri patteggiano arditamente coi padri e spesso con i mariti, i quali per denari o per aver favori dànno le proprie figliole e mogli in preda contra la lor voglia. Altri cercano con incanti e malie tôr loro quella libertà che Dio all'anime ha concessa; di che si vedono mirabili effetti. Ma io non saprei ridire in mill'anni tutte le insidie che opran gli omini per indur le donne alle lor voglie, che sono infinite; ed oltre a quelle che ciascun per se stesso ritrova non è ancora mancato chi abbia ingeniosamente composto libri, e postovi ogni studio per insegnar di che modo in questo s'abbiano ad ingannar le donne. Or pensate come da tante reti possano esser sicure queste semplici colombe, da cosí dolce esca invitate. E che gran cosa è adunque se una donna, veggendosi tanto amata ed adorata molt'anni da un bello, nobile ed accostumato giovane, il quale mille volte il giorno si mette a pericolo della morte per servirle, né mai pensa altro che di compiacerle, con quel continuo battere, che fa che l'acqua spezza i durissimi marmi, s'induce finalmente ad amarlo, e vinta da questa passione lo contenta di quello che voi dite che essa, per la imbecillità del sesso, naturalmente molto piú desidera che l'amante? Parvi che questo error sia tanto grave, che quella meschina, che con tante lusinghe è stata presa, non meriti almen quel perdono, che spesso agli omicidi, ai ladri, assassini e traditori si concede?
Vorrete voi che questo sia vicio tanto enorme che, per trovarsi che qualche donna in esso incorre, il sesso delle donne debba esser sprezzato in tutto e tenuto universalmente privo di continenzia, non avendo rispetto che molte se ne trovano invittissime, che ai continui stimuli d'amore sono adamantine e salde nella lor infinita constanzia piú che i scogli all'onde del mare?
LI.
Allora il signor Gasparo, essendosi fermato messer Cesare di parlare, cominciava per rispondere; ma il signor Ottaviano ridendo, - Deh, per amor di Dio, - disse, - datigliela vinta, ch io conosco che voi farete poco frutto; e parmi vedere che v'acquistarete non solamente tutte queste donne per inimiche, ma ancora la maggior parte degli omini -. Rise il signor Gasparo e disse: - Anzi ben gran causa hanno le donne di ringraziarmi; perché s'io non avessi contradetto al signor Magnifico ed a messer Cesare, non si sariano intese tante laudi che essi hanno loro date -. Allora messer Cesare, - Le laudi, - disse, - che il signor Magnifico ed io avemo date alle donne ed ancora molte altre erano notissime, però sono state superflue. Chi non sa che senza le donne sentir non si po contento o satisfazione alcuna in tutta questa nostra vita, la quale senza esse saria rustica e priva d'ogni dolcezza e piú aspera che quella dell'alpestre fiere? Chi non sa che le donne sole levano de' nostri cori tutti li vili e bassi pensieri, gli affanni, le miserie e quelle turbide tristezze che cosí spesso loro sono compagne? E se vorremo ben considerar il vero, conosceremo ancora che, circa la cognizion delle cose grandi, non desviano gli ingegni, anzi gli svegliano; ed alla guerra fanno gli omini senza paura ed arditi sopra modo. E certo impossibil è che nel cor d'omo, nel qual sia entrato una volta fiamma d'amore, regni mai piú viltà; perché chi ama desidera sempre farsi amabile piú che po, e teme sempre non gli intervenga qualche vergogna che lo possa far estimar poco da chi esso desidera esser estimato assai; né cura d'andare mille volte il giorno alla morte, per mostrar d'esser degno di quell'amore; però chi potesse far un esercito d'innamorati, li quali combattessero in presenzia delle donne da loro amate, vinceria tutto 'l mondo, salvo se contra questo in opposito non fosse un altro esercito medesimamente innamorato. E crediate di certo che l'aver contrastato Troia dieci anni a tutta Grecia non procedette d'altro che d'alcuni innamorati, li quali, quando erano per uscir a combattere, s'armavano in presenzia delle lor donne, e spesso esse medesime gli aiutavano e nel partir diceano lor qualche parola che gli infiammava e gli facea piú che omini; poi nel combattere sapeano esser dalle lor donne mirati dalle mura e dalle torri; onde loro parea che ogni ardir che mostravano, ogni prova che faceano, da esse riportasse laude; il che loro era il maggior premio che aver potessero al mondo. Sono molti che estimano la vittoria del re di Spagna Ferrando ed Isabella contra il re di Granata esser proceduta gran parte dalle donne; ché il piú delle volte quando usciva lo esercito di Spagna per affrontar gli inimici, usciva ancora la regina Isabella con tutte le sue damigelle e quivi si ritrovavano molti nobili cavalieri innamorati; li quali finché giongeano al loco di veder gli nemici, sempre andavano parlando con le lor donne; poi, pigliando licenzia ciascun dalla sua, in presenzia loro andavano ad incontrar gli nimici con quell'animo feroce che dava loro amore, e 'l desiderio di far conoscere alle sue signore che erano servite da omini valorosi; onde molte volte trovaronsi pochissimi cavalieri spagnoli mettere in fuga ed alla morte infinito numero di Mori, mercè delle gentili ed amate donne. Però non so, signor Gasparo, qual perverso giudicio v'abbia indutto a biasimar le donne.
LII.
Non vedete voi che di tutti gli esercizi graziosi e che piaceno al mondo a niun altro s'ha da attribuire la causa, se alle donne no? Chi studia di danzare e ballar leggiadramente per altro, che per compiacere a donne? Chi intende nella dolcezza della musica per altra causa, che per questa? Chi a compor versi, almen nella lingua vulgare, se non per esprimere quegli affetti che dalle donne sono causati? Pensate di quanti nobilissimi poemi saremmo privi, e nella lingua greca e nella latina, se le donne fossero state da' poeti poco estimate. Ma lassando tutti gli altri, non saria grandissima perdita se messer Francesco Petrarca, il qual cosí divinamente scrisse in questa nostra lingua gli amor suoi, avesse volto l'animo solamente alle cose latine, come aría fatto se l'amor di madonna Laura da ciò non l'avesse talor desviato? Non vi nomino i chiari ingegni che sono ora al mondo e qui presenti, che ogni dí parturiscono qualche nobil frutto e pur pigliano subietto solamente dalle bellezze e virtú delle donne. Vedete che Salomone, volendo scrivere misticamente cose altissime e divine, per coprirle d'un grazioso velo finse un ardente ed affettuoso dialogo d'uno innamorato con la sua donna, parendogli non poter trovar qua giú tra noi similitudine alcuna piú conveniente e conforme alle cose divine, che l'amor verso le donne; ed in tal modo volse darci un poco d'odor di quella divinità, che esso e per scienzia e per grazia piú che gli altri conoscea. Però non bisognava, signor Gasparo, disputar di questo, o almen con tante parole; ma voi col contradire alla verità avete impedito che non si siano intese mill'altre cose belle ed importanti circa la perfezion della donna di palazzo -. Rispose il signor Gasparo: - Io credo che altro non vi si possa dire; pur se a voi pare che il signor Magnifico non l'abbia adornata a bastanza di bone condicioni, il diffetto non è stato il suo, ma di chi ha fatto che piú virtú non siano al mondo, perché esso le ha date tutte quelle che vi sono -. Disse la signora Duchessa ridendo: - Or vedrete che 'l signor Magnifico pur ancor ne ritroverà qualche altra -. Rispose il Magnifico: - In vero, Signora, a me par d'aver detto assai e, quanto per me, contentomi di questa mia donna; e se questi signori non la voglion cosí fatta, lassinla a me -.
LIII.
Quivi tacendo ognuno, disse messer Federico: - Signor Magnifico, per stimularvi a dir qualche altra cosa, voglio pur farvi una domanda circa quello che avete voluto che sia la principal professione della donna di palazzo, ed è questa; ch'io desidero intendere come ella debba intertenersi circa una particularità che mi pare importantissima; ché, benché le eccellenti condicioni da voi attribuitele includino ingegno, sapere, giudicio, desterità, modestia e tant'altre virtú, per le quali ella dee ragionevolmente saper intertenere ogni persona e ad ogni proposito, estimo io però che piú che alcuna altra cosa le bisogni saper quello che appartiene ai ragionamenti d'amore; perché, secondo che ogni gentil cavaliero usa per instrumento d'acquistar grazia di donne quei nobili esercizi, attillature e bei costumi che avemo nominati, a questo effetto adopra medesimamente le parole; e non solo quando è astretto da passione, ma ancora spesso per far onore a quella donna con cui parla, parendogli che 'l mostrar d'amarla sia un testimonio che ella ne sia degna e che la bellezza e meriti suoi sian tanti, che sforzino ognuno a servirla. Però vorrei sapere come debba questa donna circa tal proposito intertenersi discretamente e come rispondere a chi l'ama veramente e come a chi ne fa dimostrazion falsa; e se dee dissimular d'intendere, o corrispondere, e rifiutare, e come governarsi -.
LIV.
Allor il signor Magnifico, - Bisogneria prima, - disse, insegnarle a conoscer quelli che simulan d'amare e quelli che amano veramente; poi, del corrispondere in amore o no, credo che non si debba governar per voglia d'altrui, che di se stessa -. Disse messer Federico: - Insegnatele adunque quai siano i piú certi e sicuri segni per discernere l'amor falso dal vero, e di qual testimonio ella se debba contentar per esser ben chiara dell'amore mostratole -. Rispose ridendo il Magnifico: - Io non lo so perché gli omini oggidí sono tanto astuti, che fanno infinite dimostrazion false e talor piangono quando hanno ben gran voglia di ridere; però bisogneria mandargli all'Isola Ferma, sotto l'arco dei leali innamorati. Ma acciò che questa mia donna, della quale a me convien aver particular protezione per esser mia creatura, non incorra in quegli errori ch'io ho veduto incorrere molt'altre, io direi ch'ella non fosse facile a creder d'esser amata; né facesse come alcune, che non solamente non mostrano di non intendere chi lor parla d'amore, ancora che copertamente, ma alla prima parola accettano tutte le laudi che lor son date, o ver le negano d'un certo modo, che è piú presto un invitare d'amore quelli coi quali parlano, che ritrarsi. Però la maniera dell'intertenersi nei ragionamenti d'amore, ch'io voglio che usi la mia donna di palazzo, sarà il rifiutar di creder sempre che chi le parla d'amore, l'ami però; e se quel gentilomo sarà, come pur molti se ne trovano, prosuntuoso e che le parli con poco rispetto, essa gli darà tal risposta, che 'l conoscerà chiaramente che le fa dispiacere; se ancora sarà discreto ed usarà termini modesti e parole d'amore copertamente, con quel gentil modo che io credo che faria il cortegiano formato da questi signori, la donna mostrerà non l'intendere e tirarà le parole ad altro significato, cercando sempre modestamente, con quello ingegno e prudenzia che già s'è detto convenirsele, uscir di quel proposito. Se ancor il ragionamento sarà tale, che ella non possa simular di non intendere, pigliarà il tutto come per burla, mostrando di conoscere che ciò se le dica piú presto per onorarla che perché cosí sia, estenuando i meriti suoi ed attribuendo a cortesia di quel gentilomo le laudi che esso le darà; ed in tal modo si farà tener per discreta, e sarà piú sicura dagli inganni. Di questo modo parmi che debba intertenersi la donna di palazzo circa i ragionamenti d'amore -.
LV.
Allora messer Federico, - Signor Magnifico, - disse, - voi ragionate di questa cosa, come che sia necessario che tutti quelli che parlano d'amore con donne dicano le bugie e cerchino d'ingannarle; il che se cosí fosse, direi che i vostri documenti fossero boni; ma se questo cavalier che intertiene ama veramente e sente quella passion che tanto affligge talor i cori umani, non considerate voi in qual pena, in qual calamità e morte lo ponete, volendo che la donna non gli creda mai cosa che dica a questo proposito? Dunque i scongiuri, le lacrime e tant'altri segni non debbono aver forza alcuna?
Guardate, signor Magnifico, che non si estimi che, oltre alla naturale crudeltà che hanno in sé molte di queste donne, voi ne insegnate loro ancora di piú -. Rispose il Magnifico: - Io ho detto non di chi ama, ma di chi intertiene con ragionamenti amorosi, nella qual cosa una delle piú necessarie condicioni è che mai non manchino parole; e gli innamorati veri, come hanno il core ardente, cosí hanno la lingua fredda, col parlar rotto e súbito silenzio; però forsi non saria falsa proposizione il dire: chi ama assai parla poco. Pur di questo credo che non si possa dar certa regula, per la diversità dei costumi degli omini; né altro dir saprei, se non che la donna sia ben cauta, e sempre abbia a memoria che con molto minor periculo posson gli omini mostrar d'amare, che le donne -.
LVI.
Disse il signor Gasparo ridendo: - Non volete voi, signor Magnifico, che questa vostra cosí eccellente donna essa ancora ami, almen quando conosce veramente esser amata? Atteso che se 'l cortegiano non fosse redamato, non è già credibile che continuasse in amare lei; e cosí le mancheriano molte grazie, e massimamente quella servitú e riverenzia, con la quale osservano e quasi adorano gli amanti la virtú delle donne amate. Di questo, - rispose il Magnifico, - non la voglio consigliare io; dico ben che lo amar come voi ora intendete estimo che convenga solamente alle donne non maritate; perché quando questo amore non po terminare in matrimonio, è forza che la donna n'abbia sempre quel remorso e stimulo che s'ha delle cose illicite, e si metta a periculo di macular quella fama d'onestà che tanto l'importa -. Rispose allora messer Federico ridendo: - Questa vostra opinion, signor Magnifico, mi par molto austera, e penso che l'abbiate imparata da qualche predicator, di quelli che riprendon le donne innamorate de' seculari per averne essi miglior parte; e parmi che imponiate troppo dure leggi alle maritate, perché molte se ne trovano, alle quali i mariti senza causa portano grandissimo odio e le offendono gravemente, talor amando altre donne, talor facendo loro tutti i dispiaceri che sanno imaginare; alcune sono dai padri maritate per forza a vecchi, infermi, schifi e stomacosi, che le fan vivere in continua miseria.
E se a queste tali fosse licito fare il divorzio e separarsi da quelli co' quali sono mal congiunte, non saria forse da comportar loro che amassero altri che 'l marito; ma quando, o per le stelle nemiche, o per la diversità delle complessioni, o per qualche altro accidente, occorre che nel letto, che dovrebbe esser nido di concordia e d'amore, sparge la maledetta furia infernale il seme del suo veneno, che poi produce lo sdegno, il suspetto e le pungenti spine dell'odio che tormenta quelle infelici anime, legate crudelmente nella indissolubil catena insino alla morte, perché non volete voi che a quella donna sia licito cercar qualche refrigerio a cosí duro flagello e dar ad altri quello che dal marito è non solamente sprezzato, ma aborrito?
Penso ben che quelle che hanno i mariti convenienti e da essi sono amate, non debbano fargli ingiuria; ma l'altre, non amando chi ama loro, fanno ingiuria a se stesse. - Anzi a se stesse fanno ingiuria amando altri che il marito, - rispose il Magnifico. - Pur, perché molte volte il non amare non è in arbitrio nostro, se alla donna di palazzo occorrerà questo infortunio che l'odio del marito o l'amor d'altri la induca ad amare, voglio che ella niuna altra cosa allo amante conceda eccetto che l'animo; né mai gli faccia dimostrazion alcuna certa d'amore, né con parole, né con gesti, né per altro modo, tal che esso possa esserne sicuro -.
LVII.
Allora messer Roberto da Bari, pur ridendo, - Io, - disse, - signor Magnifico, mi appello di questa vostra sentenzia e penso che averò molti compagni; ma poiché pur volete insegnar questa rusticità, per dir cosí, alle maritate, volete voi che le non maritate siano esse ancora cosí crudeli e discortesi e che non compiacciano almen in qualche cosa i loro amanti? Se la mia donna di palazzo, - rispose il signor Magnifico, non sarà maritata, avendo d'amare voglio che ella ami uno col quale possa maritarsi; né reputarò già errore che ella gli faccia qualche segno d'amore; della qual cosa voglio insegnarle una regula universale con poche parole, acciò che ella possa ancora con poca fatica tenerla a memoria: e questa è che ella faccia tutte le demostrazioni d'amore a chi l'ama, eccetto quelle che potessero indur nell'animo dell'amante speranza di conseguir da lei cosa alcuna disonesta. Ed a questo bisogna molto avvertire, perché è uno errore dove incorrono infinite donne, le quali per l'ordinario niun'altra cosa desiderano piú che l'esser belle; e perché lo avere molti innamorati ad esse par testimonio della lor bellezza, mettono ogni studio per guadagnarne piú che possono; però scorrono spesso in costumi poco moderati, e lassando quella modesia temperata che tanto lor si conviene, usano certi sguardi procaci, con parole scurili ed atti pieni di impudenzia, parendo lor che per questo siano vedute ed udite voluntieri, e che con tai modi si facciano amare; il che è falso, perché le demostrazioni che si fan loro nascono da un appetito mosso da opinion di facilità, non d'amore. Però voglio che la mia donna di palazzo non con modi disonesti paia quasi che s'offerisca a chi la vole ed uccelli piú che po gli occhi e la voluntà di chi la mira, ma con i meriti e virtuosi costumi suoi, con la venustà, con la grazia induca nell'animo di chi la vede quello amor vero che si deve a tutte le cose amabili, e quel rispetto che leva sempre la speranza di chi pensa a cosa disonesta. Colui adunque che sarà da tal donna amato, ragionevolmente devrà contentarsi d'ogni minima demostrazione, ed apprezzar piú da lei un sol sguardo con affetto d'amore, che l'essere in tutto signor d'ogni altra; ed io a cosí fatta donna non saprei aggiunger cosa alcuna, se non che ella fosse amata da cosí eccellente cortegiano come hanno formato questi signori, e che essa ancor amasse lui, acciò che e l'uno e l'altra avesse totalmente la sua perfezione -.
LVIII.
Avendo insin qui detto, il signor Magnifico taceasi, quando il signor Gasparo ridendo, - Or, - disse, - non potrete già dolervi che 'l signor Magnifico non abbia formato la donna di palazzo eccellentissima e da mo, se una tal se ne trova, io dico ben che ella merita esser estimata eguale al cortegiano -.
Rispose la signora Emilia: - Io m'obligo trovarla, sempre che voi trovarete il cortegiano -. Suggiunse messer Roberto: Veramente negar non si po che la donna formata dal signor Magnifico non sia perfettissima; nientedimeno in queste ultime condicioni appartenenti allo amore parmi pur che esso l'abbia fatta un poco troppo austera, massimamente volendo che con le parole, gesti e modi suoi ella levi in tutto la speranza allo amante e lo confermi piú che ella po nella disperazione; ché, come ognun sa, li desidèri umani non si estendono a quelle cose, delle quali non s'ha qualche speranza. E benché già si siano trovate alcune donne le quali, forse superbe per la bellezza e valor loro, la prima parola che hanno detta a chi lor ha parlato d'amore è stata che non pensino aver mai da lor cosa che vogliano, pur con lo aspetto e con le accoglienze sono lor poi state un poco piú graziose, di modo che con gli atti benigni hanno temperato in parte le parole superbe; ma se questa donna e con gli atti e con le parole e coi modi leva in tutto la speranza, credo che 'l nostro cortegiano, se egli sarà savio, non l'amerà mai, e cosí essa averà questa imperfezion di trovarsi senza amante -.
LIX.
Allor il signor Magnifico, - Non voglio, - disse, - che la mia donna di palazzo levi la speranza d'ogni cosa, ma delle cose disoneste, le quali, se 'l cortegiano sarà tanto cortese e discreto come l'hanno formato questi signori, non solamente non le sperarà, ma pur non le desiderarà; perché se la bellezza, i costumi, l'ingegno, la bontà, il sapere, la modestia e tante altre virtuose condicioni che alla donna avemo date, saranno la causa dell'amor del cortegiano verso lei, necessariamente il fin ancora di questo amore sarà virtuoso; e se la nobilità, il valor nell'arme, nelle lettere, nella musica, la gentilezza, l'esser nel parlar, nel conversar pien di tante grazie, saranno i mezzi con i quali il cortegiano acquistarà l'amor della donna, bisognerà che 'l fin di quello amore sia della qualità che sono i mezzi per li quali ad esso si perviene; oltra che, secondo che al mondo si trovano diverse maniere di bellezze, cosí si trovano ancora diversi desidèri d'omini; e però intervien che molti, vedendo una donna di quella bellezza grave, che andando, stando, motteggiando, scherzando e facendo ciò che si voglia, tempera sempre talmente tutti i modi suoi, che induce una certa riverenzia a chi la mira, si spaventano, né osano servirle; e piú presto, tratti dalla speranza, amano quelle vaghe e lusenghevoli, tanto delicate e tenere, che nelle parole, negli atti e nel mirar mostrano una certa passion languidetta, che promette poter facilmente incorrere e convertirsi in amore. Alcuni, per esser sicuri degli inganni, amano certe altre tanto libere e degli occhi e delle parole e dei movimenti, che fan ciò che prima lor viene in animo con una certa simplicità che non nasconde i pensier suoi. Non mancano ancor molti altri animi generosi, i quali, parendo loro che la virtú consista circa la difficultà e che troppo dolce vittoria sia il vincer quello che ad altri pare inespugnabile, si voltano facilmente ad amar le bellezze di quelle donne, che negli occhi, nelle parole e nei modi mostrano piú austera severità che l'altre, per far testimonio che 'l valor loro po sforzare un animo ostinato e indur ad amar ancor le voglie ritrose e rubelle d'amore. Però questi tanto confidenti di se stessi, perché si tengono securi di non lassarsi ingannare, amano ancor volentieri certe donne, che con sagacità ed arte pare che nella bellezza coprano mille astuzie; o veramente alcun'altre, che hanno congiunta con la bellezza una manera sdegnosetta di poche parole, pochi risi, con modo quasi d'apprezzar poco qualunque le mira o le serva. Trovansi poi certi altri, che non degnano amar se non donne che nell'aspetto, nel parlare ed in tutti i movimenti suoi portino tutta la leggiadria, tutti i gentil costumi, tutto 'l sapere e tutte le grazie unitamente cumulate, come un sol fior composto di tutte le eccellenzie del mondo. Sí che se la mia donna di palazzo averà carestia di quegli amori mossi da mala speranza, non per questo restarà senza amante; perché non le mancheran quei che saranno mossi e dai meriti di lei e dalla confidenzia del valor di se stessi, per lo quale si conosceran degni d'essere da lei amati -.
LX.
Messer Roberto pur contradicea, ma la signora Duchessa gli diede il torto, confirmando la ragion del signor Magnifico; poi suggiunse: - Noi non abbiam causa di dolersi del signor Magnifico, perché in vero estimo che la donna di palazzo da lui formata possa star al paragon del cortegiano ed ancor con qualche vantaggio; perché le ha insegnato ad amare, il che non han fatto questi signori al suo cortegiano -. Allora l'Unico Aretino, - Ben è conveniente, - disse, - insegnar alle donne lo amare, perché rare volte ho io veduto alcuna che far lo sappia; ché quasi sempre tutte accompagnano la lor bellezza con la crudeltà ed ingratitudine verso quelli che piú fidelmente le serveno e che per nobilità, gentilezza e virtù meritariano premio de' loro amori; e spesso poi si dànno in preda ad omini sciocchissimi e vili e da poco, e che non solamente non le amano, ma le odiano. Però, per schifar questi cosí enormi errori, forsi era ben insegnare loro prima il far elezione di chi meritasse essere amato, e poi lo amarlo; il che degli omini non è necessario, ché pur troppo per se stessi lo sanno; ed io ne posso esser bon testimonio, perché lo amare a me non fu mai insegnato, se non dalla divina bellezza e divinissimi costumi d'una Signora, talmente che nell'arbitrio mio non è stato il non adorarla, non che ch'io in ciò abbia avuto bisogno d'arte o maestro alcuno; e credo che 'l medesimo intervenga a tutti quelli che amano veramente; però piú tosto si converria insegnar al cortegiano il farsi amare che lo amare
LXI.
Allora la signora Emilia, - Or di questo adunque ragionate, - disse, - signor Unico -. Rispose l'Unico: - Parmi che la ragion vorrebbe che col servire e compiacer le donne s'acquistasse la lor grazia; ma quello di che esse si tengon servite e compiacciute, credo che bisogni impararlo dalle medesime donne, le quali spesso desideran cose tanto strane, che non è omo che le imaginasse, e talor esse medesime non sanno ciò che si desiderino; perciò è bene che voi, Signora, che sète donna e ragionevolmente dovete sapere quello che piace alle donne, pigliate questa fatica per far al mondo una tanta utilità -. Allor disse la signora Emilia: - Lo esser voi gratissimo universalmente alle donne è bono argumento che sappiate tutti e modi per li quali s'acquista la lor grazia; però è pur conveniente che voi l'insegnate. - Signora, - rispose l'Unico, io non saprei dar ricordo piú utile ad uno amante che 'l procurar che voi non aveste autorità con quella donna, la grazia della quale esso cercasse; perché qualche bona condicione, che pur è paruto al mondo talor che in me sia, col piú sincero amore che fosse mai, non hanno avuto tanta forza di far ch'io fussi amato, quanta voi di far che fussi odiato -.
