Giacomo Leopardi
OPERETTE MORALI
Sommario
Dialogo della Moda e della Morte
Proposta di premi fatta dall'accademia dei Sillografi
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
Dialogo di Malambruno e Farfarello
Dialogo della Natura e di un'anima
Dialogo della Terra e della Luna
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio Familiare
Dialogo della Natura e di un Islandese
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
Detti memorabili di Filippo Ottonieri
Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez
Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco
Dialogo di Timandro e di Eleandro
Dialogo di Plotino e di Porfirio
Dialogo di un Venditore d'almanacchi e di un Passeggere
Dialogo di Tristano e di un Amico
Narrasi
che tutti gli uomini che da principio popolarono la terra,
fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti bambini,
e fossero nutricati dalle api, dalle capre e dalle colombe nel
modo che i poeti favoleggiarono dell'educazione di Giove. E che
la terra fosse molto più piccola che ora non è, quasi tutti i
paesi piani, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e
apparisse nel mondo molto minore varietà e magnificenza che oggi
non vi si scuopre. Ma nondimeno gli uomini compiacendosi
insaziabilmente di riguardare e di considerare il cielo e la
terra, maravigliandosene sopra modo e riputando l'uno e l'altra
bellissimi e, non che vasti, ma infiniti, così di grandezza come
di maestà e di leggiadria; pascendosi oltre a ciò di lietissime
speranze, e traendo da ciascun sentimento della loro vita
incredibili diletti, crescevano con molto contento, e con poco
meno che opinione di felicità. Così consumata dolcissimamente
la fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età più
ferma, incominciarono a provare alcuna mutazione. Perciocché le
speranze, che eglino fino a quel tempo erano andati rimettendo di
giorno in giorno, non si riducendo ancora ad effetto, parve loro
che meritassero poca fede; e contentarsi di quello che
presentemente godessero, senza promettersi verun accrescimento di
bene, non pareva loro di potere, massimamente che l'aspetto delle
cose naturali e ciascuna parte della vita giornaliera, o per l'assuefazione
o per essere diminuita nei loro animi quella prima vivacità, non
riusciva loro di gran lunga così dilettevole e grata come a
principio. Andavano per la terra visitando lontanissime contrade,
poiché lo potevano fare agevolmente, per essere i luoghi piani,
e non divisi da mari, né impediti da altre difficoltà; e dopo
non molti anni, i più di loro si avvidero che la terra,
ancorché grande, aveva termini certi, e non così larghi che
fossero incomprensibili; e che tutti i luoghi di essa terra e
tutti gli uomini, salvo leggerissime differenze, erano conformi
gli uni agli altri. Per le quali cose cresceva la loro mala
contentezza di modo che essi non erano ancora usciti della
gioventù, che un espresso fastidio dell'esser loro gli aveva
universalmente occupati. E di mano in mano nell'età virile, e
maggiormente in sul declinare degli anni, convertita la sazietà
in odio, alcuni vennero in sì fatta disperazione, che non
sopportando la luce e lo spirito, che nel primo tempo avevano
avuti in tanto amore, spontaneamente, quale in uno e quale in
altro modo, se ne privarono.
Parve
orrendo questo caso agli Dei, che da creature viventi la morte
fosse preposta alla vita, e che questa medesima in alcun suo
proprio soggetto, senza forza di necessità e senza altro
concorso, fosse a disfarlo. Né si può facilmente dire quanto si
maravigliassero che i loro doni fossero tenuti così vili ed
abbominevoli, che altri dovesse con ogni sua forza spogliarseli e
rigettarli; parendo loro aver posta nel mondo tanta bontà e
vaghezza, e tali ordini e condizioni, che quella stanza avesse ad
essere, non che tollerata, ma sommamente amata da qualsivoglia
animale, e dagli uomini massimamente, il qual genere avevano
formato con singolare studio a maravigliosa eccellenza. Ma nel
medesimo tempo, oltre all'essere tocchi da non mediocre pietà di
tanta miseria umana quanta manifestavasi dagli effetti,
dubitavano eziandio che rinnovandosi e moltiplicandosi quei
tristi esempi, la stirpe umana fra poca età, contro l'ordine dei
fati, venisse a perire, e le cose fossero private di quella
perfezione che risultava loro dal nostro genere, ed essi di
quegli onori che ricevevano dagli uomini.
Deliberato
per tanto Giove di migliorare, poiché parea che si richiedesse,
lo stato umano, e d'indirizzarlo alla felicità con maggiori
sussidi, intendeva che gli uomini si querelavano principalmente
che le cose non fossero immense di grandezza, né infinite di
beltà, di perfezione e di varietà, come essi da prima avevano
giudicato; anzi essere angustissime, tutte imperfette, e
pressoché di una forma; e che dolendosi non solo dell'età
provetta, ma della matura, e della medesima gioventù, e
desiderando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano
ferventemente di essere tornati nella fanciullezza, e in quella
perseverare tutta la loro vita. Della qual cosa non potea Giove
soddisfarli, essendo contraria alle leggi universali della natura,
ed a quegli uffici e quelle utilità che gli uomini dovevano,
secondo l'intenzione e i decreti divini, esercitare e produrre.
Né anche poteva comunicare la propria infinità colle creature
mortali, né fare la materia infinita, né infinita la perfezione
e la felicità delle cose e degli uomini. Ben gli parve
conveniente di propagare i termini del creato, e di maggiormente
adornarlo e distinguerlo: e preso questo consiglio, ringrandì la
terra d'ogn'intorno, e v'infuse il mare, acciocché,
interponendosi ai luoghi abitati, diversificasse la sembianza
delle cose, e impedisse che i confini loro non potessero
facilmente essere conosciuti dagli uomini, interrompendo i
cammini, ed anche rappresentando agli occhi una viva similitudine
dell'immensità. Nel qual tempo occuparono le nuove acque la
terra Atlantide, non sola essa, ma insieme altri innumerabili e
distesissimi tratti, benché di quella resti memoria speciale,
sopravvissuta alla moltitudine dei secoli. Molti luoghi depresse,
molti ricolmò suscitando i monti e le colline, cosperse la notte
di stelle, rassottigliò e ripurgò la natura dell'aria, ed
accrebbe il giorno di chiarezza e di luce, rinforzò e
contemperò più diversamente che per l'addietro i colori del
cielo e delle campagne, confuse le generazioni degli uomini in
guisa che la vecchiezza degli uni concorresse in un medesimo
tempo coll'altrui giovanezza e puerizia. E risolutosi di
moltiplicare le apparenze di quell'infinito che gli uomini
sommamente desideravano (dappoi che egli non li poteva compiacere
della sostanza), e volendo favorire e pascere le coloro
immaginazioni, dalla virtù delle quali principalmente
comprendeva essere proceduta quella tanta beatitudine della loro
fanciullezza; fra i molti espedienti che pose in opera (siccome
fu quello del mare), creato l'eco, lo nascose nelle valli e nelle
spelonche, e mise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con
un vasto ondeggiamento delle loro cime. Creò similmente il
popolo de' sogni, e commise loro che ingannando sotto più forme
il pensiero degli uomini, figurassero loro quella pienezza di non
intelligibile felicità, che egli non vedeva modo a ridurre in
atto, e quelle immagini perplesse e indeterminate, delle quali
esso medesimo, se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo
sospiravano ardentemente, non poteva produrre alcun esempio reale.
Fu
per questi provvedimenti di Giove ricreato ed eretto l'animo
degli uomini, e rintegrata in ciascuno di loro la grazia e la
carità della vita, non altrimenti che l'opinione, il diletto e
lo stupore della bellezza e dell'immensità delle cose terrene. E
durò questo buono stato più lungamente che il primo, massime
per la differenza del tempo introdotta da Giove nei nascimenti,
sicché gli animi freddi e stanchi per l'esperienza delle cose,
erano confortati vedendo il calore e le speranze dell'età verde.
Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità, e
risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si
ridussero gli uomini in tale abbattimento, che nacque allora,
come si crede, il costume riferito nelle storie come praticato da
alcuni popoli antichi che lo serbarono, che nascendo alcuno, si
congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e morendo, era
celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano
congratulandosi coll'estinto. All'ultimo tutti i mortali si
volsero all'empietà, o che paresse loro di non essere ascoltati
da Giove, o essendo propria natura delle miserie indurare e
corrompere gli animi eziandio più bennati, e disamorarli dell'onesto
e del retto. Perciocché s'ingannano a ogni modo coloro i quali
stimano essere nata primieramente l'infelicità umana dall'iniquità
e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d'altronde
ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro
calamità.
Ora
poiché fu punita dagli Dei col diluvio di Deucalione la
protervia dei mortali e presa vendetta delle ingiurie, i due soli
scampati dal naufragio universale del nostro genere, Deucalione e
Pirra, affermando seco medesimi niuna cosa potere maggiormente
giovare alla stirpe umana che di essere al tutto spenta, sedevano
in cima a una rupe chiamando la morte con efficacissimo desiderio,
non che temessero né deplorassero il fato comune. Non per tanto,
ammoniti da Giove di riparare alla solitudine della terra; e non
sostenendo, come erano sconfortati e disdegnosi della vita, di
dare opera alla generazione; tolto delle pietre della montagna,
secondo che dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo le
spalle, restaurarono la specie umana. Ma Giove fatto accorto, per
le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non
può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere
liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando
sempre e in qualunque stato l'impossibile, tanto più si
travagliano con questo desiderio da se medesimi, quanto meno sono
afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a
conservare questo misero genere: le quali furono principalmente
due. L'una mescere la loro vita di mali veri; l'altra implicarla
in mille negozi e fatiche, ad effetto d'intrattenere gli uomini,
e divertirli quanto più si potesse dal conversare col proprio
animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana
felicità.
Quindi
primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e
un infinito genere di altre sventure: parte volendo, col variare
le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla
sazietà e crescere colla opposizione dei mali il pregio de' beni;
parte acciocché il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti
esercitati in cose peggiori, molto più comportabile che non
aveva fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di
rompere e mansuefare la ferocia degli uomini, ammaestrarli a
piegare il collo e cedere alla necessità, ridurli a potersi più
facilmente appagare della propria sorte, e rintuzzare negli animi
affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai travagli
propri, l'acume e la veemenza del desiderio. Oltre di questo,
conosceva dovere avvenire che gli uomini oppressi dai morbi e
dalle calamità, fossero meno pronti che per l'addietro a volgere
le mani contra se stessi, perocché sarebbero incodarditi e
prostrati di cuore, come interviene per l'uso dei patimenti. I
quali sogliono anche, lasciando luogo alle speranze migliori,
allacciare gli animi alla vita: imperciocché gl'infelici hanno
ferma opinione che eglino sarebbero felicissimi quando si
riavessero dei propri mali; la qual cosa, come è la natura dell'uomo,
non mancano mai di sperare che debba loro succedere in qualche
modo. Appresso creò le tempeste dei venti e dei nembi, si armò
del tuono e del fulmine, diede a Nettuno il tridente, spinse le
comete in giro e ordinò le eclissi; colle quali cose e con altri
segni ed effetti terribili, instituì di spaventare i mortali di
tempo in tempo: sapendo che il timore e i presenti pericoli
riconcilierebbero alla vita, almeno per breve ora, non tanto gl'infelici,
ma quelli eziandio che l'avessero in maggiore abbominio, e che
fossero più disposti a fuggirla.
E
per escludere la passata oziosità, indusse nel genere umano il
bisogno e l'appetito di nuovi cibi e di nuove bevande, le quali
cose non senza molta e grave fatica si potessero provvedere,
laddove insino al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole
acque, si erano pasciuti delle erbe e delle frutta che la terra e
gli arbori somministravano loro spontaneamente, e di altre
nutriture vili e facili a procacciare, siccome usano di
sostentarsi anche oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli
di California. Assegnò ai diversi luoghi diverse qualità
celesti, e similmente alle parti dell'anno, il quale insino a
quel tempo era stato sempre e in tutta la terra benigno e
piacevole in modo, che gli uomini non avevano avuto uso di
vestimenti; ma di questi per l'innanzi furono costretti a
fornirsi, e con molte industrie riparare alle mutazioni e
inclemenze del cielo. Impose a Mercurio che fondasse le prime
città, e distinguesse il genere umano in popoli, nazioni e
lingue, ponendo gara e discordia tra loro; e che mostrasse agli
uomini il canto e quelle altre arti, che sì per la natura e sì
per l'origine, furono chiamate, e ancora si chiamano, divine.
Esso medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti;
e in ultimo volendo con un incomparabile dono beneficarle, mandò
tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane,
ai quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di
esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor
patrio e con altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu
medesimamente uno chiamato Amore, che in quel tempo primieramente,
siccome anco gli altri, venne in terra: perciocché innanzi all'uso
dei vestimenti, non amore, ma impeto di cupidità, non dissimile
negli uomini di allora da quello che fu di ogni tempo nei bruti,
spingeva l'uno sesso verso l'altro, nella guisa che è tratto
ciascuno ai cibi e a simili oggetti, i quali non si amano
veramente, ma si appetiscono.
Fu
cosa mirabile quanto frutto partorissero questi divini consigli
alla vita mortale, e quanto la nuova condizione degli uomini, non
ostante le fatiche, gli spaventi e i dolori, cose per l'addietro
ignorate dal nostro genere, superasse di comodità e di dolcezza
quelle che erano state innanzi al diluvio. E questo effetto
provenne in gran parte da quelle maravigliose larve; le quali
dagli uomini furono riputate ora geni ora iddii, e seguite e
culte con ardore inestimabile e con vaste e portentose fatiche
per lunghissima età; infiammandoli a questo dal canto loro con
infinito sforzo i poeti e i nobili artefici; tanto che un
grandissimo numero di mortali non dubitarono chi all'uno e chi
all'altro di quei fantasmi donare e sacrificare il sangue e la
vita propria. La qual cosa, non che fosse discara a Giove, anzi
piacevagli sopra modo, così per altri rispetti, come che egli
giudicava dovere essere gli uomini tanto meno facili a gittare
volontariamente la vita, quanto più fossero pronti a spenderla
per cagioni belle e gloriose. Anche di durata questi buoni ordini
eccedettero grandemente i superiori; poiché quantunque venuti
dopo molti secoli in manifesto abbassamento, nondimeno eziandio
declinando e poscia precipitando, valsero in guisa, che fino all'entrare
di un'età non molto rimota dalla presente, la vita umana, la
quale per virtù di quegli ordini era stata già, massime in
alcun tempo, quasi gioconda, si mantenne per beneficio loro
mediocremente facile e tollerabile.
Le
cagioni e i modi del loro alterarsi furono i molti ingegni
trovati dagli uomini per provvedere agevolmente e con poco tempo
ai propri bisogni; lo smisurato accrescimento della disparità di
condizioni e di uffici constituita da Giove tra gli uomini quando
fondò e dispose le prime repubbliche; l'oziosità e la vanità
che per queste cagioni, di nuovo, dopo antichissimo esilio,
occuparono la vita; l'essere, non solo per la sostanza delle cose,
ma ancora da altra parte per l'estimazione degli uomini, venuta a
scemarsi in essa vita la grazia della varietà, come sempre suole
per la lunga consuetudine; e finalmente le altre cose più gravi,
le quali per essere già descritte e dichiarate da molti, non
accade ora distinguere. Certo negli uomini si rinnovellò quel
fastidio delle cose loro che gli aveva travagliati avanti il
diluvio, e rinfrescossi quell'amaro desiderio di felicità ignota
ed aliena dalla natura dell'universo.
Ma
il totale rivolgimento della loro fortuna e l'ultimo esito di
quello stato che oggi siamo soliti di chiamare antico, venne
principalmente da una cagione diversa dalle predette: e fu questa.
Era tra quelle larve, tanto apprezzate dagli antichi, una
chiamata nelle costoro lingue Sapienza; la quale onorata
universalmente come tutte le sue compagne, e seguita in
particolare da molti, aveva altresì al pari di quelle conferito
per la sua parte alla prosperità dei secoli scorsi. Questa più
e più volte, anzi quotidianamente, aveva promesso e giurato ai
seguaci suoi di voler loro mostrare la Verità, la quale diceva
ella essere un genio grandissimo, e sua propria signora, né mai
venuta in sulla terra, ma sedere cogli Dei nel cielo; donde essa
prometteva che coll'autorità e grazia propria intendeva di
trarla, e di ridurla per qualche spazio di tempo a peregrinare
tra gli uomini: per l'uso e per la familiarità della quale,
dovere il genere umano venire in sì fatti termini, che di
altezza di conoscimento, eccellenza d'instituti e di costumi, e
felicità di vita, per poco fosse comparabile al divino. Ma come
poteva una pura ombra ed una sembianza vota mandare ad effetto le
sue promesse, non che menare in terra la Verità? Sicché gli
uomini, dopo lunghissimo credere e confidare, avvedutisi della
vanità di quelle profferte; e nel medesimo tempo famelici di
cose nuove, massime per l'ozio in cui vivevano; e stimolati parte
dall'ambizione di pareggiarsi agli Dei, parte dal desiderio di
quella beatitudine che per le parole del fantasma si riputavano,
conversando colla Verità essere per conseguire; si volsero con
instantissime e presuntuose voci dimandando a Giove che per alcun
tempo concedesse alla terra quel nobilissimo genio,
rimproverandogli che egli invidiasse alle sue creature l'utilità
infinita che dalla presenza di quello riporterebbero; e insieme
si rammaricavano con lui della sorte umana, rinnovando le antiche
e odiose querele della piccolezza e della povertà delle cose
loro. E perché quelle speciosissime larve, principio di tanti
beni alle età passate, ora si tenevano dalla maggior parte in
poca stima; non che già fossero note per quelle che veramente
erano, ma la comune viltà dei pensieri e l'ignavia dei costumi
facevano che quasi niuno oggimai le seguiva; perciò gli uomini
bestemmiando scelleratamente il maggior dono che gli eterni
avessero fatto e potuto fare ai mortali, gridavano che la terra
non era degnata se non dei minori geni; ed ai maggiori, ai quali
la stirpe umana più condecentemente s'inchinerebbe, non essere
degno né lecito di porre il piede in questa infima parte dell'universo.
