IL LIBRO DELLE
VERGINI
di Gabriele D'Annunzio
2. |
Le
vergini |
26. |
Favola
sentimentale |
33. |
Nellassenza
di Lanciotto |
44. |
Ad
altare Dei |
LE VERGINI
I.
Il viatico uscì
dalla porta della chiesa a mezzogiorno. Su tutte le strade era la
primizia della neve, su tutte le case era la neve. Ma in alto
grandi isole azzurre apparivano tra le nuvole nevose, si
dilatavano su 'l palazzo di Brina lentamente, s'illuminavano
verso la Bandiera. E nell'aria bianca, sul paese bianco appariva
ora subitamente letificante il miracolo del sole.
Il viatico s'incamminava
alla casa di Giuliana; la gente si fermava a veder passare il
prete incedente a capo nudo, con la stola violacea, sotto l'ampio
ombrello scarlatto, tra le lanterne portate dai chierici accese.
La campanella squillava limpidamente accompagnando i salmi
sussurrati dal prete. I cani vagabondi si scansavano nei vicoli
al passaggio. Mazzanti cessò di ammucchiare la neve all'angolo
della piazza e si scoprì la calvizie, inchinandosi. Si spandeva
in quel punto dal forno di Flajano nell'aria l'odore caldo e sano
del pane recente, quell'odore che éccita il palato.
Nella casa dell'inferma
li astanti udirono li squilli, e udirono su per le scale il
salire dei vegnenti. Giuliana era su 'l letto, supina, tenuta
dallo stupore della febbre, da una sonnolenza inerte, con la
respirazione frequente rotta da i rantoli. Su 'l candore del
guanciale posava la testa quasi nuda di capelli, la faccia d'un
colore quasi ceruleo ove le palpebre erano semichiuse sopra li
occhi vischiosi e le narici parevano annerite dal fumo. Ella
aveva nelle mani scarnificate certi piccoli moti incoscienti,
certi vaghi conati di prendere qualche cosa nel vuoto, certi
strani segni improvvisi che davano come un senso di terrore a chi
stava da presso; e nelle braccia pallide si producevano a volte
certe contrazioni di fasci muscolari, i sussulti dei tendini;
e a volte un balbettamento inintelligibile le usciva dalle labbra
come se le parole le si impigliassero nella fuliggine della
lingua, nel muco tenace delle gengive.
Nella stanza si
faceva quel silenzio tragico che suole precedere gli avvenimenti
supremi, un silenzio dove il respiro dell'inferma e i
gesticolamenti incerti e le irruzioni rauche della tosse
bronchiale acquistavano una specie di solennità fúnebre. Dalle
finestre aperte entrava l'aria pura ed uscivano le esalazioni
della malattia. Un vivo bagliore bianco si rinfrangeva dalla neve
coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell'arco di
Portanova; una efflorescenza cristallina di ghiaccioli
scintillava d'iridi all'altezza della stanza. Nell'interno, su le
pareti, pendevano grandi medaglie sacre d'ottone; pendevano
imagini di santi. Sotto un vetro una Madonna di Loreto tutta nera
il volto il seno le braccia; come un idolo barbarico, emergeva
glorificata dalla veste d'oro ove le mezze lune salivano. In un
angolo, un piccolo altare candido sorgeva con un vecchio Gesù di
avorio su una croce intarsiata di madreperla, con due boccali
turchini di Castelli pieni d'erbe aromatiche.
Camilla, la sorella,
l'unica parente, presso al letto, pallidissima, tergeva le labbra
nerastre e i denti incrostati dell'inferma con un lino umido di
aceto. Don Vincenzo Bucci, il medico, seduto, guardava il pomo d'argento
della bella mazza, le belle corniole incise ch'egli aveva negli
anelli delle dita, aspettando. Teodora La Jece, una tessitrice
vicina, stava ritta, in silenzio, tutta intenta nell'atteggiare
la faccia bianca e lentigginosa, gli occhi grigi di piombo, la
bocca crudele al dolore.
- Pax huic domui
- disse il prete entrando. Apparve sull'uscio Don Gennaro Tierno,
una figura altissima e smilza, tutta ad angoli, poggiata su piedi
enormi. Veniva dietro di lui Rosa Catena, una femmina che aveva
fatto pubblica professione d'impudicizia al suo tempo verde e che
ora si salvava l'anima assistendo i moribondi, lavando i cadaveri,
vestendoli e accomodandoli nella bara, senza prender mercede.
Nella stanza di
Giuliana tutti erano in ginocchio, chini la faccia. L'inferma non
udiva; una stupefazione intensa le teneva ancora i sensi. E l'aspersorio
si levò su di lei, lucido nell'aria, aspergendo il letto.
- Asperges, me
domine, hyssopo, et mundabor... - Ma Giuliana non sentì l'onda
purificatrice che la rendeva più bianca della neve innanzi al
suo Signore.
Ella stirava davanti
a sé con le dita fragili le coperte, aveva un moto tremulo nelle
labbra, nella gola il gorgoglio della parola che ella non poteva
profferire.
- Exaudi nos,
domine sancte...
Allora uno scoppio
di pianto risonò fra le parole latine, e Camilla nascose sulla
sponda del letto la faccia rigata di lacrime. Il medico s'era
accostato e teneva fra le dita inanellate il polso di Giuliana.
Egli voleva scuoterla, apprestarla a ricevere il Sacramento dalle
mani del sacerdote di Gesù Cristo, fare che ella porgesse la
lingua all'ostia.
Giuliana balbettò,
gesticolò, ancora vagamente nel vuoto, mentre la sollevavano su
i guanciali. Ella doveva sentire un tintinnio nei nervi dell'orecchio
perturbati forse dalle grida, forse una musica. Come fu sollevata,
subitamente il rossore livido della faccia si mutò in un pallore
di cadavere; la vescica di ghiaccio cadde dalla testa su 'l
lenzuolo.
- Misereatur...
Porse ella
finalmente la lingua tremante, coperta di una crosta mista di
muco e di sangue nerastro, dove l'ostia vergine si posò.
- Ecce agnus Dei,
ecce qui tollit peccata mundi...
Ma ella non ritirò
la lingua a quel contatto, perché non aveva coscienza di quel
che faceva; lo stupidimento non era rotto dal lume dell'Eucaristia.
Camilla guardava con gli occhi rossi pieni di terrore e di dolore
quella faccia terrea dove ogni segno di vita mancava a poco a
poco, quella bocca aperta che pareva la bocca di uno strangolato.
Il prete seguitava, nella solennità del suo ministerio, le
preghiere latine lentamente. Tutti gli altri rimanevano
genuflessi, sotto il diffuso albore che fuori dalla neve
suscitava il meriggio. Un buffo d'odore di pane caldo salì col
vento e fece fremere le papille del naso ai clerici.
- Oremus...
Alli eccitamenti del
medico Giuliana richiuse le labbra. La riadagiarono supina;
poiché il prete entrava nel sacramento dell'Estrema Unzione. Dai
clerici genuflessi suonava sommessamente l'antifona dei Salmi
penitenziali.
- Ne reminiscaris.
Teodora La Jece
metteva di tratto in tratto un singulto soffocato, coperta il
volto con le palme a' piedi del letto. Rosa Catena stava ritta, a
canto, con un occhio semichiuso da cui le colava di continuo un
liquido giallognolo e con l'altro occhio cieco e bianco per un'albùgine,
scorreva un rosario, mormorando. E mentre i Salmi sommessamente
dal pavimento si elevavano, su quel mormorìo confuso dominava la
formola sacra del prete ungente in croce li occhi, li orecchi, le
narici, la bocca, le mani dell'inferma inerte.
- ...indulgeat
tibi Dominus quidquid per gressum deliquisti. Amen.
Fu Camilla che
scoperse i piedi della sorella; apparvero tra le coperte due
piedi gialli, squamosi, lividi nelle unghie, che al tatto davano
un ribrezzo di membra morte. E su quella pelle secca le lacrime
caddero, si mescolarono con l'unzione estrema.
- Kyrie eleison.
Christe eleison. Kyrie eleison. Pater noster...
L'unta del Signore
stava ora immobile, respirando, con li occhi chiusi dinanzi alla
luce, con le ginocchia sollevate e le mani strette fra le cosce
in quell'atteggiamento così abituale alli ammalati di tifo. E il
prete, poi ch'ebbe premuto sulle labbra di lei per l'ultima volta
il crocefisso, fatto il segno della croce alto in mezzo alla
stanza con la gran mano, uscì seguito dai clerici. Vagava ancora
nella stanza quell'odore svanito d'incenso e di cera che hanno le
vesti sacerdotali. Fuori, sotto le finestre, Matteo Puriello
martellava la suola canticchiando.
II.
I segni del male
declinavano lentamente in favore: succedeva ora il quarto
settenario, succedeva al sopore stupido la quiete naturale
del sonno, una quiete durevole in cui a poco a poco tutte le
perturbazioni della coscienza si sedavano e le facoltà del senso
si facevano meno torbide e la frequenza della respirazione
diminuiva. Ma una tosse aspra scoppiava a tratti nel petto dell'inferma,
facendo sussultare le vertebre; una distruzione dolorosa della
pelle e dei tessuti molli si compiva ai gomiti, alle ginocchia,
all'estremità della schiena, di giorno in giorno. Quando Camilla
si chinava su 'l letto chiamando - Giuliana! - la sorella tentava
aprire li occhi, volgersi verso la voce. Ma la debolezza la
opprimeva; lo stupore torbido le occupava di nuovo il senso.
Ella aveva fame,
ella aveva fame. Una bramosia bestiale di cibo le torturava le
viscere vuote, le dava alla bocca quel movimento vago delle
mandibole chiedenti qualche cosa da masticare, le dava talvolta
alle povere ossa delle mani quelle contrazioni prensili che hanno
le dita delle scimmie golose alla vista del pomo. Era la fame
canina della convalescenza del tifo, quella terribile avidità di
nutrimento vitale in tutte le cellule del corpo impoverite dal
lungo malore. Una scarsa onda di sangue restava a pena circolante
pei tessuti; nel cervello debolmente irrigato ogni attività
ristagnava come in un machina a cui la forza motrice del liquido
difetti. Soltanto, in quella materia disordinatamente ora si
producevano certe vibrazioni determinanti certi arti che nella
vita anteriore erano abituali; né di quel lavorìo meccanico
aveva la convalescente coscienza. Ella per lo più diceva ad alta
voce le letanie; divideva in sillabe parole senza senso;
minacciava punizioni a discepoli; cantava le strofe quinarie di
un inno a Gesù. Aveva per lo più nell'indice della mano
sinistra un moto di indicazione scorrente su l'orlo del lenzuolo,
come se ella con quel segno guidasse l'occhio dei discepoli su le
righe del libro. Poi, talvolta, la sua voce si sollevava,
prendeva una solennità quasi minacciosa, pronunciando le
ammonizioni delle sette trombe, ricordando confusamente le parole
di fra Bartolomeo da Saluzzo ai peccatori, avendo forse nelli
occhi stupefatti la visione di quelle vecchie stampe impresse dal
legno piene di deformi angeli tubanti e di demonii debellati. Ma
nelli occhi non mai aveva uno sguardo. Le palpebre pesanti
coprivano l'iride a metà, quell'iride senza colore spersa nella
sclerotica che pareva come velata da un muco giallastro. Ella
stava nel suo letto distesa, con il capo su due guanciali. Quasi
tutti i capelli le erano caduti nella malattia; un pallor terreo,
di quei pallori sotto cui pare non anche possa rimanere la vita,
le occupava la faccia, le cavità della faccia; e il teschio ne
traspariva e da tutta la restante aridezza della pelle lo
scheletro traspariva, e intorno a tutto quell'ossame nei punti di
pressione sul letto i tessuti aderenti degeneravano. Solo, un'immensa
fame animava quella rovina, torturava gl'intestini ove le ulceri
tifose si cicatrizzavano lentamente.
Fuori era la novena
di Natale, la bella festività de' vecchi e de' fanciulli. Erano
certi vespri chiari e rigidi, sotto cui tutto il paese di Pescara
si popolava di marinari e si empiva dei suoni delle zampogne. L'odore
acuto delle zuppe di pesce si propagava nell'aria dalle cantine
aperte. Lentamente, alle finestre, alle porte, nelle vie, i lumi
apparivano. Il sole indugiava roseo su i terrazzi di pietra della
casa di Farina, sui comignoli della casa Memma, su 'l campanile
di San Giacomo. Le altezze illustri dominavano come fari su 'l
paese occupato dall'ombra. Poi, d'un tratto, la notte cominciava
a constellare i firmamenti; sopra le case di Sant'Agostino una
mezza luna si affacciava dal bastione tra il fanale rosso e il
pino del telegrafo, crescendo.
Alla stanza di
Giuliana tutta quell'animazione di vita saliva in un romorìo
confuso di alveare che si sveglia.
Le pastorall delle
zampogne si avvicinavano, di casa in casa, di porta in porta;
avevano una religiosa e familiare letizia quei suoni che i
ciociari di Atina traevano da un otre di pecora e da un gruppo di
canne forate. La convalescente udiva, si sollevava su 'l letto;
poiché quella sensazione le ridestava i fantasmi di altre
sensazioni trascorse, e gli occhi gli si empivano tutti di
visione sacra, di presepi raggianti e di bianchi peregrinaggi d'angeli
in azzurri immacolati. Ella si metteva a cantare le laudi,
tendendo le braccia, restando talvolta con la bocca aperta mentre
la voce nelli organi le mancava; ella si metteva a laudare Gesù
con una elevazione ardente e dolce di amore, trasportata dai
suoni delle pastorali appressantisi, allucinata dalle imagini
sante delle pareti. Ascendeva ai cieli, tra le musiche dei
cherubini, tra i vapori della mirra e dell'incenso.
- Hosanna!
La voce le mancava. Ella tendeva le braccia. Camilla da presso, voleva riadagiarla su i guanciali; si sentiva come soggiogare da quel cieco entusiasmo di fede; le tremavano le mani, le labbra. Giuliana ricadeva stesa, con il capo abbandonato, scoperta la gola e il petto, mostrando delli occhi solo il bianco nel gran pallore, sorridente a qualche cosa invisibile, in un atteggiamento di vergine martire
Le zampogne
passavano; tardi passavano le canzoni del vino gridate dai
marinari nella notte tornanti alle barche della Pescara.
III.
L'istinto della fame
si ridestava vivissimo, come più chiara si faceva la coscienza.
Quando dal forno di Flajano saliva nell'aria l'odore caldo del
pane, Giuliana chiedeva; chiedeva con un accento di mendicante
famelica, tendeva la mano, supplicando, alla sorella. Divorava
rapidamente, con un godimento brutale di tutto l'essere,
guardando d'intorno se qualcuno tentasse strapparle di tra le
mani il cibo, in sospetto.
La convalescenza era
lunga e lenta; ma già un senso mite di sollievo cominciava a
spargersi per le membra, a liberare il capo. Per quella sana
nutrizione di albume e di carne muscolare un sangue novello si
produceva: i polmoni dilatati ora largamente dall'aria
vivificavano il sangue carico di sostanze; e i tessuti irrigati
dall'onda tiepida e rapida si colorivano ricomponendosi, si
rinnovellavano nelle piaghe di decubito, si ricoprivano a poco a
poco; e le attività cerebrali a quell'affluire operavano sicure;
e le innervazioni negli organi sensorii non più perturbate
rendevano limpida la sensazione; e sul cranio i bulbi capilliferi
rigermogliavano densi; da quel riordinamento delle leggi
meccaniche della vita, da quel dispiegarsi di energie prima
latenti che la malattia aveva provocate, da quella intensa brama
che la convalescente aveva di vivere e di sentirsi vivere, da
tutto, lentamente, quasi in una seconda nascita, una creatura
migliore sorgeva.
Erano i giorni primi
di febbraio.
Dal suo letto
Giuliana vedeva la sommità dell'arco di Portanova, i mattoni
rossicci fra cui crescevano le erbe. i capitelli sgretolati dove
le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant'Anna nelle
screpolature del fastigio non anche fiorivano. Il cielo sopra si
apriva in una gentile beatitudine di colore; e per l'aria a
tratti giungevano dall'arsenale li squilli dellefanfare.
Fu allora che, quasi
con un senso di meraviglia, ella riandò l'esistenza trascorsa.
Le pareva quasi che quel passato non le appartenesse, non fosse
suo: una lontananza smisurata ora la divideva da quei ricordi,
una lontananza come di sogno. Ella non aveva più la valutazione
sicura del tempo; ella doveva guardare li oggetti che la
circondavano, fare uno sforzo della mente, raccogliersi a lungo,
per ricordare. Si toccava con le dita le tempia dove i capelli
rigerminavano tenui, e un sorriso vago di smemorata le sfiorava
le labbra pallide, le fuggiva nelli occhi.
- Ah! - sussurrò
fioca! e il gesto delle dita alle tempia le ritornava gentilmente.
Era stata una vita
triste ed uguale, in quelle tre stanze, fra tutte quelle piccole
statue deformi di Santi, fra tutte quelle imagini di madonne, fra
tutti quei bimbi compitanti in coro ad alta voce per cinque ore
del giorno le medesime parole scritte col gesso su la lavagna.
Come le martiri gloriose della leggenda, come Santa Tecla di
Licaonia e Santa Eufemia di Calcedonia, le due sorelle avevano
consacrata la loro verginità allo sposo celeste, al talamo di
Gesù. Avevano mortificata la carne a furia di privazioni e di
preghiere, respirando l'aria della chiesa, l'incenso e l'odore
delle candele ardenti, cibandosi di legumi.
Avevano stupefatto
lo spirito in quell'esercizio arido e lungo di sillabazione, in
quel freddo distillio di parole, in quell'opera macchinale dell'ago
e del filo su le eterne tele bianche odoranti di spigo e di
santità. Mai le loro mani cercarono la fronte dei discepoli, in
una effusione di tenerezza improvvisa. Insegnavano la piccola
dottrina, i piccoli canti della religione; facevano prostrare
tutte quelle teste gioconde lungamente sotto le ammonizioni
quaresimali; parlavano del peccato, delli orrori del peccato,
delle pene eterne, con la voce grave, mentre tutti quei grandi
occhi si empivano di meraviglia e tutte quelle bocche rosee si
aprivano allo stupore. Intorno, per le fantasie vive dei
fanciulli le cose si animavano; dal fondo dei vecchi quadri
uscivano certi profili giallognoli di santi misteriosi; e il
Nazareno cinto di spine e di stille di sangue guardava da ogni
parte con gli occhi agonizzanti, perseguitando; e su per la gran
cappa del camino ogni macchia di fumo prendeva una forma atroce.
Così infondevano esse la fede in quelle anime inconsapevoli.
Ora il ricordo di
quella sterilità si destò in Giuliana torbidamente. Ella
risaliva, risaliva alli anni più lontani per una naturale
tendenza dello spirito, si rifugiava alle fonti; e una pienezza
improvvisa di giubilo la inondò come se in un momento tutta la
sua infanzia le rifluisse al cuore.
- Camilla! Camilla!
- chiamò. - Dove sei?
La sorella non
rispose, non stava nell'altra stanza; era forse andata giù,
nella chiesa, al vespro. Allora una tentazione prese la
convalescente, di mettere i piedi a terra, di provare i passi su
'l pavimento, così, sola.
Rideva d'un riso
timido di bambina che esiti in una impresa difficile; socchiudeva
li occhi soffermandosi nel nuovo diletto di quel pensiero;
palpava con le dita le ginocchia, le caviglie esili,
raccogliendosi, come per misurare la forza; e rideva, rideva
poiché il riso le insinuava uno sfinimento dolce, una sottile
delizia, vibrante in tutto l'essere.
Una freccia di sole
strisciava sul davanzale e feriva l'acqua di un bacile in un
angolo; il riflesso mobile veniva nella parete, come una fine
trama di oro. Uno stuolo di colombi attraversò lo spazio e venne
a posare su l'arco; parve un augurio. Ella pianamente scansò le
coperte, ebbe ancora un'esitazione; seduta su la sponda del letto
cercava con la punta del piede scarno e giallo la pianella di
lana. La trovò, trovò l'altra; ma ora una tenerezza l'assaliva
e le si empivano di lacrime li occhi, e tutto tremolava dinanzi a
lei in un albore indistinto come se le cose in torno si facessero
aeree ed evanissero. Le lacrime le rigavano le guance, le si
fermavano alla bocca tiepide e salse: ella ne bevve alcune, ne
sentì il sapore. Fuori, dall'arco i colombi ad uno ad uno, si
rialzavano, frullando. Giuliana con un moto delle fauci respinse
il groppo del pianto; poi si poggiò sulla sponda, premette, si
alzò finalmente in piedi; sorrise dalli occhi umidi, guardandosi.
Non sapeva di essere così debole, di non potersi così reggere
diritta sulle gambe; aveva una strana sensazione di formicolio
nelli stinchi, di vellicamento nei muscoli, quasi la sensazione d'un
ferito che si levi quando l'osso infranto non anche è ben
saldato. Tentò di muovere un passo, avanzò il piede,
timidamente: ebbe paura, sedette di nuovo su la sponda,
guardandosi in torno come per assicurarsi che non la spiava
alcuno. Poi cercò un punto di meta, la finestra, e ricominciò,
pianamente, con li occhi fissi sul piede che avanzava, in
equilibrio, stringendosi lo scialle verde al petto, invasa un
poco dal freddo. Un subitaneo spavento la prese, a mezzo: ella
barcollò, agitò le mani, si rivolse verso il letto, mise tre o
quattro passi precipitosi, ricadde su la sponda. Stette un
momento là, in affanno; rientrò sotto le coperte dove ancora
restava il tepore, s'avvolse e si raccolse rabbrividendo.
- Come son debole,
Signore!...
E guardava curiosa
su 'l pavimento il luogo dove ella aveva fatto i passi, quasi vi
cercasse le orme.
IV.
Di questo primo
tentativo non disse nulla alla sorella. Quando sentì Camilla
rientrare, chiuse li occhi, stette immobile come una dormiente,
provando uno strano piacere in sé di quell'inganno, ricacciando
a forza indietro il riso che la vellicava a sommo del petto e le
saliva alle labbra. Ella gioiva di quel piccolo segreto: tutti i
giorni aspettava con un desiderio inquieto l'ora in cui Camilla
scendeva le scale; restava un momento in ascolto, seduta su 'l
letto, fin che giungeva il rumore del lento discendere; poi si
levava, soffocando li scoppi di riso, appoggiandosi alle pareti,
ai mobili, mettendo gridi di paura sommessi ogni volta che
le ginocchia minacciavano di piegarsi, ogni volta che l'equilibrio
mancava.
Dal Forno di Flajano
a quell'ora saliva quasi sempre l'odore del pane ad irritarla.
Ella si avvicinava alla finestra per cercare il vento; provava
una tortura mista di voluttà nell'aspirare quella emanazione
sana, con la lingua nuotante nell'acquolina e li occhi vivi di
cupidigia. Allora la prendeva una furia di frugare da per tutto,
di mettere da per tutto le mani, traendosi di qua di là con
minore lentezza, facendo sforzi inutili e irosi su le serrature
di cui Camilla aveva portato seco le chiavi. Una volta, in fondo
al repostiglio di un tavolino trovò una mela e ci ficcò i denti
golosamente. Da tempo nel regime severo della convalescenza, ella
non assaporava un frutto. In quello era un fresco profumo di rosa,
il profumo accolto che certe mele aggrinzite e scolorite hanno.
Cercò di nuovo nel repostiglio, sperando; ma non trovò che una
specie di siliqua verdognola, chiusa, che doveva contenere forse
un gruppo di semi; e la prese, la guardò curiosamente, la
nascose sotto il guanciale.
Passava così quell'ora,
in segreto, con il godimento acre che danno ai fanciulli in
guarigione le cose proibite, le infrazioni delli ordini dottorali,
i piccoli furti. Solo testimone era un micio, tutto maculato come
una pelle di serpente, che girava talvolta intorno a Giuliana con
un miagolìo famigliare o si fermava teso invano a ghermire se
fuori volavano su l'arco i colombi. A poco a poco Giuliana
prendeva amore a quel compagno discreto. Ella lo accoglieva nel
tepore del letto, gli sussurrava parole senza nesso, lo guardava
lungamente leccarsi con la lingua rosea la zampa, porgere la gola
di lucertola alla blandizia, una gola gialliccia che palpitava d'un
suono rauco e dolce simile al tubare delle tortore nei boschi.
Ella, forse per un naturale ricorso di quel suo misticismo
anteriore, amava i bagliori tralucenti dalli occhi dell'animale
nella penombra, quelli sprazzi di fosforo, che emanavano da una
forma misteriosa e silenziosa nella penombra.
Camilla vedeva tutte
queste strane predilezioni della sorella, con una specie di
diffidenza ed anche di rammarico sordo, ma taceva. E lentamente,
quasi insensibilmente, quelle due anime si distaccavano, si
allontanavano per repulsa.