LXII.
Rispose allor la signora Emilia: - Signor Unico, guardimi Dio pur di pensar, non che operar mai cosa perché foste odiato; ché oltre ch'io farei quello che non debbo, sarei estimata di poco giudicio, tentando lo impossibile; ma io, poiché voi mi stimulate con questo modo a parlare di quello che piace alle donne, parlerò; e se vi dispiacerà, datene la colpa a voi stesso. Estimo io adunque che chi ha da esser amato debba amare ed esser amabile e che queste due cose bastino per acquistar la grazia delle donne. Ora, per rispondere a quello di che voi m'accusate, dico che ognun sa e vede che voi siete amabilissimo; ma che amiate cosí sinceramente come dite sto io assai dubbiosa, e forse ancora gli altri; perché l'esser voi troppo amabile ha causato che siete stato amato da molte donne, ed i gran fiumi divisi in piú parti divengono piccoli rivi; cosí ancora l'amor diviso in piú che in un obietto, ha poca forza; ma questi vostri continui lamenti ed accusare in quelle donne che avete servite la ingratitudine, la qual non è verisimile, atteso tanti vostri meriti, è una certa sorte di secretezza per nasconder le grazie, i contenti e i piaceri da voi conseguiti in amore, ed assicurar quelle donne che v'amano e che vi si son date in preda, che non le publichiate; e però esse ancora si contentano che voi cosí apertamente con altre mostriate amori falsi per coprire i lor veri; onde se quelle donne, che voi ora mostrate d'amare, non son cosí facili a crederlo come vorreste, interviene perché questa vostra arte in amore comincia ad esser conosciuta, non perch'io vi faccia odiare -.
LXIII.
Allor il signor Unico, - Io, - disse, - non voglio altrimenti tentar di confutar le parole vostre, perché ormai parmi cosí fatale il non esser creduto a me la verità, come l'esser creduto a voi la bugia. - Dite pur, signor Unico, - rispose la signora Emilia, - che voi non amate cosí come vorreste che fosse creduto; ché se amaste, tutti i desidèri vostri sariano di compiacer la donna amata e voler quel medesimo che essa vole, ché questa è la legge d'amore; ma il vostro tanto dolervi di lei denota qualche inganno, come ho detto, o veramente fa testimonio che voi volete quello che essa non vole. - Anzi, disse il signor Unico, - voglio io ben quello che essa vole, che è argumento ch'io l'amo; ma dolgomi perché essa non vol quello che voglio io, che è segno che non mi ama, secondo la medesima legge che voi avete allegata -. Rispose la signora Emilia: - Quello che comincia ad amare deve ancora cominciare a compiacere ed accommodarsi totalmente alle voglie della cosa amata e con quelle governar le sue; e far che i proprii desidèri siano servi e che l'anima sua istessa sia come obediente ancella, né pensi mai ad altro che a transformarsi, se possibil fosse, in quella della cosa amata, e questo reputar per sua somma felicità; perché cosí fan quelli che amano veramente. - A punto la mia somma felicità, - disse il signor Unico, sarebbe se una voglia sola governasse la sua e la mia anima. - A voi sta di farlo, - rispose la signora Emilia.
LXIV.
Allora messer Bernardo, interrompendo, - Certo è, - disse, - che chi ama veramente, tutti i suoi pensieri, senza che d'altri gli sia mostrato, indrizza a servire e compiacere la donna amata; ma perché talor queste amorevoli servitú non son ben conosciute, credo che oltre allo amare e servire sia necessario fare ancor qualche altra dimostrazione di questo amore tanto chiara, che la donna non possa dissimular di conoscere d'essere amata; ma con tanta modestia però, che non paia che se le abbia poca riverenzia. E perciò voi, Signora, che avete cominciato a dir come l'anima dello amante dee essere obediente ancella alla amata, insegnate ancor, di grazia, questo secreto, il quale mi pare importantissimo -. Rise messer Cesare e disse: - Se lo amante è tanto modesto che abbia vergogna di dirgliene, scrivaglielo -.
Suggiunse la signora Emilia: - Anzi, se è tanto discreto come conviene, prima che lo faccia intendere alla donna devesi assecurar di non offenderla -. Disse allor il signor Gasparo: - A tutte le donne piace l'esser pregate d'amore, ancor che avessero intenzione di negar quello che loro si domanda -. Rispose il Magnifico Iuliano: - Voi v'ingannate molto; né io consigliarei il cortegiano che usasse mai questo termine, se non fusse ben certo di non aver repulsa
LVX.
- E che cosa deve egli adunque fare? - disse il signor Gasparo. Suggiunse il Magnifico: - Se pur vole scrivere o parlare, farlo con tanta modestia e cosí cautamente, che le parole prime tentino l'animo e tocchino tanto ambiguamente la Voluntà di lei, che le lassino modo ed uno certo esito di poter simulare di non conoscere, che que' ragionamenti importino amore, acciò che se trova difficultà, possa ritrarse, e mostrar d'aver parlato o scritto ad altro fine, per goder quelle domestiche carezze ed accoglienzie con sicurtà, che spesso le donne concedono a chi par loro che le pigli per amicizia; poi le negano, súbito che s'accorgono che siano ricevute per dimostrazion d'amore. Onde quelli che son troppo precipiti e si avventurano cosí prosuntuosamente con certe furie ed ostinazioni, spesso le pèrdono, e meritamente; perché ad ogni nobil donna pare sempre di essere poco estimata da chi senza rispetto la ricerca d'amore prima che l'abbia servita.
LVXI.
Però, secondo me, quella via che deve pigliar il cortegiano per far noto l'amor suo alla donna parmi che sia il mostrargliele coi modi piú presto che con le parole; ché veramente talor piú affetto d'amor si conosce in un suspiro, in un rispetto, in un timore, che in mille parole; poi far che gli occhi siano que' fidi messaggeri, che portino l'ambasciate del core; perché spesso con maggior efficacia mostran quello che dentro vi è di passione, che la lingua propria o lettere o altri messi, di modo che non solamente scoprono i pensieri, ma spesso accendono amore nel cor della persona amata; perché que' vivi spirti che escono per gli occhi, per esser generati presso al core, entrando ancor negli occhi, dove sono indrizzati come saetta al segno, naturalmente penetrano al core come a sua stanza ed ivi si confondono con quegli altri spirti e, con quella sottilissima natura di sangue che hanno seco, infettano il sangue vicino al core, dove son pervenuti, e lo riscaldano e fannolo a sé simile ed atto a ricevere la impression di quella imagine che seco hanno portata; onde a poco a poco andando e ritornando questi messaggeri la via per gli occhi al core e riportando l'esca e 'l focile di bellezza e di grazia, accendono col vento del desiderio quel foco che tanto arde e mai non finisce di consumare, perché sempre gli apportano materia di speranza per nutrirlo. Però ben dir si po che gli occhi siano guida in amore, massimamente se sono graziosi e soavi; neri di quella chiara e dolce negrezza, o vero azzurri; allegri e ridenti e cosí grati e penetranti nel mirar, come alcuni, nei quali par che quelle vie che dànno esito ai spiriti siano tanto profonde, che per esse si vegga insino al core. Gli occhi adunque stanno nascosi come alla guerra soldati insidiatori in agguato; e se la forma di tutto 'l corpo è bella e ben composta, tira a sé ed alletta chi da lontan la mira, fin a tanto che s'accosti; e súbito che è vicino, gli occhi saettano ed affaturano come venefíci; e massimamente quando per dritta linea mandano i raggi suoi negli occhi della cosa amata in tempo che essi facciano il medesimo; perché i spiriti s'incontrano ed in quel dolce intoppo l'un piglia la qualità dell'altro, come si vede d'un occhio infermo, che guardando fisamente in un sano gli dà la sua infirmità; sí che a me pare che 'l nostro cortegiano possa di questo modo manifestare in gran parte l'amor alla sua donna. Vero è che gli occhi, se non son governati con arte, molte volte scoprono piú gli amorosi desidèri a cui l'om men vorria, perché fuor per essi quasi visibilmente traluceno quelle ardenti passioni, le quali volendo l'amante palesar solamente alla cosa amata, spesso palesa ancor a cui piú desiderarebbe nasconderle. Però chi non ha perduto il fren della ragione si governa cautamente ed osserva i tempi, i lochi e quando bisogna s'astien da quel cosí intento mirare, ancora che sia dolcissimo cibo; perché troppo dura cosa è un amor publico -.
LVXII.
Rispose il conte Ludovico: - Talor ancora l'essere publico non nòce perché in tal caso gli omini spesso estimano che quegli amori non tendano al fine che ogni amante desidera, vedendo che poca cura si ponga per coprirli, né si faccia caso che si sappiano o no; e però col non negar si vendica l'om una certa libertà di poter publicamente parlare e star senza suspetto con la cosa amata; il che non avviene a quelli che cercano d'esser secreti, perché pare che sperino e siano vicini a qualche gran premio, il quale non voriano che altri risapesse. Ho io ancor veduto nascere ardentissimo amore nel core d'una donna verso uno, a cui per prima non avea pur una minima affezione, solamente per intendere che opinione di molti fusse che s'amassero insieme; e la causa di questo credo io che fosse, che quel giudicio cosí universale le parea bastante testimonio per farle credere che colui fosse degno dell'amor suo, e parea quasi che la fama le portasse l'ambasciate per parte dell'amante molto piú vere e piú degne d'esser credute, che non aría potuto far esso medesimo con lettere o con parole, o vero altra persona per lui. Però questa voce publica non solamente talor non nòce, ma giova -. Rispose il Magnifico: - Gli amori de' quali la fama è ministra, son assai pericolosi di far che l'omo sia mostrato a dito; e però chi ha da caminar per questa strada cautamente, bisogna che dimostri aver nell'animo molto minor foco che non ha, e contentarsi di quello che gli par poco e dissimular i desidèri, le gelosie, gli affanni e i piacer suoi e rider spesso con la bocca quando il cor piange, e mostrar d'esser prodigo di quello di che è avarissimo; e queste cose son tanto difficili da fare, che quasi sono impossibili. Però se 'l nostro cortegian volesse usar del mio consiglio, io lo confortarei a tener secreti gli amori suoi -.
LVXIII.
Allora messer Bernardo, - Bisogna, - disse, - adunque che voi questo gli insegnate, e parmi che non sia di piccola importanzia; perché oltre ai cenni, che talor alcuni cosí copertamente fanno, che quasi senza movimento alcuno quella persona che essi desidrano nel volto e negli occhi lor legge ciò che hanno nel core, ho io talor udito tra dui innamorati un lungo e libero ragionamento d'amore del quale non poteano però i circonstanti intender chiaramente particularitate alcuna, né certificarsi che fosse d'amore; e questo per la discrezione ed avvertenzia di chi ragionava; perché, senza far dimostrazione alcuna d'aver dispiacere d'essere ascoltati, dicevano secretamente quelle sole parole che importavano ed altamente tutte l'altre, che si poteano accommodare a diversi propositi -. Allor messer Federico, - Il parlar, - disse, - cosí minutamente di queste avvertenzie di secretezza, sarebbe uno andar drieto all'infinito; però io vorrei più tosto che si ragionasse un poco come debba lo amante mantenersi la grazia della sua donna, il che mi par molto piú necessario -.
LXIX.
Rispose il Magnifico: - Credo che que' mezzi che vagliono per acquistarla, vagliano ancor per mantenerla; e tutto questo consiste in compiacer la donna amata senza offenderla mai; però saria difficile darne regula ferma; perché per infiniti modi chi non è ben discreto fa errori talora che paion piccoli, nientedimeno offendeno gravemente l'animo della donna; e questo intervien piú che agli altri a quei che sono astretti dalla passione, come alcuni, che sempre che hanno modo di parlare a quella donna che amano, si lamentano e dolgono cosí acerbamente e voglion spesso cose tanto impossibili, che per quella importunità vengon a fastidio. Altri, se son punti da qualche gelosia, si lassan di tal modo trasportar dal dolore, che senza risguardo scorrono in dir mal di quello di chi hanno suspetto, e talor senza colpa di colui ed ancor della donna, e non vogliono ch'ella gli parli, o pur volga gli occhi a quella parte ove egli è; e spesso con questi modi non solamente offendon quella donna, ma son causa ch'ella s'induca ad amarlo; perché 'l timore che mostra talor d'avere uno amante che la sua donna non lassi lui per quell'altro, dimostra che esso si conosce inferior di meriti e di valor a colui, e con questa opinione la donna si move ad amarlo, ed accorgendosi che per mettergliele in disgrazia se ne dica male, ancor che sia vero non lo crede, e tuttavia l'ama piú -.
LXX.
Allora messer Cesare ridendo, - lo, - disse, - confesso non esser tanto savio, che potessi astenermi di dir male d'un mio rivale, salvo se voi non m'insegnaste qualche altro miglior modo da ruinarlo -. Rispose ridendo il signor Magnifico: Dicesi in proverbio che quando il nemico è nell'acqua insino alla cintura, se gli deve porger la mano e levarlo del pericolo; ma quando v'è insino al mento, mettergli il piede in sul capo e summergerlo tosto. Però sono alcuni che questo fanno co' suoi rivali, e fin che non hanno modo ben sicuro di ruinargli, van dissimulando e piú tosto si mostran loro amici che altrimenti; poi, se la occasion s'offerisce lor tale, che conoscan poter precipitargli con certa ruína, dicendone tutti i mali, o veri o falsi che siano, lo fanno senza riservo, con arte, inganni e con tutte le vie che sanno imaginare. Ma perché a me non piaceria mai che 'l nostro cortegiano usasse inganno alcuno, vorrei che levasse la grazia dell'amica al suo rivale non con altra arte che con l'amare, col servire e con l'essere virtuoso, valente, discreto e modesto; in somma col meritar piú di lui e con l'esser in ogni cosa avvertito e prudente, guardandosi da alcune sciocchezze inette nelle quali spesso incorrono molti ignoranti, e per diverse vie; ché già ho io conosciuti alcuni che, scrivendo e parlando a donne, usan sempre parole di Polifilo e tanto stanno in su la sottilità della retorica, che quelle si diffidano di se stesse e si tengon per ignorantissime, e par loro un'ora mill'anni finir quel ragionamento e levarsegli davanti; altri si vantano senza modo; altri dicono spesso cose che tornano a biasimo e danno di se stessi, come alcuni, dei quali io soglio ridermi, che fan profession di innamorati e talor dicono in presenzia di donne: «Io non trovai mai donna che m'amasse»; e non s'accorgono che quelle che gli odono súbito fan giudicio che questo non possa nascere d'altra causa, se non perché non meritino né esser amati, né pur l'acqua che bevono, e gli tengon per omini da poco, né gli amerebbono per tutto l'oro del mondo; parendo loro che se gli amassero, sarebbono da meno che tutte l'altre che non gli hanno amati. Altri, per concitar odio a qualche suo rivale, son tanto sciocchi, che pur in presenzia di donne dicono: «Il tale è il piú fortunato om del mondo; che già non è bello, né discreto, né valente, né sa fare o dire piú che gli altri, e pur tutte le donne l'amano e gli corron drieto»; e cosí mostrando avergli invidia di questa felicità, ancora che colui né in aspetto né in opere si mostri essere amabile, fanno credere che egli abbia in sé qualche cosa secreta, per la quale meriti l'amor di tante donne; onde quelle che di lui senton ragionare di tal modo, esse ancora per questa credenza si movono molto piú ad amarlo -.
LXXI.
Rise allor il conte Ludovico e disse: - Io vi prometto che queste grosserie non userà mai il cortegiano discreto per acquistar grazia con donne -. Rispose messer Cesare Gonzaga: Né men quell'altra che a' mei dí usò un gentilomo di molta estimazione, il qual io non voglio nominare per onore degli omini -.
Rispose la signora Duchessa: - Dite almen ciò che egli fece -. Suggiunse messer Cesare: - Costui, essendo amato da una gran signora, richiesto da lei venne secretamente in quella terra ove essa era; e poi che la ebbe veduta e fu stato seco a ragionare quanto essa e 'l tempo comportarono, partendosi con molte amare lacrime e sospiri, per testimonio dell'estremo dolor ch'egli sentiva di tal partita, le supplicò ch'ella tenesse continua memoria di lui; e poi suggiunse che gli facesse pagar l'osteria perché, essendo stato richiesto da lei, gli parea ragione che della sua venuta non vi sentisse spesa alcuna -.
Allora tutte le donne cominciarono a ridere e dir che costui era indignissimo d'esser chiamato gentilomo; e molti si vergognavano per quella vergogna che esso meritamente aría sentita, se mai per tempo alcuno avesse preso tanto d'intelletto, che avesse potuto conoscere un suo cosí vituperoso fallo.
Voltossi allor il signor Gaspar a messer Cesare e disse: - Era meglio restar di narrar questa cosa per onor delle donne che di nominar colui per onor degli omini; che ben potete imaginare che bon giudicio avea quella gran signora, amando un animale cosí irrazionale, e forse ancora che di molti che la servivano aveva eletto questo per lo piú discreto, lassando adrieto e dando disfavore a chi costui non saria stato degno famiglio -. Rise il conte Ludovico e disse: - Chi sa che questo non fusse discreto nell'altre cose e peccasse solamente in osterie? Ma molte volte per soverchio amore gli omini fanno gran sciocchezze; e se volete dir il vero, forse che a voi talor è occorso farne piú d'una -.
LXXII.
Rispose ridendo messer Cesare: - Per vostra fé, non scopriamo i nostri errori.
- Pur bisogna scoprirli, - rispose il signor Gasparo, - per sapergli correggere; - poi suggiunse: - Voi, signor Magnifico, or che 'l cortegian si sa guadagnare e mantener la grazia della sua signora e tórla al suo rivale, sète debitor de insegnarli a tener secreti gli amori suoi -. Rispose il Magnifico: - A me par d'aver detto assai: però fate mo che un altro parli di questa secretezza -. Allora messer Bernardo e tutti gli altri cominciarono di novo a fargli instanzia; e 'l Magnifico ridendo, - Voi, - disse, - volete tentarmi; troppo sète tutti ammaestrati in amore; pur, se desiderate saperne piú, andate e sí vi leggete Ovidio. - E come, - disse messer Bernardo, - debb'io sperare che e suoi precetti vagliano in amore? poiché conforta e dice esser bonissimo che l'uom in presenzia della innamorata finga d'essere imbriaco (vedete che bella manera d'acquistar grazia), ed allega per un bel modo di far intendere, stando a convito, ad una donna d'esserne innamorato, lo intingere un dito nel vino e scriverlo in su la tavola -. Rispose il Magnifico ridendo: - In que' tempi non era vicio. - E però, - disse messer Bernardo, - non dispiacendo agli omini di que' tempi questa cosa tanto sordida, è da credere che non avessero cosí gentil maniera di servir donne in amore come abbiam noi; ma non lassiamo il proposito nostro primo d'insegnar a tenere l'amor secreto -.
LXXIII.
Allor il Magnifico, - Secondo me, - disse, - per tener l'amor secreto bisogna fuggir le cause che lo publicano, le quali sono molte, ma una principale, che è il voler esser troppo secreto e non fidarsi di persona alcuna, perché ogni amante desidera far conoscer le sue passioni alla amata, ed essendo solo è sforzato a far molte piú dimostrazioni e piú efficaci, che se da qualche amorevole e fidele amico fosse aiutato; perché le dimostrazioni che lo amante istesso fa dànno molto maggior suspetto, che quelle che fa per internunci; e perché gli animi umani sono naturalmente curiosi di sapere, súbito che uno alieno comincia a sospettare, mette tanta diligenzia, che conosce il vero, e conosciutolo non ha rispetto di publicarlo, anzi talor gli piace; il che non interviene dell'amico il qual, oltre che aiuti di favore e di consiglio, spesso rimedia a quegli errori che fa il cieco innamorato, e sempre procura la secretezza e provede a molte cose alle quali esso proveder non po; oltre che grandissimo refrigerio si sente dicendo le passioni e sfocandole con amico cordiale, e medesimamente accresce molto i piaceri il poter comunicargli.
LXXIV.
Disse allor il signor Gasparo: - Un'altra causa publica molto piú di amori che questa. - E quale? - rispose il Magnifico. Suggiunse il signor Gaspar: - La vana ambizione congiunta con pazzia e crudeltà delle donne, le quali come voi stesso avete detto, procurano quanto piú possono d'aver gran numero d'innamorati e tutti, se possibil fosse, vorriano che ardessero e, fatti cenere, dopo morte tornassero vivi per morir un'altra volta; e benché esse ancor amino, pur godeno del tormento degli amanti, perché estimano che 'l dolore, le afflizioni e 'l chiamar ognor la morte, sia il vero testimonio che esse siano amate, e possano con la loro bellezza far gli omini miseri e beati e dargli morte e vita come lor piace; onde di questo solo cibo se pascono e tanto avide ne sono, che acciò che non manchi loro, non contentano né disperano mai gli amanti del tutto; ma per mantenergli continuamente nelli affanni e nel desiderio usano una certa imperiosa austerità di minacce mescolate con speranza, e vogliono che una loro parola, uno sguardo, un cenno sia da essi riputato per somma felicità; e per farsi tener pudiche e caste non solamente dagli amanti, ma ancor da tutti gli altri, procurano che questi loro modi asperi e discortesi siano publichi acciò che ognun pensi che, poiché cosí maltrattano quelli che son degni d'essere amati, molto peggio debbano trattar gl'indegni; e spesso sotto questa credenza pensandosi essere sicure con tal arte dall'infamia, si giaceno tutte le notti con omini vilissimi e da esse a pena conosciuti, di modo che per godere delle calamità e continui lamenti di qualche nobil cavaliero e da esse amato, negano a se stesse que' piaceri che forse con qualche escusazione potrebbono conseguire; e sono causa che 'l povero amante per vera disperazion è sforzato usar modi donde si publica quello, che con ogni industria s'averia a tener secretissimo. Alcun'altre sono le quali, se con inganni possono indurre molti a credere d'essere da loro amati, nutriscono tra essi le gelosie col far carezze e favore all'uno in presenzia dell'altro; e quando veggon che quello ancor che esse piú amano già si confida d'esser amato per le demostrazioni fattegli, spesso con parole ambigue e sdegni simulati lo suspendeno e gli trafiggono il core, mostrando non curarlo e volersi in tutto donare all'altro; onde nascon odii, inimicizie ed infiniti scandali e ruine manifeste, perché forza è mostrar l'estrema passion che in tal caso l'uom sente, ancor che alla donna ne resulti biasimo ed infamia. Altre non contente di questo solo tormento della gelosia, dopo che l'amante ha fatto tutti i testimonii d'amore e di fidel servitú, ed esse ricevuti l'hanno con qualche segno di correspondere in benivolenzia, senza proposito e quando men s'aspetta cominciano a star sopra di sé' e mostrano di credere che egli sia intepidito, e fingendo novi suspetti di non essere amate accennano volersi in ogni modo alienar da lui; onde per questi inconvenienti il meschino per vera forza è necessitato a ritornare da capo e far le demostrazioni, come se allora cominciasse a servire; e tutto dí passeggiar per la contrada, e quando la donna si parte di casa accompagnarla alla chiesa ed in ogni loco ove ella vada, non voltar mai gli occhi in altra parte; e quivi si ritorna ai pianti, ai suspiri, allo star di mala voglia; e quando se le po parlare, ai scongiuri, alle biasteme, alle disperazioni ed a tutti quei furori, a che gli infelici innamorati son condotti da queste fiere, che hanno piú sete di sangue che le tigri.
LXVX.
Queste tai dolorose dimostrazioni son troppo vedute e conosciute, e spesso piú dagli altri che da chi le causa; ed in tal modo in pochi dí son tanto publiche, che non si po far un passo né un minimo segno, che non sia da mille occhi notato. Intervien poi che molto prima che siano tra essi i piaceri d'amore, sono creduti e giudicati da tutto 'l mondo, perché esse, quando pur veggono che l'amante già vicino alla morte, vinto dalla crudeltà e dai strazi usatigli, delibera determinatamente e da dovero di ritirarsi, allora cominciano a dimostrar d'amarlo di core e fargli tutti i piaceri e donarsegli, acciò che, essendogli mancato quell'ardente desiderio, il frutto d'amor gli sia ancor men grato e ad esse abbia minor obligazione, per far ben ogni cosa al contrario. Ed essendo già tal amore notissimo, sono ancor in que' tempi poi notissimi tutti gli effetti che da quel procedono; cosí restano esse disonorate, e lo amante si trova aver perduto il tempo e le fatiche ed abbreviatosi la vita negli affanni senza frutto o piacere alcuno, per aver conseguito i suoi desidèri, non quando gli seriano stati tanto grati che l'arian fatto felicissimo, ma quando poco o niente gli apprezzava, per esser il cor già tanto da quelle amare passioni mortificato, che non tenea sentimento piú per gustar diletto o contentezza che se gli offerisse -.
