IL LIBRO DELLE VERGINI

 

di Gabriele D'Annunzio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2.

Le vergini

26.

Favola sentimentale

33.

Nell’assenza di Lanciotto

44.

Ad altare Dei

 


LE VERGINI

 

I.

 

Il viatico uscì dalla porta della chiesa a mezzogiorno. Su tutte le strade era la primizia della neve, su tutte le case era la neve. Ma in alto grandi isole azzurre apparivano tra le nuvole nevose, si dilatavano su 'l palazzo di Brina lentamente, s'illuminavano verso la Bandiera. E nell'aria bianca, sul paese bianco appariva ora subitamente letificante il miracolo del sole.

Il viatico s'incamminava alla casa di Giuliana; la gente si fermava a veder passare il prete incedente a capo nudo, con la stola violacea, sotto l'ampio ombrello scarlatto, tra le lanterne portate dai chierici accese. La campanella squillava limpidamente accompagnando i salmi sussurrati dal prete. I cani vagabondi si scansavano nei vicoli al passaggio. Mazzanti cessò di ammucchiare la neve all'angolo della piazza e si scoprì la calvizie, inchinandosi. Si spandeva in quel punto dal forno di Flajano nell'aria l'odore caldo e sano del pane recente, quell'odore che éccita il palato.

Nella casa dell'inferma li astanti udirono li squilli, e udirono su per le scale il salire dei vegnenti. Giuliana era su 'l letto, supina, tenuta dallo stupore della febbre, da una sonnolenza inerte, con la respirazione frequente rotta da i rantoli. Su 'l candore del guanciale posava la testa quasi nuda di capelli, la faccia d'un colore quasi ceruleo ove le palpebre erano semichiuse sopra li occhi vischiosi e le narici parevano annerite dal fumo. Ella aveva nelle mani scarnificate certi piccoli moti incoscienti, certi vaghi conati di prendere qualche cosa nel vuoto, certi strani segni improvvisi che davano come un senso di terrore a chi stava da presso; e nelle braccia pallide si producevano a volte certe contrazioni di fasci muscolari, i sussulti dei tendini; e a volte un balbettamento inintelligibile le usciva dalle labbra come se le parole le si impigliassero nella fuliggine della lingua, nel muco tenace delle gengive.

Nella stanza si faceva quel silenzio tragico che suole precedere gli avvenimenti supremi, un silenzio dove il respiro dell'inferma e i gesticolamenti incerti e le irruzioni rauche della tosse bronchiale acquistavano una specie di solennità fúnebre. Dalle finestre aperte entrava l'aria pura ed uscivano le esalazioni della malattia. Un vivo bagliore bianco si rinfrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii dell'arco di Portanova; una efflorescenza cristallina di ghiaccioli scintillava d'iridi all'altezza della stanza. Nell'interno, su le pareti, pendevano grandi medaglie sacre d'ottone; pendevano imagini di santi. Sotto un vetro una Madonna di Loreto tutta nera il volto il seno le braccia; come un idolo barbarico, emergeva glorificata dalla veste d'oro ove le mezze lune salivano. In un angolo, un piccolo altare candido sorgeva con un vecchio Gesù di avorio su una croce intarsiata di madreperla, con due boccali turchini di Castelli pieni d'erbe aromatiche.

Camilla, la sorella, l'unica parente, presso al letto, pallidissima, tergeva le labbra nerastre e i denti incrostati dell'inferma con un lino umido di aceto. Don Vincenzo Bucci, il medico, seduto, guardava il pomo d'argento della bella mazza, le belle corniole incise ch'egli aveva negli anelli delle dita, aspettando. Teodora La Jece, una tessitrice vicina, stava ritta, in silenzio, tutta intenta nell'atteggiare la faccia bianca e lentigginosa, gli occhi grigi di piombo, la bocca crudele al dolore.

- Pax huic domui - disse il prete entrando. Apparve sull'uscio Don Gennaro Tierno, una figura altissima e smilza, tutta ad angoli, poggiata su piedi enormi. Veniva dietro di lui Rosa Catena, una femmina che aveva fatto pubblica professione d'impudicizia al suo tempo verde e che ora si salvava l'anima assistendo i moribondi, lavando i cadaveri, vestendoli e accomodandoli nella bara, senza prender mercede.

Nella stanza di Giuliana tutti erano in ginocchio, chini la faccia. L'inferma non udiva; una stupefazione intensa le teneva ancora i sensi. E l'aspersorio si levò su di lei, lucido nell'aria, aspergendo il letto.

- Asperges, me domine, hyssopo, et mundabor... - Ma Giuliana non sentì l'onda purificatrice che la rendeva più bianca della neve innanzi al suo Signore.

Ella stirava davanti a sé con le dita fragili le coperte, aveva un moto tremulo nelle labbra, nella gola il gorgoglio della parola che ella non poteva profferire.

- Exaudi nos, domine sancte...

Allora uno scoppio di pianto risonò fra le parole latine, e Camilla nascose sulla sponda del letto la faccia rigata di lacrime. Il medico s'era accostato e teneva fra le dita inanellate il polso di Giuliana. Egli voleva scuoterla, apprestarla a ricevere il Sacramento dalle mani del sacerdote di Gesù Cristo, fare che ella porgesse la lingua all'ostia.

Giuliana balbettò, gesticolò, ancora vagamente nel vuoto, mentre la sollevavano su i guanciali. Ella doveva sentire un tintinnio nei nervi dell'orecchio perturbati forse dalle grida, forse una musica. Come fu sollevata, subitamente il rossore livido della faccia si mutò in un pallore di cadavere; la vescica di ghiaccio cadde dalla testa su 'l lenzuolo.

- Misereatur...

Porse ella finalmente la lingua tremante, coperta di una crosta mista di muco e di sangue nerastro, dove l'ostia vergine si posò.

- Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi...

Ma ella non ritirò la lingua a quel contatto, perché non aveva coscienza di quel che faceva; lo stupidimento non era rotto dal lume dell'Eucaristia. Camilla guardava con gli occhi rossi pieni di terrore e di dolore quella faccia terrea dove ogni segno di vita mancava a poco a poco, quella bocca aperta che pareva la bocca di uno strangolato. Il prete seguitava, nella solennità del suo ministerio, le preghiere latine lentamente. Tutti gli altri rimanevano genuflessi, sotto il diffuso albore che fuori dalla neve suscitava il meriggio. Un buffo d'odore di pane caldo salì col vento e fece fremere le papille del naso ai clerici.

- Oremus...

Alli eccitamenti del medico Giuliana richiuse le labbra. La riadagiarono supina; poiché il prete entrava nel sacramento dell'Estrema Unzione. Dai clerici genuflessi suonava sommessamente l'antifona dei Salmi penitenziali.

- Ne reminiscaris.

Teodora La Jece metteva di tratto in tratto un singulto soffocato, coperta il volto con le palme a' piedi del letto. Rosa Catena stava ritta, a canto, con un occhio semichiuso da cui le colava di continuo un liquido giallognolo e con l'altro occhio cieco e bianco per un'albùgine, scorreva un rosario, mormorando. E mentre i Salmi sommessamente dal pavimento si elevavano, su quel mormorìo confuso dominava la formola sacra del prete ungente in croce li occhi, li orecchi, le narici, la bocca, le mani dell'inferma inerte.

- ...indulgeat tibi Dominus quidquid per gressum deliquisti. Amen.

Fu Camilla che scoperse i piedi della sorella; apparvero tra le coperte due piedi gialli, squamosi, lividi nelle unghie, che al tatto davano un ribrezzo di membra morte. E su quella pelle secca le lacrime caddero, si mescolarono con l'unzione estrema.

- Kyrie eleison. Christe eleison. Kyrie eleison. Pater noster...

L'unta del Signore stava ora immobile, respirando, con li occhi chiusi dinanzi alla luce, con le ginocchia sollevate e le mani strette fra le cosce in quell'atteggiamento così abituale alli ammalati di tifo. E il prete, poi ch'ebbe premuto sulle labbra di lei per l'ultima volta il crocefisso, fatto il segno della croce alto in mezzo alla stanza con la gran mano, uscì seguito dai clerici. Vagava ancora nella stanza quell'odore svanito d'incenso e di cera che hanno le vesti sacerdotali. Fuori, sotto le finestre, Matteo Puriello martellava la suola canticchiando.

 

 

II.

 

I segni del male declinavano lentamente in favore: succedeva ora il quarto settenario, succedeva al sopore stupido la quiete naturale del sonno, una quiete durevole in cui a poco a poco tutte le perturbazioni della coscienza si sedavano e le facoltà del senso si facevano meno torbide e la frequenza della respirazione diminuiva. Ma una tosse aspra scoppiava a tratti nel petto dell'inferma, facendo sussultare le vertebre; una distruzione dolorosa della pelle e dei tessuti molli si compiva ai gomiti, alle ginocchia, all'estremità della schiena, di giorno in giorno. Quando Camilla si chinava su 'l letto chiamando - Giuliana! - la sorella tentava aprire li occhi, volgersi verso la voce. Ma la debolezza la opprimeva; lo stupore torbido le occupava di nuovo il senso.

Ella aveva fame, ella aveva fame. Una bramosia bestiale di cibo le torturava le viscere vuote, le dava alla bocca quel movimento vago delle mandibole chiedenti qualche cosa da masticare, le dava talvolta alle povere ossa delle mani quelle contrazioni prensili che hanno le dita delle scimmie golose alla vista del pomo. Era la fame canina della convalescenza del tifo, quella terribile avidità di nutrimento vitale in tutte le cellule del corpo impoverite dal lungo malore. Una scarsa onda di sangue restava a pena circolante pei tessuti; nel cervello debolmente irrigato ogni attività ristagnava come in un machina a cui la forza motrice del liquido difetti. Soltanto, in quella materia disordinatamente ora si producevano certe vibrazioni determinanti certi arti che nella vita anteriore erano abituali; né di quel lavorìo meccanico aveva la convalescente coscienza. Ella per lo più diceva ad alta voce le letanie; divideva in sillabe parole senza senso; minacciava punizioni a discepoli; cantava le strofe quinarie di un inno a Gesù. Aveva per lo più nell'indice della mano sinistra un moto di indicazione scorrente su l'orlo del lenzuolo, come se ella con quel segno guidasse l'occhio dei discepoli su le righe del libro. Poi, talvolta, la sua voce si sollevava, prendeva una solennità quasi minacciosa, pronunciando le ammonizioni delle sette trombe, ricordando confusamente le parole di fra Bartolomeo da Saluzzo ai peccatori, avendo forse nelli occhi stupefatti la visione di quelle vecchie stampe impresse dal legno piene di deformi angeli tubanti e di demonii debellati. Ma nelli occhi non mai aveva uno sguardo. Le palpebre pesanti coprivano l'iride a metà, quell'iride senza colore spersa nella sclerotica che pareva come velata da un muco giallastro. Ella stava nel suo letto distesa, con il capo su due guanciali. Quasi tutti i capelli le erano caduti nella malattia; un pallor terreo, di quei pallori sotto cui pare non anche possa rimanere la vita, le occupava la faccia, le cavità della faccia; e il teschio ne traspariva e da tutta la restante aridezza della pelle lo scheletro traspariva, e intorno a tutto quell'ossame nei punti di pressione sul letto i tessuti aderenti degeneravano. Solo, un'immensa fame animava quella rovina, torturava gl'intestini ove le ulceri tifose si cicatrizzavano lentamente.

Fuori era la novena di Natale, la bella festività de' vecchi e de' fanciulli. Erano certi vespri chiari e rigidi, sotto cui tutto il paese di Pescara si popolava di marinari e si empiva dei suoni delle zampogne. L'odore acuto delle zuppe di pesce si propagava nell'aria dalle cantine aperte. Lentamente, alle finestre, alle porte, nelle vie, i lumi apparivano. Il sole indugiava roseo su i terrazzi di pietra della casa di Farina, sui comignoli della casa Memma, su 'l campanile di San Giacomo. Le altezze illustri dominavano come fari su 'l paese occupato dall'ombra. Poi, d'un tratto, la notte cominciava a constellare i firmamenti; sopra le case di Sant'Agostino una mezza luna si affacciava dal bastione tra il fanale rosso e il pino del telegrafo, crescendo.

Alla stanza di Giuliana tutta quell'animazione di vita saliva in un romorìo confuso di alveare che si sveglia.

Le pastorall delle zampogne si avvicinavano, di casa in casa, di porta in porta; avevano una religiosa e familiare letizia quei suoni che i ciociari di Atina traevano da un otre di pecora e da un gruppo di canne forate. La convalescente udiva, si sollevava su 'l letto; poiché quella sensazione le ridestava i fantasmi di altre sensazioni trascorse, e gli occhi gli si empivano tutti di visione sacra, di presepi raggianti e di bianchi peregrinaggi d'angeli in azzurri immacolati. Ella si metteva a cantare le laudi, tendendo le braccia, restando talvolta con la bocca aperta mentre la voce nelli organi le mancava; ella si metteva a laudare Gesù con una elevazione ardente e dolce di amore, trasportata dai suoni delle pastorali appressantisi, allucinata dalle imagini sante delle pareti. Ascendeva ai cieli, tra le musiche dei cherubini, tra i vapori della mirra e dell'incenso.

- Hosanna!

La voce le mancava. Ella tendeva le braccia. Camilla da presso, voleva riadagiarla su i guanciali; si sentiva come soggiogare da quel cieco entusiasmo di fede; le tremavano le mani, le labbra. Giuliana ricadeva stesa, con il capo abbandonato, scoperta la gola e il petto, mostrando delli occhi solo il bianco nel gran pallore, sorridente a qualche cosa invisibile, in un atteggiamento di vergine martire

Le zampogne passavano; tardi passavano le canzoni del vino gridate dai marinari nella notte tornanti alle barche della Pescara.

 

 

III.

 

L'istinto della fame si ridestava vivissimo, come più chiara si faceva la coscienza. Quando dal forno di Flajano saliva nell'aria l'odore caldo del pane, Giuliana chiedeva; chiedeva con un accento di mendicante famelica, tendeva la mano, supplicando, alla sorella. Divorava rapidamente, con un godimento brutale di tutto l'essere, guardando d'intorno se qualcuno tentasse strapparle di tra le mani il cibo, in sospetto.

La convalescenza era lunga e lenta; ma già un senso mite di sollievo cominciava a spargersi per le membra, a liberare il capo. Per quella sana nutrizione di albume e di carne muscolare un sangue novello si produceva: i polmoni dilatati ora largamente dall'aria vivificavano il sangue carico di sostanze; e i tessuti irrigati dall'onda tiepida e rapida si colorivano ricomponendosi, si rinnovellavano nelle piaghe di decubito, si ricoprivano a poco a poco; e le attività cerebrali a quell'affluire operavano sicure; e le innervazioni negli organi sensorii non più perturbate rendevano limpida la sensazione; e sul cranio i bulbi capilliferi rigermogliavano densi; da quel riordinamento delle leggi meccaniche della vita, da quel dispiegarsi di energie prima latenti che la malattia aveva provocate, da quella intensa brama che la convalescente aveva di vivere e di sentirsi vivere, da tutto, lentamente, quasi in una seconda nascita, una creatura migliore sorgeva.

Erano i giorni primi di febbraio.

Dal suo letto Giuliana vedeva la sommità dell'arco di Portanova, i mattoni rossicci fra cui crescevano le erbe. i capitelli sgretolati dove le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant'Anna nelle screpolature del fastigio non anche fiorivano. Il cielo sopra si apriva in una gentile beatitudine di colore; e per l'aria a tratti giungevano dall'arsenale li squilli dellefanfare.

Fu allora che, quasi con un senso di meraviglia, ella riandò l'esistenza trascorsa. Le pareva quasi che quel passato non le appartenesse, non fosse suo: una lontananza smisurata ora la divideva da quei ricordi, una lontananza come di sogno. Ella non aveva più la valutazione sicura del tempo; ella doveva guardare li oggetti che la circondavano, fare uno sforzo della mente, raccogliersi a lungo, per ricordare. Si toccava con le dita le tempia dove i capelli rigerminavano tenui, e un sorriso vago di smemorata le sfiorava le labbra pallide, le fuggiva nelli occhi.

- Ah! - sussurrò fioca! e il gesto delle dita alle tempia le ritornava gentilmente.

Era stata una vita triste ed uguale, in quelle tre stanze, fra tutte quelle piccole statue deformi di Santi, fra tutte quelle imagini di madonne, fra tutti quei bimbi compitanti in coro ad alta voce per cinque ore del giorno le medesime parole scritte col gesso su la lavagna. Come le martiri gloriose della leggenda, come Santa Tecla di Licaonia e Santa Eufemia di Calcedonia, le due sorelle avevano consacrata la loro verginità allo sposo celeste, al talamo di Gesù. Avevano mortificata la carne a furia di privazioni e di preghiere, respirando l'aria della chiesa, l'incenso e l'odore delle candele ardenti, cibandosi di legumi.

Avevano stupefatto lo spirito in quell'esercizio arido e lungo di sillabazione, in quel freddo distillio di parole, in quell'opera macchinale dell'ago e del filo su le eterne tele bianche odoranti di spigo e di santità. Mai le loro mani cercarono la fronte dei discepoli, in una effusione di tenerezza improvvisa. Insegnavano la piccola dottrina, i piccoli canti della religione; facevano prostrare tutte quelle teste gioconde lungamente sotto le ammonizioni quaresimali; parlavano del peccato, delli orrori del peccato, delle pene eterne, con la voce grave, mentre tutti quei grandi occhi si empivano di meraviglia e tutte quelle bocche rosee si aprivano allo stupore. Intorno, per le fantasie vive dei fanciulli le cose si animavano; dal fondo dei vecchi quadri uscivano certi profili giallognoli di santi misteriosi; e il Nazareno cinto di spine e di stille di sangue guardava da ogni parte con gli occhi agonizzanti, perseguitando; e su per la gran cappa del camino ogni macchia di fumo prendeva una forma atroce. Così infondevano esse la fede in quelle anime inconsapevoli.

Ora il ricordo di quella sterilità si destò in Giuliana torbidamente. Ella risaliva, risaliva alli anni più lontani per una naturale tendenza dello spirito, si rifugiava alle fonti; e una pienezza improvvisa di giubilo la inondò come se in un momento tutta la sua infanzia le rifluisse al cuore.

- Camilla! Camilla! - chiamò. - Dove sei?

La sorella non rispose, non stava nell'altra stanza; era forse andata giù, nella chiesa, al vespro. Allora una tentazione prese la convalescente, di mettere i piedi a terra, di provare i passi su 'l pavimento, così, sola.

Rideva d'un riso timido di bambina che esiti in una impresa difficile; socchiudeva li occhi soffermandosi nel nuovo diletto di quel pensiero; palpava con le dita le ginocchia, le caviglie esili, raccogliendosi, come per misurare la forza; e rideva, rideva poiché il riso le insinuava uno sfinimento dolce, una sottile delizia, vibrante in tutto l'essere.

Una freccia di sole strisciava sul davanzale e feriva l'acqua di un bacile in un angolo; il riflesso mobile veniva nella parete, come una fine trama di oro. Uno stuolo di colombi attraversò lo spazio e venne a posare su l'arco; parve un augurio. Ella pianamente scansò le coperte, ebbe ancora un'esitazione; seduta su la sponda del letto cercava con la punta del piede scarno e giallo la pianella di lana. La trovò, trovò l'altra; ma ora una tenerezza l'assaliva e le si empivano di lacrime li occhi, e tutto tremolava dinanzi a lei in un albore indistinto come se le cose in torno si facessero aeree ed evanissero. Le lacrime le rigavano le guance, le si fermavano alla bocca tiepide e salse: ella ne bevve alcune, ne sentì il sapore. Fuori, dall'arco i colombi ad uno ad uno, si rialzavano, frullando. Giuliana con un moto delle fauci respinse il groppo del pianto; poi si poggiò sulla sponda, premette, si alzò finalmente in piedi; sorrise dalli occhi umidi, guardandosi. Non sapeva di essere così debole, di non potersi così reggere diritta sulle gambe; aveva una strana sensazione di formicolio nelli stinchi, di vellicamento nei muscoli, quasi la sensazione d'un ferito che si levi quando l'osso infranto non anche è ben saldato. Tentò di muovere un passo, avanzò il piede, timidamente: ebbe paura, sedette di nuovo su la sponda, guardandosi in torno come per assicurarsi che non la spiava alcuno. Poi cercò un punto di meta, la finestra, e ricominciò, pianamente, con li occhi fissi sul piede che avanzava, in equilibrio, stringendosi lo scialle verde al petto, invasa un poco dal freddo. Un subitaneo spavento la prese, a mezzo: ella barcollò, agitò le mani, si rivolse verso il letto, mise tre o quattro passi precipitosi, ricadde su la sponda. Stette un momento là, in affanno; rientrò sotto le coperte dove ancora restava il tepore, s'avvolse e si raccolse rabbrividendo.

- Come son debole, Signore!...

E guardava curiosa su 'l pavimento il luogo dove ella aveva fatto i passi, quasi vi cercasse le orme.

 

 

IV.

 

Di questo primo tentativo non disse nulla alla sorella. Quando sentì Camilla rientrare, chiuse li occhi, stette immobile come una dormiente, provando uno strano piacere in sé di quell'inganno, ricacciando a forza indietro il riso che la vellicava a sommo del petto e le saliva alle labbra. Ella gioiva di quel piccolo segreto: tutti i giorni aspettava con un desiderio inquieto l'ora in cui Camilla scendeva le scale; restava un momento in ascolto, seduta su 'l letto, fin che giungeva il rumore del lento discendere; poi si levava, soffocando li scoppi di riso, appoggiandosi alle pareti, ai mobili, mettendo gridi di paura sommessi  ogni volta che le ginocchia minacciavano di piegarsi, ogni volta che l'equilibrio mancava.

Dal Forno di Flajano a quell'ora saliva quasi sempre l'odore del pane ad irritarla. Ella si avvicinava alla finestra per cercare il vento; provava una tortura mista di voluttà nell'aspirare quella emanazione sana, con la lingua nuotante nell'acquolina e li occhi vivi di cupidigia. Allora la prendeva una furia di frugare da per tutto, di mettere da per tutto le mani, traendosi di qua di là con minore lentezza, facendo sforzi inutili e irosi su le serrature di cui Camilla aveva portato seco le chiavi. Una volta, in fondo al repostiglio di un tavolino trovò una mela e ci ficcò i denti golosamente. Da tempo nel regime severo della convalescenza, ella non assaporava un frutto. In quello era un fresco profumo di rosa, il profumo accolto che certe mele aggrinzite e scolorite hanno. Cercò di nuovo nel repostiglio, sperando; ma non trovò che una specie di siliqua verdognola, chiusa, che doveva contenere forse un gruppo di semi; e la prese, la guardò curiosamente, la nascose sotto il guanciale.

Passava così quell'ora, in segreto, con il godimento acre che danno ai fanciulli in guarigione le cose proibite, le infrazioni delli ordini dottorali, i piccoli furti. Solo testimone era un micio, tutto maculato come una pelle di serpente, che girava talvolta intorno a Giuliana con un miagolìo famigliare o si fermava teso invano a ghermire se fuori volavano su l'arco i colombi. A poco a poco Giuliana prendeva amore a quel compagno discreto. Ella lo accoglieva nel tepore del letto, gli sussurrava parole senza nesso, lo guardava lungamente leccarsi con la lingua rosea la zampa, porgere la gola di lucertola alla blandizia, una gola gialliccia che palpitava d'un suono rauco e dolce simile al tubare delle tortore nei boschi. Ella, forse per un naturale ricorso di quel suo misticismo anteriore, amava i bagliori tralucenti dalli occhi dell'animale nella penombra, quelli sprazzi di fosforo, che emanavano da una forma misteriosa e silenziosa nella penombra.

Camilla vedeva tutte queste strane predilezioni della sorella, con una specie di diffidenza ed anche di rammarico sordo, ma taceva. E lentamente, quasi insensibilmente, quelle due anime si distaccavano, si allontanavano per repulsa.