Erano prima vissute
in una comunione di abitudini e di sentimenti continua, perché
in loro ogni diversità d'indole e ogni insorgimento si
agguagliava e placava nell'unica fede, nel culto infrangibile
della deità di Cristo, in quel contemplamento ch'era divenuto lo
scopo della vita loro. Ma come il culto le assorbiva intere, in
loro i legami della consanguineità a poco a poco erano stati,
direi quasi, coperti e sopraffatti da quelli della comune
religione; quindi non mai una espansione di tenerezza, non mai un
abbandono di confidenza o di ricordi o di speranze, come tra
sorelle. Erano correligionarie, erano membri della grande
famiglia di Gesù spersi su la terra e agognanti il cielo.
Così che a pena,
per la rinnovazione operata prima dalla malattia e dopo dal
regime, in Giuliana si manifestarono inaspettati atteggiamenti d'indole
e modi inconsueti, la repulsa avvenne inevitabile e la voce del
comun sangue sopita non si poté levare a contrasto.
V.
I discepoli
tornarono: fu la prima volta una mattina del marzo nascente.
Giuliana s'era levata dal letto; stava seduta su la sponda, col
calore del sole alla nuca ed alli omeri. Nella stanza si sentiva
l'odore agro dell'aceto che Camilla aveva versato nei calamai
muffiti; e dalle finestre raramente il vento recava li effluvi
delle viole già fiorite su l'arco.
Fu allora una
irruzione d'infanzia nella stanza. Fu prima sull'uscio un
sospingersi tumultuoso di piccole teste che volevano sollevarsi
le une su le altre per vedere, poi una esitazione, una timidità,
una specie di meraviglia ingenua dinanzi alla maestra pallida
pallida e scarna che i discepoli riconoscevano a pena.
Ma Giuliana
sorrideva, sotto un turbamento improvviso di tutto il suo sangue;
Giuliana li chiamava a sé, confondeva i loro nomi che le si
affollavano alle labbra e tendeva loro le mani. A uno, a due, a
tre, i bimbi si avanzavano, volevano prenderle le mani per
metterci la bocca sopra, ridicevano le parole di augurio imparate
a casa, ingoiando per la furia le sillabe.
- No, no, non più!
- esclamava Giuliana, sopraffatta, ma abbandonando le mani a
quelle bocche tiepide e molli. Si sentiva quasi mancare.
- Camilla, tienili,
tienili.
Ogni bimbo recava un
dono: erano fiori, erano frutta. Le violette avevano subito
sparso il profumo nell'aria, e in quel profumo, in quella luce
tutte quelle faccie infantili invermigliate dal buon sangue
plebeo sorridevano.
Poi la scuola, nell'altra
stanza, cominciò. La prima classe diceva a voce alta le vocali e
i dittonghi, la seconda sillabava; e su quel coro chiarissimo a
tratti si levava l'ammonimento di Camilla.
- La, le, li, lo,
lu...
Nelli intervalli di
silenzio, si udiva Matteo Puriello picchiare su le suola o il
telaio della Jece sbattere.
- Va, ve, vi, vo,
vu...
Allora il fastidio
oppresse Giuliana. La monotonia de' rumori e delle voci le dava
al capo una pesantezza ingrata, le conciliava il sonno, mentre
ella voleva essere desta, mentre ella sentiva ancora intorno a
sé la respirazione dei fanciulli, il soffio giocondo di quelle
vite.
- Bal, bel, bil,
bol, bul...
Prese i fiori, li
mise in un bicchiere pieno d'acqua per conservarli. Li fiutò poi
lungamente. Stette con le narici tra quel fresco, chiudendo li
occhi, raccogliendosi tutta in quel peccato d'olfatto.
- Gra, gre, gri,
gro, gru...
Una gran nuvola
bianca velò il sole. Giuliana si accostò alla finestra, si
sporse al davanzale per guardar giù nella piazza. Di fronte,
Donna Fermina Memma in una roba rosata stava su 'l balcone tra i
vasi dei garofani; e un gruppo di uffiziali passava sotto a lei
ridendo e facendo un tintinnìo di sciabole su 'l lastrico. Più
in là, nel giardino publico le piante di lilla erano su 'l
fiorire, la punta del gigantesco pino si piegava al vento. Dalla
cantina di Lucitino usciva Verdura, l'eterno ubriaco, barcollando
e vociferando.
Giuliana si ritrasse:
era la prima volta, dopo tanto, che si affacciava su la piazza.
Le parve di essere in alto in alto, guardando in giù; la prese
una leggera vertigine.
- Nar, ner, nir,
nor, nur...
Il coro dentro
seguitava, ancora, ancora, ancora.
- Pla, ple, pli,
plo, plu...
Giuliana si sentiva
soffocare, venir meno, a quella tortura: i suoi poveri nervi
indeboliti cedevano. Il coro seguitava, al ritmo della bacchetta
di Camilla battuta su 'l tavolino, implacabile.
- Ram, rem, rim,
rom, rum...
- Sat, set, sit,
sot, sut...
Allora un impeto
subitaneo di singhiozzi squassò Giuliana, l'abbatté su 'l letto.
Ella singhiozzava. così, bocconi, a braccia aperte, premendo la
faccia su i guanciali, senza potersi frenare.
- Tal, tel, til,
tol, tul...
VI.
Le erano ricresciuti
tutti i capelli, crespi e castanei, come prima. Ella aveva ora
una curiosità grande di guardarsi nello specchio; perché Rosa
Catena, con uno di quei lezii che sempre svelavano in lei l'antica
femmina impudica, passandole la mano su 'l corpo le aveva detto:
- Bellezza!
Aspettò dunque che
Camilla uscisse; poi scese dal letto, staccò dalla parete uno di
quelli specchi rococò a cornice d'oro appannati di
macchie verdi; con un lembo della coperta tolse la polvere e si
guardò dentro, sorridendo. Ella aveva tutto il collo nudo e pe 'l
collo certe vene azzurrognole quasi in rilievo, e nella testa
piccola e lunga qualche cosa di caprino, la bocca fine, il mento
acuto, li occhi castanei come i capelli, ma più tendenti al
giallo. Il pallore trasparente e il sorriso davano una grazia
nuova, una nuova giovinezza ai suoi ventisette anni.
Ella restò a
guardarsi a lungo; e godeva allontanare lentamente lo specchio e
veder sparire l'imagine in quella luce un po' glauca come in un
velo d'acqua marina, e quindi riemergere. La vanità la
conquistava, la occupava. Ella si accorse di tante piccole cose a
cui prima non aveva badato mai; per esempio, di un neo simile a
una lenticchia, che le macchiava la pelle sulla tempia sinistra,
e di una cicatrice leggera che le attraversava l'arco di un
sopracciglio. Restò così a lungo. Poi assalita da una gioia
repentina cercò in torno un diletto.
Quella cupola
vegetale, ch'ella aveva trovato in fondo a un repostiglio, s'era
aperta come in due valve scoprendo un grappolo denso di semi
nerastri. Ogni seme pareva legato a filamenti sottilissimi d'una
lucidità argentea; e il grappolo si manteneva compatto. Ma a
pena Giuliana vi mise un soffio, un nuvolo di piumoline bianche
si levò nell'aria e si sparpagliò qua e là brillando: erano le
spie. I semi parevano alati, parevano insetti èsili ed
evanescenti che si dissolvessero incontrando i raggi del sole o
parevano lanugini di cigno a pena visibili; ondeggiavano,
ricadevano, si mescolavano ai capelli di Giuliana, le sfioravano
la faccia, la coprivano tutta. Ella rideva, difendendosi da quell'invasione,
cercando di scacciare quella pelurie che le vellicava la pelle e
le si attaccava alle mani; ma le risa le impedivano i soffi.
Alla fine si distese
lunga su 'l letto, lasciò che tutta quella molle nevicata le
scendesse sopra lentamente. Teneva gli occhi semichiusi per
prolungare la dolcezza; e a mano a mano che il sopore la invadeva,
si sentiva come sommergere in un giaciglio alto di piume. La luce
che entrava nella stanza era una di quelle pallide chiarità
pomeridiane del mese di marzo, ove la rosea letizia solare ride
modestamente estinguendosi come un indizio di aurora in un gran
cielo albeggiante.
Camilla trovò la
sorella ancora addormentata con accanto lo specchio, con ne'
capelli le spie.
- Oh, Signore Gesù!
oh Signore Gesù! - mormorò tra i denti, congiungendo le mani,
in atto di compassione amara.
La cristiana veniva
dalla chiesa, dove aveva cantate le litanie per l'Annunciazione e
aveva ascoltata la predica su 'l messaggio dell'Arcangelo all'ancella
di Dio. Ecce Ancilla Domini. L'eloquenza sonora del frate
predicante l'aveva inebriata; le restavano ancora negli orecchi
certe parole ammonitrici.
Giuliana si destava
in quel momento con un lungo sbadiglio voluttuoso, e stirava le
membra.
- Ah! sei tu,
Camilla? - disse ella un po' confusa di quella presenza.
- Sono io, sono io!
tu ti perderai, sciagurata, tu ti perderai - irruppe la devota,
additando lo specchio su 'l letto. - Tu hai tra le mani lo
strumento del demonio...
Ed eccitata dalla
prima irruzione, ella seguitava, sollevava la voce, gittava le
frasi ardenti della predica, con de' grandi gesti nell'aria
incalzava nelle minacce dei castighi eterni, non si rivolgeva
soltanto a Giuliana, assorgeva ad ammonire l'universo dei
peccatori.
- Memento!
memento!
Giuliana non
intendeva più nulla poiché tutta quella vociferazione l'aveva
stordita.
D'un tratto dall'angolo
della piazza scoppiò la fanfara militare in uno squillo di venti
trombe.
VII.
L'ultima stanza
della casa era stretta e bassa, con le travi del soffitto
annerite dal fumo, piena d'un lezzo di cipolle, di rigovernatura
e di carbone spento. I vasi di rame pendevano alla parete in
ordine, senza luccichìo; i piatti di Castelli stavano in ordine
su la mensola con le loro gioconde pitture di fiori, di uccelli e
di teste d'uomini; le antiche lucerne di ottone, le bottiglie
vuote, le foglie di erbaggio non più fresche erano sparpagliate
per le tavole; e su tutto dominava proteggitore San Vincenzo
effigiato con il gran libro in una mano e la fiamma rossa in
mezzo al cranio.
Là, nel vecchio
tempo, Giuliana stando in mezzo ai vapori dell'acqua bollente e
alle esalazioni dei cibi vegetali, spesso aveva sentito giungersi
su 'l capo dalla piccola finestra alta i ritornelli d'una canzone
libertina e certi larghi schiamazzi di risa che s'inseguivano. I
canti e le risa crescevano nelle sere di estate, tra i passagalli
delle chitarre, fra li urti della danza su 'l terreno. Tutti i
romori della vita d'una suburra infima salivano, in certe ore, a
quella altezza e facevano tremare d'orrore le povere spose di
Gesù chine in umiltà su i tegami d'argilla pieni dell'eremitica
innocenza dei legumi e delle verdure. Ma ora, al novel tempo e
gaio, come un giorno udì Giuliana le voci, una voglia nell'animo
le corse di spinger la vista fuori.
Camilla non stava
nella casa; era la domenica quinta di Lazzaro. Urgeva nell'aria,
dopo le brevi piogge, con un più dolce alito di calore l'imminenza
dell'aprile; e in quell'aria la pulzella più aveva pieno e
chiaro il senso del suo rinascimento. E, in ozio, girando per le
stanze, ebbe ella naturalmente la curiosità di guardare, presa
al fascino malsano che li spettacoli di lascivia esercitano anche
su li animi verecondi.
Ella salì su una
sedia all'altezza dell'apertura; ma prima di spingere lo sguardo
innanzi, fu invasa da un turbamento di tremiti, e ritta su la
sedia si volse intorno temente se non qualcuno la sorprendesse
nell'atto.
Intorno tutto era
quieto: ogni tanto una gocciola di acqua cadeva dall'alto di un
bacile, sonando. Di fuori salivano le voci ed allettavano.
Giuliana,
rassicurata, guardò. Nel vicolo, sotto la pioggia il fracidume
aveva fermentato come un lievito; una melma nera copriva il
lasrtico, ove spoglie di frutta, residui di erbe, stracci,
ciabatte marce, falde di cappello, tutto il ciarpame sfatto che
la miseria gitta nella strada, si mescolavano. Su quella cloaca,
in cui il sole suscitava inserti e miasmi, una fila di case nane
soffocava addossata alla Caserma. Da tutte le finestre però, da
tutti li spiragli si riversavano le piante dei garofani non più
contenute nei vasi; e i grandi fiori rosei e rossi penzolavano al
sole aperti magnificamente. E tra quei fiori apparivano le facce
flosce e dipinte delle meretrici, passavano le oscenità delle
canzonette, le risa gutturali: e giù su 'l lastrico, sotto le
inferriate della caserma, altre femmine si tendevano verso i
soldati parlando a voce alta, provocandoli.
E i soldati che
sentivano nel sangue alla primavera rifiorire i mali di Venere,
allungavano le mani di tra le sbarre pur di brancicare qualcosa,
divoravano con li occhi in fiamme quelle femmine usate già per
anni dalla lascivia di tante ciurme briache e di tanti facchini
fradici.
Giuliana stette lì
stupidita allo spettacolo di tutta quella corruzione di lupanare
fermentante pe 'l buon sole di quaresima e salente fino a lei.
Non si ritraeva ancora; ma come alzò li occhi, vide in un
abbaino su 'l tetto della caserma un uomo biondo che la guardava
e sorrideva. Ella scese dalla sedia a precipizio, più pallida di
prima, credendo di sentire la voce di Camilla. Corse nella sua
stanza, e si gettò sul letto, sbigottita, senza respiro, come se
l'avesse perseguitata qualcuno minacciandola.
VIII.
Da quel giorno,
tutte l'ore, tutti i momenti in cui Camilla non era nella casa,
una sollecitazione violenta di desiderio la trascinava a quello
spettacolo. Ella prima pugnava, vanamente, senza forze,
lasciandosi vincere. Andava là con l'ansia sospettosa di chi va
a un ritrovo di amore; ci restava lungo tempo, dietro la persiana
quasi cadente, mentre i miasmi del lupanare la turbavano e la
corrompevano.
Ella spiava tutto,
acuendo lo sguardo, cercando di penetrare nelli interni, cercando
di scoprire qualche cosa fra i garofani che chiudevano le
finestre. Il sole era caldo e pesante: sciami d'insetti
turbinavano nell'aria. Ad intervalli quando entrava nel vicolo
qualche uomo, venivano dalle finestre i richiami delle aspettanti;
femmine discinte, con il seno scoperto, uscivano fuori ad
offerirsi. L'uomo spariva in una delle porte oscure con l'eletta.
Le deluse gittavano scherni e risa dietro la coppia, e si
rimettevano all'agguato tra i garofani.
Così in Giuliana si
accendeva la brama. Il bisogno dell'amore, prima latente, si
levava ora da tutto il suo essere, diventava una tortura, un
supplizio incessante e feroce da cui ella non sapeva difendersi.
Un fiotto di sanità caldo la riempiva; certe sùbite gioie di vivere le muovevano il sangue, le mettevano nel petto quasi dei battimenti d'ale, le mettevano de' canti nella bocca. A volte un soffio, uno di quei piccoli fremiti dell'aria che si dilata sotto il sole, una canzone di mendicante, un odore, un nulla bastava a darle smarrimenti vaghi, abbandoni in cui le pareva di sentire su tutte le membra come il passaggio carezzevole del velluto d'un frutto maturo. Ella era così librata e perduta in abissi ignoti di dolcezza. L'irritazione della continenza, la sovrabbondanza insolita de' succhi, quel distendersi continuo dei nervi sotto li stimoli la tenevano in una specie di stordimento simile al primo stadio dell'ebbrezza; pareva come de' vapori le salissero al cervello dal cuore e le dessero una visione rossa. Il passato si dileguava, si assopiva in fondo alla memoria, non risorgeva più. E in ogni ora, in ogni luogo il desiderio le tendeva insidie; i santi delle mura, le madonne, i cristi crocefissi ignudi, le piccole figure di cera deformi, tutte le cose intorno, prendevano per lei apparenze impure.
Da tutte le cose l'impurità
emanava e le alitava su la persona, affocantemente. Era allora
una suprema pugna, in cui la coscienza si curvava, la volontà si
piegava, i sensi sopravvincevano.
- Ecco, ora scendo
nella strada - diceva ella a sé stessa, non reggendo più.
Poi le mani le
tremavano su la porta, nell'aprire: il chiavistello scorrente
nelli anelli le dava ancora un'immagine oscena. Ella tornava in
dietro, si gettava su 'l letto quasi svenendosi, livida, sotto un
fantasma d'uomo.
IX.
La domenica delle
Palme ella uscì dopo tanti mesi, per la prima volta; poiché
Camilla voleva condurla a render grazie della guarigione al
Signore. Quando le campane si misero a squillare, Giuliana s'affacciò.
Tutto il paese era ridente nel grande riso pasquale del sole d'aprile.
Tutto il contado invadeva le vie con il segno pacifico dei rami
di olivo.
Ella ora doveva
vestirsi in festa; la gente nelle vie l'avrebbe guardata passare.
Una furia di vanità sùbito la prese; si chiuse nella stanza;
cercò in fondo alla cassa le vesti più chiare. Un odore acuto
di canfora saliva da quei vecchi tessuti conservati là dentro
per anni; erano grandi gonne di seta a fiorami, verdi e violette
e cangianti, che nel vecchio tempo la crinolina aveva forse
gonfiate intorno alle anche di una sposa novella; erano lunghi
busti con màniche ampie, mantelline color di tortora orlate di
merletti bianchi, veli intrecciati di fili di argento, collari di
tela fina ricamati a giorno; tutte cose morte per l'uso, goffe,
macchiate dall'umido.
Giuliana sceglieva,
come guidata da un nuovo istinto, profumandosi di canfora le mani
nel cercare. Tutta quella seta inutile e quei veli la irritavano;
non trovava alfine nulla che le andasse alla persona. Chiuse la
cassa irosamente, la respinse sotto il letto con un urto del
piede. Le campane suonavano per la terza volta. Ella si mise in
furia il consueto abito triste color di cenere, in cospetto di
Camilla, mordendosi le labbra per ricacciare in giù le lacrime.
Le campane
chiamavano. Per le vie i fasci delle palme mettevano un mobile
luccicore argenteo; da ogni gruppo di villici sorgeva una selva
di ramoscelli; e una candida clemenza di benedizione cristiana si
diffondeva per tutta l'aria da quelle selve, come se si
appressasse il Galileo, il re povero e dolce sedente su l'asina
fra la turba dei discepoli, in contro alli osanna del popolo
redento. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in
excelsis!
Nella chiesa la
folla era immensa, la selva delle palme era immensa. Per una di
quelle correnti che si formano irresistibili nelle masse del
popolo, Giuliana fu divisa da Camilla; restò sola in quel
rigurgito, in mezzo a tutti quei contatti, in mezzo a tutti
quelli urti, a tutti quelli aliti. Ella tentava aprirsi un varco:
le sue mani incontravano delle schiene d'uomini, delle altre mani
tiepide il cui tocco la turbavano. Ella si sentiva sfiorare il
volto da una foglia d'olivo, contrastare il passo da un ginocchio,
spingere il fianco da un gomito, offendere il petto, offendere le
spalle da pressioni incognite. Sotto l'odore dell'incenso, sotto
le palme benedette, nella penombra mistica, in tutto quell'ammasso
di cristiani e di cristiane piccole scintille erotiche scoccavano
per attrito e si propagavano; amori segreti si ritrovavano e si
congiungevano. Passavano accanto a Giuliana fanciulle della
campagna con palme su 'l petto, con un riso fuggente nel bianco
delli occhi vòlto ad amatori che dietro le insidiavano; ed ella
sentiva in torno a sé così passare l'amore, ella si trovava
così a mettere il suo corpo tra quei corpi che si cercavano,
ella era un ostacolo a quei gesti che tentavano toccarsi, ella
separava le strette di quelle mani, i legami di quelle braccia.
Ma qualche cosa di quelle carezze interrotte le penetrava nel
sangue. In un punto ella s'incontrò a faccia a faccia con un
soldato biondo; quasi gli posò il capo su la tunica, perché una
colonna di gente dietro la spingeva. Ella levò li occhi; e il
giovine sorrise come aveva sorriso un giorno dall'abbaino della
caserma. Dietro, l'urto seguitava: il vapore dell'incenso si
spandeva più denso, e il Diacono dal fondo cantò:
- Procedamus in
pace.
E il coro rispose:
- In nomine
Cristi. Amen.
Era l'annunzio della
processione, che mise un sommovimento enorme in tutto il popolo.
Per una violenza d'istinto, senza pensare, Giuliana si attaccò
all'uomo, come se già gli appartenesse; si lasciò quasi
sollevare da quelle braccia che la prendevano ai fianchi, si
sentì ne' capelli quel fiato virile che sapeva lievemente di
tabacco. Ella andava così, indebolita, sfinita, oppressa da
quella voluttà che l'aveva colta d'improvviso, non vedendo che
un barbaglio dinanzi a sé.
Allora dall'altare
maggiore si mosse il turiferario spargendo nuvoli di fumo cerulo
e dolce su 'l popolo; e una processione candida si svolse nel
mezzo della chiesa. I celebranti portavano in mano rami d'olivo e
cantavano.
X.
Tutta la settimana
santa protesse delle sue complici ombre l'amore di Giuliana. Le
chiese erano immerse nel crepuscolo della passione, i crocifissi
su li altari erano coperti di drappi violacei; i sepolcri del
Nazareno erano circondati di grandi erbe bianche cresciute ne'
sotterranei; un profumo di fiori e di belgiuino caricava l'aria.
Là Giuliana,
inginocchiata, attendeva, fin ché un passo leggero dietro di lei
la faceva trasalire. Ella non poteva volgersi, perché Camilla la
vigilava; ma ella si sentiva tutta abbracciare dallo sguardo di
quell'uomo, come da un fuoco sottile, e una tenerezza di desìo
le scendeva nella carne. Allora fissava i ceri ardenti in scala
su un triangolo di legno presso l'altare. I preti cantavano d'innanzi
a un gran libro; e ad uno ad uno i ceri venivano spenti. Non ne
rimanevano che cinque, non ne rimanevano che due; l'oscurità si
avanzava dal fondo delle cappelle su la gente in preghiera. L'ultima
fiammella finalmente spariva; tutte le panche risonavano sotto le
battiture delle verghe. Giuliana nel buio, a pena si sentiva
toccare da due mani cercanti, scattava dal pavimento, con un
sussulto, smarrita. Poi, quando usciva dalla chiesa, il pensiero
d'aver violato un luogo sacro la empiva di rimorso: subitamente,
dal sostrato della sua coscienza l'idea del castigo risorgeva.
Era poi come un sogno dove la figura livida di Gesù morto e lo
scroscio delle battiture e i brividi della carne sollecitata e l'odor
grave dei fiori e li aliti di quell'uomo biondo si mescolavano in
un senso dubbio di dolore e di piacere.
XI.
Ma come Gesù
trionfante risalì alla gloria dei cieli, li aromi pasquali non
più confortarono l'amore di Giuliana. Scena dell'amore fu allora
il dominio dei gatti randagi e dei colombi terrajuoli. Dall'abbaino
alla finestra i dolci segni correvano: tra mezzo il lupanare si
sprofondava come un fossato d'acque limacciose a' cui cigli
crescessero fiori alimentati dalla putredine. I colombi
sorvolavano con il luccicchio verde e grigio delle loro piume.
L'amadore aveva un
bel nome antico, si chiamava Marcello, e aveva un bel fregio
rosso e d'argento su le maniche della tunica. Scriveva delle
epistole piene di fuoco eterno, con frasi impetuose che davano
all'amadrice deliqui di tenerezza e fremiti di voluttà mal
contenuta. Giuliana leggeva quei fogli in segreto, li teneva
notte e giorno nel seno: pe 'l calore la scrittura violetta le s'imprimeva
su la pelle, ed era come un gentile tatuaggio d'amore, di cui
ella gioiva. Le risposte di lei non finivano mai: tutta la
sapienza grammaticale di una maestra, tutto il tesoro delle
apostrofi psalmistiche di una devota, tutta la fluente
sentimentalità di una pulzella tardiva si riversava su la carta
de' quaderni scolastici rigata di turchino. Ella scrivendo si
obliava, si sentiva trascinare in un'onda di verbosità sonora:
pareva quasi che una facoltà novella si esplicasse in lei e
prendesse forme maniache, d'improvviso. Quel gran sedimento di
lirismo mistico accumulato per la lettura de' libri di preghiera
in tanti anni di fidelità allo Sposo Celeste, ora, scosso dal
tumulto dell'amore terreno, si levava su confusamente e
attraversando recenti strati di coscienza e unendosi ad elementi
estranei assumeva, quasi direi, sapori di profanità nuovi. Così
le lacrimose implorazioni a Gesù si mutavano in sospiri di
speranza verso letizie d'amplessi non eterei, le offerte del fior
dell'anima al Sommo Bene si mutavano in tenere dedizioni della
carne al desio del biondo amante, e il lume afrodisiaco della
luna si cingeva di tutti li epiteti per cui va radioso lo Spirito
Santo, né li zefiri della primavera mancavan di rapire li aromi
alle mense del paradiso.