LXVXI.
Allor il signor Ottaviano ridendo, - Voi, - disse, - siete stato cheto un pezzo e retirato dal dir mal delle donne; poi le avete cosí ben tocche, che par che abbiate aspettato per ripigliar forza, come quei che si tirano a drieto per dar maggior incontro; e veramente avete torto ed oramai dovreste esser mitigato -. Rise la signora Emilia e rivolta alla signora Duchessa, - Eccovi, - disse, - Signora, che i nostri avversari cominciano a rompersi e dissentir l'un dall'altro. - Non mi date questo nome, - rispose il signor Ottaviano, - perch'io non son vostro avversario; èmmi ben dispiaciuta questa contenzione, non perché m'increscesse vederne la vittoria in favor delle donne, ma perché ha indutto il signor Gasparo a calunniarle piú che non dovea, e 'l signor Magnifico e messer Cesare a laudarle forse un poco piú che 'l debito; oltre che per la lunghezza del ragionamento avemo perduto d'intender molt'altre belle cose, che restavano a dirsi del cortegiano. - Eccovi, disse la signora Emilia, - che pur siete nostro avversario; e perciò vi dispiace il ragionamento passato, né vorreste che si fosse formato questa cosí eccellente donna di palazzo; non perché vi fosse altro che dire sopra il cortegiano, perché già questi signori han detto quanto sapeano, né voi, credo, né altri potrebbe aggiungervi piú cosa alcuna; ma per la invidia che avete all'onor delle donne -.
LXVXII.
- Certo è, - rispose il signor Ottaviano, - che oltre alle cose dette sopra il cortegiano io ne desiderarei molte altre; pur, poiché ognun si contenta ch'ei sia tale, io ancora me ne contento, né in altra cosa lo mutarei, se non in farlo un poco piú amico delle donne che non è il signor Gaspar, ma forse non tanto quanto è alcuno di questi altri signori -. Allora la signora Duchessa, - Bisogna, - disse, - in ogni modo che noi veggiamo se l'ingegno vostro è tanto che basti a dar maggior perfezione al cortegiano, che non han dato questi signori. Però siate contento di dir ciò che n'avete in animo; altrimenti noi pensaremo che né voi ancora sappiate aggiungergli piú di quello che s'è detto, ma che abbiate voluto detraere alle laudi della donna di palazzo, parendovi ch'ella sia eguale al cortegiano, il quale perciò voi vorreste che si credesse che potesse esser molto piú perfetto, che quello che hanno formato questi signori -. Rise il signor Ottaviano e disse: - Le laudi e biasimi dati alle donne piú del debito hanno tanto piene l'orecchie e l'animo di chi ode, che non han lassato loco che altra cosa star vi possa; oltra di questo, secondo me, l'ora è molto tarda. Adunque, - disse la signora Duchessa, - aspettando insino a domani aremo piú tempo; e quelle laudi e biasimi che voi dite esser stati dati alle donne dall'una parte e l'altra troppo eccessivamente, fra tanto usciranno dell'animo di questi signori, di modo che pur saranno capaci di quella verità che voi direte -. Cosí parlando la signora Duchessa levossi in piedi, e cortesemente donando licenzia a tutti si ritrasse nella stanza sua più secreta; e ognuno si fu a dormire.
Fine terzo libro.
Parte quarta.
IL QUARTO LIBRO DEL CORTEGIANO.
DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO.
I.
Pensando io di scrivere i ragionamenti che la quarta sera dopo le narrate nei precedenti libri s'ebbero, sento tra varii discorsi uno amaro pensiero che nell'animo mi percuote e delle miserie umane e nostre speranze fallaci ricordevole mi fa; e come spesso la fortuna a mezzo il corso, talor presso al fine rompa i nostri fragili e vani disegni, talor li summerga prima che pur veder da lontano possano il porto. Tornami adunque a memoria che non molto tempo dapoi che questi ragionamenti passarono privò morte importuna la casa nostra di tre rarissimi gentilomini, quando di prospera età e speranza d'onore piú fiorivano. E di questi il primo fu il signor Gaspar Pallavicino, il quale, essendo stato da una acuta infirmità combattuto e piú che una volta ridutto all'estremo, benché l'animo fosse di tanto vigore che per un tempo tenesse i spiriti in quel corpo a dispetto di morte, pur in età molto immatura forní il suo natural corso: perdita grandissima non solamente alla casa nostra ed agli amici e parenti suoi, ma alla patria ed a tutta la Lombardia. Non molto appresso morí messer Cesare Gonzaga il quale a tutti coloro che aveano di lui notizia lasciò acerba e dolorosa memoria della sua morte; perché, producendo la natura cosí rare volte, come fa, tali omini, pareva pur conveniente che di questo cosí tosto non ci privasse; ché certo dir si po che messer Cesare ci fosse a punto ritolto quando cominciava a mostrar di sé piú che la speranza, ed esser estimato quanto meritavano le sue ottime qualità; perché già con molte virtuose fatiche avea fatto bon testimonio del suo valore, il quale risplendeva, oltre alla nobilità del sangue, dell'ornamento ancora delle lettere e d'arme e d'ogni laudabil costume; tal che, per la bontà, per l'ingegno, per l'animo e per lo saper suo non era cosa tanto grande, che di lui aspettar non si potesse. Non passò molto che messer Roberto da Bari esso ancor morendo molto dispiacer diede a tutta la casa; perché ragionevole pareva che ognun si dolesse della morte d'un giovane di boni costumi, piacevole, e di bellezza d'aspetto e disposizion della persona rarissimo, in complession tanto prosperosa e gagliarda quanto desiderar si potesse.
II.
Questi adunque se vivuti fossero, penso che sariano giunti a grado, che ariano ad ognuno che conosciuti gli avesse potuto dimostrar chiaro argumento, quanto la corte d'Urbino fosse degna di laude e come di nobili cavalieri ornata; il che fatto hanno quasi tutti gli altri, che in essa creati si sono; ché veramente del caval troiano non uscirono tanti signori e capitani, quanti di questa casa usciti sono omini per virtú singulari e da ognuno sommamente pregiati. Ché, come sapete, messer Federico Fregoso fu fatto arcivescovo di Salerno; il conte Ludovico, vescovo di Baious; il signor Ottaviano, duce di Genova; messer Bernardo Bibiena, cardinale di Santa Maria in Portico; messer Pietro Bembo, secretario di papa Leone; il signor Magnifico al ducato di Nemours ed a quella grandezza ascese dove or si trova; il signor Francesco Maria Ruvere, prefetto di Roma, fu esso ancora fatto duca d'Urbino; benché molto maggior laude attribuir si possa alla casa dove nutrito fu, che in essa sia riuscito cosí raro ed eccellente signore in ogni qualità di virtú, come or si vede, che dello esser pervenuto al ducato d'Urbino; né credo che di ciò piccol causa sia stata la nobile compagnia, dove in continua conversazione sempre ha veduto ed udito lodevoli costumi. Però parmi che quella causa, o sia per ventura o per favore delle stelle, che ha cosí lungamente concesso ottimi signori ad Urbino, pur ancora duri e produca i medesimi effetti; e però sperar si po che ancor la bona fortuna debba secondar tanto queste opere virtuose, che la felicità della casa e dello stato non solamente non sia per mancare, ma piú presto di giorno in giorno per accrescersi; e già se ne conoscono molti chiari segni, tra i quali estimo il precipuo l'esserci stata concessa dal cielo una tal signora, com'è la signora Eleonora Gonzaga, Duchessa nova; ché se mai furono in un corpo solo congiunti sapere, grazia, bellezza, ingegno, manere accorte, umanità ed ogni altro gentil costume, in questa tanto sono uniti, che ne risulta una catena, che ogni suo movimento di tutte queste condizioni insieme compone ed adorna.
Seguitiamo adunque i ragionamenti del nostro cortegiano, con speranza che dopo noi non debbano mancare di quelli che piglino chiari ed onorati esempi di virtú dalla corte presente d'Urbino, cosí come or noi facciamo dalla passata.
III.
Parve adunque, secondo che 'l signor Gasparo Pallavicino raccontar soleva, che 'l seguente giorno, dopo i ragionamenti contenuti nel precedente libro, il signor Ottaviano fosse poco veduto; per che molti estimarono che egli fosse retirato, per poter senza impedimento pensar bene a ciò che dire avesse. Però, essendo all'ora consueta ridottasi la compagnia alla signora Duchessa, bisognò con diligenzia far cercar il signor Ottaviano, il quale non comparse per bon spacio; di modo che molti cavalieri e damigelle della corte cominciarono a danzare ed attendere ad altri piaceri, con opinion che per quella sera piú non s'avesse a ragionar del cortegiano. E già tutti erano occupati chi in una cosa chi in un'altra, quando il signor Ottaviano giunse quasi piú non aspettato; e vedendo che messer Cesare Gonzaga e 'l signor Gaspar danzavano, avendo fatto riverenzia verso la signora Duchessa, disse ridendo: - Io aspettava pur d'udir ancor questa sera il signor Gaspar dir qualche mal delle donne; ma vedendolo danzar con una, penso ch'egli abbia fatto la pace con tutte; e piacemi che la lite o, per dir meglio, il ragionamento del cortegiano sia terminato cosí. - Terminato non è già, - rispose la signora Duchessa; - perch'io non son cosí nemica degli omini, come voi siete delle donne; e perciò non voglio che 'l cortegiano sia defraudato del suo debito onore, e di quelli ornamenti che voi, stesso iersera gli prometteste; - e cosí parlando ordinò che tutti, finita quella danza, si mettessero a sedere al modo usato: il che fu fatto; e stando ognuno con molta attenzione, disse il signor Ottaviano: - Signora, poiché l'aver io desiderato molt'altre bone qualità nel cortegiano si batteggia per promessa ch'io le abbia a dire, son contento parlarne, non già con opinion di dir tutto quello che dir vi si poria, ma solamente tanto che basti per levar dell'animo vostro quello che ierisera opposto mi fu, cioè ch'io abbia cosí detto piú tosto per detraere alle laudi della donna di palazzo, con far credere falsamente che altre eccellenzie si possano attribuire al cortegiano, e con tal arte fargliele superiore, che perché cosí sia; però, per accommodarmi ancor all'ora, che è piú tarda che non sòle quando si dà principio al ragionare, sarò breve.
IV.
Cosí, continuando il ragionamento di questi signori, il quale in tutto approvo e confermo, dico che delle cose che noi chiamiamo bone sono alcune che simplicemente e per se stesse sempre son bone, come la temperanzia, la fortezza, la sanità e tutte le virtú che partoriscono tranquillità agli animi; altre, che per diversi rispetti e per lo fine al quale s'indrizzano son bone, come le leggi, la liberalità, le ricchezze ed altre simili. Estimo io adunque che 'l cortegiano perfetto, di quel modo che descritto l'hanno il conte Ludovico e messer Federico, possa esser veramente bona cosa e degna di laude; non però simplicemente né per sé, ma per rispetto del fine al quale po essere indrizzato; ché in vero se con l'esser nobile, aggraziato e piacevole ed esperto in tanti esercizi il cortegiano non producesse altro frutto che l'esser tale per se stesso, non estimarei che per conseguir questa perfezion di cortegiania dovesse l'omo ragionevolmente mettervi tanto studio e fatica, quanto è necessario a chi la vole acquistare; anzi direi che molte di quelle condicioni che se gli sono attribuite, come il danzar, festeggiar, cantar e giocare, fossero leggerezze e vanità, ed in un omo di grado piú tosto degne di biasimo che di laude; perché queste attillature, imprese, motti ed altre tai cose che appartengono ad intertenimenti di donne e d'amori, ancora che forse a molti altri paia il contrario, spesso non fanno altro che effeminar gli animi, corrumper la gioventú e ridurla a vita lascivissima; onde nascono poi questi effetti che 'l nome italiano è ridutto in obbrobrio, né si ritrovano se non pochi che osino non dirò morire, ma pur entrare in uno pericolo. E certo infinite altre cose sono le quali, mettendovisi industria e studio, partuririano molto maggior utilità e nella pace e nella guerra, che questa tal cortegiania per sé sola; ma se le operazioni del cortegiano sono indrizzate a quel bon fine che debbono e ch'io intendo, parmi ben che non solamente non siano dannose o vane, ma utilissime e degne d'infinita laude.
V.
Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a qui non s'è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle condicioni attribuitegli da questi signori talmente la benivolenzia e l'animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d'ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed indurlo al camin della virtú; e cosí avendo il cortegiano in sé la bontà, come gli hanno attribuita questi signori, accompagnata con la prontezza d'ingegno e piacevolezza e con la prudenzia e notizia di lettere e di tante altre cose, saprà in ogni proposito destramente far vedere al suo principe quanto onore ed utile nasca a lui ed alli suoi dalla giustizia, dalla liberalità, dalla magnanimità, dalla mansuetudine e dall'altre virtú che si convengono a bon principe; e, per contrario, quanta infamia e danno proceda dai vicii oppositi a queste. Però io estimo che come la musica, le feste, i giochi e l'altre condicioni piacevoli son quasi il fiore, cosí lo indurre o aiutare il suo principe al bene e spaventarlo dal male, sia il vero frutto della cortegiania.
E perché la laude del ben far consiste precipuamente in due cose, delle quai l'una è lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion nostra, che sia veramente bono, l'altra il saper ritrovar mezzi opportuni ed atti per condursi a questo bon fine desegnato, certo è che l'animo di colui, che pensa di far che 'l suo principe non sia d'alcuno ingannato, né ascolti gli adulatori, né i malèdici e bugiardi, e conosca il bene e 'l male ed all'uno porti amore, all'altro odio, tende ad ottimo fine.
VI.
Parmi ancora che le condicioni attribuite al cortegiano da questi signori possano esser bon mezzo da pervenirvi; e questo perché dei molti errori ch'oggidí veggiamo in molti dei nostri príncipi, i maggiori sono la ignoranzia e la persuasion di se stessi; e la radice di questi dui mali non è altro che la bugia; il qual vicio meritamente è odioso a Dio ed agli omini e piú nocivo ai principi che ad alcun altro; perché essi piú che d'ogni altra cosa hanno carestia di quello di che piú che d'ogni altracosa saria bisogno che avessero abundanzia, cioè di chi dica loro il vero e ricordi il bene; perché gli inimici non son stimulati dall'amore a far questi offici, anzi han piacere che vivano sceleratamente né mai si correggano; dall'altro canto, non osano calunniargli publicamente per timor d'esser castigati; degli amici poi, pochi sono che abbiano libero adito ad essi, e quelli pochi han riguardo a riprendergli dei loro errori cosí liberamente come riprendono i privati, e spesso, per guadagnar grazia e favore, non attendono ad altro che a propor cose che dilettino e dian piacere all'animo loro, ancora che siano male e disoneste; di modo che d'amici divengono adulatori e, per trarre utilità da quel stretto commercio, parlano ed oprano sempre a complacenzia e per lo piú fannosi la strada con le bugie, le quali nell'animo del principe partoriscono la ignoranzia non solamente delle cose estrinseche, ma ancor di se stesso; e questa dir si po la maggior e la piú enorme bugia di tutte l'altre, perché l'animo ignorante inganna se stesso e mentisce dentro a se medesimo.
VII.
Da questo interviene che i signori, oltre al non intendere mai il vero di cosa alcuna, inebbriati da quella licenziosa libertà che porta seco il dominio e dalla abundanzia delle delizie, sommersi nei piaceri, tanto s'ingannano e tanto hanno l'animo corrotto, veggendosi sempre obediti e quasi adorati con tanta riverenzia e laude, senza mai non che riprensione ma pur contradizione, che da questa ignoranzia passano ad una estrema persuasion di se stessi, talmente che poi non ammettono consiglio né parer d'altri; e perché credono che 'l saper regnare sia facilissima cosa e per conseguirla non bisogni altr'arte o disciplina che la sola forza, voltan l'animo e tutti i suoi pensieri a mantener quella potenzia che hanno, estimando che la vera felicità sia il poter ciò che si vole. Però alcuni hanno in odio la ragione e la giustizia, parendo loro che ella sia un certo freno ed un modo che lor potesse ridurre in servitú e diminuir loro quel bene e satisfazione che hanno di regnare, se volessero servarla; e che il loro dominio non fosse perfetto né integro, se essi fossero constretti ad obedire al debito ed all'onesto, perché pensano che chi obedisce non sia veramente signore. Però andando drieto a questi princípi e lassandosi trapportar dalla persuasione di se stessi divengon superbi, e col volto imperioso e costumi austeri, con veste pompose, oro e gemme, e col non lassarsi quasi mai vedere in publico, credono acquistar autorità tra gli omini ed esser quasi tenuti dèi; e questi sono, al parer mio, come i colossi che l'anno passato fur fatti a Roma il dí della festa in piazza d'Agone, che di fori mostravano similitudine di grandi omini e cavalli triunfanti e dentro erano pieni di stoppa e di strazzi. Ma i príncipi di questa sorte sono tanto peggiori, quanto che i colossi per la loro medesima gravità ponderosa si sostengon ritti; ed essi, perché dentro sono mal contrapesati, e senza misura posti sopra basi inequali, per la propria gravità ruinano da se stessi e da un errore incorrono in infiniti; perché la ignoranzia loro accompagnata da quella falsa opinion di non poter errare, e che la potenzia che hanno proceda dal lor sapere, induce loro per ogni via, giusta o ingiusta, ad occupar stati audacemente, pur che possano.
VIII.
Ma se deliberassero di sapere e di far quello che debbono, cosí contrastariano per non regnare, come contrastano per regnare; perché conosceriano quanto enorme e perniciosa cosa sia che i sudditi, che ban da esser governati, siano piú savi che i príncipi, che hanno da governare. Eccovi che la ignoranzia della musica, del danzare, del cavalcare non nòce ad alcuno; nientedimeno, chi non è musico si vergogna né osa cantare in presenzia d'altrui, o danzar chi non sa, e chi non si tien ben a cavallo, di cavalcare; ma dal non sapere governare i populi nascon tanti mali, morti, destruzioni, incendi, ruine, che si po dir la piú mortal peste che si trovi sopra la terra; e pur alcuni príncipi ignorantissimi dei governi non si vergognano di mettersi a governar, non dirò in presenzia di quattro o di sei omini, ma al conspetto di tutto 'l mondo; perché il grado loro è posto tanto in alto, che tutti gli occhi ad essi mirano, e però non che i grandi ma i piccolissimi lor diffetti sempre sono notati; come si scrive che Cimone era calunniato che amava il vino, Scipione il sonno, Lucullo i convivii. Ma piacesse a Dio che i príncipi de questi nostri tempi accompagnassero i peccati loro con tante virtú, con quante accompagnavano quegli antichi; i quali, se ben in qualche cosa erravano, non fugivano però i ricordi e documenti di chi loro parea bastante a correggere quegli errori, anzi cercavano con ogni instanzia di componer la vita sua sotto la norma d'omini singulari; come Epaminunda di Lisia Pitagorico, Agesilao di Senofonte, Scipione di Panezio, ed infiniti altri. Ma se ad alcuni de' nostri príncipi venisse innanti un severo filosofo, o chi si sia, il qual apertamente e senza arte alcuna volesse mostrar loro quella orrida faccia della vera virtú ed insegnar loro i boni costumi e qual vita debba esser quella d'un bon principe, son certo che al primo aspetto lo aborririano come un aspide, o veramente se ne fariano beffe come di cosa vilissima.
IX.
Dico adunque che, poiché oggidí i príncipi son tanto corrotti dalle male consuetudini e dalla ignoranzia e falsa persuasione di se stessi, e che tanto è difficile il dar loro notizia della verità ed indurgli alla virtú, e che gli omini con le bugie ed adulazioni e con cosí viciosi modi cercano d'entrar loro in grazia, il cortegiano, per mezzo di quelle gentil qualità che date gli hanno il conte Ludovico e messer Federico, po facilmente e deve procurar d'acquistarsi la benivolenzia ed adescar tanto l'animo del suo principe, che si faccia adito libero e sicuro di parlargli d'ogni cosa senza esser molesto; e se egli sarà tale come s'è detto, con poca fatica gli verrà fatto, e cosí potrà aprirgli sempre la verità di tutte le cose con destrezza; oltra di questo, a poco a poco infundergli nell'animo la bontà ed insegnarli la continenzia, la fortezza, la giustizia, la temperanzia, facendogli gustar quanta dolcezza sia coperta da quella poca amaritudine, che al primo aspetto s'offerisce a chi contrasta ai vicii; li quali sempre sono dannosi, dispiacevoli ed accompagnati dalla infamia e biasimo, cosí come le virtú sono utili, giocunde e piene di laude; ed a queste eccitarlo con l'esempio dei celebrati capitani e d'altri omini eccellenti, ai quali gli antichi usavano di far statue di bronzo e di marmo e talor d'oro; e collocarle ne' lochi publici, cosí per onor di quegli, come per lo stimulo degli altri, che per una onesta invidia avessero da sforzarsi di giungere essi ancor a quella gloria.
X.
In questo modo per la austera strada della virtú potrà condurlo, quasi adornandola di frondi ombrose e spargendola di vaghi fiori, per temperar la noia del faticoso camino a chi è di forze debile; ed or con musica, or con arme e cavalli, or con versi, or con ragionamenti d'amore e con tutti que' modi che hanno detti questi signori, tener continuamente quell'animo occupato in piacere onesto, imprimendogli però ancora sempre, come ho detto, in compagnia di queste illecebre, qualche costume virtuoso ed ingannandolo con inganno salutifero; come i cauti medici, li quali spesso, volendo dar a' fanciulli infermi e troppo delicati medicina di sapore amaro, circondano l'orificio del vaso di qualche dolce liquore. Adoperando adunque a tal effetto il cortegiano questo velo di piacere, in ogni tempo, in ogni loco ed in ogni esercizio conseguirà il suo fine, e meriterà molto maggior laude e premio che per qualsivoglia altra bona opera che far potesse al mondo; perché non è bene alcuno che cosí universalmente giovi come il bon principe, né male che cosí universalmente noccia come al mal principe; però non è ancora pena tanto atroce e crudele, che fosse bastante castigo a quei scelerati cortegiani, che dei modi gentili e piacevoli e delle bone condicioni si vagliono a mal fine, e per mezzo di quelle cercan la grazia dei loro príncipi per corrumpergli e disviarli dalla via della virtú ed indurgli al vicio; ché questi tali dir si po che non un vaso dove un solo abbia a bere, ma il fonte publico del quale usi tutto 'l populo, infettano di mortal veneno -.
XI.
Taceasi il signor Ottaviano, come se piú avanti parlar non avesse voluto; ma il signor Gasparo, - A me non par, signor Ottaviano, - disse, - che questa bontà d'animo e la continenzia e l'altre virtú, che voi volete che 'l cortegiano mostri al suo signore, imparar se possano; ma penso che agli omini che l'hanno siano date dalla natura e da Dio. E che cosí sia, vedete che non è alcun tanto scelerato e di mala sorte al mondo, né cosí intemperante ed ingiusto, che essendone dimandato confessi d'esser tale; anzi ognuno, per malvagio che sia, ha piacer d'esser tenuto giusto, continente e bono; il che non interverrebbe, se queste virtú imparar si potessero, perché non è vergogna il non saper quello in che non s'ha posto studio, ma bene par biasimo non aver quello di che da natura devemo esser ornati. Però ognuno si sforza di nascondere i deffetti naturali, cosí dell'animo come ancora del corpo; il che si vede dei ciechi, zoppi, torti ed altri stroppiati o brutti; ché, benché questi mancamenti si possano imputare alla natura, pur ad ognuno dispiace sentirgli in se stesso, perché pare che per testimonio della medesima natura l'uomo abbia quel diffetto, quasi per un sigillo e segno della sua malicia. Conferma ancor la mia opinion quella fabula che si dice d'Epimeteo, il qual seppe cosí mal distribuir le doti della natura agli omini, che gli lassò molto piú bisognosi d'ogni cosa che tutti gli altri animali; onde Prometeo rubò quella artificiosa sapienzia da Minerva e da Vulcano, per la quale gli omini trovavano il vivere; ma non aveano però la sapienzia civile di congregarsi insieme nelle città e saper vivere moralmente, per esser questa nella ròcca di Iove guardata da custodi sagacissimi, i quali tanto spaventavano Prometeo, che non osava loro accostarsi; onde Iove, avendo compassione alla miseria degli omini, i quali, non potendo star uniti per mancamento della virtú civile, erano lacerati dalle fiere, mandò Mercurio in terra a portar la giustizia e la vergogna, acciò che queste due cose ornassero le città e colligassero insieme e cittadini; e volse che a quegli fosser date non come l'altre arti, nelle quali un perito basta per molti ignoranti, come è la medicina, ma che in ciascun fossero impresse; e ordinò una legge che tutti quelli, che erano senza giustizia e vergogna, fossero, come pestiferi alle città, esterminati e morti. Eccovi adunque, signor Ottaviano, che queste virtú sono da Dio concesse agli omini e non s'imparano, ma sono naturali-.