Molte
cose avevano già da gran tempo alienata novamente dagli uomini
la volontà di Giove; e tra le altre gl'incomparabili vizi e
misfatti, i quali per numero e per tristezza si avevano di
lunghissimo intervallo lasciate addietro le malvagità vendicate
dal diluvio. Stomacavalo del tutto, dopo tante esperienze prese,
l'inquieta, insaziabile, immoderata natura umana; alla
tranquillità della quale, non che alla felicità, vedeva oramai
per certo, niun provvedimento condurre, niuno stato convenire,
niun luogo essere bastante; perché quando bene egli avesse
voluto in mille doppi aumentare gli spazi e i diletti della terra,
e l'università delle cose, quella e queste agli uomini,
parimente incapaci e cupidi dell'infinito, fra breve tempo erano
per parere strette, disamene e di poco pregio. Ma in ultimo
quelle stolte e superbe domande commossero talmente l'ira del dio,
che egli si risolse, posta da parte ogni pietà, di punire in
perpetuo la specie umana, condannandola per tutte le età future
a miseria molto più grave che le passate. Per la qual cosa
deliberò non solo mandare la Verità fra gli uomini a stare,
come essi chiedevano, per alquanto di tempo, ma dandole eterno
domicilio tra loro, ed esclusi di quaggiù quei vaghi fantasmi
che egli vi avea collocati, farla perpetua moderatrice e signora
della gente umana.
E
maravigliandosi gli altri Dei di questo consiglio, come quelli ai
quali pareva che egli avesse a ridondare in troppo innalzamento
dello stato nostro e in pregiudizio della loro maggioranza, Giove
li rimosse da questo concetto mostrando loro, oltre che non tutti
i geni, eziandio grandi, sono di proprietà benefici, non essere
tale l'ingegno della Verità, che ella dovesse fare gli stessi
effetti negli uomini che negli Dei. Perocché laddove agl'immortali
ella dimostrava la loro beatitudine, discoprirebbe agli uomini
interamente e proporrebbe ai medesimi del continuo dinanzi agli
occhi la loro infelicità; rappresentandola oltre a questo, non
come opera solamente della fortuna, ma come tale che per niuno
accidente e niuno rimedio non la possano campare, né mai,
vivendo, interrompere. Ed avendo la più parte dei loro mali
questa natura, che in tanto sieno mali in quanto sono creduti
essere da chi li sostiene, e più o meno gravi secondo che esso
gli stima; si può giudicare di quanto grandissimo nocumento sia
per essere agli uomini la presenza di questo genio. Ai quali
niuna cosa apparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i
beni mortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni cosa
fuorché dei propri dolori. Per queste cagioni saranno eziandio
privati della speranza; colla quale dal principio insino al
presente, più che con altro diletto o conforto alcuno,
sostentarono la vita. E nulla sperando, né veggendo alle imprese
e fatiche loro alcun degno fine, verranno in tale negligenza ed
abborrimento da ogni opera industriosa, non che magnanima, che la
comune usanza dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei
sepolti. Ma in questa disperazione e lentezza non potranno
fuggire che il desiderio di un'immensa felicità, congenito agli
animi loro, non li punga e cruci tanto più che in addietro,
quanto sarà meno ingombro e distratto dalla varietà delle cure
e dall'impeto delle azioni. E nel medesimo tempo si troveranno
essere destituiti della naturale virtù immaginativa, che sola
poteva per alcuna parte soddisfarli di questa felicità non
possibile e non intesa, né da me, né da loro stessi che la
sospirano. E tutte quelle somiglianze dell'infinito che io
studiosamente aveva poste nel mondo, per ingannarli e pascerli,
conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti e
indeterminati, riusciranno insufficienti a quest'effetto per la
dottrina e per gli abiti che eglino apprenderanno dalla Verità.
Di maniera che la terra e le altre parti dell'universo, se per
addietro parvero loro piccole, parranno da ora innanzi menome:
perché essi saranno instrutti e chiariti degli arcani della
natura; e perché quelle, contro la presente aspettazione degli
uomini, appaiono tanto più strette a ciascuno, quanto egli ne ha
più notizia. Finalmente, perciocché saranno stati ritolti alla
terra i suoi fantasmi, e per gl'insegnamenti della Verità, per
li quali gli uomini avranno piena contezza dell'essere di quelli,
mancherà dalla vita umana ogni valore, ogni rettitudine, così
di pensieri come di fatti; e non pure lo studio e la carità, ma
il nome stesso delle nazioni e delle patrie sarà spento per ogni
dove; recandosi tutti gli uomini, secondo che essi saranno usati
di dire, in una sola nazione e patria, come fu da principio, e
facendo professione di amore universale verso tutta la loro
specie; ma veramente dissipandosi la stirpe umana in tanti popoli
quanti saranno uomini. Perciocché non si proponendo né patria
da dovere particolarmente amare, né strani da odiare;
ciascheduno odierà tutti gli altri, amando solo, di tutto il suo
genere, se medesimo. Dalla qual cosa quanti e quali incomodi
sieno per nascere, sarebbe infinito a raccontare. Né per tanta e
sì disperata infelicità si ardiranno i mortali di abbandonare
la luce spontaneamente: perocché l'imperio di questo genio li
farà non meno vili che miseri; ed aggiungendo oltremodo alle
acerbità della loro vita, li priverà del valore di rifiutarla.
Per
queste parole di Giove parve agli Dei che la nostra sorte fosse
per essere troppo più fiera e terribile che alla divina pietà
non si convenisse di consentire. Ma Giove seguitò dicendo.
Avranno tuttavia qualche mediocre conforto da quel fantasma che
essi chiamano Amore; il quale io sono disposto, rimovendo tutti
gli altri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato alla
Verità, quantunque potentissima e combattendolo di continuo, né
sterminarlo mai dalla terra, né vincerlo se non di rado. Sicché
la vita degli uomini, parimente occupata nel culto di quel
fantasma e di questo genio, sarà divisa in due parti; e l'uno e
l'altro di quelli avranno nelle cose e negli animi dei mortali
comune imperio. Tutti gli altri studi, eccetto che alcuni pochi e
di picciolo conto, verranno meno nella maggior parte degli uomini.
Alle età gravi il difetto delle consolazioni di Amore sarà
compensato dal beneficio della loro naturale proprietà di essere
quasi contenti della stessa vita, come accade negli altri generi
di animali, e di curarla diligentemente per sua cagione propria,
non per diletto né per comodo che ne ritraggano.
Così
rimossi dalla terra i beati fantasmi, salvo solamente Amore, il
manco nobile di tutti, Giove mandò tra gli uomini la Verità, e
diedele appo loro perpetua stanza e signoria. Di che seguitarono
tutti quei luttuosi effetti che egli avea preveduto. E intervenne
cosa di gran maraviglia; che ove quel genio prima della sua
discesa, quando egli non avea potere né ragione alcuna negli
uomini, era stato da essi onorato con un grandissimo numero di
templi e di sacrifici; ora venuto in sulla terra con autorità di
principe, e cominciato a conoscere di presenza, al contrario di
tutti gli altri immortali, che più chiaramente manifestandosi,
appaiono più venerandi, contristò di modo le menti degli uomini
e percossele di così fatto orrore, che eglino, se bene sforzati
di ubbidirlo, ricusarono di adorarlo. E in vece che quelle larve
in qualunque animo avessero maggiormente usata la loro forza,
solevano essere da quello più riverite ed amate; esso genio
riportò più fiere maledizioni e più grave odio da coloro in
che egli ottenne maggiore imperio. Ma non potendo perciò né
sottrarsi, né ripugnare alla sua tirannide, vivevano i mortali
in quella suprema miseria che eglino sostengono insino ad ora, e
sempre sosterranno.
Se non che la pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta, commosse, non e gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infelicità; e massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d'intelletto, congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio. Avevano usato gli Dei negli antichi tempi, quando Giustizia, Virtù e gli altri fantasmi governavano le cose umane, visitare alcuna volta le proprie fatture, scendendo ora l'uno ora l'altro in terra, e qui significando la loro presenza in diversi modi: la quale era stata sempre con grandissimo beneficio o di tutti i mortali o di alcuno in particolare. Ma corrotta di nuovo la vita, e sommersa in ogni scelleratezza, sdegnarono quelli per lunghissimo tempo la conversazione umana. Ora Giove compassionando alla nostra somma infelicità, propose agl'immortali se alcuno di loro fosse per indurre l'animo a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a sé, indegni della sciagura universale. Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, conforme di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversissimo; si offerse (come è singolare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso l'ufficio proposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli mai per l'avanti non si era tolto; non sofferendo il concilio degl'immortali, per averlo indicibilmente caro, che egli si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro commercio. Se bene di tratto in tratto molti antichi uomini, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi del fantasma chiamato collo stesso nome, si pensarono avere non dubbi segni della presenza di questo massimo iddio. Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero sottoposti all'imperio della Verità. Dopo il qual tempo, non suole anco scendere se non di rado, e poco si ferma; così per la generale indegnità della gente umana, come che gli Dei sopportano molestissimamente la sua lontananza. Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l'uno e l'altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l'essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell'animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agli Dei. E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egli si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli vi siede, l'infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortali, inesperti e incapaci de' suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe; tanto è da natura magnanimo e mansueto. Oltre che gl'immortali, contenti della vendetta che prendono di tutta la stirpe, e dell'insanabile miseria che la gastiga, non curano le singolari offese degli uomini; né d'altro in particolare sono puniti i frodolenti e gl'ingiusti e i dispregiatori degli Dei, che di essere alieni anche per proprio nome dalla grazia di quelli.
Ercole:
Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua
parte, e in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me
lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti
secoli sono, tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco.
Atlante: Ti ringrazio, caro Ercolino, e mi chiamo
anche obbligato alla maestà di Giove. Ma il mondo è fatto così
leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve,
mi pesa più; e se non fosse che la volontà di Giove mi sforza
di stare qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io
me la porrei sotto l'ascella o in tasca, o me l'attaccherei
ciondolone a un pelo della barba, e me n'andrei per le mie
faccende.
Ercole: Come può stare che sia tanto alleggerita?
Mi accorgo bene che ha mutato figura, e che è diventata a uso
delle pagnotte, e non è più tonda, come era al tempo che io
studiai la cosmografia per fare quella grandissima navigazione
cogli Argonauti: ma con tutto questo non trovo come abbia a
pesare meno di prima.
Atlante: Della causa non so. Ma della leggerezza ch'io
dico te ne puoi certificare adesso adesso, solo che tu voglia
torre questa sulla mano per un momento, e provare il peso.
Ercole: In fe' d'Ercole, se io non avessi provato,
io non poteva mai credere. Ma che è quest'altra novità che vi
scuopro? L'altra volta che io la portai, mi batteva forte sul
dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo
continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si
rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la molla; e quanto al
ronzare, io non vi odo un zitto.
Atlante: Anche di questo non ti so dire altro, se
non ch'egli è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni
moto e ogni romore sensibile: e io per me stetti con grandissimo
sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m'infettasse
col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e
l'epitaffio che gli dovessi porre. Ma poi veduto che non marciva,
mi risolsi che di animale che prima era, si fosse convertito in
pianta, come Dafne e tanti altri; e che da questo nascesse che
non si moveva e non fiatava: e ancora dubito che fra poco non mi
gitti le radici per le spalle, e non vi si abbarbichi.
Ercole: Io piuttosto credo che dorma, e che questo
sonno sia della qualità di quello di Epimenide , che durò un
mezzo secolo e più; o come si dice di Ermotimo , che l'anima gli
usciva del corpo ogni volta che voleva, e stava fuori molti anni,
andando a diporto per diversi paesi, e poi tornava, finché gli
amici per finire questa canzona, abbruciarono il corpo; e così
lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era
disfatta, e che se voleva alloggiare al coperto, gliene conveniva
pigliare un'altra a pigione, o andare all'osteria. Ma per fare
che il mondo non dorma in eterno, e che qualche amico o
benefattore, pensando che egli sia morto, non gli dia fuoco, io
voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.
Atlante: Bene, ma che modo?
Ercole: Io gli farei toccare una buona picchiata di
questa clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e che io
non ne facessi una cialda; o che la crosta, atteso che riesce
così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi
scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro
che gli uomini, che al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi
leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa
tutti in un tratto. Il meglio sarà ch'io posi la clava e tu il
pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa sferuzza. Mi
dispiace ch'io non ho recato i bracciali o le racchette che
adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell'orto:
ma le pugna basteranno.
Atlante: Appunto; acciocché tuo padre, veduto il
nostro giuoco e venutogli voglia di entrare in terzo, colla sua
palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come Fetonte
nel Po.
Ercole: Vero, se io fossi, come era Fetonte,
figliuolo di un poeta, e non suo figliuolo proprio; e non fossi
anche tale, che se i poeti popolarono le città col suono della
lira, a me basta l'animo di spopolare il cielo e la terra a suono
di clava. E la sua palla, con un calcio che le tirassi, io la
farei schizzare di qui fino all'ultima soffitta del cielo empireo.
Ma sta sicuro che quando anche mi venisse fantasia di sconficcare
cinque o sei stelle per fare alle castelline, o di trarre al
bersaglio con una cometa, come con una fromba, pigliandola per la
coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco del
disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la
nostra intenzione con questo giuoco e di far bene al mondo, e non
come quella di Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona
alle Ore, che gli tennero il montatoio quando salì sul carro; e
di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto
e colle altre belle costellazioni, alle quali è voce che nel
passare venisse gittando mazzolini di raggi e pallottoline di
luce confettate; e di fare una bella mostra di sé tra gli Dei
del cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa. In
somma, della collera di mio padre non te ne dare altro pensiero,
che io m'obbligo, in ogni caso, a rifarti i danni; e senza più
cavati il cappotto e manda la palla.
Atlante: O per grado o per forza, mi converrà fare
a tuo modo; perché tu sei gagliardo e coll'arme, e io disarmato
e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere, che non se
le aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le
ammaccasse, o crepasse, come quando la Sicilia si schiantò dall'Italia
e l'Affrica dalla Spagna; o non ne saltasse via qualche scheggia,
come a dire una provincia o un regno, tanto che ne nascesse una
guerra.
Ercole: Per la parte mia non dubitare.
Atlante: A te la palla. Vedi che ella zoppica,
perché l'è guasta la figura.
Ercole: Via dàlle un po' più sodo, ché le tue
non arrivano.
Atlante: Qui la botta non vale, perché ci tira
garbino al solito, e la palla piglia vento, perch'è leggera.
Ercole: Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a
caccia del vento.
Atlante: In verità non saria mal fatto che ne la
gonfiassimo, che veggo che ella non balza d'in sul pugno più che
un popone.
Ercole: Cotesto è difetto nuovo, che anticamente
ella balzava e saltava come un capriolo.
Atlante: Corri presto in là; presto ti dico;
guarda per Dio, ch'ella cade: mal abbia il momento che tu ci sei
venuto.
Ercole: Così falsa e terra terra me l'hai rimessa,
che io non poteva essere a tempo se m'avessi voluto fiaccare il
collo. Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte?
Non s'ode un fiato e non si vede muovere un'anima e mostra che
tutti dormano come prima.
Atlante: Lasciamela per tutte le corna dello Stige,
che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e
torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch'è
seguito per tua cagione.
Ercole: Così farò. È molti secoli che sta in
casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come
poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato deificato da
Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei
Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra
l'altre una dove dice che l'uomo giusto non si muove se ben cade
il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti,
perché il mondo è caduto, e niuno s'è mosso.
Atlante: Chi dubita della giustizia degli uomini?
Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto a
scolparmi con tuo padre, ché io m'aspetto di momento in momento
un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.
DIALOGO DELLA MODA E DELLA MORTE
Moda:
Madama Morte, madama Morte.
Morte: Aspetta che sia l'ora, e verrò senza che tu
mi chiami.
Moda: Madama Morte.
Morte: Vattene col diavolo. Verrò quando tu non
vorrai.
Moda: Come se io non fossi immortale.
Morte: Immortale? Passato è già più che 'lmillesim'anno
che sono finiti i tempi degl'immortali.
Moda: Anche Madama petrarcheggia come fosse un
lirico italiano del cinque o dell'ottocento?
Morte: Ho care le rime del Petrarca, perché vi
trovo il mio Trionfo, e perché parlano di me quasi da per tutto.
Ma in somma levamiti d'attorno.
Moda: Via, per l'amore che tu porti ai sette vizi
capitali, fermati tanto o quanto, e guardami.
Morte: Ti guardo.
Moda: Non mi conosci?
Morte: Dovresti sapere che ho mala vista, e che non
posso usare occhiali, perché gl'Inglesi non ne fanno che mi
valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl'incavalcassi.
Moda: Io sono la Moda, tua sorella.
Morte: Mia sorella?
Moda: Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo
nate dalla Caducità?
Morte: Che m'ho a ricordare io che sono nemica
capitale della memoria.
Moda: Ma io me ne ricordo bene; e so che l'una e l'altra
tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di
quaggiù, benché tu vadi a questo effetto per una strada e io
per un'altra.
Morte: In caso che tu non parli col tuo pensiero o
con persona che tu abbi dentro alla strozza, alza più la voce e
scolpisci meglio le parole; che se mi vai borbottando tra' denti
con quella vocina da ragnatelo, io t'intenderò domani, perché l'udito,
se non sai, non mi serve meglio che la vista.
Moda: Benché sia contrario alla costumatezza, e in
Francia non si usi di parlare per essere uditi, pure perché
siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti,
parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra natura e usanza comune
è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio
ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più
delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei
palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata
e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come
verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e
stracciarli colle bazzecole che io v'appicco per li fori;
abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io
fo che essi v'improntino per bellezza; sformare le teste dei
bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che
tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una
figura, come ho fatto in America e in Asia ; storpiare la gente
colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi
le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di
questo andare. Anzi generalmente parlando, io persuado e
costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille
fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a
morire gloriosamente, per l'amore che mi portano. Io non vo' dire
nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di
ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane, che gli
uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal
freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le
spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni
cosa a mio modo ancorché sia con loro danno.
Morte: In conclusione io ti credo che mi sii
sorella e, se tu vuoi, l'ho per più certo della morte, senza che
tu me ne cavi la fede del parrocchiano.' Ma stando così ferma,
io svengo; e però, se ti dà l'animo di corrermi allato, fa di
non vi crepare, perch'io fuggo assai, e correndo mi potrai dire
il tuo bisogno; se no, a contemplazione della parentela, ti
prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e
rimanti col buon anno.
Moda: Se noi avessimo a correre insieme il palio,
non so chi delle due si vincesse la prova, perché se tu corri,
io vo meglio che di galoppo; e a stare in un luogo, se tu ne
svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo a correre, e
correndo, come tu dici, parleremo dei casi nostri.
Morte: Sia con buon'ora. Dunque poiché tu sei nata
dal corpo di mia madre, saria conveniente che tu mi giovassi in
qualche modo a fare le mie faccende.