XII.
Era messaggero uno
di quelli uomini che paion cresciuti sù, come funghi, dall'umidità
della strada immonda ed hanno in tutta la figura quasi una nativa
tinta di fango; di quelli uomini bigi, che s'insinuano per tutto,
che si trovano per tutto ov'è un centesimo da guadagnare, un po'
di untume da leccare, uno straccio da sottrarre, oggi rigattieri
e domani procaccianti di serve o di male femmine, oggi falsi
sensali di mercanzia e domani accalappiatori di cani erratici.
Costui aveva un nome
melodrammatico, si chiamava Lindoro: dal quartiere dell'Ospedale
al bastione di Sant'Agostino una popolarità grande s'era fatta
in torno a questo nome. Nasceva costui dall'accoppiamento d'un
suonatore ambulante di clarinetto con una piazzaiuola
rivenditrice di fruttaglia, ereditando l'istinto nomade del padre
e la natural cupidigia di lucro della madre. S'era prima
trascicato per li immondezzai di tutte le case, con la scopa e il
canestro; aveva poi fatto il guattero in una bettola, dove
soldati e marinai gli gettavano su 'l viso li sgoccioli del
bicchiere e le spine del pesce mal fritto. Dalla bettola era
caduto in un forno, dove spingeva i pani con la lunga pala dentro
le fiamme, tutta la notte, in sudore, accecandosi. Dal forno era
passato all'uffizio di accenditore pubblico de' fanali, logorandosi
una spalla sotto il peso della scala portatile. Scacciato da
quell'uffizio perché sottraeva il petrolio dalle grandi casse di
zinco bianco, si mise alla ventura della strada, comprando e
rivendendo abiti vecchi, facendo in tutte le case popolane i
servigi più vili, offrendo ai soldati e ai forestieri i suoi
ruffianesimi, lottando così per il tozzo.
Nel suo corpo e
nella sua anima ogni mestiere aveva impresso una traccia, aveva
lasciato un gesto abituale, uno sviluppo di singoli muscoli, l'indebolimento
di un organo, una callosità, una cadenza di voce, una frase del
gergo. Egli era di piccola statura, magro, con una testa enorme e
quasi calva, con delle chiazze di peli radi su le guance, con
delle pustole tra i peli. Il suo vestito era ibrido e mutevole;
tutte le fogge passavano su la sua persona, si sovrapponevano a
contrasto: nobili zimarrine verdognole e calzoni carichi di toppe,
cappelli di feltro arrossenti e ciabatte servili, bottoni di
metallo lucido, formelle d'osso bianco, galloni militari, trine,
quel miscuglio di ricchezza usata e di miseria ignobile, che
ingombra i fondi d'una bottega di rigattiere ebreo.
XIII.
Ora costui fu il
galeotto. Portava le epistole di Marcello con le conche piene d'acqua
della Pescara su alla casa di Giuliana, e tornava giù con le
conche vuote e con epistole di risposta. Giuliana, quando lo
sentiva salire le scale, si faceva pallida; cercava pretesti per
allontanare Camilla, per essere sola con l'uomo portatore di
acqua e di gioia. Avvenivano allora dei contatti rapidi, nel
sotterfugio; passavano allora tra lei e il galeotto quelli
fuggevoli accenni dei muscoli facciali, quei sguardi obliqui d'intesa,
quei monosillabi sommessi, che son li aiuti dell'astuzia umana e
che a lungo andare stringono dei legami tra li ingannatori, ove
sieno essi differenti di sesso, determinando certe singolari
corrispondenze di moti nel corpo, le quali in taluni casi possono
esser causa di risvegli sensuali. Per il che, a poco a poco nell'amore
di Giuliana qualche cosa dell'influenza di Lindoro penetrava; una
specie di domestichezza a poco a poco si stabiliva tra l'amadrice
e l'ambasciatore. Ella, se costui giungeva nell'assenza di
Camilla, lo incalzava di domande, gli parlava da presso
facendogli sentire l'alito, qualche volta inavvedutamente gli
posava su la spalla una mano. Lindoro scioglieva i freni alla sua
loquacità di pizzajuolo, intramezzando parole di gergo,
reticenze impudiche, furbi sorrisi rivelatori, gesti ambigui,
piccoli schiocchi di lingua e di labbra.
Egli ruffianeggiava
con arte, sapeva insinuare sottilmente la corruzione nell'animo
di Giuliana, sapeva trascinare lentamente all'insidia di Marcello
quella preda. E Giuliana stava ad ascoltarlo intenta, con in
fondo alli occhi una fiamma che cresceva, con in bocca l'aridezza
prodotta dall'orgasmo lascivo, senza più interrompere. Lindoro s'accorgeva
subito di aver suscitato nella femmina la brama; e dinanzi a
quella figura tutta protesa e tutta sconvolta si risvegliava in
lui la mascolinità d'un tratto e una tentazione l'assaliva di
cogliere quel fiore ch'egli apprestava al piacere di un altro; ma
la paura sorgente dal fondo della sua viltà lo tratteneva e gli
ghiacciava l'ardore.
Così Giuliana al
fine aveva concesso a Marcello un ritrovo. Sarebbe stata in una
casa remota del sobborgo, in fondo a un vico deserto, dove
nessuno li avrebbe spiati; sarebbe stato per una domenica di
giugno, stando Camilla nella chiesa lungo tempo, facendo buona
guardia Lindoro.
Nei giorni
precedenti quel gran fatto, Giuliana era tenuta da un'eccitazione
amara, da una specie di febbre che a volte le dava il battito dei
denti e le vampe alla faccia e i brividi alla radice dei capelli,
alla nuca. Ella non poteva più star ferma, non poteva più star
seduta; poiché una furia di mobilità le solleticava tutte le
membra. Nella scuola, in mezzo al coro eguale dei discepoli, in
mezzo a quello stillicidio continuo di sillabe, una demenza di
ribellione le abbagliava la vista all'improvviso, ed ella avrebbe
voluto balzare tra i fanciulli, sconvolgere con le mani tutte
quelle capigliature, rovesciare la lavagna, le tabelle, le panche,
gittare delle grida, spezzare qualche cosa, stordirsi. Sotto lo
sguardo freddo e scrutatore di Camilla, poco mancava che ella non
svenisse per lo spasimo, per la bile, per l'immenso sforzo
anteriore di dissimulazione.
Poi, quando Camilla
usciva, ella si agitava per tutte le stanze, muoveva le sedie,
morsicchiava dei fiori, beveva di un fiato de' grandi bicchieri d'acqua,
si guardava nello specchio, si affacciava alla finestra, si
abbatteva a traverso il letto, sfogava in mille modi l'irrequietudine,
l'esuberanza della vitalità sensuale. Tutto il suo corpo, nel
tardivo fermento della verginità, si era arricchito ed espanto;
era come una di quelle sanguigne fioriture autunnali che la
pianta esplode al sentirsi da un'ultima corrente di forza
vegetativa investir le radici quasi morte nel letargo del terreno.
Tutti i pori del suo corpo esalavano, irradiavano la voluttà mal
contenuta; in tutti i suoi gesti, in tutti i suoi atteggiamenti,
in tutti i suoi minimi moti uno spontaneo fascino afrodisiaco,
una procacità involontaria e inconscia si esplicava
indipendentemente dalla presenza di un uomo. Ella era tutta
sàtura di desio; le fibrille giallognole delle sue iridi,
dilatandosi, sprizzavano bagliori; il labbro inferiore,
tormentato dalle morsicchiature, sporgeva umido e vermiglio; pe 'l
collo salivano le trame glauche delle vene e nei movimenti
repentini talora certi gruppi di nervi guizzavano. La sua testa
non era bella, non aveva la quadratura vigorosa, lo splendore
olivastro di certe razze d'Abruzzo, quelle pure linee del naso e
del mento svolgentesi grecamente nella latina ampiezza della
faccia. Ma ella, inconsapevole, sotto la goffaggine delle vesti
grigie, sotto la cascaggine delle pieghe incomposte, celava una
magnificenza statuaria di torso e di gambe.
Erano i primi giorni
di giugno: sorgeva l'estate dalla primavera, come da un campo d'erbe
un àloe. Tra il mare e il fiume tutto il paese di Pescara godeva
nella ventilazione salina e nel refrigerio fluviale, come
distendendo le braccia verso quei naturali confini d'acqua amara
e d'acqua dolce. Salivano alla stanza di Giuliana allora le
blandizie della temperie; insetti lucidi urtavano ai vetri e
rimbalzavano come una grandine d'oro.
Giuliana, se era
sola, provava un bisogno di distendersi, di gettare lungi le
vesti, di giacere, e di raccogliere su la pelle quella blandizia
ignota che fluttuava nell'aria.
Cominciava
lentamente a spogliarsi, con una pigrizia di gesti molli,
indugiando con le dita in torno alle allacciature e ai fermagli,
facendo de' piccoli sforzi svogliati nel cacciar fuori le braccia
dalle maniche, fermandosi a mezzo e abbandonando in dietro la
testa dai capelli crespi e corti, quella sua testa di efèbo.
Lentamente, sotto l'amorosa fatica, dalla informità delle vesti,
come dalla scoria del tempo una statua diseppellita, il corpo
ignudo si rivelava. Un mucchio di lana e di tela vile era ai
piedi della pulzella così purificata, e da quel mucchio ella
come da un piedestallo sorgeva nella luce coronandosi con le
braccia, mentre al contatto dell'aria una vibrazione a pena
visibile le correva i contorni, il fior della pelle. In quell'attitudine
momentanea tutte le linee del dorso si distendevano e salivano
verso il capo ricinto; si appianava la leggera onda del ventre
non anche deturpato dalla concezione; li archi delle coste si
designavano. Poi, se un insetto entrava nella stanza, il ronzìo
aliante in torno ed accennante ad attingere la nudità, il
ronzìo sbigottiva Giuliana; ed era allora un difendersi della
puntura mal temuta, erano movimenti serpentini, scatti di muscoli
sotto la cute, paurosi raggruppamenti di membra, falli dei
malleoli non bene forti al gioco, balzi, guizzi, tutti quelli
sviluppi improvvisi di agilità e quei raggricchiamenti di pelle
provocati in una donna dal ribrezzo.
Poi, così eccitata
dal moto e calda, ella aveva delle voglie nuove. Apriva l'uscio,
cauta in sospetto; e metteva fuori il capo guardando nell'altra
stanza. C'era un odore di chiuso, quello squallore inanimato che
hanno le scuole senza fanciulli: nelle tabelle quadrate l'alfabeto
cubitale e i gruppi dei dittonghi e delle sillabe stavano muti
dominatori del luogo. Giuliana si avanzava evitando co' piedi
nudi li interstizii del pavimento smosso, provando la titubanza
di chi cammina scalzo per la prima volta su un piano aspro e la
confusione di una donna che non sente più in torno al suo passo
l'impedimento abituale della veste. Andava così fino alla terza
stanza, dov'era l'acqua, dove l'umidità le metteva una
sensazione di fresco sotto i piedi e dove ella sentiva dei
brividi nei capelli al pensiero che l'amante poteva essere là
poco lontano. Allora intingeva le mani nell' acqua, si spruzzava
tutta, coraggiosamente, con de' sùbiti arresti di respiro quando
una gocciola più grossa le rigava l'epidermide. Usciva di là,
tutta sparsa di rugiada: lo specchio alto di un antico mobile la
tentava.
Era una specie di
canterano a cui restavano ancora frammenti d'intarsi qua e là:
lo specchio, che celava un armario sovrastante, aveva in torno
fregi misti d'oro e di colori e in alto due puttini decapitati.
Giuliana saliva fin là, attratta da una irresistibile curiosità
femminile di vedersi nuda. La sua persona tutta ancora fresca di
gocciole sorgeva nell'offuscamento dell'antico specchio soffusa d'un'ombra
di pallidezza argentea, addolcita d'impercettibili apparenze di
azzurro e di verde dove il cristallo più era alterato dal tempo.
Ella si guardava; mentre l'istinto sessuale della bellezza
svegliandosi le faceva ora salire alla bocca una viva
spontaneità di sorriso. Il sorriso, ogni movimento dei muscoli
pareva far tremolare tutte le linee della nudità nello specchio
come quelle di una immagine dentro le acque. Allora ella
cominciava una specie di mimica vanitosa, guardando riprodursi
tutti i suoi gesti nella lastra, aprendo le labbra per mostrare i
denti, alzando le braccia per mostrare le ascelle, presentando la
schiena arcata e forzando il capo a volgersi in dietro; fin che
un pazzo impeto di ilarità, dinanzi a quello spettacolo di sé,
le scuoteva tutta la persona. In fondo in fondo, dietro la donna,
si rifletteva dalla parete avversa una tabella di alfabeto.
XIV.
Ora avvenne che in
uno di quei momenti battesse alla porta della scala Lindoro
venuto sù con le conche. Giuliana gridò:
- Aspetta!
E raccolse da terra
le vesti, in furia; se le mise addosso, in furia; andò ad aprire.
Erano le sei di sera;
il reverbero bianco del palazzo di Brina entrava nella stanza;
tutto il paese di Pescara, grande ospizio di rondini, cantava.
I due, in mezzo,
ritti, parlarono del ritrovo imminente. Lindoro cercava con la
sua loquacità vincere le estreme esitazioni della pulzella;
poiché egli già teneva una parte della mercede, e l'adescava il
resto. Li artifizi persuasori gli avvivavano le parole, li occhi,
i gesti. Egli aveva nel fiato l'odore del vino, e nella faccia,
su la tempia, pe 'l passaggio recente del rasoio, piccole macchie
rosse e violacee. Mentre parlava, gli si scopriva la fila dei
denti eguale e schietta, una di quelle forti chiostre che spesso
armano le bocche plebee: la singolarità emergeva vivacemente
dalla generale turpitudine dell'uomo.
Giuliana opponeva
dubbii, paure, ad interrompere; ma già, poi che l'impudicizia a
mano a mano sorgendo più calda dal fòmite del vino bevuto si
insinuò nelle persuasioni del galeotto, ella cominciava a
sentire quel calore d'afflusso in torno alli occhi, quell'intorpidimento
della lingua, quei sordi colpi del sangue, che sono i sintomi
dell'orgasmo amoroso. S'era ritirata a poco a poco verso il muro,
appoggiandovisi. Dalle aperture, lasciate qua e là nell'abito
per la furia del rivestirsi, si intravedevano lembi della
biancheria sottostante, quei candori di lino che paiono essere
qualche cosa della nudità femminile. La gola era tutta scoperta,
bianca e rigata dalla collana di Venere; i piedi senza calze
nascondevano nelle babucce soltanto le dita.
Ma ella, a un punto,
involontariamente, per quel cieco istinto da cui una donna è
avvertita d'essere innanzi a un uomo bramoso, corse con la mano a
chiudere sotto la gola, su 'l petto li uncinelli. Quell'atto, col
quale Giuliana così riconosceva nel mezzano l'uomo, quell'improvviso
atto fece scattare dall'abbiezione di Lindoro un impeto di
orgoglio maschile. Ah, egli dunque aveva potuto per sé stesso
turbare una donna? Ed egli si fece più da presso; e, come il
coraggio del vino lo animava, quella volta nessun ritegno di
viltà lo trattenne.
E intieramente,
sopra la pulzella smarrita e senza forze, si manifestò allora il
bruto.
XV.
Giuliana rimase
inerte, nella prima impressione violenta e divina di quel fatto
naturale compiuto, in una specie di rapimento che non poteva
esalarsi. Rimase lunga su i mattoni, con nelle vesti, con in
tutta la figura lo scompiglio della donna violata.
A tratti nel bianco
dei suoi occhi naufraganti appariva come un tremolìo; nelle sue
braccia passavano dei sussulti, delli stiramenti di nervi
irritati; fremiti nervosi le increspavano la fronte, le facevano
battere le palpebre, curvare in sù li angoli della bocca,
muovere in piccoli moti vaghi il pollice dei piedi scalzi.
Ella, quando udì i
passi di Camilla nella scala, dal fondo della sua languidezza si
levò su un gomito; rapidamente passo le mani su le vesti
sconvolte; ritrovò le parole per dire alla sorella che una
sùbita mancanza di forze l'aveva fatta cadere nel mezzo della
stanza.
Fuori, annottava: su
'l paese si spandeva la grande frescura glauca della sera di
giugno, originante dall'Adriatico. Voci e risa empivano la piazza;
giù pe 'l casamento cantava la gioia sabatina delli abitanti
sollevati. Dal secondo pianerottolo Teodora La Jece gridò:
- Comare Camilla,
comare Giuliana, venite?
Giuliana seguì la
sorella, senza parlare, senza pensare. Durava fatica a sovvenirsi;
una specie di ebetudine le teneva ancora la memoria. Teodora La
Jece le empiva li orecchi del suo chiaccherio di femmina
maldicente e petulante.
- Sapete; comare, la
figlia di Rachela Catena si marita.
- Ah.
- Sapete, piglia
Giovannino Speranza, quel rosso che tiene locanda alla Pesceria e
il mal di San Donato, liberanosdòmine.
- Ah.
- Sapete, comare;
Checchina Madrigale se n'è scappata un'altra volta a Francavilla.
Voi la conoscete: quella grassa che sta di casa a Gloria, nera,
col naso a becco... quella.
Teodora La Jece
seguitando aveva preso il passo di Giuliana. Camilla veniva un
poco in dietro, a capo chino, senza badare ai peccati di
mormorazione che la lingua della tessitrice commetteva contro il
prossimo. Per le vie tutta la gente godeva l'aria; gruppi di
donne passavano, in vesti di tela, con le braccia nude sino al
gómito.
- Comare, guardate
Graziella Potavigna che falbalà s'è messo. Guardate Rosa
Zazzetta, con un sergente avanti e uno in dietro... Ah, voi non
sapete?
E qui una storia d'amorazzi
piena d'indiscrezioni salaci, sussurrata quasi all'orecchio. Per
una di quelle obliosità che sono il rifugio di certe nature
deboli e dubbie, Giuliana si immerse nel pettegolezzo
intieramente, con una specie di furia convulsa, non dando a sé
stessa il tempo di ripensare, interrogando, eccitando Teodora
alla chiacchera, temendo li intervalli di silenzio, riempiendoli
con de' piccoli sussulti di riso. Ella aveva quasi un godimento
amaro a sentire i vituperii delli altri.
- Oh! ecco Don Paolo!
Veniva in contro con
la sua bella placidezza Don Paolo Seccia, un ottuagenario ancora
aspro e verde come un ginepro, giocondo e saggio come Pantagruele.
- Venite con noi,
Don Paolo; usciamo fuori.
Tutti i macelli per
la via di qua, di la, avevano i loro manzi freschi penzolanti in
mezzo alla porta: l'odore della carne bovina si spandeva dalle
ventraie aperte e assaliva le nari. Più in sù, lunghe file di
maccheroni stavano attelate al lume della luna che le guardava
dalla cima di un'antenna soperchiante la caserma. Gruppi di
soldati si affollavano in torno alle rivenditrici di frutta,
vociferando.
- Andiamo alla
Bandiera disse Teodora, dando la precedenza a Don Paolo ed a
Camilla.
Giuliana passò in
mezzo a tutti quei rumori e quelli odori forti, stordita.
Cominciava alfine uno sbigottimento vago a sommuoversi dal fondo,
a torcerle la bocca nel riso, nelle parole, a impedirle la lingua.
Anche certi piccoli tormenti fisici la molestavano e la
richiamavano alla realtà delle cose. Ella non sapeva più
sfuggire: le moriva la voce fra i denti, l'angoscia le
sollecitava la gola, il fantasma di qualche cosa d'enorme e d'irrimediabile
le si drizzava dinanzi. Ella ora si sentiva morire dalla fatica
di reggersi in piedi, di mettere i passi: si sentiva percossa
dalla fischiante animazione della vita nella strada che è di
tutti.
- Dunque, comare mia,
quel guercio del marito senza saper nulla di nulla... - diceva
Teodora riannodando la maldicenza interrotta.
Andavano per la
Bandiera. Il ponte a battelli, su la sinistra, cavalcava il fiume.
Dall'altro lato, la mole cupa e grave del bastione si disegnava
nel chiarore. I vecchi cannoni di ferro, piantati con la bocca
nel terreno, si dilungavano in fila trattenendo le gòmene;
grandi àncore di ferro ingombravano lo scalo. Nelle tolde, a
riva, i marinai sotto le tende mangiavano e fumavano: le tende
illuminate contrastavano con un rossore sanguigno l'albore della
luna. Intorno alla proe, su l'acqua larghe chiazze come di
materia liquefatta fluttuavano lentamente.
- ...mandò a
chiamare Don Nerèo Memma, figuratevi! - seguitava Teodora,
implacabile.
- Chi parla del
dottor Dulcamara? - fece Don Paolo, a cui era giunto quel nome,
ridendo dalla franca bocca ancora armata di avorii.
Giuliana non sentiva
più: ella era pallida come la faccia della luna. Da prima, tutta
quella gran pace luminosa piovente dal cielo su 'l fiume e tutte
quelle lunghe vene di odore marino ruscellanti pe 'l fresco le
aveva no dato una impressione di sollievo quasi gioconda; poiché
dinanzi a quello spettacolo di dolcezza i fantasmi vagheggianti
dell'amore in fondo a lei si risollevavano e le sommità del
sentimento al raggio lunare riscintillavano. Fu, sùbito dopo,
come una soffocazione, come un tumulto confuso in cui ella aveva
coscienza di sé solo per il battere delle arterie alle tempia,
per quel sussurrìo assordante che parve dilatarsi e riempire
tutta l'aria d'un tratto. Le mancava sotto i piedi il suolo fermo:
il limite delle acque si confuse, per la vertigine; il fiume
invase la strada; acque acque acque si spársero in torno. Poi, d'un
tratto, uno scintillìo di bagliori si accese dentro li occhi di
lei, un tremolìo crescente di fiammelle fatue che rompevano, si
intrecciavano, si allontanavano, e si fondevano e perdevano
serpentinamente in una mezza ombra. In quella illuminazione la
figura di Marcello compariva e spariva, con una rapidità e una
mutabilità di sogno. La vertigine cessò. Giuliana riconobbe i
riflessi della luna nel fiume placido; continuò a camminare,
stupefatta, indebolita, quasi presso a svenirsi.
- Stanca, eh? comare;
voi non siete abituata, si sa. Appoggiatevi a me, appoggiatevi -
diceva Teodora. - La figlia di donna Mentina Ussoria, quella più
piccola, butterata, stava proprio innanzi alla bottega, sapete,
su la piazzetta...
Erano alla caserma
dei finanzieri. Grandi mucchi di carrùbe mandavano un odore
forte come di pelli conciate; e la strada seminata di scaglie d'ostriche
scricchiolava sotto i passi. Due sciàbiche, presso la riva,
facevano pesca d'anguille, in silenzio, con la luna propizia. Ma
la sonorità del mare empiva di grandezza il silenzio: si
annunziava la foce con l'ondeggiamento del sale superante il
lieve fiore dell'acqua dolce.
- Torniamo in dietro,
belle figliole - disse Don Paolo, prendendo una carruba dal
mucchio vicino.
Giuliana si lasciava
condurre. Ella durava fatica a rattenere l'ansia del respiro;
poiché ora il suo stato, con una terribilità incalzante, le si
ripresentava dinnanzi e schiacciava tutti li aneliti e i tumulti
del sentimento suscitati dalla voluttà della notte lunare. Ella
vedeva, nella fissazione del suo pensiero, la figura di Lindoro
levarsi e vivere; si sentiva un'altra volta afferrare e palpare
da quelle mani aspre, soffocare da quel fiato caldo di vino e di
libidine, violare su i mattoni della stanza. Ma in quel momento,
pensava, ella non aveva resistito, non aveva gridato, non aveva
fatto nessun moto per opporsi; ella aveva soggiaciuto, senza
forze, non distinguendo più nulla, non sentendo che una gran
gioia mista di dolore innondarle le fibre, non sentendo che da
tutto il suo essere la violenza della natura compressa insorgere.
Allora quel riflesso di sensazione mise nella carne di lei un
nuovo turbamento, una tenerezza di languore infinita; e in quel
disordine della coscienza la volontà delle sue idee si estinse.
Le parve che tante cose della notte, come avessero voci ed ali,
venissero a batterle contro la tempia, venissero a tentarla, a
darle dei trèmiti e a suggerirle delle parole. Guardava innanzi
a sé, pallida con li occhi ingranditi e più neri. Ella era
così: debole, incerta, incapace di determinare con la volontà
uno stato d'animo e di cose, oscillante miseramente tra le
suggestioni del mondo esterno e il travaglio interiore.
- Sentite come il
vino canta - disse Don Paolo, soffermandosi.
Nelle barche i
marinai stavano distesi tra i cordami, in mezzo al fumo del
tabacco di Dalmazia, e cantavano di femmine belle, in gran coro.
XVI.