Erano prima vissute in una comunione di abitudini e di sentimenti continua, perché in loro ogni diversità d'indole e ogni insorgimento si agguagliava e placava nell'unica fede, nel culto infrangibile della deità di Cristo, in quel contemplamento ch'era divenuto lo scopo della vita loro. Ma come il culto le assorbiva intere, in loro i legami della consanguineità a poco a poco erano stati, direi quasi, coperti e sopraffatti da quelli della comune religione; quindi non mai una espansione di tenerezza, non mai un abbandono di confidenza o di ricordi o di speranze, come tra sorelle. Erano correligionarie, erano membri della grande famiglia di Gesù spersi su la terra e agognanti il cielo.

Così che a pena, per la rinnovazione operata prima dalla malattia e dopo dal regime, in Giuliana si manifestarono inaspettati atteggiamenti d'indole e modi inconsueti, la repulsa avvenne inevitabile e la voce del comun sangue sopita non si poté levare a contrasto.

 

 

V.

 

I discepoli tornarono: fu la prima volta una mattina del marzo nascente. Giuliana s'era levata dal letto; stava seduta su la sponda, col calore del sole alla nuca ed alli omeri. Nella stanza si sentiva l'odore agro dell'aceto che Camilla aveva versato nei calamai muffiti; e dalle finestre raramente il vento recava li effluvi delle viole già fiorite su l'arco.

Fu allora una irruzione d'infanzia nella stanza. Fu prima sull'uscio un sospingersi tumultuoso di piccole teste che volevano sollevarsi le une su le altre per vedere, poi una esitazione, una timidità, una specie di meraviglia ingenua dinanzi alla maestra pallida pallida e scarna che i discepoli riconoscevano a pena.

Ma Giuliana sorrideva, sotto un turbamento improvviso di tutto il suo sangue; Giuliana li chiamava a sé, confondeva i loro nomi che le si affollavano alle labbra e tendeva loro le mani. A uno, a due, a tre, i bimbi si avanzavano, volevano prenderle le mani per metterci la bocca sopra, ridicevano le parole di augurio imparate a casa, ingoiando per la furia le sillabe.

- No, no, non più! - esclamava Giuliana, sopraffatta, ma abbandonando le mani a quelle bocche tiepide e molli. Si sentiva quasi mancare.

- Camilla, tienili, tienili.

Ogni bimbo recava un dono: erano fiori, erano frutta. Le violette avevano subito sparso il profumo nell'aria, e in quel profumo, in quella luce tutte quelle faccie infantili invermigliate dal buon sangue plebeo sorridevano.

Poi la scuola, nell'altra stanza, cominciò. La prima classe diceva a voce alta le vocali e i dittonghi, la seconda sillabava; e su quel coro chiarissimo a tratti si levava l'ammonimento di Camilla.

- La, le, li, lo, lu...

Nelli intervalli di silenzio, si udiva Matteo Puriello picchiare su le suola o il telaio della Jece sbattere.

- Va, ve, vi, vo, vu...

Allora il fastidio oppresse Giuliana. La monotonia de' rumori e delle voci le dava al capo una pesantezza ingrata, le conciliava il sonno, mentre ella voleva essere desta, mentre ella sentiva ancora intorno a sé la respirazione dei fanciulli, il soffio giocondo di quelle vite.

- Bal, bel, bil, bol, bul...

Prese i fiori, li mise in un bicchiere pieno d'acqua per conservarli. Li fiutò poi lungamente. Stette con le narici tra quel fresco, chiudendo li occhi, raccogliendosi tutta in quel peccato d'olfatto.

- Gra, gre, gri, gro, gru...

Una gran nuvola bianca velò il sole. Giuliana si accostò alla finestra, si sporse al davanzale per guardar giù nella piazza. Di fronte, Donna Fermina Memma in una roba rosata stava su 'l balcone tra i vasi dei garofani; e un gruppo di uffiziali passava sotto a lei ridendo e facendo un tintinnìo di sciabole su 'l lastrico. Più in là, nel giardino publico le piante di lilla erano su 'l fiorire, la punta del gigantesco pino si piegava al vento. Dalla cantina di Lucitino usciva Verdura, l'eterno ubriaco, barcollando e vociferando.

Giuliana si ritrasse: era la prima volta, dopo tanto, che si affacciava su la piazza. Le parve di essere in alto in alto, guardando in giù; la prese una leggera vertigine.

- Nar, ner, nir, nor, nur...

Il coro dentro seguitava, ancora, ancora, ancora.

- Pla, ple, pli, plo, plu...

Giuliana si sentiva soffocare, venir meno, a quella tortura: i suoi poveri nervi indeboliti cedevano. Il coro seguitava, al ritmo della bacchetta di Camilla battuta su 'l tavolino, implacabile.

- Ram, rem, rim, rom, rum...

- Sat, set, sit, sot, sut...

Allora un impeto subitaneo di singhiozzi squassò Giuliana, l'abbatté su 'l letto. Ella singhiozzava. così, bocconi, a braccia aperte, premendo la faccia su i guanciali, senza potersi frenare.

- Tal, tel, til, tol, tul...

 

 

VI.

 

Le erano ricresciuti tutti i capelli, crespi e castanei, come prima. Ella aveva ora una curiosità grande di guardarsi nello specchio; perché Rosa Catena, con uno di quei lezii che sempre svelavano in lei l'antica femmina impudica, passandole la mano su 'l corpo le aveva detto: - Bellezza!

Aspettò dunque che Camilla uscisse; poi scese dal letto, staccò dalla parete uno di quelli specchi rococò a cornice d'oro appannati di macchie verdi; con un lembo della coperta tolse la polvere e si guardò dentro, sorridendo. Ella aveva tutto il collo nudo e pe 'l collo certe vene azzurrognole quasi in rilievo, e nella testa piccola e lunga qualche cosa di caprino, la bocca fine, il mento acuto, li occhi castanei come i capelli, ma più tendenti al giallo. Il pallore trasparente e il sorriso davano una grazia nuova, una nuova giovinezza ai suoi ventisette anni.

Ella restò a guardarsi a lungo; e godeva allontanare lentamente lo specchio e veder sparire l'imagine in quella luce un po' glauca come in un velo d'acqua marina, e quindi riemergere. La vanità la conquistava, la occupava. Ella si accorse di tante piccole cose a cui prima non aveva badato mai; per esempio, di un neo simile a una lenticchia, che le macchiava la pelle sulla tempia sinistra, e di una cicatrice leggera che le attraversava l'arco di un sopracciglio. Restò così a lungo. Poi assalita da una gioia repentina cercò in torno un diletto.

Quella cupola vegetale, ch'ella aveva trovato in fondo a un repostiglio, s'era aperta come in due valve scoprendo un grappolo denso di semi nerastri. Ogni seme pareva legato a filamenti sottilissimi d'una lucidità argentea; e il grappolo si manteneva compatto. Ma a pena Giuliana vi mise un soffio, un nuvolo di piumoline bianche si levò nell'aria e si sparpagliò qua e là brillando: erano le spie. I semi parevano alati, parevano insetti èsili ed evanescenti che si dissolvessero incontrando i raggi del sole o parevano lanugini di cigno a pena visibili; ondeggiavano, ricadevano, si mescolavano ai capelli di Giuliana, le sfioravano la faccia, la coprivano tutta. Ella rideva, difendendosi da quell'invasione, cercando di scacciare quella pelurie che le vellicava la pelle e le si attaccava alle mani; ma le risa le impedivano i soffi.

Alla fine si distese lunga su 'l letto, lasciò che tutta quella molle nevicata le scendesse sopra lentamente. Teneva gli occhi semichiusi per prolungare la dolcezza; e a mano a mano che il sopore la invadeva, si sentiva come sommergere in un giaciglio alto di piume. La luce che entrava nella stanza era una di quelle pallide chiarità pomeridiane del mese di marzo, ove la rosea letizia solare ride modestamente estinguendosi come un indizio di aurora in un gran cielo albeggiante.

Camilla trovò la sorella ancora addormentata con accanto lo specchio, con ne' capelli le spie.

- Oh, Signore Gesù! oh Signore Gesù! - mormorò tra i denti, congiungendo le mani, in atto di compassione amara.

La cristiana veniva dalla chiesa, dove aveva cantate le litanie per l'Annunciazione e aveva ascoltata la predica su 'l messaggio dell'Arcangelo all'ancella di Dio. Ecce Ancilla Domini. L'eloquenza sonora del frate predicante l'aveva inebriata; le restavano ancora negli orecchi certe parole ammonitrici.

Giuliana si destava in quel momento con un lungo sbadiglio voluttuoso, e stirava le membra.

- Ah! sei tu, Camilla? - disse ella un po' confusa di quella presenza.

- Sono io, sono io! tu ti perderai, sciagurata, tu ti perderai - irruppe la devota, additando lo specchio su 'l letto. - Tu hai tra le mani lo strumento del demonio...

Ed eccitata dalla prima irruzione, ella seguitava, sollevava la voce, gittava le frasi ardenti della predica, con de' grandi gesti nell'aria incalzava nelle minacce dei castighi eterni, non si rivolgeva soltanto a Giuliana, assorgeva ad ammonire l'universo dei peccatori.

- Memento! memento!

Giuliana non intendeva più nulla poiché tutta quella vociferazione l'aveva stordita.

D'un tratto dall'angolo della piazza scoppiò la fanfara militare in uno squillo di venti trombe.

 

 

VII.

 

L'ultima stanza della casa era stretta e bassa, con le travi del soffitto annerite dal fumo, piena d'un lezzo di cipolle, di rigovernatura e di carbone spento. I vasi di rame pendevano alla parete in ordine, senza luccichìo; i piatti di Castelli stavano in ordine su la mensola con le loro gioconde pitture di fiori, di uccelli e di teste d'uomini; le antiche lucerne di ottone, le bottiglie vuote, le foglie di erbaggio non più fresche erano sparpagliate per le tavole; e su tutto dominava proteggitore San Vincenzo effigiato con il gran libro in una mano e la fiamma rossa in mezzo al cranio.

Là, nel vecchio tempo, Giuliana stando in mezzo ai vapori dell'acqua bollente e alle esalazioni dei cibi vegetali, spesso aveva sentito giungersi su 'l capo dalla piccola finestra alta i ritornelli d'una canzone libertina e certi larghi schiamazzi di risa che s'inseguivano. I canti e le risa crescevano nelle sere di estate, tra i passagalli delle chitarre, fra li urti della danza su 'l terreno. Tutti i romori della vita d'una suburra infima salivano, in certe ore, a quella altezza e facevano tremare d'orrore le povere spose di Gesù chine in umiltà su i tegami d'argilla pieni dell'eremitica innocenza dei legumi e delle verdure. Ma ora, al novel tempo e gaio, come un giorno udì Giuliana le voci, una voglia nell'animo le corse di spinger la vista fuori.

Camilla non stava nella casa; era la domenica quinta di Lazzaro. Urgeva nell'aria, dopo le brevi piogge, con un più dolce alito di calore l'imminenza dell'aprile; e in quell'aria la pulzella più aveva pieno e chiaro il senso del suo rinascimento. E, in ozio, girando per le stanze, ebbe ella naturalmente la curiosità di guardare, presa al fascino malsano che li spettacoli di lascivia esercitano anche su li animi verecondi.

Ella salì su una sedia all'altezza dell'apertura; ma prima di spingere lo sguardo innanzi, fu invasa da un turbamento di tremiti, e ritta su la sedia si volse intorno temente se non qualcuno la sorprendesse nell'atto.

Intorno tutto era quieto: ogni tanto una gocciola di acqua cadeva dall'alto di un bacile, sonando. Di fuori salivano le voci ed allettavano.

Giuliana, rassicurata, guardò. Nel vicolo, sotto la pioggia il fracidume aveva fermentato come un lievito; una melma nera copriva il lasrtico, ove spoglie di frutta, residui di erbe, stracci, ciabatte marce, falde di cappello, tutto il ciarpame sfatto che la miseria gitta nella strada, si mescolavano. Su quella cloaca, in cui il sole suscitava inserti e miasmi, una fila di case nane soffocava addossata alla Caserma. Da tutte le finestre però, da tutti li spiragli si riversavano le piante dei garofani non più contenute nei vasi; e i grandi fiori rosei e rossi penzolavano al sole aperti magnificamente. E tra quei fiori apparivano le facce flosce e dipinte delle meretrici, passavano le oscenità delle canzonette, le risa gutturali: e giù su 'l lastrico, sotto le inferriate della caserma, altre femmine si tendevano verso i soldati parlando a voce alta, provocandoli.

E i soldati che sentivano nel sangue alla primavera rifiorire i mali di Venere, allungavano le mani di tra le sbarre pur di brancicare qualcosa, divoravano con li occhi in fiamme quelle femmine usate già per anni dalla lascivia di tante ciurme briache e di tanti facchini fradici.

Giuliana stette lì stupidita allo spettacolo di tutta quella corruzione di lupanare fermentante pe 'l buon sole di quaresima e salente fino a lei. Non si ritraeva ancora; ma come alzò li occhi, vide in un abbaino su 'l tetto della caserma un uomo biondo che la guardava e sorrideva. Ella scese dalla sedia a precipizio, più pallida di prima, credendo di sentire la voce di Camilla. Corse nella sua stanza, e si gettò sul letto, sbigottita, senza respiro, come se l'avesse perseguitata qualcuno minacciandola.

 

 

VIII.

 

Da quel giorno, tutte l'ore, tutti i momenti in cui Camilla non era nella casa, una sollecitazione violenta di desiderio la trascinava a quello spettacolo. Ella prima pugnava, vanamente, senza forze, lasciandosi vincere. Andava là con l'ansia sospettosa di chi va a un ritrovo di amore; ci restava lungo tempo, dietro la persiana quasi cadente, mentre i miasmi del lupanare la turbavano e la corrompevano.

Ella spiava tutto, acuendo lo sguardo, cercando di penetrare nelli interni, cercando di scoprire qualche cosa fra i garofani che chiudevano le finestre. Il sole era caldo e pesante: sciami d'insetti turbinavano nell'aria. Ad intervalli quando entrava nel vicolo qualche uomo, venivano dalle finestre i richiami delle aspettanti; femmine discinte, con il seno scoperto, uscivano fuori ad offerirsi. L'uomo spariva in una delle porte oscure con l'eletta. Le deluse gittavano scherni e risa dietro la coppia, e si rimettevano all'agguato tra i garofani.

Così in Giuliana si accendeva la brama. Il bisogno dell'amore, prima latente, si levava ora da tutto il suo essere, diventava una tortura, un supplizio incessante e feroce da cui ella non sapeva difendersi.

Un fiotto di sanità caldo la riempiva; certe sùbite gioie di vivere le muovevano il sangue, le mettevano nel petto quasi dei battimenti d'ale, le mettevano de' canti nella bocca. A volte un soffio, uno di quei piccoli fremiti dell'aria che si dilata sotto il sole, una canzone di mendicante, un odore, un nulla bastava a darle smarrimenti vaghi, abbandoni in cui le pareva di sentire su tutte le membra come il passaggio carezzevole del velluto d'un frutto maturo. Ella era così librata e perduta in abissi ignoti di dolcezza. L'irritazione della continenza, la sovrabbondanza insolita de' succhi, quel distendersi continuo dei nervi sotto li stimoli la tenevano in una specie di stordimento simile al primo stadio dell'ebbrezza; pareva come de' vapori le salissero al cervello dal cuore e le dessero una visione rossa. Il passato si dileguava, si assopiva in fondo alla memoria, non risorgeva più. E in ogni ora, in ogni luogo il desiderio le tendeva insidie; i  santi delle mura, le madonne, i cristi crocefissi ignudi, le piccole figure di cera deformi, tutte le cose intorno, prendevano per lei apparenze impure.

Da tutte le cose l'impurità emanava e le alitava su la persona, affocantemente. Era allora una suprema pugna, in cui la coscienza si curvava, la volontà si piegava, i sensi sopravvincevano.

- Ecco, ora scendo nella strada - diceva ella a sé stessa, non reggendo più.

Poi le mani le tremavano su la porta, nell'aprire: il chiavistello scorrente nelli anelli le dava ancora un'immagine oscena. Ella tornava in dietro, si gettava su 'l letto quasi svenendosi, livida, sotto un fantasma d'uomo.

 

 

IX.

 

La domenica delle Palme ella uscì dopo tanti mesi, per la prima volta; poiché Camilla voleva condurla a render grazie della guarigione al Signore. Quando le campane si misero a squillare, Giuliana s'affacciò. Tutto il paese era ridente nel grande riso pasquale del sole d'aprile. Tutto il contado invadeva le vie con il segno pacifico dei rami di olivo.

Ella ora doveva vestirsi in festa; la gente nelle vie l'avrebbe guardata passare. Una furia di vanità sùbito la prese; si chiuse nella stanza; cercò in fondo alla cassa le vesti più chiare. Un odore acuto di canfora saliva da quei vecchi tessuti conservati là dentro per anni; erano grandi gonne di seta a fiorami, verdi e violette e cangianti, che nel vecchio tempo la crinolina aveva forse gonfiate intorno alle anche di una sposa novella; erano lunghi busti con màniche ampie, mantelline color di tortora orlate di merletti bianchi, veli intrecciati di fili di argento, collari di tela fina ricamati a giorno; tutte cose morte per l'uso, goffe, macchiate dall'umido.

Giuliana sceglieva, come guidata da un nuovo istinto, profumandosi di canfora le mani nel cercare. Tutta quella seta inutile e quei veli la irritavano; non trovava alfine nulla che le andasse alla persona. Chiuse la cassa irosamente, la respinse sotto il letto con un urto del piede. Le campane suonavano per la terza volta. Ella si mise in furia il consueto abito triste color di cenere, in cospetto di Camilla, mordendosi le labbra per ricacciare in giù le lacrime.

Le campane chiamavano. Per le vie i fasci delle palme mettevano un mobile luccicore argenteo; da ogni gruppo di villici sorgeva una selva di ramoscelli; e una candida clemenza di benedizione cristiana si diffondeva per tutta l'aria da quelle selve, come se si appressasse il Galileo, il re povero e dolce sedente su l'asina fra la turba dei discepoli, in contro alli osanna del popolo redento. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis!

Nella chiesa la folla era immensa, la selva delle palme era immensa. Per una di quelle correnti che si formano irresistibili nelle masse del popolo, Giuliana fu divisa da Camilla; restò sola in quel rigurgito, in mezzo a tutti quei contatti, in mezzo a tutti quelli urti, a tutti quelli aliti. Ella tentava aprirsi un varco: le sue mani incontravano delle schiene d'uomini, delle altre mani tiepide il cui tocco la turbavano. Ella si sentiva sfiorare il volto da una foglia d'olivo, contrastare il passo da un ginocchio, spingere il fianco da un gomito, offendere il petto, offendere le spalle da pressioni incognite. Sotto l'odore dell'incenso, sotto le palme benedette, nella penombra mistica, in tutto quell'ammasso di cristiani e di cristiane piccole scintille erotiche scoccavano per attrito e si propagavano; amori segreti si ritrovavano e si congiungevano. Passavano accanto a Giuliana fanciulle della campagna con palme su 'l petto, con un riso fuggente nel bianco delli occhi vòlto ad amatori che dietro le insidiavano; ed ella sentiva in torno a sé così passare l'amore, ella si trovava così a mettere il suo corpo tra quei corpi che si cercavano, ella era un ostacolo a quei gesti che tentavano toccarsi, ella separava le strette di quelle mani, i legami di quelle braccia. Ma qualche cosa di quelle carezze interrotte le penetrava nel sangue. In un punto ella s'incontrò a faccia a faccia con un soldato biondo; quasi gli posò il capo su la tunica, perché una colonna di gente dietro la spingeva. Ella levò li occhi; e il giovine sorrise come aveva sorriso un giorno dall'abbaino della caserma. Dietro, l'urto seguitava: il vapore dell'incenso si spandeva più denso, e il Diacono dal fondo cantò:

- Procedamus in pace.

E il coro rispose:

- In nomine Cristi. Amen.

Era l'annunzio della processione, che mise un sommovimento enorme in tutto il popolo. Per una violenza d'istinto, senza pensare, Giuliana si attaccò all'uomo, come se già gli appartenesse; si lasciò quasi sollevare da quelle braccia che la prendevano ai fianchi, si sentì ne' capelli quel fiato virile che sapeva lievemente di tabacco. Ella andava così, indebolita, sfinita, oppressa da quella voluttà che l'aveva colta d'improvviso, non vedendo che un barbaglio dinanzi a sé.

Allora dall'altare maggiore si mosse il turiferario spargendo nuvoli di fumo cerulo e dolce su 'l popolo; e una processione candida si svolse nel mezzo della chiesa. I celebranti portavano in mano rami d'olivo e cantavano.

 

 

X.

 

Tutta la settimana santa protesse delle sue complici ombre l'amore di Giuliana. Le chiese erano immerse nel crepuscolo della passione, i crocifissi su li altari erano coperti di drappi violacei; i sepolcri del Nazareno erano circondati di grandi erbe bianche cresciute ne' sotterranei; un profumo di fiori e di belgiuino caricava l'aria.

Là Giuliana, inginocchiata, attendeva, fin ché un passo leggero dietro di lei la faceva trasalire. Ella non poteva volgersi, perché Camilla la vigilava; ma ella si sentiva tutta abbracciare dallo sguardo di quell'uomo, come da un fuoco sottile, e una tenerezza di desìo le scendeva nella carne. Allora fissava i ceri ardenti in scala su un triangolo di legno presso l'altare. I preti cantavano d'innanzi a un gran libro; e ad uno ad uno i ceri venivano spenti. Non ne rimanevano che cinque, non ne rimanevano che due; l'oscurità si avanzava dal fondo delle cappelle su la gente in preghiera. L'ultima fiammella finalmente spariva; tutte le panche risonavano sotto le battiture delle verghe. Giuliana nel buio, a pena si sentiva toccare da due mani cercanti, scattava dal pavimento, con un sussulto, smarrita. Poi, quando usciva dalla chiesa, il pensiero d'aver violato un luogo sacro la empiva di rimorso: subitamente, dal sostrato della sua coscienza l'idea del castigo risorgeva. Era poi come un sogno dove la figura livida di Gesù morto e lo scroscio delle battiture e i brividi della carne sollecitata e l'odor grave dei fiori e li aliti di quell'uomo biondo si mescolavano in un senso dubbio di dolore e di piacere.

 

 

XI.

 

Ma come Gesù trionfante risalì alla gloria dei cieli, li aromi pasquali non più confortarono l'amore di Giuliana. Scena dell'amore fu allora il dominio dei gatti randagi e dei colombi terrajuoli. Dall'abbaino alla finestra i dolci segni correvano: tra mezzo il lupanare si sprofondava come un fossato d'acque limacciose a' cui cigli crescessero fiori alimentati dalla putredine. I colombi sorvolavano con il luccicchio verde e grigio delle loro piume.

L'amadore aveva un bel nome antico, si chiamava Marcello, e aveva un bel fregio rosso e d'argento su le maniche della tunica. Scriveva delle epistole piene di fuoco eterno, con frasi impetuose che davano all'amadrice deliqui di tenerezza e fremiti di voluttà mal contenuta. Giuliana leggeva quei fogli in segreto, li teneva notte e giorno nel seno: pe 'l calore la scrittura violetta le s'imprimeva su la pelle, ed era come un gentile tatuaggio d'amore, di cui ella gioiva. Le risposte di lei non finivano mai: tutta la sapienza grammaticale di una maestra, tutto il tesoro delle apostrofi psalmistiche di una devota, tutta la fluente sentimentalità di una pulzella tardiva si riversava su la carta de' quaderni scolastici rigata di turchino. Ella scrivendo si obliava, si sentiva trascinare in un'onda di verbosità sonora: pareva quasi che una facoltà novella si esplicasse in lei e prendesse forme maniache, d'improvviso. Quel gran sedimento di lirismo mistico accumulato per la lettura de' libri di preghiera in tanti anni di fidelità allo Sposo Celeste, ora, scosso dal tumulto dell'amore terreno, si levava su confusamente e attraversando recenti strati di coscienza e unendosi ad elementi estranei assumeva, quasi direi, sapori di profanità nuovi. Così le lacrimose implorazioni a Gesù si mutavano in sospiri di speranza verso letizie d'amplessi non eterei, le offerte del fior dell'anima al Sommo Bene si mutavano in tenere dedizioni della carne al desio del biondo amante, e il lume afrodisiaco della luna si cingeva di tutti li epiteti per cui va radioso lo Spirito Santo, né li zefiri della primavera mancavan di rapire li aromi alle mense del paradiso.