XII.
Allor il signor Ottaviano, quasi ridendo, - Voi adunque, signor Gasparo, - disse, - volete che gli omini sian cosí infelici e di cosí perverso giudicio, che abbiano con la industria trovato arte per far mansueti gli ingegni delle fiere, orsi, lupi, leoni, e possano con quella insegnare ad un vago augeflo volar ad arbitrio dell'omo e tornar dalle selve e dalla sua natural libertà voluntariamente ai lacci ed alla servitú, e con la medesima industria non possano o non vogliano trovar arti, con le quai giovino a se stessi e con diligenzia e studio facciano l'animo suo megliore? Questo, al parer mio, sarebbe come se i medici studiassero con ogni diligenzia d'avere solamente l'arte da sanare il mal dell'unghie e lo lattume dei fanciulli e lassassero la cura delle febri, della pleuresia e dell'altre infirmità gravi: il che quanto fosse for di ragione, ognun po considerare. Estimo io adunque che le virtú morali in noi non siano totalmente da natura, perché niuna cosa si po mai assuefare a quello che le è naturalmente contrario, come si vede d'un sasso, il qual se ben diecemilia volte fosse gittato all'insú, mai non s'assuefaria andarvi da sé; però se a noi le virtú fossero cosí naturali come la gravità al sasso, non ci assuefaremmo mai al vicio. Né meno sono i vicii naturali di questo modo, perché non potremmo esser mai virtuosi; e troppo iniquità e sciocchezza saria castigar gli omini di que' diffetti, che procedessero da natura senza nostra colpa; e questo error commetteriano le leggi, le quali non dànno supplicio ai malfattori per lo error passato, perché non si può far che quello, che è fatto, non sia fatto, ma hanno rispetto allo avvenire, acciò che chi ha errato non erri piú, o vero col mal esempio non dia causa ad altrui d'errare; e cosí pur estimano che le virtú imparar si possano; il che è verissimo, perché noi siamo nati atti a riceverle, e medesimamente i vicii; e però dell'uno e l'altro in noi si fa l'abito con la consuetudine, di modo che prima operiamo le virtú o i vicii, poi siam virtuosi o viciosi. Il contrario si conosce nelle cose che ci son date dalla natura, ché prima avemo la potenzia d'operare, poi operiamo; come è nei sensi, ché prima potemo vedere, udire, toccare, poi vedemo, udiamo e tocchiamo; benché però ancora molte di queste operazioni s'adornan con la disciplina.
Onde i boni pedagoghi non solamente insegnano lettere ai fanciulli, ma ancora boni modi ed onesti nel mangiare, bere, parlare, andare con certi gesti accommodati.
XIII.
Però, come nell'altre arti, cosí ancora nelle virtú è necessario aver maestro, il qual con dottrina e boni ricordi susciti e risvegli in noi quelle virtú morali, delle quai avemo il seme incluso e sepulto nell'anima, e come bono agricultore le cultivi e loro apra la via, levandoci d'intorno le spine e 'l loglio degli appetiti, i quali spesso tanto adombrano e suffocan gli animi nostri, che fiorir non gli lassano, né produr quei felici frutti, che soli si dovriano desiderar che nascessero nei cori umani. Di questo modo adunque è natural in ciascun di noi la giustizia e la vergogna, la qual voi dite che Iove mandò in terra a tutti gli omini; ma sí come un corpo senza occhi, per robusto che sia, se si move ad un qualche termine spesso falla, cosí la radice di queste virtú potenzialmente ingenite negli animi nostri, se non è aiutata dalla disciplina, spesso si risolve in nulla; perché se si deve ridurre in atto ed all'abito suo perfetto, non si contenta, come s'è detto, della natura sola, ma ha bisogno della artificiosa consuetudine e della ragione, la quale purifichi e dilucidi quell'anima, levandole il tenebroso velo della ignoranzia, dalla qual quasi tutti gli errori degli omini procedono; ché se il bene e 'l male fossero ben conosciuti ed intesi, ognuno sempre eleggeria il bene e fuggiria il male. Però la virtú si po quasi dir una prudenzia ed un sapere eleggere il bene, e 'l vicio una imprudenzia ed ignoranzia che induce a giudicar falsamente; perché non eleggono mai gli omini il male con opinion che sia male, ma s'ingannano per una certa similitudine di bene -.
XIV.
Rispose allor il signor Gasparo: - Son però molti, i quali conoscono chiaramente che fanno male e pur lo fanno; e questo perché estimano piú il piacer presente che sentono, che 'l castigo che dubitan che gli ne abbia da venire; come i ladri, gli omicidi ed altri tali -. Disse il signor Ottaviano:
- Il vero piacere è sempre bono e 'l vero dolor malo; però questi s'ingannano togliendo il piacer falso per lo vero e 'l vero dolor per lo falso; onde spesso per i falsi piaceri incorrono nei veri dispiaceri.
Quell'arte adunque che insegna a discerner questa verità dal falso, pur si po imparare; e la virtú, per la quale elegemo quello che è veramente bene, non quello che falsamente esser appare, si po chiamar vera scienzia e piú giovevole alla vita umana che alcun'altra, perché leva la ignoranzia, dalla quale, come ho detto, nascono tutti i mali -.
VX.
Allora messer Pietro Bembo, - Non so, - disse, - signor Ottaviano, come consentir vi debba il signor Gasparo, che dalla ignoranzia nascano tutti i mali; e che non siano molti, i quali peccando sanno veramente che peccano, né se ingannano punto nel vero piacere, né ancor nel vero dolore; perché certo è che quei che sono incontinenti giudican con ragione e drittamente, e sanno che quello a che dalle cupidità sono stimulati contra il dovere è male, e però resistono ed oppongon la ragione all'appetito, onde ne nasce la battaglia del piacere e del dolore contra il giudicio; in ultimo la ragion, vinta dall'appetito troppo possente, s'abbandona, come nave che per un spacio di tempo si diffende dalle procelle di mare, al fin, percossa da troppo furioso impeto de' venti, spezzate l'ancore e sarte, si lassa trasportar ad arbitrio di fortuna, senza operar timone o magisterio alcuno di calamita per salvarsi. L'incontinenti adunque commetton gli errori con un certo ambiguo rimorso e quasi a lor dispetto; il che non fariano, se non sapessero che quel che fanno è male, ma senza contrasto di ragione andariano totalmente profusi drieto all'appetito ed allor non incontinenti, ma intemperati sariano; il che è molto peggio; però la incontinenzia si dice esser vicio diminuto perché ha in sé parte di ragione; e medesimamente la continenzia, virtú imperfetta, perché ha in sé parte d'affetto; perciò in questo parmi che non si possa dir che gli errori degli incontinenti procedano da ignoranzia, o che essi s'ingannino e che non pecchino, sapendo che veramente peccano -.
VXI.
Rispose il signor Ottaviano: - In vero, messer Pietro, l'argumento vostro è bono; nientedimeno, secondo me, è piú apparente che vero perché, benché gli incontinenti pecchino con quella ambiguità, e che la ragione nell'animo loro contrasti con l'appetito e lor paia che quel che è male sia male, pur non ne hanno perfetta cognizione, né lo sanno cosí intieramente come saria bisogno; però in essi di questo è piú presto una debile opinione che certa scienzia, onde consentono che la ragion sia vinta dallo affetto; ma se ne avessero vera scienzia, non è dubbio che non errariano; perché sempre quella cosa per la quale l'appetito vince la ragione è ignoranzia, né po mai la vera scienzia esser superata dallo affetto, il quale dal corpo e non dall'animo deriva; e se dalla ragione è ben retto e governato, diventa virtú, e se altrimenti diventa vicio; ma tanta forza ha la ragione, che sempre si fa obedire al senso, e con maravigliosi modi e vie penetra, pur che la ignoranzia non occupi quello che essa aver dovria; di modo che, benché i spiriti e i nervi e l'ossa non abbiano ragione in sé, pur quando nasce in noi quel movimento dell'animo, quasi che 'l pensiero sproni e scuota la briglia ai spiriti, tutte le membra s'apparecchiano, i piedi al corso, le mani a pigliare o a fare ciò che l'animo pensa; e questo ancora si conosce manifestamente in molti li quali, non sapendo, talora mangiano qualche cibo stomacoso e schifo, ma cosí ben acconcio, che al gusto lor pare delicatissimo; poi risapendo che cosa era, non solamente hanno dolore e fastidio nell'animo, ma 'l corpo, accordandosi col giudicio della mente, per forza vomita quel cibo -.
VXII.
Seguitava ancor il signor Ottaviano il suo ragionamento; ma il Magnifico Iuliano interrompendolo, - Signor Ottaviano, - disse, - se bene ho inteso, voi avete detto che la continenzia è virtú imperfetta, perché ha in sé parte d'affetto; ed a me pare che quella virtú la quale, essendo nell'animo nostro discordia tra la ragione e l'appetito, combatte e dà la vittoria alla ragione, si debba estimar piú perfetta che quella che vince non avendo cupidità né affetto alcuno che le contrasti; perché pare che quell'animo non si astenga dal male per virtú, ma resti di farlo perché non ne abbia voluntà -. Allor il signor Ottaviano, Qual, - disse, - estimareste voi capitano di piú valore, o quello che combattendo apertamente si mette a pericolo, e pur vince gli nemici, o quello che per virtú e saper suo lor toglie le forze, riducendogli a termine che non possano combattere, e cosí senza battaglia o pericolo alcuno gli vince? - Quello, - disse il Magnifico Iuliano, - che piú sicuramente vince, senza dubbio è piú da lodare, pur che questa vittoria cosí certa non proceda dalla dapocagine degl'inimici -. Rispose il signor Ottaviano: - Ben avete giudicato; e però dicovi che la continenzia comparare si po ad un capitano che combatte virilmente e, benché gli nimici sian forti e potenti, pur gli vince, non però senza gran difficultà e pericolo; ma la temperanzia libera da ogni perturbazione è simile a quel capitano, che senza contrasto vince e regna, ed avendo in quell'animo dove si ritrova non solamente sedato, ma in tutto estinto il foco della cupidità, come bon principe in guerra civile, distrugge i sediziosi nemici intrinsechi e dona lo scettro e dominio intiero alla ragione. Cosí questa virtú non sforzando l'animo, ma infundendogli per vie placidissime una veemente persuasione che lo inclina alla onestà, lo rende quieto e pien di riposo, in tutto equale e ben misurato, e da ogni canto composto d'una certa concordia con se stesso, che lo adorna di cosí serena tranquillità che mai non si turba, ed in tutto diviene obedientissimo alla ragione, e pronto di volgere ad essa ogni suo movimento e seguirla ovunque condur lo voglia, senza repugnanzia alcuna; come tenero agnello, che corre, sta e va sempre presso alla madre e solamente secondo quella si move. Questa virtú adunque è perfettissima e conviensi massimamente ai príncipi, perché da lei ne nascono molte altre -.
VXIII.
Allora messer Cesare Gonzaga, - Non so, - disse, - quai virtú convenienti a signore possano nascere da questa temperanzia, essendo quella che leva gli affetti dell'animo, come voi dite: il che forse si converria a qualche monaco o eremita; ma non so già come ad un principe magnanimo, liberale e valente nell'arme si convenisse il non aver mai, per cosa che se gli facesse, né ira né odio né benivolenzia né sdegno né cupidità né affetto alcuno, e come senza questo aver potesse autorità tra' populi o tra' soldati -. Rispose il signor Ottaviano: - Io non ho detto che la temperanzia levi totalmente e svella degli animi umani gli affetti, né ben saria il farlo, perché negli affetti ancora sono alcune parti bone; ma quello che negli affetti è perverso e renitente allo onesto riduce ad obedire alla ragione. Però non è conveniente, per levar le perturbazioni, estirpar gli affetti in tutto; ché questo saria come se per fuggir la ebrietà si facesse un editto che niuno bevesse vino, o perché talor correndo l'omo cade, se interdicesse ad ognuno il correre. Eccovi che quelli che domano i cavalli non gli vietano il correre e saltare, ma voglion che lo facciano a tempo e ad obedienzia del cavaliero. Gli affetti adunque, modificati dalla temperanzia, sono favorevoli alla virtú, come l'ira che aiuta la fortezza, l'odio contra i scelerati aiuta la giustizia, e medesimamente l'altre virtú son aiutate dagli affetti; li quali se fossero in tutto levati, lassariano la ragione debilissima e languida, di modo che poco operar potrebbe, come governator di nave abbandonato da' venti in gran calma. Non vi maravigliate adunque, messer Cesare, s'io ho detto che dalla temperanzia nascono molte altre virtú; ché quando un animo è concorde di questa armonia, per mezzo della ragione poi facilmente riceve la vera fortezza, la quale lo fa intrepido e sicuro da ogni pericolo e quasi sopra le passioni umane; non meno la giustizia, vergine incorrotta, amica della modestia e del bene, regina di tutte l'altre virtú, perché insegna a far quello che si dee fare e fuggir quello che si dee fuggire; e però è perfettissima, perché per essa si fan l'opere dell'altre virtú, ed è giovevole a chi la possede e per se stesso e per gli altri; senza la quale, come si dice, Iove istesso non poria ben governare il regno suo. La magnanimità ancora succede a queste e tutte le fa maggiori; ma essa sola star non po, perché chi non ha altra virtú non po esser magnanimo. Di queste è poi guida la prudenzia, la qual consiste in un certo giudicio d'elegger bene.
Ed in tal felice catena ancora sono colligate la liberalità, la magnificenzia, la cupidità d'onore, la mansuetudine, la piacevolezza, la affabilità e molte altre che or non è tempo di dire. Ma se 'l nostro cortegiano farà quello che avemo detto, tutte le ritroverà nell'animo del suo principe, ed ogni dí ne vedrà nascer tanti vaghi fiori e frutti, quanti non hanno tutti i deliciosi giardini del mondo; e tra se stesso sentirà grandissimo contento, ricordandosi avergli donato non quello che donano i sciocchi, che è oro o argento, vasi, veste e tai cose, delle quali chi le dona n'ha grandissima carestia e chi le riceve grandissima abundanzia, ma quella virtú che forse tra tutte le cose umane è la maggiore e la piú rara, cioè la manera e 'l modo di governar e di regnare come si dee; il che solo basteria per far gli omini felici e ridur un'altra volta al mondo quella età d'oro, che si scrive esser stata quando già Saturno regnava -.
XIX.
Quivi avendo fatto il signor Ottaviano un poco di pausa come per riposarsi, disse il signor Gaspare: - Qual estimate voi, signor Ottaviano, piú felice dominio e piú bastante a ridur al mondo quella età d'oro di che avete fatto menzione, o 'l regno d'un cosí bon principe, o 'l governo d'una bona republica? - Rispose il signor Ottaviano: - lo preporrei sempre il regno del bon principe, perché è dominio piú secondo la natura e, se è licito comparar le cose piccole alle infinite, piú simile a quello di Dio, il qual uno e solo governa l'universo. Ma lassando questo, vedete che in ciò che si fa con arte umana, come gli eserciti, i gran navigi, gli edifici ed altre cose simili, il tutto si referisce ad un solo, che a modo suo governa; medesimamente nel corpo nostro tutte le membra s'affaticano e adopransi ad arbitrio del core. Oltre di questo, par conveniente che i populi siano cosí governati da un principe, come ancora molti animali, ai quali la natura insegna questa obedienzia come cosa saluberrima. Eccovi che i cervi, le grue e molti altri uccelli, quando fanno passaggio, sempre si prepongono un principe, il qual segueno ed obediscono, e le api quasi con discorso di ragione e con tanta riverenzia osservano il loro re, con quanta i piú osservanti populi del mondo; e però tutto questo è grandissimo argumento che 'l dominio dei príncipi sia piú secondo la natura che quello delle republiche -.
XX.
Allora messer Pietro Bembo, - Ed a me par, - disse, - che essendoci la libertà data da Dio per supremo dono, non sia ragionevole che ella ci sia levata, né che un omo piú dell'altro ne sia participe; il che interviene sotto il dominio de' príncipi, li quali tengono per il piú li sudditi in strettissima servitú.
Ma nelle republiche bene instituite si serva pur questa libertà; oltra che e nei giudici e nelle deliberazioni piú spesso interviene che 'l parer d'un solo sia falso, che quel di molti; perché le perturbazione, o per ira o per sdegno o per cupidità, piú facilmente entra nell'animo d'un solo che della moltitudine, la quale, quasi come una gran quantità d'acqua, meno è subietta alla corruzione che la piccola. Dico ancora che lo esempio degli animali non mi par che si confaccia; perché e li cervi e le grue e gli altri non sempre si prepongono a seguitare ed obidir un medesimo, anzi mutano e variano, dando questo dominio or ad uno or ad un altro, ed in tal modo viene ad esser piú presto forma di republica che di regno; e questa si po chiamare vera ed equale libertà, quando quelli che talor comandano, obediscono poi ancora. L'esempio medesimamente delle api non mi par simile, perché quel loro re non è della loro medesima specie; e però chi volesse dar agli omini un veramente degno signore, bisognaria trovarlo d'un'altra specie e di piú eccellente natura che umana, se gli omini ragionevolmente l'avessero da obedire, come gli armenti che obediscono non ad uno animale suo simile, ma ad un pastore, il quale è omo e d'una specie piú degna che la loro. Per queste cose estimo io, signor Ottaviano, che 'l governo della republica sia piú desiderabile che quello del re -.
XXI.
Allor il signor Ottaviano, - Contra la opinione vostra, messer Metro, - disse, - voglio solamente addurre una ragione; la quale è che dei modi di governar bene i populi tre sorti solamente si ritrovano: l'una è il regno; l'altra il governo dei boni, che chiamavano gli antichi ottimati; l'altra l'amministrazione populare; e la transgressione e vicio contrario, per dir cosí, dove ciascuno di questi governi incorre guastandosi e corrumpendosi, è quando il regno diventa tirannide, e quando il governo dei boni si muta in quello di pochi potenti e non boni, e quando l'amministrazion populare è occupata dalla plebe, che, confondendo gli ordini, permette il governo del tutto ad arbitrio della moltitudine. Di questi tre governi mali certo è che la tirannide è il pessimo di tutti, come per molte ragioni si poria provare; resta adunque che dei tre boni il regno sia l'ottimo, perché è contrario al pessimo; ché, come sapete, gli effetti delle cause contrarie sono essi ancor tra sé contrari. Ora, circa quello che avete detto della libertà, rispondo che la vera libertà non si deve dire che sia il vivere come l'omo vole, ma il vivere secondo le bone leggi; né meno naturale ed utile e necessario è l'obedire, che si sia il commandare; ed alcune cose sono nate, e cosí distinte ed ordinate da natura al commandare, come alcune altre all'obedire. Vero è che sono due modi di signoreggiare: l'uno imperioso e violento, come quello dei patroni ai schiavi, e di questo commanda l'anima al corpo; l'altro piú mite e placido, come quello dei boni príncipi per via delle leggi ai cittadini, e di questo commanda la ragione allo appetito; e l'uno e l'altro di questi due modi è utile, perché il corpo è nato da natura atto ad obedire all'anima, e cosí l'appetito alla ragione. Sono ancora molti omini, l'operazion de' quali versano solamente circa l'uso del corpo; e questi tali tanto son differenti dai virtuosi, quanto l'anima dal corpo e pur, per essere animali razionali, tanto participano della ragione, quanto che solamente la conoscono, ma non la posseggono né fruiscono. Questi adunque sono naturalmente servi e meglio è ad essi e piú utile l'obedire che 'l commandare -.
XXII.
Disse allor il signor Gaspar: - Ai discreti e virtuosi e che non sono da natura servi, di che modo si ha adunque a commandare? - Rispose il signor Ottaviano: - Di quel placido commandamento regio e civile; ed a tali è ben fatto dar talor l'amministrazione di que' magistrati di che sono capaci, acciò che possano essi ancora commandare e governare i men savi di sé, di modo però che 'l principal governo dependa tutto dal supremo principe. E perché avete detto che piú facil cosa è che la mente d'un solo si corrompa che quella di molti, dico che è ancora piú facil cosa trovar un bono e savio che molti; e bono e savio si deve estimare che possa esser un re di nobil stirpe, inclinato alle virtú dal suo natural instinto e dalla famosa memoria dei suoi antecessori ed instituito di boni costumi; e se non sarà d'un'altra specie piú che umana, come voi avete detto di quello delle api, essendo aiutato dagli ammaestramenti e dalla educazione ed arte del cortegiano, formato da questi signori tanto prudente e bono, sarà giustissimo, continentissimo, temperatissimo, fortissimo e sapientissimo, pien di liberalità, magnificenzia, religione e clemenzia; in somma sarà gloriosissimo e carissimo agli omini ed a Dio, per la cui grazia acquisterà quella virtú eroica, che lo farà eccedere i termini della umanità e dir si potrà piú presto semideo che uoni mortale; perché Dio si diletta ed è protettor di que' príncipi che vogliono imitarlo non col mostrare gran potenzia e farsi adorare dagli omini, ma di quelli che oltre alla potenzia per la quale possono, si sforzano di farsigli simili ancora con la bontà e sapienzia, per la quale vogliano e sappiano far bene ed esser suoi ministri, distribuendo a salute dei mortali i beni e i doni che essi da lui riceveno. Però, cosí come nel cielo il sole e la luna e le altre stelle mostrano al mondo, quasi come in specchio, una certa similitudine di Dio, cosí in terra molto piú simile imagine di Dio son que' bon príncipi che l'amano e reveriscono, e mostrano ai populi la splendida luce della sua giustizia, accompagnata da una ombra di quella ragione ed intelletto divino; e Dio con questi tali participa della onestà, equità, giustizia e bontà sua, e di quegli altri felici beni ch'io nominar non so, li quali rappresentano al mondo molto piú chiaro testimonio di divinità che la luce del sole, o il continuo volger del cielo col vario corso delle stelle.
XXIII.
Son adunque li populi da Dio commessi sotto la custodia de' príncipi, li quali per questo debbono averne diligente cura, per rendergline ragione come boni vicari al suo signore, ed amargli ed estimar lor proprio ogni bene e male che gli intervenga, e procurar sopra ogni altra cosa la felicità loro. Però deve il principe non solamente esser bono, ma ancora far boni gli altri; come quel squadro che adoprano gli architetti, che non solamente in sé è dritto e giusto, ma ancor indrizza e fa giuste tutte le cose a che viene accostato. E grandissimo argumento è che 'l principe sia bono quando i populi son boni perché la vita del principe è legge e maestra dei cittadini, e forza è che dai costumi di quello dipendan tutti gli altri; né si conviene a chi è ignorante insegnare, né a chi è inordinato ordinare, né a chi cade rilevare altrui. Però se 'l principe ha da far ben questi offici, bisogna ch'egli ponga ogni studio e diligenzia per sapere; poi formi dentro a se stesso ed osservi immutabilmente in ogni cosa la legge della ragione, non scritta in carte o in metallo, ma sculpita nell'animo suo proprio; acciò che gli sia sempre non che familiare ma intrinsica, e con esso viva come parte di lui; perché giorno e notte in ogni loco e tempo lo ammonisca e gli parli dentro al core, levandogli quelle perturbazioni che sentono gli animi intemperati li quali per esser oppressi da un canto quasi dal profundissimo sonno della ignoranzia, e dall'altro dal travaglio che riceveno dei loro perversi e ciechi desidèri, sono agitati da furore inquieto, come talor chi dorme da strane ed orribili visioni.
XXIV.
Aggiungendosi poi maggior potenzia al mal volere, se v'aggiunge ancora maggior molestia; e quando il principe po ciò che vole, allor è gran pericolo che non voglia quello che non deve. Però ben disse Biante che i magistrati dimostrano quali sian gli omini; ché come i vasi mentre son vòti, benché abbiano qualche fissura, mal si possono conoscere, ma se liquore dentro vi si mette, súbito mostrano da qual banda sia il vicio; cosí gli animi corrotti e guasti rare volte scoprono i loro diffetti, se non quando s'empiono d'autorità; perché allor non bastano per supportare il grave peso della potenzia, e perciò s'abbandonano e versano da ogni canto le cupidità, la superbia, la iracundia, la insolenzia e quei costumi tirannici che hanno dentro; onde senza risguardo persegueno i boni e i savi ed esaltano i mali, né comportano che nelle città siano amicizie, compagnie, né intelligenzie fra i cittadini, ma nutriscono gli esploratori, accusatori, omicidiali, acciò che spaventino e facciano divenir gli omini pusillanimi e spargano discordie per tenergli disgiunti e debili; e da questi modi procedeno poi infiniti danni e ruine ai miseri populi, e spesso crudel morte o almen timor continuo ai medesimi tiranni; perché i boni príncipi temono non per sé, ma per quelli a' quali comandano, e li tiranni temeno quelli medesimi a' quali commandano; però, quanto a maggior numero di gente commandano e son piú potenti, tanto piú temono ed hanno piú nemici. Come credete voi che si spaventasse e stesse con l'animo sospeso quel Clearco, tiranno di Ponto, ogni volta che andava nella piazza o nel teatro, o a qualche convito o altro loco publico, ché, come si scrive, dormiva chiuso in una cassa? o vero quell'altro Aristodemo Argivo, il qual a se stesso del letto avea fatta quasi una prigione, che nel palazzo suo tenea una piccola stanza sospesa in aria ed alta tanto che con scala andar vi bisognava, e quivi con una sua femina dormiva, la madre della quale la notte ne levava la scala, la mattina ve la rimetteva? Contraria vita in tutto a questa deve adunque esser quella del bon principe, libera e sicura, e tanto cara ai cittadini quanto la lor propria, ed ordinata di modo che participi della attiva e della contemplativa, quanto si conviene per beneficio dei populi -.