Camilla, su l'inginocchiatoio,
pregò a voce bassa, co 'l capo prostrato, con giunte le mani,
lungamente; poi accese la lampada votiva a Maria Vergine, per la
notte; piegò poi nel sonno tenendo il dolce cuore di Gesù tra i
fiori vizzi del seno. Il suo respiro di dormiente era religioso
come se sfiorasse l'ostia sacra su la patèna d'argento. Nella
volta le ombre seguivano le oscillazioni della fiammella
alimentata dall'olio; quei romori secchi del legno che si dilata
e dei tarli che ròdono, li scricchiolii misteriosi che hanno i
vecchi mobili nella calma notturna, ronzii di zanzare rompevano
il silenzio.
Giuliana stava nello
stesso letto, a fianco di Camilla, distesa, senza muoversi, senza
chiudere li occhi, poiché una grande stanchezza insonne le
occupava le membra e la vigilanza assidua dell'angoscia le
martoriava l'anima tapina. Ella ascoltava il silenzio, spiava sé
stessa con una curiosità ansiosa, come per sentire qual
mutamento si fosse compiuto nell'essere suo.
A un tratto, Camilla
nel sonno cominciò a mormorare delle parole vaghe, de' frammenti
di parole incomprensibili, movendo appena le labbra, mettendo
lunghi respiri dentro cui si sentivano de' suoni semispenti, si
sentivano i gorgogli rochi delle voci non formate e li accenti
delle voci infrante. La testa di lei, scarna, affilata, quasi
direi scolpita e cesellata rigidamente dalla penitenza e dal
digiuno, ingiallita dal lume della lampada, posava sulla
bianchezza del guanciale come una effige mal dorata di santa
sopra una raggiera. Piccole ombre violacee segnavano l'interno
delle narici, i solchi del collo teso e pieno di corde, le fosse
delle gote, le occhiaie d'onde sporgeva grande il globo coperto
della pelle molle della pálpebra. Ella pareva così il cadavere
di una martire, dentro cui scendesse lo spirito di Dio.
Benché quello dei
soliloquii notturni non fosse il primo, Giuliana sentì freddo in
mezzo ai capelli: un terrore improvviso l'assalì e la oppresse.
Ella instintivamente si rannicchiò, cercò di allontanarsi dal
corpo della sorella ritraendosi su l'orlo della sponda: stette
immobile, sospesa nelli intervalli di silenzio, con li occhi
fissi su la bocca della dormiente, provando un sordo balzo in
mezzo al petto se quelle labbra si muovevano a profferire nuove
parole. Ella non comprendeva; ma qualche cosa di lontanamente
profondo e di solenne era in quel mormorio interrotto, quasi un
mistero di fenomeno soprannaturale si levava da quel corpo inerte
e inconsapevole che parlava senza udire la propria voce. Nella
stanza passava come un alito di sepolcro; per la fantasia
sconvolta di Giuliana, le ombre oscillanti prendevano forme
spaventose e minacciose di spettri; l'aria pareva solcata da
rumori ignoti. Tutte le cose su cui l'allucinata si rifugiava con
lo sguardo, tutte le cose si trasformavano e si animavano verso
di lei. Allora l'idea del castigo e della pena eterna ancora una
volta le risorse nella coscienza e la incalzò. Ella si imbatté
sotto l'incubo del suo peccato, mettendo in croce le braccia su 'l
petto per difendersi dalle minaccie dei demoni, tentando di dire
delle preghiere con la lingua impedita dal terrore, aggrappandosi
con un supremo slancio all'àncora del pentimento, all'ultima
salvezza. Ella si sentiva perduta, ella chiedeva ora misericordia
dall'intimo del suo cuore al divin Sposo tradito, a Gesù buono e
grande, a Colui che perdona.
La voce di Camilla
si esalava in sospiri, si confondeva in un borboglìo tremulo, si
spegneva del tutto nella respirazione lenta ed eguale, a mano a
mano che l'entusiasmo del sogno mistico si andava placando. Le
ombre seguitavano ad oscillare. Non ancora il Crocefisso
discendeva dalla parete a raccogliere con le dolcissime braccia
la pecorella tornante all'ovile.
XVII.
- Ha detto il
Signore per bocca del profeta Gioele, figlio di Petuel:
Avverrà che io spanderò il mio Spirito sopra ogni carne,
e i vostri figliuoli e le vostre figliuole profetizzeranno; i
vostri vecchi sogneranno de' sogni, i vostri giovani vedranno
delle visioni.
Questo spirito di
cui li Apostoli ebbero le primizie e la beatitudine, fu per essi
e per noi uno spirito di verità, uno Spirito di Santità e uno
Spirito di forza... O divino amore, o sacro legame che unisci il
Padre e il figlio, Spirito onnipotente, fedele consolatore delli
afflitti, penetra nelli abissi profondi del nostro cuore e
infondici la tua gran luce.
Così predicava Don
Gennaro Tierno nella Pentecoste, dall'altare maggiore, volto al
popolo ascoltante. Sopra di lui, in alto, la terza persona della
SS. Trinità apriva l'arco radioso delle ali d'oro, e nella
chiesa l'illuminazione dei ceri spandeva rossore simile a un
riflesso d'incendio. Li enormi pilastri di pietra sostenenti le
due navate, coperti di barbare sculture cristiane, cavalcavano
verso l'altare pesantemente; su le pareti li avanzi dei mosaici
mettevano larghe macchie di colore scuro; qualche testa di
Apostolo, qualche braccio rigido di santa, qualche ala d'angelo
emergeva ancora nell'offuscamento e nello scrostamento operato
dai secoli. Tra i mosaici piccole navi ex voto pendevano,
una intiera flottiglia di barche veliere pendeva dedicata al
tempio dai naufraghi supérstiti. E in mezzo a tutta questa rude
solennità primordiale si elevava agile un gruppo di colonne
rosee a spira sorreggenti il pergamo anche marmoreo fiorito di
acanti e animato di bassorilievi.
- Spandi la tua
dolce rugiada su questa terra deserta, a fin che cessi la sua
lunga aridità. Manda i raggi celesti del tuo amore fino al
santuario dell'anima nostra, a fin che penetrandoci accendano
fiamme consumatrici delle nostre debolezze, delle nostre
negligenze, dei nostri languori! - seguitava il prete, salendo ai
supremi culmini della sua eloquenza e della sua potenza vocale.
Giuliana, da presso,
ascoltava, tutta raccolta. Ella si era rifugiata nella casa del
Signore, ella era tornata al talamo; voleva che il Signore la
purificasse e la ricevesse un 'altra volta nella benignità del
suo grande abbracciamento. Quel barbaglio subitaneo di fede la
abbacinava, le faceva quasi dimenticare ogni fallo anteriore. Le
pareva che subitamente dalla sua anima le macchie si
cancellassero e dalla sua carne cadessero le scorie dell'impurità
terrena. Giammai ella si era accostata all'altare di Dio con un
più profondo tremito di speranza; giammai aveva ascoltato la
parola di Dio con una più lunga ebrezza.
Dallistante in
cui l'orrore della dannazione le si levò nella coscienza, ella
si compresse in una specie di accoglimento cupo, quasi direi
sorvegliando sé stessa, sorvegliando i propri atti, i proprii
pensieri, i minimi moti, pe 'l timore che quella veemenza di
pentimento si esalasse, per l'ansia di conservare intatto dentro
di sé quel fiore di fede rigermogliato d'improvviso. Fu una
specie d'assunzione verso Gesù; fu una specie di isolamento
geloso dalla vita circostante, un ripudio di ogni legame umano.
Ella si esaltò
nella lettura dei libri sacri; si gettò nella contemplazione
delle imagini e dei misteri; lottò contro le molli viltà della
carne, contro i calori della giornata, contro l'insidie della
notte, contro i profumi che le portava il vento, contro il soffio
che saliva dai suoi ricordi impuri, contro le voci che parevano
vellicarle l'udito e sussurrarle segreti nuovi di piaceri.
Dopo quella
settimana solitaria di passione, ella ora deponeva il sacrificio
ai piedi dell'altare: beveva il balsamo della parola di Dio,
fissando li occhi in alto alla colomba radiosa e sentendosi a
poco a poco naufragare nel pèlago dell'estasi
- Vieni dunque,
vieni, dolce consolatore delle anime desolate, rifugio nei
pericoli, protettore nella sventura. Vieni, o tu che purifichi l'anime
da ogni macchia e ne guarisci le piaghe. Vieni, forza del debole,
appoggio di quegli che cade. Vieni, stella dei naviganti,
speranza dei poveri, salute di chi è per morire - incalzava Don
Gennaro Tierno, alto nella pianeta d'argento, vermiglio in volto,
con occhi forzanti le orbite, con gesti che parevano toccare il
cielo.
Nella chiesa una
calura grave si era addensata su i cristiani. Le navate si
schiacciavano su i pilastri; in una vetrata la testa di San Luca
evangelista raggiava percossa dal sole e il gran manto metteva
nell'aria una zona di crepuscolo verde. Il púlpito marmoreo si
levava come un miracoloso fiore mistico, in quel vapore di luce.
- Vieni, o Spirito,
vieni ed abbi misericordia di noi!...
Giuliana teneva li
occhi all'alto: sull'onda di tutte quelle invocazioni ella
ascendeva verso il nimbo, penetrata dalla ineffabile soavità che
attira l'anime all'odore delli aromi spirituali. Le parve un
istante di vedere la colomba d'oro balenarle un lampo di
assentimento, e il cuore le balzò di giubilo nel seno come San
Giovanni nelle viscere d'Elisabetta alla visita della Vergine
Maria.
- Per nostro signore
Gesù Cristo. Amen.
Il prete, tutto d'argento,
si volse verso la custodia, dicendo a voce bassa un credo.
Due turiferarii bianchi ai lati cominciarono a scuotere i
turiboli fumanti e odoranti. Un nuvolo di incenso avvolse
Giuliana che stava da presso, e subitamente un invincibile fiotto
di nausea dal fondo della maternità le salì alla gola e le fece
torcere la bocca.
XVIII.
Non c'era dunque
scampo? - Più giorni ancora ella oscillò nel dubbio, aspettando
l'ultima prova. Vertigini la prendevano al levarsi, quand'ella
metteva a terra i piedi; sfinimenti vaghi la invadevano su la
sera, fievolezze in cui il pensiero, la volontà, i ricordi
parevano quasi avere la confusione, la sonnolenza fluttuante
delle prime ore mattutine. Ella faceva le cose per abitudine, con
de' gesti di sonnambula, con una lentezza di donna stanca. Nella
scuola, se veniva su 'l vento l'odore del pane caldo dal forno,
ella si sentiva morire, sentiva come tutte le viscere montarle d'un
tratto alla bocca: un sapore di lisciva le si spandeva nella
lingua. Un giorno, mentre un bimbo succhiava delle ciliege, una
voglia violenta di quel frutto la fece contorcere su la sedia,
impallidire e sudare. Poi, ella, dopo il pasto, tutta amara di
nausea, si metteva lunga su 'l letto, si lasciava occupare dal
sopore: il caldo era pesante, le mosche ronzavano, le grida d'un
venditore di occhiali passavano sotto la finestra, rauche nel
silenzio.
Sfiduciata, ella non
cercò più la chiesa: l'incenso anche la ributtava.
Ella non pensò più
a Marcello; non lo vide più, non ebbe di lui che un ricordo
incerto, come d'un sogno remoto: l'ansia presente l'assorbiva
tutta.
Lindoro saliva a
portar l'acqua, come prima. Egli giungeva su rosso e stillante di
sudore: posava le conche. lanciando sguardi di sbieco a Giuliana.
Giuliana si ritirava nell'altra stanza o si curvava su 'l lavoro:
nelle sue guance le strette convulse dei denti mettevano piccoli
moti di collera repressa: i suoi occhi si intorbidavano.
Lindoro se ne andava,
come un cane frustato; ma il pensiero di aver posseduto quella
donna gli turbava il sangue: avrebbe voluto ora trascinarsela con
sé, tenersela, esserne il padrone come di una merce da usare e
da vendere. Cupidigia sensuale e avidità di guadagno allora in
lui si mescolavano.
Una sera egli
aspettò che Camilla uscisse, alla porta di strada; poi salì a
precipizio per sorprendere Giuliana, per trovarla sola nella casa.
Quando egli batté all'uscio Giuliana lo riconobbe e si sentì
rimescolare.
- Che vuoi da me,
che vuoi? - chiese ella con la voce soffocata, senza aprire.
- Sentimi un momento,
sentimi! Non aver paura; non ti faccio male...
- Vattene, cane,
infame, assassino... - proruppe la donna, con una veemenza
stridente di vituperii, togliendo il freno a tutto l'odio
accumulato contro di lui. - Vattene, vattene!
E, sfinita, si
ritrasse nella sua stanza, si gettò su i guanciali mordendoli
fra le lacrime. Un tremito violento la scuoteva tutta, un
irrigidimento convulsivo delle mascelle le rendeva dolorosi i
singulti.
XIX.
Non c'era più
scampo. - La figlia di Maria Camastra aveva bevuto il vetriolo ed
era morta così, con un bimbo di tre mesi nel ventre. La figlia
di Clemenza Jorio s'era precipitata dal ponte, ed era morta così,
nella fanga della Pescarina. Bisognava dunque morire.
Quando questo
pensiero balenò alla mente di Giuliana, cadeva il pomeriggio.
Tutte le campane suonavano a gloria, nella vigilia del Corpus
Domini; grandi tribù di rondini schiamazzavano e turbinavano
su 'l palazzo di Brina, si assembravano a parlamento su l'Arco.
Una magnifica nuvola rossa sovrastava le case, simile forse a
quella che versò bitume ardente su l'empietà di Sodoma.
Giuliana al baleno
di quel pensiero si smarrì, ebbe paura. Poi a mano a mano che il
sentimento della vergogna la persuadeva al passo, in fondo a lei
una sorda ribellione di vitalità cominciava a levitare, le
viscere fremevano. Ella d'un tratto sentì il rossore e il calore
del suo sangue metterle delle chiazze su la fronte, su le guance.
Si levò dalla sedia, torcendosi le braccia nell'agitazione della
lotta. E, con impeto di forza nervosa, finalmente uscì dalla
stanza, entrò nella cucina, cercò su le tavole un bicchiere e
il mazzo delli zolfanelli. L'odore forte del carbone le turbava
lo stomaco; la vertigine le prendeva il cervello. Ella trovò
tutto: mise li zolfanelli a disciogliersi nell'acqua; rientrò
nella sua stanza e nascose in un angolo, sotto un mobile il
bicchiere.
- Dio mio! Dio mio!
Ella aveva ora paura
di trovarsi così, sola dinanzi al suo proponimento. Le tornò
subitamente nella fantasia il cadavere di Cristina Jorio
intraveduto quel giorno mentre lo portavano su la barella alla
casa della madre: un corpo gonfio come un otre, con la melma ne'
capelli, nel cavo delli occhi, nella bocca, tra le dita de' piedi
violetti...
- Dio mio. Dio mio,
morire!
E sussultò come se
una mano fredda e rigida le si fosse posata su 'l capo: un
brivido le corse tutte le membra, le durò un momento su 'l
cranio con l'impressione di una lama che vi penetrasse per
distaccarne la pelle; e nella vista le passò il ribrezzo dell'orrore,
quel non so che di bianco che dilata le orbite.
- No, no, no! -
disse con voce alterata come se volesse scacciare da sé il
contatto di qualche cosa orribile. E andò alla finestra, sporse
il capo fuori, cercando un rifugio.
Ella rimase là,
inchiodata, attònita dinanzi a quella visione d'incendio biblico
e a quella tregenda di uccelli neri. Quando si volse un poco
dietro la stanza, intravide nell'ombra un bagliore strano, il
luccichìo delle mezzelune d'oro su la veste della Madonna di
Loreto e il luccichìo delle medaglie. Ebbe ancora paura; si
schiacciò su 'l davanzale, si sporse di più; stette là, senza
avere il coraggio di muoversi. Allora, in quella immobilità, l'indebolimento
serale cominciò a invaderla; ed ella si strinse la testa grave
tra le palme, socchiuse le pàlpebre.
- Ah!
D'improvviso le s'era
aperto nell'animo uno spiràcolo. - Sì, sì, ella se ne
rammentava! Spacone, il mago, quel vecchio con la barba lunga,
quello che faceva i miracoli e aveva le medicine per ogni male...
Era venuto al paese qualche volta a cavalcioni di una muletta
bianca, con due triangoli d'oro alli orecchi, con una fila di
bottoni larghi come de' cucchiai d'argento senza mánico. Tante
donne uscivano su li usci e lo chiamavano, e lo benedicevano.
Egli aveva guarito ogni sorta di malattie con certe erbe e certe
acque e certi segni del dito pollice e certe parole magiche. Egli
doveva avere i rimedi pure per quella cosa... sì, sì, li doveva
avere!
E Giuliana rivisse
in un barlume di speranza, mentre il languore saliva saliva.
Dinanzi a lei, le cose annegavano nel crepuscolo; il giorno
vermiglio, penetrato dalle ceneri della notte vicina, mancava in
un lento scoloramento tra roseo e violaceo, si ritirava a poco a
poco dal basso, finiva senza contrasti. Una rondine, come un
pipistrello, passò radendole il capo. Un fiotto della vitalità
ardente dell'estate le batté nella faccia, con la brezza,
dandole una specie di soffocazione e di palpitazione.
Ella, con un moto
involontario e inconsapevole, mise le mani su 'l ventre e le
tenne così un istante. Qualche cosa come un indefinito
sentimento di maternità le attraversava l'anima. E dal fondo,
chi sa per quale processo interiore, un ricordo della
convalescenza lontana si svegliò. - Ah, era di marzo... una gran
bianchezza ridente... e sopra di lei le spie, le lanugini
molli piovevano.
XX.
Così fu che la
mattina dopo ella uscì dalla casa, di sotterfugio; e s'incamminò
sola fuori del paese, per la strada nuova di Chieti.
Nelle vicinanze di
San Rocco abitava Spacone. Sotto la maestà di una quercia
druidica, egli compiva i miracoli e formulava i responsi. Tutto
il contado, in venti miglia di circuito, ricorreva a lui, come a
un apostolo della Provvidenza. Nelle epidemie del bestiame
indigeno, mandre di bovi e di cavalli si raccoglievano in torno
alla quercia per ricevere il talismano preservante dal morbo: le
orme delle unghie equine e bovine facevano come un circolo d'incanti
su l'erbe semplici del terreno.
Quando Giuliana s'incamminò,
era nella terra pescarese un gran giuoco d'ombra e d'illuminazione.
Le nuvole nòmadi trasmigravano dalla marina alla montagna, come
carovane con buone salmerie d'acqua, per quel cielo arabico del
mese di giugno. A intervalli, larghe zone di terra si
sommergevano nell'ombra, altre zone emergevano illustrate; e come
l'ombra era turchina e mobile, la campagna così dava l'apparenza
di un arcipelago che galleggiasse copioso d'alberi e di fromento.
Molto canto di uccelli letificava la maturità di biade.
Al primo spettacolo
Giuliana ebbe una subitanea sensazione di ristoro; poiché la
libertà della campagna, la felicità della luce su 'l fogliame,
li odori cordiali dell'aria circondandole d'un tratto la persona
le mossero il sangue, e la nuova speranza in lei al dispiegarsi
dell'orizzonte si fortificò ed esultò. Ella, come sempre, si
abbandonava ora all'influenza delle cose esteriori; si
alleggeriva di tutte le angosce, viveva per due sentimenti soli,
per la speranza della salvazione corporea e pe 'l desiderio di
raggiungere la meta. In fondo, alla meta, ella vedeva nella sua
fantasia sorgere il Vecchio benefico e illuminarsi
misteriosamente. Per una nativa tendenza superstiziosa, ella
trasformava quella figura, la ingigantiva e la vestiva di una
dolcezza cristiana, la cingeva di nimbo. Allora tutte le dicerie
che correvano tra il volgo le tornarono alla memoria confusamente
e gittarono sprazzi di luce meravigliosa su la fronte di Spacone.
Allora ella si rammentò che Rosa Catena, in un giorno lontano
della malattia, aveva parlato del Vecchio con una reverenza
devota citando miracoli. - Un cieco di Torre de' Passeri era
andato a San Rocco ed era tornato dopo tre dì con li occhi che
ci vedevano e con una cifra turchina su le tempia. Una femmina di
Spoltore, invasa dalli spiriti maligni, era tornata mansueta come
un'agnella, dopo aver bevuto due sorsi di un'acqua che stava in
una piccola zucca secca.
Così a poco a poco,
lungo il cammino, pe 'l concorso di tanti elementi sparsi si
venne formando nella mente di Giuliana una specie di leggenda. E
a poco a poco, giacché nulla possono li uomini senza l'assistenza
di Dio, sorse anche la persuasione che il vecchio fosse un
inviato del cielo, un redentore delle anime dalla dipendenza
corporale, un distributore di grazie celesti su la terra ai
caduti. - La speranza estrema non era discesa su la peccatrice
improvvisamente, quasi per influsso divino, fra i segnali accesi
nell'aria? E nella Pentecoste la colomba non aveva balenato dall'alto,
alli occhi della pregante, un lampo di buona promessa?
La promessa ora si compiva nel santo giorno del Corpus Domini. Giuliana dunque, tutta calda di fede e di giubilo, andava su la polvere della via nuova, non curando la fatica dei passi. Ai due lati, le siepi biancheggiavano come coperte di escrementi d'uccelli. Gruppi di pioppi sonori stavano sui
limiti; e i tronchi,
come grandi pezzi di argenteria vecchia, riverberavano le
variazioni della luce. Le contadine della Villa del Fuoco, nane,
co 'l naso camuso, con le labbra schiacciate, femmine cafre dalla
pelle bianca, venivano incontro a due, a tre. In torno, su l'immenso
teatro della campagna le vicende delle nuvole gigantescamente si
rappresentavano.
Giuliana passò il
Mulino, passò la Villa: una energia nervosa le animava il passo.
Ella si sentiva battere il vento su la nuca e sentiva su 'l capo
a intervalli stormire i pioppi. Ma l'oscillare delle ombre e la
polvere cominciavano a turbarle un poco la visione; il calore del
moto le affluiva alla testa; la volontà era tutta occupata nell'insolito
sforzo materiale dell'incedere. Ella così andò innanzi in una
specie di stordimento crescente che si mutava in malessere; e,
vinta dalla fatica e dal caldo, si lasciò allettare da un
mucchio di olivi messi in salita a sinistra.
Passavano quattro o
cinque zingari seminudi, bronzini, con qualche cosa di luccicante,
su 'l petto, a cavalcioni di certi grandi asini rossastri. Uno di
loro fischiava urtando con le calcagna il ventre della sua bestia.
Tutti avevano in mano canne e portavano bisacce di pelle sulle
cosce. Guardarono la donna rifugiata sotto li olivi e mormorarono
poi delle parole ridendo.
Giuliana ebbe paura
di quegli occhi che mostravano il bianco nello sguardo, e stette
sbigottita fin che il gruppo non si allontanò. Lo scoraggiamento
incominciava a impadronirsi di lei; la solitudine cominciava ad
esserle inquietante, poiché nella campagna correva per lunghi
brividi l'annunzio della pioggia e una certa solennità di
silenzio scendeva nell'aria dalle nuvole raccolte. Ella s'era
appoggiata a un tronco: a tratti, de' soffii freschi le
investivano la persona e le gelavano il sudore nei pori, de'
soffii che accorrevano a lei con 'l fruscio del passo di un
animale su l'erba; mentre in torno il tremolìo del sole pareva
un reverbero d'acque rinfrangenti o qualche cosa come il riflesso
di una meteora lontana. Molti fiori d'un giallo pallido di zolfo
facevano onda a pie' delli olivi.
Un ricordo scese
allora dai buoni alberi su l'animo della donna. La chiesa era
tutta piena di palme benedette e di aromi, quel giorno; ed ella
andava tra il popolo sorretta dalle braccia di Marcello, in una
gran dolcezza... Ma, come ella si soffermò in quel pensiero, uno
smarrimento le prese la memoria; tutto le sfuggì in una
incertezza di sogno. Soltanto, de' colpi sordi le batterono il
cuore e dei sussulti di angoscia le affannarono il respiro. Ella
aveva ora la sensazione ottusa di un sopore che le cadesse su 'l
cervello con la pesantezza d'un colpo di maglio su la fronte di
un bove. Un resto di volontà vigile le bastò a scuotersi
debolmente e a discendere nella strada.
Le nuvole raccolte
verso la Majella avevano preso il colore diafano e grigio di una
massa pendula d'acque. Larghe trombe si avvicinavano dalla marina
più cariche; e ancora qualche florido intervallo d'indaco si
dilatava nell'alto. Un odore di umidità già saliva dalla
polvere, saliva dalla campagna ansante nell'aspettazione. Li
alberi immobili parevano assorbire la luce, si levavano anneriti
in mezzo alla fumosità dell'aria, popolavano di forme incerte la
lontananza.
Giuliana camminava
con una fatica immensa, sentendo che le forze stavano per
abbandonarla.
- Ecco, - pensava, -
arriverò a quell'albero e poi cadrò.
Ma non cadeva. Si
scorgevano a destra le case di San Rocco. Un contadino veniva in
contro a corsa.
- Buon uomo, è
quello San Rocco?
- Sì, sì, voltate
alla prima scorciatoia.