 

 

XII.

 

Era messaggero uno di quelli uomini che paion cresciuti sù, come funghi, dall'umidità della strada immonda ed hanno in tutta la figura quasi una nativa tinta di fango; di quelli uomini bigi, che s'insinuano per tutto, che si trovano per tutto ov'è un centesimo da guadagnare, un po' di untume da leccare, uno straccio da sottrarre, oggi rigattieri e domani procaccianti di serve o di male femmine, oggi falsi sensali di mercanzia e domani accalappiatori di cani erratici.

Costui aveva un nome melodrammatico, si chiamava Lindoro: dal quartiere dell'Ospedale al bastione di Sant'Agostino una popolarità grande s'era fatta in torno a questo nome. Nasceva costui dall'accoppiamento d'un suonatore ambulante di clarinetto con una piazzaiuola rivenditrice di fruttaglia, ereditando l'istinto nomade del padre e la natural cupidigia di lucro della madre. S'era prima trascicato per li immondezzai di tutte le case, con la scopa e il canestro; aveva poi fatto il guattero in una bettola, dove soldati e marinai gli gettavano su 'l viso li sgoccioli del bicchiere e le spine del pesce mal fritto. Dalla bettola era caduto in un forno, dove spingeva i pani con la lunga pala dentro le fiamme, tutta la notte, in sudore, accecandosi. Dal forno era passato all'uffizio di accenditore pubblico de' fanali,  logorandosi una spalla sotto il peso della scala portatile. Scacciato da quell'uffizio perché sottraeva il petrolio dalle grandi casse di zinco bianco, si mise alla ventura della strada, comprando e rivendendo abiti vecchi, facendo in tutte le case popolane i servigi più vili, offrendo ai soldati e ai forestieri i suoi ruffianesimi, lottando così per il tozzo.

Nel suo corpo e nella sua anima ogni mestiere aveva impresso una traccia, aveva lasciato un gesto abituale, uno sviluppo di singoli muscoli, l'indebolimento di un organo, una callosità, una cadenza di voce, una frase del gergo. Egli era di piccola statura, magro, con una testa enorme e quasi calva, con delle chiazze di peli radi su le guance, con delle pustole tra i peli. Il suo vestito era ibrido e mutevole; tutte le fogge passavano su la sua persona, si sovrapponevano a contrasto: nobili zimarrine verdognole e calzoni carichi di toppe, cappelli di feltro arrossenti e ciabatte servili, bottoni di metallo lucido, formelle d'osso bianco, galloni militari, trine, quel miscuglio di ricchezza usata e di miseria ignobile, che ingombra i fondi d'una bottega di rigattiere ebreo.

 

 

XIII.

 

Ora costui fu il galeotto. Portava le epistole di Marcello con le conche piene d'acqua della Pescara su alla casa di Giuliana, e tornava giù con le conche vuote e con epistole di risposta. Giuliana, quando lo sentiva salire le scale, si faceva pallida; cercava pretesti per allontanare Camilla, per essere sola con l'uomo portatore di acqua e di gioia. Avvenivano allora dei contatti rapidi, nel sotterfugio; passavano allora tra lei e il galeotto quelli fuggevoli accenni dei muscoli facciali, quei sguardi obliqui d'intesa, quei monosillabi sommessi, che son li aiuti dell'astuzia umana e che a lungo andare stringono dei legami tra li ingannatori, ove sieno essi differenti di sesso, determinando certe singolari corrispondenze di moti nel corpo, le quali in taluni casi possono esser causa di risvegli sensuali. Per il che, a poco a poco nell'amore di Giuliana qualche cosa dell'influenza di Lindoro penetrava; una specie di domestichezza a poco a poco si stabiliva tra l'amadrice e l'ambasciatore. Ella, se costui giungeva nell'assenza di Camilla, lo incalzava di domande, gli parlava da presso facendogli sentire l'alito, qualche volta inavvedutamente gli posava su la spalla una mano. Lindoro scioglieva i freni alla sua loquacità di pizzajuolo, intramezzando parole di gergo, reticenze impudiche, furbi sorrisi rivelatori, gesti ambigui, piccoli schiocchi di lingua e di labbra.

Egli ruffianeggiava con arte, sapeva insinuare sottilmente la corruzione nell'animo di Giuliana, sapeva trascinare lentamente all'insidia di Marcello quella preda. E Giuliana stava ad ascoltarlo intenta, con in fondo alli occhi una fiamma che cresceva, con in bocca l'aridezza prodotta dall'orgasmo lascivo, senza più interrompere. Lindoro s'accorgeva subito di aver suscitato nella femmina la brama; e dinanzi a quella figura tutta protesa e tutta sconvolta si risvegliava in lui la mascolinità d'un tratto e una tentazione l'assaliva di cogliere quel fiore ch'egli apprestava al piacere di un altro; ma la paura sorgente dal fondo della sua viltà lo tratteneva e gli ghiacciava l'ardore.

Così Giuliana al fine aveva concesso a Marcello un ritrovo. Sarebbe stata in una casa remota del sobborgo, in fondo a un vico deserto, dove nessuno li avrebbe spiati; sarebbe stato per una domenica di giugno, stando Camilla nella chiesa lungo tempo, facendo buona guardia Lindoro.

Nei giorni precedenti quel gran fatto, Giuliana era tenuta da un'eccitazione amara, da una specie di febbre che a volte le dava il battito dei denti e le vampe alla faccia e i brividi alla radice dei capelli, alla nuca. Ella non poteva più star ferma, non poteva più star seduta; poiché una furia di mobilità le solleticava tutte le membra. Nella scuola, in mezzo al coro eguale dei discepoli, in mezzo a quello stillicidio continuo di sillabe, una demenza di ribellione le abbagliava la vista all'improvviso, ed ella avrebbe voluto balzare tra i fanciulli, sconvolgere con le mani tutte quelle capigliature, rovesciare la lavagna, le tabelle, le panche, gittare delle grida, spezzare qualche cosa, stordirsi. Sotto lo sguardo freddo e scrutatore di Camilla, poco mancava che ella non svenisse per lo spasimo, per la bile, per l'immenso sforzo anteriore di dissimulazione.

Poi, quando Camilla usciva, ella si agitava per tutte le stanze, muoveva le sedie, morsicchiava dei fiori, beveva di un fiato de' grandi bicchieri d'acqua, si guardava nello specchio, si affacciava alla finestra, si abbatteva a traverso il letto, sfogava in mille modi l'irrequietudine, l'esuberanza della vitalità sensuale. Tutto il suo corpo, nel tardivo fermento della verginità, si era arricchito ed espanto; era come una di quelle sanguigne fioriture autunnali che la pianta esplode al sentirsi da un'ultima corrente di forza vegetativa investir le radici quasi morte nel letargo del terreno. Tutti i pori del suo corpo esalavano, irradiavano la voluttà mal contenuta; in tutti i suoi gesti, in tutti i suoi atteggiamenti, in tutti i suoi minimi moti uno spontaneo fascino afrodisiaco, una procacità involontaria e inconscia si esplicava indipendentemente dalla presenza di un uomo. Ella era tutta sàtura di desio; le fibrille giallognole delle sue iridi, dilatandosi, sprizzavano bagliori; il labbro inferiore, tormentato dalle morsicchiature, sporgeva umido e vermiglio; pe 'l collo salivano le trame glauche delle vene e nei movimenti repentini talora certi gruppi di nervi guizzavano. La sua testa non era bella, non aveva la quadratura vigorosa, lo splendore olivastro di certe razze d'Abruzzo, quelle pure linee del naso e del mento svolgentesi grecamente nella latina ampiezza della faccia. Ma ella, inconsapevole, sotto la goffaggine delle vesti grigie, sotto la cascaggine delle pieghe incomposte, celava una magnificenza statuaria di torso e di gambe.

Erano i primi giorni di giugno: sorgeva l'estate dalla primavera, come da un campo d'erbe un àloe. Tra il mare e il fiume tutto il paese di Pescara godeva nella ventilazione salina e nel refrigerio fluviale, come distendendo le braccia verso quei naturali confini d'acqua amara e d'acqua dolce. Salivano alla stanza di Giuliana allora le blandizie della temperie; insetti lucidi urtavano ai vetri e rimbalzavano come una grandine d'oro.

Giuliana, se era sola, provava un bisogno di distendersi, di gettare lungi le vesti, di giacere, e di raccogliere su la pelle quella blandizia ignota che fluttuava nell'aria.

Cominciava lentamente a spogliarsi, con una pigrizia di gesti molli, indugiando con le dita in torno alle allacciature e ai fermagli, facendo de' piccoli sforzi svogliati nel cacciar fuori le braccia dalle maniche, fermandosi a mezzo e abbandonando in dietro la testa dai capelli crespi e corti, quella sua testa di efèbo. Lentamente, sotto l'amorosa fatica, dalla informità delle vesti, come dalla scoria del tempo una statua diseppellita, il corpo ignudo si rivelava. Un mucchio di lana e di tela vile era ai piedi della pulzella così purificata, e da quel mucchio ella come da un piedestallo sorgeva nella luce coronandosi con le braccia, mentre al contatto dell'aria una vibrazione a pena visibile le correva i contorni, il fior della pelle. In quell'attitudine momentanea tutte le linee del dorso si distendevano e salivano verso il capo ricinto; si appianava la leggera onda del ventre non anche deturpato dalla concezione; li archi delle coste si designavano. Poi, se un insetto entrava nella stanza, il ronzìo aliante in torno ed accennante ad attingere la nudità, il ronzìo sbigottiva Giuliana; ed era allora un difendersi della puntura mal temuta, erano movimenti serpentini, scatti di muscoli sotto la cute, paurosi raggruppamenti di membra, falli dei malleoli non bene forti al gioco, balzi, guizzi, tutti quelli sviluppi improvvisi di agilità e quei raggricchiamenti di pelle provocati in una donna dal ribrezzo.

Poi, così eccitata dal moto e calda, ella aveva delle voglie nuove. Apriva l'uscio, cauta in sospetto; e metteva fuori il capo guardando nell'altra stanza. C'era un odore di chiuso, quello squallore inanimato che hanno le scuole senza fanciulli: nelle tabelle quadrate l'alfabeto cubitale e i gruppi dei dittonghi e delle sillabe stavano muti dominatori del luogo. Giuliana si avanzava evitando co' piedi nudi li interstizii del pavimento smosso, provando la titubanza di chi cammina scalzo per la prima volta su un piano aspro e la confusione di una donna che non sente più in torno al suo passo l'impedimento abituale della veste. Andava così fino alla terza stanza, dov'era l'acqua, dove l'umidità le metteva una sensazione di fresco sotto i piedi e dove ella sentiva dei brividi nei capelli al pensiero che l'amante poteva essere là poco lontano. Allora intingeva le mani nell' acqua, si spruzzava tutta, coraggiosamente, con de' sùbiti arresti di respiro quando una gocciola più grossa le rigava l'epidermide. Usciva di là, tutta sparsa di rugiada: lo specchio alto di un antico mobile la tentava.

Era una specie di canterano a cui restavano ancora frammenti d'intarsi qua e là: lo specchio, che celava un armario sovrastante, aveva in torno fregi misti d'oro e di colori e in alto due puttini decapitati. Giuliana saliva fin là, attratta da una irresistibile curiosità femminile di vedersi nuda. La sua persona tutta ancora fresca di gocciole sorgeva nell'offuscamento dell'antico specchio soffusa d'un'ombra di pallidezza argentea, addolcita d'impercettibili apparenze di azzurro e di verde dove il cristallo più era alterato dal tempo. Ella si guardava; mentre l'istinto sessuale della bellezza svegliandosi le faceva ora salire alla bocca una viva spontaneità di sorriso. Il sorriso, ogni movimento dei muscoli pareva far tremolare tutte le linee della nudità nello specchio come quelle di una immagine dentro le acque. Allora ella cominciava una specie di mimica vanitosa, guardando riprodursi tutti i suoi gesti nella lastra, aprendo le labbra per mostrare i denti, alzando le braccia per mostrare le ascelle, presentando la schiena arcata e forzando il capo a volgersi in dietro; fin che un pazzo impeto di ilarità, dinanzi a quello spettacolo di sé, le scuoteva tutta la persona. In fondo in fondo, dietro la donna, si rifletteva dalla parete avversa una tabella di alfabeto.

 

 

XIV.

 

Ora avvenne che in uno di quei momenti battesse alla porta della scala Lindoro venuto sù con le conche. Giuliana gridò:

- Aspetta!

E raccolse da terra le vesti, in furia; se le mise addosso, in furia; andò ad aprire.

Erano le sei di sera; il reverbero bianco del palazzo di Brina entrava nella stanza; tutto il paese di Pescara, grande ospizio di rondini, cantava.

I due, in mezzo, ritti, parlarono del ritrovo imminente. Lindoro cercava con la sua loquacità vincere le estreme esitazioni della pulzella; poiché egli già teneva una parte della mercede, e l'adescava il resto. Li artifizi persuasori gli avvivavano le parole, li occhi, i gesti. Egli aveva nel fiato l'odore del vino, e nella faccia, su la tempia, pe 'l passaggio recente del rasoio, piccole macchie rosse e violacee. Mentre parlava, gli si scopriva la fila dei denti eguale e schietta, una di quelle forti chiostre che spesso armano le bocche plebee: la singolarità emergeva vivacemente dalla generale turpitudine dell'uomo.

Giuliana opponeva dubbii, paure, ad interrompere; ma già, poi che l'impudicizia a mano a mano sorgendo più calda dal fòmite del vino bevuto si insinuò nelle persuasioni del galeotto, ella cominciava a sentire quel calore d'afflusso in torno alli occhi, quell'intorpidimento della lingua, quei sordi colpi del sangue, che sono i sintomi dell'orgasmo amoroso. S'era ritirata a poco a poco verso il muro, appoggiandovisi. Dalle aperture, lasciate qua e là nell'abito per la furia del rivestirsi, si intravedevano lembi della biancheria sottostante, quei candori di lino che paiono essere qualche cosa della nudità femminile. La gola era tutta scoperta, bianca e rigata dalla collana di Venere; i piedi senza calze nascondevano nelle babucce soltanto le dita.

Ma ella, a un punto, involontariamente, per quel cieco istinto da cui una donna è avvertita d'essere innanzi a un uomo bramoso, corse con la mano a chiudere sotto la gola, su 'l petto li uncinelli. Quell'atto, col quale Giuliana così riconosceva nel mezzano l'uomo, quell'improvviso atto fece scattare dall'abbiezione di Lindoro un impeto di orgoglio maschile. Ah, egli dunque aveva potuto per sé stesso turbare una donna? Ed egli si fece più da presso; e, come il coraggio del vino lo animava, quella volta nessun ritegno di viltà lo trattenne.

E intieramente, sopra la pulzella smarrita e senza forze, si manifestò allora il bruto.

 

 

XV.

 

Giuliana rimase inerte, nella prima impressione violenta e divina di quel fatto naturale compiuto, in una specie di rapimento che non poteva esalarsi. Rimase lunga su i mattoni, con nelle vesti, con in tutta la figura lo scompiglio della donna violata.

A tratti nel bianco dei suoi occhi naufraganti appariva come un tremolìo; nelle sue braccia passavano dei sussulti, delli stiramenti di nervi irritati; fremiti nervosi le increspavano la fronte, le facevano battere le palpebre, curvare in sù li angoli della bocca, muovere in piccoli moti vaghi il pollice dei piedi scalzi.

Ella, quando udì i passi di Camilla nella scala, dal fondo della sua languidezza si levò su un gomito; rapidamente passo le mani su le vesti sconvolte; ritrovò le parole per dire alla sorella che una sùbita mancanza di forze l'aveva fatta cadere nel mezzo della stanza.

Fuori, annottava: su 'l paese si spandeva la grande frescura glauca della sera di giugno, originante dall'Adriatico. Voci e risa empivano la piazza; giù pe 'l casamento cantava la gioia sabatina delli abitanti sollevati. Dal secondo pianerottolo Teodora La Jece gridò:

- Comare Camilla, comare Giuliana, venite?

Giuliana seguì la sorella, senza parlare, senza pensare. Durava fatica a sovvenirsi; una specie di ebetudine le teneva ancora la memoria. Teodora La Jece le empiva li orecchi del suo chiaccherio di femmina maldicente e petulante.

- Sapete; comare, la figlia di Rachela Catena si marita.

- Ah.

- Sapete, piglia Giovannino Speranza, quel rosso che tiene locanda alla Pesceria e il mal di San Donato, liberanosdòmine.

- Ah.

- Sapete, comare; Checchina Madrigale se n'è scappata un'altra volta a Francavilla. Voi la conoscete: quella grassa che sta di casa a Gloria, nera, col naso a becco... quella.

Teodora La Jece seguitando aveva preso il passo di Giuliana. Camilla veniva un poco in dietro, a capo chino, senza badare ai peccati di mormorazione che la lingua della tessitrice commetteva contro il prossimo. Per le vie tutta la gente godeva l'aria; gruppi di donne passavano, in vesti di tela, con le braccia nude sino al gómito.

- Comare, guardate Graziella Potavigna che falbalà s'è messo. Guardate Rosa Zazzetta, con un sergente avanti e uno in dietro... Ah, voi non sapete?

E qui una storia d'amorazzi piena d'indiscrezioni salaci, sussurrata quasi all'orecchio. Per una di quelle obliosità che sono il rifugio di certe nature deboli e dubbie, Giuliana si immerse nel pettegolezzo intieramente, con una specie di furia convulsa, non dando a sé stessa il tempo di ripensare, interrogando, eccitando Teodora alla chiacchera, temendo li intervalli di silenzio, riempiendoli con de' piccoli sussulti di riso. Ella aveva quasi un godimento amaro a sentire i vituperii delli altri.

- Oh! ecco Don Paolo!

Veniva in contro con la sua bella placidezza Don Paolo Seccia, un ottuagenario ancora aspro e verde come un ginepro, giocondo e saggio come Pantagruele.

- Venite con noi, Don Paolo; usciamo fuori.

Tutti i macelli per la via di qua, di la, avevano i loro manzi freschi penzolanti in mezzo alla porta: l'odore della carne bovina si spandeva dalle ventraie aperte e assaliva le nari. Più in sù, lunghe file di maccheroni stavano attelate al lume della luna che le guardava dalla cima di un'antenna soperchiante la caserma. Gruppi di soldati si affollavano in torno alle rivenditrici di frutta, vociferando.

- Andiamo alla Bandiera disse Teodora, dando la precedenza a Don Paolo ed a Camilla.

Giuliana passò in mezzo a tutti quei rumori e quelli odori forti, stordita. Cominciava alfine uno sbigottimento vago a sommuoversi dal fondo, a torcerle la bocca nel riso, nelle parole, a impedirle la lingua. Anche certi piccoli tormenti fisici la molestavano e la richiamavano alla realtà delle cose. Ella non sapeva più sfuggire: le moriva la voce fra i denti, l'angoscia le sollecitava la gola, il fantasma di qualche cosa d'enorme e d'irrimediabile le si drizzava dinanzi. Ella ora si sentiva morire dalla fatica di reggersi in piedi, di mettere i passi: si sentiva percossa dalla fischiante animazione della vita nella strada che è di tutti.

- Dunque, comare mia, quel guercio del marito senza saper nulla di nulla... - diceva Teodora riannodando la maldicenza interrotta.

Andavano per la Bandiera. Il ponte a battelli, su la sinistra, cavalcava il fiume. Dall'altro lato, la mole cupa e grave del bastione si disegnava nel chiarore. I vecchi cannoni di ferro, piantati con la bocca nel terreno, si dilungavano in fila trattenendo le gòmene; grandi àncore di ferro ingombravano lo scalo. Nelle tolde, a riva, i marinai sotto le tende mangiavano e fumavano: le tende illuminate contrastavano con un rossore sanguigno l'albore della luna. Intorno alla proe, su l'acqua larghe chiazze come di materia liquefatta fluttuavano lentamente.

- ...mandò a chiamare Don Nerèo Memma, figuratevi! - seguitava Teodora, implacabile.

- Chi parla del dottor Dulcamara? - fece Don Paolo, a cui era giunto quel nome, ridendo dalla franca bocca ancora armata di avorii.

Giuliana non sentiva più: ella era pallida come la faccia della luna. Da prima, tutta quella gran pace luminosa piovente dal cielo su 'l fiume e tutte quelle lunghe vene di odore marino ruscellanti pe 'l fresco le aveva no dato una impressione di sollievo quasi gioconda; poiché dinanzi a quello spettacolo di dolcezza i fantasmi vagheggianti dell'amore in fondo a lei si risollevavano e le sommità del sentimento al raggio lunare riscintillavano. Fu, sùbito dopo, come una soffocazione, come un tumulto confuso in cui ella aveva coscienza di sé solo per il battere delle arterie alle tempia, per quel sussurrìo assordante che parve dilatarsi e riempire tutta l'aria d'un tratto. Le mancava sotto i piedi il suolo fermo: il limite delle acque si confuse, per la vertigine; il fiume invase la strada; acque acque acque si spársero in torno. Poi, d'un tratto, uno scintillìo di bagliori si accese dentro li occhi di lei, un tremolìo crescente di fiammelle fatue che rompevano, si intrecciavano, si allontanavano, e si fondevano e perdevano serpentinamente in una mezza ombra. In quella illuminazione la figura di Marcello compariva e spariva, con una rapidità e una mutabilità di sogno. La vertigine cessò. Giuliana riconobbe i riflessi della luna nel fiume placido; continuò a camminare, stupefatta, indebolita, quasi presso a svenirsi.

- Stanca, eh? comare; voi non siete abituata, si sa. Appoggiatevi a me, appoggiatevi - diceva Teodora. - La figlia di donna Mentina Ussoria, quella più piccola, butterata, stava proprio innanzi alla bottega, sapete, su la piazzetta...

Erano alla caserma dei finanzieri. Grandi mucchi di carrùbe mandavano un odore forte come di pelli conciate; e la strada seminata di scaglie d'ostriche scricchiolava sotto i passi. Due sciàbiche, presso la riva, facevano pesca d'anguille, in silenzio, con la luna propizia. Ma la sonorità del mare empiva di grandezza il silenzio: si annunziava la foce con l'ondeggiamento del sale superante il lieve fiore dell'acqua dolce.

- Torniamo in dietro, belle figliole - disse Don Paolo, prendendo una carruba dal mucchio vicino.

Giuliana si lasciava condurre. Ella durava fatica a rattenere l'ansia del respiro; poiché ora il suo stato, con una terribilità incalzante, le si ripresentava dinnanzi e schiacciava tutti li aneliti e i tumulti del sentimento suscitati dalla voluttà della notte lunare. Ella vedeva, nella fissazione del suo pensiero, la figura di Lindoro levarsi e vivere; si sentiva un'altra volta afferrare e palpare da quelle mani aspre, soffocare da quel fiato caldo di vino e di libidine, violare su i mattoni della stanza. Ma in quel momento, pensava, ella non aveva resistito, non aveva gridato, non aveva fatto nessun moto per opporsi; ella aveva soggiaciuto, senza forze, non distinguendo più nulla, non sentendo che una gran gioia mista di dolore innondarle le fibre, non sentendo che da tutto il suo essere la violenza della natura compressa insorgere. Allora quel riflesso di sensazione mise nella carne di lei un nuovo turbamento, una tenerezza di languore infinita; e in quel disordine della coscienza la volontà delle sue idee si estinse. Le parve che tante cose della notte, come avessero voci ed ali, venissero a batterle contro la tempia, venissero a tentarla, a darle dei trèmiti e a suggerirle delle parole. Guardava innanzi a sé, pallida con li occhi ingranditi e più neri. Ella era così: debole, incerta, incapace di determinare con la volontà uno stato d'animo e di cose, oscillante miseramente tra le suggestioni del mondo esterno e il travaglio interiore.

- Sentite come il vino canta - disse Don Paolo, soffermandosi.

Nelle barche i marinai stavano distesi tra i cordami, in mezzo al fumo del tabacco di Dalmazia, e cantavano di femmine belle, in gran coro.

 

 

XVI.