Moda: Io l'ho fatto già per l'addietro più che
non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo
continuo tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in
nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella
dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo.
Morte: Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello
che non hai potuto!
Moda: Come non ho potuto? Tu mostri di non
conoscere la potenza della moda.
Morte: Ben bene: di cotesto saremo a tempo a
discorrere quando sarà venuta l'usanza che non si muoia. Ma in
questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m'aiutassi a
ottenere il contrario più facilmente e più presto che non ho
fatto finora.
Moda: Già ti ho raccontate alcune delle opere mie
che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie per comparazione a
queste che io ti vo' dire. A poco per volta, ma il più in questi
ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in
dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere
corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che
abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di
questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita
stessa, così per rispetto del corpo come dell'animo, e più
morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità
che sia proprio il secolo della morte. E quando che anticamente
tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi
ossami e polverumi al buio, che sono semenze che non fruttano;
adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno
attorno co' loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione
libera, ancorché tu non le abbi mietute, anzi subito che elle
nascono. Di più, dove per l'addietro solevi essere odiata e
vituperata, oggi per opera mia le cose sono ridotte in termine
che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla
vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli
occhi come alla sua maggiore speranza. Finalmente perch'io vedeva
che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non
morire interi, perché una buona parte di sé non ti sarebbe
capitata sotto le mani, io quantunque sapessi che queste erano
ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria
degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della
loro fama più che si patissero dell'umidità della sepoltura; a
ogni modo intendendo che questo negozio degl'immortali ti
scottava, perché parea che ti scemasse l'onore e la riputazione,
ho levata via quest'usanza di cercare l'immortalità, ed anche di
concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al
presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un
briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito
sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in
un boccone con tutta la testa e le lische. Queste cose, che non
sono poche né piccole, io mi trovo aver fatte finora per amor
tuo, volendo accrescere il tuo stato nella terra, com'è seguito.
E per quest'effetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e
più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a
proposito che noi per l'avanti non ci partiamo dal fianco l'una
dell'altra, perché stando sempre in compagnia, potremo
consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti
che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione.
Morte: Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.
PROPOSTA DI PREMI FATTA DALL'ACCADEMIA DEI SILLOGRAFI
L'Accademia dei Sillografi attendendo di continuo, secondo il suo principale instituto, a procurare con ogni suo sforzo l'utilità comune, e stimando niuna cosa essere più conforme a questo proposito che aiutare e promuovere gli andamenti e le inclinazioni
Del fortunato secolo in cui siamo,
come dice
un poeta illustre; ha tolto a considerare diligentemente le
qualità e l'indole del nostro tempo, e dopo lungo e maturo esame
si è risoluta di poterlo chiamare l'età delle macchine, non
solo perché gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più
meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al
grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed
accomodate o che si vanno tutto giorno trovando ed accomodando a
tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le
macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere
della vita. Del che la detta Accademia prende sommo piacere, non
tanto per le comodità manifeste che ne risultano, quanto per due
considerazioni che ella giudica essere importantissime,
quantunque comunemente non avvertite. L'una si è che ella
confida dovere in successo di tempo gli uffici e gli usi delle
macchine venire a comprendere oltre le cose materiali, anche le
spirituali; onde nella guisa che per virtù di esse macchine
siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle
grandini, e da molti simili mali e spaventi, così di mano in
mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e facciasi
grazia alla novità dei nomi), qualche parainvidia, qualche
paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o
altro ingegno che ci scampi dall'egoismo, dal predominio della
mediocrità, dalla prospera fortuna degl'insensati, de' ribaldi e
de' vili, dall'universale noncuranza e dalla miseria de' saggi,
de' costumati e de' magnanimi, e dagli altri sì fatti incomodi,
i quali da parecchi secoli in qua sono meno possibili a
distornare che già non furono gli effetti dei fulmini e delle
grandini. L'altra cagione e la principale si è che disperando la
miglior parte dei filosofi di potersi mai curare i difetti del
genere umano, i quali, come si crede, sono assai maggiori e in
più numero che le virtù; e tenendosi per certo che sia
piuttosto possibile di rifarlo del tutto in una nuova stampa, o
di sostituire in suo luogo un altro, che di emendarlo; perciò l'Accademia
dei Sillografi reputa essere espedientissimo che gli uomini si
rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a
poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio.
E deliberata di concorrere con ogni suo potere al progresso di
questo nuovo ordine delle cose, propone per ora tre premi a
quelli che troveranno le tre macchine infrascritte.
L'intento
della prima sarà di fare le parti e la persona di un amico, il
quale non biasimi e non motteggi l'amico assente; non lasci di
sostenerlo quando l'oda riprendere o porre in giuoco; non
anteponga la fama di acuto e di mordace, e l'ottenere il riso
degli uomini, al debito dell'amicizia; non divulghi, o per altro
effetto o per aver materia da favellare o da ostentarsi, il
segreto commessogli; non si prevalga della familiarità e della
confidenza dell'amico a soppiantarlo e soprammontarlo più
facilmente; non porti invidia ai vantaggi di quello; abbia cura
del suo bene e di ovviare o di riparare a' suoi danni, e sia
pronto alle sue domande e a' suoi bisogni, altrimenti che in
parole. Circa le altre cose nel comporre questo automato si avrà
l'occhio ai trattati di Cicerone e della Marchesa di Lambert
sopra l'amicizia. L'Accademia pensa che l'invenzione di questa
così fatta macchina non debba essere giudicata né impossibile,
né anche oltre modo difficile, atteso che, lasciando da parte
gli automati del Regiomontano, del Vaucanson e di altri, e quello
che in Londra disegnava figure e ritratti, e scriveva quanto gli
era dettato da chiunque si fosse; più d'una macchina si e veduta
che giocava agli scacchi per sé medesima. Ora a giudizio di
molti savi, la vita umana è un giuoco, ed alcuni affermano che
ella è cosa ancora più lieve, e che tra le altre, la forma del
giuoco degli scacchi è più secondo ragione, e i casi più
prudentemente ordinati che non sono quelli di essa vita. La quale
oltre a ciò, per detto di Pindaro, non essendo cosa di più
sostanza che un sogno di un'ombra, ben debbe esserne capace la
veglia di un automato. Quanto alla favella, pare che non si possa
volgere in dubbio che gli uomini abbiano facoltà di comunicarla
alle macchine che essi formano, conoscendosi questa cosa da vari
esempi, e in particolare da ciò che si legge della statua di
Mennone e della testa fabbricata da Alberto magno, la quale era
sì loquace, che perciò san Tommaso di Aquino, venutagli in odio,
la ruppe. E se il pappagallo di Nevers , con tutto che fosse una
bestiolina, sapeva rispondere e favellare a proposito, quanto
maggiormente è da credere che possa fare questi medesimi effetti
una macchina immaginata dalla mente dell'uomo e construtta dalle
sue mani; la quale già non debbe essere così linguacciuta come
il pappagallo di Nevers ed altri simili che si veggono e odono
tutto giorno, né come la testa fatta da Alberto Magno, non le
convenendo infastidire l'amico e muoverlo a fracassarla. L'inventore
di questa macchina riporterà in premio una medaglia d'oro di
quattrocento zecchini di peso, la quale da una banda
rappresenterà le immagini di Pilade e di Oreste, dall'altra il
nome del premiato col titolo: PRIMO VERIFICATORE DELLE FAVOLE
ANTICHE.
La
seconda macchina vuol essere un uomo artificiale a vapore, atto e
ordinato a fare opere virtuose e magnanime. L'Accademia reputa
che i vapori, poiché altro mezzo non pare che vi si trovi,
debbano essere di profitto a infervorare un semovente e
indirizzarlo agli esercizi della virtù e della gloria. Quegli
che intraprenderà di fare questa macchina, vegga i poemi e i
romanzi, secondo i quali si dovrà governare circa le qualità e
le operazioni che si richieggono a questo automato. Il premio
sarà una medaglia d'oro di quattrocento cinquanta zecchini di
peso, stampatavi in sul ritto qualche immaginazione significativa
della età d'oro e in sul rovescio il nome dell'inventore della
macchina con questo titolo ricavato dalla quarta egloga di
Virgilio, QVO FERREA PRIMVM DESINET AC TOTO SVRGET GENS AVREA
MVNDO.
La
terza macchina debbe essere disposta a fare gli uffici di una
donna conforme a quella immaginata, parte dal conte Baldassar
Castiglione, il quale descrisse il suo concetto nel libro del
Cortegiano, parte da altri, i quali ne ragionarono in vari
scritti che si troveranno senza fatica, e si avranno a consultare
e seguire, come eziandio quello del Conte. Né anche l'invenzione
di questa macchina dovrà parere impossibile agli uomini dei
nostri tempi, quando pensino che Pigmalione in tempi antichissimi
ed alieni dalle scienze si poté fabbricare la sposa colle
proprie mani, la quale si tiene che fosse la miglior donna che
sia stata insino al presente. Assegnasi all'autore di questa
macchina una medaglia d'oro in peso di cinquecento zecchini, in
sulla quale sarà figurata da una faccia l'araba fenice del
Metastasio posata sopra una pianta di specie europea, dall'altra
parte sarà scritto il nome del premiato col titolo: INVENTORE
DELLE DONNE FEDELI E DELLA FELICITÀ CONIUGALE.
L'Accademia ha decretato che alle spese
che occorreranno per questi premi, suppliscasi con quanto fu
ritrovato nella sacchetta di Diogene, stato segretario di essa
Accademia, o con uno dei tre asini d'oro che furono di tre
Accademici sillografi, cioè a dire di Apuleio, del Firenzuola e
del Macchiavelli; tutte le quali robe pervennero ai Sillografi
per testamento dei suddetti, come si legge nella storia dell'Accademia.
DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO
Folletto:
Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio? Dove si va?
Gnomo: Mio padre m'ha spedito a raccapezzare che
diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini;
perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua
non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno.
Dubita che non gli apparecchino qualche gran cosa contro, se
però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore,
non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di
polizzine per moneta, come hanno fatto più volte, o di
paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero
state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno
credibile.
Folletto: Voi gli aspettate invan: son tutti
morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i
personaggi.
Gnomo: Che vuoi tu inferire?
Folletto: Voglio inferire che gli uomini sono tutti
morti, e la razza è perduta.
Gnomo: Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin
qui non s'è veduto che ne ragionino.
Folletto: Sciocco, non pensi che, morti gli uomini,
non si stampano più gazzette?
Gnomo: Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le
nuove del mondo?
Folletto: Che nuove? che il sole si è levato o
coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o
nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la
fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e
appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce
a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani;
non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e
scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si
fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l'uno all'altro
come uovo a uovo.
Gnomo: Né anche si potrà sapere a quanti siamo
del mese, perché non si stamperanno più lunari.
Folletto: Non sarà gran male, che la luna per
questo non fallirà la strada.
Gnomo: E i giorni della settimana non avranno più
nome.
Folletto: Che, hai paura che se tu non li chiami
per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati,
di farli tornare indietro se tu li chiami?
Gnomo: E non si potrà tenere il conto degli anni.
Folletto: Così ci spacceremo per giovani anche
dopo il tempo; e non misurando l'età passata, ce ne daremo meno
affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la
morte di giorno in giorno.
Gnomo: Ma come sono andati a mancare quei monelli?
Folletto: Parte guerreggiando tra loro, parte
navigando, parte mangiandosi l'un l'altro, parte ammazzandosi non
pochi di propria mano, parte infracidando nell'ozio, parte
stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e
disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far
contro la propria natura e di capitar male.
Gnomo: A ogni modo, io non mi so dare ad intendere
che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come
tu dici.
Folletto: Tu che sei maestro in geologia, dovresti
sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie
si trovarono anticamente che oggi non si trovano, salvo pochi
ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non
adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno
usato gli uomini per andare in perdizione.
Gnomo: Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o
due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che
penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il
genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi
credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro
soli.
Folletto: E non volevano intendere che egli è
fatto e mantenuto per li folletti.
Gnomo: Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.
Folletto: Perché? io parlo bene sul sodo.
Gnomo: Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il
mondo e fatto per gli gnomi?
Folletto: Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra?
Oh questa e la più bella che si possa udire. Che fanno agli
gnomi il sole, la luna, l'aria, il mare, le campagne?
Gnomo: Che fanno ai folletti le cave d'oro e d'argento,
e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?
Folletto: Ben bene, o che facciano o che non
facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo
che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il
mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però
ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di
capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi
nato folletto, io mi dispererei.
Gnomo: Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato
gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini
della loro presunzione, per la quale, tra l'altre cose che
facevano a questo e a quello, s'inabissavano le mille braccia
sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella
si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel'aveva
nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se
la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
Folletto: Che maraviglia? quando non solamente si
persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che
di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme,
allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro
proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie
delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare,
anche dentro ai termini della terra, forse tante altre specie,
non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d'uomini
vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro
uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse.
Gnomo: Anche le zanzare e le pulci erano fatte per
benefizio degli uomini?
Folletto: Sì erano; cioè per esercitarli nella
pazienza, come essi dicevano.
Gnomo: In verità che mancava loro occasione di
esercitar la pazienza, se non erano le pulci.
Folletto: Ma i porci, secondo Crisippo , erano
pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e
le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero,
conditi colle anime in vece di sale.
Gnomo: Io credo in contrario che se Crisippo avesse
avuto nel cervello un poco di sale in vece dell'anima, non
avrebbe immaginato uno sproposito simile.
Folletto: E anche quest'altra è piacevole; che
infinite specie di animali non sono state mai viste né
conosciute dagli uomini loro padroni; o perché elle vivono in
luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto
minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire.
E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli
ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante,
e a mille altri. Parimente di tratto in tratto, per via de' loro
cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che
insino allora, per migliaia e migliaia d'anni, non avevano mai
saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro
masserizie: perché s'immaginavano che le stelle e i pianeti
fossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell'alto
a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran
faccende.
Gnomo: Sicché in tempo di state, quando vedevano
cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l'aria,
avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle
per servizio degli uomini.
Folletto: Ma ora che ei sono tutti spariti, la
terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi
di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla
navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.
Gnomo: E le stelle e i pianeti non mancano di
nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.
Folletto: E il sole non s'ha intonacato il viso di
ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare:
della quale io credo ch'ei si pigliasse tanto affanno quanto ne
pigliò la statua di Pompeo.
DIALOGO DI MALAMBRUNO E DI FARFARELLO
Malambruno:
Spiriti d'abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte,
Alichino, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di
Belzebù, e vi comando per la virtù dell'arte mia, che può
sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il cielo: venga
uno di voi con libero comando del vostro principe e piena
potestà di usare tutte le forze dell'inferno in mio servigio.
Farfarello: Eccomi.
Malambruno: Chi sei?
Farfarello: Farfarello, a' tuoi comandi.
Malambruno: Rechi il mandato di Belzebù?
Farfarello: Sì recolo; e posso fare in tuo
servigio tutto quello che potrebbe il Re proprio, e più che non
potrebbero tutte l'altre creature insieme.
Malambruno: Sta bene. Tu m'hai da contentare d'un
desiderio.
Farfarello: Sarai servito. Che vuoi? nobiltà
maggiore di quella degli Atridi?
Malambruno: No.
Farfarello: Più ricchezze di quelle che si
troveranno nella città di Manoa quando sarà scoperta?
Malambruno: No.
Farfarello: Un impero grande come quello che dicono
che Carlo quinto si sognasse una notte?
Malambruno: No.
Farfarello: Recare alle tue voglie una donna più
salvatica di Penelope?
Malambruno: No. Ti par egli che a cotesto ci
bisognasse il diavolo?
Farfarello: Onori e buona fortuna così ribaldo
come sei?
Malambruno: Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo se
volessi il contrario.
Farfarello: In fine, che mi comandi?
Malambruno: Fammi felice per un momento di tempo.
Farfarello: Non posso.
Malambruno: Come non puoi?
Farfarello: Ti giuro in coscienza che non posso.
Malambruno: In coscienza di demonio da bene.
Farfarello: Sì certo. Fa conto che vi sia de'
diavoli da bene come v'è degli uomini.
Malambruno: Ma tu fa conto che io t'appicco qui per
la coda a una di queste travi, se tu non mi ubbidisci subito
senza più parole.
Farfarello: Tu mi puoi meglio ammazzare, che non io
contentarti di quello che tu domandi.
Malambruno: Dunque ritorna tu col mal anno, e venga
Belzebù in persona.
Farfarello: Se anco viene Belzebù con tutta la
Giudecca e tutte le Bolge, non potrà farti felice né te né
altri della tua specie, più che abbia potuto io.
Malambruno: Né anche per un momento solo?
Farfarello: Tanto è possibile per un momento, anzi
per la metà di un momento, e per la millesima parte; quanto per
tutta la vita.
Malambruno: Ma non potendo farmi felice in nessuna
maniera, ti basta l'animo almeno di liberarmi dall'infelicità?
Farfarello: Se tu puoi fare di non amarti
supremamente.
Malambruno: Cotesto lo potrò dopo morto.
Farfarello: Ma in vita non lo può nessun animale:
perché la vostra natura vi comporterebbe prima qualunque altra
cosa, che questa.
Malambruno: Così è.
Farfarello: Dunque, amandoti necessariamente del
maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il
più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran
lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo,
resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere
infelice.
Malambruno: Né anco nei tempi che io proverò
qualche diletto; perché nessun diletto mi farà né felice né
pago.
Farfarello: Nessuno veramente.
Malambruno: E però, non uguagliando il desiderio
naturale della felicità che mi sta fisso nell'animo, non sarà
vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io
non lascerò di essere infelice.
Farfarello: Non lascerai: perché negli uomini e
negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque
senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di quelli
che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa.
Malambruno: Tanto che dalla nascita insino alla
morte, l'infelicità nostra non può cessare per ispazio, non che
altro, di un solo istante.
Farfarello: Sì: cessa, sempre che dormite senza
sognare, o che vi coglie uno sfinimento o altro che v'interrompa
l'uso dei sensi.
Malambruno: Ma non mai però mentre sentiamo la
nostra propria vita.
Farfarello: Non mai.
Malambruno: Di modo che, assolutamente parlando, il
non vivere è sempre meglio del vivere.
Farfarello: Se la privazione dell'infelicità è
semplicemente meglio dell'infelicità.
Malambruno: Dunque?
Farfarello: Dunque se ti pare di darmi l'anima
prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN'ANIMA
Natura:
Va, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata
per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice.
Anima: Che male ho io commesso prima di vivere, che
tu mi condanni a cotesta pena?