Grosse gocce sonanti
cominciarono a cadere; poi d'un tratto la pioggia crescente rigò
l'aria di lunghe frecce bianche, di lunghe sferze che percotendo
schioccavano. Un sommovimento mostruoso agitò allora le nuvole:
sprazzi di raggi eruppero di qua, di là. Tutte le colline, in
fondo, a traverso le liste della pioggia si accesero un momento e
si rispensero. Una fievole serenità d'argento si levò su la
Majella, in una zona sottile.
Giuliana tentava di
correre verso la quercia distante un tiro di fucile. Le gocce le
battevano su la nuca, le scivolavano giù per la schiena, le
colpivano la faccia; e già le vesti erano tutte molli sino alla
pelle. I passi le mancavano su 'l terreno sdrucciolevole; ella
cadde e si rialzò, due volte. Poi, quasi folle, si mise a
gridare verso la casa.
- Aiuto! aiuto!
Una femmina uscì
dalla porta e venne a sorreggerla, seguita da due cani che
abbaiavano.
Giuliana si lasciò
condurre machinalmente, senza poter più proferire una parola a
traverso i denti serrati, livida, con la faccia stravolta. Ella
non si riscosse che dopo qualche tempo, per le domande che l'ospite
le faceva. E allora, repentinamente, all'udire il nome di Spacone,
si risovvenne di tutto.
- Ah, dov'è Spacone?
- chiese.
- È a Popoli, donna
santa: l'hanno chiamato.
Giuliana non resse
più: cominciò a singhiozzare e a strapparsi i capelli.
- Che volete, donna
santa? che volete? Io sono la moglie; ci son qua io... -
miagolava la strega, trattenendole i polsi, incitandola a parlare.
Giuliana esitò un
momento; poi disse tutto, a precipizio, tra i singulti,
coprendosi la faccia.
- Aspettate. Il
rimedio c'è; ma costa cinquanta soldi, donna santa - fece la
strega in quel suo idioma tutto molle di vocali, cantando quel
bello appellativo per intercalare.
Giuliana sciolse un
nodo nel fazzoletto e offerse cinque piccole monete d'argento.
Poi aspettò più calma.
La stanza era vasta,
ma bassa. Le pareti, su cui qua e là il salnitro fioriva,
avevano dei toni di pelli di serpente secca, avevano come delle
scaglie di rettile. Rozzi idoli cristiani di maiolica popolavano
quel fondo antico; forme strane di utensili e di stromenti
ingombravano le tavole. L'insieme dava l'impressione religiosa di
un santuario custodito da un semplicista monaco.
La moglie di Spacone,
dinanzi al camino, componeva il suo filtro, in silenzio. Era una
femmina alta ed ossuta, bianchissima in faccia, co 'l naso guasto
avente il color violetto di certi fichi meridionali, con i
capelli rossi e lisci su le tempia, con due piccoli occhi di
albina, tatuata nel mento, nella fronte, nel dorso delle mani.
- Ecco, donna santa!
Coraggio!
Giuliana ingoiò il
liquido d'un fiato; ma si sentì, subito dopo, da un'amarezza
atroce mordere il palato e le viscere. Restò con la bocca aperta,
premendosi il ventre con le mani, battendo rapidamente un piede
su 'l pavimento, nello spasimo della prima contrazione uterina.
- Coraggio, donna
santa, coraggio! - le ripeteva la strega, fissandola con quelli
occhi bianchicci di mollusco, soffregandole le reni. Avete
tempo di arrivare a Pescara... Via! via!
Giuliana non poteva
rispondere: alla bocca non le venivano che urli. I crampi le
serravano lo stomaco, le irrigidivano i muscoli respiratorii, le
eccitavano il vomito. I bulbi visivi le ruotavano in alto, come
se ella fosse entrata ne' sintomi di una convulsione epilettica.
In tutto il suo debole organismo la potenza eccessiva della
bevanda operava ora effetti inaspettati. Il parto falso si
produsse quasi d'improvviso, con una di quelle terribili perdite
per ove le forze della vita se ne vanno mollemente,
insensibilmente, fluendo.
- Gesù, Gesù,
Gesù! - mormorava la strega inquieta, presa da una subita paura
dinanzi al corpo di Giuliana riverso che a pena certe piccole
ondulazioni convulsive scuotevano. - Gesù, aiutatemi!
Alle sollecitazioni
di lei, Giuliana rinvenne. E come dopo qualche tempo il profluvio
parve arrestarsi, Giuliana si poté levare in piedi; sospinta
dalla femmina, uscire; giungere fino alla strada nuova,
barcollando, pallida come se non le fosse rimasta sotto la pelle
una goccia di sangue, ma tenuta viva da una speranza che il
maggior pericolo fosse ormai superato.
Ora la campagna era
tutta frescamente luminosa. Passava una fila di carretti carichi
di gesso, e i grossi carrettieri di Letto Manoppello, pieni di
vino, sdraiati su i sacchi fumavano. Come Giuliana si mise dietro
la fila, uno di quelli, l'estremo, gridò:
- Ohe, volete che vi
porti, bella figliuola?
Machinalmente
Giuliana si lasciò tirar sù dalle forti braccia dell'uomo, e
stette così seduta su i sacchi. Non intendeva le grasse risa e i
motti osceni che di carro in carro si propagavano.
Con una energia
involontaria d'istinto, teneva le ginocchia serrate per impedire
al flusso la via. Sentiva a poco a poco una specie di ottusità
occuparle la coscienza, così che li sbalzi frequenti delle ruote
su la ghiaia non le davano che una dolorazione sorda e il lezzo
delle pipe non le turbava che lievemente l'olfatto. Ma già il
sussurro lontano alli orecchi, il bagliore alla vista, le
vertigini annunziavano lo sviluppo dell'anemia nel cervello. Più
volte ella sarebbe caduta se non l'avessero sorretta le mani del
carrettiere che incoraggiato dalla muta docilità di lei
cominciava de' tentativi brutali di carezze.
Il paese di Pescara
apparve in cima alla strada in mezzo al sole, mandando suoni su 'l
vento.
- Fanno la
processione - disse uno delli uomini. Tutti li altri sferzarono;
e la strada risuonò sotto il trotto pesante, al tintinnìo de'
sonagli, allo schiocco delle fruste.
Quella violenza di
scosse e di fragore richiamò per un momento Giuliana al senso
della realtà circostante. Ma, poiché l'uomo le cingeva i
fianchi con un braccio e le metteva il fiato vinoso nella guancia,
ella per un cieco impeto si mise a gridare e a gesticolare quasi
l'avesse presa un delirio. E il fantasma di Lindoro subitamente
le si rizzò dinanzi alli occhi offuscati e poté anco suscitarle
il ribrezzo dell'orrore in quel poco di sensibilità che le
restava nei nervi. Ella, a pena il carro si fermò, discese a
terra dai sacchi scivolando, tentò di muovere i passi, con la
furia affannosa, di chi cerchi raggiungere un luogo sicuro per
cadere.
Venivano in contro
nella strada le verginelle coperte di veli candidi, con in mano i
cèrei dipinti, e cantavano. Dietro la torma angelica, un grande
sventolìo di drappi e di baldacchini empiva l'aria beneficata
dalla pioggia recente. E cantavano:
Tantum ergo
sacramentum
Veneremur cernui...
Giuliana,
intravedendo, voltò nel vicolo; giunse alla casa di Rosa Catena,
entrò; presa dalla vertigine, cadde in mezzo al pavimento. E,
come il profluvio del sangue ricominciava, la paralisi le occupò
la metà inferiore del corpo, ogni facoltà di moto volontario in
lei si spense.
Rosa non era nella
casa: la processione aveva attirato tutto il paese, quel giorno.
In un angolo della stanza Muà, il padre, un mostro di vecchiaia
umana, un cieco inchiodato per anni su 'l legname di una sedia
dall'artrite deformante, tentava vagamente con la punta del
bastone i mattoni intorno a sé per scoprire la causa del rumore
improvviso.
Allora, in mezzo al
sangue, Giuliana fu scossa da un parossismo di convulsione. Le
contrazioni dei muscoli le gettavano il tronco da una parte e
dall'altra; li arti le si allungavano con lo scatto e il battito
d'una gamba di animale ferito a morte, le mani stringevano i
pollici nel pugno, si riaprivano, ristringevano; i bulbi delli
occhi si ritraevano dalle orbite, sotto le palpebre violastre,
quasi con un movimento di fiore che ritiri i petali flosci in sé.
A un tratto la testa si arrovesciò in dietro tutta, nel supremo
colpo dell'apoplessia nervosa; il tronco senza sangue si
irrigidì nella paralisi. Un leggero tremore apparve nelle corde
del collo, le dita chiuse, dopo un minuto, si distesero.
Muà, senza
comprendere, girava ancora intorno a sé il bastone tentando,
vanamente, con un borbottìo nella bocca sdentata.
FAVOLA
SENTIMENTALE
I.
Galatea levò dalle
carte que' suoi freddi occhi verdognoli, ergendosi al fine su la
vita esile e lunga, facendo crepitare le dita esili e bianche.
Disse, con un respiro:
- Ho finito.
- Grazie, Galatea.
Siete stanca? - sussurrò Cesare con quella sua voce fioca,
seguitando a voltar le pagine di un gran libro su 'l leggìo.
- Un poco. Mi
riposerò.
Ella s'immergeva
così nel silenzio: sul fondo di cuoio scuro della spalliera la
capellatura cinerea posava dolcemente e un'ombra attenuava la
nitida marmoreità del viso. Intorno la biblioteca pareva
dormisse un sonno buono e pacifico di vecchio, metteva un alito
di cartapecora e di noce antico nell'aria, metteva turbinii di
polvere nelle zone di sole.
Da tempo, Cesare e
Galatea passavano le ore così, studiando, in una quiete augusta
di monastero. Egli era venuto nella villa dello zio materno a
cercarvi la solitudine, a sacrificarvi la bella gioventù, i
belli amori: a poco a poco tutte le esuberanze, tutte le
irrequietezze della sua natura si agguagliavano in una serenità
alta e virile, s'illimpidivano in una veggenza felice; il culto
dell'arte a poco a poco gli andava infondendo un non so che di
spirituale e di sacerdotale anche nell'aspetto. Fu l'opera lenta
della consuetudine, fu l'opera di quella luce mite in cui egli
viveva, di quel crepuscolo ove li occhi suoi miopi languivano
quasi di continuo, ove su la sua faccia i fiori del sangue
impallidivano.
Galatea gli era una
compagna taciturna e pensosa, una aiutatrice, una gentile
amanuense che non si perdeva mai tra i labirinti e li arabeschi
delle scritture sapienti. Ella cresceva come uno stelo, cresceva
nella grande malinconia di quella casa ove ella non aveva mai
veduto sorridere la madre... Povera madre morta! Con che lungo
sospiro di amore e di dolore Galatea guardava il velo disteso sul
ritratto della povera madre morta! Quel ritratto era in una larga
stanza nuda, sopra una parete bianca, là, all'estremità della
villa: nessun rumore vi giungeva, la luce penetrava a traverso le
tende fievole e triste. Quando Galatea varcava la soglia, un filo
gelido di terrore l'assaliva, un ribrezzo le strideva per le ossa;
le pareva come d'entrare in un sotterraneo; tutto quel candore le
dava la sensazione dell'immenso. Pure ella restava là lungo
tempo, in ginocchio, a pregare, a pregare, mentre il lembo del
velo ondeggiava a ogni alito di vento sopra a quell'effige di
cadavere; ella teneva gli occhi smarriti nel vano, e nel vano la
preghiera si smarriva con un sussurro debole di labbra.
Lentamente i chiarori del giorno mancavano. Allora nella penombra
pareva che l' ondeggiamento si allargasse, ingigantisse; a poco a
poco un immane lembo di sudario si stendeva in tutta la stanza
con un soffio impuro. Ella ne sentiva il contatto rabbrividendo;
ella diveniva diaccia ed immobile come di pietra, restava là fin
che non la traevano fuori tutta pallida, tutta tremante.
Ma tornava poi a
quell'adorazione cupa e solitaria, ci tornava con impeti di
lacrime, chiamando la morta fra i singhiozzi. Ella voleva vederla,
vederla una volta, ma viva, ma con la vita nelle pupille, vederla
bella e ridente, una volta sola!
- Era bionda; è
vero? bionda come me; è vero? - chiedeva al padre, sollevando li
occhi umidi, tentando fra la tenerezza delle lacrime un lampo di
sorriso.
Ella era cresciuta
così, nel dolore. Ella aveva in sé qualche cosa di quelle
piante bianche, vissute al buio, che sembrano germogliare dal
morbo di un corpo umano e ombreggiano della loro tristezza i
sepolcri. Il gran sole, la gran luce la fastidivano: ella
socchiudeva le lunghe ciglia, ella difendeva dalla ferita que'
poveri occhi infermi. Pure, amava i fiori. Dietro la villa, in un
pezzo di terreno, una vegetazione malaticcia e pingue
sonnecchiava nell'ombra; erano grosse foglie carnose di un bruno
tendente al violetto, cosparse di pelurie come di una muffa;
erano ramificazioni nane, ignude, simili a rettili morti o a
bruchi enormi; erano lame piatte di un verde pallido, rigate di
bianco e macchiate come dorsi di rane. Certi grandi fiori
paonazzi si aprivano a coppa, sorgevano da terra su lunghi tubi,
senza fogliame; certi calici di un roseo di pelle umana si
gonfiavano su li steli contorti; certe bocche di uno scarlatto
cupo emettevano stami simili a piccole lingue gialliccie. I
petali avevano come il viscidume dei funghi, gli involucri sparsi
di cavità erano favi di cera. Qualche tulipano si schiudeva
pigramente in una striscia di sole; qualche peonia vinceva co'
larghissimi fiori carichi di carminio; e in torno, nell'autunno,
le vitalbe sembravano viluppi di ragni pelosi o mazzi di piume
grigiastre. Solo il sambuco odorava dalle ampie antele candide,
fresco e mite, là dentro. Le farfalle passavano fuggevoli;
gruppi di chiocciole andavano qua e là strisciando tra le piante
succose, lasciando le righe lucenti.
Galatea amava quel
luogo: quella triste plebe di vegetali aveva per lei un incanto;
come lei soffriva, come lei pareva inferma. Ella, dritta in mezzo,
nell'abito bruno, faceva pensare a un gran fiore solitario. Ella
provava allora un sentimento malsano di tenerezza per quelle
povere esistenze che languivano senza un'occhiata di sole; ella
si accasciava, udiva come un gemito sollevarsi, udiva il gemito
delle cose morenti. Perché nel suo organismo pieno di umori
acquei un senso misterioso della morte pareva influisse fin dal
giorno natale che fu l'ultimo alla madre.
II.
Ella viveva così,
quando Cesare giunse. Da principio provò quasi un disgusto; le
pareva che quel giovine venisse a turbarle la quiete alta e
gentile della casa, venisse a interromperle la malinconia muta
ove ella voleva adagiarsi, ove ella credeva di sentire la
presenza invisibile dell'estinta. Ma a poco a poco ella vinse il
disgusto, fu buona e cortese. Cesare era dominato lentamente dal
silenzio, dal raccoglimento profondo di tutto ciò che lo
circondava; e si obliò nell'arte.
Passavano delle ore
nella biblioteca del vecchio conte. Nella grande sala
rettangolare la luce entrava dai vetri opachi dei finestroni,
avviando i fregi d'oro matto su li scaffali di noce, perdendosi
nelli angoli. Li stemmi gentilizi intagliati nel legno coronavano
la sommità; e nel mezzo della volta cava, rosseggiavano i larghi
svolazzi di un affresco secentesco a fondo di nuvole giallognole.
In penombra le file dei libri parevano come una muraglia piena di
screpolature, inverdita qua e là dai muschi, chiazzata dalle
pioggie, solcata dalle lumache.
Galatea leggeva o
trascriveva; od ascoltava Cesare parlare, con i freddi occhi
aperti, abbandonata alla spalliera di cuoio. Pure tra le ecloghe
fragranti e fiorenti di Virgilio e le liriche alate, e sospirose
del dolce stile novo, il loro idillio non sbocciò.
Galatea non aveva
che un austero e verginale sorriso di vestale antica; ella voleva
esser tutta del suo mesto dio lare, che la vigilava di sotto al
velo funerario.
E una volta sola
Cesare sentì le sue fibre di artista vibrare dinanzi a lei. Era
un pomeriggio caldo di giugno: ma la biblioteca taceva immersa
nella frescura azzurrognola delle tende calate su i vetri.
Egli entrò; la
fanciulla dormiva dolcemente nelle pieghe ricche e fluide di una
tunica, poggiata il capo alla grande sfera delle costellazioni.
La sfera pareva di avorio ingiallito, pareva come un enorme
teschio umano intorno a cui strane figure di animali giravano; i
capelli di Galatea sciolti ricadevano con riflessi sottili giù
per le spalle; ricoprivano le gote; e un nastro aureo di sole
traversando la frescura illuminava su 'l capo di lei una fila di
libri in cartapecora verdastra simile a rame ossidato. Ella aveva
cinte le braccia alla sfera; le larghe maniche lasciavano
scoperte la carne bianca e diafana che trame di vene fiorivano.
Cesare guardava,
pensando alle Norne scandinave e alle vergini merovinghe; quando
ella si destò pel ferire del sole e gli sorrise viva dalle iridi
ove il fulgore novo e il torpore del sonno e la meraviglia per un
istante pugnarono.
- Perché vi destate,
Galatea? Siete così bella nel sonno! - disse egli con un accento
ingenuo di ammirazione.
Ella gli sorrise
ancora, annodandosi i capelli: la guancia destra era soffusa di
vermiglio, dal premere sulla sfera.
Ma quel germe d'idillio
rimase chiuso in un sonetto, per sempre, come un fiore o una
farfalla nella nitida prigione dell'ambra.
III.
Un giorno il conte,
prima del pranzo, annunziò la venuta della baronessa De Rosa,
seconda moglie del fratello Federico, reduce dai trionfi estivi
di Rimini e di Livorno. Egli mostrò a Cesare una lettera
azzurrina stemmata in oro.
- Leggi - disse.
Cesare la prese; e l'odore
acuto emanante dal foglio gli mise nell'anima un turbamento
strano, gli suscitò come una inquietudine. Pe 'l foglio saliva
una volata di piccole cicogne bianche, e fra le cicogne i
caratteri piccoli e nervosi s'incalzavano in violetto,
squisitamente.
- Quando arriverà?
- chiese Galatea.
- Domani.
Giunse, in fatti.
Ella era una ben giovine zia, una splendida figura di andalusa
dalle nerissime iridi piene di desiderii e di misterii.
- Oh, mia bella
bionda! oh, mia bella bambola bionda! - esclamava, stringendo fra
le braccia Galatea, sconvolgendole i capelli su la fronte,
tormentandola di baci.
- E voi, Cesare?
Anche voi siete qui, nel castello solitario, paggio, trovatore,
cavaliere... come?
E rideva in certi
piccoli tintinni di cristalli e di metalli vibranti, piegando il
capo in dietro, mentre le gengive rosee le si scoprivano un po'
crudelmente e il petto le sussultava sotto la corazza di raso.
- Non temete gl'incantesimi,
Cesare?
Ella era così;
parlava con una volubilità petulante e cinguettante, con un
adorabile brillio di erre. Contro li erre l'onda fresca della
voce pareva che si frangesse e s'increspasse.
- Sempre qui, sempre
qui, Galatea? Non vorrai mai rompere il tuo cerchio magico,
dunque? Ve la rapirò conte, ve la rapirò questa vostra Jolanda
dalli occhi pensosi... Ma tu hai proprio due smeraldi per occhi,
Galatea! Perché mi guardi così? Ti piaccio?...
E s'impazientiva nel
togliersi i lunghi guanti di camoscio nero che le serravano le
braccia fino al gomito.
- Andiamo. Conducimi.
A quell'irrompere
improvviso di allegria li echi della sala si svegliarono, le
sonorità cupe delle volte fremevano; un solco di profumo seguiva
il fruscìo di Vinca sopra i pavimenti di mosaico antico, a
traverso le stanze piene di legno scolpito e di tappezzerie
sfiorenti.
Accanto a quella
donna, Galatea prima si sentì presa come da uno stordimento; poi
come una irritazione sorda l'assaliva contro quella mobilità
nervosa, contro quelle onde acri di odore che a lei davano la
nausea, contro quelli scoppî di risa che a lei ferivano i
timpani acutamente. Ella avrebbe voluto ribellarsi a certe furie
di baci, a certe carezze vivaci, a certe lusinghe svenevoli.
- Bambola bella! -
sussurrava spesso Vinca, a denti stretti, a labbra aperte, con un
piccolo vezzo felino, mentre serrava la tempia della fanciulla
tra le palme e l'attirava alla bocca.
- No; non mi
chiamate più così, zia, vi prego - ruppe una volta Galatea, con
un lieve tremito d'ira nella voce.
- Bambola bella! -
ripeté Vinca. E gittò all'aria una di quelle fresche risate
scampanellanti, abbandonata su 'l divano con tutta la persona, in
un atteggiamento provocatore. Su 'l divano il sole, entrando
dalla finestra, rinvermigliava i fiorami di seta smorti nel
vecchio tessuto di argento: e da quel fondo emergeva il bel corpo
femineo chiuso nell'abito di casimiro, avvolto nel pulviscolo dei
raggi. Era un quadro di tinte dolci; dalla parete pendeva un
arazzo scolorito ove due cavalieri inseguivano una cerva
fuggiasca. Vinca rideva: le risa nel sole pareva brillassero.
Quando apparve su la soglia Cesare:
- Entrate, dottore,
entrate - esclamò la zia, ergendosi e tendendo le mani verso il
giovine. - Placate Galatea, per carità!
Ma la fanciulla ora sorrideva sottilmente. Cesare, senza volere aspirò il profumo fine di violetta che si insinuava per l'aria, il profumo stesso della lettera con le cicogne: al senso del piacere le narici
gli trepidarono.
Egli veniva dal tanfo grave dei volumi tarlati, dal silenzio
della biblioteca ove il richiamo delle risa di Vinca era giunto.
Era giunto nel silenzio, mentre egli curvo su le pagine sentiva
dalle pagine liberarsi la sana giocondità delle canzoni
goliardiche precipitanti con un scrosciar vivace di rime latine
nella fuga del ritmo.
O! o! totus
floreo..
Egli aveva teso l'orecchio;
e nell'orecchio gli squillarono per un istante le risa con i
chicchiriamenti di una strofe pazza.
Veni, veni,
venias,
ne me mori facias,
hyria hyria
nazaza
trilliriuo.
Tutti li ardori e le
cupidigie della giovinezza parvero ridestarsi d'un tratto nel
sangue di lui come a una musica di battaglia e di vittoria, e
rigerminare con nuova violenza. Gli parve di sentire in tutte le
membra come un crepitio d'involucri spezzati e di gemme rompenti,
sotto la grandine allegra di quelle risa e di que' ritornelli.
O! o! totus
floreo.
Egli scattò in
piedi. Quella fredda solitudine l'opprimeva; egli la odiava,
quella solitudine...
- Entrate, dottore,
entrate - fece la voce cristallina della baronessa.
Con che felice
audacia il corso della baronessa si staccava dal vecchio fondo
biancastro a fiorami rossi! Dai fini lobi delle orecchie i cerchi
d'argento a contrasto del tono bruno delle gote le pendevano
zingarescamente; e su le gote una peluria lievissima le fioriva
ombreggiando anche il labbro superiore, lievissima.
- Senti, Galatea,
bambina; facciamo la pace - sussurrò ella con un accento
pieghevole e carezzevole. - Andiamo giù, nel viale: andiamo al
sole con Cesare... Vuoi venire?
- No, zia; lasciami
qui. Non posso andare al sole, io - rispose Galatea, sommessa.
- Venite voi, Cesare?
- chiese Vinca al giovine.
Cesare le offrì il
braccio, inchinandosi.
IV.
S'inoltrarono pe 'l
viale delle robinie, soli. Su la coppia era un galleggiamento
floscio di foglie; e un odore di fiori morti esalava dai grappoli
flosci, un odore indistinto, nella crescente malinconia.
L'ora non penetrava
l'anima di Vinca: ella veniva cantarellando un'arietta di Suppè,
con certi ondeggiamenti spavaldi del capo.
- Dio mio, parlate
un poco: ditemi de' versi, fatemi pure de' madrigali - ruppe ella
finalmente. - Ma parlatemi di qualche cosa! O volete che
ascoltiamo il lamento delle foglie moribonde e le voci del vespro
e le avemarie languide, sospirando? Ah!...
Ed ella sospirò,
con una grazia adorabile, levando il bianco degli occhi al cielo.
- No, no, signora -
fece ridendo Cesare: e nel riso gli si scoprirono le file nitide
ed eguali dei denti, sotto i baffi castanei. Egli non era brutto:
un pallore gentile gli occupava la faccia, onde le linee
irregolari si attenuavano. Su quel pallore i chiari occhi miopi,
quasi sempre socchiusi, talvolta si dilatavano smisuratamente e
le iridi vinte dalla pupilla parevano talvolta due buchi neri.
- No, no, signora
zia - ripeté con uno strascico di voce.