 

Camilla, su l'inginocchiatoio, pregò a voce bassa, co 'l capo prostrato, con giunte le mani, lungamente; poi accese la lampada votiva a Maria Vergine, per la notte; piegò poi nel sonno tenendo il dolce cuore di Gesù tra i fiori vizzi del seno. Il suo respiro di dormiente era religioso come se sfiorasse l'ostia sacra su la patèna d'argento. Nella volta le ombre seguivano le oscillazioni della fiammella alimentata dall'olio; quei romori secchi del legno che si dilata e dei tarli che ròdono, li scricchiolii misteriosi che hanno i vecchi mobili nella calma notturna, ronzii di zanzare rompevano il silenzio.

Giuliana stava nello stesso letto, a fianco di Camilla, distesa, senza muoversi, senza chiudere li occhi, poiché una grande stanchezza insonne le occupava le membra e la vigilanza assidua dell'angoscia le martoriava l'anima tapina. Ella ascoltava il silenzio, spiava sé stessa con una curiosità ansiosa, come per sentire qual mutamento si fosse compiuto nell'essere suo.

A un tratto, Camilla nel sonno cominciò a mormorare delle parole vaghe, de' frammenti di parole incomprensibili, movendo appena le labbra, mettendo lunghi respiri dentro cui si sentivano de' suoni semispenti, si sentivano i gorgogli rochi delle voci non formate e li accenti delle voci infrante. La testa di lei, scarna, affilata, quasi direi scolpita e cesellata rigidamente dalla penitenza e dal digiuno, ingiallita dal lume della lampada, posava sulla bianchezza del guanciale come una effige mal dorata di santa sopra una raggiera. Piccole ombre violacee segnavano l'interno delle narici, i solchi del collo teso e pieno di corde, le fosse delle gote, le occhiaie d'onde sporgeva grande il globo coperto della pelle molle della pálpebra. Ella pareva così il cadavere di una martire, dentro cui scendesse lo spirito di Dio.

Benché quello dei soliloquii notturni non fosse il primo, Giuliana sentì freddo in mezzo ai capelli: un terrore improvviso l'assalì e la oppresse. Ella instintivamente si rannicchiò, cercò di allontanarsi dal corpo della sorella ritraendosi su l'orlo della sponda: stette immobile, sospesa nelli intervalli di silenzio, con li occhi fissi su la bocca della dormiente, provando un sordo balzo in mezzo al petto se quelle labbra si muovevano a profferire nuove parole. Ella non comprendeva; ma qualche cosa di lontanamente profondo e di solenne era in quel mormorio interrotto, quasi un mistero di fenomeno soprannaturale si levava da quel corpo inerte e inconsapevole che parlava senza udire la propria voce. Nella stanza passava come un alito di sepolcro; per la fantasia sconvolta di Giuliana, le ombre oscillanti prendevano forme spaventose e minacciose di spettri; l'aria pareva solcata da rumori ignoti. Tutte le cose su cui l'allucinata si rifugiava con lo sguardo, tutte le cose si trasformavano e si animavano verso di lei. Allora l'idea del castigo e della pena eterna ancora una volta le risorse nella coscienza e la incalzò. Ella si imbatté sotto l'incubo del suo peccato, mettendo in croce le braccia su 'l petto per difendersi dalle minaccie dei demoni, tentando di dire delle preghiere con la lingua impedita dal terrore, aggrappandosi con un supremo slancio all'àncora del pentimento, all'ultima salvezza. Ella si sentiva perduta, ella chiedeva ora misericordia dall'intimo del suo cuore al divin Sposo tradito, a Gesù buono e grande, a Colui che perdona.

La voce di Camilla si esalava in sospiri, si confondeva in un borboglìo tremulo, si spegneva del tutto nella respirazione lenta ed eguale, a mano a mano che l'entusiasmo del sogno mistico si andava placando. Le ombre seguitavano ad oscillare. Non ancora il Crocefisso discendeva dalla parete a raccogliere con le dolcissime braccia la pecorella tornante all'ovile.

 

 

XVII.

 

- Ha detto il Signore per bocca del profeta Gioele, figlio di Petuel: “Avverrà che io spanderò il mio Spirito sopra ogni carne, e i vostri figliuoli e le vostre figliuole profetizzeranno; i vostri vecchi sogneranno de' sogni, i vostri giovani vedranno delle visioni”.

Questo spirito di cui li Apostoli ebbero le primizie e la beatitudine, fu per essi e per noi uno spirito di verità, uno Spirito di Santità e uno Spirito di forza... O divino amore, o sacro legame che unisci il Padre e il figlio, Spirito onnipotente, fedele consolatore delli afflitti, penetra nelli abissi profondi del nostro cuore e infondici la tua gran luce.

Così predicava Don Gennaro Tierno nella Pentecoste, dall'altare maggiore, volto al popolo ascoltante. Sopra di lui, in alto, la terza persona della SS. Trinità apriva l'arco radioso delle ali d'oro, e nella chiesa l'illuminazione dei ceri spandeva rossore simile a un riflesso d'incendio. Li enormi pilastri di pietra sostenenti le due navate, coperti di barbare sculture cristiane, cavalcavano verso l'altare pesantemente; su le pareti li avanzi dei mosaici mettevano larghe macchie di colore scuro; qualche testa di Apostolo, qualche braccio rigido di santa, qualche ala d'angelo emergeva ancora nell'offuscamento e nello scrostamento operato dai secoli. Tra i mosaici piccole navi ex voto pendevano, una intiera flottiglia di barche veliere pendeva dedicata al tempio dai naufraghi supérstiti. E in mezzo a tutta questa rude solennità primordiale si elevava agile un gruppo di colonne rosee a spira sorreggenti il pergamo anche marmoreo fiorito di acanti e animato di bassorilievi.

- Spandi la tua dolce rugiada su questa terra deserta, a fin che cessi la sua lunga aridità. Manda i raggi celesti del tuo amore fino al santuario dell'anima nostra, a fin che penetrandoci accendano fiamme consumatrici delle nostre debolezze, delle nostre negligenze, dei nostri languori! - seguitava il prete, salendo ai supremi culmini della sua eloquenza e della sua potenza vocale.

Giuliana, da presso, ascoltava, tutta raccolta. Ella si era rifugiata nella casa del Signore, ella era tornata al talamo; voleva che il Signore la purificasse e la ricevesse un 'altra volta nella benignità del suo grande abbracciamento. Quel barbaglio subitaneo di fede la abbacinava, le faceva quasi dimenticare ogni fallo anteriore. Le pareva che subitamente dalla sua anima le macchie si cancellassero e dalla sua carne cadessero le scorie dell'impurità terrena. Giammai ella si era accostata all'altare di Dio con un più profondo tremito di speranza; giammai aveva ascoltato la parola di Dio con una più lunga ebrezza.

Dall’istante in cui l'orrore della dannazione le si levò nella coscienza, ella si compresse in una specie di accoglimento cupo, quasi direi sorvegliando sé stessa, sorvegliando i propri atti, i proprii pensieri, i minimi moti, pe 'l timore che quella veemenza di pentimento si esalasse, per l'ansia di conservare intatto dentro di sé quel fiore di fede rigermogliato d'improvviso. Fu una specie d'assunzione verso Gesù; fu una specie di isolamento geloso dalla vita circostante, un ripudio di ogni legame umano.

Ella si esaltò nella lettura dei libri sacri; si gettò nella contemplazione delle imagini e dei misteri; lottò contro le molli viltà della carne, contro i calori della giornata, contro l'insidie della notte, contro i profumi che le portava il vento, contro il soffio che saliva dai suoi ricordi impuri, contro le voci che parevano vellicarle l'udito e sussurrarle segreti nuovi di piaceri.

Dopo quella settimana solitaria di passione, ella ora deponeva il sacrificio ai piedi dell'altare: beveva il balsamo della parola di Dio, fissando li occhi in alto alla colomba radiosa e sentendosi a poco a poco naufragare nel pèlago dell'estasi

- Vieni dunque, vieni, dolce consolatore delle anime desolate, rifugio nei pericoli, protettore nella sventura. Vieni, o tu che purifichi l'anime da ogni macchia e ne guarisci le piaghe. Vieni, forza del debole, appoggio di quegli che cade. Vieni, stella dei naviganti, speranza dei poveri, salute di chi è per morire - incalzava Don Gennaro Tierno, alto nella pianeta d'argento, vermiglio in volto, con occhi forzanti le orbite, con gesti che parevano toccare il cielo.

Nella chiesa una calura grave si era addensata su i cristiani. Le navate si schiacciavano su i pilastri; in una vetrata la testa di San Luca evangelista raggiava percossa dal sole e il gran manto metteva nell'aria una zona di crepuscolo verde. Il púlpito marmoreo si levava come un miracoloso fiore mistico, in quel vapore di luce.

- Vieni, o Spirito, vieni ed abbi misericordia di noi!...

Giuliana teneva li occhi all'alto: sull'onda di tutte quelle invocazioni ella ascendeva verso il nimbo, penetrata dalla ineffabile soavità che attira l'anime all'odore delli aromi spirituali. Le parve un istante di vedere la colomba d'oro balenarle un lampo di assentimento, e il cuore le balzò di giubilo nel seno come San Giovanni nelle viscere d'Elisabetta alla visita della Vergine Maria.

- Per nostro signore Gesù Cristo. Amen.

Il prete, tutto d'argento, si volse verso la custodia, dicendo a voce bassa un credo. Due turiferarii bianchi ai lati cominciarono a scuotere i turiboli fumanti e odoranti. Un nuvolo di incenso avvolse Giuliana che stava da presso, e subitamente un invincibile fiotto di nausea dal fondo della maternità le salì alla gola e le fece torcere la bocca.

 

 

XVIII.

 

Non c'era dunque scampo? - Più giorni ancora ella oscillò nel dubbio, aspettando l'ultima prova. Vertigini la prendevano al levarsi, quand'ella metteva a terra i piedi; sfinimenti vaghi la invadevano su la sera, fievolezze in cui il pensiero, la volontà, i ricordi parevano quasi avere la confusione, la sonnolenza fluttuante delle prime ore mattutine. Ella faceva le cose per abitudine, con de' gesti di sonnambula, con una lentezza di donna stanca. Nella scuola, se veniva su 'l vento l'odore del pane caldo dal forno, ella si sentiva morire, sentiva come tutte le viscere montarle d'un tratto alla bocca: un sapore di lisciva le si spandeva nella lingua. Un giorno, mentre un bimbo succhiava delle ciliege, una voglia violenta di quel frutto la fece contorcere su la sedia, impallidire e sudare. Poi, ella, dopo il pasto, tutta amara di nausea, si metteva lunga su 'l letto, si lasciava occupare dal sopore: il caldo era pesante, le mosche ronzavano, le grida d'un venditore di occhiali passavano sotto la finestra, rauche nel silenzio.

Sfiduciata, ella non cercò più la chiesa: l'incenso anche la ributtava.

Ella non pensò più a Marcello; non lo vide più, non ebbe di lui che un ricordo incerto, come d'un sogno remoto: l'ansia presente l'assorbiva tutta.

Lindoro saliva a portar l'acqua, come prima. Egli giungeva su rosso e stillante di sudore: posava le conche. lanciando sguardi di sbieco a Giuliana. Giuliana si ritirava nell'altra stanza o si curvava su 'l lavoro: nelle sue guance le strette convulse dei denti mettevano piccoli moti di collera repressa: i suoi occhi si intorbidavano.

Lindoro se ne andava, come un cane frustato; ma il pensiero di aver posseduto quella donna gli turbava il sangue: avrebbe voluto ora trascinarsela con sé, tenersela, esserne il padrone come di una merce da usare e da vendere. Cupidigia sensuale e avidità di guadagno allora in lui si mescolavano.

Una sera egli aspettò che Camilla uscisse, alla porta di strada; poi salì a precipizio per sorprendere Giuliana, per trovarla sola nella casa. Quando egli batté all'uscio Giuliana lo riconobbe e si sentì rimescolare.

- Che vuoi da me, che vuoi? - chiese ella con la voce soffocata, senza aprire.

- Sentimi un momento, sentimi! Non aver paura; non ti faccio male...

- Vattene, cane, infame, assassino... - proruppe la donna, con una veemenza stridente di vituperii, togliendo il freno a tutto l'odio accumulato contro di lui. - Vattene, vattene!

E, sfinita, si ritrasse nella sua stanza, si gettò su i guanciali mordendoli fra le lacrime. Un tremito violento la scuoteva tutta, un irrigidimento convulsivo delle mascelle le rendeva dolorosi i singulti.

 

 

XIX.

 

Non c'era più scampo. - La figlia di Maria Camastra aveva bevuto il vetriolo ed era morta così, con un bimbo di tre mesi nel ventre. La figlia di Clemenza Jorio s'era precipitata dal ponte, ed era morta così, nella fanga della Pescarina. Bisognava dunque morire.

Quando questo pensiero balenò alla mente di Giuliana, cadeva il pomeriggio. Tutte le campane suonavano a gloria, nella vigilia del Corpus Domini; grandi tribù di rondini schiamazzavano e turbinavano su 'l palazzo di Brina, si assembravano a parlamento su l'Arco. Una magnifica nuvola rossa sovrastava le case, simile forse a quella che versò bitume ardente su l'empietà di Sodoma.

Giuliana al baleno di quel pensiero si smarrì, ebbe paura. Poi a mano a mano che il sentimento della vergogna la persuadeva al passo, in fondo a lei una sorda ribellione di vitalità cominciava a levitare, le viscere fremevano. Ella d'un tratto sentì il rossore e il calore del suo sangue metterle delle chiazze su la fronte, su le guance. Si levò dalla sedia, torcendosi le braccia nell'agitazione della lotta. E, con impeto di forza nervosa, finalmente uscì dalla stanza, entrò nella cucina, cercò su le tavole un bicchiere e il mazzo delli zolfanelli. L'odore forte del carbone le turbava lo stomaco; la vertigine le prendeva il cervello. Ella trovò tutto: mise li zolfanelli a disciogliersi nell'acqua; rientrò nella sua stanza e nascose in un angolo, sotto un mobile il bicchiere.

- Dio mio! Dio mio!

Ella aveva ora paura di trovarsi così, sola dinanzi al suo proponimento. Le tornò subitamente nella fantasia il cadavere di Cristina Jorio intraveduto quel giorno mentre lo portavano su la barella alla casa della madre: un corpo gonfio come un otre, con la melma ne' capelli, nel cavo delli occhi, nella bocca, tra le dita de' piedi violetti...

- Dio mio. Dio mio, morire!

E sussultò come se una mano fredda e rigida le si fosse posata su 'l capo: un brivido le corse tutte le membra, le durò un momento su 'l cranio con l'impressione di una lama che vi penetrasse per distaccarne la pelle; e nella vista le passò il ribrezzo dell'orrore, quel non so che di bianco che dilata le orbite.

- No, no, no! - disse con voce alterata come se volesse scacciare da sé il contatto di qualche cosa orribile. E andò alla finestra, sporse il capo fuori, cercando un rifugio.

Ella rimase là, inchiodata, attònita dinanzi a quella visione d'incendio biblico e a quella tregenda di uccelli neri. Quando si volse un poco dietro la stanza, intravide nell'ombra un bagliore strano, il luccichìo delle mezzelune d'oro su la veste della Madonna di Loreto e il luccichìo delle medaglie. Ebbe ancora paura; si schiacciò su 'l davanzale, si sporse di più; stette là, senza avere il coraggio di muoversi. Allora, in quella immobilità, l'indebolimento serale cominciò a invaderla; ed ella si strinse la testa grave tra le palme, socchiuse le pàlpebre.

- Ah!

D'improvviso le s'era aperto nell'animo uno spiràcolo. - Sì, sì, ella se ne rammentava! Spacone, il mago, quel vecchio con la barba lunga, quello che faceva i miracoli e aveva le medicine per ogni male... Era venuto al paese qualche volta a cavalcioni di una muletta bianca, con due triangoli d'oro alli orecchi, con una fila di bottoni larghi come de' cucchiai d'argento senza mánico. Tante donne uscivano su li usci e lo chiamavano, e lo benedicevano. Egli aveva guarito ogni sorta di malattie con certe erbe e certe acque e certi segni del dito pollice e certe parole magiche. Egli doveva avere i rimedi pure per quella cosa... sì, sì, li doveva avere!

E Giuliana rivisse in un barlume di speranza, mentre il languore saliva saliva. Dinanzi a lei, le cose annegavano nel crepuscolo; il giorno vermiglio, penetrato dalle ceneri della notte vicina, mancava in un lento scoloramento tra roseo e violaceo, si ritirava a poco a poco dal basso, finiva senza contrasti. Una rondine, come un pipistrello, passò radendole il capo. Un fiotto della vitalità ardente dell'estate le batté nella faccia, con la brezza, dandole una specie di soffocazione e di palpitazione.

Ella, con un moto involontario e inconsapevole, mise le mani su 'l ventre e le tenne così un istante. Qualche cosa come un indefinito sentimento di maternità le attraversava l'anima. E dal fondo, chi sa per quale processo interiore, un ricordo della convalescenza lontana si svegliò. - Ah, era di marzo... una gran bianchezza ridente... e sopra di lei le spie, le lanugini molli piovevano.

 

 

XX.

 

Così fu che la mattina dopo ella uscì dalla casa, di sotterfugio; e s'incamminò sola fuori del paese, per la strada nuova di Chieti.

Nelle vicinanze di San Rocco abitava Spacone. Sotto la maestà di una quercia druidica, egli compiva i miracoli e formulava i responsi. Tutto il contado, in venti miglia di circuito, ricorreva a lui, come a un apostolo della Provvidenza. Nelle epidemie del bestiame indigeno, mandre di bovi e di cavalli si raccoglievano in torno alla quercia per ricevere il talismano preservante dal morbo: le orme delle unghie equine e bovine facevano come un circolo d'incanti su l'erbe semplici del terreno.

Quando Giuliana s'incamminò, era nella terra pescarese un gran giuoco d'ombra e d'illuminazione. Le nuvole nòmadi trasmigravano dalla marina alla montagna, come carovane con buone salmerie d'acqua, per quel cielo arabico del mese di giugno. A intervalli, larghe zone di terra si sommergevano nell'ombra, altre zone emergevano illustrate; e come l'ombra era turchina e mobile, la campagna così dava l'apparenza di un arcipelago che galleggiasse copioso d'alberi e di fromento. Molto canto di uccelli letificava la maturità di biade.

Al primo spettacolo Giuliana ebbe una subitanea sensazione di ristoro; poiché la libertà della campagna, la felicità della luce su 'l fogliame, li odori cordiali dell'aria circondandole d'un tratto la persona le mossero il sangue, e la nuova speranza in lei al dispiegarsi dell'orizzonte si fortificò ed esultò. Ella, come sempre, si abbandonava ora all'influenza delle cose esteriori; si alleggeriva di tutte le angosce, viveva per due sentimenti soli, per la speranza della salvazione corporea e pe 'l desiderio di raggiungere la meta. In fondo, alla meta, ella vedeva nella sua fantasia sorgere il Vecchio benefico e illuminarsi misteriosamente. Per una nativa tendenza superstiziosa, ella trasformava quella figura, la ingigantiva e la vestiva di una dolcezza cristiana, la cingeva di nimbo. Allora tutte le dicerie che correvano tra il volgo le tornarono alla memoria confusamente e gittarono sprazzi di luce meravigliosa su la fronte di Spacone. Allora ella si rammentò che Rosa Catena, in un giorno lontano della malattia, aveva parlato del Vecchio con una reverenza devota citando miracoli. - Un cieco di Torre de' Passeri era andato a San Rocco ed era tornato dopo tre dì con li occhi che ci vedevano e con una cifra turchina su le tempia. Una femmina di Spoltore, invasa dalli spiriti maligni, era tornata mansueta come un'agnella, dopo aver bevuto due sorsi di un'acqua che stava in una piccola zucca secca.

Così a poco a poco, lungo il cammino, pe 'l concorso di tanti elementi sparsi si venne formando nella mente di Giuliana una specie di leggenda. E a poco a poco, giacché nulla possono li uomini senza l'assistenza di Dio, sorse anche la persuasione che il vecchio fosse un inviato del cielo, un redentore delle anime dalla dipendenza corporale, un distributore di grazie celesti su la terra ai caduti. - La speranza estrema non era discesa su la peccatrice improvvisamente, quasi per influsso divino, fra i segnali accesi nell'aria? E nella Pentecoste la colomba non aveva balenato dall'alto, alli occhi della pregante, un lampo di buona promessa?

La promessa ora si compiva nel santo giorno del Corpus Domini. Giuliana dunque, tutta calda di fede e di giubilo, andava su la polvere della via nuova, non curando la fatica dei passi. Ai due lati, le siepi biancheggiavano come coperte di escrementi d'uccelli. Gruppi di pioppi sonori stavano sui

limiti; e i tronchi, come grandi pezzi di argenteria vecchia, riverberavano le variazioni della luce. Le contadine della Villa del Fuoco, nane, co 'l naso camuso, con le labbra schiacciate, femmine cafre dalla pelle bianca, venivano incontro a due, a tre. In torno, su l'immenso teatro della campagna le vicende delle nuvole gigantescamente si rappresentavano.

Giuliana passò il Mulino, passò la Villa: una energia nervosa le animava il passo. Ella si sentiva battere il vento su la nuca e sentiva su 'l capo a intervalli stormire i pioppi. Ma l'oscillare delle ombre e la polvere cominciavano a turbarle un poco la visione; il calore del moto le affluiva alla testa; la volontà era tutta occupata nell'insolito sforzo materiale dell'incedere. Ella così andò innanzi in una specie di stordimento crescente che si mutava in malessere; e, vinta dalla fatica e dal caldo, si lasciò allettare da un mucchio di olivi messi in salita a sinistra.

Passavano quattro o cinque zingari seminudi, bronzini, con qualche cosa di luccicante, su 'l petto, a cavalcioni di certi grandi asini rossastri. Uno di loro fischiava urtando con le calcagna il ventre della sua bestia. Tutti avevano in mano canne e portavano bisacce di pelle sulle cosce. Guardarono la donna rifugiata sotto li olivi e mormorarono poi delle parole ridendo.

Giuliana ebbe paura di quegli occhi che mostravano il bianco nello sguardo, e stette sbigottita fin che il gruppo non si allontanò. Lo scoraggiamento incominciava a impadronirsi di lei; la solitudine cominciava ad esserle inquietante, poiché nella campagna correva per lunghi brividi l'annunzio della pioggia e una certa solennità di silenzio scendeva nell'aria dalle nuvole raccolte. Ella s'era appoggiata a un tronco: a tratti, de' soffii freschi le investivano la persona e le gelavano il sudore nei pori, de' soffii che accorrevano a lei con 'l fruscio del passo di un animale su l'erba; mentre in torno il tremolìo del sole pareva un reverbero d'acque rinfrangenti o qualche cosa come il riflesso di una meteora lontana. Molti fiori d'un giallo pallido di zolfo facevano onda a pie' delli olivi.

Un ricordo scese allora dai buoni alberi su l'animo della donna. La chiesa era tutta piena di palme benedette e di aromi, quel giorno; ed ella andava tra il popolo sorretta dalle braccia di Marcello, in una gran dolcezza... Ma, come ella si soffermò in quel pensiero, uno smarrimento le prese la memoria; tutto le sfuggì in una incertezza di sogno. Soltanto, de' colpi sordi le batterono il cuore e dei sussulti di angoscia le affannarono il respiro. Ella aveva ora la sensazione ottusa di un sopore che le cadesse su 'l cervello con la pesantezza d'un colpo di maglio su la fronte di un bove. Un resto di volontà vigile le bastò a scuotersi debolmente e a discendere nella strada.

Le nuvole raccolte verso la Majella avevano preso il colore diafano e grigio di una massa pendula d'acque. Larghe trombe si avvicinavano dalla marina più cariche; e ancora qualche florido intervallo d'indaco si dilatava nell'alto. Un odore di umidità già saliva dalla polvere, saliva dalla campagna ansante nell'aspettazione. Li alberi immobili parevano assorbire la luce, si levavano anneriti in mezzo alla fumosità dell'aria, popolavano di forme incerte la lontananza.

Giuliana camminava con una fatica immensa, sentendo che le forze stavano per abbandonarla.

- Ecco, - pensava, - arriverò a quell'albero e poi cadrò.

Ma non cadeva. Si scorgevano a destra le case di San Rocco. Un contadino veniva in contro a corsa.

- Buon uomo, è quello San Rocco?

- Sì, sì, voltate alla prima scorciatoia.