XVX.
Allor il signor Gaspar, - E qual, - disse, - di queste due vite, signor Ottaviano, parvi che piú s'appartenga al principe? - Rispose il signor Ottaviano ridendo: - Voi forse pensate ch'io mi persuada esser quello eccellente cortegiano che deve saper tante cose e servirsene a quel bon fine ch'io ho detto; ma ricordatevi che questi signori l'hanno formato con molte condicioni che non sono in me: però procuriamo prima di trovarlo, ché io a lui mi rimetto e di questo e di tutte l'altre cose che s'appartengono a bon principe -. Allor il signor Gaspar, - Penso, - disse, - che se delle condicioni attribuite al cortegiano alcune a voi mancano, sia piú presto la musica e 'l danzar e l'altre di poca importanzia, che quelle che appertengono alla instituzione del principe ed a questo fine della cortegiania -. Rispose il signor Ottaviano: - Non sono di poca importanzia tutte quelle che giovano al guadagnar la grazia del principe, il che è necessario, come avemo detto, prima che 'l cortegiano se avventuri a volergli insegnar la virtú; la quale stimo avervi mostrato che imparar si po e che tanto giova, quanto nòce la ignoranzia, dalla quale nascono tutti i peccati, e massimamente quella falsa persuasion che l'uom piglia di se stesso; però parmi d'aver detto a bastanza e forse piú che io non aveva promesso -. Allora la signora Duchessa, - Noi saremo, - disse, tanto piú tenuti alla cortesia vostra, quanto la satisfazione avanzerà la promessa; però non v'incresca dir quello che vi pare sopra la dimanda del signor Gaspar; e per vostra fé diteci ancora tutto quello che voi insegnareste al vostro principe, se egli avesse bisogno d'ammaestramenti, e presupponetevi d'avervi acquistato compitamente la grazia sua, tanto che vi sia licito dirgli liberamente ciò che vi viene in animo -.
XVXI.
Rise il signor Ottaviano e disse: - S'io avessi la grazia di qualche principe ch'io conosco e gli dicessi liberamente il parer mio, dubito che presto la perderei; oltra che per insegnarli bisogneria ch'io prima imparassi. Pur, poiché a voi piace ch'io risponda ancora circa questo al signor Gaspar, dico che a me pare che i príncipi debbano attendere all'una e l'altra delle due vite, ma piú però alla contemplativa, perché questa in essi è divisa in due parti: delle quali l'una consiste nel conoscer bene e giudicare; l'altra nel commandare drittamente e con quei modi che si convengono, e cose ragionevoli, e quelle di che hanno autorità, e commandarle a chi ragionevolmente ha da obedire, e nei lochi e tempi appartenenti; e di questo parlava il duca Federico quando diceva che chi sa commandare è sempre obedito; e 'l commandar è sempre il principal officio de' príncipi, li quali debbono però ancor spesso veder con gli occhi ed esser presenti alle esecuzioni, e secondo i tempi e i bisogni ancora talor operar essi stessi; e tutto questo pur participa della azione; ma il fine della vita attiva deve esser la contemplativa, come della guerra la pace, il riposo delle fatiche.
XVXII.
Però è ancor officio del bon principe instituire talmente i populi suoi, e con tai leggi ed ordini, che possano vivere nell'ccio e nella pace senza periculo e con dignità e godere laudevolmente questo fine delle sue azioni che deve esser la quiete; perché sonosi trovate spesso molte republiche e príncipi, li quali nella guerra sempre sono stati fiorentissimi e grandi, e súbito che hanno aúta la pace sono iti in ruina e hanno perduto la grandezza e 'l splendore, come il ferro non esercitato. E questo non per altro è intervenuto, che per non aver bona instituzion di vivere nella pace, né saper fruire il bene dell'ocio; e lo star sempre in guerra, senza cercar di pervenire al fine della pace, non è licito, benché estimano alcuni príncipi il loro intento dover esser principalmente il dominare ai suoi vicini, e però nutriscono i populi in una bellicosa ferità di rapine, d'omicidi e tai cose e lor dànno premi per provocarla e la chiamano virtú. Onde fu già costume fra i Sciti che chi non avesse morto un suo nemico non potesse bere nei conviti solenni alla tazza che si portava intorno alli compagni. In altri lochi s'usava indrizzare intorno il sepulcro tanti obelisci, quanti nemici avea morti quello che era sepulto; e tutte queste cose ed altre simili si faceano per far gli omini bellicosi, solamente per dominare alli altri; il che era quasi impossibile, per esser impresa infinita, insino a tanto che non s'avesse subiugato tutto 'l mondo; e poco ragionevole, secondo la legge della natura, la qual non vole che negli altri a noi piaccia quello che in noi stessi ci dispiace. Però debbono i príncipi far i populi bellicosi non per cupidità di dominare, ma per poter diffendere se stessi e li medesimi populi da chi volesse ridurgli in servitú, o ver fargli ingiuria in parte alcuna; o vero per discacciar i tiranni e governar bene quei populi che fossero mal trattati, o vero per ridurre in servitú quelli che fossero tali da natura, che meritassero esser fatti servi, con intenzione di governargli bene e dar loro l'ocio e 'l riposo e la pace; ed a questo fine ancora deveno essere indrizzate le leggi e tutti gli ordini della giustizia, col punir i mali, non per odio, ma perché non siano mali ed acciò che non impediscano la tranquillità dei boni; perché in vero è cosa enorme e degna di biasimo, nella guerra, che in sé è mala, mostrarsi gli omini valorosi e savi; e nella pace e quete, che è bona, mostrarsi ignoranti e tanto da poco, che non sappiano godere il bene. Come adunque nella guerra debbono intender i populi nelle virtú utili e necessarie per conseguirne il fine, che è la pace, cosí nella pace, per conseguirne ancor il suo fine, che è la tranquillità, debbono intendere nelle oneste, le quali sono il fine delle utili; ed in tal modo li sudditi saranno boni, e 'l principe arà molto piú da laudare e premiare che da castigare; e 'l dominio per li sudditi e per lo principe sarà felicissimo, non imperioso, come di patrone al servo, ma dolce e placido, come di bon padre a bon figliolo-.
XVXIII.
Allor il signor Gaspar, - Volentieri, - disse, - saprei quali sono queste virtú utili e necessarie nella guerra; e quali le oneste nella pace -. Rispose il signor Ottaviano: - Tutte son bone e giovevoli, perché tendono a bon fine; pur nella guerra precipuamente val quella vera fortezza, che fa l'animo esento dalle passioni, talmente che non solo non teme li pericoli, ma pur non li cura; medesimamente la constanzia e quella pazienzia tollerante, con l'animo saldo ed imperturbato a tutte le percosse di fortuna. Conviensi ancora nella guerra e sempre aver tutte le virtú che tendono all'onesto, come la giustizia, la continenzia, la temperanzia; ma molto piú nella pace e nell'ocio, perché spesso gli omini posti nella prosperità e nell'ocio, quando la fortuna seconda loro arride, divengono ingiusti, intemperati e lassansi corrumpere dai piaceri; però quelli che sono in tale stato hanno grandissimo bisogno di queste virtú, perché l'ccio troppo facilmente induce mali costumi negli animi umani. Onde anticamente si diceva in proverbio che ai servi non si debbe dar ocio; e credesi che le piramide d'Egitto fossero fatte per tenere i populi in esercizio, perché ad ognuno lo essere assueto a tollerar fatiche è utilissimo. Sono ancor molte altre virtú tutte giovevoli, ma basti per or l'aver detto insin qui; ché s'io sapessi insegnar al mio principe ed instituirlo di tale e cosí virtuosa educazione come avemo disegnata, facendolo, senza piú mi crederei assai bene aver conseguito il fine del bon cortegiano -.
XXIX.
Allor il signor Gaspar, - Signor Ottaviano, - disse, - perché molto avete laudato la bona educazione e mostrato quasi di credere che questa sia principal causa di far l'omo virtuoso e bono, vorrei sapere se quella instituzione che ha da far il cortegiano nel suo principe deve esser cominciata dalla consuetudine e quasi dai costumi cottidiani, li quali, senza che esso se ne avvegga, lo assuefacciano al ben fare, o se pur se gli deve dar principio col mostrargli con ragione la qualità del bene e del male e con fargli conoscere prima che si metta in camino qual sia la bona via e da seguitare, e quale la mala e da fuggire: in somma, se in quell'animo si deve prima introdurre e fondar le virtú con la ragione ed intelligenzia, o vero con la consuetudine -. Disse il signor Ottaviano: - Voi mi mettete in troppo lungo ragionamento; pur, acciò che non vi paia ch'io manchi per non voler rispondere alle dimande vostre, dico che secondo che l'anima e 'l corpo in noi sono due cose, cosí ancora l'anima è divisa in due parti, delle quali l'una ha in sé la ragione, l'altra l'appetito. Come adunque nella generazione il corpo precede l'anima, cosí la parte irrazionale dell'anima precede la razionale; il che si comprende chiaramente nei fanciulli, ne' quali quasi súbito che son nati si vedeno l'ira e la concupiscenzia, ma poi con spacio di tempo appare la ragione. Però devesi prima pigliare cura del corpo che dell'anima, poi prima dell'appefito che della ragione; ma la cura del corpo per rispetto dell'anima, e dell'appetito per rispetto della ragione; ché secondo che la virtú intellettiva si fa perfetta con la dottrina, cosí la morale si fa con la consuetudine. Devesi adunque far prima la erudizione con la consuetudine, la qual po governare gli appetiti non ancora capaci di ragione e con quel bon uso indrizzargli al bene; poi stabilirli con la intelligenzia, la quale, benché piú tardi mostri il suo lume, pur dà modo di fruir piú perfettamente le virtú a chi ha bene instituito l'animo dai costumi, nei quali, al parer mio, consiste il tutto -.
XXX.
Disse il signor Gaspar: - Prima che passiate piú avanti vorrei saper che cura si deve aver del corpo, perché avete detto che prima devemo averla di quello, che dell'anima. - Dimandatene, - rispose il signor Ottaviano ridendo, - a questi, che lo nutriscon bene e son grassi e freschi; che 'l mio, come vedete, non è troppo ben curato. Pur ancora di questo si poria dir largamente, come del tempo conveniente del maritarsi, acciò che i figlioli non fossero troppo vicini né troppo lontani alla età paterna; degli esercizi e della educazione súbito che sono nati e nel resto della età, per fargli ben disposti, prosperosi e gagliardi -. Rispose il signor Gaspar: - Quello che piú piaceria alle donne per far i figlioli ben disposti e belli, secondo me, saria quella comunità che d'esse vol Platone nella sua Republica e di quel modo -.
Allor la signora Emilia ridendo, Non è ne' patti, - disse, - che ritorniate a dir mal delle donne. - Io, - rispose il signor Gaspar, - mi presumo dar lor gran laude, dicendo che desidrano che si introduca un costume approvato da un tanto omo -. Disse ridendo messer Cesare Gonzaga: - Veggiamo se tra li documenti del signor Ottaviano, che non so se per ancora gli abbia detti tutti, questo potesse aver loco e se ben fosse che 'l principe ne facesse una legge. - Quelli pochi ch'io ho detti, - rispose il signor Ottaviano, - forse porian bastare per far un principe bono, come possono esser quelli che si usano oggidí; benché chi volesse veder la cosa piú minutamente, averia ancora molto piú che dire -. Suggiunse la signora Duchessa: - Poiché non ci costa altro che parole, dichiarateci per vostra fé tutto quello che v'occorreria in animo da insegnare al vostro principe -.
XXXI.
Rispose il signor Ottaviano: - Molte altre cose, Signora, gli insegnarei, pur ch'io le sapessi; e tra l'altre, che dei suoi sudditi eleggesse un numero di gentilomini e dei piú nobili e savi, con i quali consultasse ogni cosa e loro desse autorità e libera licenzia, che del tutto senza risguardo dir gli potessero il parer loro; e con essi tenesse tal manera, che tutti s'accorgessero che d'ogni cosa saper volesse la verità ed avesse in odio ogni bugia; ed oltre a questo consiglio de' nobili, ricordarei che fossero eletti tra 'l populo altri di minor grado, dei quali si facesse un consiglio populare, che communicasse col consiglio de' nobili le occorrenzie della città appertinenti al publico ed al privato; ed in tal modo si facesse del principe, come di capo, e dei nobili e dei populari, come de' membri, un corpo solo unito insieme, il governo del quale nascesse principalmente dal principe, nientedimeno participasse ancora degli altri; e cosí aría questo stato forma dei tre governi boni, che è il regno, gli ottimati e 'l populo.
XXXII.
Appresso gli mostrarei che delle cure che al principe s'appartengono la piú importante è quella della giustizia; per la conservazion della quale si debbono eleggere nei magistrati i savi e gli approvati' omini, la prudenzia de' quali sia vera prudenzia accompagnata dalla bontà, perché altrimenti non è prudenzia ma astuzia; e quando questa bontà manca, sempre l'arte e suttilità dei causidici non è altro che ruina e calamità delle leggi e dei iudici, e la colpa d'ogni loro errore si ha da dare a chi gli ha posti in officio. Direi come dalla giustizia ancora depende quella pietà verso Idio, che è debita a tutti, e massimamente ai príncipi, li quali debbon amarlo sopra ogn'altra cosa ed a lui come al vero fine indrizzar tutte le sue azioni; e, come dicea Senofonte, onorarlo ed amarlo sempre, ma molto piú quando sono in prosperità, per aver poi piú ragionevolmente confidenzia di dimandargli grazia quando sono in qualche avversità; perché impossibile è governar bene né se stesso né altrui senza aiuto di Dio, il quale ai boni alcuna volta manda la seconda fortuna per ministra sua, che gli rilievi da' gravi pericoli; talor la avversa, per non gli lassar addormentare nelle prosperità tanto che si scordino di lui, o della prudenzia umana, la quale corregge spesso la mala fortuna, come bon giocatore i tratti mali de' dadi col menar ben le tavole. Non lassarei ancora di ricordare al principe che fosse veramente religioso, non superstizioso, né dato alle vanità d'incanti e vaticini; perché, aggiungendo alla prudenzia umana la pietà divina e la vera religione, avrebbe ancor la bona fortuna e Dio protettore, il qual sempre gli accrescerebbe prosperità in pace ed in guerra.
XXXIII.
Appresso li direi come dovesse amar la patria e i populi suoi, tenendogli non in troppo servitú, per non si far loro odioso; dalla qual cosa nascono le sedizioni, le congiure e mille altri mali; né meno in troppo libertà, per non esser vilipeso; da che procede la vita licenziosa e dissoluta dei populi, le rapine, i furti, gli omicidii, senza timor alcuno delle leggi; spesso la ruina ed esizio totale delle città e dei regni. Appresso, come dovesse amare i propinqui di grado in grado, servando tra tutti in certe cose una pare equalità, come nella giustizia e nella libertà; ed in alcune altre una ragionevole inequalità, come nell'esser liberale, nel remunerare, nel distribuir gli onori e dignità secondo la inequalità dei meriti, li quali sempre debbono non avanzare, ma esser avanzati dalle remunerazioni; e che in tal modo sarebbe non ché amato ma quasi adorato dai sudditi; né bisogneria che esso per custodia della vita sua si commettesse a forestieri, ché i suoi per utilità di se stessi con la propria la custodiriano, ed ognun voluntieri obediria alle leggi, quando vedessero che esso medesimo obedisse e fosse quasi custode ed esecutore incorruttibile di quelle; ed in tal modo, circa questo, darebbe cosí ferma impression di sé, che se ben talor occorresse contrafarle in qualche cosa, ognun conosceria che si facesse a bon fine e 'l medesimo rispetto e riverenzia s'aría al voler suo, che alle proprie leggi; e cosí sarian gli animi dei cittadini talmente temperati, che i boni non cercariano aver piú del bisogno e i mali non poriano; perché molte volte le eccessive ricchezze son causa di gran ruina; come nella povera Italia, la quale è stata e tuttavia è preda esposta a genti strane, sí per lo mal governo, come per le molte ricchezze di che è piena. Però ben saria che la maggior parte dei cittadini fossero né molto ricchi né molto poveri, perché i troppo ricchi spesso divengon superbi e temerari; i poveri, vili e fraudolenti; ma li mediocri non fanno insidie agli altri e vivono securi di non essere insidiati; ed essendo questi mediocri maggior numero, sono ancora piú potenti; e però né i poveri né i ricchi possono conspirar contro il principe, o vero contra gli altri, né far sedizioni; onde per schifar questo male è saluberrima cosa mantenere universalmente la mediocrità.
XXXIV.
Direi adunque che usar dovesse questi e molti altri rimedi opportuni, perché nella mente dei sudditi non nascesse desiderio di cose nove e di mutazione di stato; il che per il piú delle volte fanno, o per guadagno, o veramente per onore che sperano, o per danno, o veramente per vergogna che temano; e questi movimenti negli animi loro son generati talor dall'odio e sdegno che gli dispera, per le ingiurie e contumelie che son lor fatte per avarizia, superbia e crudeltà o libidine dei superiori; talor dal vilipendio che vi nasce per la negligenzia e viltà e dapocagine de' príncipi; ed a questi dui errori devesi occorrere con l'acquistar dai populi l'amore e l'autorità; il che si fa col beneficare ed onorare i boni e rimediare prudentemente, e talor con severità, che i mali e sediciosi non diventino potenti; la qual cosa è piú facile da vietar prima che siano divenuti, che levar loro le forze poi che le hanno acquistate; e direi che per vietar che i populi non incorrano in questi errori, non è miglior via che guardargli dalle male consuetudini, e massimamente da quelle che si mettono in uso a poco a poco; perché sono pestilenzie secrete, che corrompono le città prima che altri non che rimediare, ma pur accorger se ne possa. Con tai modi ricorderei che 'l principe procurasse di conservare i suoi sudditi in stato tranquillo e dar loro i beni dell'animo e del corpo e della fortuna; ma quelli del corpo e della fortuna per poter esercitar quelli dell'animo, i quali quanto son maggiori e piú eccessivi, tanto son piú utili; il che non interviene di quelli del corpo né della fortuna. Se adunque i sudditi fossero boni e valorosi e ben indrizzati al fin della felicità, saria quel principe grandissimo signore; perché quello è vero e gran dominio, sotto 'l quale i sudditi son boni e ben governati e ben comandati -.
XXVX.
Allor il signor Gaspar, - Penso io, - disse, - che piccol signor saria quello sotto 'l quale tutti i sudditi fossero boni, perché in ogni loco son pochi li boni -. Rispose il signor Ottaviano: - Se una qualche Circe mutasse in fiere tutti i sudditi del re di Francia, non vi parrebbe che piccol signor fosse, se ben signoreggiasse tante migliaia d'animali? e per contrario, se gli armenti che vanno pascendo solamente su per questi nostri monti divenissero omini savi e valorosi cavalieri, non estimareste voi che quei pastori che gli governassero e da essi fossero obediti, fossero de' pastori divenuti gran signori? Vedete adunque che non la moltitudine dei sudditi, ma il valor fa grandi li príncipi -.
XXVXI.
Erano stati per bon spacio attentissimi al ragionamento del signor Ottaviano la signora Duchessa e la signora Emilia e tutti gli altri; ma avendo quivi esso fatto un poco di pausa, come d'aver dato fine al suo ragionamento, disse messer Cesare Gonzaga: - Veramente, signor Ottaviano, non si po dire che i documenti vostri non sian boni ed utili; nientedimeno io crederei, che se voi formaste con quelli il vostro principe, piú presto meritareste nome di bon maestro di scola che di bon cortegiano, ed esso piú presto di bon governatore che di gran principe. Non dico già che cura dei signori non debba essere che i populi siano ben retti con giustizia e bone consuetudini; nientedimeno ad essi parmi che basti eleggere boni ministri per esequir queste tai cose e che 'l vero officio loro sia poi molto maggiore. Però s'io mi sentissi esser quell'eccellente cortegiano che hanno formato questi signori ed aver la grazia del mio principe, certo è ch'io non lo indurrei mai a cosa alcuna viciosa; ma, per conseguir quel bon fine che voi dite ed io confermo dover esser il frutto delle fatiche ed azioni del cortegiano, cercherei d'imprimergli nell'animo una certa grandezza, con quel splendor regale e con una prontezza d'animo e valore invitto nell'arme, che lo facesse amare e reverir da ognuno di tal sorte, che per questo principalmente fusse famoso e chiaro al mondo. Direi ancor che compagnar dovesse con la grandezza una domestica mansuetudine, con quella umanità dolce ed amabile e bona maniera d'accarezzare e i sudditi e i stranieri discretamente, piú e meno, secondo i meriti, servando però sempre la maestà conveniente al grado suo, che non gli lassasse in parte alcuna diminuire l'autorità per troppo bassezza, né meno gli concitasse odio per troppo austera severità; dovesse essere liberalissimo e splendido e donar ad ognuno senza riservo, perché Dio, come si dice, è tesauriero dei príncipi liberali; far conviti magnifici, feste, giochi, spettacoli publici; aver gran numero di cavalli eccellenti, per utilità nella guerra e per diletto nella pace; falconi, cani e tutte l'altre cose che s'appartengono ai piaceri de' gran signori e dei populi; come a' nostri dí avemo veduto fare il signor Francesco Gonzaga marchese di Mantua, il quale a queste cose par piú presto re d'Italia che signor d'una città. Cercherei ancor d'indurlo a far magni edifici, e per onor vivendo e per dar di sé memoria ai posteri; come fece il duca Federico in questo nobil palazzo, ed or fa papa Iulio nel tempio di san Pietro, e quella strada che va da Palazzo al diporto di Belvedere e molti altri edifici, come faceano ancora gli antichi Romani; di che si vedeno tante reliquie a Roma, a Napoli, a Pozzolo, a Baie, a Cività Vecchia, a Porto ed ancor fuor d'Italia, e tanti altri lochi che son gran testimonio del valor di quegli animi divini. Cosí ancor fece Alessandro Magno, il qual, non contento della fama che per aver domato il mondo con l'arme avea meritamente acquistata, edificò Alessandria in Egitto, in India Bucefalia ed altre città in altri paesi; e pensò di ridurre in forma d'omo il monte Athos, e nella man sinistra edificargli una amplissima città e nella destra una gran coppa, nella quale si raccogliessero tutti i fiumi che da quello derivano e di quindi traboccassero nel mare: pensier veramente grande e degno d'Alessandro Magno! Queste cose estimo io, signor Ottaviano, che si convengano ad un nobile e vero principe e lo facciano nella pace e nella guerra gloriosissimo; e non lo avvertire a tante minuzie e lo aver rispetto di combattere solamente per dominare e vincer quei che meritano esser dominati, o per far utilità ai sudditi, o per levare il governo a quelli che governan male; ché se i Romani, Alessandro, Annibale e gli altri avessero avuto questi risguardi, non sarebbon stati nel colmo di quella gloria che furono
XXVXII.
Rispose allor il signor Ottaviano ridendo: - Quelli che non ebbero questi risguardi, arebbono fatto meglio avendogli, benché, se considerate, trovarete che molti gli ebbero, e massimamente que' primi antichi, come Teseo ed Ercule:
né crediate che altri fossero Procuste e Scirone, Cacco, Diomede, Anteo, Gerione, che tiranni crudeli ed impii, contra i quali aveano perpetua e mortal guerra questi magnanimi eroi; e però per aver liberato il mondo da cosí intollerabili mostri (ché altramente non si debbon nominare i tiranni), ad Ercule furon fatti i tempii e i sacrifici e dati gli onori divini; perché il beneficio di estirpare i tiranni è tanto giovevole al mondo, che chi lo fa merita molto maggior premio, che tutto quello che si conviene ad un mortale. E di coloro che voi avete nominati, non vi par che Alessandro giovasse con le sue vittorie ai vinti, avendo instituite di tanti boni costumi quelle barbare genti che superò, che di fiere gli fece omini? edificò tante belle città in paesi mal abitati, introducendovi il viver morale; e quasi congiungendo l'Asia e l'Europa col vinculo dell'amicizia e delle sante leggi, di modo che piú felici furno i vinti da lui, che gli altri; perché ad alcuni mostrò i matrimoni, ad altri l'agricoltura, ad altri la religione, ad altri il non uccidere, ma il nutrir i padri già vecchi, ad altri lo astenersi dal congiungersi con le madri e mille altre cose che si porian dir in testimonio del giovamento che fecero al mondo le sue vittorie.
XXVXIII.