- Sentite, nipote,
che odore?
- Sento l'odore
della violetta - disse Cesare con una dolcezza melodiosa.
Le risa
scampanellarono vivamente sotto la tranquilla volta vegetale.
- Ah, nipote; voi
avete fatto il primo verso d'un sonetto o un principio di
dichiarazione? Che ingenuità audace! Voi cominciate a farmi
tremare. Scostatevi.
Ed ella voleva
liberarsi dal braccio di lui, con un'aria di canzonatura e di
paura; ma Cesare la tenne prigione sotto la stretta.
- Restate, zia. Io
sono innocente.
Facevano così, per
gioco. Però Cesare quando nel trattenerla le prese la mano senza
guanto, sentì un brivido fine salirgli le ossa: e guardò quella
piccola mano dalle dita lunghe, dalle unghie di ònice che aveva
una emme profonda su la palma. Dal polso, di sotto ai
braccialetti d'oro e d'argento niellato, certe vene verdognole si
diramavano perdendosi nel misterio del casimiro, simili a
infiltramenti di rame in un pezzo di alabastro.
- Restate, zia.
Erano dinanzi a una
grande vasca solitaria. Su le acque inerti galleggiavano chiazze
giallastre di putredine e certe foglie rossigne di cuoio si
stendevano in greggia presso alli orli erbosi. Nel mezzo un
gruppo di tritoni dalle code di pesce invigilava que
silenzi che non più lo scroscio delli zampilli rompeva, da tempo;
su la vecchia pietra i muschi e i licheni facevano come un manto
tigrato; alla base le borracine si allungavano in verdi filamenti.
- Sediamo qui -
disse Cesare, scoprendo un pezzo di rude bassorilievo atterrato
fra le erbe. Egli si sentiva inquieto, mentre Vinca sedendo lo
guardava con i vivi occhi pieni di misericordia.
- Qui, ai miei piedi,
o Cesare - ella impose, con un tono scherzevole d'imperio.
- No, mai.
- Qui, ai miei piedi
- ripeté.
- Eccomi,
Vinca; tu vinci.
Facevano così per
gioco. Ma Cesare co 'l capo quasi le toccava i ginocchii ed ella
vedeva la nuca bianca del giovane, una nuca di Antinoo modellata
squisitamente.
- Guardate, Cesare,
le farfalle che cadono.
Ella indicava le
foglie pioventi a una a una su le acque; ella voleva parlare,
cominciava a temere il silenzio, cominciava a perdere l'arguzia a
poco, a poco. Non aveva saputo dire che quella frase, comune e
sentimentale in quel luogo, in quel momento.
- Guardate...
Ella respingeva
dolcemente i tentativi timidi di carezze che Cesare faceva con le
dita malferme su i nastri della veste; e quella timidezza la
seduceva. Cesare non guardava le foglie; perché una piccola
scarpa di lei luccicava in mezzo all'erba e su quella pelle
iridata egli osservava i leggeri movimenti che Vinca ci metteva a
tratti con le dita del piede stretto. E il pallore gli cresceva
su 'l volto, perché, gualcendo egli uno dei nastri, le dita
urtavano a lei un ginocchio.
- Si fa tardi:
andiamo - fece la signora alzandosi. Le tremavano le parole.
Ma quando si sentì
le gambe avviluppare dalle braccia di Cesare che era rimasto
prostrato come uno schiavo e tendeva in alto la faccia smorta ove
un conato di riso pugnava co 'l brividìo del desiderio.
- Traditore! -
sussurrò ella, piegandoglisi flessuosamente su la bocca.
V.
Tornarono.
- Così presto? -
disse Galatea, con un tono crudele d'ironia nella voce,
fissandoli con i freddi occhi indovini.
Ella non aveva
pregato il dio lare, quel giorno, per la prima volta! Allora che
li squilli di Vinca si persero giù per le scale e i passi della
coppia su la sabbia del viale si attenuarono, d'un tratto un'angoscia
cupa l'aveva invasa, uno sgomento cupo l'aveva oppressa. Fu come
un assalto inaspettato, contro cui ella si sentiva debole, contro
cui ella si sentiva inerme; fu come il divampare improvviso di un
incendio che ella portava dentro di sé, da tempo inconsapevole.
Da prima ella non credette, ella non voleva credere, non volle
penetrare quel sentimento nuovo che la sopraffaceva e la prendeva
tutta; ella provò a distendervisi, senza gemere, con un
abbandono cieco,
Ma no; ma dal suo
cuore, ma dal fondo dell'anima sua, l'immagine di Cesare
prorompeva, vittoriosamente. - Dunque era vero? Dunque ella lo
amava? Dunque ella sarebbe stata infedele alla povera mamma morta?
- O mamma! o mamma!
- singhiozzò allora affranta, torcendosi le braccia,
nascondendosi tra i cuscini la faccia riarsa dalle lacrime.
A poco a poco quel
dolore cedette; sorgeva una passione più umana, sorgeva uno
strazio più umano. Le risa di Vinca parea vibrassero ancora
nella vuota sonorità della volta. Era là Vinca dianzi,
abbandonata su quel divano, tutta odorosa e luminosa. Cesare la
involgeva tutta del suo sguardo avido: egli non aveva mai avuto
quel luccicore nelle pupille, mai. Erano andati soli, nel viale,
là giù, sotto li alberi, soli.
Ella si tormentava
così, da se stessa; aspettando.
- Povera Galatea,
come ti sarai tediata! - disse Vinca accarezzandole i capelli,
insinuandole fra le ciocche le dita gemmanti di anelli. - Ma tu
ardi, Galatea... Sentite, Conte; ha la febbre.
- No, non ho nulla,
babbo; nulla.
Ed ella teneva fitti
li occhi su Cesare, li occhi ardenti nel mortale pallore del viso.
Poi si passò una mano su la fronte; provava uno sfinimento, un
affievolimento, per tutto il corpo, un freddo sottile sottile.
- Ho tanto sonno; mi
pesa tanto il capo... Ma la febbre no! Sento che dormirei tanto
tanto - sussurrava con una lentezza stanca socchiudendo le ciglia,
come se le venisse meno il respiro. - Dormirei... sì... tanto...
Ella si abbandonò
su la spalliera; un sopore invincibile le occupava quelle povere
vene esauste, le intorbidava la vita.
- Galatea! Galatea!
Le uscì un gemito
dalle labbra bianche; come un soffio.
- Galatea!
VI.
Fu un lungo letargo.
Quando ella aprì li occhi ove ancora la nebbia del letargo
fluttuava vide la testa calva del padre curva su di lei in un
muto atteggiamento di timore e di dolore.
- Dov'è Cesare? -
gli chiese con una voce che le moriva in gola.
- Di là, figlia;
con Vinca.
Ella rinchiuse le
palpebre, come per affievolire l'intensità della fitta; le parve
che le giungesse come un rumore lieve di risa soffocate.
Vinca e Cesare
empivano tutta de' loro amori e delle loro giovinezze la vecchia
casa austera; i segreti dei loro amori si nascondevano all'ombra
delli arazzi scolorati ove nella rosea lucidità della seta un
bel popolo ignudo di ninfe e di cacciatrici aveva fiorito un
giorno. Cesare in braccio a quel piacere si abbandonava con tutto
l'impeto oblioso delle nature represse; egli se la vedeva sempre
dinanzi quella bella e perversa maliarda a cui la gengiva
vermiglia si scopriva sempre nel riso e nel sorriso; egli se la
vedeva sorgere tra gl'immani candelabri di noce scolpito, tra i
seggioloni stemmati, tra li specchi appannati e macchiati, sotto
i baldacchini rigati d'oro, sotto le portiere pesanti, in mezzo a
tutte quelle cose morte; da per tutto, erta e procace e sfidante.
Galatea sentiva
quell'anelito nuovo; col meraviglioso istinto che a lei dava il
morbo, aveva indovinato.
- Fammi morire!
fammi morire! - ripeteva ella fra i singulti, gittata come uno
straccio dinanzi all'effige della madre, guardando con li occhi
stravolti dallo spasimo quel velo muto, là giù, nella stanza
lontana. - Fammi morire!
Ma al fine Vinca
partì: il marito la voleva. Fu una partenza improvvisa, in una
mattina fredda e grigia di ottobre.
- Addio, Galatea.
Addio, Conte. Addio, Cesare.
Ella non era triste;
ella era solo un po pallida, a traverso il velo nero.
Baciò Galatea tante volte; tese la mano a Cesare che stava lì
ritto senza parlare.
- Ci rivedremo a
primavera - gridò ancora affacciando la testa allo sportello
della carrozza, agitando le dita. E il trotto dei cavalli si
perse pel viale, sotto le robinie che si accasciavano nella
grande umidità nebbiosa.
Allora Galatea
sentì un sollievo dolce penetrarle a poco a poco nell'anima;
sentì li antichi silenzi ridiscendere lenti e solenni a regnare
su la casa; sentì co 'l sollievo anche uno sfinimento placido
ove la sua povera vita si estingueva come sommergendosi. Erano i
giorni limpidi e tepidi dell' estate di San Martino: un velo di
sopore aleggiava su la campagna godente in quelli ultimi abbracci
del sole.
Ella amava ora il
sole; ella voleva che i raggi benigni la involgessero tutta come
in una veste fluida di oro; ella dava la faccia al calore pieno,
chiudendo le palpebre, provando un senso di piacere nella gola a
quella blandizia.
- Com'è gentile! -
diceva ella, sommessa. Cesare, da canto, la guardava con un
sorriso pieno di malinconia.
- Cesare... - ruppe
ella un giorno al fine, con un impeto, tendendogli le scarne
braccia. Ma tacque poi; ricadde nella muta stanchezza donde
invano tentava di sorgere. Il petto esile aveva un alenare fioco,
sotto le pieghe della tunica.
Ella salì all'organo
che dormiva, da tempo, in un angolo della biblioteca. Cesare
tirava i mantici polverosi: i mantici ansavano con un respiro
ampio di gigante umano, nel silenzio, suscitando le anime dei
suoni entro le lunghe canne metalliche. Galatea ricordava su i
tasti un'armonia di Bach, incertamente.
Nella biblioteca,
dai finestroni aperti, entravano zone vive di luce. Le file dei
libri, a quella irruzione insolita, rivivevano, gittavano anch'esse
le loro note deboli dai curvi dossi tarlati. Era tutta una gamma
di colori: li Annali di Baronio e di Raynaldo nella
cartapecora verdognola prendevano riflessi dubbii di bronzo
antico; li Acta sanctorum gialleggiavano e biancicavano in
una tinta di tonache domenicane, occupando quasi intero uno
scaffale altissimo; in quel biancicore Strykius faceva una
macchia vivace di azzurro e il piccolo Fréret vibrava quasi uno
sprazzo audace di scarlatto. Erano poi toni scialbi e varii di
tappezzerie usate; erano vecchiumi di cuoio, chiazze di un
rossastro di ruggine, di un violaceo livido, di un arancio
sbiadito. Ma il sole avvivava quei toni, destava luccicchii nuovi
nell'oro morto, infondeva un'aria di giovinezza a quelle carte
che la polvere e la muffa di tanti lustri copriva.
Dalle canne dell'organo
li accordi di Bach si spandevano pe 'l vano timidamente; sotto le
dita diafane di Galatea i tasti cedevano appena. Ella sentiva il
fremito sonoro correrle pe i nervi con un senso quasi di
dolore; ella si sentiva mancare il respiro.
- Cesare - mormorò
con un filo di voce, abbandonata su la spalliera, vinta dallo
stesso mortale sopore di quella volta.
E, come tese le
braccia, esalò al fine l'animula blanda in un sospiro.
NELL'ASSENZA DI
LANCIOTTO
I.
- Oh, Donna Clara,
salute!
All'augurio ella
sorrise tristemente; poiché sentiva che la buona salute a poco a
poco la abbandonava, forse per sempre.
Tentava di rimanere
ancora in piedi, di tenere in piedi quella grande sua macchina
ossuta contro l'affievolimento crescente: pareva così forte,
malgrado una fitta irradiazione di rughe, malgrado una bella
colorazione di nevi senili. E poi allora principiavano li
allettamenti della primavera, così dolci nella campagna ove ella
viveva da tanti anni, principiavano allora quei buoni tepori
aspettati che l'avrebbero fatta guarire, che l'avrebbero salvata
certamente. Bastava ch'ella avesse la virtù di non cedere a
quella spossatezza, bastava ch'ella non si accasciasse, bastava
che la nuova aria l'entrasse nei pulmoni, le accelerasse il
sangue. Questa fiducia le ravvivava lo spirito, la faceva essere
quasi ilare, le faceva amare i clamori infantili, di cui Eva
rallegrava le stanze, le faceva amare li squilli di canto di cui
la nuora empiva le volte. Quel profumo di giovinezza umana che
saliva tutt'intorno, e quella benevolenza della stagione nascente
l'eccitavano, le davano una specie di energia momentanea che
certi liquori dànno, la turbolenta sollevazione di vita che ha l'infermo
se oda una musica allegra passare. C'era in tutto questo però
qualche cosa di amaro, l'acredine che viene immancabilmente da
ogni lotta. Quando la nuora, vedendola pallida nella zona di sole
che traversava i vetri della finestra, smetteva di cantarellare,
presa dal rispetto pietoso che hanno i sani per i sofferenti e le
chiedeva se proprio si sentisse bene, Donna Clara rispondeva:
- Sì, Francesca, mi
sento bene. Cantate pure.
Ma il tono sordo
della voce svelava una irritazione repressa; e Francesca se ne
accorgeva.
- Volete, mamma, che
vi faccia preparare il letto?
- No, no.
- Avete bisogno di
nulla?
- Ma no, di nulla...
L'impazienza
irrompeva. Ella apriva le vetrate e poggiava i gomiti sul
davanzale, cercando di respirare largamente la salute nell'aria.
O chiamava a sé la piccola nipote Eva, che le si gettava addosso
con la furia cieca dei fanciulli ebbri di chiasso ridente nella
faccia rossa di calore tra l'abbondanza del biondo.
- O nonna grande! -
gridava la bimba incurante della pena recata alle ginocchia della
vecchia nell'urto dell'accorrere. E rimaneva a riposarsi, mentre
Donna Clara godeva immergere le dita signorilmente lunghe nella
vitalità di quella chioma che esalava il profumo naturale dell'infanzia,
come in un bagno salutare. Per un momento quell'espansione di
tenerezza le faceva bene, sentiva per un momento da quel piccolo
corpo, ancora tutto vibrante de' moti anteriori, ripercuotere in
sé una sensazione di gioia incosciente; o meglio, ella . sentiva
che in quel piccolo corpo qualche parte del suo proprio essere
viveva come per passaggio di eredità, e ne gioiva. Sollevava il
capo della bimba; la voleva guardare in quei puri e profondi
occhi, quasi sempre dalla meraviglia fatti maggiori.
- Ha li occhi e la
fronte di Valerio; non è vero, Francesca?
- Sì, mamma; ossia
li occhi vostri e la fronte vostra.
Allora le rughe
nella faccia di Donna Clara si aggruppavano come raggi, nella
luminosità che loro dava la compiacenza del sorriso.
Poi, quando Eva,
presa da una nuova frenesia di agitarsi, le guizzava sotto la
carezza sfuggendo, Donna Clara restava in una specie di
stupefazione, come chi senta mancare uno stimolo dilettevole in
una parte delle membra, e tema che scuotendosi anche l'ultima
ondulazione del diletto vanisca. A poco a poco la fatica di
tenersi sù contro il languore diventava penosa, e quella
ostinazione di resistenza a poco a poco cedeva; e prima un 'inquietudine
vaga che si andava determinando via via in timore, e quindi un
terrore vero, il terrore di chi avendo esaurito il coraggio si
trova senza scampo dinanzi al pericolo, strinse la vecchia anima
e la irrigidì. Il corpo aveva bisogno di star disteso e di non
più gravare su i muscoli affievoliti; poggiando il capo alla
spalliera della sedia e rilasciando le membra, l'inferma provava
un sollievo. Ma quel gran letto cupo, tutto chiuso in torno dalle
cortine di damasco verde, ma quel gran letto occupante da solo
tutta la camera, dov'era morto cinque anni innanzi il marito,
quel letto le aggravava il terrore. Ora non ci sarebbe entrata
mai; le sarebbe parso di seppellirsi per sempre, di soffocare. E
invece ella conservava, nel turbamento, la bramosia dell'aria
piena e della piena luce; ella odiava l'isolamento, per l'illusione
che il contatto e la vista delle cose forti giovani e liete l'avrebbero
lentamente rinnovata.
Così, quando
Gustavo, il figlio minore, con la dolcezza la persuase, ella
volle che le mettessero un piccolo letto nella camera all'angolo
della casa, sopra la gran tettoia delli aranci, tra mezzogiorno e
levante dove si vedeva il cielo, dove erano le due larghe
finestre aperte alle invasioni del sole.
A pena fu adagiata,
a pena ebbe il presentimento che non si sarebbe forse alzata mai
più, successe in lei al terrore una calma singolare. Ora ella
attendeva; e nulla più triste di quella lunga attesa, di quella
lenta deperizione d'una creatura umana, di quella consacrazione
sicura alla morte.
La nuova stanza
aveva le pareti nude, l'aspetto di un luogo fin allora disabitato.
A traverso i vetri di una delle due finestre si scorgeva l'ultimo
limite della pianura e la linea scura de' colli, e dietro i colli,
su 'l cielo vivo, il profilo di Montecorno, quella figura dolce
di dea supina che sotto la neve pare una immensa statua di marmo
abbattuta lungo la terra d'Abruzzi, la protettrice della vecchia
patria, che i marinai dalla costa salutano con effusione d'amore
come un giorno i nauti del Pireo salutavano l'asta di Atena.
Sotto l'altra finestra si rischiarava ai buoni soli una fila di
aranci.
E i giorni passavano.
Valerio lontano non sarebbe tornato che fra due, fra tre mesi
forse. Dal letto dell'inferma si diffondeva per tutta la casa il
silenzio; era quella soffocazione o attenuazione di tutti i
rumori, di tutte le voci che si fa in torno ai malati per non
disturbare il riposo. Il medico, un piccolo uomo dalla faccia
tutta rasa, quasi lucida, veniva ogni sera, poco prima del
tramonto, alla stessa ora. Nella stanza cominciavano le ombre,
rotte talvolta da un ultimo bagliore che dalla finestra di mezzo
entrava a sfiorare il letto; un domestico portava il lume coperto
da una gran ventola verde. Quando il medico era uscito, restavano
nella stanza Gustavo e Francesca, seduti accanto al letto,
silenziosi, dominati da quella luce eguale, ascoltando le voci
fievoli che mandava la campagna nel lontano. Eva piegava la testa
nella gravezza del sonno, inondando le ginocchia della madre con
i capelli di sotto a cui usciva il respiro, senza che si vedesse
la bocca. Erano i capelli una morbida massa palpitante.
- Sentiteli - disse
una volta Francesca al cognato, accarezzandoli con la compiacenza
delle madri felici.
Gustavo v'immerse le
dita leggere appressandosi col chinare il corpo senza levarsi
dalla sedia; e nel solco s'incontrarono le mani fuggevolmente.
Pure, a quel contatto i due giovani per un moto istintivo le
ritrassero. Si guardarono dopo, con la meraviglia curiosa di chi
abbia d'un tratto scoperta per caso qualche cosa fin allora
inaspettata, nascosta; nessuno dei due, prima, aveva pensato che
da quell'avvicinamento di epidermidi sarebbe scoccata quella
scintilla. E insieme guardarono la vecchia; dormiva Donna Clara;
aveva gli occhi chiusi, doveva dormire. Stettero un momento ad
ascoltare quella respirazione un po roca che pesava nel
silenzio.
- Oh mamma! -
mormorò la voce d'Eva mentre di tra il biondo sbucava la faccia
increspata nella confusione fastidiosa del primo svegliarsi.
II.
Nacque allora in quelle due nature differenti un sentimento strano, misto di rammarico e di timore, in fondo a cui un sommovimento vago di bramosie cominciava a determinarsi; era come quando nel sonno dalle sedi interne, ove dormono fantasmi di passate sensazioni e frammenti d'immagini dimenticate, cominciano a salire le visioni confusamente; era come quando all'urto di un corpo nella quiete dell'acqua limpida si sollevano i detriti accumulati dal tempo. Allora certi piccoli fatti anteriori
riapparirono nella
memoria sotto una luce nuova, presero significazioni che innanzi
non ebbero, atteggiamenti che innanzi non ebbero.
Da poco più di un
mese Francesca era venuta in quella casa, per rimanerci durante l'assenza
del marito; i sette anni del matrimonio li aveva passati quasi
interamente a Napoli con Valerio. Francesca ricordava che il
giorno dell'arrivo, dopo avere abbracciata Donna Clara, aveva
porta la fronte a Gustavo, e Gustavo l'aveva baciata arrossendo
in quella sua selvatichezza di eremita. Una mattina mentre ella e
Gustavo sedevano nell'aranceto e Gustavo le leggeva un fatto di
amore in una cronaca di giornale, ella ridendo e mostrando nel
riso superiormente il roseo della gengiva aveva cominciato:
- Soli eravamo e
senz'alcun sospetto...
Così, ridendo, con
quella sua bella noncuranza sorvolante; e il riso dava un'espressione
fine al volto, a quel puro ovale di miniatura indiana, dove li
occhi erano tagliati leggermente salienti alli angoli verso le
tempie, e le sopracciglia, arcuandosi forse troppo e
allontanandosi dalle palpebre, mettevano nella fisonomia un'aria
singolare d'infantilità.
Un'altra mattina Eva,
presa da uno de' consueti inebriamenti di chiasso, aveva voluto
che Gustavo la portasse pe 'l viale su le spalle correndo sotto i
rami che cominciavano a rigermogliare; poi, a pena vide in fondo
apparire la madre, un nuovo capriccio la prese; volle che ella
intrecciasse le mani con Gustavo e su quell'intrecciamento
sedette avvolgendo con le piccole braccia il collo dell'una e
dell'altro, gittando loro nelle orecchie le strida acute.
Tutti questi fatti e
altri insignificanti ora tornavano nel ricordo modificati,
vivissimi. Francesca nella notte, dopo il primo turbamento e la
prima resistenza contro la tentazione del fantasticare malsano,
adescata da quel sottile profumo di colpa che dal fondo di tutto
ciò saliva ad irritare il suo senso di donna giovine, a poco a
poco si abbandonò per quel pendìo. E come cedeva all'abbraccio
del sonno, ondeggiando in quel punto in cui l'attività della
coscienza si affievolisce nel rilasciamento dei nervi e non ha
più virtù di dirigere e di moderare le espansioni della
fantasia, ella per quel pendio scese in fondo languida col
desiderio al dolce peccato della figliola di Guido. Né quello
dei peccati di Francesca sarebbe stato il primo. Ella era giunta
nel matrimonio allo stadio inevitabile in cui la pluralità delle
donne, per le molte allegre ragioni che il medico
Roudibilis espone al buon Panurge, cade. Ella era già passata
fugacemente a traverso due o tre amori, emanando nel passaggio
soltanto una irradiazione di giovinezza e seguitando oltre illesa.
Ella era una di quelle nature muliebri in cui la mobilità dello
spirito e la facilità delle sensazioni subitanee tengono lontana
la passione; una di quelle nature ripugnanti dal soffrire per la
stessa intima virtù che i metalli nobili hanno contro la
corruzione dell'ossido. Portava nell'amore una sensualità fine e
quasi ingenuamente curiosa all'apparenza; anzi appunto era questa
curiosità il lato singolare del suo aspetto di amatrice. Quando
gli uomini, quei due, quei tre, le profusero in ginocchio tutta
la eloquenza così volgare del loro cuore, ella li guardò con i
belli occhi d'oliva attentamente, non senza un'aria di ironia
lieve, come ascoltando se per caso avessero una volta un accento
nuovo, una espressione nuova. Poi sorrise, piegando, o meglio
concedendosi con una specie di condiscendenza signorile. I grandi
impeti allora e i grandi ardori la offendevano: ella non voleva
la febbre, ella non capiva certe brutalità del piacere.
Preferiva la commedia gaia, di buon gusto, scoppiettante, ben
eseguita, al grave dramma declamato male. Era questa la
conseguenza di una felice conformazione del suo organismo; ed
anche di una educazione artistica non comune, poiché il sano
gusto dell'arte nelle donne sane genera a poco a poco una specie
di scetticismo amabile e di mobilità gioiosa, che le difende
dalla passione.
Gustavo per contro,
non molto più che ventenne, era vissuto nelli ultii anni quasi
sempre alla campagna, con Donna Clara, oscuramente, amando i
cavalli vivaci e il grande levriere bianco ereditato dal padre.