Grosse gocce sonanti cominciarono a cadere; poi d'un tratto la pioggia crescente rigò l'aria di lunghe frecce bianche, di lunghe sferze che percotendo schioccavano. Un sommovimento mostruoso agitò allora le nuvole: sprazzi di raggi eruppero di qua, di là. Tutte le colline, in fondo, a traverso le liste della pioggia si accesero un momento e si rispensero. Una fievole serenità d'argento si levò su la Majella, in una zona sottile.

Giuliana tentava di correre verso la quercia distante un tiro di fucile. Le gocce le battevano su la nuca, le scivolavano giù per la schiena, le colpivano la faccia; e già le vesti erano tutte molli sino alla pelle. I passi le mancavano su 'l terreno sdrucciolevole; ella cadde e si rialzò, due volte. Poi, quasi folle, si mise a gridare verso la casa.

- Aiuto! aiuto!

Una femmina uscì dalla porta e venne a sorreggerla, seguita da due cani che abbaiavano.

Giuliana si lasciò condurre machinalmente, senza poter più proferire una parola a traverso i denti serrati, livida, con la faccia stravolta. Ella non si riscosse che dopo qualche tempo, per le domande che l'ospite le faceva. E allora, repentinamente, all'udire il nome di Spacone, si risovvenne di tutto.

- Ah, dov'è Spacone? - chiese.

- È a Popoli, donna santa: l'hanno chiamato.

Giuliana non resse più: cominciò a singhiozzare e a strapparsi i capelli.

- Che volete, donna santa? che volete? Io sono la moglie; ci son qua io... - miagolava la strega, trattenendole i polsi, incitandola a parlare.

Giuliana esitò un momento; poi disse tutto, a precipizio, tra i singulti, coprendosi la faccia.

- Aspettate. Il rimedio c'è; ma costa cinquanta soldi, donna santa - fece la strega in quel suo idioma tutto molle di vocali, cantando quel bello appellativo per intercalare.

Giuliana sciolse un nodo nel fazzoletto e offerse cinque piccole monete d'argento. Poi aspettò più calma.

La stanza era vasta, ma bassa. Le pareti, su cui qua e là il salnitro fioriva, avevano dei toni di pelli di serpente secca, avevano come delle scaglie di rettile. Rozzi idoli cristiani di maiolica popolavano quel fondo antico; forme strane di utensili e di stromenti ingombravano le tavole. L'insieme dava l'impressione religiosa di un santuario custodito da un semplicista monaco.

La moglie di Spacone, dinanzi al camino, componeva il suo filtro, in silenzio. Era una femmina alta ed ossuta, bianchissima in faccia, co 'l naso guasto avente il color violetto di certi fichi meridionali, con i capelli rossi e lisci su le tempia, con due piccoli occhi di albina, tatuata nel mento, nella fronte, nel dorso delle mani.

- Ecco, donna santa! Coraggio!

Giuliana ingoiò il liquido d'un fiato; ma si sentì, subito dopo, da un'amarezza atroce mordere il palato e le viscere. Restò con la bocca aperta, premendosi il ventre con le mani, battendo rapidamente un piede su 'l pavimento, nello spasimo della prima contrazione uterina.

- Coraggio, donna santa, coraggio! - le ripeteva la strega, fissandola con quelli occhi bianchicci di mollusco, soffregandole le reni. – Avete tempo di arrivare a Pescara... Via! via!

Giuliana non poteva rispondere: alla bocca non le venivano che urli. I crampi le serravano lo stomaco, le irrigidivano i muscoli respiratorii, le eccitavano il vomito. I bulbi visivi le ruotavano in alto, come se ella fosse entrata ne' sintomi di una convulsione epilettica. In tutto il suo debole organismo la potenza eccessiva della bevanda operava ora effetti inaspettati. Il parto falso si produsse quasi d'improvviso, con una di quelle terribili perdite per ove le forze della vita se ne vanno mollemente, insensibilmente, fluendo.

- Gesù, Gesù, Gesù! - mormorava la strega inquieta, presa da una subita paura dinanzi al corpo di Giuliana riverso che a pena certe piccole ondulazioni convulsive scuotevano. - Gesù, aiutatemi!

Alle sollecitazioni di lei, Giuliana rinvenne. E come dopo qualche tempo il profluvio parve arrestarsi, Giuliana si poté levare in piedi; sospinta dalla femmina, uscire; giungere fino alla strada nuova, barcollando, pallida come se non le fosse rimasta sotto la pelle una goccia di sangue, ma tenuta viva da una speranza che il maggior pericolo fosse ormai superato.

Ora la campagna era tutta frescamente luminosa. Passava una fila di carretti carichi di gesso, e i grossi carrettieri di Letto Manoppello, pieni di vino, sdraiati su i sacchi fumavano. Come Giuliana si mise dietro la fila, uno di quelli, l'estremo, gridò:

- Ohe, volete che vi porti, bella figliuola?

Machinalmente Giuliana si lasciò tirar sù dalle forti braccia dell'uomo, e stette così seduta su i sacchi. Non intendeva le grasse risa e i motti osceni che di carro in carro si propagavano.

Con una energia involontaria d'istinto, teneva le ginocchia serrate per impedire al flusso la via. Sentiva a poco a poco una specie di ottusità occuparle la coscienza, così che li sbalzi frequenti delle ruote su la ghiaia non le davano che una dolorazione sorda e il lezzo delle pipe non le turbava che lievemente l'olfatto. Ma già il sussurro lontano alli orecchi, il bagliore alla vista, le vertigini annunziavano lo sviluppo dell'anemia nel cervello. Più volte ella sarebbe caduta se non l'avessero sorretta le mani del carrettiere che incoraggiato dalla muta docilità di lei cominciava de' tentativi brutali di carezze.

Il paese di Pescara apparve in cima alla strada in mezzo al sole, mandando suoni su 'l vento.

- Fanno la processione - disse uno delli uomini. Tutti li altri sferzarono; e la strada risuonò sotto il trotto pesante, al tintinnìo de' sonagli, allo schiocco delle fruste.

Quella violenza di scosse e di fragore richiamò per un momento Giuliana al senso della realtà circostante. Ma, poiché l'uomo le cingeva i fianchi con un braccio e le metteva il fiato vinoso nella guancia, ella per un cieco impeto si mise a gridare e a gesticolare quasi l'avesse presa un delirio. E il fantasma di Lindoro subitamente le si rizzò dinanzi alli occhi offuscati e poté anco suscitarle il ribrezzo dell'orrore in quel poco di sensibilità che le restava nei nervi. Ella, a pena il carro si fermò, discese a terra dai sacchi scivolando, tentò di muovere i passi, con la furia affannosa, di chi cerchi raggiungere un luogo sicuro per cadere.

Venivano in contro nella strada le verginelle coperte di veli candidi, con in mano i cèrei dipinti, e cantavano. Dietro la torma angelica, un grande sventolìo di drappi e di baldacchini empiva l'aria beneficata dalla pioggia recente. E cantavano:

 

Tantum ergo sacramentum

Veneremur cernui...

 

Giuliana, intravedendo, voltò nel vicolo; giunse alla casa di Rosa Catena, entrò; presa dalla vertigine, cadde in mezzo al pavimento. E, come il profluvio del sangue ricominciava, la paralisi le occupò la metà inferiore del corpo, ogni facoltà di moto volontario in lei si spense.

Rosa non era nella casa: la processione aveva attirato tutto il paese, quel giorno. In un angolo della stanza Muà, il padre, un mostro di vecchiaia umana, un cieco inchiodato per anni su 'l legname di una sedia dall'artrite deformante, tentava vagamente con la punta del bastone i mattoni intorno a sé per scoprire la causa del rumore improvviso.

Allora, in mezzo al sangue, Giuliana fu scossa da un parossismo di convulsione. Le contrazioni dei muscoli le gettavano il tronco da una parte e dall'altra; li arti le si allungavano con lo scatto e il battito d'una gamba di animale ferito a morte, le mani stringevano i pollici nel pugno, si riaprivano, ristringevano; i bulbi delli occhi si ritraevano dalle orbite, sotto le palpebre violastre, quasi con un movimento di fiore che ritiri i petali flosci in sé. A un tratto la testa si arrovesciò in dietro tutta, nel supremo colpo dell'apoplessia nervosa; il tronco senza sangue si irrigidì nella paralisi. Un leggero tremore apparve nelle corde del collo, le dita chiuse, dopo un minuto, si distesero.

Muà, senza comprendere, girava ancora intorno a sé il bastone tentando, vanamente, con un borbottìo nella bocca sdentata.

FAVOLA SENTIMENTALE

 

I.

 

Galatea levò dalle carte que' suoi freddi occhi verdognoli, ergendosi al fine su la vita esile e lunga, facendo crepitare le dita esili e bianche. Disse, con un respiro:

- Ho finito.

- Grazie, Galatea. Siete stanca? - sussurrò Cesare con quella sua voce fioca, seguitando a voltar le pagine di un gran libro su 'l leggìo.

- Un poco. Mi riposerò.

Ella s'immergeva così nel silenzio: sul fondo di cuoio scuro della spalliera la capellatura cinerea posava dolcemente e un'ombra attenuava la nitida marmoreità del viso. Intorno la biblioteca pareva dormisse un sonno buono e pacifico di vecchio, metteva un alito di cartapecora e di noce antico nell'aria, metteva turbinii di polvere nelle zone di sole.

Da tempo, Cesare e Galatea passavano le ore così, studiando, in una quiete augusta di monastero. Egli era venuto nella villa dello zio materno a cercarvi la solitudine, a sacrificarvi la bella gioventù, i belli amori: a poco a poco tutte le esuberanze, tutte le irrequietezze della sua natura si agguagliavano in una serenità alta e virile, s'illimpidivano in una veggenza felice; il culto dell'arte a poco a poco gli andava infondendo un non so che di spirituale e di sacerdotale anche nell'aspetto. Fu l'opera lenta della consuetudine, fu l'opera di quella luce mite in cui egli viveva, di quel crepuscolo ove li occhi suoi miopi languivano quasi di continuo, ove su la sua faccia i fiori del sangue impallidivano.

Galatea gli era una compagna taciturna e pensosa, una aiutatrice, una gentile amanuense che non si perdeva mai tra i labirinti e li arabeschi delle scritture sapienti. Ella cresceva come uno stelo, cresceva nella grande malinconia di quella casa ove ella non aveva mai veduto sorridere la madre... Povera madre morta! Con che lungo sospiro di amore e di dolore Galatea guardava il velo disteso sul ritratto della povera madre morta! Quel ritratto era in una larga stanza nuda, sopra una parete bianca, là, all'estremità della villa: nessun rumore vi giungeva, la luce penetrava a traverso le tende fievole e triste. Quando Galatea varcava la soglia, un filo gelido di terrore l'assaliva, un ribrezzo le strideva per le ossa; le pareva come d'entrare in un sotterraneo; tutto quel candore le dava la sensazione dell'immenso. Pure ella restava là lungo tempo, in ginocchio, a pregare, a pregare, mentre il lembo del velo ondeggiava a ogni alito di vento sopra a quell'effige di cadavere; ella teneva gli occhi smarriti nel vano, e nel vano la preghiera si smarriva con un sussurro debole di labbra. Lentamente i chiarori del giorno mancavano. Allora nella penombra pareva che l' ondeggiamento si allargasse, ingigantisse; a poco a poco un immane lembo di sudario si stendeva in tutta la stanza con un soffio impuro. Ella ne sentiva il contatto rabbrividendo; ella diveniva diaccia ed immobile come di pietra, restava là fin che non la traevano fuori tutta pallida, tutta tremante.

Ma tornava poi a quell'adorazione cupa e solitaria, ci tornava con impeti di lacrime, chiamando la morta fra i singhiozzi. Ella voleva vederla, vederla una volta, ma viva, ma con la vita nelle pupille, vederla bella e ridente, una volta sola!

- Era bionda; è vero? bionda come me; è vero? - chiedeva al padre, sollevando li occhi umidi, tentando fra la tenerezza delle lacrime un lampo di sorriso.

Ella era cresciuta così, nel dolore. Ella aveva in sé qualche cosa di quelle piante bianche, vissute al buio, che sembrano germogliare dal morbo di un corpo umano e ombreggiano della loro tristezza i sepolcri. Il gran sole, la gran luce la fastidivano: ella socchiudeva le lunghe ciglia, ella difendeva dalla ferita que' poveri occhi infermi. Pure, amava i fiori. Dietro la villa, in un pezzo di terreno, una vegetazione malaticcia e pingue sonnecchiava nell'ombra; erano grosse foglie carnose di un bruno tendente al violetto, cosparse di pelurie come di una muffa; erano ramificazioni nane, ignude, simili a rettili morti o a bruchi enormi; erano lame piatte di un verde pallido, rigate di bianco e macchiate come dorsi di rane. Certi grandi fiori paonazzi si aprivano a coppa, sorgevano da terra su lunghi tubi, senza fogliame; certi calici di un roseo di pelle umana si gonfiavano su li steli contorti; certe bocche di uno scarlatto cupo emettevano stami simili a piccole lingue gialliccie. I petali avevano come il viscidume dei funghi, gli involucri sparsi di cavità erano favi di cera. Qualche tulipano si schiudeva pigramente in una striscia di sole; qualche peonia vinceva co' larghissimi fiori carichi di carminio; e in torno, nell'autunno, le vitalbe sembravano viluppi di ragni pelosi o mazzi di piume grigiastre. Solo il sambuco odorava dalle ampie antele candide, fresco e mite, là dentro. Le farfalle passavano fuggevoli; gruppi di chiocciole andavano qua e là strisciando tra le piante succose, lasciando le righe lucenti.

Galatea amava quel luogo: quella triste plebe di vegetali aveva per lei un incanto; come lei soffriva, come lei pareva inferma. Ella, dritta in mezzo, nell'abito bruno, faceva pensare a un gran fiore solitario. Ella provava allora un sentimento malsano di tenerezza per quelle povere esistenze che languivano senza un'occhiata di sole; ella si accasciava, udiva come un gemito sollevarsi, udiva il gemito delle cose morenti. Perché nel suo organismo pieno di umori acquei un senso misterioso della morte pareva influisse fin dal giorno natale che fu l'ultimo alla madre.

 

 

II.

 

Ella viveva così, quando Cesare giunse. Da principio provò quasi un disgusto; le pareva che quel giovine venisse a turbarle la quiete alta e gentile della casa, venisse a interromperle la malinconia muta ove ella voleva adagiarsi, ove ella credeva di sentire la presenza invisibile dell'estinta. Ma a poco a poco ella vinse il disgusto, fu buona e cortese. Cesare era dominato lentamente dal silenzio, dal raccoglimento profondo di tutto ciò che lo circondava; e si obliò nell'arte.

Passavano delle ore nella biblioteca del vecchio conte. Nella grande sala rettangolare la luce entrava dai vetri opachi dei finestroni, avviando i fregi d'oro matto su li scaffali di noce, perdendosi nelli angoli. Li stemmi gentilizi intagliati nel legno coronavano la sommità; e nel mezzo della volta cava, rosseggiavano i larghi svolazzi di un affresco secentesco a fondo di nuvole giallognole. In penombra le file dei libri parevano come una muraglia piena di screpolature, inverdita qua e là dai muschi, chiazzata dalle pioggie, solcata dalle lumache.

Galatea leggeva o trascriveva; od ascoltava Cesare parlare, con i freddi occhi aperti, abbandonata alla spalliera di cuoio. Pure tra le ecloghe fragranti e fiorenti di Virgilio e le liriche alate, e sospirose del dolce stile novo, il loro idillio non sbocciò.

Galatea non aveva che un austero e verginale sorriso di vestale antica; ella voleva esser tutta del suo mesto dio lare, che la vigilava di sotto al velo funerario.

E una volta sola Cesare sentì le sue fibre di artista vibrare dinanzi a lei. Era un pomeriggio caldo di giugno: ma la biblioteca taceva immersa nella frescura azzurrognola delle tende calate su i vetri.

Egli entrò; la fanciulla dormiva dolcemente nelle pieghe ricche e fluide di una tunica, poggiata il capo alla grande sfera delle costellazioni. La sfera pareva di avorio ingiallito, pareva come un enorme teschio umano intorno a cui strane figure di animali giravano; i capelli di Galatea sciolti ricadevano con riflessi sottili giù per le spalle; ricoprivano le gote; e un nastro aureo di sole traversando la frescura illuminava su 'l capo di lei una fila di libri in cartapecora verdastra simile a rame ossidato. Ella aveva cinte le braccia alla sfera; le larghe maniche lasciavano scoperte la carne bianca e diafana che trame di vene fiorivano.

Cesare guardava, pensando alle Norne scandinave e alle vergini merovinghe; quando ella si destò pel ferire del sole e gli sorrise viva dalle iridi ove il fulgore novo e il torpore del sonno e la meraviglia per un istante pugnarono.

- Perché vi destate, Galatea? Siete così bella nel sonno! - disse egli con un accento ingenuo di ammirazione.

Ella gli sorrise ancora, annodandosi i capelli: la guancia destra era soffusa di vermiglio, dal premere sulla sfera.

Ma quel germe d'idillio rimase chiuso in un sonetto, per sempre, come un fiore o una farfalla nella nitida prigione dell'ambra.

 

 

III.

 

Un giorno il conte, prima del pranzo, annunziò la venuta della baronessa De Rosa, seconda moglie del fratello Federico, reduce dai trionfi estivi di Rimini e di Livorno. Egli mostrò a Cesare una lettera azzurrina stemmata in oro.

- Leggi - disse.

Cesare la prese; e l'odore acuto emanante dal foglio gli mise nell'anima un turbamento strano, gli suscitò come una inquietudine. Pe 'l foglio saliva una volata di piccole cicogne bianche, e fra le cicogne i caratteri piccoli e nervosi s'incalzavano in violetto, squisitamente.

- Quando arriverà? - chiese Galatea.

- Domani.

Giunse, in fatti. Ella era una ben giovine zia, una splendida figura di andalusa dalle nerissime iridi piene di desiderii e di misterii.

- Oh, mia bella bionda! oh, mia bella bambola bionda! - esclamava, stringendo fra le braccia Galatea, sconvolgendole i capelli su la fronte, tormentandola di baci.

- E voi, Cesare? Anche voi siete qui, nel castello solitario, paggio, trovatore, cavaliere... come?

E rideva in certi piccoli tintinni di cristalli e di metalli vibranti, piegando il capo in dietro, mentre le gengive rosee le si scoprivano un po' crudelmente e il petto le sussultava sotto la corazza di raso.

- Non temete gl'incantesimi, Cesare?

Ella era così; parlava con una volubilità petulante e cinguettante, con un adorabile brillio di erre. Contro li erre l'onda fresca della voce pareva che si frangesse e s'increspasse.

- Sempre qui, sempre qui, Galatea? Non vorrai mai rompere il tuo cerchio magico, dunque? Ve la rapirò conte, ve la rapirò questa vostra Jolanda dalli occhi pensosi... Ma tu hai proprio due smeraldi per occhi, Galatea! Perché mi guardi così? Ti piaccio?...

E s'impazientiva nel togliersi i lunghi guanti di camoscio nero che le serravano le braccia fino al gomito.

- Andiamo. Conducimi.

A quell'irrompere improvviso di allegria li echi della sala si svegliarono, le sonorità cupe delle volte fremevano; un solco di profumo seguiva il fruscìo di Vinca sopra i pavimenti di mosaico antico, a traverso le stanze piene di legno scolpito e di tappezzerie sfiorenti.

Accanto a quella donna, Galatea prima si sentì presa come da uno stordimento; poi come una irritazione sorda l'assaliva contro quella mobilità nervosa, contro quelle onde acri di odore che a lei davano la nausea, contro quelli scoppî di risa che a lei ferivano i timpani acutamente. Ella avrebbe voluto ribellarsi a certe furie di baci, a certe carezze vivaci, a certe lusinghe svenevoli.

- Bambola bella! - sussurrava spesso Vinca, a denti stretti, a labbra aperte, con un piccolo vezzo felino, mentre serrava la tempia della fanciulla tra le palme e l'attirava alla bocca.

- No; non mi chiamate più così, zia, vi prego - ruppe una volta Galatea, con un lieve tremito d'ira nella voce.

- Bambola bella! - ripeté Vinca. E gittò all'aria una di quelle fresche risate scampanellanti, abbandonata su 'l divano con tutta la persona, in un atteggiamento provocatore. Su 'l divano il sole, entrando dalla finestra, rinvermigliava i fiorami di seta smorti nel vecchio tessuto di argento: e da quel fondo emergeva il bel corpo femineo chiuso nell'abito di casimiro, avvolto nel pulviscolo dei raggi. Era un quadro di tinte dolci; dalla parete pendeva un arazzo scolorito ove due cavalieri inseguivano una cerva fuggiasca. Vinca rideva: le risa nel sole pareva brillassero. Quando apparve su la soglia Cesare:

- Entrate, dottore, entrate - esclamò la zia, ergendosi e tendendo le mani verso il giovine. - Placate Galatea, per carità!

Ma la fanciulla ora sorrideva sottilmente. Cesare, senza volere aspirò il profumo fine di violetta che si insinuava per l'aria, il profumo stesso della lettera con le cicogne: al senso del piacere le narici

gli trepidarono. Egli veniva dal tanfo grave dei volumi tarlati, dal silenzio della biblioteca ove il richiamo delle risa di Vinca era giunto. Era giunto nel silenzio, mentre egli curvo su le pagine sentiva dalle pagine liberarsi la sana giocondità delle canzoni goliardiche precipitanti con un scrosciar vivace di rime latine nella fuga del ritmo.

 

O! o! totus floreo..

 

Egli aveva teso l'orecchio; e nell'orecchio gli squillarono per un istante le risa con i chicchiriamenti di una strofe pazza.

 

Veni, veni, venias,

ne me mori facias,

hyria hyria nazaza

trilliriuo.

 

Tutti li ardori e le cupidigie della giovinezza parvero ridestarsi d'un tratto nel sangue di lui come a una musica di battaglia e di vittoria, e rigerminare con nuova violenza. Gli parve di sentire in tutte le membra come un crepitio d'involucri spezzati e di gemme rompenti, sotto la grandine allegra di quelle risa e di que' ritornelli.

 

O! o! totus floreo.

 

Egli scattò in piedi. Quella fredda solitudine l'opprimeva; egli la odiava, quella solitudine...

- Entrate, dottore, entrate - fece la voce cristallina della baronessa.

Con che felice audacia il corso della baronessa si staccava dal vecchio fondo biancastro a fiorami rossi! Dai fini lobi delle orecchie i cerchi d'argento a contrasto del tono bruno delle gote le pendevano zingarescamente; e su le gote una peluria lievissima le fioriva ombreggiando anche il labbro superiore, lievissima.

- Senti, Galatea, bambina; facciamo la pace - sussurrò ella con un accento pieghevole e carezzevole. - Andiamo giù, nel viale: andiamo al sole con Cesare... Vuoi venire?

- No, zia; lasciami qui. Non posso andare al sole, io - rispose Galatea, sommessa.

- Venite voi, Cesare? - chiese Vinca al giovine.

Cesare le offrì il braccio, inchinandosi.

 

 

IV.

 

S'inoltrarono pe 'l viale delle robinie, soli. Su la coppia era un galleggiamento floscio di foglie; e un odore di fiori morti esalava dai grappoli flosci, un odore indistinto, nella crescente malinconia.

L'ora non penetrava l'anima di Vinca: ella veniva cantarellando un'arietta di Suppè, con certi ondeggiamenti spavaldi del capo.

- Dio mio, parlate un poco: ditemi de' versi, fatemi pure de' madrigali - ruppe ella finalmente. - Ma parlatemi di qualche cosa! O volete che ascoltiamo il lamento delle foglie moribonde e le voci del vespro e le avemarie languide, sospirando? Ah!...

Ed ella sospirò, con una grazia adorabile, levando il bianco degli occhi al cielo.

- No, no, signora - fece ridendo Cesare: e nel riso gli si scoprirono le file nitide ed eguali dei denti, sotto i baffi castanei. Egli non era brutto: un pallore gentile gli occupava la faccia, onde le linee irregolari si attenuavano. Su quel pallore i chiari occhi miopi, quasi sempre socchiusi, talvolta si dilatavano smisuratamente e le iridi vinte dalla pupilla parevano talvolta due buchi neri.

- No, no, signora zia - ripeté con uno strascico di voce.