Natura: Che pena, figliuola mia?
Anima: Non mi prescrivi tu di essere infelice?
Natura: Ma in quanto che io voglio che tu sii
grande, e non si può questo senza quello. Oltre che tu sei
destinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uomini per
necessità nascono e vivono infelici.
Anima: Ma in contrario saria di ragione che tu
provvedessi in modo, che eglino fossero felici per necessità; o
non potendo far questo, ti si converrebbe astenere da porli al
mondo.
Natura: Né l'una né l'altra cosa è in potestà
mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti,
qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io non la possiamo
intendere. Ora, come tu sei stata creata e disposta a informare
una persona umana, già qualsivoglia forza, né mia né d'altri,
non e potente a scamparti dall'infelicità comune degli uomini.
Ma oltre di questa, te ne bisognerà sostenere una propria, e
maggiore assai, per l'eccellenza della quale io t'ho fornita.
Anima: Io non ho ancora appreso nulla; cominciando
a vivere in questo punto: e da ciò dee provenire ch'io non t'intendo.
Ma dimmi, eccellenza e infelicità straordinaria sono
sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le
potresti tu scompagnare l'una dall'altra?
Natura: Nelle anime degli uomini, e
proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si
può dire che l'una e l'altra cosa sieno quasi il medesimo:
perché l'eccellenza delle anime importa maggiore intensione
della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimento dell'infelicità
propria; che e come se io dicessi maggiore infelicità.
Similmente la maggior vita degli animi inchiude maggiore
efficacia di amor proprio, dovunque esso s'inclini, e sotto
qualunque volto si manifesti: la qual maggioranza di amor proprio
importa maggior desiderio di beatitudine, e però maggiore
scontento e affanno di esserne privi, e maggior dolore delle
avversità che sopravvengono. Tutto questo è contenuto nell'ordine
primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non posso
alterare. Oltre di ciò, la finezza del tuo proprio intelletto, e
la vivacità dell'immaginazione, ti escluderanno da una
grandissima parte della signoria di te stessa. Gli animali bruti
usano agevolmente ai fini che eglino si propongono, ogni loro
facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro
potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dall'immaginativa;
le quali creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni
nell'eseguire. I meno atti o meno usati a ponderare e considerare
seco medesimi, sono i più pronti al risolversi, e nell'operare i
più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro
stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà,
e quindi impotenti di se medesime, soggiacciono il più del tempo
all'irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è l'uno
dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che
mentre per l'eccellenza delle tue disposizioni trapasserai
facilmente e in poco tempo, quasi tutte le altre della tua specie
nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco
difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre o impossibile o
sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica
moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare
cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare
perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non
solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo. Queste ed altre
infinite difficoltà e miserie occupano e circondano gli animi
grandi. Ma elle sono ricompensate abbondantemente dalla fama,
dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la
loro grandezza, e dalla durabilità della ricordanza che essi
lasciano di sé ai loro posteri.
Anima: Ma coteste lodi e cotesti onori che tu dici,
gli avrò io dal cielo, o da te, o da chi altro?
Natura: Dagli uomini: perché altri che essi non li
può dare.
Anima: Ora vedi, io mi pensava che non sapendo fare
quello che è necessarissimo, come tu dici, al commercio cogli
altri uomini, e che riesce anche facile insino ai più poveri
ingegni; io fossi per essere vilipesa e fuggita, non che lodata,
dai medesimi uomini; o certo fossi per vivere sconosciuta a quasi
tutti loro, come inetta al consorzio umano.
Natura: A me non è dato prevedere il futuro, né
quindi anche prenunziarti infallibilmente quello che gli uomini
sieno per fare e pensare verso di te mentre sarai sulla terra.
Ben è vero che dall'esperienza del passato io ritraggo per lo
più verisimile. che essi ti debbano perseguitare coll'invidia;
la quale è un'altra calamità solita di farsi incontro alle
anime eccelse; ovvero ti sieno per opprimere col dispregio e la
noncuranza. Oltre che la stessa fortuna, e il caso medesimo,
sogliono essere inimici delle tue simili. Ma subito dopo la morte,
come avvenne ad uno chiamato Camoens, o al più di quivi ad
alcuni anni, come accadde a un altro chiamato Milton, tu sarai
celebrata e levata al cielo, non dirò da tutti, ma, se non altro,
dal piccolo numero degli uomini di buon giudizio. E forse le
ceneri della persona nella quale tu sarai dimorata, riposeranno
in sepoltura magnifica; e le sue fattezze, imitate in diverse
guise, andranno per le mani degli uomini; e saranno descritti da
molti, e da altri mandati a memoria con grande studio, gli
accidenti della sua vita; e in ultimo, tutto il mondo civile
sarà pieno del nome suo. Eccetto se dalla malignità della
fortuna, o dalla soprabbondanza medesima delle tue facoltà, non
sarai stata perpetuamente impedita di mostrare agli uomini alcun
proporzionato segno del tuo valore: di che non sono mancati per
verità molti esempi, noti a me sola ed al fato.
Anima: Madre mia, non ostante l'essere ancora priva
delle altre cognizioni, io sento tuttavia che il maggiore, anzi
il solo desiderio che tu mi hai dato, è quello della felicità.
E posto che io sia capace di quel della gloria, certo non
altrimenti posso appetire questo non so se io mi dica bene o male,
se non solamente come felicità, o come utile ad acquistarla. Ora,
secondo le tue parole, l'eccellenza della quale tu m'hai dotata,
ben potrà essere o di bisogno o di profitto al conseguimento
della gloria; ma non però mena alla beatitudine, anzi tira
violentemente all'infelicità. Né pure alla stessa gloria è
credibile che mi conduca innanzi alla morte: sopraggiunta la
quale, che utile o che diletto mi potrà pervenire dai maggiori
beni del mondo? E per ultimo, può facilmente accadere, come tu
dici, che questa sì ritrosa gloria, prezzo di tanta infelicità,
non mi venga ottenuta in maniera alcuna, eziandio dopo la morte.
Di modo che dalle tue stesse parole io conchiudo che tu, in luogo
di amarmi singolarmente, come affermavi a principio, mi abbi
piuttosto in ira e malevolenza maggiore che non mi avranno gli
uomini e la fortuna mentre sarò nel mondo; poiché non hai
dubitato di farmi così calamitoso dono come è cotesta
eccellenza che tu mi vanti. La quale Sarà l'uno dei principali
ostacoli che mi vieteranno di giungere al mio solo intento, cioè
alla beatitudine.
Natura: Figliuola mia; tutte le anime degli uomini,
come io ti diceva, sono assegnate in preda all'infelicità, senza
mia colpa. Ma nell'universale miseria della condizione umana, e
nell'infinita vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la gloria
è giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che
sia concesso ai mortali, e il più degno oggetto che questi
possano proporre alle cure e alle azioni loro. Onde, non per odio,
ma per vera e speciale benevolenza che ti avea posta, io
deliberai di prestarti al conseguimento di questo fine tutti i
sussidi che erano in mio potere.
Anima: Dimmi: degli animali bruti, che tu
menzionavi, e per avventura alcuno fornito di minore vitalità e
sentimento che gli uomini?
Natura: Cominciando da quelli che tengono della
pianta, tutti sono in cotesto, gli uni più, gli altri meno,
inferiori all'uomo; il quale ha maggior copia di vita, e maggior
sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi
il più perfetto.
Anima: Dunque alluogami, se tu m'ami, nel più
imperfetto: o se questo non puoi, spogliata delle funeste doti
che mi nobilitano, fammi conforme al più stupido e insensato
spirito umano che tu producessi in alcun tempo.
Natura: Di cotesta ultima cosa io ti posso
compiacere; e sono per farlo; poiché tu rifiuti l'immortalità,
verso la quale io t'aveva indirizzata.
Anima: E in cambio dell'immortalità, pregoti di
accelerarmi la morte il più che si possa.
Natura: Di cotesto conferirò col destino.
DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA
Terra:
Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una
persona; secondo che ho inteso molte volte da' poeti: oltre che i
nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi,
come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri;
che in quell'età ragionevolmente debbono essere acutissimi.
Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né
meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti
figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare.
Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per
tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto
mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno tenuta
occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma
oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire
che vanno co' loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di
noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi
molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua
molestia.
Luna: Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi
salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che tu non me
ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che
quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t'ascolterò
e ti risponderò volentieri, per farti servigio.
Terra: Senti tu questo suono piacevolissimo che
fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna: A dirti il vero, io non sento nulla.
Terra: Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito
del vento che va da' miei poli all'equatore, e dall'equatore ai
poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che
le sfere celesti fanno un certo suono così dolce ch'è una
maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l'ottava
corda di questa lira universale: ma che io sono assordata dal
suono stesso, e però non l'odo.
Luna: Anch'io senza fallo sono assordata; e, come
ho detto, non l'odo: e non so di essere una corda.
Terra: Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu
popolata veramente, come affermano e giurano mille filosofi
antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto
mi sforzi di allungare queste mie corna, che gli uomini chiamano
monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso
di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene
odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne
scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole.
Luna: Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta
che io sono abitata.
Terra: Di che colore sono cotesti uomini?
Luna: Che uomini?
Terra: Quelli che tu contieni. Non dici tu d'essere
abitata?
Luna: Sì, e per questo?
Terra: E per questo non saranno già tutte bestie
gli abitatori tuoi.
Luna: Né bestie né uomini; che io non so che
razze di creature si sieno né gli uni né l'altre. E già di
parecchie cose che tu mi sei venuta accennando, in proposito, a
quel che io stimo, degli uomini, io non ho compreso un'acca.
Terra: Ma che sorte di popoli sono coteste?
Luna: Moltissime e diversissime, che tu non conosci,
come io non conosco le tue.
Terra: Cotesto mi riesce strano in modo, che se io
non l'udissi da te medesima, io non lo crederei per nessuna cosa
del mondo. Fosti tu mai conquistata da niuno de' tuoi?
Luna: No, che io sappia. E come? e perché?
Terra: Per ambizione, per cupidigia dell'altrui,
colle arti politiche, colle armi.
Luna: Io non so che voglia dire armi, ambizione,
arti politiche, in somma niente di quel che tu dici.
Terra: Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci
pure la guerra: perché, poco dianzi, un fisico di quaggiù, con
certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto
lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co' suoi bastioni
diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli
assedi e le battaglie murali.
Luna: Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un
poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita
o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che
vanerella a pensare che tutte le cose di qualunque parte del
mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse avuto
altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io
dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli
abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e
tu consentendo che sieno altre creature, non dubiti che non
abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de' tuoi popoli; e
mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti
cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che
abbiano la buona vista de' tuoi fanciulli; che scuoprono in me
gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia.
Terra: Dunque non sarà né anche vero che le tue
province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu sei
coltivata; cose che dalla parte della Germania, pigliando un
cannocchiale, si veggono chiaramente .
Luna: Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e
le mie strade io non le veggo
Terra: Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di
grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia che gli
uomini m'ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non
si curano di conquistarti, tu non fosti però sempre senza
pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si
posero in animo di conquistarti esse; e a quest'effetto fecero
molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e
levandosi sulle punte de' piedi, e stendendo le braccia, non ti
poterono arrivare. Oltre a questo, già da non pochi anni, io
veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de'
tuoi paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de' quali
sappiamo anche i nomi. Queste cose, per la buona volontà ch'io
ti porto, mi è paruto bene di avvisartele, acciò che tu non
manchi di provvederti per ogni caso. Ora, venendo ad altro, come
sei molestata da' cani che ti abbaiano contro? Che pensi di
quelli che ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio?
perché anticamente ne fu varia opinione . È vero o no che gli
Arcadi vennero al mondo prima di te? che le tue donne, o
altrimenti che io le debba chiamare, sono ovipare; e che uno
delle loro uova cadde quaggiù non so quando? che tu sei
traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno?
che sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di cacio fresco?
che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per
mezzo, come un cocomero; e che un buon tocco del tuo corpo gli
sdrucciolò dentro alla manica? Come stai volentieri in cima dei
minareti? Che ti pare della festa del bairam?
Luna: Va pure avanti; che mentre seguiti così, non
ho cagione di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito.
Se hai caro d'intrattenerti in ciance, e non trovi altre materie
che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso
intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un
altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato
alla tua maniera. Tu non sai parlare altro che d'uomini e di cani
e di cose simili, delle quali ho tanta notizia, quanta di quel
sole grande grande, intorno al quale odo che giri il nostro sole.
Terra: Veramente, più che io propongo, nel
favellarti, di astenermi da toccare le cose proprie, meno mi vien
fatto. Ma da ora innanzi ci avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti
pigli spasso a tirarmi l'acqua del mare in alto, e poi lasciarla
cadere?
Luna: Può essere. Ma posto che io ti faccia
cotesto o qualunque altro effetto, io non mi avveggo di fartelo:
come tu similmente, per quello che io penso, non ti accorgi di
molti effetti che fai qui; che debbono essere tanto maggiori de'
miei, quanto tu mi vinci di grandezza e di forza.
Terra: Di cotesti effetti veramente io non so altro
se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole, e a
me la tua; come ancora, che io ti fo gran lume nelle tue notti,
che in parte lo veggo alcune volte . Ma io mi dimenticava una
cosa che importa più d'ogni altra. Io vorrei sapere se veramente,
secondo che scrive l'Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va
perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le
fatiche e spese che si mettono nei buoni studi per essere onorati
dagli altri, nell'indirizzare i fanciulli ai buoni costumi, nel
fare o promuovere le instituzioni utili; tutto sale e si raguna
costà: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori
della pazzia, che non si parte dagli uomini. In caso che questo
sia vero, io fo conto che tu debba essere così piena, che non ti
avanzi più luogo; specialmente che, negli ultimi tempi, gli
uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia l'amor patrio,
la virtù, la magnanimità, la rettitudine), non già solo in
parte, e l'uno o l'altro di loro, come per l'addietro, ma tutti e
interamente. E certo che se elle non sono costì, non credo si
possano trovare in altro luogo. Però vorrei che noi facessimo
insieme una convenzione, per la quale tu mi rendessi di presente,
e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io penso che tu
medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il
quale intendo che occupa costì un grandissimo spazio; ed io ti
farei pagare dagli uomini tutti gli anni una buona somma di
danari.
Luna: Tu ritorni agli uomini; e, con tutto che la
pazzia, come affermi, non si parta da' tuoi confini, vuoi farmi
impazzire a ogni modo, e levare il giudizio a me, cercando quello
di coloro; il quale io non so dove si sia, né se vada o resti in
nessuna parte del mondo; so bene che qui non si trova; come non
ci si trovano le altre cose che tu chiedi.
Terra: Almeno mi saprai tu dire se costì sono in
uso i vizi, i misfatti, gl'infortuni, i dolori, la vecchiezza, in
conclusione i mali? intendi tu questi nomi?
Luna: Oh cotesti sì che gl'intendo; e non solo i
nomi, ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perché ne
sono tutta piena, in vece di quelle altre che tu credevi.
Terra: Quali prevalgono ne' tuoi popoli, i pregi o
i difetti?
Luna: I difetti di gran lunga.
Terra: Di quali hai maggior copia, di beni o di
mali?
Luna: Di mali senza comparazione.
Terra: E generalmente gli abitatori tuoi sono
felici o infelici?
Luna: Tanto infelici, che io non mi scambierei col
più fortunato di loro.
Terra: Il medesimo è qui. Di modo che io mi
maraviglio come essendomi sì diversa nelle altre cose, in questa
mi sei conforme.
Luna: Anche nella figura, e nell'aggirarmi, e nell'essere
illustrata dal sole io ti sono conforme; e non è maggior
maraviglia quella che questa: perché il male è cosa comune a
tutti i pianeti dell'universo, o almeno di questo mondo solare,
come la rotondità e le altre condizioni che ho detto, né più
né meno. E se tu potessi levare tanto alto la voce, che fossi
udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del
nostro mondo; e gl'interrogassi se in loro abbia luogo l'infelicità,
e se i beni prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti
risponderebbe come ho fatto io. Dico questo per aver dimandato
delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali pianeti di quando
in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho chiesto
ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno
risposto come ho detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna
stella risponderebbero altrettanto.
Terra: Con tutto cotesto io spero bene: e oggi
massimamente, gli uomini mi promettono per l'avvenire molte
felicità.
Luna: Spera a tuo senno: e io ti prometto che
potrai sperare in eterno.
Terra: Sai che è? questi uomini e queste bestie si
mettono a romore: perché dalla parte della quale io ti favello,
è notte, come tu vedi, o piuttosto non vedi; sicché tutti
dormivano; e allo strepito che noi facciamo parlando, si destano
con gran paura.
Luna: Ma qui da questa parte, come tu vedi, è
giorno.
Terra: Ora io non voglio essere causa di spaventare
la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene
che abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo. Addio dunque;
buon giorno.
Luna: Addio; buona notte.
L'anno
ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove,
il collegio delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare
nei luoghi pubblici della città e dei borghi d'Ipernéfelo,
diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori e
minori, e gli altri abitanti della detta città, che recentemente
o in antico avessero fatto qualche lodevole invenzione, a
proporla, o effettualmente o in figura o per iscritto, ad alcuni
giudici deputati da esso collegio. E scusandosi che per la sua
nota povertà non si poteva dimostrare così liberale come
avrebbe voluto, prometteva in premio a quello il cui ritrovamento
fosse giudicato più bello o più fruttuoso, una corona di lauro,
con privilegio di poterla portare in capo il dì e la notte,
privatamente e pubblicamente, in città e fuori; e poter essere
dipinto, scolpito, inciso, gittato, figurato in qualunque modo e
materia, col segno di quella corona dintorno al capo.
Concorsero a questo premio non pochi dei
celesti per passatempo; cosa non meno necessaria agli abitatori d'Ipernéfelo,
che a quelli di altre città; senza alcun desiderio di quella
corona; la quale in sé non valeva il pregio di una berretta di
stoppa; e in quanto alla gloria, se gli uomini, da poi che sono
fatti filosofi, la disprezzano, si può congetturare che stima ne
facciano gli Dei, tanto più sapienti degli uomini, anzi soli
sapienti secondo Pitagora e Platone. Per tanto, con esempio unico
e fino allora inaudito in simili casi di ricompense proposte ai
più meritevoli, fu aggiudicato questo premio, senza intervento
di sollecitazioni né di favori né di promesse occulte né di
artifizi: e tre furono gli anteposti: cioè Bacco per l'invenzione
del vino; Minerva per quella dell'olio, necessario alle unzioni
delle quali gli Dei fanno quotidianamente uso dopo il bagno; e
Vulcano per aver trovato una pentola di rame, detta economica,
che serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente.