Aveva lo spirito incolto, oscillante, attraversato a tratti da
malinconie vaghe, scosso da turbolenze improvvise. Perché in lui
i rigogli amari della pubertà soffocati tornavano qualche volta
a levarsi con la stessa ostinazione di vita che hanno le radici
delle gramigne abbarbicate nel terreno. Così quando la scintilla
scattò, tutte quelle forze latenti irruppero con una violenza
nuova. E nella notte fu un'angoscia enorme sotto il cui peso il
giovine rimase prostrato, un'angoscia ove già il rimorso
aguzzava la punta, ove già un presentimento cupo di sciagure si
affacciava, ove tutti i fantasmi insorgevano e ingigantivano e
incalzavano senza tregua. Pareva a lui di soffocare; ascoltava
tutta la stanza empirsi dei battiti del suo cuore, e in mezzo a
quei colpi come delle voci passare, le voci della madre. Lo
chiamava forse la madre dall'altra stanza? Lo aveva forse sentito
soffrire?
Si levò sui gomiti,
tenendo li orecchi al buio, senza poter distinguere in quell'intronamento
alcun suono. Nel dubbio, accese il lume; traversò luscio,
si avvicinò al letto dell'inferma. Ella a quella luce volse dall'altra
parte li occhi feriti.
- Che vuoi, Gustavo?
- Non mi hai
chiamato?
- No, figliuolo.
- Mi pareva, mamma,
di aver sentito...
- Va, dormi. Che Dio
ti benedica figliuolo mio.
III.
La mattina dopo,
tornava Gustavo lentamente giù pe 'l viale, insieme con Famulus
il grande cane niveo che lo seguiva con quel dondolamento di
danza così molle ed elegante nei levrieri. Era una di quelle
mattine verginali della primavera che nasce, in cui la campagna
ha come un'indolenza di convalescenza nello svegliarsi. Qualche
cosa di latteo, un chiarore chiarissimo vagava su 'l verde, sotto
li alberi; e su quella massa il sole metteva una radiosità tra
bionda e rosea, una trepidazione indistinta. La vecchia terra d'Abruzzi
ora s'inteneriva.
Lontano, in fondo al
viale, su 'l cupo verde delli aranci, Gustavo scorgeva una
macchia bianca simile a quelle che le statue fanno nei giardini.
Ma, acuendo egli lo sguardo, il cane gli si piccò dal fianco,
quasi avesse odorato la preda, con quelli stupendi slanci di
antilope in corsa.
- Famulus, qua!
Famulus!
Era la voce di
Francesca, tra le piante. Ella ritta aspettava che il levriero la
raggiungesse, facendo schioccare le dita, dando quel richiamo
squillante all'aria. Gustavo le fu presso quando ella già stava
china su 'l cane serrandone il lungo muso tra le mani carezzevoli:
bellissima, nella veste mattinale a pieghe ricche dentro cui s'indovinava
la flessibilità del corpo vivo, con i capelli dalla nuca tirati
sù, e stretti in un nodo su 'l sommo della testa come in certi
ritratti settecentisti, così curva su l'animale che supino
agitava le zampe sottili e nervose verso di lei, mostrando il
ventre smilzo color di carne.
- Buon giorno,
signora.
- Oh Gustavo, buon
giorno! - rispose ella drizzandosi con un movimento vivace,
leggermente colorita nella faccia dall'essere stata china. E
mentre gli tendeva la mano, lo guardò curiosamente socchiudendo
gli occhi: poiché ella dal letto s'era levata con la sua bella
serenità. Poi alternando per gioco la voce, soggiunse:
- Donde venite, o
signore?
Gustavo capì e
sorrise; egli non l'aveva chiamata a nome nel saluto per una
debole trepidazione di fanciullo; ora si pentiva, voleva parlare
sicuramente, dire molte cose.
- Di lontano,
Francesca. Sono uscito all'alba, ho condotto meco Famulus. L'aria
frizzava. Abbiamo preso per i campi, abbiamo attraversato la
pineta... La pineta è tutta fiorita di violette; c'è l'odore
della resina mescolato all'odore dei fiori... Se sentiste! Ci
andremo a cavallo, un giorno, quando vorrete... Siam passati
anche dalla fattoria sotto i colli; c'è il prato tutto bagnato
di guazza. Scappavano i conigli da tutte le parti. Famulus
nha afferrato pe 'l collo uno; glie l'ho fatto lasciare.
Dopo il giro lungo, ci siam messi pe 'l viale. Famulus vi ha
scoperto da lontano e vi è corso in contro per leccarvi le mani.
Voi gli date troppi pezzi di zucchero a questo vecchio ghiottone:
lo guasterete, Francesca...
Parlò ancora;
perché Francesca lo ascoltava. Quando apparve Eva con l'aria
spaventata gridando:
- Corri, mamma!
Nonna grande si sente male.
Accorsero insieme.
Trovarono Donna Clara su 'l letto in preda a uno di quelli
attacchi nervosi di freddo che la facevano tutta tremare e le
squassavano le povere ossa. Non poteva parlare: un pallore quasi
livido le occupava la faccia, dove il mento aveva un battito
rapido e li occhi parevano perduti nelle loro orbite sotto la
palpebra semichiusa. Non si poteva far nulla per aiutarla;
bisognava aspettare che quel momento passasse. Gustavo le teneva
la mano calda sulla fronte gelata, pendendo con un'espressione di
timore e di tenerezza da quel povero volto illividito, mettendole
nel volto il respiro caldo, chiamandola sommesso, a tratti con la
bocca presso alle orecchie di lei. Ella doveva sentire; perché
allora nel globo giallognolo delli occhi ricompariva l'iride
verso gli angoli, e nelle labbra lottava contro il battito
convulso un moto vano di sorriso. Il sole non entrava ancora
nella stanza; un fiammeggiamento d'oro si frangeva su i vetri
chiusi. A poco a poco nell'inferma il ribrezzo si placava; ella
aprì due o tre volte la bocca aspirando l'aria, ad intervalli,
debolmente. Come a poco a poco la penetrava il calore, su la
faccia il pallore diveniva più dolce. Volse li occhi a quelli
che le stavano accanto; poté sorridere allora abbassando le
palpebre, senza parlare. Una stanchezza immensa le invadeva tutto
l'essere; e in quella prostrazione ella conservava ancora la
sensazione del ribrezzo che l'aveva scossa; mentre, dinanzi alla
felicità crescente del mattino primaverile, un rimpianto amaro,
il rimpianto di qualche cosa d'irrimediabile, singhiozzava in lei.
Tutto era finito; ella era vecchia, ella doveva dunque morire. E
la stanchezza seguitava ad invaderla; uno smarrimento dei sensi,
un tepore grave dalla testa ai piedi s'impossessava di lei.
- S'addormenta -
sussurrò Francesca.
- No, sviene - disse
Gustavo, pallido, che aveva sentito affievolire nei polsi della
madre i colpi della vita.
- Correte, Gustavo:
su nella mia stanza, accanto al letto c'è una fiala di cristallo.
Portatela qui.
Egli andò, salì le
scale correndo, entrò nella stanza. Malgrado la commozione
filiale, un'impressione viva di odore e di freschezza gli batté
nella faccia e lo fece trasalire; un'impressione di luce rossa,
come d'un gran polverio roseo, dove nuotavano le esalazioni
tepide del bagno, dove viveva ancora il profumo naturale della
cute femminile, quel profumo che turba. Egli cercò la fiala
accanto al letto, la cercò senza guardare; nel letto le coperte
rovesciate lasciavano vedere il lenzuolo bianchissimo dove
rimanevano ancora le impronte del corpo che ci aveva giaciuto.
Saliva di lì l'odore di Francesca, quello che ella soleva avere.
Egli cercando mise
le mani in qualche cosa di morbido; era forse una camicia
ravvolta, chi sa, qualche cosa ch'ella aveva già dovuto portare.
L'odore gli rimase forte nelle mani. Trovò la fiala, uscì,
tornò giù correndo.
IV.
...Il mezzogiorno
trascorso a pena. Avevano finalmente la sera innanzi deciso di
cavalcare alla pineta; e il pomeriggio di quel marzo morente era
lusingatore.
Si misero per la via
grande. Cavalcavano a fianco al trotto di caccia; da principio
silenziosi. Gustavo costringeva un poco indietro il suo baio, per
guardare la figura sottile ed eretta di Francesca che chiusa nell'amazone
nera, avendo le masse dei capelli castanei raccolta sotto il
feltro elegante, manteneva con la ferma stretta del guanto il
sauro in quel trotto leggero. Ella così era tutta intenta nel
diletto di sentirsi il vento su la faccia, di sentire l'anima
urtare co 'l pie' nervoso il terreno elastico e sonante. Quando
un riccio di capelli le irritava gli occhi, ella lo rimandava in
dietro su le tempie con un movimento vivo del capo. Una volta
diede un colpo di frustino su la siepe che limitava la via,
piegando il fianco verso quel lato; una torma di uccelli si levò
rumorosamente nello azzurro, in quell'azzurro avente allora la
dolcezza diffusa che ride fra li intervalli delle nuvole dopo la
pioggia su la campagna stupefatta. Nella campagna allora si
sentiva come l'influenza pacifica della Dea nivale, di
quella figura che era la linea più grandiosa del paesaggio
circostante. Pei seminati stavano sparsi i coltivatori.
- A sinistra, Francesca - avvertì Gustavo spingendosi avanti
Venivano in contro
due paia di bovi aggiogati, infiocchettati di rosso, forse tolti
poco prima dal carro, condotti da una specie di vecchio fauno che
reggeva in mano le funi.
Il sauro ruppe il
trotto, entrando in un moto di piccolo galoppo, senza avanzare.
Francesca teneva corte le briglie, chinata, in un atteggiamento
audace, per guardare le zampe dell'animale moventesi in quel
gioco pieno di grazia. Gustavo ammirando diceva che il sauro
avrebbe saputo galoppare anche nel cerchio di un napoleone d'oro.
Allora una voglia di corsa avventurosa prese Francesca; le narici
rosee le si dilatarono al sentore del vento.
- Hop! hop! hop!
hurrà!
Si mossero insieme
di slancio i cavalli, crescendo vivamente nell'animazione, quelle
belle e giovini bestie che avevano anche fiutato la primavera.
- Hop!
La cavalcatrice ora
si eccitava; il vento fresco, quasi freddo, le metteva il rossore
nella faccia, metteva un increspamento nelle labbra tra cui
apparivano i denti e un po' della gengiva superiore. Ella aveva
uno di quelli oblii felici che le persone sane hanno, quando un
esercizio di forza e di agilità le diletta e le commuove di
sensazioni vivaci. E come dalla gioia nasce una bontà naturale
di espansioni, ella ora si sentiva attratta verso Gustavo che le
galoppava a lato, ella ora sentiva che quella effusione di
benessere la congiungeva a lui.
- Hop! hop!
Non si guardavano,
ma provavano il profondo incanto che dà il guardarsi dentro le
pupille. La strada volgeva a gomito; un piccolo ponte traversante
un canale risuonò al passaggio: la pineta in fondo nereggiava,
ponendo su 'l cielo lo stesso ondeggiamento montante che hanno i
dorsi nelle masse di bestiame, segnatamente di pecore, in cammino.
- La pineta! -
gridò primo Gustavo, tenendo da quella parte il frustino.
Arrivava su 'l vento l'aroma resinoso. E il cavaliere disse,
curvandosi un poco verso la compagna:
- Aspirate,
Francesca. Quest'odore fa bene.
Egli disse queste
semplici parole con un accento indescrivibile, come avrebbe detto
il principio impetuoso di una lirica d'amore. La festa della sua
giovinezza ora esplodeva luminosamente; egli non la comprimeva,
non la voleva comprimere. Nessuna forma di felicità è forse
più dolce che l'essere al fianco dell'amata, cavalcando, a
traverso la primavera nascente, verso una mèta d'amore. Quelli
insorgimenti di libertà barbara, che li uomini hanno nel sangue,
ora facevano a lui dimenticare il fratello. La donna del fratello
era bella ed egli la conquistava.
- Hop! hop!
La pineta era vicina;
dentro la selva dei fusti altissimi penetrava a zone magnifiche
il sole, e pe 'l chiarore s'allontanavano fughe di portici
favolosi. Entrarono al passo, lasciando perdere le briglie mentre
i cavalli sbuffavano rumorosamente scuotendo la testa o
appressavano le froge come per parlarsi in segreto. Dinanzi, si
alzavano i voli delli uccelli spaventati. Sopra il capo, si
aprivano raramente quelli spazi di cielo che tra il verde muta il
suo azzurro in un violetto soave.
Così esploravano il
bosco. A traverso il labirinto, tra fusto e fusto, i cavalli non
potevano camminare insieme. Francesca andava innanzi un po'
affaticata dalla corsa; accarezzando con la mano aperta il collo
fumante del sauro. Dietro veniva Gustavo, in silenzio. Ma dai
cespugli un profumo acuto, di fiori che non si vedevano, saliva;
un profumo che li turbava e li faceva desiosi. Erano in una di
quelle brevi radure, per lo più circolari, dove si sente più
vivo e penetrante il fascino della selva.
- Ah, Gustavo,
guardate quel fiore! - esclamò Francesca additando. - Se mi
tenete il frustino, lo colgo da me.
E, dato il frustino,
ella si curvò dalla sella con una movenza agile: mentre il sauro
urtava con una zampa arcuata il terreno. È una cosa che accade
sempre, comunemente, in tutte le cavalcate a due, nei libri di
romanzo e nella vita reale.
Quello era un
piccolo fiore rosso, di una fragranza fine.
- Odoratelo, Gustavo
- ella fece, e glie l'accostò alle nari.
Una tentazione:
Gustavo le sfiorò le dita con la bocca calda, tremando. Ella non
disse nulla, ma mutò un poco nel viso; e spinse il cavallo
innanzi.
- Ascoltate,
Francesca, un momento! - le gridò dietro il giovane, anch'egli
spingendo l'animale. E fu quasi un inseguimento a traverso la
densità pericolosa delli alberi, un calpestìo sonoro su le pine
secche tra i cespugli. Un braccio di lei aveva urtato in un
tronco, seccamente.
- Fermatevi,
fermatevi! Vi fate male.
Ella era giunta nel
folto, dove il cavallo si rifiutava di avanzare. I grandi pini
sorgevano diritti ed inflessibili nel penetrale del bosco. Tutto
in torno, nell'illuminazione verde, alberi, alberi!
- Fermati!
E si trovarono tutti
e due a faccia, impalliditi, esitanti; mentre i cavalli
scalpitavano irritati dal morso.
- Avete urtato il
braccio. Sentite male? - chiese Gustavo con la voce rauca e dolce.
Egli costrinse il cavallo ad avvicinarsi, prese il braccio di
Francesca leggermente, sbottonò la manica al polso. Francesca
lasciava fare, guardava. La manica dell'amazone era così stretta!
Si scoperse, tra il guanto e il panno nero, il polso rotondo,
niveo, quel polso rigato di vene come la tempia di un fanciullo.
Gustavo stringendo il polso tra le dita, con l'altra mano cercava
di tirare in sù la manica. Il cavallo scuoteva le briglie
lasciate su 'l collo libero.
- Ecco!
Su 'l braccio,
vicino al gomito, c'era una macchia rossa che cominciava ad
illividirsi; una piccola ferita cattiva nel candore della pelle
molle di lanugine. Gustavo la voleva baciare. Ma allora Francesca
rapidamente, bellissima nell'atto, rapidamente, concesse al
fratello di Lanciotto la bocca, mentre scalpitavano i cavalli
irritati.
Si rimisero su le
tracce per uscire. Il tramonto suscitava maggiore abbondanza di
incensi dalla boscaglia ove morivano i bagliori tra quella ultima
visione di portici favolosi. E poi, nel prato umido, dinanzi al
trotto dei cavalli fuggirono i conigli bianchi e grigi con ritta
la coda sparendo in mezzo all'erba nuova.
V.
Quando al ritorno
entrarono nella stanza di Donna Clara, quell'odore singolare che
è nell'aria respirata dalli infermi, quell'odore li ferì nelle
nari spiacevolmente; poiché essi conservavano ancora la
sensazione vivace delle emanazioni silvestri e del vento
vespertino soffiante alla prateria.
Donna Clara stette
ancora un momento senza aprire li occhi, supina, in una di quelle
sonnolenze ineguali che verso sera la prendevano. Ella era là:
aveva un'espressione smarrita come di chi abbia perduta la
conoscenza. Una fascia bianca le copriva la fronte, le coperte le
giungevano sino al mento: da tutta quella bianchezza accorante
usciva il profilo del naso estenuato, un profilo quasi diafano; e
le forme lunghe dal corpo in giù sotto le pieghe si perdevano.
Francesca e Gustavo
restavano in piedi, di contro, ai due lati del letto, senza
levare gli occhi, perché quel corpo di vecchia sofferente li
divideva, li allontanava. Sentivano essi, pure innanzi a quella
tristezza, un'impazienza tentarli, l'impazienza di chi essendo
incalzato da un desiderio deve reprimersi in un indugio
fastidioso. Oramai una forza li sospingeva l'un verso l'altra. Ma
a Gustavo la voce di figlio avvertiva sommessamente che quell'impazienza
era crudele; ed egli per sfuggirla si dava quei rimproveri e
quelle esortazioni interiori che dinanzi a un sentimento
colpevole li uomini si dànno su 'l palco scenico della loro
coscienza. - Quella povera malata dunque non era più sua madre?
Dunque egli non sentiva più la tenerezza di una volta? Dunque
dopo esserle stato tanto tempo lontano ora gli pareva duro il
rimanere un poco nella stanza a guardarla? E perché? Era egli
diventato cattivo d'un tratto, insensibile? - Chiedeva queste
cose a sé stesso, ma senza attenzione di spirito, come recitando
una parte nobile, per ingannare l'accusa. I pensieri e i fantasmi
del recente pomeriggio d'amore lo distraevano, l'occupavano.
Alla fine Donna
Clara aperse li occhi lenti, con fatica. Non disse nulla, alle
domande non rispose che con un leggero abbassamento delle
palpebre e con un sorriso vanente. La vista di quei due non l'aveva
sollevata; anzi una vena di amarezza le saliva ora per l'anima,
poiché le pareva di essere stata per troppo tempo abbandonata da
loro. Ella il giorno aveva udito giù nel viale ridere Francesca,
parlare Gustavo, e quindi perdersi lo scalpitìo dei cavalli pe 'l
lontano. Era rimasta sola; era dopo poco entrata Eva correndo.
- Senti, Eva buona;
apri quella finestra.
La bimba aveva presa
un'aria grave d'infermiera. Non arrivava ad aprire, anche
ergendosi sulla punta dei piedi.
- Chiama Susanna. Tu
non puoi.
- Oh, nonna grande,
che dici?
Ed aveva trascinata
una sedia nel vano della finestra per montarci sopra ed aprire.
Ella aprì. La nonna la guardava sorridendo: la bimba aveva una
grazia agile di capretta che tenti l'erta della siepe, avvolta
nella polvere lucida che saliva dal pavimento, nude le piccole
braccia.
Dalla finestra
semiaperta erano passati i soffi tepidi dell'aria; s'erano
intravisti i campi tutti protetti dal sole.
- Così, nonna?
- Sì, Eva buona;
vieni.
La vecchia s 'era
sentita intenerire; l'aveva presa un bisogno di stringersi al
petto quella dolce massa di capelli, di appoggiarvi la gota un
momento. Ella così si rifugiava nella adorazione di quella testa
infantile.
Eva poi se n'era
andata anche lei, giù nel giardino, a correre su l'erba. Dalla
finestra passava l'aria troppo viva; cresceva il vento; le
cortine ondeggiavano e si gonfiavano; entrava la luce limpida e
rigida come un'acqua sorgiva. Allora un brivido aveva
incominciato a scuotere l'inferma, la prendeva un'altra volta
quel freddo nervoso che le faceva dolore. Aveva avuto appena la
forza di suonare il campanello per chiamare qualcuno. Era venuta
Susanna, quella donna pingue e clamorosa, a tenerle la mano
ruvida su la fronte e ad invocare le Vergini del cielo...
Ora dunque Francesca
e Gustavo tornavano dalla passeggiata? Così tardi? Non avevano
dunque pensato a lei mai?
Francesca voleva
rompere quel silenzio che le pesava.
- Sapete, mamma?,
siamo stati alla pineta.
- Ah.
- S'è fatto tardi
senza che ce ne siamo accorti.
- Ah.
- Vi ho portato
questo fiore.
Gustavo a quelle
ultime parole si riscosse; il fiore galeotto aveva ancora una
fragranza sottile che giunse a lui; e l'odore risvegliò il
fantasma del bacio fuggevole e della radura remota.
Donna Clara levò
fuori dalle coperte la mano magra e tremante per prendere il
fiore.
VI.
In quel momento la
luna si levava lentamente tra li alberi, casta ed argentea
secondo il costume; e veniva su i vetri delle finestre a vincere
il chiarore fievole che la ventola verde dall'interno effondeva.
Donna Clara aveva
richiuso li occhi. Dopo qualche minuto, ai due, che rimanevano
là taciti, in piedi, disse con la voce indebolita:
- Sarete stanchi...
Mandatemi Susanna. Andate voi a cena.
Essi uscirono dalla
stanza; provavano quasi una soddisfazione di fanciulli liberati
dal castigo, si guardarono sorridendo nelle pupille.
- Oh mamma, li
aranci! - gridò Eva correndo incontro a Francesca,
abbracciandola alle ginocchia in un impeto di gioia, con un
arancio stretto in ciascuna mano. Ella le si arrampicò, parve,
sino ai fianchi, con un'agilità di scoiattolo, e le si strinse
al collo mettendole nel viso l'alito che odorava delle frutta
succhiate.
- Vuoi li aranci?
Andarono così nella
sala rossa; sedettero alla cena che Eva riempì del suo clamore,
delle sue piccole grazie di bimba golosa. Ella, nella sua
inconsapevolezza, faceva da complice.
- Oh mamma,
sbucciami l'arancio.
La mamma ficcò
nella scorza fragrante le unghie fini e rosee per aprirla: e le
dita le si inumidivano del succo premuto e nelle unghie le
restava una lieve colorazione d'oro. Eva guardava con una
ingordigia di rosicante famelico. Quando il frutto fu nudo, ella
fece il sacrificio di uno spicchio alla mamma e a Gustavo.
- Questa metà per
uno - disse gravemente. - Mordi, mamma.
Francesca franse con
i denti la metà dello spicchio, sorridendo.
- Prendi tu ora.
Gustavo prese tra le
labbra l'altra metà; ebbe una sensazione deliziosa.
Nella sala c'era
quel tepore emanante dalla vaporazione dei cibi caldi, quel
tepore che mette nel sangue una pigrizia, una beatitudine inerte,
dopo il pasto. La luce scendeva placida dal globo pendulo di
porcellana.
Gustavo si alzò,
andando verso la finestra ad aprire.
- Che luna
meravigliosa! - esclamò: poiché in lui, che aveva quasi nulla
mangiato, la sentimentalità di amante novello ora a quell'albore
si commoveva.
Francesca ebbe un
moto di fastidio: l'aria fredda entrava a turbarle il calore
dolce ove ella s'era adagiata, a scuotere quell'abbandono pieno
di fantasie vaganti e di desideri indeterminati ove ella stava
per cullarsi.
- Chiudete per
carità, Gustavo!
- Venite un momento
a vedere.
Ella si levò dalla
sedia a fatica; all'affacciarsi ebbe un brivido, si strinse tutta,
nascondendo le mani dentro le maniche ampie della veste;
instintivamente si accostò a Gustavo.
Dinanzi, nell'immensità
della notte calava la luce della luna, la pace della luna, dove
tutte le cose sommerse davano come la visione indistinta di un
fondo sottomarino con le sue grandi flore animali tra cui è un
brulichio pieno di orrore. Le montagne della patria coperte di
neve si avvicinavano, quasi incombevano al piano; si poteva
discendere con lo sguardo in tutte le cavità d'ombra, salire
tutte le sommità luminose. Parevano come le grandi vertebre di
una terra il cui sole fosse estinto da secoli; davano come l'impressione
del paese lunare visto a traverso il telescopio.
Essi guardavano,
muti. La grandezza di quella scena naturale per un momento li
dominava. Stavano da presso, toccandosi con i gomiti, toccandosi
con le ginocchia.
Dietro di loro Eva
giuocava su la tavola tagliuzzando le scorze delli aranci rimaste
nei piatti, mormorando parole vane, aspettando che il sonno se la
prendesse tra le braccia.
Gustavo, pianamente,
insinuò le dita dentro le maniche di Francesca e le prese il
pugno nudo sotto la stoffa che lo copriva.
- Lasciate, Gustavo,
lasciate! - disse ella volgendosi indietro, temendo d'Eva; e nel
volgersi mise su 'l collo di lui un alito.
Egli non intendeva,
egli si sentiva salire alla faccia, sotto la pelle fredda per l'aria
della notte, tutto il sangue del cuore, una vampa.
Le aveva prese le
due mani, si curvava per coprirle di baci.
- No, non qui,
Gustavo...
Egli non intendeva.
Francesca svincolò una mano dalla stretta; per respingerlo
affondò la mano nei capelli di lui, gli sollevò il capo. Poi si
allontanò, si avvicinò alla tavola; tremava tutta.
- Che freddo! -
disse. - Chiudete.
Gustavo sporse all'aria
la fronte, stette un istante con il petto inclinato verso la
notte. Egli voleva così placare il tumulto, il calore. Poi
chiuse; si volse; era pallido, con qualche cosa di convulso nella
bocca.