- Sentite, nipote, che odore?

- Sento l'odore della violetta - disse Cesare con una dolcezza melodiosa.

Le risa scampanellarono vivamente sotto la tranquilla volta vegetale.

- Ah, nipote; voi avete fatto il primo verso d'un sonetto o un principio di dichiarazione? Che ingenuità audace! Voi cominciate a farmi tremare. Scostatevi.

Ed ella voleva liberarsi dal braccio di lui, con un'aria di canzonatura e di paura; ma Cesare la tenne prigione sotto la stretta.

- Restate, zia. Io sono innocente.

Facevano così, per gioco. Però Cesare quando nel trattenerla le prese la mano senza guanto, sentì un brivido fine salirgli le ossa: e guardò quella piccola mano dalle dita lunghe, dalle unghie di ònice che aveva una emme profonda su la palma. Dal polso, di sotto ai braccialetti d'oro e d'argento niellato, certe vene verdognole si diramavano perdendosi nel misterio del casimiro, simili a infiltramenti di rame in un pezzo di alabastro.

- Restate, zia.

Erano dinanzi a una grande vasca solitaria. Su le acque inerti galleggiavano chiazze giallastre di putredine e certe foglie rossigne di cuoio si stendevano in greggia presso alli orli erbosi. Nel mezzo un gruppo di tritoni dalle code di pesce invigilava que’ silenzi che non più lo scroscio delli zampilli rompeva, da tempo; su la vecchia pietra i muschi e i licheni facevano come un manto tigrato; alla base le borracine si allungavano in verdi filamenti.

- Sediamo qui - disse Cesare, scoprendo un pezzo di rude bassorilievo atterrato fra le erbe. Egli si sentiva inquieto, mentre Vinca sedendo lo guardava con i vivi occhi pieni di misericordia.

- Qui, ai miei piedi, o Cesare - ella impose, con un tono scherzevole d'imperio.

- No, mai.

- Qui, ai miei piedi - ripeté.

-  Eccomi, Vinca; tu vinci.

Facevano così per gioco. Ma Cesare co 'l capo quasi le toccava i ginocchii ed ella vedeva la nuca bianca del giovane, una nuca di Antinoo modellata squisitamente.

- Guardate, Cesare, le farfalle che cadono.

Ella indicava le foglie pioventi a una a una su le acque; ella voleva parlare, cominciava a temere il silenzio, cominciava a perdere l'arguzia a poco, a poco. Non aveva saputo dire che quella frase, comune e sentimentale in quel luogo, in quel momento.

- Guardate...

Ella respingeva dolcemente i tentativi timidi di carezze che Cesare faceva con le dita malferme su i nastri della veste; e quella timidezza la seduceva. Cesare non guardava le foglie; perché una piccola scarpa di lei luccicava in mezzo all'erba e su quella pelle iridata egli osservava i leggeri movimenti che Vinca ci metteva a tratti con le dita del piede stretto. E il pallore gli cresceva su 'l volto, perché, gualcendo egli uno dei nastri, le dita urtavano a lei un ginocchio.

- Si fa tardi: andiamo - fece la signora alzandosi. Le tremavano le parole.

Ma quando si sentì le gambe avviluppare dalle braccia di Cesare che era rimasto prostrato come uno schiavo e tendeva in alto la faccia smorta ove un conato di riso pugnava co 'l brividìo del desiderio.

- Traditore! - sussurrò ella, piegandoglisi flessuosamente su la bocca.

 

 

V.

 

Tornarono.

- Così presto? - disse Galatea, con un tono crudele d'ironia nella voce, fissandoli con i freddi occhi indovini.

Ella non aveva pregato il dio lare, quel giorno, per la prima volta! Allora che li squilli di Vinca si persero giù per le scale e i passi della coppia su la sabbia del viale si attenuarono, d'un tratto un'angoscia cupa l'aveva invasa, uno sgomento cupo l'aveva oppressa. Fu come un assalto inaspettato, contro cui ella si sentiva debole, contro cui ella si sentiva inerme; fu come il divampare improvviso di un incendio che ella portava dentro di sé, da tempo inconsapevole. Da prima ella non credette, ella non voleva credere, non volle penetrare quel sentimento nuovo che la sopraffaceva e la prendeva tutta; ella provò a distendervisi, senza gemere, con un abbandono cieco,

Ma no; ma dal suo cuore, ma dal fondo dell'anima sua, l'immagine di Cesare prorompeva, vittoriosamente. - Dunque era vero? Dunque ella lo amava? Dunque ella sarebbe stata infedele alla povera mamma morta?

- O mamma! o mamma! - singhiozzò allora affranta, torcendosi le braccia, nascondendosi tra i cuscini la faccia riarsa dalle lacrime.

A poco a poco quel dolore cedette; sorgeva una passione più umana, sorgeva uno strazio più umano. Le risa di Vinca parea vibrassero ancora nella vuota sonorità della volta. Era là Vinca dianzi, abbandonata su quel divano, tutta odorosa e luminosa. Cesare la involgeva tutta del suo sguardo avido: egli non aveva mai avuto quel luccicore nelle pupille, mai. Erano andati soli, nel viale, là giù, sotto li alberi, soli.

Ella si tormentava così, da se stessa; aspettando.

- Povera Galatea, come ti sarai tediata! - disse Vinca accarezzandole i capelli, insinuandole fra le ciocche le dita gemmanti di anelli. - Ma tu ardi, Galatea... Sentite, Conte; ha la febbre.

- No, non ho nulla, babbo; nulla.

Ed ella teneva fitti li occhi su Cesare, li occhi ardenti nel mortale pallore del viso. Poi si passò una mano su la fronte; provava uno sfinimento, un affievolimento, per tutto il corpo, un freddo sottile sottile.

- Ho tanto sonno; mi pesa tanto il capo... Ma la febbre no! Sento che dormirei tanto tanto - sussurrava con una lentezza stanca socchiudendo le ciglia, come se le venisse meno il respiro. - Dormirei... sì... tanto...

Ella si abbandonò su la spalliera; un sopore invincibile le occupava quelle povere vene esauste, le intorbidava la vita.

- Galatea! Galatea!

Le uscì un gemito dalle labbra bianche; come un soffio.

- Galatea!

 

 

VI.

 

Fu un lungo letargo. Quando ella aprì li occhi ove ancora la nebbia del letargo fluttuava vide la testa calva del padre curva su di lei in un muto atteggiamento di timore e di dolore.

- Dov'è Cesare? - gli chiese con una voce che le moriva in gola.

- Di là, figlia; con Vinca.

Ella rinchiuse le palpebre, come per affievolire l'intensità della fitta; le parve che le giungesse come un rumore lieve di risa soffocate.

Vinca e Cesare empivano tutta de' loro amori e delle loro giovinezze la vecchia casa austera; i segreti dei loro amori si nascondevano all'ombra delli arazzi scolorati ove nella rosea lucidità della seta un bel popolo ignudo di ninfe e di cacciatrici aveva fiorito un giorno. Cesare in braccio a quel piacere si abbandonava con tutto l'impeto oblioso delle nature represse; egli se la vedeva sempre dinanzi quella bella e perversa maliarda a cui la gengiva vermiglia si scopriva sempre nel riso e nel sorriso; egli se la vedeva sorgere tra gl'immani candelabri di noce scolpito, tra i seggioloni stemmati, tra li specchi appannati e macchiati, sotto i baldacchini rigati d'oro, sotto le portiere pesanti, in mezzo a tutte quelle cose morte; da per tutto, erta e procace e sfidante.

Galatea sentiva quell'anelito nuovo; col meraviglioso istinto che a lei dava il morbo, aveva indovinato.

- Fammi morire! fammi morire! - ripeteva ella fra i singulti, gittata come uno straccio dinanzi all'effige della madre, guardando con li occhi stravolti dallo spasimo quel velo muto, là giù, nella stanza lontana. - Fammi morire!

Ma al fine Vinca partì: il marito la voleva. Fu una partenza improvvisa, in una mattina fredda e grigia di ottobre.

- Addio, Galatea. Addio, Conte. Addio, Cesare.

Ella non era triste; ella era solo un po’ pallida, a traverso il velo nero. Baciò Galatea tante volte; tese la mano a Cesare che stava lì ritto senza parlare.

- Ci rivedremo a primavera - gridò ancora affacciando la testa allo sportello della carrozza, agitando le dita. E il trotto dei cavalli si perse pel viale, sotto le robinie che si accasciavano nella grande umidità nebbiosa.

Allora Galatea sentì un sollievo dolce penetrarle a poco a poco nell'anima; sentì li antichi silenzi ridiscendere lenti e solenni a regnare su la casa; sentì co 'l sollievo anche uno sfinimento placido ove la sua povera vita si estingueva come sommergendosi. Erano i giorni limpidi e tepidi dell' estate di San Martino: un velo di sopore aleggiava su la campagna godente in quelli ultimi abbracci del sole.

Ella amava ora il sole; ella voleva che i raggi benigni la involgessero tutta come in una veste fluida di oro; ella dava la faccia al calore pieno, chiudendo le palpebre, provando un senso di piacere nella gola a quella blandizia.

- Com'è gentile! - diceva ella, sommessa. Cesare, da canto, la guardava con un sorriso pieno di malinconia.

- Cesare... - ruppe ella un giorno al fine, con un impeto, tendendogli le scarne braccia. Ma tacque poi; ricadde nella muta stanchezza donde invano tentava di sorgere. Il petto esile aveva un alenare fioco, sotto le pieghe della tunica.

Ella salì all'organo che dormiva, da tempo, in un angolo della biblioteca. Cesare tirava i mantici polverosi: i mantici ansavano con un respiro ampio di gigante umano, nel silenzio, suscitando le anime dei suoni entro le lunghe canne metalliche. Galatea ricordava su i tasti un'armonia di Bach, incertamente.

Nella biblioteca, dai finestroni aperti, entravano zone vive di luce. Le file dei libri, a quella irruzione insolita, rivivevano, gittavano anch'esse le loro note deboli dai curvi dossi tarlati. Era tutta una gamma di colori: li Annali di Baronio e di Raynaldo nella cartapecora verdognola prendevano riflessi dubbii di bronzo antico; li Acta sanctorum gialleggiavano e biancicavano in una tinta di tonache domenicane, occupando quasi intero uno scaffale altissimo; in quel biancicore Strykius faceva una macchia vivace di azzurro e il piccolo Fréret vibrava quasi uno sprazzo audace di scarlatto. Erano poi toni scialbi e varii di tappezzerie usate; erano vecchiumi di cuoio, chiazze di un rossastro di ruggine, di un violaceo livido, di un arancio sbiadito. Ma il sole avvivava quei toni, destava luccicchii nuovi nell'oro morto, infondeva un'aria di giovinezza a quelle carte che la polvere e la muffa di tanti lustri copriva.

Dalle canne dell'organo li accordi di Bach si spandevano pe 'l vano timidamente; sotto le dita diafane di Galatea i tasti cedevano appena. Ella sentiva il fremito sonoro correrle pe’ i nervi con un senso quasi di dolore; ella si sentiva mancare il respiro.

- Cesare - mormorò con un filo di voce, abbandonata su la spalliera, vinta dallo stesso mortale sopore di quella volta.

E, come tese le braccia, esalò al fine l'animula blanda in un sospiro.


NELL'ASSENZA DI LANCIOTTO

 

I.

 

- Oh, Donna Clara, salute!

All'augurio ella sorrise tristemente; poiché sentiva che la buona salute a poco a poco la abbandonava, forse per sempre.

Tentava di rimanere ancora in piedi, di tenere in piedi quella grande sua macchina ossuta contro l'affievolimento crescente: pareva così forte, malgrado una fitta irradiazione di rughe, malgrado una bella colorazione di nevi senili. E poi allora principiavano li allettamenti della primavera, così dolci nella campagna ove ella viveva da tanti anni, principiavano allora quei buoni tepori aspettati che l'avrebbero fatta guarire, che l'avrebbero salvata certamente. Bastava ch'ella avesse la virtù di non cedere a quella spossatezza, bastava ch'ella non si accasciasse, bastava che la nuova aria l'entrasse nei pulmoni, le accelerasse il sangue. Questa fiducia le ravvivava lo spirito, la faceva essere quasi ilare, le faceva amare i clamori infantili, di cui Eva rallegrava le stanze, le faceva amare li squilli di canto di cui la nuora empiva le volte. Quel profumo di giovinezza umana che saliva tutt'intorno, e quella benevolenza della stagione nascente l'eccitavano, le davano una specie di energia momentanea che certi liquori dànno, la turbolenta sollevazione di vita che ha l'infermo se oda una musica allegra passare. C'era in tutto questo però qualche cosa di amaro, l'acredine che viene immancabilmente da ogni lotta. Quando la nuora, vedendola pallida nella zona di sole che traversava i vetri della finestra, smetteva di cantarellare, presa dal rispetto pietoso che hanno i sani per i sofferenti e le chiedeva se proprio si sentisse bene, Donna Clara rispondeva:

- Sì, Francesca, mi sento bene. Cantate pure.

Ma il tono sordo della voce svelava una irritazione repressa; e Francesca se ne accorgeva.

- Volete, mamma, che vi faccia preparare il letto?

- No, no.

- Avete bisogno di nulla?

- Ma no, di nulla...

L'impazienza irrompeva. Ella apriva le vetrate e poggiava i gomiti sul davanzale, cercando di respirare largamente la salute nell'aria. O chiamava a sé la piccola nipote Eva, che le si gettava addosso con la furia cieca dei fanciulli ebbri di chiasso ridente nella faccia rossa di calore tra l'abbondanza del biondo.

- O nonna grande! - gridava la bimba incurante della pena recata alle ginocchia della vecchia nell'urto dell'accorrere. E rimaneva a riposarsi, mentre Donna Clara godeva immergere le dita signorilmente lunghe nella vitalità di quella chioma che esalava il profumo naturale dell'infanzia, come in un bagno salutare. Per un momento quell'espansione di tenerezza le faceva bene, sentiva per un momento da quel piccolo corpo, ancora tutto vibrante de' moti anteriori, ripercuotere in sé una sensazione di gioia incosciente; o meglio, ella . sentiva che in quel piccolo corpo qualche parte del suo proprio essere viveva come per passaggio di eredità, e ne gioiva. Sollevava il capo della bimba; la voleva guardare in quei puri e profondi occhi, quasi sempre dalla meraviglia fatti maggiori.

- Ha li occhi e la fronte di Valerio; non è vero, Francesca?

- Sì, mamma; ossia li occhi vostri e la fronte vostra.

Allora le rughe nella faccia di Donna Clara si aggruppavano come raggi, nella luminosità che loro dava la compiacenza del sorriso.

Poi, quando Eva, presa da una nuova frenesia di agitarsi, le guizzava sotto la carezza sfuggendo, Donna Clara restava in una specie di stupefazione, come chi senta mancare uno stimolo dilettevole in una parte delle membra, e tema che scuotendosi anche l'ultima ondulazione del diletto vanisca. A poco a poco la fatica di tenersi sù contro il languore diventava penosa, e quella ostinazione di resistenza a poco a poco cedeva; e prima un 'inquietudine vaga che si andava determinando via via in timore, e quindi un terrore vero, il terrore di chi avendo esaurito il coraggio si trova senza scampo dinanzi al pericolo, strinse la vecchia anima e la irrigidì. Il corpo aveva bisogno di star disteso e di non più gravare su i muscoli affievoliti; poggiando il capo alla spalliera della sedia e rilasciando le membra, l'inferma provava un sollievo. Ma quel gran letto cupo, tutto chiuso in torno dalle cortine di damasco verde, ma quel gran letto occupante da solo tutta la camera, dov'era morto cinque anni innanzi il marito, quel letto le aggravava il terrore. Ora non ci sarebbe entrata mai; le sarebbe parso di seppellirsi per sempre, di soffocare. E invece ella conservava, nel turbamento, la bramosia dell'aria piena e della piena luce; ella odiava l'isolamento, per l'illusione che il contatto e la vista delle cose forti giovani e liete l'avrebbero lentamente rinnovata.

Così, quando Gustavo, il figlio minore, con la dolcezza la persuase, ella volle che le mettessero un piccolo letto nella camera all'angolo della casa, sopra la gran tettoia delli aranci, tra mezzogiorno e levante dove si vedeva il cielo, dove erano le due larghe finestre aperte alle invasioni del sole.

 

A pena fu adagiata, a pena ebbe il presentimento che non si sarebbe forse alzata mai più, successe in lei al terrore una calma singolare. Ora ella attendeva; e nulla più triste di quella lunga attesa, di quella lenta deperizione d'una creatura umana, di quella consacrazione sicura alla morte.

La nuova stanza aveva le pareti nude, l'aspetto di un luogo fin allora disabitato. A traverso i vetri di una delle due finestre si scorgeva l'ultimo limite della pianura e la linea scura de' colli, e dietro i colli, su 'l cielo vivo, il profilo di Montecorno, quella figura dolce di dea supina che sotto la neve pare una immensa statua di marmo abbattuta lungo la terra d'Abruzzi, la protettrice della vecchia patria, che i marinai dalla costa salutano con effusione d'amore come un giorno i nauti del Pireo salutavano l'asta di Atena. Sotto l'altra finestra si rischiarava ai buoni soli una fila di aranci.

E i giorni passavano. Valerio lontano non sarebbe tornato che fra due, fra tre mesi forse. Dal letto dell'inferma si diffondeva per tutta la casa il silenzio; era quella soffocazione o attenuazione di tutti i rumori, di tutte le voci che si fa in torno ai malati per non disturbare il riposo. Il medico, un piccolo uomo dalla faccia tutta rasa, quasi lucida, veniva ogni sera, poco prima del tramonto, alla stessa ora. Nella stanza cominciavano le ombre, rotte talvolta da un ultimo bagliore che dalla finestra di mezzo entrava a sfiorare il letto; un domestico portava il lume coperto da una gran ventola verde. Quando il medico era uscito, restavano nella stanza Gustavo e Francesca, seduti accanto al letto, silenziosi, dominati da quella luce eguale, ascoltando le voci fievoli che mandava la campagna nel lontano. Eva piegava la testa nella gravezza del sonno, inondando le ginocchia della madre con i capelli di sotto a cui usciva il respiro, senza che si vedesse la bocca. Erano i capelli una morbida massa palpitante.

- Sentiteli - disse una volta Francesca al cognato, accarezzandoli con la compiacenza delle madri felici.

Gustavo v'immerse le dita leggere appressandosi col chinare il corpo senza levarsi dalla sedia; e nel solco s'incontrarono le mani fuggevolmente. Pure, a quel contatto i due giovani per un moto istintivo le ritrassero. Si guardarono dopo, con la meraviglia curiosa di chi abbia d'un tratto scoperta per caso qualche cosa fin allora inaspettata, nascosta; nessuno dei due, prima, aveva pensato che da quell'avvicinamento di epidermidi sarebbe scoccata quella scintilla. E insieme guardarono la vecchia; dormiva Donna Clara; aveva gli occhi chiusi, doveva dormire. Stettero un momento ad ascoltare quella respirazione un po’ roca che pesava nel silenzio.

- Oh mamma! - mormorò la voce d'Eva mentre di tra il biondo sbucava la faccia increspata nella confusione fastidiosa del primo svegliarsi.

 

 

II.

 

Nacque allora in quelle due nature differenti un sentimento strano, misto di rammarico e di timore, in fondo a cui un sommovimento vago di bramosie cominciava a determinarsi; era come quando nel sonno dalle sedi interne, ove dormono fantasmi di passate sensazioni e frammenti d'immagini dimenticate, cominciano a salire le visioni confusamente; era come quando all'urto di un corpo nella quiete dell'acqua limpida si sollevano i detriti accumulati dal tempo. Allora certi piccoli fatti anteriori

riapparirono nella memoria sotto una luce nuova, presero significazioni che innanzi non ebbero, atteggiamenti che innanzi non ebbero.

Da poco più di un mese Francesca era venuta in quella casa, per rimanerci durante l'assenza del marito; i sette anni del matrimonio li aveva passati quasi interamente a Napoli con Valerio. Francesca ricordava che il giorno dell'arrivo, dopo avere abbracciata Donna Clara, aveva porta la fronte a Gustavo, e Gustavo l'aveva baciata arrossendo in quella sua selvatichezza di eremita. Una mattina mentre ella e Gustavo sedevano nell'aranceto e Gustavo le leggeva un fatto di amore in una cronaca di giornale, ella ridendo e mostrando nel riso superiormente il roseo della gengiva aveva cominciato:

- Soli eravamo e senz'alcun sospetto...

Così, ridendo, con quella sua bella noncuranza sorvolante; e il riso dava un'espressione fine al volto, a quel puro ovale di miniatura indiana, dove li occhi erano tagliati leggermente salienti alli angoli verso le tempie, e le sopracciglia, arcuandosi forse troppo e allontanandosi dalle palpebre, mettevano nella fisonomia un'aria singolare d'infantilità.

Un'altra mattina Eva, presa da uno de' consueti inebriamenti di chiasso, aveva voluto che Gustavo la portasse pe 'l viale su le spalle correndo sotto i rami che cominciavano a rigermogliare; poi, a pena vide in fondo apparire la madre, un nuovo capriccio la prese; volle che ella intrecciasse le mani con Gustavo e su quell'intrecciamento sedette avvolgendo con le piccole braccia il collo dell'una e dell'altro, gittando loro nelle orecchie le strida acute.

Tutti questi fatti e altri insignificanti ora tornavano nel ricordo modificati, vivissimi. Francesca nella notte, dopo il primo turbamento e la prima resistenza contro la tentazione del fantasticare malsano, adescata da quel sottile profumo di colpa che dal fondo di tutto ciò saliva ad irritare il suo senso di donna giovine, a poco a poco si abbandonò per quel pendìo. E come cedeva all'abbraccio del sonno, ondeggiando in quel punto in cui l'attività della coscienza si affievolisce nel rilasciamento dei nervi e non ha più virtù di dirigere e di moderare le  espansioni della fantasia, ella per quel pendio scese in fondo languida col desiderio al dolce peccato della figliola di Guido. Né quello dei peccati di Francesca sarebbe stato il primo. Ella era giunta nel matrimonio allo stadio inevitabile in cui la pluralità delle donne, per le molte allegre ragioni  che il medico Roudibilis espone al buon Panurge, cade. Ella era già passata fugacemente a traverso due o tre amori, emanando nel passaggio soltanto una irradiazione di giovinezza e seguitando oltre illesa. Ella era una di quelle nature muliebri in cui la mobilità dello spirito e la facilità delle sensazioni subitanee tengono lontana la passione; una di quelle nature ripugnanti dal soffrire per la stessa intima virtù che i metalli nobili hanno contro la corruzione dell'ossido. Portava nell'amore una sensualità fine e quasi ingenuamente curiosa all'apparenza; anzi appunto era questa curiosità il lato singolare del suo aspetto di amatrice. Quando gli uomini, quei due, quei tre, le profusero in ginocchio tutta la eloquenza così volgare del loro cuore, ella li guardò con i belli occhi d'oliva attentamente, non senza un'aria di ironia lieve, come ascoltando se per caso avessero una volta un accento nuovo, una espressione nuova. Poi sorrise, piegando, o meglio concedendosi con una specie di condiscendenza signorile. I grandi impeti allora e i grandi ardori la offendevano: ella non voleva la febbre, ella non capiva certe brutalità del piacere. Preferiva la commedia gaia, di buon gusto, scoppiettante, ben eseguita, al grave dramma declamato male. Era questa la conseguenza di una felice conformazione del suo organismo; ed anche di una educazione artistica non comune, poiché il sano gusto dell'arte nelle donne sane genera a poco a poco una specie di scetticismo amabile e di mobilità gioiosa, che le difende dalla passione.

 

Gustavo per contro, non molto più che ventenne, era vissuto nelli ultii anni quasi sempre alla campagna, con Donna Clara, oscuramente, amando i cavalli vivaci e il grande levriere bianco ereditato dal padre. Aveva lo spirito incolto, oscillante, attraversato a tratti da malinconie vaghe, scosso da turbolenze improvvise. Perché in lui i rigogli amari della pubertà soffocati tornavano qualche volta a levarsi con la stessa ostinazione di vita che hanno le radici delle gramigne abbarbicate nel terreno. Così quando la scintilla scattò, tutte quelle forze latenti irruppero con una violenza nuova. E nella notte fu un'angoscia enorme sotto il cui peso il giovine rimase prostrato, un'angoscia ove già il rimorso aguzzava la punta, ove già un presentimento cupo di sciagure si affacciava, ove tutti i fantasmi insorgevano e ingigantivano e incalzavano senza tregua. Pareva a lui di soffocare; ascoltava tutta la stanza empirsi dei battiti del suo cuore, e in mezzo a quei colpi come delle voci passare, le voci della madre. Lo chiamava forse la madre dall'altra stanza? Lo aveva forse sentito soffrire?