Così, dovendosi fare il premio in tre parti, restava a ciascuno
un ramuscello di lauro: ma tutti e tre ricusarono così la parte
come il tutto; perché Vulcano allegò che stando il più del
tempo al fuoco della fucina con gran fatica e sudore, gli sarebbe
importunissimo quell'ingombro alla fronte; oltre che lo porrebbe
in pericolo di essere abbrustolato o riarso, se per avventura
qualche scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vi
mettesse il fuoco. Minerva disse che avendo a sostenere in sul
capo un elmo bastante, come scrive Omero, a coprirsene tutti
insieme gli eserciti di cento città, non le conveniva aumentarsi
questo peso in alcun modo. Bacco non volle mutare la sua mitra, e
la sua corona di pampini, con quella di lauro: benché l'avrebbe
accettata volentieri se gli fosse stato lecito di metterla per
insegna fuori della sua taverna; ma le Muse non consentirono di
dargliela per questo effetto: di modo che ella si rimase nel loro
comune erario.
Niuno dei competitori di questo premio
ebbe invidia ai tre Dei che l'avevano conseguito e rifiutato, né
si dolse dei giudici, né biasimò la sentenza; salvo solamente
uno, che fu Prometeo, venuto a parte del concorso con mandarvi il
modello di terra che aveva fatto e adoperato a formare i primi
uomini, aggiuntavi una scrittura che dichiarava le qualità e gli
uffici del genere umano, stato trovato da esso. Muove non poca
maraviglia il rincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale,
che da tutti gli altri, sì vinti come vincitori, era preso in
giuoco: perciò investigandone la cagione, si è conosciuto che
quegli desiderava efficacemente, non già l'onore, ma bene il
privilegio che gli sarebbe pervenuto colla vittoria. Alcuni
pensano che intendesse di prevalersi del lauro per difesa del
capo contro alle tempeste; secondo si narra di Tiberio, che
sempre che udiva tonare, si ponea la corona; stimandosi che l'alloro
non sia percosso dai fulmini . Ma nella città d'Ipernéfelo non
cade fulmine e non tuona. Altri più probabilmente affermano che
Prometeo, per difetto degli anni, comincia a gittare i capelli;
la quale sventura sopportando, come accade a molti, di malissima
voglia, e non avendo letto le lodi della calvizie scritte da
Sinesio, o non essendone persuaso, che e più credibile, voleva
sotto il diadema nascondere, come Cesare dittatore, la nudità
del capo.
Ma per tornare al fatto, un giorno tra
gli altri ragionando Prometeo con Momo, si querelava aspramente
che il vino, l'olio e le pentole fossero stati anteposti al
genere umano, il quale diceva essere la migliore opera degl'immortali
che apparisse nel mondo. E parendogli non persuaderlo
bastantemente a Momo, il quale adduceva non so che ragioni in
contrario, gli propose di scendere tutti e due congiuntamente
verso la terra, e posarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna
delle cinque parti di quella scoprissero abitato dagli uomini;
fatta prima reciprocamente questa scommessa: se in tutti cinque i
luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no manifesti argomenti
che l'uomo sia la più perfetta creatura dell'universo Il che
accettato da Momo, e convenuti del prezzo della scommessa,
incominciarono senza indugio a scendere verso la terra;
indirizzandosi primieramente al nuovo mondo; come quello che pel
nome stesso, e per non avervi posto piede insino allora niuno
degl'immortali, stimolava maggiormente la curiosità. Fermarono
il volo nel paese di Popaian, dal lato settentrionale, poco lungi
dal fiume Cauca, in un luogo dove apparivano molti segni di
abitazione umana: vestigi di cultura per la campagna; parecchi
sentieri, ancorché tronchi in molti luoghi, e nella maggior
parte ingombri; alberi tagliati e distesi; e particolarmente
alcune che parevano sepolture, e qualche ossa d'uomini di tratto
in tratto. Ma non perciò poterono i due celesti, porgendo gli
orecchi, e distendendo la vista per ogn'intorno, udire una voce
né scoprire un'ombra d'uomo vivo. Andarono, parte camminando
parte volando, per ispazio di molte miglia; passando monti e
fiumi; e trovando da per tutto i medesimi segni e la medesima
solitudine. Come sono ora deserti questi paesi, diceva Momo a
Prometeo, che mostrano pure evidentemente di essere stati abitati?
Prometeo ricordava le inondazioni del mare, i tremuoti, i
temporali, le piogge strabocchevoli, che sapeva essere ordinarie
nelle regioni calde: e veramente in quel medesimo tempo udivano,
da tutte le boscaglie vicine, i rami degli alberi che, agitati
dall'aria, stillavano continuamente acqua. Se non che Momo non
sapeva comprendere come potesse quella parte essere sottoposta
alle inondazioni del mare, così lontano di là, che non appariva
da alcun lato; e meno intendeva per qual destino i tremuoti, i
temporali e le piogge avessero avuto a disfare tutti gli uomini
del paese, perdonando agli sciaguari, alle scimmie, a'
formichieri, a' cerigoni, alle aquile, a' pappagalli, e a cento
altre qualità di animali terrestri e volatili, che andavano per
quei dintorni. In fine, scendendo a una valle immensa, scoprirono,
come a dire, un piccolo mucchio di case o capanne di legno,
coperte di foglie di palma, e circondata ognuna da un chiuso a
maniera di steccato: dinanzi a una delle quali stavano molte
persone, parte in piedi, parte sedute, dintorno a un vaso di
terra posto a un gran fuoco. Si accostarono i due celesti, presa
forma umana; e Prometeo, salutati tutti cortesemente, volgendosi
a uno che accennava di essere il principale, interrogollo: che si
fa?
Selvaggio: Si mangia, come vedi.
Prometeo: Che buone vivande avete?
Selvaggio: Questo poco di carne.
Prometeo: Carne domestica o salvatica?
Selvaggio: Domestica, anzi del mio figliuolo.
Prometeo: Hai tu per figliuolo un vitello, come
ebbe Pasifae?
Selvaggio: Non un vitello ma un uomo, come ebbero
tutti gli altri.
Prometeo: Dici tu da senno? mangi tu la tua carne
propria?
Selvaggio: La mia propria no, ma ben quella di
costui che per questo solo uso io l'ho messo al mondo, e preso
cura di nutrirlo.
Prometeo: Per uso di mangiartelo?
Selvaggio: Che maraviglia? E la madre ancora, che
già non debbe esser buona da fare altri figliuoli, penso di
mangiarla presto.
Momo: Come si mangia la gallina dopo mangiate le
uova.
Selvaggio: E l'altre donne che io tengo, come sieno
fatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questi miei
schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se non fosse per
avere di quando in quando de' loro figliuoli, e mangiarli? Ma
invecchiati che saranno, io me li mangerò anche loro a uno a uno,
se io campo .
Prometeo: Dimmi: cotesti schiavi sono della tua
nazione medesima, o di qualche altra?
Selvaggio: D'un'altra.
Prometeo: Molto lontana di qua?
Selvaggio: Lontanissima: tanto che tra le loro case
e le nostre, ci correva un rigagnolo. E additando un collicello,
soggiunse: ecco là il sito dov'ella era; ma i nostri l'hanno
distrutta . In questo parve a Prometeo che non so quanti di
coloro lo stessero mirando con una cotal guardatura amorevole,
come è quella che fa il gatto al topo: sicché, per non essere
mangiato dalle sue proprie fatture, si levò subito a volo; e
seco similmente Momo: e fil tanto il timore che ebbero l'uno e l'altro,
che nel partirsi, corruppero i cibi dei barbari con quella sorta
d'immondizia che le arpie sgorgarono per invidia sulle mense
troiane. Ma coloro, più famelici e meno schivi de' compagni di
Enea, seguitarono il loro pasto; e Prometeo, malissimo
soddisfatto del mondo nuovo, si volse incontanente al più
vecchio, voglio dire all'Asia: e trascorso quasi in un subito l'intervallo
che è tra le nuove e le antiche Indie, scesero ambedue presso ad
Agra in un campo pieno d'infinito popolo, adunato intorno a una
fossa colma di legne: sull'orlo della quale, da un lato, si
vedevano alcuni con torchi accesi, in procinto di porle il fuoco;
e da altro lato, sopra un palco, una donna giovane, coperta di
vesti suntuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici,
la quale danzando e vociferando, faceva segno di grandissima
allegrezza. Prometeo vedendo questo, immaginava seco stesso una
nuova Lucrezia o nuova Virginia, o qualche emulatrice delle
figliuole di Eretteo, delle Ifigenie, de' Codri, de' Menecei, dei
Curzi e dei Deci, che seguitando la fede di qualche oracolo, s'immolasse
volontariamente per la sua patria. Intendendo poi che la cagione
del sacrificio della donna era la morte del marito, pensò che
quella, poco dissimile da Alceste, volesse col prezzo di se
medesima, ricomperare lo spirito di colui. Ma saputo che ella non
s'induceva ad abbruciarsi se non perché questo si usava di fare
dalle donne vedove della sua setta, e che aveva sempre portato
odio al marito, e che era ubbriaca, e che il morto, in cambio di
risuscitare, aveva a essere arso in quel medesimo fuoco; voltato
subito il dosso a quello spettacolo, prese la via dell'Europa;
dove intanto che andavano, ebbe col suo compagno questo colloquio.
Momo: Avresti tu pensato quando rubavi con tuo
grandissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarlo agli
uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi l'un l'altro
nelle pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?
Prometeo: No per certo. Ma considera, caro Momo,
che quelli che fino a ora abbiamo veduto, sono barbari: e dai
barbari non si dee far giudizio della natura degli uomini; ma
bene dagl'inciviliti: ai quali andiamo al presente: e ho ferma
opinione che tra loro vedremo e udremo cose e parole che ti
parranno degne, non solamente di lode, ma di stupore.
Momo: Io per me non veggo, se gli uomini sono il
più perfetto genere dell'universo, come faccia di bisogno che
sieno inciviliti perché non si abbrucino da se stessi, e non
mangino i figliuoli propri: quando che gli altri animali sono
tutti barbari, e ciò non ostante, nessuno si abbrucia a bello
studio, fuorché la fenice, che non si trova; rarissimi si
mangiano alcun loro simile; e molto più rari si cibano dei loro
figliuoli, per qualche accidente insolito, e non per averli
generati a quest'uso. Avverti eziandio, che delle cinque parti
del mondo una sola, né tutta intera, e questa non paragonabile
per grandezza a veruna delle altre quattro, è dotata della
civiltà che tu lodi; aggiunte alcune piccole porzioncelle di un'altra
parte del mondo. E già tu medesimo non vorrai dire che questa
civiltà sia compiuta, in modo che oggidì gli uomini di Parigi o
di Filadelfia abbiano generalmente tutta la perfezione che può
convenire alla loro specie. Ora, per condursi al presente stato
di civiltà non ancora perfetta, quanto tempo hanno dovuto penare
questi tali popoli? Tanti anni quanti si possono numerare dall'origine
dell'uomo insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le invenzioni
che erano o di maggiore necessità o di maggior profitto al
conseguimento dello stato civile, hanno avuto origine, non da
ragione, ma da casi fortuiti: di modo che la civiltà umana è
opera della sorte più che della natura: e dove questi tali casi
non sono occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con
tutto che abbiano altrettanta età quanta i popoli civili. Dico
io dunque: se l'uomo barbaro mostra di essere inferiore per molti
capi a qualunque altro animale; se la civiltà, che è l'opposto
della barbarie, non è posseduta né anche oggi se non da una
piccola parte del genere umano; se oltre di ciò, questa parte
non è potuta altrimenti pervenire al presente stato civile, se
non dopo una quantità innumerabile di secoli, e per beneficio
massimamente del caso, piuttosto che di alcun'altra cagione; all'ultimo,
se il detto stato civile non è per anche perfetto; considera un
poco se forse la tua sentenza circa il genere umano fosse più
vera acconciandola in questa forma: cioè dicendo che esso è
veramente sommo tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell'imperfezione,
piuttosto che nella perfezione; quantunque gli uomini nel parlare
e nel giudicare, scambino continuamente l'una coll'altra;
argomentando da certi cotali presupposti che si hanno fatto essi,
e tengonli per verità palpabili. Certo che gli altri generi di
creature fino nel principio furono perfettissimi ciascheduno in
se stesso. E quando eziandio non fosse chiaro che l'uomo barbaro,
considerato in rispetto agli altri animali, è meno buono di
tutti; io non mi persuado che l'essere naturalmente
imperfettissimo nel proprio genere, come pare che sia l'uomo, s'abbia
a tenere in conto di perfezione maggiore di tutte l'altre.
Aggiungi che la civiltà umana, così difficile da ottenere, e
forse impossibile da ridurre a compimento, non è anco stabile in
modo, che ella non possa cadere: come in effetto si trova essere
avvenuto più volte, e in diversi popoli, che ne avevano
acquistato una buona parte. In somma io conchiudo che se tuo
fratello Epimeteo recava ai giudici il modello che debbe avere
adoperato quando formò il primo asino o la prima rana, forse ne
riportava il premio che tu non hai conseguito. Pure a ogni modo
io ti concederò volentieri che l'uomo sia perfettissimo, se tu
ti risolvi a dire che la sua perfezione si rassomigli a quella
che si attribuiva da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino,
è ottimo e perfetto assolutamente; ma perché il mondo sia
perfetto, conviene che egli abbia in sé, tra le altre cose, anco
tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui tanto male,
quanto vi può capire. E in questo rispetto forse io concederei
similmente al Leibnizio che il mondo presente fosse il migliore
di tutti i mondi possibili. Non si dubita che Prometeo non avesse
a ordine una risposta in forma distinta, precisa e dialettica a
tutte queste ragioni; ma è parimente certo che non la diede:
perché in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città
di Londra: dove scesi, e veduto gran moltitudine di gente
concorrere alla porta di una casa privata, messisi tra la folla,
entrarono nella casa; e trovarono sopra un letto un uomo disteso
supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e
morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente
morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni
giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale
scriveva.
Prometeo: Chi sono questi sciagurati?
Un famiglio: Il mio padrone e i figliuoli.
Prometeo: Chi gli ha uccisi?
Famiglio: Il padrone tutti e tre.
Prometeo: Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso?
Famiglio. Appunto.
Prometeo: Oh che è mai cotesto! Qualche
grandissima sventura gli doveva essere accaduta.
Famiglio: Nessuna, che io sappia.
Prometeo: Ma forse era povero, o disprezzato da
tutti, o sfortunato in amore, o in corte?
Famiglio: Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo
stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva molto
favore.
Prometeo: Dunque come e caduto in questa
disperazione?
Famiglio: Per tedio della vita, secondo che ha
lasciato scritto.
Prometeo: E questi giudici che fanno?
Famiglio: S'informano se il padrone era impazzito o
no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba ricade al
pubblico per legge: e in verità non si potrà fare che non
ricada.
Prometeo: Ma, dimmi, non aveva nessun amico o
parente, a cui potesse raccomandare questi fanciullini, in cambio
d'ammazzarli?
Famiglio: Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli
era molto intrinseco, al quale ha raccomandato il suo cane. Momo
stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della
civiltà, e sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla
nostra vita; e voleva anche rammemorargli che nessun altro
animale fuori dell'uomo, si uccide volontariamente esso medesimo,
né spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo
lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che
rimanevano, gli pagò la scommessa.
DIALOGO DI UN FISICO E DI UN METAFISICO
Fisico:
Eureca, eureca .
Metafisico: Che è? che hai trovato?
Fisico: L'arte di vivere lungamente .
Metafisico: E cotesto libro che porti?
Fisico: Qui la dichiaro: e per questa invenzione,
se gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno in
eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.
Metafisico: Fa una cosa a mio modo. Trova una
cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima
di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si
possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l'arte di
vivere felicemente.
Fisico: E in questo mezzo?
Metafisico: In questo mezzo non sarà buono da
nulla. Più lo stimerei se contenesse l'arte di viver poco.
Fisico: Cotesta è già saputa da un pezzo; e non
fu difficile a trovarla.
Metafisico: In ogni modo la stimo più della tua.
Fisico: Perché?
Metafisico: Perché se la vita non è felice, che
fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga.
Fisico: Oh cotesto no: perché la vita è bene da
se medesima, e ciascuno la desidera e l'ama naturalmente.
Metafisico: Così credono gli uomini; ma s'ingannano:
come il volgo s'inganna pensando che i colori sieno qualità
degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce. Dico
che l'uomo non desidera e non ama se non la felicità propria.
Però non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento o
subbietto di essa felicità. In modo che propriamente viene ad
amare questa e non quella, ancorché spessissimo attribuisca all'una
l'amore che porta all'altra. Vero è che questo inganno e quello
dei colori sono tutti e due naturali. Ma che l'amore della vita
negli uomini non sia naturale, o vogliamo dire non sia necessario,
vedi che moltissimi ai tempi antichi elessero di morire potendo
vivere, e moltissimi ai tempi nostri desiderano la morte in
diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. Cose che non
potrebbero essere se l'amore della vita per se medesimo fosse
natura dell'uomo. Come essendo natura di ogni vivente l'amore
della propria felicità, prima cadrebbe il mondo, che alcuno di
loro lasciasse di amarla e di procurarla a suo modo. Che poi la
vita sia bene per se medesima, aspetto che tu me lo provi, con
ragioni o fisiche o metafisiche o di qualunque disciplina. Per me,
dico che la vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice,
non come vita. La vita infelice, in quanto all'essere infelice,
è male; e atteso che la natura, almeno quella degli uomini,
porta che vita e infelicità non si possono scompagnare, discorri
tu medesimo quello che ne segua.
Fisico: Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è
troppo malinconica; e senza tante sottigliezze, rispondimi
sinceramente: se l'uomo vivesse e potesse vivere in eterno; dico
senza morire, e non dopo morto; credi tu che non gli piacesse?