Francesca s'era
rifugiata accanto ad Eva.
La bimba aveva
chinata la testa su la tavola, su la tovaglia nivea, poiché il
sonno l'avvinceva; era di rosa, tutta di rosa con un sorriso vago
su tutta la faccia; le palpebre chiuse erano così diafane che
parevano lasciar trasparire lo sguardo; da la bocca aperta usciva
un soffio lento, il respiro.
- Dorme - sussurrò
la madre. E fece segno a Gustavo di camminar piano.
- La porterò io sù,
nella stanza - disse piano Gustavo.
Ella in quelle
parole fiutò l'insidia, e sorrise con un lieve moto d'ironia nel
labbro inferiore. Ma Gustavo s'era avvicinato; delicatamente
sollevava ora su le braccia il piccolo corpo inerte di Eva.
Andavano così sù per le scale; Francesca innanzi, Gustavo
dietro. La testa della bimba pendeva da una parte, mostrando la
gola molle, lasciando piovere le chiome.
Nella stanza ardeva
una lampada, in mezzo alla vòlta, con una illuminazione quasi
lunare. Dalli abiti, dalle biancherie, da ogni angolo esalavano i
profumi e nuotavano nell'aria.
- Mettetela su 'l
letto, là, in quello.
Gustavo adagiò la
bimba. Già gli tremavano le braccia; egli sentiva il profumo che
una volta l'aveva fatto trasalire. Francesca stava china su la
figlia, la guardava dormire, aspettando che Gustavo parlasse.
Egli non parlò; la prese per le braccia d'improvviso, le mise la
bocca su la nuca dove due o tre piccoli riccioli erano bianchi di
cipria. Aveva nelli occhi quel luccicore cupo, nella faccia quell'ardore
cupo che Francesca riconosceva. Ma Francesca non voleva questo;
la offendevano le violenze.
- No, no, Gustavo.
Andate, - disse ella seria, riavviandosi i capelli su la nuca. -
Siate savio.
Allora in lui tutta
l'onda contenuta della passione irruppe. - Egli l'amava! Egli
sentiva di impazzire. Lo lasciasse almeno restare un'ora là,
inginocchiato su 'l tappeto, in quella stanza, in quell'odore!
Egli non chiedeva niente più; fosse buona!
- No, andate. Si
sveglierà Eva.
Egli incalzava. -
Eva era nel primo sonno; non poteva svegliarsi. Egli sarebbe
stato là senza muoversi. Lo lasciasse rimanere; ancora un poco,
ancora un poco!
S'era riavvicinato,
le prendeva i polsi, supplicava con lo sguardo; la voleva
lentamente soggiogare. Francesca sentiva che avrebbe ceduto,
poiché una dolcezza e una stanchezza vaghe incominciavano a
penetrarla. Ella volse due o tre volte li occhi in torno a sé,
assalita da una inquietudine, poiché Gustavo l'aveva presa alla
vita attirandola. Un'ultima rivolta la tenne forte contro il
languore.
- Ma lo sapete,
Gustavo, quello che noi facciamo?
Gustavo la strinse,
le cercò la bocca. - Egli l'amava! Egli l'amava!
VII.
Da allora si
lasciarono avviluppare e trascinare; Francesca per quella sua
condiscendenza e fatuità obliosa dell'animo, Gustavo per quella
sua cieca avidità di amare. E come l'amore soverchia e prostra
ogni altro sentimento umano, essi ora abbandonavano l'inferma.
Era una triste opera,
che compievano naturalmente. Li adescava fuori la stagione felice,
li dilettava la grande aria, li penetrava da tutte le parti la
vitalità straripante della terra vegetale Nella casa lo sforzo d'attenzione
nel reprimere ogni voce, nel soffocare ogni rumore, li fastidiava
e li irritava. Essi uscivano, stavano lungo tempo assenti,
obliandosi; prediligevano i siti remoti; i rifugi protetti dalli
alberi, i sentieri spersi tra le piantagioni. Gustavo portava nei
ritrovi la foga della sua passione, tutte le veemenze della sua
natura quasi vergine; Francesca la sua bella mobilità di aspetti,
le piccole crudeltà della sua calma, la raffinatezza signorile
della sensazione. Sfuggivano istintivamente da ogni cosa, da ogni
circostanza di cose, che li potesse condurre a un ripiegamento
della coscienza su se stessa. Nell' uscire, quasi sempre uno dei
due diceva, come per giustificarsi:
- Pare che stia
meglio; è vero? Non si lamenta mai.
E andavano.
Ma Donna Clara, in
quella stanza nuda, in faccia allo splendore che si riversava su
'l pavimento dalle imposte semichiuse, sentiva un grande
accoramento cupo che la uccideva, si sentiva finire. Ella non
aveva da prima indovinato: restava supina su 'l letto, lunghe ore,
tenuta dal male, con li occhi già torbidi vuoti di sguardo, con
le estremità di gelo, come s'ella avesse già cominciato a
morire in una agonia lunga e senza sussulti. Aveva qualche volta
nelle mani scarne quel cercare inquieto e incerto, quell'incresparsi
vano delle dita che tentavano di prendere. Allora ella voleva
bere, voleva la tazza per togliersi l'aridezza dalle fauci.
Susanna veniva ogni tanto ad affacciarsi su l'uscio; si accostava,
metteva la tazza alla bocca dell'inferma reggendole la nuca con
una mano.
- Dove sono... loro?
- Eh, signora mia,
chi lo può sapere?
Donna Clara
trasaliva; Susanna aveva dette quelle parole con un accento
perfido. - Dove andavano? Che facevano tanto tempo fuori? Ah, era
dunque per questo? - Una luce subitanea la rischiarò; e, insieme
al sospetto che ingigantiva rapidamente, una collera violenta d'improvviso
la prese. - Ah, era dunque per questo? oh infami! oh infami! oh
infami!
Entrava allora Eva,
con un passo leggero, portando un fascio di fiori tra le braccia
nude sino al gomito. Ella si avvicinò al letto, sorridendo;
bellissima. Ma quando si sentì prendere la testa dalle mani
umidicce e brucianti della vecchia, e si sentì su i capelli, su
'l collo, su le gote tante gocciole calde, tante lacrime cadere,
e tra le lacrime si sentì cercare la fronte da quella bocca
arida che aveva l'alito grave della malattia e udì rotto fra
quel singhiozzare lacerante il nome del padre, ella sbigottita
tentava liberarsi, prendere le mani che la tenevano, guardare
nella faccia la vecchia; gridava soffocata:
-
Che hai? Che hai?...
AD ALTARE DEI
I.
Dolce nella memoria.
Quando le campane cominciarono a squillare e cominciarono le onde
del suono a dilatarsi intorno su le terre benedette, noi ci
fermammo nel mezzo del sentiero.
- È la
Purificazione - disse Giacinta.
Ave, Maria!
Io ricordo: ella era
tutta bianca, in una veste di lana quasi monacale. Le pieghe
abondavano su 'l petto, le si stringevano fitte alla vita, le
ricadevano libere fino ai piedi. Ella aveva nella pelle del collo,
della nuca, delle tempie, sparso un colore dolce di oro, qualche
cosa d'indefinibilmente aureo e trasparente, sotto la peluria a
pena visibile. Su 'l pallore delle guancie le perle pendenti
dalla conchiglia rosea dell'orecchio stillavano uno splendore
vago, talvolta leggermente opaco. Era scoperta una parte della
nuca, su cui fioriva una nebbia meravigliosa di capelli: il resto
del collo era coperto dalla cravatta di velo bianco alta, sotto i
giri delle perle: il resto dei capelli era fermato in un gran
nodo fulvo e si diffondeva ai lati in una velatura di cipria che
li faceva sembrare cinerei.
Ricordo tutto.
Ella disse: - Ave,
Maria! - candidamente. Poi mi sorrise da quella bella bocca
smisurata. E restammo un momento ad ascoltare le campane che
suonavano nella grande solennità del mattino di febbraio.
Eravamo in vicinanza
di Fontanella. Su quelle alture li ultimi vapori bianchi si
sollevavano dal suolo e si fondevano nell'aria; e come le alture
si umiliavano al piano, succedeva ai vapori un vivo
scintillamento di brina recente. Tutto il terreno pareva
cristallizzato, e su quel fondo mobile di splendori li alberi
nudi sorgevano come fredde efflorescenze di pietra. Da un lato un
gran mucchio d'alberi di fico grigi aveva delle forme mostruose
di ramificazione. Rammento ancora che certi altri alberi dai rami
numerosi e sottili, forse olmi, forse pioppi mi dettero l'impressione
puerile di giganteschi millepiedi eretti su una estremità.
Giacinta pregava;
vedevo le sue labbra muoversi al proferire sommesso delle sillabe.
Io la guardavo. Ella non era veramente bella, di una bellezza
pura; nel sorriso la bocca le si allargava salendo ai lati verso
i lobi delli orecchi, ma i denti avevano una nitidezza gemmea; li
occhi avevano l'iride piccola e il globo grande addolcito da
quella tinta lieve d'indaco che è comune nei bambini. Così mi
piaceva. Già ella aveva messo nella mia puerizia vergine un
turbamento, qualche cosa che somigliava un germe d'amore. Ella
usciva dai sedici anni, donna.
E dopo un momento
disse: - Andiamo verso la chiesa.
Camminavamo al
fianco, pe 'l sentiero rompendo a pena con qualche parola il
silenzio. Da un lato si stendevano le vigne morte coi tralci
rossi che aspettavano i tagli del ronco, poiché presentivano la
primavera; dall'altro lato si allungavano i solchi di grano nell'infanzia
verde e gentile. Quando sboccammo su la strada di Chieti, un
branco di pecore ci guardò passare; le mansuete bestie nere e
bianche stavano con la testa alta, con li orecchi rosei contro la
luce, su l'erbe corte nell'idillio mattinale: e due o tre
poppanti cercavano irrequietamente i capezzoli tra le zampe delle
madri.
Giacinta sorrise
quasi teneramente, volgendosi; ella era pia.
II.
La chiesa stava in
fondo a una strada protetta da querci che avevano una gravità di
patriarchi ed una età di numi. Di fuori gli scrostamenti dell'intonaco
lasciavano vedere il mattone rossastro, si aprivano ai lati le
finestre semilunari. Su la cuspide ottusa della facciata una
croce di ferro tendeva le braccia. Era una chiesa di architettura
semplice e rude, simile a quelle che i fanciulletti con poche
linee tracciano su i margini dei libri odiosi. Si affacciavano
attorno su la piazza le case dei coloni, i cumuli alti di paglia
secca. Io conservo ancora un'impressione di colore; le pignatte
di terracotta vermiglia su certi fusti d'albero contorti
altissimi in quel cielo di un azzurro così spirituale. Ed ho
ancora dinanzi la faccia cava di quella femmina malata che ci
tese la mano per l'elemosina su la porta. Una faccia d'una tinta
indefinibile, dove di vivo non restavano che due occhi
tristemente glauchi di rospo solitario nell'ombra di un
fazzoletto nero a piccoli fiori gialli legato sotto il mento. Una
mano che faceva pensare alla palma pelosa dell'anatra.
Entrammo nella
chiesa io e Giacinta tra la folla. I contadini ossequienti ci
lasciavano passare nella graveolenza dell'olio ch'essi portavan
lucido ai capelli. Giungemmo nel mezzo; dove cominciava
digradando verso l'altare, la mèsse delle cristiane
inginocchiate, una gran mèsse varia di teste coperte dai
fazzoletti di seta gialli, rossi, neri, a palle, a striscie, a
fiorami. L'altare sorgeva intorno tutto fiammeggiante di ceri
votivi, i cui raggi si rinfrangevano su le palme di zinco
sottoposte, su le dorature false della custodia, su i fiori
artificiali di fili d'argento e di lana. Presso l'altare, da una
eminenza la Vergine sovrastava alla turba dei fedeli; la Regina
delle Vergini, tutta bella nella veste di raso azzurro a ricami d'oro,
tutta gloriosa nel diadema di metallo bianco a grosse pietre
gemmanti, tutta illuminata dall'adorazione di quelle anime
peccatrici che supplicavano il perdono.
Io e Giacinta
eravamo rimasti in piedi, stretti l'uno contro l'altra dalla
pressione della folla, silenziosi, guardando. Nell'aria, già
fatta tepida da tanti aliti umani, in mezzo alle esalazioni della
turba nuotavano li odori acuti delle giunchiglie, delle viole e
del rosmarino. Un chiarore cupo scendeva dalle finestre
semilunari coperte di tende rosse. Non si udiva che il soffiare
dei mantici su l'organo e a tratti quando uno apriva la porta per
entrare, la voce lamentevole e rauca della mendicante malata.
- Introibo ad
altare Dei. Ad Deum qui laetificat juventutem meam... -
cominciò il prete a' piedi dell'altare.
Giacinta stava
immobile, ascoltando. Ella sola era in mezzo a tutto quel tumulto
di colori nella penombra; ella sola era diritta ed esile,
emergente come un gran fiore d'acqua che si protenda verso la
luce. Ed ella credeva, ella era pia. Accanto a noi, rammento, s'alzava
una specie di tabernacolo di legno scuro, chiuso da tre vetrate,
che custodiva il simulacro di San Rocco in gesso dipinto. Stavamo
sotto la protezione del santo. Un cane barbone, accovacciato
sopra il piedistallo, ergeva il muso verso il protettore; e il
martire dalla barba nera, additando con la sinistra mano una
piaga paonazza su 'l ginocchio nudo, con la destra sorreggendosi
al bastone di pellegrino, guardava immobile nel vuoto con due
occhi di vetro bianco forati. In cima al tabernacolo pendevano
due piedi accoppiati e un braccio, formati rozzamente nella cera,
rossicci come vere mutilazioni di membra d'uomini, ex voto.
- Confitebor tibi
in cithara, Deus, Deus meus! - seguitava il prete, con la
voce cavernosa, a' piedi dell'altare. L'organo in alto metteva
delli accordi profondi ma sommessi, cambiando ad ogni momento il
tono. Le canne lucenti dello strumento sorpassavano la sommità
del baldacchino; e là dietro, nel coro, dallo strappo di una
tendina apparve d'un tratto il sole e si allungò nell'aria in
una striscia d'oro tutta formicolante di atomi. Una parte del
Cristo crocefisso si disegnò scura su quella striscia gloriosa.
- Gloria Patri.
et Filio, et Spiritui Sancto...
Tutta la turba si
piegava in un raccoglimento e la gran voce dell'organo
rispondendo dominava il canto rauco del prete. L'ombra era
accresciuta dal contrasto del sole nel coro; cresceva il tepore
alimentato dai fiati dei genuflessi, un tepore pesante che
persuadeva la sonnolenza, che abbatteva li spiriti nella
contemplazione inerte del dio.
- Domine exaudi
orationem meam.
Io e Giacinta
eravamo stretti l'uno contro l'altra, Una specie di
affievolimento cominciava a prendermi, un calore intenso mi
saliva alla faccia; aveva una sensazione strana di tutto quell'agglomeramento
di uomini sopra cui passava l'onda della preghiera, nell'ombra
rotta dai bagliori tremoli dell'altare. Io pure credevo; e dalla
mia fede di fanciullo i suoni dell'organo sacri e l'odore dolce
che emanava da Giacinta suscitavano delle visioni confuse, delle
visioni infinite, di mezzo a cui, non so perché, fiorivano certi
ricordi vaghi della prima infanzia; il ricordo, per esempio, di
tanti gigli dai grandi calici argentei che mi assopirono co 'l
profumo una sera di giugno nella stanza di mia sorella; il
ricordo di un grappolo di nidi che io feci cadere con una canna
dalla grondaia, una mattina di primavera, per rubare le piccole
ova perlate alle rondini covanti.
- Oremus te,
Domine, per merita Sanctorum tuorum...
E li accordi dell'organo
misero un lungo fremito su tutte le teste. Giacinta s'inchinò.
Io la tenevo per la mano. Ella era più alta di me; io le
appoggiavo leggermente il mio capo su la spalla. Io non so quel
che ella sentisse; ma la mia era una sensazione pura e mite; era
un languore che mi saliva a poco a poco le vene, era quasi una
tenerezza che mi vinceva l'anima e mi faceva piegare le ginocchia
inconsciamente e piegare il capo.
- Tu solus
Dominus, tu solus Altissimus, Jesu Christe...
Ci fu un movimento
confuso in tutta la turba inginocchiata, ci fu su tutta la turba
il passaggio rapido di qualche cosa di biancastro. Erano forse le
mani che facevano il segno della croce dalla fronte al cuore. L'organo
d'improvviso ascese alle voci acute, gittò nella navata un
grande accordo gioioso d'Inno che attraversò tutte quelle anime
come un fascio di raggi e le assunse al paradiso.
Ma si sentì tra la
folla il tintinnare delle monete di bronzo su 'l piatto che il
chierico portava in giro; poi si sentì in alto lo scorrere
stridulo delle tendine rosse. Una gran luce piovve dall'alto; fu
una emersione di colori, in basso, alla luce.
- Kyrie, eleison.
Christe, eleison, Kyrie, eleison.
Cominciarono le voci
nel coro, malferme, incerte; le voci delle bambine che non si
vedevano. Parvero zampilli salire in quell'aria dove il sole di
febbraio diffondeva una virginale beatitudine di nimbo, quasi una
evanescenza di polviscoli biondi. Io chiusi li occhi, ebbi un
lungo brivido di letizia, mi strinsi a Giacinta che seguiva a
voce bassa la litania; e l'istinto dell'amore, che si andava
determinando lentamente nel mio organismo di fanciullo, metteva
in quella letizia mistica una vena lieve di desiderio sensuale.
Io vedevo, a traverso le palpebre, un bagliore roseo, una gran
selva rosea fiorire, a traverso il tessuto vivente delle mie
palpebre.
- Sancta Maria,
ora pro nobis!
Le voci si facevano
sicure e limpide; le cadenze dell'organo si seguitavano in tono
minore. La turba aveva da prima un ondeggiamento di teste
indistinto; poi, a poco a poco, trascinata dal cantico,
stupefatta dal calore e dallodore misto dell'incenso e dei
fiori, a poco a poco, si protese in avanti, si protese verso la
Vergine, con uno di quelli impeti ciechi che la superstizione dà
alle anime semplici. La Vergine risplendeva nella luce superiore;
avea la faccia bianca e impassibile, li occhi immoti e senza
sguardo e in que' globi di cristallo la fascinazione intensa che
è solo nelli occhi delli idoli informi e dei pesci morti.
- Virgo
prudentissima. Virgo veneranda. Virgo predicanda...
Allora tutte le voci
irruppero; fu un gran cantico di tutte le voci, una grande
elevazione di laudi nell'aria, in alto, verso la navata che
coronavano i raggi del sole crescenti e i vapori del turribolo,
in alto, in alto.
- Rosa mystica.
Turris Davidica. Turris eburnea...
In alto! Una
tenerezza infinita di amore invadeva la turba genuflessa, un
soffio ardente e dolce passava sopra tutte le teste e le
prostrava nella preghiera su 'l pavimento.
- Consolatrix
afflictorum, ora pro nobis!
Giacinta cantava
anch'ella, reclinata, con un rossore spirituale su 'l volto, con
lucidi li occhi, vibrando come uno strumento sonoro. Io non avevo
piegato le ginocchia, non v'era spazio intorno a me; ma una
specie di sbigottimento folle mi teneva, perché io solo
soprastavo a tutti li altri in giro, e quelle creature umane
così prostrate e così ciecamente imploranti, quella vivente
massa di materia da cui irrompeva un così alto inno di passione
quasi inconsciamente, e quel sole che empiva la navata e qua e
là s'abbatteva su i dorsi, e quei vapori strani ora nauseanti ed
ora celesti, e sopra tutte le cose quella madonna immobile e
rigida, quei santi immobili e rigidi guardanti nel vuoto, mi
davano uno spettacolo pauroso, mi sconvolgevano la piccola anima
incolta.
E l'inno cresceva,
le litanie ascendevano; pareva che al lungo fremito le canne dell'organo
scoppiassero.
- Regina virginum.
Regina Sanctorum omnium, ora pro nobis!
L'agnello di Dio
veniva ora nel cantico, l'agnello di Dio che scancella i peccati
del mondo. Era l'ultima elevazione delle laudi.
- Ora pro nobis,
sancta Dei Genitrix!
L'organo cessò; si
propagò il rombo della navata, e il rombo cessò. Si faceva
nella chiesa un silenzio, dove i credenti ancora prostrati
respiravano gravemente. Poi tutte le fronti si rialzarono, tutte
le mani si levarono nel segno della Croce; un bisbiglio corse
nella turba; dalla porta aperta entrò un'ondata di aria libera
purificatrice. Dal coro venivano voci rotte; dietro l'altare si
vedeva un ondeggiamento confuso di stendardi.
Io e Giacinta
eravamo ancora sotto il tabernacolo di San Rocco. Quando sollevai
li occhi verso di lei, ella mi sorrise; ma io non so ora fermare
nelle parole quel sorriso: fu come il passaggio di qualche cosa
di benigno e di luminoso su la sua faccia che restò triste; non
fu un moto della bocca né delli occhi, no; parve, ecco, quasi un
bagliore che accendesse il profilo pensoso di una statua bianca;
no, neppure; io non trovo la frase. Restammo dopo in silenzio,
aspettando che dalla sacrestia cominciasse a svolgersi la
processione. Alla porta, su lo spiazzo, un gruppo di uomini
vociferava: si metteva all'incanto la gloria di portare su li
omeri il peso dell'immagine di Maria.
- Cinque carlini! Un
ducato! Due ducati!...
La turba aspettava.
Quasi tutte le femmine le mani incrociate su l ventre e
nelli occhi uno stupidimento smorto; li uomini guardavano verso
la porta, con un mormorìo. In mezzo a loro, nel solco lasciato
libero, su 'l pavimento cominciò a muoversi una massa incerta,
nerastra, un mucchio di cenci, e a strisciare lentamente verso l'altare.
- Due ducati! tre
ducati!
Da quel mucchio di
cenci usciva una testa umana, come dal guscio di una testuggine
sbuca la testa verdastra tentennando. Era la mendicante malata;
io la riconobbi con un brivido di ribrezzo, perché ella non
aveva più il fazzoletto che la coprisse: appariva un cranio
deforme, pieno di rosicchiature simile a un teschio dissotterrato
dove ancora rimanesse qualche ciocca di capelli grigi e qualche
avanzo di cotenna rossiccia. E quel cranio veniva innanzi su
l pavimento, sospinto dal corpo che le palme delle mani e
le ginocchia sorreggevano.
- Tre ducati! tre
ducati e mezzo!
La mendicante faceva
tante croci con la lingua su i mattoni, in gloria di Maria;
voleva andare sino ai piedi di Maria; voleva essere degna di
baciarle il lembo della veste. Raccoglieva le forze, contraendosi,
puntando le dita dei piedi scalzi. Dai due lati del solco la
gente guardava con l'indifferenza di chi è avvezzo a uno
spettacolo di orrore. Ma sopraggiunse un uomo alto, vestito di
una cappa turchina, con un gran naso adunco, iroso; percosse col
piede la mendicante, la rialzò brutalmente da terra, la
trascinò fuori della porta: - Via! via!
- Tre ducati e mezzo!
quattro ducati!
L'incanto era finito.
Dietro la sacrestia cominciò a squillare il campanello; poi, d'un
tratto, un grande scoppio di campane in alto fece tremare la
chiesa dalle fondamenta. E i primi stendardi si mossero
orizzontali, uscirono all'aria, si raddrizzarono e sventolarono;
erano due stendardi violacei con le trine d'argento. Din don!
din don! Si mossero gl'incappati azzurri, con i ceri accesi,
a due a due, in fila.
Din don, din don
dan! Si mosse un terzo stendardo, altissimo, di scarlatto
cupo orlato d'oro, con una palla d'oro in cima all'asta. Din
don dan! Si mosse il Cristo gigantesco, inchiodato su la
croce, tutto chiazzato di lividure e di sangue, portato su la
bocca dello stomaco da un uomo mambruto sorretto da due altri ai
lati.
Din don, don don!
Gli strumenti d'ottone cominciarono una marcia trionfale; i
mortaletti saltarono. Si moveva alfine la Vergine delle Vergini,
la Stella mattutina, la Torre d'avorio, in mezzo alle grida del
suo popolo, e usciva al sole, usciva a spargere la benedizione su
tutte le campagne seminate.
- Alleluja!
alleluja!
La turba delle
femmine e delli uomini trascinata seguiva lo scintillare e l'ondeggiare
del manto in alto. Li stendardi investiti dal vento sbattevano e
si attorcigliavano alle aste. Nella strada la polvere si
sollevava a buffi involgendo tutta la pompa. Il baldacchino rosso
oscillava su i quattro sostegni dorati, minacciando i preti
cantori.
Io e Giacinta
vedemmo allontanarsi la processione tra le querci patriarcali,
vedemmo li ultimi sventolamenti violacei nell'aria chiara,
vedemmo brillare la croce su 'l diadema della Madonna, perdersi
poi tutte quelle forme mobili nel fiammeggiamento del sole che
proteggeva la campagna deserta...
- FINE -