Si levò sui gomiti, tenendo li orecchi al buio, senza poter distinguere in quell'intronamento alcun suono. Nel dubbio, accese il lume; traversò l’uscio, si avvicinò al letto dell'inferma. Ella a quella luce volse dall'altra parte li occhi feriti.

- Che vuoi, Gustavo?

- Non mi hai chiamato?

- No, figliuolo.

- Mi pareva, mamma, di aver sentito...

- Va, dormi. Che Dio ti benedica figliuolo mio.

 

 

III.

 

La mattina dopo, tornava Gustavo lentamente giù pe 'l viale, insieme con Famulus il grande cane niveo che lo seguiva con quel dondolamento di danza così molle ed elegante nei levrieri. Era una di quelle mattine verginali della primavera che nasce, in cui la campagna ha come un'indolenza di convalescenza nello svegliarsi. Qualche cosa di latteo, un chiarore chiarissimo vagava su 'l verde, sotto li alberi; e su quella massa il sole metteva una radiosità tra bionda e rosea, una trepidazione indistinta. La vecchia terra d'Abruzzi ora s'inteneriva.

Lontano, in fondo al viale, su 'l cupo verde delli aranci, Gustavo scorgeva una macchia bianca simile a quelle che le statue fanno nei giardini. Ma, acuendo egli lo sguardo, il cane gli si piccò dal fianco, quasi avesse odorato la preda, con quelli stupendi slanci di antilope in corsa.

- Famulus, qua! Famulus!

Era la voce di Francesca, tra le piante. Ella ritta aspettava che il levriero la raggiungesse, facendo schioccare le dita, dando quel richiamo squillante all'aria. Gustavo le fu presso quando ella già stava china su 'l cane serrandone il lungo muso tra le mani carezzevoli: bellissima, nella veste mattinale a pieghe ricche dentro cui s'indovinava la flessibilità del corpo vivo, con i capelli dalla nuca tirati sù, e stretti in un nodo su 'l sommo della testa come in certi ritratti settecentisti, così curva su l'animale che supino agitava le zampe sottili e nervose verso di lei, mostrando il ventre smilzo color di carne.

- Buon giorno, signora.

- Oh Gustavo, buon giorno! - rispose ella drizzandosi con un movimento vivace, leggermente colorita nella faccia dall'essere stata china. E mentre gli tendeva la mano, lo guardò curiosamente socchiudendo gli occhi: poiché ella dal letto s'era levata con la sua bella serenità. Poi alternando per gioco la voce, soggiunse:

- Donde venite, o signore?

Gustavo capì e sorrise; egli non l'aveva chiamata a nome nel saluto per una debole trepidazione di fanciullo; ora si pentiva, voleva parlare sicuramente, dire molte cose.

- Di lontano, Francesca. Sono uscito all'alba, ho condotto meco Famulus. L'aria frizzava. Abbiamo preso per i campi, abbiamo attraversato la pineta... La pineta è tutta fiorita di violette; c'è l'odore della resina mescolato all'odore dei fiori... Se sentiste! Ci andremo a cavallo, un giorno, quando vorrete... Siam passati anche dalla fattoria sotto i colli; c'è il prato tutto bagnato di guazza. Scappavano i conigli da tutte le parti. Famulus n’ha afferrato pe 'l collo uno; glie l'ho fatto lasciare. Dopo il giro lungo, ci siam messi pe 'l viale. Famulus vi ha scoperto da lontano e vi è corso in contro per leccarvi le mani. Voi gli date troppi pezzi di zucchero a questo vecchio ghiottone: lo guasterete, Francesca...

Parlò ancora; perché Francesca lo ascoltava. Quando apparve Eva con l'aria spaventata gridando:

- Corri, mamma! Nonna grande si sente male.

Accorsero insieme. Trovarono Donna Clara su 'l letto in preda a uno di quelli attacchi nervosi di freddo che la facevano tutta tremare e le squassavano le povere ossa. Non poteva parlare: un pallore quasi livido le occupava la faccia, dove il mento aveva un battito rapido e li occhi parevano perduti nelle loro orbite sotto la palpebra semichiusa. Non si poteva far nulla per aiutarla; bisognava aspettare che quel momento passasse. Gustavo le teneva la mano calda sulla fronte gelata, pendendo con un'espressione di timore e di tenerezza da quel povero volto illividito, mettendole nel volto il respiro caldo, chiamandola sommesso, a tratti con la bocca presso alle orecchie di lei. Ella doveva sentire; perché allora nel globo giallognolo delli occhi ricompariva l'iride verso gli angoli, e nelle labbra lottava contro il battito convulso un moto vano di sorriso. Il sole non entrava ancora nella stanza; un fiammeggiamento d'oro si frangeva su i vetri chiusi. A poco a poco nell'inferma il ribrezzo si placava; ella aprì due o tre volte la bocca aspirando l'aria, ad intervalli, debolmente. Come a poco a poco la penetrava il calore, su la faccia il pallore diveniva più dolce. Volse li occhi a quelli che le stavano accanto; poté sorridere allora abbassando le palpebre, senza parlare. Una stanchezza immensa le invadeva tutto l'essere; e in quella prostrazione ella conservava ancora la sensazione del ribrezzo che l'aveva scossa; mentre, dinanzi alla felicità crescente del mattino primaverile, un rimpianto amaro, il rimpianto di qualche cosa d'irrimediabile, singhiozzava in lei. Tutto era finito; ella era vecchia, ella doveva dunque morire. E la stanchezza seguitava ad invaderla; uno smarrimento dei sensi, un tepore grave dalla testa ai piedi s'impossessava di lei.

- S'addormenta - sussurrò Francesca.

- No, sviene - disse Gustavo, pallido, che aveva sentito affievolire nei polsi della madre i colpi della vita.

- Correte, Gustavo: su nella mia stanza, accanto al letto c'è una fiala di cristallo. Portatela qui.

Egli andò, salì le scale correndo, entrò nella stanza. Malgrado la commozione filiale, un'impressione viva di odore e di freschezza gli batté nella faccia e lo fece trasalire; un'impressione di luce rossa, come d'un gran polverio roseo, dove nuotavano le esalazioni tepide del bagno, dove viveva ancora il profumo naturale della cute femminile, quel profumo che turba. Egli cercò la fiala accanto al letto, la cercò senza guardare; nel letto le coperte rovesciate lasciavano vedere il lenzuolo bianchissimo dove rimanevano ancora le impronte del corpo che ci aveva giaciuto. Saliva di lì l'odore di Francesca, quello che ella soleva avere.

Egli cercando mise le mani in qualche cosa di morbido; era forse una camicia ravvolta, chi sa, qualche cosa ch'ella aveva già dovuto portare. L'odore gli rimase forte nelle mani. Trovò la fiala, uscì, tornò giù correndo.

 

 

IV.

 

...Il mezzogiorno trascorso a pena. Avevano finalmente la sera innanzi deciso di cavalcare alla pineta; e il pomeriggio di quel marzo morente era lusingatore.

Si misero per la via grande. Cavalcavano a fianco al trotto di caccia; da principio silenziosi. Gustavo costringeva un poco indietro il suo baio, per guardare la figura sottile ed eretta di Francesca che chiusa nell'amazone nera, avendo le masse dei capelli castanei raccolta sotto il feltro elegante, manteneva con la ferma stretta del guanto il sauro in quel trotto leggero. Ella così era tutta intenta nel diletto di sentirsi il vento su la faccia, di sentire l'anima urtare co 'l pie' nervoso il terreno elastico e sonante. Quando un riccio di capelli le irritava gli occhi, ella lo rimandava in dietro su le tempie con un movimento vivo del capo. Una volta diede un colpo di frustino su la siepe che limitava la via, piegando il fianco verso quel lato; una torma di uccelli si levò rumorosamente nello azzurro, in quell'azzurro avente allora la dolcezza diffusa che ride fra li intervalli delle nuvole dopo la pioggia su la campagna stupefatta. Nella campagna allora si sentiva come l'influenza pacifica della Dea nivale, di quella figura che era la linea più grandiosa del paesaggio circostante. Pei seminati stavano sparsi i coltivatori.

- A sinistra, Francesca - avvertì Gustavo spingendosi avanti

Venivano in contro due paia di bovi aggiogati, infiocchettati di rosso, forse tolti poco prima dal carro, condotti da una specie di vecchio fauno che reggeva in mano le funi.

Il sauro ruppe il trotto, entrando in un moto di piccolo galoppo, senza avanzare. Francesca teneva corte le briglie, chinata, in un atteggiamento audace, per guardare le zampe dell'animale moventesi in quel gioco pieno di grazia. Gustavo ammirando diceva che il sauro avrebbe saputo galoppare anche nel cerchio di un napoleone d'oro. Allora una voglia di corsa avventurosa prese Francesca; le narici rosee le si dilatarono al sentore del vento.

- Hop! hop! hop! hurrà!

Si mossero insieme di slancio i cavalli, crescendo vivamente nell'animazione, quelle belle e giovini bestie che avevano anche fiutato la primavera.

- Hop!

La cavalcatrice ora si eccitava; il vento fresco, quasi freddo, le metteva il rossore nella faccia, metteva un increspamento nelle labbra tra cui apparivano i denti e un po' della gengiva superiore. Ella aveva uno di quelli oblii felici che le persone sane hanno, quando un esercizio di forza e di agilità le diletta e le commuove di sensazioni vivaci. E come dalla gioia nasce una bontà naturale di espansioni, ella ora si sentiva attratta verso Gustavo che le galoppava a lato, ella ora sentiva che quella effusione di benessere la congiungeva a lui.

- Hop! hop!

Non si guardavano, ma provavano il profondo incanto che dà il guardarsi dentro le pupille. La strada volgeva a gomito; un piccolo ponte traversante un canale risuonò al passaggio: la pineta in fondo nereggiava, ponendo su 'l cielo lo stesso ondeggiamento montante che hanno i dorsi nelle masse di bestiame, segnatamente di pecore, in cammino.

- La pineta! - gridò primo Gustavo, tenendo da quella parte il frustino. Arrivava su 'l vento l'aroma resinoso. E il cavaliere disse, curvandosi un poco verso la compagna:

- Aspirate, Francesca. Quest'odore fa bene.

Egli disse queste semplici parole con un accento indescrivibile, come avrebbe detto il principio impetuoso di una lirica d'amore. La festa della sua giovinezza ora esplodeva luminosamente; egli non la comprimeva, non la voleva comprimere. Nessuna forma di felicità è forse più dolce che l'essere al fianco dell'amata, cavalcando, a traverso la primavera nascente, verso una mèta d'amore. Quelli insorgimenti di libertà barbara, che li uomini hanno nel sangue, ora facevano a lui dimenticare il fratello. La donna del fratello era bella ed egli la conquistava.

- Hop! hop!

La pineta era vicina; dentro la selva dei fusti altissimi penetrava a zone magnifiche il sole, e pe 'l chiarore s'allontanavano fughe di portici favolosi. Entrarono al passo, lasciando perdere le briglie mentre i cavalli sbuffavano rumorosamente scuotendo la testa o appressavano le froge come per parlarsi in segreto. Dinanzi, si alzavano i voli delli uccelli spaventati. Sopra il capo, si aprivano raramente quelli spazi di cielo che tra il verde muta il suo azzurro in un violetto soave.

Così esploravano il bosco. A traverso il labirinto, tra fusto e fusto, i cavalli non potevano camminare insieme. Francesca andava innanzi un po' affaticata dalla corsa; accarezzando con la mano aperta il collo fumante del sauro. Dietro veniva Gustavo, in silenzio. Ma dai cespugli un profumo acuto, di fiori che non si vedevano, saliva; un profumo che li turbava e li faceva desiosi. Erano in una di quelle brevi radure, per lo più circolari, dove si sente più vivo e penetrante il fascino della selva.

- Ah, Gustavo, guardate quel fiore! - esclamò Francesca additando. - Se mi tenete il frustino, lo colgo da me.

E, dato il frustino, ella si curvò dalla sella con una movenza agile: mentre il sauro urtava con una zampa arcuata il terreno. È una cosa che accade sempre, comunemente, in tutte le cavalcate a due, nei libri di romanzo e nella vita reale.

Quello era un piccolo fiore rosso, di una fragranza fine.

- Odoratelo, Gustavo - ella fece, e glie l'accostò alle nari.

Una tentazione: Gustavo le sfiorò le dita con la bocca calda, tremando. Ella non disse nulla, ma mutò un poco nel viso; e spinse il cavallo innanzi.

- Ascoltate, Francesca, un momento! - le gridò dietro il giovane, anch'egli spingendo l'animale. E fu quasi un inseguimento a traverso la densità pericolosa delli alberi, un calpestìo sonoro su le pine secche tra i cespugli. Un braccio di lei aveva urtato in un tronco, seccamente.

- Fermatevi, fermatevi! Vi fate male.

Ella era giunta nel folto, dove il cavallo si rifiutava di avanzare. I grandi pini sorgevano diritti ed inflessibili nel penetrale del bosco. Tutto in torno, nell'illuminazione verde, alberi, alberi!

- Fermati!

E si trovarono tutti e due a faccia, impalliditi, esitanti; mentre i cavalli scalpitavano irritati dal morso.

- Avete urtato il braccio. Sentite male? - chiese Gustavo con la voce rauca e dolce. Egli costrinse il cavallo ad avvicinarsi, prese il braccio di Francesca leggermente, sbottonò la manica al polso. Francesca lasciava fare, guardava. La manica dell'amazone era così stretta! Si scoperse, tra il guanto e il panno nero, il polso rotondo, niveo, quel polso rigato di vene come la tempia di un fanciullo. Gustavo stringendo il polso tra le dita, con l'altra mano cercava di tirare in sù la manica. Il cavallo scuoteva le briglie lasciate su 'l collo libero.

- Ecco!

Su 'l braccio, vicino al gomito, c'era una macchia rossa che cominciava ad illividirsi; una piccola ferita cattiva nel candore della pelle molle di lanugine. Gustavo la voleva baciare. Ma allora Francesca rapidamente, bellissima nell'atto, rapidamente, concesse al fratello di Lanciotto la bocca, mentre scalpitavano i cavalli irritati.

Si rimisero su le tracce per uscire. Il tramonto suscitava maggiore abbondanza di incensi dalla boscaglia ove morivano i bagliori tra quella ultima visione di portici favolosi. E poi, nel prato umido, dinanzi al trotto dei cavalli fuggirono i conigli bianchi e grigi con ritta la coda sparendo in mezzo all'erba nuova.

 

 

V.

 

Quando al ritorno entrarono nella stanza di Donna Clara, quell'odore singolare che è nell'aria respirata dalli infermi, quell'odore li ferì nelle nari spiacevolmente; poiché essi conservavano ancora la sensazione vivace delle emanazioni silvestri e del vento vespertino soffiante alla prateria.

Donna Clara stette ancora un momento senza aprire li occhi, supina, in una di quelle sonnolenze ineguali che verso sera la prendevano. Ella era là: aveva un'espressione smarrita come di chi abbia perduta la conoscenza. Una fascia bianca le copriva la fronte, le coperte le giungevano sino al mento: da tutta quella bianchezza accorante usciva il profilo del naso estenuato, un profilo quasi diafano; e le forme lunghe dal corpo in giù sotto le pieghe si perdevano.

Francesca e Gustavo restavano in piedi, di contro, ai due lati del letto, senza levare gli occhi, perché quel corpo di vecchia sofferente li divideva, li allontanava. Sentivano essi, pure innanzi a quella tristezza, un'impazienza tentarli, l'impazienza di chi essendo incalzato da un desiderio deve reprimersi in un indugio fastidioso. Oramai una forza li sospingeva l'un verso l'altra. Ma a Gustavo la voce di figlio avvertiva sommessamente che quell'impazienza era crudele; ed egli per sfuggirla si dava quei rimproveri e quelle esortazioni interiori che dinanzi a un sentimento colpevole li uomini si dànno su 'l palco scenico della loro coscienza. - Quella povera malata dunque non era più sua madre? Dunque egli non sentiva più la tenerezza di una volta? Dunque dopo esserle stato tanto tempo lontano ora gli pareva duro il rimanere un poco nella stanza a guardarla? E perché? Era egli diventato cattivo d'un tratto, insensibile? - Chiedeva queste cose a sé stesso, ma senza attenzione di spirito, come recitando una parte nobile, per ingannare l'accusa. I pensieri e i fantasmi del recente pomeriggio d'amore lo distraevano, l'occupavano.

Alla fine Donna Clara aperse li occhi lenti, con fatica. Non disse nulla, alle domande non rispose che con un leggero abbassamento delle palpebre e con un sorriso vanente. La vista di quei due non l'aveva sollevata; anzi una vena di amarezza le saliva ora per l'anima, poiché le pareva di essere stata per troppo tempo abbandonata da loro. Ella il giorno aveva udito giù nel viale ridere Francesca, parlare Gustavo, e quindi perdersi lo scalpitìo dei cavalli pe 'l lontano. Era rimasta sola; era dopo poco entrata Eva correndo.

- Senti, Eva buona; apri quella finestra.

La bimba aveva presa un'aria grave d'infermiera. Non arrivava ad aprire, anche ergendosi sulla punta dei piedi.

- Chiama Susanna. Tu non puoi.

- Oh, nonna grande, che dici?

Ed aveva trascinata una sedia nel vano della finestra per montarci sopra ed aprire. Ella aprì. La nonna la guardava sorridendo: la bimba aveva una grazia agile di capretta che tenti l'erta della siepe, avvolta nella polvere lucida che saliva dal pavimento, nude le piccole braccia.

Dalla finestra semiaperta erano passati i soffi tepidi dell'aria; s'erano intravisti i campi tutti protetti dal sole.

- Così, nonna?

- Sì, Eva buona; vieni.

La vecchia s 'era sentita intenerire; l'aveva presa un bisogno di stringersi al petto quella dolce massa di capelli, di appoggiarvi la gota un momento. Ella così si rifugiava nella adorazione di quella testa infantile.

Eva poi se n'era andata anche lei, giù nel giardino, a correre su l'erba. Dalla finestra passava l'aria troppo viva; cresceva il vento; le cortine ondeggiavano e si gonfiavano; entrava la luce limpida e rigida come un'acqua sorgiva. Allora un brivido aveva incominciato a scuotere l'inferma, la prendeva un'altra volta quel freddo nervoso che le faceva dolore. Aveva avuto appena la forza di suonare il campanello per chiamare qualcuno. Era venuta Susanna, quella donna pingue e clamorosa, a tenerle la mano ruvida su la fronte e ad invocare le Vergini del cielo...

Ora dunque Francesca e Gustavo tornavano dalla passeggiata? Così tardi? Non avevano dunque pensato a lei mai?

Francesca voleva rompere quel silenzio che le pesava.

- Sapete, mamma?, siamo stati alla pineta.

- Ah.

- S'è fatto tardi senza che ce ne siamo accorti.

- Ah.

- Vi ho portato questo fiore.

Gustavo a quelle ultime parole si riscosse; il fiore galeotto aveva ancora una fragranza sottile che giunse a lui; e l'odore risvegliò il fantasma del bacio fuggevole e della radura remota.

Donna Clara levò fuori dalle coperte la mano magra e tremante per prendere il fiore.

 

 

VI.

 

In quel momento la luna si levava lentamente tra li alberi, casta ed argentea secondo il costume; e veniva su i vetri delle finestre a vincere il chiarore fievole che la ventola verde dall'interno effondeva.

Donna Clara aveva richiuso li occhi. Dopo qualche minuto, ai due, che rimanevano là taciti, in piedi, disse con la voce indebolita:

- Sarete stanchi... Mandatemi Susanna. Andate voi a cena.

Essi uscirono dalla stanza; provavano quasi una soddisfazione di fanciulli liberati dal castigo, si guardarono sorridendo nelle pupille.

- Oh mamma, li aranci! - gridò Eva correndo incontro a Francesca, abbracciandola alle ginocchia in un impeto di gioia, con un arancio stretto in ciascuna mano. Ella le si arrampicò, parve, sino ai fianchi, con un'agilità di scoiattolo, e le si strinse al collo mettendole nel viso l'alito che odorava delle frutta succhiate.

- Vuoi li aranci?

Andarono così nella sala rossa; sedettero alla cena che Eva riempì del suo clamore, delle sue piccole grazie di bimba golosa. Ella, nella sua inconsapevolezza, faceva da complice.

- Oh mamma, sbucciami l'arancio.

La mamma ficcò nella scorza fragrante le unghie fini e rosee per aprirla: e le dita le si inumidivano del succo premuto e nelle unghie le restava una lieve colorazione d'oro. Eva guardava con una ingordigia di rosicante famelico. Quando il frutto fu nudo, ella fece il sacrificio di uno spicchio alla mamma e a Gustavo.

- Questa metà per uno - disse gravemente. - Mordi, mamma.

Francesca franse con i denti la metà dello spicchio, sorridendo.

- Prendi tu ora.

Gustavo prese tra le labbra l'altra metà; ebbe una sensazione deliziosa.

Nella sala c'era quel tepore emanante dalla vaporazione dei cibi caldi, quel tepore che mette nel sangue una pigrizia, una beatitudine inerte, dopo il pasto. La luce scendeva placida dal globo pendulo di porcellana.

Gustavo si alzò, andando verso la finestra ad aprire.

- Che luna meravigliosa! - esclamò: poiché in lui, che aveva quasi nulla mangiato, la sentimentalità di amante novello ora a quell'albore si commoveva.

Francesca ebbe un moto di fastidio: l'aria fredda entrava a turbarle il calore dolce ove ella s'era adagiata, a scuotere quell'abbandono pieno di fantasie vaganti e di desideri indeterminati ove ella stava per cullarsi.

- Chiudete per carità, Gustavo!

- Venite un momento a vedere.

Ella si levò dalla sedia a fatica; all'affacciarsi ebbe un brivido, si strinse tutta, nascondendo le mani dentro le maniche ampie della veste; instintivamente si accostò a Gustavo.

Dinanzi, nell'immensità della notte calava la luce della luna, la pace della luna, dove tutte le cose sommerse davano come la visione indistinta di un fondo sottomarino con le sue grandi flore animali tra cui è un brulichio pieno di orrore. Le montagne della patria coperte di neve si avvicinavano, quasi incombevano al piano; si poteva discendere con lo sguardo in tutte le cavità d'ombra, salire tutte le sommità luminose. Parevano come le grandi vertebre di una terra il cui sole fosse estinto da secoli; davano come l'impressione del paese lunare visto a traverso il telescopio.

Essi guardavano, muti. La grandezza di quella scena naturale per un momento li dominava. Stavano da presso, toccandosi con i gomiti, toccandosi con le ginocchia.

Dietro di loro Eva giuocava su la tavola tagliuzzando le scorze delli aranci rimaste nei piatti, mormorando parole vane, aspettando che il sonno se la prendesse tra le braccia.

Gustavo, pianamente, insinuò le dita dentro le maniche di Francesca e le prese il pugno nudo sotto la stoffa che lo copriva.

- Lasciate, Gustavo, lasciate! - disse ella volgendosi indietro, temendo d'Eva; e nel volgersi mise su 'l collo di lui un alito.

Egli non intendeva, egli si sentiva salire alla faccia, sotto la pelle fredda per l'aria della notte, tutto il sangue del cuore, una vampa.

Le aveva prese le due mani, si curvava per coprirle di baci.

- No, non qui, Gustavo...

Egli non intendeva. Francesca svincolò una mano dalla stretta; per respingerlo affondò la mano nei capelli di lui, gli sollevò il capo. Poi si allontanò, si avvicinò alla tavola; tremava tutta.

- Che freddo! - disse. - Chiudete.

Gustavo sporse all'aria la fronte, stette un istante con il petto inclinato verso la notte. Egli voleva così placare il tumulto, il calore. Poi chiuse; si volse; era pallido, con qualche cosa di convulso nella bocca.