Metafisico: A un presupposto favoloso risponderò
con qualche favola: tanto più che non sono mai vissuto in eterno,
sicché non posso rispondere per esperienza; né anche ho parlato
con alcuno che fosse immortale; e fuori che nelle favole, non
trovo notizia di persone di tal sorta. Se fosse qui presente il
Cagliostro, forse ci potrebbe dare un poco di lume; essendo
vissuto parecchi secoli: se bene, perché poi morì come gli
altri, non pare che fosse immortale. Dirò dunque che il saggio
Chirone, che era dio, coll'andar del tempo si annoiò della vita,
pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì . Or pensa, se
l'immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini. Gl'Iperborei,
popolo incognito, ma famoso; ai quali non si può penetrare, né
per terra né per acqua; ricchi di ogni bene; e specialmente di
bellissimi asini, dei quali sogliono fare ecatombe; potendo, se
io non m'inganno, essere immortali; perché non hanno infermità
né fatiche né guerre né discordie né carestie né vizi né
colpe; contuttociò muoiono tutti: perché, in capo a mille anni
di vita o circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una
certa rupe in mare, e vi si annegano . Aggiungi quest'altra
favola. Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non
erano in pronto le mule, essendo sottentrati al carro della madre,
sacerdotessa di Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò
la dea che rimunerasse la pietà de' figliuoli col maggior bene
che possa cadere negli uomini. Giunone, in vece di farli
immortali, come avrebbe potuto; e allora si costumava; fece che l'uno
e l'altro pian piano se ne morirono in quella medesima ora. Il
simile toccò ad Agamede e a Trofonio. Finito il tempio di Delfo,
fecero instanza ad Apollo che li pagasse: il quale rispose
volerli soddisfare fra sette giorni; in questo mezzo attendessero
a far gozzoviglia a loro spese. La settima notte, mandò loro un
dolce sonno, dal quale ancora s'hanno a svegliare; e avuta questa,
non dimandarono altra paga. Ma poiché siamo in sulle favole,
eccotene un'altra, intorno alla quale ti vo' proporre una
questione. Io so che oggi i vostri pari tengono per sentenza
certa, che la vita umana, in qualunque paese abitato, e sotto
qualunque cielo, dura naturalmente, eccetto piccole differenze,
una medesima quantità di tempo, considerando ciascun popolo in
grosso. Ma qualche buono antico racconta che gli uomini di alcune
parti dell'India e dell'Etiopia non campano oltre a quarant'anni;
chi muore in questa età, muor vecchissimo; e le fanciulle di
sette anni sono di età da marito. Il quale ultimo capo sappiamo
che, appresso a poco, si verifica nella Guinea, nel Decan e in
altri luoghi sottoposti alla zona torrida. Dunque, presupponendo
per vero che si trovi una o più nazioni, gli uomini delle quali
regolarmente non passino i quarant'anni di vita; e ciò sia per
natura, non, come si è creduto degli Ottentotti, per altre
cagioni; domando se in rispetto a questo, ti pare che i detti
popoli debbano essere più miseri o più felici degli altri?
Fisico: Più miseri senza fallo, venendo a morte
più presto.
Metafisico: Io credo il contrario anche per cotesta
ragione. Ma qui non consiste il punto. Fa un poco di avvertenza.
Io negava che la pura vita, cioè a dire il semplice sentimento
dell'esser proprio, fosse cosa amabile e desiderabile per natura.
Ma quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita,
voglio dire l'efficacia e la copia delle sensazioni, è
naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini: perché
qualunque azione o passione viva e forte, purché non ci sia
rincrescevole o dolorosa, col solo essere viva e forte, ci riesce
grata, eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole. Ora
in quella specie d'uomini, la vita dei quali si consumasse
naturalmente in ispazio di quarant'anni, cioè nella metà del
tempo destinato dalla natura agli altri uomini; essa vita in
ciascheduna sua parte, sarebbe più viva il doppio di questa
nostra: perché, dovendo coloro crescere, e giungere a perfezione,
e similmente appassire e mancare, nella metà del tempo; le
operazioni vitali della loro natura, proporzionatamente a questa
celerità, sarebbero in ciascuno istante doppie di forza per
rispetto a quello che accade negli altri; ed anche le azioni
volontarie di questi tali, la mobilità e la vivacità estrinseca,
corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di modo che essi
avrebbero in minore spazio di tempo la stessa quantità di vita
che abbiamo noi. La quale distribuendosi in minor numero d'anni
basterebbe a riempierli, o vi lascerebbe piccoli vani; laddove
ella non basta a uno spazio doppio: e gli atti e le sensazioni di
coloro, essendo più forti, e raccolte in un giro più stretto,
sarebbero quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la loro
età; dove che nella nostra, molto più lunga, restano
spessissimi e grandi intervalli, vòti di ogni azione e affezione
viva. E poiché non il semplice essere, ma il solo essere felice,
è desiderabile; e la buona o cattiva sorte di chicchessia non si
misura dal numero dei giorni; io conchiudo che la vita di quelle
nazioni, che quanto più breve, tanto sarebbe men povera di
piacere, o di quello che è chiamato con questo nome, si vorrebbe
anteporre alla vita nostra, ed anche a quella dei primi re dell'Assiria,
dell'Egitto, della Cina, dell'India, e d'altri paesi; che vissero,
per tornare alle favole, migliaia d'anni. Perciò, non solo io
non mi curo dell'immortalità, e sono contento di lasciarla a'
pesci; ai quali la dona il Leeuwenhoek, purché non sieno
mangiati dagli uomini o dalle balene; ma, in cambio di ritardare
o interrompere la vegetazione del nostro corpo per allungare la
vita, come propone il Maupertuis , io vorrei che la potessimo
accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse alla misura
di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei quali si dice
che i più vecchi non passano l'età di un giorno, e contuttociò
muoiono bisavoli e trisavoli. Nel qual caso, io stimo che non ci
rimarrebbe luogo alla noia. Che pensi di questo ragionamento?
Fisico: Penso che non mi persuade; e che se tu ami
la metafisica, io m'attengo alla fisica: voglio dire che se tu
guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne contento.
Però senza metter mano al microscopio, giudico che la vita sia
più bella della morte, e do il pomo a quella, guardandole tutte
due vestite.
Metafisico: Così giudico anch'io. Ma quando mi
torna a mente il costume di quei barbari, che per ciascun giorno
infelice della loro vita, gittavano in un turcasso una pietruzza
nera, e per ogni dì felice, una bianca ; penso quanto poco
numero delle bianche è verisimile che fosse trovato in quelle
faretre alla morte di ciascheduno, e quanto gran moltitudine
delle nere. E desidero vedermi davanti tutte le pietruzze dei
giorni che mi rimangono; e, sceverandole, aver facoltà di gittar
via tutte le nere, e detrarle dalla mia vita; riserbandomi solo
le bianche: quantunque io sappia bene che non farebbero gran
cumulo, e sarebbero di un bianco torbido.
Fisico. Molti, per lo contrario, quando anche tutti
i sassolini fossero neri, e più neri del paragone; vorrebbero
potervene aggiungere, benché dello stesso colore: perché
tengono per fermo che niun sassolino sia così nero come l'ultimo.
E questi tali, del cui numero sono anch'io, potranno aggiungere
in effetto molti sassolini alla loro vita, usando l'arte che si
mostra in questo mio libro.
Metafisico: Ciascuno pensi ed operi a suo talento: e anche
la morte non mancherà di fare a suo modo. Ma se tu vuoi,
prolungando la vita, giovare agli uomini veramente; trova un'arte
per la quale sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le
sensazioni e le azioni loro. Nel qual modo, accrescerai
propriamente la vita umana, ed empiendo quegli smisurati
intervalli di tempo nei quali il nostro essere è piuttosto
durare che vivere, ti potrai dar vanto di prolungarla. E ciò
senza andare in cerca dell'impossibile, o usar violenza alla
natura, anzi secondandola. Non pare a te che gli antichi
vivessero più di noi, dato ancora che, per li pericoli gravi e
continui che solevano correre, morissero comunemente più presto?
E farai grandissimo beneficio agli uomini: la cui vita fu sempre,
non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente
agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio.
Ma piena d'ozio e di tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a
creder vera quella sentenza di Pirrone, che dalla vita alla morte
non e divario. Il che se io credessi, ti giuro che la morte mi
spaventerebbe non poco. Ma in fine, la vita debb'esser viva,
cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio.
DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO GENIO FAMILIARE
Genio:
Come stai, Torquato?
Tasso: Ben sai come si può stare in una prigione, e
dentro ai guai fino al collo.
Genio: Via, ma dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa
buon animo, e ridiamone insieme.
Tasso: Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue
parole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.
Genio: Che io segga? La non è già cosa facile a uno
spirito. Ma ecco: fa conto ch'io sto seduto.
Tasso: Oh potess'io rivedere la mia Leonora. Ogni volta
che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che
dalla cima del capo mi si stende fino all'ultima punta de' piedi;
e non resta in me nervo né vena che non sia scossa. Talora,
pensando a lei, mi si ravvivano nell'animo certe immagini e certi
affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere ancora
quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto esperienza
delle sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte
per morto. In vero, io direi che l'uso del mondo, e l'esercizio
de' patimenti, sogliono come profondare e sopire dentro a
ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto
in tratto si desta per poco spazio, ma tanto più di rado quanto
è il progresso degli anni; sempre più poi si ritira verso il
nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché
durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi
maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza, da
rinnovarmi, per così dire, l'anima, e farmi dimenticare tante
calamità. E se non fosse che io non ho più speranza di
rivederla, crederei non avere ancora perduta la facoltà di
essere felice.
Genio: Quale delle due cose stimi che sia più dolce:
vedere la donna amata, o pensarne?
Tasso: Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi
pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.
Genio: Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno
vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si
spiccano i raggi d'attorno, e se li pongono in tasca, per non
abbagliare il mortale che si fa innanzi.
Tasso: Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli
cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci
riescano così diverse da quelle che noi le immaginavamo?
Genio: Io non so vedere che colpa s'abbiano in questo, d'esser
fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare.
Qual cosa del mondo ha pure un'ombra o una millesima parte della
perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E
anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini
sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non
sappiate poi comprendere come accada, che le donne in fatti non
sieno angeli.
Tasso: Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di
rivederla, e di riparlarle.
Genio: Via, questa notte in sogno io te la condurrò
davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo, che tu
prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che non
ti venne fatto mai per l'addietro: anzi all'ultimo le stringerai
la mano; ed ella guardandoti fiso, ti metterà nell'animo una
dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani,
qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare
il cuore dalla tenerezza.
Tasso: Gran conforto: un sogno in cambio del vero.
Genio: Che cosa è il vero?
Tasso: Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.
Genio: Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al
sognato, non corre altra differenza, se non che questo può
qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello
non può mai.
Tasso: Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un
diletto vero?
Genio: Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la
donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno
gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi
con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere
al paragone dell'immagine che il sonno gliene ha lasciata
impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso,
priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però non
sono da condannare gli antichi, molto più solleciti, accorti e
industriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibile
alla natura umana, se ebbero per costume di procurare in vari
modi la dolcezza e la giocondità dei sogni; né Pitagora è da
riprendere per avere interdetto il mangiare delle fave, creduto
contrario alla tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a
intorbidarli ; e sono da scusare i superstiziosi che avanti di
coricarsi solevano orare e far libazioni a Mercurio conduttore
dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti; l'immagine del
quale tenevano a quest'effetto intagliata in su' piedi delle
lettiere . Così, non trovando mai la felicità nel tempo della
vigilia, si studiavano di essere felici dormendo: e credo che in
parte, e in qualche modo, l'ottenessero; e che da Mercurio
fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.
Tasso: Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al
solo piacere, o del corpo o dell'animo; se da altra parte il
piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà ci
determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io
non mi posso ridurre.
Genio: Già vi sei ridotto e determinato, poiché tu vivi
e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere?
Tasso: Non ne ho tanta pratica da poterlo conoscere che
cosa sia.
Genio: Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per
ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e
non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo
concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un
concetto, e non un sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo
stesso di qualunque vostro diletto, ancorché desiderato
infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili;
non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei
momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più vero,
nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi
riportandovi di continuo agl'istanti futuri di quel medesimo
diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giunger dell'istante
che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza
cieca di goder meglio e più veramente in altra occasione, e il
conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con
raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per
aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però
chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto
né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a
godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.
Tasso: Non possono gli uomini credere mai di godere
presentemente?
Genio: Sempre che credessero cotesto, godrebbero in fatti.
Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti ricordi aver
detto con piena sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto giorno
dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con
sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o
passato o futuro, e non mai presente.
Tasso: Che e quanto dire e sempre nulla.
Genio: Così pare.
Tasso: Anche nei sogni.
Genio: Propriamente parlando.
Tasso: E tuttavia l'obbietto e l'intento della vita nostra,
non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo
per piacere la felicità; che debbe in effetto esser piacere; da
qualunque cosa ella abbia a procedere.
Genio: Certissimo.
Tasso: Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine,
è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è di sua propria
natura uno stato violento.
Genio: Forse.
Tasso: Io non ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo
noi? voglio dire, perché consentiamo di vivere?
Genio: Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che
siete uomini.
Tasso: Io per me ti giuro che non lo so.
Genio: Domandane altri de' più savi, e forse troverai
qualcuno che ti risolva cotesto dubbio.
Tasso: Così farò. Ma certo questa vita che io meno, è
tutta uno stato violento: perché lasciando anche da parte i
dolori, la noia sola mi uccide.
Genio: Che cosa è la noia?
Tasso: Qui l'esperienza non mi manca, da soddisfare alla
tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell'aria: la
quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose
materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde
un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede
immediatamente. Così tutti gl'intervalli della vita umana
frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E
però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si
dà vòto alcuno; così nella vita nostra non si dà vòto; se
non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l'uso del
pensiero. Per tutto il resto del tempo, l'animo considerato anche
in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere
qualche passione; come quello a cui l'essere vacuo da ogni
piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco
è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.
Genio: E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia
simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente; perciò
come l'aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni
parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba
intendere altro che il desiderio puro della felicità; non
soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere.
Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai
soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la
vita umana, per modo di dire, e composta e intessuta, parte di
dolore, parte di noia; dall'una delle quali passioni non ha
riposo se non cadendo nell'altra. E questo non è tuo destino
particolare, ma comune di tutti gli uomini.
Tasso: Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?
Genio: Il sonno, l'oppio, e il dolore. E questo è il più
potente di tutti: perché l'uomo mentre patisce, non si annoia
per niuna maniera.
Tasso: In cambio di cotesta medicina, io mi contento di
annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietà delle azioni, delle
occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia,
perché non ci reca diletto vero, contuttociò la solleva ed
alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal commercio
umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per
passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare i correnti, le
fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del
pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno
attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io
non ho cosa che mi scemi in alcun parte il carico della noia.
Genio: Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta
forma di vita?
Tasso: Più settimane, come tu sai.
Genio: Non conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna
diversità nel fastidio che ella ti reca?
Tasso: Certo che io lo provava maggiore a principio:
perché di mano in mano la mente, non occupata da altro e non
isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco medesima
assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un
abito e una virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare,
tale, che parecchie volte mi pare quasi avere una compagnia di
persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo soggetto che
mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una
gran diceria.
Genio: Cotesto abito te lo vedrai confermare e accrescere
di giorno in giorno per modo, che quando poi ti si renda la
facoltà di usare cogli altri uomini, ti parrà essere più
disoccupato stando in compagnia loro, che in solitudine. E quest'assuefazione
in sì fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo a'
tuoi simili, già consueti a meditare; ma ella interviene in più
o men tempo a chicchessia. Di più, l'essere diviso dagli uomini
e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa utilità;
che l'uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose
umane per l'esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a
mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne
che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna a
formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e
desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o il
potere o il confidare di restituirsi alla società degli uomini,
si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a' suoi primi anni.
Di modo che la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù; o
certo ringiovanisce l'animo, ravvalora e rimette in opera l'immaginazione,
e rinnuova nell'uomo esperimentato i beneficii di quella prima
inesperienza che tu sospiri. Io ti lascio; che veggo che il sonno
ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che
ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare, andrai
consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che
questo e l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e l'unico
intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo
svegliarvi. Spessissimo ve la conviene strascinare co' tarla in
sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a correre
in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di chi
ti opprime. Addio.
Tasso: Addio. Ma senti. La tua conversazione mi riconforta
pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma questa
per la più parte del tempo è come una notte oscurissima, senza
luna né stelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei
crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io
ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei
solito di abitare.
Genio: Ancora non l'hai conosciuto? In qualche liquore
generoso.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE
Un
Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e
soggiornato in diversissime terre; andando una volta per l'interiore
dell'Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un luogo
non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a
quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di
Buona speranza; quando il medesimo Capo, guardiano dei mari
australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per
distorlo dal tentare quelle nuove acque . Vide da lontano un
busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di
pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti
anni prima, nell'isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino,
trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col
busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e
non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi
e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata
così un buono spazio senza parlare, all'ultimo gli disse.
Natura: Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua
specie era incognita?
Islandese: Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la
Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento
parti della terra, la fuggo adesso per questa.
Natura: Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio,
finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella che tu
fuggi.
Islandese: La Natura?
Natura: Non altri.
Islandese: Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per
fermo che maggior disavventura di questa non mi potesse
sopraggiungere.
Natura: Ben potevi pensare che io frequentassi
specialmente queste parti; dove non ignori che si dimostra più
che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a fuggirmi?
Islandese: Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù,
a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della
vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo
continuamente gli uni cogli altri per l'acquisto di piaceri che
non dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e
cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti
mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si
allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste
considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non
dando molestia a chicchessia, non procurando in modo alcuno di
avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene
del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei
piaceri, come di cosa negata alla nostra specie, non mi proposi
altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non
intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e
dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla
fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già
nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi per prova
come egli e vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere,
non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e
cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in ogni
cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che
questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli
uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e
riducendomi in solitudine: cosa che nell'isola mia nativa si può
recare ad effetto senza difficoltà. Fatto questo, e vivendo
senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva mantenermi
però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l'intensità
del freddo, e l'ardore estremo della state, che sono qualità di
quel luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al
quale mi conveniva passare una gran parte del tempo, m'inaridiva
le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in
casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo
disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della
vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri:
perché le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e
le minacce del monte Ecla, il sospetto degl'incendi,
frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno,
non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in
una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque
altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d'esser
quieta; riescono di non poco momento, e molto più gravi che elle
non sogliono apparire quando la maggior parte dell'animo nostro
è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità
che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi
ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a fine d'impedire
che l'esser mio non desse noia né danno a cosa alcuna del mondo;
meno mi veniva fatto che le altre cose non m'inquietassero e
tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in
alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso,
e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso
anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi
destinato al genere umano se non solo un clima della terra (come
tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di
quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli
uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e
miseria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essi
medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i
termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni
umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di
quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non
dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi,
e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato
arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli,
afflitto nei climi temperati dall'incostanza dell'aria, infestato
dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho
veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto
dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata
a quegli abitanti, non rei verso te di nessun'ingiuria. In altri
luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla
frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei
vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e
turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille
dagli altri furori dell'aria. Tal volta io mi ho sentito crollare
il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l'abbondanza
delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di
sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena
dai fiumi, che m'inseguivano, come fossi colpevole verso loro di
qualche ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me
con una menoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpenti
avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che gl'insetti
volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i
pericoli giornalieri, sempre imminenti all'uomo, e infiniti di
numero; tanto che un filosofo antico non trova contro al timore,
altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è
da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io
fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei
piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione
considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e
insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra
vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa
imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l'uso di esso
piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle
forze e alla sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti
in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla
durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi
quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare
di non incorrere in molte e diverse malattie: delle quali alcune
mi hanno posto in pericolo della morte; altre di perdere l'uso di
qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera
che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso
il corpo e l'animo con mille stenti e mille dolori. E certo,
benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità,
mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli
non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera
per l'ordinario); tu non hai dato all'uomo, per compensarnelo,
alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli
sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per
grandezza. Ne' paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato
per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi nella
loro patria. Dal sole e dall'aria, cose vitali, anzi necessarie
alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo
ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza,
e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa
luce: tanto che l'uomo non può mai senza qualche maggiore o
minore incomodità o danno, starsene esposto all'una o all'altro
di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo
della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare
quelli che ho consumati senza pure un'ombra di godimento: mi
avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto
il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia
modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a
conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli
altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci
minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri,
e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per
instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi
figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere.
Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli
uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta
con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per
niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi. E
già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza;
vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie
gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te
per legge a tutti i generi de' viventi, preveduto da ciascuno di
noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal
quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere
senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli
uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e
perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che
ne seguono.
Natura: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per
causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle
operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione
a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità.
Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo,
io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente,
se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto,
come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni,
per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di
estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
Islandese: Ponghiamo caso che uno m'invitasse
spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per
compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una
cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo
di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia.
Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun
passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena
mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di
ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere
da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco
di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io
questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e
questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare
che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo
replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa
villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici.
Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si
appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere,
ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico
ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli
uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato
espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato
di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso
violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e
senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né
ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non
è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in
questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e
straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di
me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e
di ogni creatura.
Natura: Tu mostri non aver posto mente che la vita di
quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e
distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che
ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro,
verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo
danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
Islandese: Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i
filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che
distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente;
dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi
giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con
danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? Mentre
stavano in questi e simili ragionamenti è fama che
sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia,
che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero;
e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno.
Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un
fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo
stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di
sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto
una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e
collocato nel museo di non so quale città di Europa.
CAPITOLO PRIMO
Giuseppe Parini fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all'eccellenza nelle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente: cose oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl'infelici e verso la patria, fede verso gli amici, nobiltà d'animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall'oscurità. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll'eloquenza e colla poesia. Tra gli altri, a un giovane d'indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di espettazione maravigliosa, venuto non molto prima nella sua disciplina, prese un giorno a parlare in questa sentenza.
Tu cerchi, o figliuolo, quella gloria che
sola, si può dire, di tutte le altre, consente oggi di essere
colta da uomini di nascimento privato: cioè quella a cui si
viene talora colla sapienza, e cogli studi delle buone dottrine e
delle buone lettere. Già primieramente non ignori che questa
gloria, con tutto che dai nostri sommi antenati non fosse
negletta, fu però tenuta in piccolo conto per comparazione alle
altre: e bene hai veduto in quanti luoghi e con quanta cura
Cicerone, suo caldissimo e felicissimo seguace, si scusi co' suoi
cittadini del tempo e dell'opera che egli poneva in procacciarla;
ora allegando che gli studi delle lettere e della filosofia non
lo rallentavano in modo alcuno alle faccende pubbliche, ora che
sforzato dall'iniquità dei tempi ad astenersi dai negozi
maggiori, attendeva in quegli studi a consumare dignitosamente l'ozio
suo; e sempre anteponendo alla gloria de' suoi scritti quella del
suo consolato, e delle cose fatte da sé in beneficio della
repubblica. E veramente, se il soggetto principale delle lettere
è la vita umana, il primo intento della filosofia l'ordinare le
nostre azioni; non è dubbio che l'operare è tanto più degno e
più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile
il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano
più che le parole e i ragionamenti. Anzi, niun ingegno è creato
dalla natura agli studi; né l'uomo nasce a scrivere, ma solo a
fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, e
massime de' poeti illustri, di questa medesima età; come, a
cagione di esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio
inclinati straordinariamente alle grandi azioni: alle quali
ripugnando i tempi, e forse anche impediti dalla fortuna propria,
si volsero a scrivere cose grandi. Né sono propriamente atti a
scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù di farne. E
puoi facilmente considerare in Italia, dove quasi tutti sono d'animo
alieno dai fatti egregi quanto pochi acquistino fama durevole
colle scritture. Io penso che l'antichità, specialmente romana o
greca, si possa convenevolmente figurare nel modo che fu scolpita
in Argo la statua di Telesilla, poetessa, guerriera e salvatrice
della patria. La quale statua rappresentavala con un elmo in mano,
intenta a mirarlo, con dimostrazione di compiacersene, in atto di
volerlosi recare in capo; e a' piedi, alcuni volumi, quasi
negletti da lei, come piccola parte della sua gloria .
Ma tra noi moderni, esclusi comunemente da ogni altro cammino di celebrità, quelli che si pongono per la via degli studi, mostrano nella elezione quella maggiore grandezza d'animo che oggi si può mostrare, e non hanno necessità di scusarsi colla loro patria. Di maniera che in quanto alla magnanimità, lodo sommamente il tuo proposito. Ma perciocché questa via, come quella che non è secondo la natura degli uomini, non si può seguire senza pregiudizio del corpo, né senza moltiplicare in diversi modi l'infelicità naturale del proprio animo; però innanzi ad ogni altra cosa, stimo sia conveniente e dovuto non meno all'ufficio mio, che all'amor grande che tu meriti e che io ti porto, renderti consapevole sì di varie difficoltà che si frappongono al conseguimento della gloria alla quale aspiri, e sì del frutto che ella è per produrti in caso che tu la conseguisca; secondo che fino a ora ho potuto conoscere coll'esperienza o col discorso: acciocché, misurando teco medesimo, da una parte, quanta sia l'importanza e il pregio del fine, e quanta la speranza dell'ottenerlo; dall'altra, i danni, le fatiche e i disagi che porta seco il cercarlo (dei quali ti ragionerò distintamente in altra occasione); tu possa con piena notizia considerare e risolvere se ti sia più spediente di seguitarlo, o di volgerti ad altra via.
CAPITOLO SECONDO
Potrei qui nel principio distendermi lungamente sopra le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua riputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti opporrà nel cammino che hai cominciato. I quali ostacoli, sempre malagevolissimi a superare, spesso insuperabili, fanno che più di uno scrittore, non solo in vita, ma eziandio dopo la morte, è frodato al tutto dell'onore che se gli dee. Perché, vissuto senza fama per l'odio o l'invidia altrui, morto si rimane nell'oscurità per dimenticanza; potendo difficilmente avvenire che la gloria d'alcuno nasca o risorga in tempo che, fuori delle carte per sé immobili e mute, nessuna cosa ne ha cura. Ma le difficoltà che nascono dalla malizia degli uomini, essendone stato scritto abbondantemente da molti, ai quali potrai ricorrere, intendo di lasciarle da parte. Né anche ho in animo di narrare quegl'impedimenti che hanno origine dalla fortuna propria dello scrittore, ed eziandio dal semplice caso, o da leggerissime cagioni: i quali non di rado fanno che alcuni scritti degni di somma lode, e frutto di sudori infiniti, sono perpetuamente esclusi dalla celebrità, o stati pure in luce per breve tempo, cadono e si dileguano interamente dalla memoria degli uomini; dove che altri scritti o inferiori di pregio, o non superiori a quelli, vengono e si conservano in grande onore. Io ti vo' solamente esporre le difficoltà e gl'impacci che senza intervento di malvagità umana, contrastano gagliardamente il premio della gloria, non all'uno o all'altro fuor dell'usato, ma per l'ordinario, alla maggior parte degli scrittori grandi.
Ben sai che niuno si fa degno di questo
titolo, né si conduce a gloria stabile e vera, se non per opere
eccellenti e perfette, o prossime in qualche modo alla perfezione.
Or dunque hai da por mente a una sentenza verissima di un autore
nostro lombardo; dico dell'autore del Cortegiano : la quale è
che rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per
erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le
fatiche ed industrie degli scrittori, né gustar la dolcezza ed
eccellenza degli stili, e quelle intrinseche avvertenze che
spesso si trovano negli antichi. E qui primieramente pensa,
quanto piccolo numero di persone sieno assuefatte ed ammaestrate
a scrivere; e però da quanto poca parte degli uomini, o presenti
o futuri, tu possa in qualunque caso sperare quell'opinione
magnifica, che ti hai proposto per frutto della tua vita. Oltre
di ciò considera quanta sia nelle scritture la forza dello stile;
dalle cui virtù principalmente, e dalla cui perfezione, dipende
la perpetuità delle opere che cadono in qualunque modo nel
genere delle lettere amene. E spessissimo occorre che se tu
spogli del suo stile una scrittura famosa, di cui ti pensavi che
quasi tutto il pregio stesse nelle sentenze, tu la riduci in
istato che ella ti par cosa di niuna stima. Ora la lingua è
tanta parte dello stile, anzi ha tal congiunzione seco, che
difficilmente si può considerare l'una di queste due cose
disgiunta dall'altra; a ogni poco si confondono insieme ambedue,
non solamente nelle parole degli uomini, ma eziandio nell'intelletto;
e mille loro qualità e mille pregi o mancamenti, appena, e forse
in niun modo, colla più sottile e accurata speculazione, si può
distinguere e assegnare a quale delle due cose appartengano, per
essere quasi comuni e indivise tra l'una e l'altra. Ma certo
niuno straniero è, per tornare alle parole del Castiglione,
assueto a scrivere elegantemente nella tua lingua. Di modo che lo
stile, parte sì grande e sì rilevante dello scrivere, e cosa d'inesplicabile
difficoltà e fatica, tanto ad apprenderne l'intimo e perfetto
artificio, quanto ad esercitarlo, appreso che egli sia; non ha
propriamente altri giudici, né altri convenevoli estimatori, ed
atti a poter lodarlo secondo il merito, se non coloro che in una
sola nazione del mondo hanno uso di scrivere. E verso tutto il
resto del genere umano, quelle immense difficoltà e fatiche
sostenute circa esso stile, riescono in buona e forse massima
parte inutili e sparse al vento. Lascio l'infinita varietà dei
giudizi e delle inclinazioni dei letterati; per la quale il
numero delle persone atte a sentire le qualità lodevoli di
questo o di quel libro, si riduce ancora a molto meno.
Ma
io voglio che tu abbi per indubitato che a conoscere
perfettamente i pregi di un'opera perfetta o vicina alla
perfezione, e capace veramente dell'immortalità, non basta
essere assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così
perfettamente come lo scrittore medesimo che hassi a giudicare.
Perciocché l'esperienza ti mostrerà che a proporzione che tu
verrai conoscendo più intrinsecamente quelle virtù nelle quali
consiste il perfetto scrivere, e le difficoltà infinite che si
provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le
une e di conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e
niuna differenza sarà dal conoscerle, all'imparare e possedere
il detto modo; anzi saranno l'una e l'altra una cosa sola. Di
maniera che l'uomo non giunge a poter discernere e gustare
compiutamente l'eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli
acquisti la facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi:
perché quell'eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se
non per mezzo dell'uso e dell'esercizio proprio, e quasi, per
così dire, trasferita in se stesso. E innanzi a quel tempo,
niuno per verità intende, che e quale sia propriamente il
perfetto scrivere. Ma non intendendo questo, non può né anche
avere la debita ammirazione agli scrittori sommi. E la più parte
di quelli che attendono agli studi, scrivendo essi facilmente, e
credendosi scriver bene, tengono in verità per fermo, quando
anche dicano il contrario, che lo scriver bene sia cosa facile.
Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere
ammirarti e saper lodarti degnamente, quando tu con sudori e con
disagi incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un'opera
egregia e perfetta. Io ti so dire (e credi a questa età canuta)
che appena due o tre sono oggi in Italia, che abbiano il modo e l'arte
dell'ottimo scrivere. Il qual numero se ti pare eccessivamente
piccolo, non hai da pensare contuttociò che egli sia molto
maggiore in tempo né in luogo alcuno.
Più volte io mi maraviglio meco medesimo come, ponghiamo caso, Virgilio, esempio supremo di perfezione agli scrittori, sia venuto e mantengasi in questa sommità di gloria. Perocché, quantunque io presuma poco di me stesso, e creda non poter mai godere e conoscere ciascheduna parte d'ogni suo pregio e d'ogni suo magistero; tuttavia tengo per certo che il massimo numero de' suoi lettori e lodatori non iscorge ne' poemi suoi più che una bellezza per ogni dieci o venti che a me, col molto rileggerli e meditarli, viene pur fatto di scoprirvi. In vero io mi persuado che l'altezza della stima e della riverenza verso gli scrittori sommi, provenga comunemente, in quelli eziandio che li leggono e trattano, piuttosto da consuetudine ciecamente abbracciata, che da giudizio proprio e dal conoscere in quelli per veruna guisa un merito tale. E mi ricordo del tempo della mia giovinezza; quando io leggendo i poemi di Virgilio con piena libertà di giudizio da una parte, e nessuna cura dell'autorità degli altri, il che non è comune a molti; e dall'altra parte con imperizia consueta a quell'età, ma forse non maggiore di quella che in moltissimi lettori è perpetua; ricusava fra me stesso di concorrere nella sentenza universale; non discoprendo in Virgilio molto maggiori virtù che nei poeti mediocri. Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta prevalere a quella di Lucano. Vedi che la moltitudine dei lettori, non solo nei secoli di giudizio falso e corrotto, ma in quelli ancora di sane e ben temperate lettere, è molto più dilettata dalle bellezze grosse e patenti, che dalle delicate e riposte; più dall'ardire che dalla verecondia; spesso eziandio dall'apparente più che dal sostanziale; e per l'ordinario più dal mediocre che dall'ottimo. Leggendo le lettere di un Principe, raro veramente d'ingegno, ma usato a riporre nei sali, nelle arguzie, nell'instabilità, nell'acume quasi tutta l'eccellenza dello scrivere, io m'avveggo manifestissimamente che egli, nell'intimo de' suoi pensieri, anteponeva l'Enriade all'Eneide; benché non si ardisse a profferire questa sentenza, per solo timore di non offendere le orecchie degli uomini. In fine, io stupisco che il giudizio di pochissimi, ancorché retto, abbia potuto vincere quello d'infiniti, e produrre nell'universale quella consuetudine di stima non meno cieca che giusta. Il che non interviene sempre, ma io reputo che la fama degli scrittori ottimi soglia essere effetto del caso più che dei meriti loro: come forse ti sarà confermato da quello che io sono per dire nel progresso del ragionamento.
CAPITOLO TERZO
Si
è veduto già quanto pochi avranno facoltà di ammirarti quando
sarai giunto a quell'eccellenza che ti proponi Ora avverti che
più d'un impedimento si può frapporre anco a questi pochi, che
non facciano degno concetto del tuo valore, benché ne veggano i
segni. Non è dubbio alcuno, che gli scritti eloquenti o poetici,
di qualsivoglia sorta, non tanto si giudicano dalle loro qualità
in se medesime, quanto dall'effetto che essi fanno nell'animo di
chi legge. In modo che il lettore nel farne giudizio, li
considera più, per così dire, in se proprio, che in loro stessi.
Di qui nasce, che gli uomini naturalmente tardi e freddi di cuore
e d'immaginazione, ancorché dotati di buon discorso, di molto
acume d'ingegno, e di dottrina non mediocre, sono quasi al tutto
inabili a sentenziare convenientemente sopra tali scritti; non
potendo in parte alcuna immedesimare l'animo proprio con quello
dello scrittore; e ordinariamente dentro di sé li disprezzano;
perché leggendoli, e conoscendoli ancora per famosissimi, non
iscuoprono la causa della loro fama; come quelli a cui non
perviene da lettura tale alcun moto, alcun'immagine, e quindi
alcun diletto notabile. Ora, a quegli stessi che da natura sono
disposti e pronti a ricevere e a rinnovellare in sé qualunque
immagine o affetto saputo acconciamente esprimere dagli scrittori,
intervengono moltissimi tempi di freddezza, noncuranza,
languidezza d'animo, impenetrabilità, e disposizione tale, che,
mentre dura, li rende o conformi o simili agli altri detti dianzi;
e ciò per diversissime cause, intrinseche o estrinseche,
appartenenti allo spirito o al corpo, transitorie o durevoli. In
questi cotali tempi, niuno, se ben fosse per altro uno scrittore
sommo, è buon giudice degli scritti che hanno a muovere il cuore
o l'immaginativa. Lascio la sazietà dei diletti provati poco
prima in altre letture tali; e le passioni, più o meno forti,
che sopravvengono ad ora ad ora; le quali bene spesso tenendo in
gran parte occupato l'animo, non lasciano luogo ai movimenti che
in altra occasione vi sarebbero eccitati dalle cose lette. Così,
per le stesse o simili cause, spesse volte veggiamo che quei
medesimi luoghi, quegli spettacoli naturali o di qualsivoglia
genere, quelle musiche, e cento sì fatte cose, che in altri
tempi ci commossero, o sarebbero state atte a commuoverci se le
avessimo vedute o udite; ora vedendole e ascoltandole, non ci
commuovono punto, né ci dilettano; e non perciò sono men belle
o meno efficaci in sé, che fossero allora.