Ma lassando gli antichi, qual piú nobile e gloriosa impresa e piú giovevole potrebbe essere, che se i Cristiani voltasser le forze loro a subiugare gli infideli? non vi parrebbe che questa guerra, succedendo prosperamente ed essendo causa di ridurre dalla falsa setta di Maumet al lume della verità cristiana tante migliaia di omini, fosse per giovare cosí ai vinti come ai vincitori? E veramente, come già Temistocle' essendo discacciato dalla patria sua e raccolto dal re di Persia e da lui accarezzato ed onorato con infiniti e ricchissimi doni, ai suoi disse: «Amici, ruinati eravamo noi, se non ruinavamo»; cosí bene poriano allor con ragion dire il medesimo ancora i Turchi e i Mori, perché nella perdita loro saria la lor salute. Questa felicità adunque spero che ancor vedremo, se da Dio ne fia conceduto il viver tanto, che alla corona di Francia pervenga Monsignore d'Angolem, il quale tanta speranza mostra di sé, quanta mo quarta sera disse il signor Magnifico; ed a quella d'Inghilterra il signor don Enrico, principe di Vuaglia, che or cresce sotto il magno padre in ogni sorte di virtú, come tenero rampollo sotto l'ombra d'arbore eccellente e carico di frutti, per rinovarlo molto piú bello e piú fecundo quando fia tempo; ché, come di là scrive il nostro Castiglione e piú largamente promette di dire al suo ritorno, pare che la natura in questo signore abbia voluto far prova di se stessa, collocando in un corpo solo tante eccellenzie, quante basteriano per adornarne infiniti -. Disse allora messer Bernardo Bibiena: - Grandissima speranza ancor di sé promette don Carlo, principe di Spagna, il quale, non essendo ancor giunto al decimo anno della sua età, dimostra già tanto ingegno e cosí certi indici di bontà, di prudenzia, di modestia, di magnanimità e d'ogni virtú, che se l'imperio di Cristianità sarà, come s'estima, nelle sue mani, creder si po che debba oscurare il nome di molti imperatori antichi ed agguagliarsi di fama ai piú famosi che mai siano stati al mondo.
XXXIX.
Suggiunse il signor Ottaviano: - Credo adunque che tali e cosí divini príncipi siano da Dio mandati in terra e da lui fatti simili della età giovenile, della potenzia dell'arme, del stato, della bellezza e disposizion del corpo, affin che siano ancor a questo bon voler concordi; e se invidia o emulazione alcuna esser deve mai tra essi, sia solamente in voler ciascuno esser il primo e piú fervente ed animato a cosí gloriosa impresa. Ma lassiamo questo ragionamento e torniamo al nostro. Dico adunque, messer Cesare, che le cose che voi volete che faccia il principe son grandissime e degne di molta laude; ma dovete intendere, che se esso non sa quello ch'io ho detto che ha da sapere, e non ha formato l'animo di quel modo ed indrizzato al camino della virtú, difficilmente saprà esser magnanimo, liberale, giusto, animoso, prudente, o avere alcuna altra qualità di quelle che se gli aspettano; né per altro vorrei che fosse tale, che per saper esercitar queste condizioni; ché sí come quegli che edificano non son tutti boni architetti, cosí quegli che donano non son tutti liberali; perché la virtú non nòce mai ad alcuno e molti sono che robbano per donare e cosí son liberali della robba d'altri; alcuni dànno a cui non debbono e lassano in calamità e miseria quegli a' quali sono obligati; altri dànno con una certa mala grazia e quasi dispetto, tal che si conosce che lo fan per forza; altri non solamente non son secreti, ma chiamano i testimonii e quasi fanno bandire le sue liberalità; altri pazzamente vuotano in un tratto quel fonte della liberalità, tanto che poi non si po usar piú.
XL.
Però in questo, come nell'altre cose, bisogna sapere e governarsi con quella prudenzia, che è necessaria compagna a tutte le virtú; le quali, per esser mediocrità, sono vicine alli cui estremi, che sono vicii; onde chi non sa facilmente incorre in essi; perché cosí come è difficile nel circulo trovare il punto del centro, che è il mezzo, cosí è difficile trovare il punto della virtú posta nel mezzo delli cui estremi, viciosi l'uno per lo troppo, l'altro per lo poco, ed a questi siamo or all'uno or all'altro inclinati; e ciò si conosce per lo piacere e per lo dispiacere che in noi si sente; ché per l'uno facciamo quello che non devemo, per l'altro lasciamo di far quello che deveremmo; benché il piacere è molto piú pericoloso, perché facilmente il giudicio nostro da quello si lascia corrompere. Ma perché il conoscere quanto sia l'uom lontano dal centro della virtú è cosa difficile, devemo ritirarci a poco a poco da noi stessi alla contraria parte di quello estremo al quale ne conoscemo esser inclinati, come fan quelli che indrizzano i legni distorti; ché in tal modo s'accostaremo alla virtú, la quale, come ho detto, consiste in quel punto della mediocrità; onde interviene che noi per molti modi erriamo e per un solo facciamo l'officio e debito nostro; cosí come gli arcieri, che per una via sola dànno nella brocca e per molte fallano il segno. Però spesso un principe, per voler esser umano ed affabile, fa infinite cose fuor del decoro e si avvilisce tanto che è disprezzato; alcun altro, per servar quella maestà grave con autorità conveniente, diviene austero ed intollerabile; alcun, per esser tenuto eloquente, entra in mille strane maniere e lunghi circuiti di parole affettate, ascoltando se stesso, tanto che gli altri per fastidio ascoltar non lo possono.
XLI.
Sí che non chiamate, messer Cesare, per minuzia cosa alcuna che possa migliorare un principe in qualsivoglia parte, per minima che ella sia; né pensate già ch'io estimi che voi biasmiate i miei documenti, dicendo che con quelli piú tosto si formaria un bon governatore che un bon principe; ché non si po forse dare maggior laude né piú conveniente ad un principe, che chiamarlo bon governatore. Però, se a me toccasse instituirlo, vorrei che egli avesse cura non solamente di governar le cose già dette, ma le molto minori, ed intendesse tutte le particularità appartenenti ai suoi populi quanto fosse possibile, né mai credesse tanto, né tanto si confidasse d'alcun suo ministro, che a quel solo rimettesse totalmente la briglia e lo arbitrio di tutto 'l governo; perché non è alcuno che sia attissimo a tutte le cose, e molto maggior danno procede dalla credulità de' signori che dalla incredulità, la qual non solamente talor non nòce, ma spesso summamente giova; pur in questo è necessario il bon giudicio del principe, per conoscer chi merita esser creduto e chi no. Vorrei che avesse cura d'intendere le azioni ed esser censore de' suoi ministri; di levare ed abbreviar le liti tra i sudditi; di far far pace tra essi, e legargli insieme di parentati; di far che la città fosse tutta unita e concorde in amicizia, come una casa privata; populosa, non povera, quieta, piena di boni artífici; di favorir i mercatanti ed aiutarli ancora con denari; d'esser liberale ed onorevole nelle ospitalità verso i forestieri e verso i religiosi; di temperar tutte le superfluità; perché spesso per gli errori che si fanno in queste cose, benché paiano piccoli, le città vanno in ruina; però è ragionevole che 'l principe ponga mèta ai troppo suntuosi edifici dei privati, ai convivii, alle doti eccessive delle donne, al lusso, alle pompe nelle gioie e vestimenti, che non è altro che uno augumento della lor pazzia; ché, oltre che spesso, per quella ambizione ed invidia che si portano l'una all'altra, dissipano le facultà e la sustanzia dei mariti, talor per una gioietta o qualche altra frascheria tale vendono la pudicizia loro a chi la vol comperare -.
XLII.
Allora messer Bernardo Bibiena ridendo, - Signor Ottaviano, - disse, - voi entrate nella parte del signor Gaspare e del Frigio -. Rispose il signor Ottaviano pur ridendo: - La lite è finita, ed io non voglio già rinovarla; però non dirò piú delle donne, ma ritornerò al mio principe -. Rispose il Frigio: - Ben potete oramai lassarlo e contentarvi che egli sia tale come l'avete formato; ché senza dubbio piú facil cosa sarebbe trovare una donna con le condizioni dette dal signor Magnifico, che un principe con le condizioni dette da voi; però dubito che sia come la republica di Platone e che non siamo per vederne mai un tale, se non forse in cielo -. Rispose il signor Ottaviano: - Le cose possibili, benché siano difficili, pur si po sperar che abbiano da essere; perciò forse vedremolo ancor a' nostri tempi in terra; ché, benché i cieli siano tanto avari in produr principi eccellenti, che a pena in molti seculi se ne vede uno, potrebbe questa bona fortuna toccare a noi -.
Disse allor il conte Ludovico: - Io ne sto con assai bona speranza; perché, oltra quelli tre grandi che avemo nominati, de' quali sperar si po ciò che s'è detto convenirsi al supremo grado di perfetto principe, ancora in Italia se ritrovano oggidí alcuni figlioli de signori, li quali, benché non siano per aver tanta potenzia, forse suppliranno con la virtú; e quello che tra tutti si mostra di meglior indole e di sé promette maggior speranza che alcun degli altri, parmi che sia il signor Federico Gonzaga, primogenito del marchese di Mantua nepote della signora Duchessa nostra qui; ché, oltra la gentilezza de' costumi e la discrezione che in cosí tenera età dimostra, coloro che lo governano di lui dicono cose di maraviglia circa l'essere ingenioso, cupido d'onore, magnanimo, cortese, liberale, amico della giusticia; di modo che di cosí bon principio non si po se non aspettar ottimo fine -. Allor il Frigio, - Or non piú, - disse, - pregaremo Dio di vedere adempita questa vostra speranza -.
XLIII.
Quivi il signor Ottaviano, rivolto alla signora Duchessa con maniera d'aver dato fine al suo ragionamento, - Eccovi, Signora, - disse, - quello che a dir m'occorre del fin del cortegiano; nella qual cosa s'io non arò satisfatto in tutto, basterammi almen aver dimostrato che qualche perfezion ancora dar si gli potea oltra le cose dette da questi signori; li quali io estimo che abbiano pretermesso e questo e tutto quello ch'io potrei dire, non perché non lo sapessero meglio di me, ma per fuggir fatica; però lasserò che essi vadano continuando, se a dir gli avanza cosa alcuna -. Allora disse la signora Duchessa: - Oltra che l'ora è tanto tarda, che tosto sarà tempo di dar fine per questa sera, a me non par che noi debbiam mescolare altro ragionamento con questo; nel quale voi avete raccolto tante varie e belle cose, che circa il fine della cortegiania si po dir che non solamente siate quel perfetto cortegiano che noi cerchiamo, e bastante per instituir bene il vostro principe, ma, se la fortuna vi sarà propizia, che debbiate ancor essere ottimo principe, il che saria con molta utilità della patria vostra -. Rise il signor Ottaviano e disse: - Forse, Signora, s'io fussi in tal grado, a me ancor interverria quello che sòle intervenire a molti altri, li quali san meglio dire che fare -.
XLIV.
Quivi essendosi replicato un poco di ragionamento tra tutta la compagnia confusamente, con alcune contradizioni, pur a laude di quello che s'era parlato, e dettosi che ancor non era l'ora d'andar a dormire, disse ridendo il Magnifico Iuliano: Signora, io son tanto nemico degli inganni, che m'è forza contradir al signor Ottaviano, il qual per esser, come io dubito, congiurato secretamente col signor Gaspar contra le donne, è incorso in dul errori, secondo me, grandissimi: dei quali l'uno è, che per preporre questo cortegiano alla donna di palazzo e farlo eccedere quei termini a che essa po giungere, l'ha preposto ancor al principe, il che è inconvenientissimo; l'altro, che gli ha dato un tal fine, che sempre è difficile e talor impossibile che lo conseguisca, e quando pur lo consegue, non si deve nominar per cortegiano. - Io non intendo, - disse la signora Emilia, - come sia cosí difficile o impossibile che 'l cortegiano conseguisca questo suo fine, né meno come il signor Ottaviano lo abbia preposto al principe. - Non gli consentite queste cose, - rispose il signor Ottaviano, - perch'io non ho preposto il cortegiano al principe; e circa il fine della cortegiania non mi presumo esser incorso in errore alcuno -. Rispose allor il Magnifico Iuliano: - Dir non potete, signor Ottaviano, che sempre la causa per la quale lo effetto è tale come egli è, non sia piú tale che non è quello effetto; però bisogna che 'l cortegiano, per la instituzion del quale il principe ha da esser di tanta eccellenzia, sia piú eccellente che quel principe; ed in questo modo sarà ancora di piú dignità che 'l principe istesso, il che è inconvenientissimo. Circa il fine poi della cortegiania, quello che voi avete detto po seguitare quando l'età del principe è poco differente da quella del cortegiano, ma non però senza difficultà, perché dove è poca differenzia d'età, ragionevol è che ancor poca ve ne sia di sapere; ma se 'l principe è vecchio e 'l cortegian giovane, conveniente è che 'l principe vecchio sappia piú che 'l cortegian giovane, e se questo non intervien sempre, intervien qualche volta; ed allor il fine che voi avete attribuito al cortegiano è impossibile. Se ancora il principe è giovane e 'l cortegian vecchio, difficilmente il cortegian po guadagnarsi la mente del principe con quelle condizioni che voi gli avete attribuite; ché, per dir il vero, l'armeggiare e gli altri esercizi della persona s'appartengono a' giovani e non riescono ne' vecchi, e la musica e le danze e feste e giochi e gli amori in quella età son cose ridicule; e parmi che ad uno institutor della vita e costumi del principe, il qual deve esser persona tanto grave e d'autorità, maturo negli anni e nella esperienzia e, se possibil fosse, bon filosofo, bon capitano, e quasi saper ogni cosa, siano disconvenienfissime. Però chi instituisce il principe estimo io che non s'abbia da chiamar cortegiano, ma meriti molto maggiore e piú onorato nome. Sí che, signor Ottaviano, perdonatemi s'io ho scoperto questa vostra fallacia, ché mi par esser tenuto a far cosí per l'onor della mia donna; la qual voi pur vorreste che fosse di minor dignità che questo vostro cortegiano, ed io nol voglio comportare -.
XLV.
Rise il signor Ottaviano e disse: - Signor Magnifico, piú laude della donna di palazzo sarebbe lo esaltarla tanto ch'ella fosse pari al cortegiano, che abbassar il cortegian tanto che 'l sia pari alla donna di palazzo; ché già non saria proibito alla donna ancora instituir la sua signora e tender con essa a quel fine della cortegiania, ch'io ho detto convenirsi al cortegian col suo principe; ma voi cercate piú di biasmare il cortegiano, che di laudar la donna di palazzo; però a me ancor sarà licito tener la ragione del cortegiano.
Per rispondere adunque alle vostre obiezioni, dico ch'io non ho detto che la instituzione del cortegiano debba esser la sola causa per la quale il principe sia tale; perché se esso non fosse inclinato da natura ed atto a poter essere, ogni cura e ricordo del cortegiano sarebbe indarno; come ancor indarno s'affaticaria ogni bono agricultore che si mettesse a cultivare e seminare d'ottimi grani l'arena sterile del mare, perché quella tal sterilità in quel loco è naturale; ma quando al bon seme in terren fertile, con la temperie dell'aria e piogge convenienti alle stagioni, s'aggiunge ancora la diligenzia della cultura umana, si vedon sempre largamente nascere abundantissimi frutti; né però è che lo agricultor solo sia la causa di quelli, benché senza esso poco o niente giovassero tutte le altre cose. Sono adunque molti príncipi che sarian boni, se gli animi loro fossero ben cultivati; e di questi parlo io, non di quelli che sono come il paese sterile e tanto da natura alieni dai boni costumi, che non basta disciplina alcuna per indur l'animo loro al diritto camino.
XLVI.
E perché, come già avemo detto, tali si fanno gli abiti in noi quali sono le nostre operazioni, e nell'operar consiste la virtú, non è impossibil né maraviglia che 'l cortegiano indrizzi il principe a molte virtú, come la giustizia, la liberalità, la magnanimità, le operazion delle quali esso per la grandezza sua facilmente po mettere in uso e farne abito; il che non po il cortegiano, per non aver modo d'operarle; e cosí il principe, indutto alla virtú dal cortegiano, po divenir piú virtuoso che 'l cortegiano. Oltra che dovete saper che la cote che non taglia punto, pur fa acuto il ferro; però parmi che ancora che 'l cortegiano instituisca il principe, non per questo s'abbia a dir che egli sia di piú dignità che 'l principe. Che 'l fin di questa cortegiania sia difficile e talor impossibile, e che quando pur il cortegian lo consegue non si debba nominar per cortegiano, ma meriti maggior nome, dico ch'io non nego questa difficultà, perché non meno è difficile trovar un cosí eccellente cortegiano, che conseguir un tal fine; parmi ben che la impossibilità non sia né anco in quel caso che voi avete allegato, perché se 'l cortegian è tanto giovane, che non sappia quello che s'è detto che egli ha da sapere, non accade parlarne, perché non è quel cortegiano che noi presuponemo, né possibil è che chi ha da saper tante cose sia molto giovane. E se pur occorrerà che 'l principe sia cosí savio e bono da se stesso, che non abbia bisogno di ricordi né consigli d'altri (benché questo è tanto difficile quanto ognun sa), al cortegian basterà esser tale che, se 'l principe n'avesse bisogno, potesse farlo virtuoso; e con lo effetto poi potrà satisfare a quell'altra parte, di non lassarlo ingannare e di far che sempre sappia la verità d'ogni cosa, e d'opporsi agli adulatori, ai malèdici ed a tutti coloro che machinassero di corromper l'animo di quello con disonesti piaceri; ed in tal modo conseguirà pur il suo fine in gran parte, ancora che non lo metta totalmente in opera; il che non sarà ragion d'imputargli per diffetto, restando di farlo per cosí bona causa; ché se uno eccellente medico si ritrovasse in loco dove tutti gli omini fossero sani, non per questo si devria dir che quel medico, se ben non sanasse gli infermi, mancasse del suo fine; però, sí come del medico deve essere intenzione la sanità degli omini, cosí del cortegiano la virtú del suo principe; ed all'uno e l'altro basta aver questo fine intrinseco in potenzia, quando il non produrlo estrinsicamente in atto procede dal subietto, al quale è indrizzato questo fine. Ma se 'l cortegian fosse tanto vecchio, che non se gli convenissi esercitar la musica, le feste, i giochi, l'arme e l'altre prodezze della persona, non si po però ancor dire che impossibile gli sia per quella via entrare in grazia al suo principe; perché se la età leva l'operar quelle cose, non leva l'intenderle, ed avendole operate in gioventú, lo fa averne tanto piú perfetto giudicio e piú perfettamente saperle insegnar al suo principe, quanto piú notizia d'ogni cosa portan seco gli anni e la esperienzia; ed in questo modo il cortegian vecchio, ancora che non eserciti le condicioni attribuitegli, conseguirà pur il suo fine d'instituir bene il principe.
XLVII.
E se non vorrete chiamarlo cortegiano, non mi dà noia; perché la natura non ha posto tal termine alle dignità umane, che non si possa ascendere dall'una all'altra; però spesso i soldati simplici divengon capitani, gli omini privati re, e i sacerdoti papi e i discipoli maestri, e cosí insieme con la dignità acquistano ancor il nome; onde forse si poria dir che 'l divenir institutor del principe fosse il fin del cortegiano. Benché non so chi abbia da rifiutar questo nome di perfetto cortegiano, il quale, secondo me, è degno di grandissima laude; e parmi che Omero, secondo che formò dui omini eccellentissimi per esempio della vita umana, l'uno nelle azioni, che fu Achille, l'altro nelle passioni e tolleranzie, che fu Ulisse, cosí volesse ancora formar un perfetto cortegiano, che fu quel Fenice, il qual, dopo l'aver narrato i suoi amori e molte altre cose giovenili, dice esser stato mandato ad Achille da Pelleo suo padre per stargli in compagnia e insegnargli a dire e fare: il che non è altro che 'l fin che noi avemo disegnato al nostro cortegiano. Né penso che Aristotile e Platone si fossero sdegnati del nome di perfetto cortegiano, perché si vede chiaramente che fecero l'opere della cortegiania ed attesero a questo fine, l'un con Alessandro Magno, l'altro con i re di Sicilia. E perché officio è di bon cortegiano conoscer la natura del principe e l'inclinazion sue e cosí, secondo i bisogni e le opportunità, con destrezza entrar loro in grazia, come avemo detto, per quelle vie che prestano l'adito securo, e poi indurlo alla virtú, Aristotile cosí ben conobbe la natura d'Alessandro e con destrezza cosí ben la secondò, che da lui fu amato ed onorato piú che padre, onde, tra molti altri segni che Alessandro in testimonio della sua benivolenzia gli fece, volse che Stagira sua patria, già disfatta, fosse reedificata; ed Aristotile, oltre allo indrizzar lui a quel fin gloriosissimo, che fu il voler fare che 'l mondo fosse come una sol patria universale, e tutti gli omini come un sol populo, che vivesse in amicizia e concordia tra sé sotto un sol governo ed una sola legge, che risplendesse communemente a tutti come la luce del sole, lo formò nelle scienzie naturali e nelle virtú dell'animo talmente, che lo fece sapientissimo, fortissimo, continentissimo e vero filosofo morale, non solamente nelle parole ma negli effetti; ché non si po imaginare piú nobil filosofia, che indur al viver civile i populi tanto efferati come quelli che abitano Battra e Caucaso, la India, la Scizia ed insegnar loro i matrimoni, l'agricultura, l'onorar i padri, astenersi dalle rapine e dagli omicidii e dagli altri mal costumi, lo edificare tante città nobilissime in paesi lontani, di modo che infiniti omini per quelle leggi furono ridutti dalla vita ferina alla umana; e di queste cose in Alessandro fu autore Aristotile, usando i modi di bon cortegiano; il che non seppe far Calistene, ancorché Aristotile glielo mostrasse; ché, per voler esser puro filosofo e cosí austero ministro della nuda verità, senza mescolarvi la cortegiania, perdé la vita e non giovò, anzi diede infamia ad Alessandro. Per lo medesimo modo della cortegiania Platone formò Dione Siracusano; ed avendo poi trovato quel Dionisio tiranno come un libro tutto pieno di mende e d'errori e piú presto bisognoso d'una universal litura che di mutazione o correzione alcuna, per non esser possibile levargli quella tintura della tirannide, della qual tanto tempo già era macchiato, non volse operarvi i modi della cortegiania, parendogli che dovessero esser tutti indarno. Il che ancora deve fare il nostro cortegiano, se per sorte si ritrova a servizio di principe di cosí mala natura, che sia inveterato nei vicii, come li ftisici nella infirmità; perché in tal caso deve levarsi da quella servitú, per non portar biasimo delle male opere del suo signore, e per non sentir quella noia che senton tutti i boni che servono ai mali -.
XLVIII.
Quivi essendosi fermato il signor Ottaviano di parlare, disse il signor Gaspar: - Io non aspettava già che 'l nostro cortegiano avesse tanto d'onore; ma poiché Aristotile e Platone son suoi compagni, penso che niun piú debba sdegnarsi di questo nome. Non so già però s'io mi creda che Aristotile e Platone mai danzassero o fossero musici in sua vita, o facessero altre opere di cavalleria -. Rispose il signor Ottaviano: - Non è quasi licito imaginar che questi dui spiriti divini non sapessero ogni cosa, e però creder si po che operassero ciò che s'appartiene alla cortegiania, perché dove lor occorre ne scrivono di tal modo, che gli artifici medesimi delle cose da loro scritte conoscono che le intendevano insino alla medulle ed alle piú intime radici. Onde non è da dir che al cortegiano o institutor del principe, come lo vogliate chiamare, il qual tenda a quel bon fine che avemo detto, non si convengan tutte le condicioni attribuitegli da questi signori, ancora che fosse severissimo filosofo e di costumi santissimo, perché non repugnano alla bontà, alla discrezione, al sapere, al valore, in ogni età ed in ogni tempo e loco -.
XLIX.
Allora il signor Gaspar, - Ricordomi, - disse, - che questi signori iersera, ragionando delle condicioni del cortegiano, volsero ch'egli fusse inamorato; e perché, reassumendo quello che s'è detto insin qui, si poria cavar una conclusione che 'l cortegiano, il quale col valore ed autorità sua ha da indur il principe alla virtú, quasi necessariamente bisogna che sia vecchio, perché rarissime volte il saper viene innanzi agli anni, e massimamente in quelle cose che si imparano con la esperienzia, non so come, essendo di età provetto, se gli convenga l'essere inamorato; atteso che, come questa sera s'è detto, l'amor ne' vecchi non riesce e quelle cose che ne' giovani sono delicie e cortesie, attillature tanto grate alle donne, in essi sono pazzie ed inezie ridicule ed a chi le usa parturiscono odio dalle donne e beffe dagli altri.