Francesca s'era rifugiata accanto ad Eva.

La bimba aveva chinata la testa su la tavola, su la tovaglia nivea, poiché il sonno l'avvinceva; era di rosa, tutta di rosa con un sorriso vago su tutta la faccia; le palpebre chiuse erano così diafane che parevano lasciar trasparire lo sguardo; da la bocca aperta usciva un soffio lento, il respiro.

- Dorme - sussurrò la madre. E fece segno a Gustavo di camminar piano.

- La porterò io sù, nella stanza - disse piano Gustavo.

Ella in quelle parole fiutò l'insidia, e sorrise con un lieve moto d'ironia nel labbro inferiore. Ma Gustavo s'era avvicinato; delicatamente sollevava ora su le braccia il piccolo corpo inerte di Eva. Andavano così sù per le scale; Francesca innanzi, Gustavo dietro. La testa della bimba pendeva da una parte, mostrando la gola molle, lasciando piovere le chiome.

Nella stanza ardeva una lampada, in mezzo alla vòlta, con una illuminazione quasi lunare. Dalli abiti, dalle biancherie, da ogni angolo esalavano i profumi e nuotavano nell'aria.

- Mettetela su 'l letto, là, in quello.

Gustavo adagiò la bimba. Già gli tremavano le braccia; egli sentiva il profumo che una volta l'aveva fatto trasalire. Francesca stava china su la figlia, la guardava dormire, aspettando che Gustavo parlasse. Egli non parlò; la prese per le braccia d'improvviso, le mise la bocca su la nuca dove due o tre piccoli riccioli erano bianchi di cipria. Aveva nelli occhi quel luccicore cupo, nella faccia quell'ardore cupo che Francesca riconosceva. Ma Francesca non voleva questo; la offendevano le violenze.

- No, no, Gustavo. Andate, - disse ella seria, riavviandosi i capelli su la nuca. - Siate savio.

Allora in lui tutta l'onda contenuta della passione irruppe. - Egli l'amava! Egli sentiva di impazzire. Lo lasciasse almeno restare un'ora là, inginocchiato su 'l tappeto, in quella stanza, in quell'odore! Egli non chiedeva niente più; fosse buona!

- No, andate. Si sveglierà Eva.

Egli incalzava. - Eva era nel primo sonno; non poteva svegliarsi. Egli sarebbe stato là senza muoversi. Lo lasciasse rimanere; ancora un poco, ancora un poco!

S'era riavvicinato, le prendeva i polsi, supplicava con lo sguardo; la voleva lentamente soggiogare. Francesca sentiva che avrebbe ceduto, poiché una dolcezza e una stanchezza vaghe incominciavano a penetrarla. Ella volse due o tre volte li occhi in torno a sé, assalita da una inquietudine, poiché Gustavo l'aveva presa alla vita attirandola. Un'ultima rivolta la tenne forte contro il languore.

- Ma lo sapete, Gustavo, quello che noi facciamo?

Gustavo la strinse, le cercò la bocca. - Egli l'amava! Egli l'amava!

 

 

VII.

 

Da allora si lasciarono avviluppare e trascinare; Francesca per quella sua condiscendenza e fatuità obliosa dell'animo, Gustavo per quella sua cieca avidità di amare. E come l'amore soverchia e prostra ogni altro sentimento umano, essi ora abbandonavano l'inferma.

Era una triste opera, che compievano naturalmente. Li adescava fuori la stagione felice, li dilettava la grande aria, li penetrava da tutte le parti la vitalità straripante della terra vegetale Nella casa lo sforzo d'attenzione nel reprimere ogni voce, nel soffocare ogni rumore, li fastidiava e li irritava. Essi uscivano, stavano lungo tempo assenti, obliandosi; prediligevano i siti remoti; i rifugi protetti dalli alberi, i sentieri spersi tra le piantagioni. Gustavo portava nei ritrovi la foga della sua passione, tutte le veemenze della sua natura quasi vergine; Francesca la sua bella mobilità di aspetti, le piccole crudeltà della sua calma, la raffinatezza signorile della sensazione. Sfuggivano istintivamente da ogni cosa, da ogni circostanza di cose, che li potesse condurre a un ripiegamento della coscienza su se stessa. Nell' uscire, quasi sempre uno dei due diceva, come per giustificarsi:

- Pare che stia meglio; è vero? Non si lamenta mai.

E andavano.

Ma Donna Clara, in quella stanza nuda, in faccia allo splendore che si riversava su 'l pavimento dalle imposte semichiuse, sentiva un grande accoramento cupo che la uccideva, si sentiva finire. Ella non aveva da prima indovinato: restava supina su 'l letto, lunghe ore, tenuta dal male, con li occhi già torbidi vuoti di sguardo, con le estremità di gelo, come s'ella avesse già cominciato a morire in una agonia lunga e senza sussulti. Aveva qualche volta nelle mani scarne quel cercare inquieto e incerto, quell'incresparsi vano delle dita che tentavano di prendere. Allora ella voleva bere, voleva la tazza per togliersi l'aridezza dalle fauci. Susanna veniva ogni tanto ad affacciarsi su l'uscio; si accostava, metteva la tazza alla bocca dell'inferma reggendole la nuca con una mano.

- Dove sono... loro?

- Eh, signora mia, chi lo può sapere?

Donna Clara trasaliva; Susanna aveva dette quelle parole con un accento perfido. - Dove andavano? Che facevano tanto tempo fuori? Ah, era dunque per questo? - Una luce subitanea la rischiarò; e, insieme al sospetto che ingigantiva rapidamente, una collera violenta d'improvviso la prese. - Ah, era dunque per questo? oh infami! oh infami! oh infami!

Entrava allora Eva, con un passo leggero, portando un fascio di fiori tra le braccia nude sino al gomito. Ella si avvicinò al letto, sorridendo; bellissima. Ma quando si sentì prendere la testa dalle mani umidicce e brucianti della vecchia, e si sentì su i capelli, su 'l collo, su le gote tante gocciole calde, tante lacrime cadere, e tra le lacrime si sentì cercare la fronte da quella bocca arida che aveva l'alito grave della malattia e udì rotto fra quel singhiozzare lacerante il nome del padre, ella sbigottita tentava liberarsi, prendere le mani che la tenevano, guardare nella faccia la vecchia; gridava soffocata:

-         Che hai? Che hai?...

AD ALTARE DEI

 

I.

 

Dolce nella memoria. Quando le campane cominciarono a squillare e cominciarono le onde del suono a dilatarsi intorno su le terre benedette, noi ci fermammo nel mezzo del sentiero.

- È la Purificazione - disse Giacinta.

Ave, Maria!

Io ricordo: ella era tutta bianca, in una veste di lana quasi monacale. Le pieghe abondavano su 'l petto, le si stringevano fitte alla vita, le ricadevano libere fino ai piedi. Ella aveva nella pelle del collo, della nuca, delle tempie, sparso un colore dolce di oro, qualche cosa d'indefinibilmente aureo e trasparente, sotto la peluria a pena visibile. Su 'l pallore delle guancie le perle pendenti dalla conchiglia rosea dell'orecchio stillavano uno splendore vago, talvolta leggermente opaco. Era scoperta una parte della nuca, su cui fioriva una nebbia meravigliosa di capelli: il resto del collo era coperto dalla cravatta di velo bianco alta, sotto i giri delle perle: il resto dei capelli era fermato in un gran nodo fulvo e si diffondeva ai lati in una velatura di cipria che li faceva sembrare cinerei.

Ricordo tutto.

Ella disse: - Ave, Maria! - candidamente. Poi mi sorrise da quella bella bocca smisurata. E restammo un momento ad ascoltare le campane che suonavano nella grande solennità del mattino di febbraio.

Eravamo in vicinanza di Fontanella. Su quelle alture li ultimi vapori bianchi si sollevavano dal suolo e si fondevano nell'aria; e come le alture si umiliavano al piano, succedeva ai vapori un vivo scintillamento di brina recente. Tutto il terreno pareva cristallizzato, e su quel fondo mobile di splendori li alberi nudi sorgevano come fredde efflorescenze di pietra. Da un lato un gran mucchio d'alberi di fico grigi aveva delle forme mostruose di ramificazione. Rammento ancora che certi altri alberi dai rami numerosi e sottili, forse olmi, forse pioppi mi dettero l'impressione puerile di giganteschi millepiedi eretti su una estremità.

Giacinta pregava; vedevo le sue labbra muoversi al proferire sommesso delle sillabe. Io la guardavo. Ella non era veramente bella, di una bellezza pura; nel sorriso la bocca le si allargava salendo ai lati verso i lobi delli orecchi, ma i denti avevano una nitidezza gemmea; li occhi avevano l'iride piccola e il globo grande addolcito da quella tinta lieve d'indaco che è comune nei bambini. Così mi piaceva. Già ella aveva messo nella mia puerizia vergine un turbamento, qualche cosa che somigliava un germe d'amore. Ella usciva dai sedici anni, donna.

E dopo un momento disse: - Andiamo verso la chiesa.

Camminavamo al fianco, pe 'l sentiero rompendo a pena con qualche parola il silenzio. Da un lato si stendevano le vigne morte coi tralci rossi che aspettavano i tagli del ronco, poiché presentivano la primavera; dall'altro lato si allungavano i solchi di grano nell'infanzia verde e gentile. Quando sboccammo su la strada di Chieti, un branco di pecore ci guardò passare; le mansuete bestie nere e bianche stavano con la testa alta, con li orecchi rosei contro la luce, su l'erbe corte nell'idillio mattinale: e due o tre poppanti cercavano irrequietamente i capezzoli tra le zampe delle madri.

Giacinta sorrise quasi teneramente, volgendosi; ella era pia.

 

 

II.

 

La chiesa stava in fondo a una strada protetta da querci che avevano una gravità di patriarchi ed una età di numi. Di fuori gli scrostamenti dell'intonaco lasciavano vedere il mattone rossastro, si aprivano ai lati le finestre semilunari. Su la cuspide ottusa della facciata una croce di ferro tendeva le braccia. Era una chiesa di architettura semplice e rude, simile a quelle che i fanciulletti con poche linee tracciano su i margini dei libri odiosi. Si affacciavano attorno su la piazza le case dei coloni, i cumuli alti di paglia secca. Io conservo ancora un'impressione di colore; le pignatte di terracotta vermiglia su certi fusti d'albero contorti altissimi in quel cielo di un azzurro così spirituale. Ed ho ancora dinanzi la faccia cava di quella femmina malata che ci tese la mano per l'elemosina su la porta. Una faccia d'una tinta indefinibile, dove di vivo non restavano che due occhi tristemente glauchi di rospo solitario nell'ombra di un fazzoletto nero a piccoli fiori gialli legato sotto il mento. Una mano che faceva pensare alla palma pelosa dell'anatra.

Entrammo nella chiesa io e Giacinta tra la folla. I contadini ossequienti ci lasciavano passare nella graveolenza dell'olio ch'essi portavan lucido ai capelli. Giungemmo nel mezzo; dove cominciava digradando verso l'altare, la mèsse delle cristiane inginocchiate, una gran mèsse varia di teste coperte dai fazzoletti di seta gialli, rossi, neri, a palle, a striscie, a fiorami. L'altare sorgeva intorno tutto fiammeggiante di ceri votivi, i cui raggi si rinfrangevano su le palme di zinco sottoposte, su le dorature false della custodia, su i fiori artificiali di fili d'argento e di lana. Presso l'altare, da una eminenza la Vergine sovrastava alla turba dei fedeli; la Regina delle Vergini, tutta bella nella veste di raso azzurro a ricami d'oro, tutta gloriosa nel diadema di metallo bianco a grosse pietre gemmanti, tutta illuminata dall'adorazione di quelle anime peccatrici che supplicavano il perdono.

Io e Giacinta eravamo rimasti in piedi, stretti l'uno contro l'altra dalla pressione della folla, silenziosi, guardando. Nell'aria, già fatta tepida da tanti aliti umani, in mezzo alle esalazioni della turba nuotavano li odori acuti delle giunchiglie, delle viole e del rosmarino. Un chiarore cupo scendeva dalle finestre semilunari coperte di tende rosse. Non si udiva che il soffiare dei mantici su l'organo e a tratti quando uno apriva la porta per entrare, la voce lamentevole e rauca della mendicante malata.

- Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat juventutem meam... - cominciò il prete a' piedi dell'altare.

Giacinta stava immobile, ascoltando. Ella sola era in mezzo a tutto quel tumulto di colori nella penombra; ella sola era diritta ed esile, emergente come un gran fiore d'acqua che si protenda verso la luce. Ed ella credeva, ella era pia. Accanto a noi, rammento, s'alzava una specie di tabernacolo di legno scuro, chiuso da tre vetrate, che custodiva il simulacro di San Rocco in gesso dipinto. Stavamo sotto la protezione del santo. Un cane barbone, accovacciato sopra il piedistallo, ergeva il muso verso il protettore; e il martire dalla barba nera, additando con la sinistra mano una piaga paonazza su 'l ginocchio nudo, con la destra sorreggendosi al bastone di pellegrino, guardava immobile nel vuoto con due occhi di vetro bianco forati. In cima al tabernacolo pendevano due piedi accoppiati e un braccio, formati rozzamente nella cera, rossicci come vere mutilazioni di membra d'uomini, ex voto.

- Confitebor tibi in cithara, Deus, Deus meus! - seguitava il prete, con la voce cavernosa, a' piedi dell'altare. L'organo in alto metteva delli accordi profondi ma sommessi, cambiando ad ogni momento il tono. Le canne lucenti dello strumento sorpassavano la sommità del baldacchino; e là dietro, nel coro, dallo strappo di una tendina apparve d'un tratto il sole e si allungò nell'aria in una striscia d'oro tutta formicolante di atomi. Una parte del Cristo crocefisso si disegnò scura su quella striscia gloriosa.

- Gloria Patri. et Filio, et Spiritui Sancto...

Tutta la turba si piegava in un raccoglimento e la gran voce dell'organo rispondendo dominava il canto rauco del prete. L'ombra era accresciuta dal contrasto del sole nel coro; cresceva il tepore alimentato dai fiati dei genuflessi, un tepore pesante che persuadeva la sonnolenza, che abbatteva li spiriti nella contemplazione inerte del dio.

- Domine exaudi orationem meam.

Io e Giacinta eravamo stretti l'uno contro l'altra, Una specie di affievolimento cominciava a prendermi, un calore intenso mi saliva alla faccia; aveva una sensazione strana di tutto quell'agglomeramento di uomini sopra cui passava l'onda della preghiera, nell'ombra rotta dai bagliori tremoli dell'altare. Io pure credevo; e dalla mia fede di fanciullo i suoni dell'organo sacri e l'odore dolce che emanava da Giacinta suscitavano delle visioni confuse, delle visioni infinite, di mezzo a cui, non so perché, fiorivano certi ricordi vaghi della prima infanzia; il ricordo, per esempio, di tanti gigli dai grandi calici argentei che mi assopirono co 'l profumo una sera di giugno nella stanza di mia sorella; il ricordo di un grappolo di nidi che io feci cadere con una canna dalla grondaia, una mattina di primavera, per rubare le piccole ova perlate alle rondini covanti.

- Oremus te, Domine, per merita Sanctorum tuorum...

E li accordi dell'organo misero un lungo fremito su tutte le teste. Giacinta s'inchinò. Io la tenevo per la mano. Ella era più alta di me; io le appoggiavo leggermente il mio capo su la spalla. Io non so quel che ella sentisse; ma la mia era una sensazione pura e mite; era un languore che mi saliva a poco a poco le vene, era quasi una tenerezza che mi vinceva l'anima e mi faceva piegare le ginocchia inconsciamente e piegare il capo.

- Tu solus Dominus, tu solus Altissimus, Jesu Christe...

Ci fu un movimento confuso in tutta la turba inginocchiata, ci fu su tutta la turba il passaggio rapido di qualche cosa di biancastro. Erano forse le mani che facevano il segno della croce dalla fronte al cuore. L'organo d'improvviso ascese alle voci acute, gittò nella navata un grande accordo gioioso d'Inno che attraversò tutte quelle anime come un fascio di raggi e le assunse al paradiso.

Ma si sentì tra la folla il tintinnare delle monete di bronzo su 'l piatto che il chierico portava in giro; poi si sentì in alto lo scorrere stridulo delle tendine rosse. Una gran luce piovve dall'alto; fu una emersione di colori, in basso, alla luce.

- Kyrie, eleison. Christe, eleison, Kyrie, eleison.

Cominciarono le voci nel coro, malferme, incerte; le voci delle bambine che non si vedevano. Parvero zampilli salire in quell'aria dove il sole di febbraio diffondeva una virginale beatitudine di nimbo, quasi una evanescenza di polviscoli biondi. Io chiusi li occhi, ebbi un lungo brivido di letizia, mi strinsi a Giacinta che seguiva a voce bassa la litania; e l'istinto dell'amore, che si andava determinando lentamente nel mio organismo di fanciullo, metteva in quella letizia mistica una vena lieve di desiderio sensuale. Io vedevo, a traverso le palpebre, un bagliore roseo, una gran selva rosea fiorire, a traverso il tessuto vivente delle mie palpebre.

- Sancta Maria, ora pro nobis!

Le voci si facevano sicure e limpide; le cadenze dell'organo si seguitavano in tono minore. La turba aveva da prima un ondeggiamento di teste indistinto; poi, a poco a poco, trascinata dal cantico, stupefatta dal calore e dall’odore misto dell'incenso e dei fiori, a poco a poco, si protese in avanti, si protese verso la Vergine, con uno di quelli impeti ciechi che la superstizione dà alle anime semplici. La Vergine risplendeva nella luce superiore; avea la faccia bianca e impassibile, li occhi immoti e senza sguardo e in que' globi di cristallo la fascinazione intensa che è solo nelli occhi delli idoli informi e dei pesci morti.

- Virgo prudentissima. Virgo veneranda. Virgo predicanda...

Allora tutte le voci irruppero; fu un gran cantico di tutte le voci, una grande elevazione di laudi nell'aria, in alto, verso la navata che coronavano i raggi del sole crescenti e i vapori del turribolo, in alto, in alto.

- Rosa mystica. Turris Davidica. Turris eburnea...

In alto! Una tenerezza infinita di amore invadeva la turba genuflessa, un soffio ardente e dolce passava sopra tutte le teste e le prostrava nella preghiera su 'l pavimento.

- Consolatrix afflictorum, ora pro nobis!

Giacinta cantava anch'ella, reclinata, con un rossore spirituale su 'l volto, con lucidi li occhi, vibrando come uno strumento sonoro. Io non avevo piegato le ginocchia, non v'era spazio intorno a me; ma una specie di sbigottimento folle mi teneva, perché io solo soprastavo a tutti li altri in giro, e quelle creature umane così prostrate e così ciecamente imploranti, quella vivente massa di materia da cui irrompeva un così alto inno di passione quasi inconsciamente, e quel sole che empiva la navata e qua e là s'abbatteva su i dorsi, e quei vapori strani ora nauseanti ed ora celesti, e sopra tutte le cose quella madonna immobile e rigida, quei santi immobili e rigidi guardanti nel vuoto, mi davano uno spettacolo pauroso, mi sconvolgevano la piccola anima incolta.

E l'inno cresceva, le litanie ascendevano; pareva che al lungo fremito le canne dell'organo scoppiassero.

- Regina virginum. Regina Sanctorum omnium, ora pro nobis!

L'agnello di Dio veniva ora nel cantico, l'agnello di Dio che scancella i peccati del mondo. Era l'ultima elevazione delle laudi.

- Ora pro nobis, sancta Dei Genitrix!

L'organo cessò; si propagò il rombo della navata, e il rombo cessò. Si faceva nella chiesa un silenzio, dove i credenti ancora prostrati respiravano gravemente. Poi tutte le fronti si rialzarono, tutte le mani si levarono nel segno della Croce; un bisbiglio corse nella turba; dalla porta aperta entrò un'ondata di aria libera purificatrice. Dal coro venivano voci rotte; dietro l'altare si vedeva un ondeggiamento confuso di stendardi.

Io e Giacinta eravamo ancora sotto il tabernacolo di San Rocco. Quando sollevai li occhi verso di lei, ella mi sorrise; ma io non so ora fermare nelle parole quel sorriso: fu come il passaggio di qualche cosa di benigno e di luminoso su la sua faccia che restò triste; non fu un moto della bocca né delli occhi, no; parve, ecco, quasi un bagliore che accendesse il profilo pensoso di una statua bianca; no, neppure; io non trovo la frase. Restammo dopo in silenzio, aspettando che dalla sacrestia cominciasse a svolgersi la processione. Alla porta, su lo spiazzo, un gruppo di uomini vociferava: si metteva all'incanto la gloria di portare su li omeri il peso dell'immagine di Maria.

- Cinque carlini! Un ducato! Due ducati!...

La turba aspettava. Quasi tutte le femmine le mani incrociate su ‘l ventre e nelli occhi uno stupidimento smorto; li uomini guardavano verso la porta, con un mormorìo. In mezzo a loro, nel solco lasciato libero, su 'l pavimento cominciò a muoversi una massa incerta, nerastra, un mucchio di cenci, e a strisciare lentamente verso l'altare.

- Due ducati! tre ducati!

Da quel mucchio di cenci usciva una testa umana, come dal guscio di una testuggine sbuca la testa verdastra tentennando. Era la mendicante malata; io la riconobbi con un brivido di ribrezzo, perché ella non aveva più il fazzoletto che la coprisse: appariva un cranio deforme, pieno di rosicchiature simile a un teschio dissotterrato dove ancora rimanesse qualche ciocca di capelli grigi e qualche avanzo di cotenna rossiccia. E quel cranio veniva innanzi su ‘l pavimento, sospinto dal corpo che le palme delle mani e le ginocchia sorreggevano.

- Tre ducati! tre ducati e mezzo!

La mendicante faceva tante croci con la lingua su i mattoni, in gloria di Maria; voleva andare sino ai piedi di Maria; voleva essere degna di baciarle il lembo della veste. Raccoglieva le forze, contraendosi, puntando le dita dei piedi scalzi. Dai due lati del solco la gente guardava con l'indifferenza di chi è avvezzo a uno spettacolo di orrore. Ma sopraggiunse un uomo alto, vestito di una cappa turchina, con un gran naso adunco, iroso; percosse col piede la mendicante, la rialzò brutalmente da terra, la trascinò fuori della porta: - Via! via!

- Tre ducati e mezzo! quattro ducati!

L'incanto era finito. Dietro la sacrestia cominciò a squillare il campanello; poi, d'un tratto, un grande scoppio di campane in alto fece tremare la chiesa dalle fondamenta. E i primi stendardi si mossero orizzontali, uscirono all'aria, si raddrizzarono e sventolarono; erano due stendardi violacei con le trine d'argento. Din don! din don! Si mossero gl'incappati azzurri, con i ceri accesi, a due a due, in fila.

Din don, din don dan! Si mosse un terzo stendardo, altissimo, di scarlatto cupo orlato d'oro, con una palla d'oro in cima all'asta. Din don dan! Si mosse il Cristo gigantesco, inchiodato su la croce, tutto chiazzato di lividure e di sangue, portato su la bocca dello stomaco da un uomo mambruto sorretto da due altri ai lati.

Din don, don don! Gli strumenti d'ottone cominciarono una marcia trionfale; i mortaletti saltarono. Si moveva alfine la Vergine delle Vergini, la Stella mattutina, la Torre d'avorio, in mezzo alle grida del suo popolo, e usciva al sole, usciva a spargere la benedizione su tutte le campagne seminate.

- Alleluja! alleluja!

La turba delle femmine e delli uomini trascinata seguiva lo scintillare e l'ondeggiare del manto in alto. Li stendardi investiti dal vento sbattevano e si attorcigliavano alle aste. Nella strada la polvere si sollevava a buffi involgendo tutta la pompa. Il baldacchino rosso oscillava su i quattro sostegni dorati, minacciando i preti cantori.

Io e Giacinta vedemmo allontanarsi la processione tra le querci patriarcali, vedemmo li ultimi sventolamenti violacei nell'aria chiara, vedemmo brillare la croce su 'l diadema della Madonna, perdersi poi tutte quelle forme mobili nel fiammeggiamento del sole che proteggeva la campagna deserta...

 

 

 

- FINE -