Però se questo vostro Aristotile, cortegian vecchio, fosse inamorato e facesse quelle cose che fanno i giovani inamorati, come alcuni che n'avemo veduti a' dí nostri, dubito che si scorderia d'insegnar al suo principe, e forse i fanciulli gli farebbon drieto la baia e le donne ne trarebbon poco altro piacere che di burlarlo -. Allora il signor Ottaviano, - Poiché tutte l'altre condicioni, - disse, - attribuite al cortegiano se gli confanno ancora che egli sia vecchio, non mi par già che debbiamo privarlo di questa felicità d'amare. - Anzi, disse il signor Gaspar, - levargli questo amare è una perfezion di piú ed un farlo vivere felicemente fuor di miseria e calamità -.
L.
Disse messer Pietro Bembo: - Non vi ricorda, signor Gaspar, che 'l signor Ottaviano, ancora che egli sia male esperto in amore, pur l'altra sera mostrò nel suo gioco di saper che alcuni inamorati sono, li quali chiamano per dolci li sdegni e l'ire e le guerre e i tormenti che hanno dalle lor donne; onde domandò che insegnato gli fosse la causa di questa dolcezza? Però se il nostro cortegiano, ancora che vecchio, s'accendesse di quegli amori che son dolci senza amaritudine, non ne sentirebbe calamità o miseria alcuna; ed essendo savio, come noi presuponiamo, non s'ingannaria pensando che a lui si convenisse tutto quello che si convien ai giovani; ma, amando, ameria forse d'un modo, che non solamente non gli portaria biasimo alcuno, ma molta laude e somma felicità non compagnata da fastidio alcuno, il che rare volte e quasi non mai interviene ai giovani; e cosí non lasseria d'insegnare al suo principe, né farebbe cosa che meritasse la baia da' fanciulli -. Allor la signora Duchessa, - Piacemi, - disse, - messer Pietro, che voi questa sera abbiate avuto poca fatica nei nostri ragionamenti, perché ora con più securtà v'imporremo il carico di parlare ed insegnar al cortegiano questo cosí felice amore, che non ha seco né biasimo né dispiacere alcuno; ché forse sarà una delle piú importanti ed utili condicioni che per ancora gli siano attribuite.
Però dite, per vostra fé, tutto quello che ne sapete -. Rise messer Pietro e disse: - Io non vorrei, Signora, che 'l mio dir che ai vecchi sia licito lo amare, fosse cagion di farmi tener per vecchio da queste donne; però date pur questa impresa ad un altro -. Rispose la signora Duchessa: - Non dovete fuggir d'esser riputato vecchio di sapere, se ben foste giovane d'anni; però dite e non v'escusate piú -. Disse messer Pietro: - Veramente, Signora, avendo io da parlar di questa materia, bisognariami andar a domandar consiglio allo Eremita del mio Lavinello -. Allor la signora Emilia, quasi turbata, - Messer Pietro, - disse, - non è alcuno nella compagnia che sia piú disobidiente di voi; però sarà ben che la signora Duchessa vi dia qualche castigo -. Disse messer Pietro pur ridendo: - Non vi adirate meco, Signora, per amor di Dio; ché io dirò ciò che vorrete. - Or dite adunque, - rispose la signora Emilia.
LI.
Allora messer Pietro, avendo prima alquanto tacciuto, poi rasettatosi un poco, come per parlar di cosa importante, cosí disse: - Signori, per dimostrar che i vecchi possano non solamente amar senza biasimo, ma talor piú felicemente che i giovani, sarammi necessario far un poco di discorso, per dichiarir che cosa è amore ed in che consiste la felicità che possono avere gl'inamorati; però pregovi ad ascoltarmi con attenzione, perché spero farvi vedere che qui non è omo a cui si disconvenga l'esser inamorato, ancor che egli avesse quindici o venti anni piú che 'l signor Morello E quivi essendosi alquanto riso, suggiunse messer Pietro: Dico adunque che, secondo che dagli antichi savi è diffinito, amor non è altro che un certo desiderio di fruir la bellezza; e perché il desiderio non appetisce se non le cose conosciute, bisogna sempre che la cognizion preceda il desiderio; il quale per sua natura vuole il bene, ma da sé è cieco e non lo conosce. Però ha cosí ordinato la natura che ad ogni virtú conoscente sia congiunta una virtú appetitiva; e perché nell'anima nostra son tre modi di conoscere, cioè per lo senso, per la ragione e per l'intelletto, dal senso nasce l'appetito, il qual a noi è commune con gli animali bruti; dalla ragione nasce la elezione, che è propria dell'omo; dall'intelletto, per lo quale l'uom po communicar con gli angeli, nasce la voluntà. Cosí adunque come il senso non conosce se non cose sensibili, l'appetito le medesime solamente desidera; e cosí come l'intelletto non è vòlto ad altro che alla contemplazion di cose intelligibili, quella voluntà solamente si nutrisce di beni spirituali. L'omo, di natura razionale, posto come mezzo fra questi dui estremi, po per sua elezione, inclinandosi al senso o vero elevandosi allo intelletto, accostarsi ai desidèri or dell'una or dell'altra parte. Di questi modi adunque si po desiderar la bellezza; il nome universal della quale si conviene a tutte le cose o naturali o artificiali che son composte con bona proporzione e debito temperamento, quanto comporta la lor natura.
LII.
Ma parlando della bellezza che noi intendemo, che è quella solamente che appar nei corpi e massimamente nei volti umani e move questo ardente desiderio che noi chiamiamo amore, diremo che è un influsso della bontà divina, il quale, benché si spanda sopra tutte le cose create come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e composto con una certa gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi e dall'ombre e da una ordinata distanzia e termini di linee, vi s'infonde e si dimostra bellissimo, e quel subietto ove riluce adorna ed illumina d'una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole che percuota in un bel vaso d'oro terso e variato di preciose gemme; onde piacevolmente tira a sé gli occhi umani e per quelli penetrando s'imprime nell'anima, e con una nova suavità tutta la commove e diletta, ed accendendola da lei desiderar si fa. Essendo adunque l'anima presa dal desiderio di fruir questa bellezza come cosa bona, se guidar si lassa dal giudicio del senso incorre in gravissimi errori e giudica che 'l corpo, nel qual si vede la bellezza, sia la causa principal di quella, onde per fruirla estima essere necessario l'unirsi intimamente piú che po con quel corpo; il che è falso; e però chi pensa, possedendo il corpo, fruir la bellezza, s'inganna e vien mosso non da vera cognizione per elezion di ragione, ma da falsa opinion per l'appetito del senso; onde il piacer che ne segue esso ancora necessariamente è falso e mendoso. E però in un de' dui mali incorrono tutti quegli amanti, che adempiono le lor non oneste voglie con quelle donne che amano; che o vero, súbito che son giunti al fin desiderato, non solamente senton sazietà e fastidio, ma piglian odio alla cosa amata, quasi che l'appetito si ripenta dell'error suo e riconosca l'inganno fattogli dal falso giudicio del senso, per lo quale ha creduto che 'l mal sia bene; o vero restano nel medesimo desiderio ed avidità, come quelli che non son giunti veramente al fine che cercavano; e benché per la cieca opinione, nella quale inebriati si sono, paia loro che in quel punto sentano piacere, come talor gl'infermi che sognano di ber a qualche chiaro fonte, nientedimeno non si contentano, né s'acquetano. E perché dal possedere il ben desiderato nasce sempre quiete e satisfazione nell'animo del possessore, se quello fosse il vero e bon fine del loro desiderio, possedendolo restariano quieti e satisfatti, il che non fanno; anzi, ingannati da quella similitudine, súbito ritornano al sfrenato desiderio e con la medesima molestia che prima sentivano si ritrovano nella furiosa ed ardentissima sete di quello, che in vano sperano di posseder perfettamente. Questi tali inamorati adunque amano infelicissimamente, perché o vero non conseguono mai li desidèri loro, il che è grande infelicità; o ver, se gli consegueno, si trovano aver conseguito il suo male e finìscono le miserie con altre maggior miserie; perché ancora nel principio e nel mezzo di questo amore altro non si sente già mai che affanni, tormenti, dolori, stenti, fatiche; di modo che l'esser pallido, afflitto, in continue lacrime e sospiri, il star mesto, il tacer sempre o lamentarsi, il desiderar di morire, in somma l'esser infelicissimo, son le condicioni che si dicono convenir agli inamorati.
LIII.
La causa adunque di questa calamità negli animi umani è principalmente il senso, il quale nella età giovenile è potentissimo, perché 'l vigor della carne e del sangue in quella stagione gli dà tanto di forza, quanta ne scema alla ragione e però facilmente induce l'anima a seguitar l'appetito; perché ritrovandosi essa summersa nella pregion terrena e, per esser applicata al ministerio di governar il corpo, priva della contemplazion spirituale, non po da sé intender chiaramente la verità; onde, per aver cognizion delle cose, bisogna che vada mendicandone il principio dai sensi, e però loro crede e loro si inchina e da loro guidar si lassa, massimamente quando hanno tanto vigore che quasi la sforzano; e perché essi son fallaci, la empiono d'errori e false opinioni. Onde quasi sempre occorre che i giovani sono avvolti in questo amor sensuale in tutto rubello dalla ragione, e però si fanno indegni di fruire le grazie e i beni che dona amor ai suoi veri suggetti; né in amor sentono piaceri fuor che i medesimi che sentono gli animali irracionali, ma gli affanni molto piú gravi. Stando adunque questo presuposito, il quale è verissimo, dico che 'l contrario interviene a quelli che sono nella età piú matura; ché se questi tali, quando già l'anima non è tanto oppressa dal peso corporeo e quando il fervor naturale comincia ad intepidirsi, s'accendono della bellezza e verso quella volgono il desiderio guidato da razional elezione, non restano ingannati e posseggono perfettamente la bellezza; e però dal possederla nasce lor sempre bene, perché la bellezza è bona e, conseguentemente, il vero amor di quella è bonissimo e santissimo e sempre produce effetti boni nell'anime di quelli, che col fren della ragion correggono la nequicia del senso; il che molto piú facilmente i vecchi far possono che i giovani.
LIV.
Non è adunque fuor di ragione il dire ancor, ch'e vecchi amar possano senza biasimo e piú felicemente che i giovani; pigliando però questo nome di vecchio non per decrepito, né quando già gli organi del corpo son tanto debili, che l'anima per quelli non po operar le sue virtú, ma quando il saper in noi sta nel suo vero vigore. Non tacerò ancora questo; che è ch'io estimo che, benché l'amor sensuale in ogni età sia malo, pur ne' giovani meriti escusazione, e forse in qualche modo sia licito; ché se ben dà loro affanni, pericoli, fatiche e quelle infelicità che s'è detto, son però molti che per guadagnar la grazia delle donne amate fan cose virtuose, le quali benché non siano indrizzate a bon fine, pur in sé son bone; e cosí di quel molto amaro cavano un poco di dolce, e per le avversità che supportano in ultimo riconoscon l'error suo. Come adunque estimo che quei giovani che sforzan gli appetiti ed amano con la ragione sian divini, cosí escuso quelli che vincer si lassano dall'amor sensuale, al qual tanto per la imbecillità umana sono inclinati; purché in esso mostrino gentilezza, cortesia e valore e le altre nobil condicioni che hanno dette questi signori; e quando non son piú nella età giovenile, in tutto l'abbandonino, allontanandosi da questo sensual desiderio, come dal piú basso grado della scala per la qual si po ascendere al vero amore. Ma se ancor, poi che son vecchi, nel freddo core conservano il foco degli appetiti e sottopongon la ragion gagliarda al senso debile, non si po dir quanto siano da biasmare; ché, come insensati, meritano con perpetua infamia esser connumerati tra gli animali irracionali, perché i pensieri e i modi dell'amor sensuale son troppo disconvenienti alla età matura -.
LV.
Quivi fece il Bembo un poco di pausa, quasi come per riposarsi; e stando ognun cheto, disse il signor Morello da Ortona: - E se si trovasse un vecchio piú disposto e gagliardo e di meglior aspetto che molti giovani, perché non vorreste voi che a questo fosse licito amar di quello amore che amano i giovani? - Rise la signora Duchessa e disse: - Se l'amor dei giovani è cosí infelice, perché volete voi, signor Morello, che i vecchi essi ancor amino con quella infelicità? ma se voi foste vecchio, come dicon costoro, non procurareste cosí il mal dei vecchi -. Rispose il signor Morello: - Il mal dei vecchi parmi che procuri messer Pietro Bembo, il qual vole che amino d'un certo modo, ch'io per me non l'intendo; e parmi che 'l possedere questa bellezza, che esso tanto lauda, senza 'l corpo, sia un sogno. - Credete voi, signor Morello, - disse allor il conte Ludovico, - che la bellezza sia sempre cosí bona come dice messer Pietro Bembo? - Io non già, - rispose il signor Morello; - anzi ricordomi aver vedute molte belle donne malissime, crudeli e di spettose; e par che quasi sempre cosí intervenga, perché la bellezza le fa superbe, e la superbia crudeli -. Disse il conte Ludovico ridendo: - A voi forse paiono crudeli perché non vi compiacciono di quello che vorreste; ma fatevi insegnar da messer Pietro Bembo di che modo debban desiderar la bellezza i vecchi e che cosa ricercar dalle donne e di che contentarsi; e non uscendo voi di que' termini, vederete che non saranno né superbe né crudeli e vi compiaceranno di ciò che vorrete -. Parve allor che 'l signor Morello si turbasse un poco, e disse: - Io non voglio saper quello che non mi tocca; ma fatevi insegnar voi come debbano desiderar questa bellezza i giovani peggio disposti e men gagliardi che i vecchi -.
LVI.
Quivi messer Federico, per acquetar il signor Morello e divertir il ragionamento, non lassò rispondere il conte Ludovico, ma interrompendolo disse: - Forse che 'l signor Morello non ha in tutto torto a dir che la bellezza non sia sempre bona, perché spesso le bellezze di donne son causa che al mondo intervengan infiniti mali, inimicizie, guerre, morti e distruzioni; di che po far bon testimonio la ruina di Troia; e le belle donne per lo piú sono o ver superbe e crudeli, o vero, come s'è detto, impudiche; ma questo al signor Morello non parrebbe diffetto. Sono ancor molti omini scelerati, che hanno grazia di bello aspetto, e par che la natura gli abbia fatti tali acciò che siano piú atti ad ingannare, e che quella vista graziosa sia come l'esca nascosa sotto l'amo -. Allora messer Pietro Bembo, - Non crediate, - disse, - che la bellezza non sia sempre bona -. Quivi il conte Ludovico, per ritornar esso ancor al primo proposito, interruppe e disse: - Poiché 'l signor Morello non si cura di saper quello che tanto gl'importa, insegnatelo a me e mostratemi come acquistino i vecchi questa felicità d'amore, ché non mi curerò io di farmi tener vecchio, pur che mi giovi -.
LVII.
Rise messer Pietro e disse: - Io voglio prima levar dell'animo di questi signori l'error loro; poi a voi ancora satisfarò -. Cosí ricominciando, - Signori, - disse, - io non vorrei che col dir mal della bellezza, che è cosa sacra, fosse alcun di noi che come profano e sacrilego incorresse nell'ira di Dio; però, acciò che 'l signor Morello e messer Federico siano ammoniti e non perdano, come Stesicoro, la vista, che è pena convenientissima a chi disprezza la bellezza, dico che da Dio nasce la bellezza ed è come circulo di cui la bontà è il centro; e però come non po essere circulo senza centro, non po esser bellezza senza bontà; onde rare volte mala anima abita bel corpo e perciò la bellezza estrinseca è vero segno della bontà intrinseca e nei corpi è impressa quella grazia piú e meno quasi per un carattere dell'anima, per lo quale essa estrinsecamente è conosciuta, come negli alberi, ne' quali la bellezza de' fiori fa testimonio della bontà dei frutti; e questo medesimo interviene nei corpi, come si vede che i fisionomi al volto conoscono spesso i costumi e talora i pensieri degli omini; e, che è piú, nelle bestie si comprende ancor allo aspetto la qualità dell'animo, il quale nel corpo esprime se stesso piú che po. Pensate come chiaramente nella faccia del leone, del cavallo, dell'aquila si conosce l'ira, la ferocità e la superbia; negli agnelli e nelle colombe una pura e simplice innocenzia; la malicia astuta nelle volpi e nei lupi, e cosí quasi di tutti gli altri animali.
LVIII.
I brutti adunque per lo piú sono ancor mali e li belli boni; e dir si po che la bellezza sia la faccia piacevole, allegra, grata e desiderabile del bene; e la bruttezza la faccia oscura, molesta, dispiacevole e trista del male; e se considerate tutte le cose, trovarete che sempre quelle che son bone ed utili hanno ancor grazia di bellezza. Eccovi il stato di questa gran machina del mondo, la qual, per salute e conservazion d'ogni cosa creata è stata da Dio fabricata. Il ciel rotondo, ornato di tanti divini lumi, e nel centro la terra circundata dagli elementi e dal suo peso istesso sostenuta; il sole, che girando illumina il tutto e nel verno s'accosta al piú basso segno, poi a poco a poco ascende all'altra parte; la luna, che da quello piglia la sua luce, secondo che se le appropinqua o se le allontana; e l'altre cinque stelle che diversamente fan quel medesimo corso. Queste cose tra sé han tanta forza per la connession d'un ordine composto cosí necessariamente, che mutandole per un punto, non poriano star insieme e ruinarebbe il mondo; hanno ancora tanta bellezza e grazia, che non posson gl'ingegni umani imaginar cosa piú bella. Pensate or della figura dell'omo, che si po dir piccol mondo; nel quale vedesi ogni parte del corpo esser composta necessariamente per arte e non a caso, e poi tutta la forma insieme esser bellissima; tal che difficilmente si poria giudicar qual piú o utilità o grazia diano al volto umano ed al resto del corpo tutte le membra, come gli occhi, il naso, la bocca, l'orecchie, le braccia, il petto e cosí l'altre parti; il medesimo si po dir di tutti gli animali. Eccovi le penne negli uccelli, le foglie e rami negli alberi, che dati gli sono da natura per conservar l'esser loro e pur hanno ancor grandissima vaghezza. Lassate la natura e venite all'arte. Qual cosa tanto è necessaria nelle navi, quanto la prora, i lati, le antenne, l'albero, le vele, il timone, i remi, l'ancore e le sarte? tutte queste cose però hanno tanto di venustà, che par a chi le mira che cosí siano trovate per piacere, come per utilità. Sostengon le colonne e gli architravi le alte logge e palazzi, né però son meno piacevoli agli occhi di chi le mira, che utili agli edifici. Quando prima cominciarono gli omini a edificare, posero nei tempii e nelle case quel colmo di mezzo, non perché avessero gli edifici piú di grazia, ma acciò che dall'una parte e l'altra commodamente potessero discorrer l'acque; nientedimeno all'utile súbito fu congiunta la venustà, talché se sotto a quel cielo ove non cade grandine o pioggia si fabricasse un tempio, non parrebbe che senza il colmo aver potesse dignità o bellezza alcuna.
LIX.
Dassi adunque molta laude, non che ad altro, al mondo dicendo che gli è bello; laudasi dicendo: bel cielo. bella terra, bel mare, bei fiumi, bei paesi, belle selve, alberi, giardini; belle città, bei tempii, case, eserciti. In somma, ad ogni cosa dà supremo ornamento questa graziosa e sacra bellezza; e dir si po che 'l bono e 'l bello a qualche modo siano una medesima cosa, e massimamente nei corpi umani; della bellezza de' quali la piú propinqua causa estimo io che sia la bellezza dell'anima che, come participe di quella vera bellezza divina, illustra e fa bello ciò che ella tocca, e specialmente se quel corpo ov'ella abita non è di cosí vil materia, che ella non possa imprimergli la sua qualità; però la bellezza è il vero trofeo della vittoria dell'anima, quando essa con la virtú divina signoreggia la natura materiale e col suo lume vince le tenebre del corpo. Non è adunque da dir che la bellezza faccia le donne superbe o crudeli, benché cosí paia al signor Morello; né ancor si debbeno imputare alle donne belle quelle inimicizie, morti, distrucioni, di che son causa gli appetiti immoderati degli omini. Non negherò già che al mondo non sia possibile trovar ancor delle belle donne impudiche, ma non è già che la bellezza le incline alla impudicizia; anzi le rimove e le induce alla via dei costumi virtuosi, per la connession che ha la bellezza con la bontà; ma talor la mala educazione, i continui stimuli degli amanti, i doni, la povertà, la speranza, gli inganni, il timore e mille altre cause, vincono la constanzia ancora delle belle e bone donne, e per queste o simili cause possono ancora divenir scelerati gli omini belli -.
LX.
Allora messer Cesare, - Se è vero, - disse, - quello che ieri allegò el signor Gaspar, non è dubbio che le belle sono più caste che le brutte. - E che cosa allegai? - disse el signor Gaspar. Rispose messer Cesare: - Se ben mi ricordo, voi diceste che le donne che son pregate, sempre negano di satisfare a chi le prega; e quelle che non son pregate, pregano altrui. Certo è che le belle son sempre piú pregate e sollicitate d'amor, che le brutte; dunque le belle sempre negano, e conseguentemente son piú caste che le brutte, le quali non essendo pregate pregano altrui -. Rise il Bembo e disse: - A questo argumento risponder non si po -. Poi suggiunse: - Interviene ancor spesso che, come gli altri nostri sensi, cosí la vista s'inganna e giudica per bello un volto che in vero non è bello; e perché negli occhi ed in tutto l'aspetto d'alcune donne si vede talor una certa lascivia dipinta con blandicie disoneste, molti, ai quali tal maniera piace perché lor promette facilità di conseguire ciò che desiderano, la chiamano bellezza; ma in vero è una impudenzia fucata, indegna di cosí onorato e santo nome -. Tacevasi messer Pietro Bembo e quei signori pur lo stimulavano a dir piú oltre di questo amore e del modo di fruire veramente la bellezza; ed esso in ultimo, - A me par, - disse, - assai chiaramente aver dimostrato che piú felicemente possan amar i vecchi, che i giovani; il che fu mio presuposto; però non mi si conviene entrar piú avanti -. Rispose il conte Ludovico: - Meglio avete dimostrato la infelicità de' giovani che la felicità de' vecchi, ai quali per ancor non avete insegnato che camin abbian da seguitare in questo loro amore, ma solamente detto che si lassin guidare alla ragione; e da molti è riputato impossibile che amor stia con la ragione -.
LXI.
Il Bembo pur cercava di por fine al ragionamento, ma la signora Duchessa lo pregò che dicesse; ed esso cosí rincominciò: - Troppo infelice sarebbe la natura umana, se l'anima nostra, nella qual facilmente po nascere questo cosí ardente desiderio, fosse sforzata a nutrirlo sol di quello che le è commune con le bestie, e non potesse volgerlo a quella altra nobil parte che a lei è propria; però, poiché a voi pur cosí piace, non voglio fuggir di ragionar di questo nobil suggetto. E perché mi conosco indegno di parlar dei santissimi misterii d'Amore, prego lui che mova il pensiero e la lingua mia, tanto ch'io possa mostrar a questo eccellente cortegiano amar fuor della consuetudine del profano vulgo; e cosí com'io insin da puerizia tutta la mia vita gli ho dedicata, siano or ancor le mie parole conformi a questa intenzione ed a laude di lui. Dico adunque che, poiché la natura umana nella età giovenile tanto è inclinata al senso, conceder si po al cortegiano, mentre che è giovane, l'amar sensualmente; ma se poi ancor negli anni piú maturi per sorte s'accende di questo amoroso desiderio, deve esser ben cauto e guardarsi di non ingannar se stesso, lassandosi indur in quelle calamità che ne' giovani meritano piú compassione che biasimo, e per contrario ne' vecchi piú biasmo che compassione.
LXII.
Però quando qualche grazioso aspetto di bella donna lor s'appresenta, compagnato da leggiadri costumi e gentil maniere, tale che esso, come esperto in amore, conosca il sangue suo aver conformità con quello, súbito che s'accorge che gli occhi suoi rapiscano quella imagine e la portano al core, è che l'anima comincia con piacer a contemplarla e sentir in sé quello influsso che la commove ed a poco a poco la riscalda, e che quei vivi spiriti che scintillan for per gli occhi tuttavia aggiungon nova esca al foco, deve in questo principio provedere di presto rimedio, e risvegliar la ragione e di quella armar la ròcca del cor suo; e talmente chiuder i passi al senso ed agli appetiti, che né per forza né per inganno entrar vi possano. Cosí, se la fiamma s'estingue, estinguesi ancor il pericolo; ma s'ella persevera o cresce, deve allor il cortegiano, sentendosi preso, deliberarsi totalmente di fuggire ogni bruttezza dell'amor vulgare e cosí entrar nella divina strada amorosa con la guida della ragione, e prima considerar che 'l corpo, ove quella bellezza risplende, non è il fonte ond'ella nasce, anzi che la bellezza, per esser cosa incorporea e, come avemo detto, un raggio divino, perde molto della sua dignità trovandosi congiunta con quel subietto vile e corruttibile; perché tanto piú è perfetta quanto men di lui participa e da quello in tutto separata è perfettissima; e che cosí come udir non si po col palato, né odorar con l'orecchie, non si po ancor in modo alcuno fruir la bellezza né satisfar al desiderio ch'ella eccita negli animi nostri col tatto, ma con quel senso del quale essa bellezza è vero obietto, che è la virtú visiva. Rimovasi adunque dal cieco giudicio del senso e godasi con gli occhi quel splendore, quella grazia, quelle faville amorose, i risi, i modi e tutti gli altri piacevoli ornamenti bellezza; medesimamente con l'audito la suavità della voce, il concento delle parole, l'armonia della musica (se musica è la donna amata); e cosí pascerà di dolcissimo cibo l'anima per la via di questi dui sensi, i quali tengon poco del corporeo e son ministri della ragione, senza passar col desiderio verso il corpo ad appetito alcuno men che onesto.
Appresso osservi, compiaccia ed onori con ogni riverenzia la sua donna e piú che se stesso la tenga cara, e tutti i commodi e piaceri suoi preponga ai proprii, ed in lei ami non meno la bellezza dell'animo che quella del corpo; però tenga cura di non lassarla incorrere in error alcuno, ma con le ammonizioni e boni ricordi cerchi sempre d'indurla alla modestia, alla temperanzia, alla vera onestà e faccia che in lei non abbian mai loco se non pensieri candidi ed alieni da ogni bruttezza di vicii; e cosí seminando virtú nel giardin di quel bell'animo, raccorrà ancora frutti di bellissimi costumi e gustaragli con mirabil diletto; e questo sarà il vero generare ed esprimere la bellezza nella bellezza, il che da alcuni si dice esser il fin d'amore. In tal modo sarà il nostro cortegiano gratissimo alla sua donna ed essa sempre se gli mostrerà ossequente, dolce ed affabile, e cosí desiderosa di compiacergli, come d'esser da lui amata; e le voglie dell'un e dell'altro saranno onestissime e concordi ed essi conseguentemente saranno felicissimi -.
LXIII.
Quivi il signor Morello, - Il generar, - disse, - la bellezza nella bellezza con effetto sarebbe il generar un bel figliolo in una bella donna; ed a me pareria molto piú chiaro segno ch'ella amasse l'amante compiacendolo di questo, che di quella affabilità che voi dite -. Rise il Bembo e disse: - Non bisogna, signor Morello, uscir de' termini; né piccoli segni d'amar fa la donna, quando all'amante dona la bellezza, che è cosí preciosa cosa, e per le vie che son adito all'anima, cioè la vista e lo audito, manda i sguardi degli occhi suoi, la imagine del volto, la voce, le parole, che penetran dentro al core dell'amante e gli fan testimonio dell'amor suo -. Disse il signor Morello: - I sguardi e le parole possono essere e spesso son testimonii falsi; però chi non ha meglior pegno d'amore, al mio giudicio, è mal sicuro; e veramente io aspettava pur che voi faceste questa vostra donna un poco più cortese e liberale verso il cortegiano, che non ha fatto il signor Magnifico la sua; ma parmi che tutti dui siate alla condizione di quei giudici, che dànno la sentenzia contra i suoi per parer savi -.
LXIV.
Disse il Bembo: - Ben voglio io che assai piú cortese sia questa donna al mio cortegiano non giovane, che non è quella del signor Magnifico al giovane; e ragionevolmente, perché il mio non desidera se non cose oneste, e però po la donna concedergliele tutte senza biasimo; ma la donna del signor Magnifico, che non è cosí sicura della modestia del giovane, deve concedergli solamente le oneste e negargli le disoneste; però piú felice è il mio, a cui si concede ciò ch'ei dimanda, che l'altro, a cui parte si concede e parte si nega. Ed acciò che ancor meglio conosciate che l'amor razionale è piú felice che 'l sensuale, dico che le medesime cose nel sensuale si debbeno talor negare e nel razionale concedere, perché in questo son disoneste, ed in quello oneste; però la donna, per compiacer il suo amante bono, oltre il concedergli i risi piacevoli, i ragionamenti domestici e secreti, il motteggiare, scherzare, toccar la mano, po venir ancor ragionevolmente senza biasimo insin al bascio, il che nell'amor sensuale, secondo le regule del signor Magnifico, non è licito; perché, per esser il bascio congiungimento e del corpo e dell'anima, pericolo è che l'amante sensuale non inclini piú alla parte del corpo che a quella dell'anima, ma l'amante razionale conosce che, ancora che la bocca sia parte del corpo, nientedimeno per quella si dà esito alle parole che sono interpreti dell'anima, ed a quello intrinseco anelito che si chiama pur esso ancor anima; e perciò si diletta d'unir la sua bocca con quella della donna amata col bascio, non per moversi a desiderio alcuno disonesto, ma perché sente che quello legame è un aprir l'adito alle anime, che tratte dal desiderio l'una dell'altra si transfundano alternamente ancor l'una nel corpo dell'altra e talmente si mescolino insieme che ognun di loro abbia due anime, ed una sola di quelle due cosí composta regga quasi dui corpi; onde il bascio si po piú presto dir congiungimento d'anima che di corpo, perché in quella ha tanta forza che la tira a sé e quasi la separa dal corpo; per questo tutti gli inamorati casti desiderano il bascio, come congiungimento d'anima; e però il divinamente inamorato Platone dice che basciando vennegli l'anima ai labri per uscir del corpo. E perché il separarsi l'anima dalle cose sensibili e totalmente unirsi alle intelligibili, si po denotar per lo bascio, dice Salomone nel suo divino libro della Cantica «Bascimi col bascio della sua bocca», per dimostrar desiderio che l'anima sua sia rapita dall'amor divino alla contemplazion della bellezza celeste di tal modo, che unendosi intimamente a quella abbandoni il corpo -.
LVX.
Stavano tutti attentissimi al ragionamento del Bembo; ed esso, avendo fatto un poco di pausa e vedendo che altri non parlava, disse: - Poiché m'avete fatto cominciare a mostrar l'amore felice al nostro cortegiano non giovane, voglio pur condurlo un poco piú avanti; perché star in questo termine è pericoloso assai, atteso che, come piú volte s'è detto, l'anima è inclinatissima ai sensi; e benché la ragion col discorso elegga bene e conosca quella bellezza non nascer dal corpo e però ponga freno ai desidèri non onesti, pur il contemplarla sempre in quel corpo spesso preverte il vero giudicio; e quando altro male non ne avvenisse, il star assente dalla cosa amata porta seco molta passione, perché lo influsso di quella bellezza, quando è presente, dona mirabil diletto all'amante e riscaldandogli il core risveglia e liquefà alcune virtú sopite e congelate nell'anima, le quali nutrite dal calore amoroso si diffundeno e van pullulando intorno al core, e mandano fuor per gli occhi quei spirti, che son vapori sottilissimi, fatti della piú pura e lucida parte del sangue, i quali ricevono la imagine della bellezza e la formano con mille varii ornamenti; onde l'anima si diletta e con una certa maraviglia si spaventa e pur gode e, quasi stupefatta, insieme col piacere sente quel timore e riverenzia che alle cose sacre aver si sòle e parle d'esser nel suo paradiso.
LVXI.
L'amante adunque che considera la bellezza solamente nel corpo, perde questo bene e questa felicità súbito che la donna amata, assentandosi, lassa gli occhi senza il suo splendore e, conseguentemente, l'anima viduata del suo bene; perché, essendo la bellezza lontana, quell'influsso amoroso non riscalda il core come faceva in presenzia, onde i meati restano àrridi e secchi, e pur la memoria della bellezza move un poco quelle virtù dell'anima, talmente che cercano di diffundere i spirti; ed essi, trovando le vie otturate, non hanno esito, e pur cercano d'uscire, e cosí con quei stimuli rinchiusi pungon l'anima e dànnole passione acerbissima, come a' fanciulli quando dalle tenere gingive cominciano a nascere i denti. E di qua procedono le lacrime, i sospiri, gli affanni e i tormenti degli amanti; perché l'anima sempre s'affligge e travaglia e quasi diventa furiosa, fin che quella cara bellezza se le appresenta un'altra volta; ed allor súbito s'acqueta e respira ed a quella tutta intenta si nutrisce di cibo dulcissimo, né mai da cosí suave spettacolo partir vorria. Per fuggir adunque il tormento di questa assenzia e goder la bellezza senza passione, bisogna che 'l cortegiano con l'aiuto della ragione revochi in tutto il desiderio dal corpo alla bellezza sola e, quanto piú po, la contempli in se stessa simplice e pura e dentro nella imaginazione la formi astratta da ogni materia; e cosí la faccia amica e cara all'anima sua, ed ivi la goda e seco l'abbia giorno e notte, in ogni tempo e loco, senza dubbio di perderla mai; tornandosi sempre a memoria che 'l corpo è cosa diversissima dalla bellezza, e non solamente non le accresce, ma le diminuisce la sua perfezione. Di questo modo sarà il nostro cortegiano non giovane fuor di tutte le amaritudini e calamità che senton quasi sempre i giovani, come le gelosie, i sospetti, li sdegni, l'ire, le disperazioni e certi furor pieni di rabbia dai quali spesso son indutti a tanto error, che alcuni non solamente batton quelle donne che amano, ma levano la vita a se stessi; non farà ingiuria a marito, padre, fratelli o parenti della donna amata; non darà infamia a lei; non sarà sforzato di raffrenar talor con tanta difficultà gli occhi e la lingua per non scoprir i suoi desidèri ad altri; non di tollerar le passioni delle partite, né delle assenzie; ché chiuso nel core si porterà sempre seco il suo precioso tesoro ed ancora per virtú della imaginazione si formerà dentro in se stesso quella bellezza molto piú bella che in effetto non sarà.
LVXII.
Ma tra questi beni troveranne lo amante un altro ancor assai maggiore, se egli vorrà servirsi di questo amore come d'un grado per ascendere ad un altro molto piú sublime: il che gli succederà, se tra sé anderà considerando come stretto legame sia il star sempre impedito nel contemplar la bellezza d'un corpo solo; e però, per uscire di questo cosí angusto termine, aggiungerà nel pensier suo a poco a poco tanti ornamenti, che cumulando insieme tutte le bellezze farà un concetto universale e ridurrà la moltitudine d'esse alla unità di quella sola che generalmente sopra la umana natura si spande; e cosí non piú la bellezza particular d'una donna, ma quella universale, che tutti i corpi adorna, contemplarà; onde offuscato da questo maggior lume, non curerà il minore, ed ardendo in piú eccellente fiamma, poco estimarà quello che prima avea tanto apprezzato. Questo grado d'amore, benché sia molto nobile e tale che pochi vi giungono, non però ancor si po chiamar perfetto, perché per essere la imaginazione potenzia organica e non aver cognizione se non per quei principi che le son sumministrati dai sensi, non è in tutto purgata delle tenebre materiali; e però, benché consideri quella bellezza universale astratta ed in sé sola, pur non la discerne ben chiaramente, né senza qualche ambiguità per la convenienzia che hanno i fantasmi col corpo, onde quelli che pervengono a questo amore sono come i teneri augelli che cominciano a vestirsi di piume, che, benché con l'ale debili si levino un poco a volo, pur non osano allontanarsi molto dal nido, né commettersi a' venti ed al ciel aperto.
LVXIII.
Quando adunque il nostro cortegiano sarà giunto a questo termine, benché assai felice amante dir si possa a rispetto di quelli che son summersi nella miseria dell'amor sensuale, non però voglio che se contenti, ma arditamente passi più avanti, seguendo per la sublime strada drieto alla guida che lo conduce al termine della vera felicità; e cosí in loco d'uscir di se stesso col pensiero, come bisogna che faccia chi vol considerar la bellezza corporale, si rivolga in se stesso per contemplar quella che si vede con gli occhi della mente, li quali allor cominciano ad esser acuti e perspicaci, quando quelli del corpo perdono il fior della loro vaghezza; però l'anima, aliena dai vicii, purgata dai studi della vera filosofia, versata nella vita spirituale ed esercitata nelle cose dell'intelletto, rivolgendosi alla contemplazion della sua propria sustanzia, quasi da profundissimo sonno risvegliata, apre quegli occhi che tutti hanno e pochi adoprano, e vede in se stessa un raggio di quel lume che è la vera imagine della bellezza angelica a lei communicata, della quale essa poi communica al corpo una debil umbra; però, divenuta cieca alle cose terrene, si fa oculatissima alle celesti; e talor, quando le virtú motive del corpo si trovano dalla assidua contemplazione astratte, o vero dal sonno legate, non essendo da quelle impedita, sente un certo odor nascoso della vera bellezza angelica, e rapita dal splendor di quella luce comincia ad infiammarsi e tanto avidamente la segue, che quasi diviene ebria e fuor di se stessa, per desiderio d'unirsi con quella, parendole aver trovato l'orma di Dio, nella contemplazion dei quale, come nel suo beato fine, cerca di riposarsi; e però, ardendo in questa felicissima fiamma, si leva alla sua piú nobil parte, che è l'intelletto; e quivi, non piú adombrata dalla oscura notte delle cose terrene, vede la bellezza divina; ma non però ancor in tutto la gode perfettamente, perché la contempla solo nel suo particular intelletto, il qual non po esser capace della immensa bellezza universale. Onde, non ben contento di questo beneficio, amore dona all'anima maggior felicità; ché, secondo che dalla bellezza particular d'un corpo la guida alla bellezza universal di tutti i corpi, cosí in ultimo grado di perfezione dallo intelletto particular la guida allo intelletto universale. Quindi l'anima, accesa nel santissimo foco del vero amor divino, vola ad unirsi con la natura angelica e non solamente in tutto abbandona il senso, ma piú non ha bisogno del discorso della ragione; ché, transformata in angelo, intende tutte le cose intelligibili, e senza velo o nube alcuna vede l'amplo mare della pura bellezza divina ed in sé lo riceve, e gode quella suprema felicità che dai sensi è incomprensibile.
LXIX.
Se adunque le bellezze, che tutto dí con questi nostri tenebrosi occhi veggiamo nei corpi corruttibili, che non son però altro che sogni ed umbre tenuissime di bellezza, ci paion tanto belle e graziose, che in noi spesso accenden foco ardentissimo e con tanto diletto, che riputiamo niuna felicità potersi agguagliar a quella che talor sentimo per un sol sguardo che ci venga dall'amata vista d'una donna, che felice maraviglia, che beato stupore pensiamo noi che sia quello, che occupa le anime che pervengono alla visione della bellezza divina! che dolce fiamma, che incendio suave creder si dee che sia quello, che nasce dal fonte della suprema e vera bellezza! che è principio d'ogni altra bellezza, che mai non cresce né scema; sempre bella e per se medesima, tanto in una parte, quanto nell'altra, simplicissima; a se stessa solamente simile, e di niuna altra participe; ma talmente bella, che tutte le altre cose belle son belle perché da lei participan la sua bellezza. Questa è quella bellezza indistinta dalla somma bontà, che con la sua luce chiama e tira a sé tutte le cose; e non solamente alle intellettuali dona l'intelletto, alle razionali la ragione, alle sensuali il senso e l'appetito di vivere, ma alle piante ancora ed ai sassi communica, come un vestigio di se stessa, il moto e quello instinto naturale delle lor proprietà. Tanto adunque è maggiore e piú felice questo amor degli altri, quanto la causa che lo move è più eccellente; e però, come il foco materiale affina l'oro, cosí questo foco santissimo nelle anime distrugge e consuma ciò che v'è di mortale e vivifica e fa bella quella parte celeste, che in esse prima era dal senso mortificata e sepulta. Questo è il rogo, nel quale scrivono i poeti esser arso Ercule nella summità del monte Oeta e per tal incendio dopo morte esser restato divino ed immortale'; questo è lo ardente rubo di Mosè, le lingue dispartite di foco, l'infiammato carro di Elia, il quale raddoppia la grazia e felicità nell'anime di coloro che son degni di vederlo, quando da questa terrestre bassezza partendo se ne vola verso il cielo. Indriciamo adunque tutti i pensieri e le forze dell'anima nostra a questo santissimo lume, che ci mostra la via che al ciel conduce; e drieto a quello, spogliandoci gli affetti che nel descendere ci eravamo vestiti, per la scala che nell'infimo grado tiene l'ombra di bellezza sensuale ascendiamo alla sublime stanzia ove abita la celeste, amabile e vera bellezza, che nei secreti penetrali di Dio sta nascosta, acciò che gli occhi profani veder non la possano; e quivi trovaremo felicissimo termine ai nostri desidèri, vero riposo nelle fatiche, certo rimedio nelle miserie, medicina saluberrima nelle infirmità, porto sicurissimo nelle turbide procelle del tempestoso mar di questa vita.
LXX.
Qual sarà adunque, o Amor santissimo, lingua mortal che degnamente laudar ti possa? Tu, bellissimo, bonissimo, sapientissimo, dalla unione della bellezza e bontà e sapienzia divina derivi ed in quella stai, ed a quella per quella come in circulo ritorni. Tu dulcissimo vinculo del mondo, mezzo tra le cose celesti e le terrene, con benigno temperamento inclini le virtú superne al governo delle inferiori e, rivolgendo le menti de' mortali al suo principio, con quello le congiungi. Tu di concordia unisci gli elementi, movi la natura a produrre e ciò che nasce alla succession della vita. Tu le cose separate aduni, alle imperfette dài la perfezione, alle dissimili la similitudine, alle inimiche la amicizia, alla terra i frutti, al mar la tranquillità, al cielo il lume vitale. Tu padre sei de' veri piaceri, delle grazie, della pace, della mansuetudine e benivolenzia, inimico della rustica ferità, della ignavia, in somma principio e fine d'ogni bene. E perché abitar ti diletti il fior dei bei corpi e belle anime e di là talor mostrarti un poco agli occhi ed alle menti di quelli che degni son di vederti, penso che or qui fra noi sia la tua stanzia. Però dégnati, Signor, d'udir i nostri prieghi, infundi te stesso nei nostri cori e col splendor del tuo santissimo foco illumina le nostre tenebre e come fidata guida in questo cieco labirinto mostraci il vero camino. Correggi tu la falsità dei sensi e dopo 'l lungo vaneggiare donaci il vero e sodo bene; facci sentir quegli odori spirituali che vivifican le virtú dell'intelletto, ed udir l'armonia celeste talmente concordante, che in noi non abbia loco piú alcuna discordia di passione; inebriaci tu a quel fonte inesausto di contentezza che sempre diletta e mai non sazia, ed a chi bee delle sue vive e limpide acque dà gusto di vera beatitudine; purga tu coi raggi della tua luce gli occhi nostri dalla caliginosa ignoranzia, acciò che piú non apprezzino bellezza mortale e conoscano che le cose che prima veder loro parea, non sono, e quelle che non vedeano veramente sono; accetta l'anime nostre, che a te s'offeriscono in sacrificio; abbrusciale in quella viva fiamma che consuma ogni bruttezza materiale, acciò che in tutto separate dal corpo, con perpetuo e dolcissimo legame s'uniscano con la bellezza divina, e noi da noi stessi alienati, come veri amanti, nello amato possiam transformarsi, e levandone da terra esser ammessi al convivio degli angeli, dove, pasciuti d'ambrosia e nèttare immortale, in ultimo moriamo di felicissima e vital morte, come già morirono quegli antichi Padri, l'anime dei quali tu con ardentissima virtú di contemplazione rapisti dal corpo e congiungesti con Dio -.
LXXI.
Avendo il Bembo insin qui parlato con tanta veemenzia, che quasi pareva astratto e fuor di sé, stavasi cheto e immobile, tenendo gli occhi verso il cielo, come stupido; quando la signora Emilia, la quale insieme con gli altri era stata sempre attentissima ascoltando il ragionamento, lo prese per la falda della robba e scuotendolo un poco disse: - Guardate, messer Pietro, che con questi pensieri a voi ancora non si separi l'anima dal corpo. - Signora, - rispose messer Pietro, - non saria questo il primo miraculo, che amor abbia in me operato -. Allora la signora Duchessa e tutti gli altri cominciarono di novo a far instanzia al Bembo che seguitasse il ragionamento, e ad ognuno parea quasi sentirsi nell'animo una certa scintilla di quell'amor divino che lo stimulasse, e tutti desideravano d'udir piú oltre; ma il Bembo, - Signori, - suggiunse, - io ho detto quello che 'l sacro furor amoroso improvvisamente m'ha dettato; ora che par che piú non m'aspiri, non saprei che dire; e penso che amor non voglia che piú avanti siano scoperti i suoi secreti, né che il cortegiano passi quel grado che ad esso è piacciuto ch'io gli mostri; e perciò non è forse licito parlar piú di questa materia -.
LXXII.
- Veramente, - disse la signora Duchessa, - se 'l cortegiano non giovane sarà tale che seguitar possa il camino che voi gli avete mostrato, ragionevolmente dovrà contentarsi di tanta felicità e non avere invidia al giovane -. Allora messer Cesare Gonzaga, - La strada, - disse, - che a questa felicità conduce, parmi tanto erta, che a gran pena credo che andar vi si possa -. Suggiunse il signor Gaspar: - L'andarvi credo che agli omini sia difficile, ma alle donne impossibile -. Rise la signora Emilia e disse: - Signor Gaspar, se tante volte ritornate al farci ingiuria, vi prometto che non vi si perdonerà piú -.
Rispose il signor Gaspar: - Ingiuria non vi si fa, dicendo che l'anime delle donne non sono tanto purgate dalle passioni come quelle degli omini, né versate nelle contemplazioni, come ha detto messer Pietro che è necessario che sian quelle che hanno da gustar l'amor divino. Però non si legge che donna alcuna abbia avuta questa grazia, ma sí molti omini come Platone, Socrate e Plotino e molt'altri; e de' nostri tanti santi Padri come san Francesco, a cui un ardente spirito amoroso impresse il sacratissimo sigillo delle cinque piaghe; né altro che virtú d'amor poteva rapire san Paulo apostolo alla visione di quei secreti di che non è licito all'uom parlare; né mostrar a san Stefano i cieli aperti -. Quivi rispose il Magnifico Iuliano: - Non saranno in questo le donne punto superate dagli omini, perché Socrate istesso confessa, tutti i misterii amorosi che egli sapeva, essergli stati rivelati da una donna, che fu quella Diotima; e l'angelo che col foco d'amor impiagò san Francesco, del medesimo carattere ha fatto ancor degne alcune donne alla età nostra. Dovete ancor ricordarvi che a santa Maria Magdalena furono rimessi molti peccati perché ella amò molto, e forse non con minor grazia che san Paulo fu ella molte volte rapita dall'amor angelico al terzo cielo; e di tante altre, le quali, come ieri piú diffusamente narrai, per amor del nome di Cristo non hanno curato la vita, né temuto i strazi, né alcuna maniera di morte, per orribile e crudele che ella fosse; e non erano, come vole messer Pietro che sia il suo cortegiano, vecchie, ma fanciulle tenere e delicate, ed in quella età nella quale esso dice che si deve comportar agli omini l'amor sensuale -.
LXXIII.
Il signor Gaspar cominciava a prepararsi per rispondere; ma la signora Duchessa, - Di questo, - disse, - sia giudice messer Pietro Bembo e stiasi alla sua sentenzia, se le donne sono cosí capaci dell'amor divino come gli omini, o no. Ma perché la lite tra voi potrebbe esser troppo lunga, sarà ben a differirla insino a domani. - Anzi a questa sera, - disse messer Cesare Gonzaga. - E come a questa sera? - disse la signora Duchessa. Rispose messer Cesare: - Perché già è di giorno; - e mostrolle la luce che incominciava ad entrar per le fissure delle finestre. Allora ognuno si levò in piedi con molta maraviglia, perché non pareva che i ragionamenti fossero durati piú del consueto, ma per l'essersi incominciati molto piú tardi e per la loro piacevolezza aveano ingannato quei signori tanto, che non s'erano accorti del fuggir dell'ore; né era alcuno che negli occhi sentisse gravezza di sonno, il che quasi sempre interviene, quando l'ora consueta del dormire si passa in vigilia. Aperte adunque le finestre da quella banda del palazzo che riguarda l'alta cima del monte di Catri, videro già esser nata in oriente una bella aurora di color di rose e tutte le stelle sparite, fuor che la dolce governatrice del ciel di Venere, che della notte e del giorno tiene i confini; dalla qual parea che spirasse un'aura soave, che di mordente fresco empiendo l'aria, cominciava tra le mormoranti selve de' colli vicini a risvegliar dolci concenti dei vaghi augelli. Onde tutti, avendo con riverenzia preso commiato dalla signora Duchessa, s'inviarono verso le lor stanzie senza lume di torchi, bastando lor quello del giorno; e quando già erano per uscir dalla camera, voltossi il signor Prefetto alla signora Duchessa e disse: - Signora, per terminar la lite tra 'l signor Gaspar e 'l signor Magnifico, veniremo col giudice questa sera piú per tempo che non si fece ieri -. Rispose la signora Emilia: - Con patto che se 'l signor Gaspar vorrà accusar le donne e dar loro, come è suo costume, qualche falsa calunnia, esso ancora dia sicurtà di star a ragione, perch'io lo allego suspetto fuggitivo -.
FINE