Ma quando, per qualunque delle dette
cagioni, l'uomo è mal disposto agli effetti dell'eloquenza e
della poesia, non lascia egli nondimeno né differisce il far
giudizio dei libri attenenti all'un genere o all'altro, che gli
accade di leggere allora la prima volta. A me interviene non di
rado di ripigliare nelle mani Omero o Cicerone o il Petrarca, e
non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo. Tuttavia,
come già consapevole e certo della bontà di scrittori tali, sì
per la fama antica e sì per l'esperienza delle dolcezze
cagionatemi da loro altre volte; non fo per quella presente
insipidezza, alcun pensiero contrario alla loro lode. Ma negli
scritti che si leggono la prima volta, e che per essere nuovi,
non hanno ancora potuto levare il grido, o confermarselo in guisa,
che non resti luogo a dubitare del loro pregio; niuna cosa vieta
che il lettore, giudicandoli dall'effetto che fanno presentemente
nell'animo proprio, ed esso animo non trovandosi in disposizione
da ricevere i sentimenti e le immagini volute da chi scrisse,
faccia piccolo concetto d'autori e d'opere eccellenti. Dal quale
non è facile che egli si rimuova poi per altre letture degli
stessi libri, fatte in migliori tempi: perché verisimilmente il
tedio provato nella prima, lo sconforterà dalle altre; e in ogni
modo, chi non sa quello che importino le prime impressioni, e l'essere
preoccupato da un giudizio, quantunque falso?
Per lo contrario, trovansi gli animi alcune volte, per una o per altra cagione, in istato di mobilità, senso, vigore e caldezza tale, o talmente aperti e preparati, che seguono ogni menomo impulso della lettura, sentono vivamente ogni leggero tocco, e coll'occasione di ciò che leggono, creano in sé mille moti e mille immaginazioni, errando talora in un delirio dolcissimo, e quasi rapiti fuori di sé. Da questo facilmente avviene, che guardando ai diletti avuti nella lettura, e confondendo gli effetti della virtù e della disposizione propria con quelli che si appartengono veramente al libro; restino presi di grande amore ed ammirazione verso quello, e ne facciano un concetto molto maggiore del giusto, anche preponendolo ad altri libri più degni, ma letti in congiuntura meno propizia. Vedi dunque a quanta incertezza è sottoposta la verità e la rettitudine dei giudizi, anche delle persone idonee, circa gli scritti e gl'ingegni altrui, tolta pure di mezzo qualunque malignità o favore. La quale incertezza è tale, che l'uomo discorda grandemente da se medesimo nell'estimazione di opere di valore uguale, ed anche di un'opera stessa, in diverse età della vita, in diversi casi, e fino in diverse ore di un giorno.
CAPITOLO QUARTO
A
fine poi che tu non presuma che le predette difficoltà,
consistenti nell'animo dei lettori non ben disposto, occorrano
rade volte e fuor dell'usato; considera che niuna cosa è
maggiormente usata, che il venir mancando nell'uomo coll'andar
dell'età, la disposizione naturale a sentire i diletti dell'eloquenza
e della poesia, non meno che dell'altre arti imitative, e di ogni
bello mondano. Il quale decadimento dell'animo, prescritto dalla
stessa natura alla nostra vita, oggi è tanto maggiore che egli
si fosse agli altri tempi, e tanto più presto incomincia ed ha
più rapido progresso, specialmente negli studiosi, quanto che
all'esperienza di ciascheduno, si aggiunge a chi maggiore a chi
minor parte della scienza nata dall'uso e dalle speculazioni di
tanti secoli passati. Per la qual cosa e per le presenti
condizioni del viver civile, si dileguano facilmente dall'immaginazione
degli uomini le larve della prima età, e seco le speranze dell'animo
e colle speranze gran parte dei desiderii, delle passioni, del
fervore, della vita, delle facoltà. Onde io piuttosto mi
maraviglio che uomini di età matura, dotti massimamente, e
dediti a meditare sopra le cose umane, sieno ancora sottoposti
alla virtù dell'eloquenza e della poesia, che non che di quando
in quando elle si trovino impedite di fare in quelli alcun
effetto. Perciocché abbi per certo, che ad essere gagliardamente
mosso dal bello e dal grande immaginato, fa mestieri credere che
vi abbia nella vita umana alcun che di grande e di bello vero, e
che il poetico del mondo non sia tutto favola. Le quali cose il
giovane crede sempre, quando anche sappia il contrario, finché l'esperienza
sua propria non sopravviene al sapere; ma elle sono credute
difficilmente dopo la trista disciplina dell'uso pratico, massime
dove l'esperienza è congiunta coll'abito dello speculare e colla
dottrina.
Da
questo discorso seguirebbe che generalmente i giovani fossero
migliori giudici delle opere indirizzate a destare affetti ed
immagini, che non sono gli uomini maturi o vecchi. Ma da altro
canto si vede che i giovani non accostumati alla lettura, cercano
in quella un diletto più che umano, infinito, e di qualità
impossibili; e tale non ve ne trovando, disprezzano gli scrittori:
il che anco in altre età, per simili cause, avviene alcune volte
agl'illetterati. Quei giovani poi, che sono dediti alle lettere,
antepongono facilmente, come nello scrivere, così nel giudicare
gli scritti altrui, l'eccessivo al moderato, il superbo o il
vezzoso dei modi e degli ornamenti al semplice e al naturale, e
le bellezze fallaci alle vere; parte per la poca esperienza,
parte per l'impeto dell'età. Onde i giovani, i quali senza alcun
fallo sono la parte degli uomini più disposta a lodare quello
che loro apparisce buono, come più veraci e candidi; rade volte
sono atti a gustare la matura e compiuta bontà delle opere
letterarie. Col progresso degli anni, cresce quell'attitudine che
vien dall'arte, e decresce la naturale. Nondimeno ambedue sono
necessarie all'effetto.
Chiunque
poi vive in città grande, per molto che egli sia da natura caldo
e svegliato di cuore e d'immaginativa, io non so (eccetto se, ad
esempio tuo, non trapassa in solitudine il più del tempo) come
possa mai ricevere dalle bellezze o della natura o delle lettere,
alcun sentimento tenero o generoso, alcun'immagine sublime o
leggiadra. Perciocché poche cose sono tanto contrarie a quello
stato dell'animo che ci fa capaci di tali diletti, quanto la
conversazione di questi uomini, lo strepito di questi luoghi, lo
spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti,
della falsità perpetua, delle cure misere, e dell'ozio più
misero, che vi regnano. Quanto al volgo dei letterati, sto per
dire che quello delle città grandi sappia meno far giudizio dei
libri, che non sa quello delle città piccole: perché nelle
grandi come le altre cose sono per lo più false e vane, così la
letteratura comunemente è falsa e vana, o superficiale. E se gli
antichi reputavano gli esercizi delle lettere e delle scienze
come riposi e sollazzi in comparazione ai negozi, oggi la più
parte di quelli che nelle città grandi fanno professione di
studiosi, reputano, ed effettualmente usano, gli studi e lo
scrivere, come sollazzi e riposi degli altri sollazzi.
Io penso che le opere riguardevoli di pittura, scultura ed architettura, sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per le province, nelle città mediocri e piccole; che accumulate, come sono, nelle metropoli: dove gli uomini, parte pieni d'infiniti pensieri, parte occupati in mille spassi, e coll'animo connaturato, o costretto, anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanità, rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito. Oltre che la moltitudine di tante bellezze adunate insieme, distrae l'animo in guisa, che non attendendo a niuna di loro se non poco, non può ricevere un sentimento vivo; o genera tal sazietà, che elle si contemplano colla stessa freddezza interna, che si fa qualunque oggetto volgare. Il simile dico della musica: la quale nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente, e con tale apparato, come nelle grandi; dove gli animi sono meno disposti alle commozioni mirabili di quell'arte, e meno, per dir così, musicali, che in ogni altro luogo. Ma nondimeno alle arti è necessario il domicilio delle città grandi sì a conseguire, e sì maggiormente a porre in opera la loro perfezione: e non per questo, da altra parte, è men vero che il diletto che elle porgono quivi agli uomini, è minore assai, che egli non sarebbe altrove. E si può dire che gli artefici nella solitudine e nel silenzio, procurano con assidue vigilie, industrie e sollecitudini, il diletto di persone, che solite a rivolgersi tra la folla e il romore, non gusteranno se non piccolissima parte del frutto di tante fatiche. La qual sorte degli artefici cade anco per qualche proporzionato modo negli scrittori.
CAPITOLO QUINTO
Ma
ciò sia detto come per incidenza. Ora tornando in via, dico che
gli scritti più vicini alla perfezione, hanno questa proprietà,
che ordinariamente alla seconda lettura piacciono più che alla
prima. Il contrario avviene in molti libri composti con arte e
diligenza non più che mediocre, ma non privi però di un qual si
sia pregio estrinseco ed apparente; i quali, riletti che sieno,
cadono dall'opinione che l'uomo ne avea conceputo alla prima
lettura. Ma letti gli uni e gli altri una volta sola, ingannano
talora in modo anche i dotti ed esperti, che gli ottimi sono
posposti ai mediocri. Ora hai a considerare che oggi, eziandio le
persone dedite agli studi per instituto di vita, con molta
difficoltà s'inducono a rileggere libri recenti, massime il cui
genere abbia per suo proprio fine il diletto. La qual cosa non
avveniva agli antichi; atteso la minor copia dei libri. Ma in
questo tempo ricco delle scritture lasciateci di mano in mano da
tanti secoli, in questo presente numero di nazioni letterate, in
questa eccessiva copia di libri prodotti giornalmente da
ciascheduna di esse, in tanto scambievole commercio fra tutte
loro; oltre a ciò, in tanta moltitudine e varietà delle lingue
scritte, antiche e moderne, in tanto numero ed ampiezza di
scienze e dottrine di ogni maniera, e queste così strettamente
connesse e collegate insieme, che lo studioso è necessitato a
sforzarsi di abbracciarle tutte, secondo la sua possibilità; ben
vedi che manca il tempo alle prime non che alle seconde letture.
Però qualunque giudizio vien fatto dei libri nuovi una volta,
difficilmente si muta. Aggiungi che per le stesse cause, anche
nel primo leggere i detti libri, massime di genere ameno,
pochissimi e rarissime volte pongono tanta attenzione e tanto
studio, quanto è di bisogno a scoprire la faticosa perfezione, l'arte
intima e le virtù modeste e recondite degli scritti. Di modo che
in somma oggidì viene a essere peggiore la condizione dei libri
perfetti, che dei mediocri; le bellezze o doti di una gran parte
dei quali, vere o false, sono esposte agli occhi in maniera, che
per piccole che sieno, facilmente si scorgono alla prima vista. E
possiamo dire con verità, che oramai l'affaticarsi di scrivere
perfettamente, è quasi inutile alla fama. Ma da altra parte, i
libri composti, come sono quasi tutti i moderni, frettolosamente,
e rimoti da qualunque perfezione; ancorché sieno celebrati per
qualche tempo, non possono mancar di perire in breve: come si
vede continuamente nell'effetto. Ben è vero che l'uso che oggi
si fa dello scrivere è tanto, che eziandio molti scritti
degnissimi di memoria, e venuti pure in grido, trasportati indi a
poco, e avanti che abbiano potuto (per dir così) radicare la
propria celebrità, dall'immenso fiume dei libri nuovi che
vengono tutto giorno in luce, periscono senz'altra cagione, dando
luogo ad altri, degni o indegni, che occupano la fama per breve
spazio. Così, ad un tempo medesimo, una sola gloria è dato a
noi di seguire, delle tante che furono proposte agli antichi; e
quella stessa con molta più difficoltà si consegue oggi, che
anticamente.
Soli
in questo naufragio continuo e comune non meno degli scritti
nobili che de' plebei, soprannuotano i libri antichi; i quali per
la fama già stabilita e corroborata dalla lunghezza dell'età,
non solo si leggono ancora diligentemente, ma si rileggono e
studiano. E nota che un libro moderno, eziandio se di perfezione
fosse comparabile agli antichi, difficilmente o per nessun modo
potrebbe, non dico possedere lo stesso grado di gloria, ma recare
altrui tanta giocondità quanta dagli antichi si riceve: e questo
per due cagioni. La prima si è, che egli non sarebbe letto con
quell'accuratezza e sottilità che si usa negli scritti celebri
da gran tempo, né tornato a leggere se non da pochissimi, né
studiato da nessuno; perché non si studiano libri, che non sieno
scientifici, insino a tanto che non sono divenuti antichi. L'altra
si è, che la fama durevole e universale delle scritture, posto
che a principio nascesse non da altra causa che dal merito loro
proprio ed intrinseco, ciò non ostante, nata e cresciuta che sia,
moltiplica in modo il loro pregio, che elle ne divengono assai
più grate a leggere, che non furono per l'addietro; e talvolta
la maggior parte del diletto che vi si prova, nasce semplicemente
dalla stessa fama. Nel qual proposito mi tornano ora alla mente
alcune avvertenze notabili di un filosofo francese; il quale in
sostanza, discorrendo intorno alle origini dei piaceri umani,
dice così. Molte cause di godimento compone e crea l'animo
stesso nostro a se proprio, massime collegando tra loro diverse
cose. Perciò bene spesso avviene che quello che piacque una
volta, piaccia similmente un'altra; solo per essere piaciuto
innanzi; congiungendo noi coll'immagine del presente quella del
passato. Per modo di esempio, una commediante piaciuta agli
spettatori nella scena, piacerà verisimilmente ai medesimi anco
nelle sue stanze; perocché sì del suono della sua voce, sì
della sua recitazione, sì dell'essere stati presenti agli
applausi riportati dalla donna, e in qualche modo eziandio del
concetto di principessa aggiunto a quel proprio che le conviene,
si comporrà quasi un misto di più cause, che produrranno un
diletto solo. Certo la mente di ciascuno abbonda tutto giorno d'immagini
e di considerazioni accessorie alle principali. Di qui nasce che
le donne fornite di riputazione grande, e macchiate di qualche
difetto piccolo, recano talvolta in onore esso difetto, dando
causa agli altri di tenerlo in conto di leggiadria. E veramente
il particolare amore che ponghiamo chi ad una chi ad altra donna,
è fondato il più delle volte in sulle sole preoccupazioni che
nascono in colei favore o dalla nobiltà del sangue, o dalle
ricchezze, o dagli onori che le sono renduti o dalla stima che le
è portata da certi; spesso eziandio dalla fama, vera o falsa, di
bellezza o di grazia, e dallo stesso amore avutole prima o di
presente da altre persone. E chi non sa che quasi tutti i piaceri
vengono più dalla nostra immaginativa, che dalle proprie
qualità delle cose piacevoli?
Le quali avvertenze quadrando ottimamente agli scritti non meno che alle altre cose, dico che se oggi uscisse alla luce un poema uguale o superiore di pregio intrinseco all'Iliade; letto anche attentissimamente da qualunque più perfetto giudice di cose poetiche, gli riuscirebbe assai meno grato e men dilettevole di quella; e per tanto gli resterebbe in molto minore estimazione: perché le virtù proprie del poema nuovo, non sarebbero aiutate dalla fama di ventisette secoli, né da mille memorie e mille rispetti, come sono le virtù dell'Iliade. Similmente dico, che chiunque leggesse accuratamente o la Gerusalemme o il Furioso, ignorando in tutto o in parte la loro celebrità; proverebbe nella lettura molto minor diletto, che gli altri non fanno. Laonde in fine, parlando generalmente, i primi lettori di ciascun'opera egregia, e i contemporanei di chi la scrisse, posto che ella ottenga poi fama nella posterità, sono quelli che in leggerla godono meno di tutti gli altri: il che risulta in grandissimo pregiudizio degli scrittori.
CAPITOLO SESTO
Queste sono in parte le difficoltà che ti contenderanno l'acquisto della gloria appresso agli studiosi, ed agli stessi eccellenti nell'arte dello scrivere e nella dottrina. E quanto a coloro che se bene bastantemente instrutti di quell'erudizione che oggi è parte, si può dire, necessaria di civiltà, non fanno professione alcuna di studi né di scrivere, e leggono solo per passatempo, ben sai che non sono atti a godere più che tanto della bontà dei libri: e questo, oltre al detto innanzi, anche per un'altra cagione, che mi resta a dire. Cioè che questi tali non cercano altro in quello che leggono, fuorché il diletto presente. Ma il presente è piccolo e insipido per natura a tutti gli uomini. Onde ogni cosa più dolce, e come dice Omero,
Venere, il sonno, il canto e le carole
presto e di necessità vengono a noia, se colla presente occupazione non è congiunta la speranza di qualche diletto o comodità futura che ne dipenda. Perocché la condizione dell'uomo non è capace di alcun godimento notabile, che non consista sopra tutto nella speranza, la cui forza è tale, che moltissime occupazioni prive per sé di ogni piacere, ed eziandio stucchevoli o faticose, aggiuntavi la speranza di qualche frutto, riescono gratissime e giocondissime, per lunghe che sieno; ed al contrario, le cose che si stimano dilettevoli in sé, disgiunte dalla speranza, vengono in fastidio quasi, per così dire, appena gustate. E in tanto veggiamo noi che gli studiosi sono come insaziabili della lettura, anco spesse volte aridissima, e provano un perpetuo diletto nei loro studi, continuati per buona parte del giorno; in quanto che nell'una e negli altri, essi hanno sempre dinanzi agli occhi uno scopo collocato nel futuro, e una speranza di progresso e di giovamento, qualunque egli si sia; e che nello stesso leggere che fanno alcune volte quasi per ozio e per trastullo, non lasciano di proporsi, oltre al diletto presente, qualche altra utilità, più o meno determinata. Dove che gli altri, non mirando nella lettura ad alcun fine che non si contenga, per dir così, nei termini di essa lettura; fino sulle prime carte dei libri più dilettevoli e più soavi, dopo un vano piacere, si trovano sazi: sicché sogliono andare nauseosamente errando di libro in libro, e in fine si maravigliano i più di loro, come altri possa ricevere dalla lunga lezione un lungo diletto. In tal modo, anche da ciò puoi conoscere che qualunque arte, industria e fatica di chi scrive, è perduta quasi del tutto in quanto a queste tali persone: del numero delle quali generalmente si è la più parte dei lettori. Ed anche gli studiosi, mutate coll'andare degli anni, come spesso avviene, la materia e la qualità dei loro studi, appena sopportano la lettura di libri dai quali in altro tempo furono o sarebbero potuti essere dilettati oltre modo; e se bene hanno ancora l'intelligenza e la perizia necessaria a conoscerne il pregio, pure non vi sentono altro che tedio; perché non si aspettano da loro alcuna utilità.
CAPITOLO SETTIMO
Fin
qui si è detto dello scrivere in generale, e certe cose che
toccano principalmente alle lettere amene, allo studio delle
quali ti veggo inclinato più che ad alcun altro. Diciamo ora
particolarmente della filosofia; non intendendo però di separar
quelle da questa; dalla quale pendono totalmente. Penserai forse
che derivando la filosofia dalla ragione, di cui l'universale
degli uomini inciviliti partecipa forse più che dell'immaginativa
e delle facoltà del cuore; il pregio delle opere filosofiche
debba essere conosciuto più facilmente e da maggior numero di
persone, che quello de' poemi, e degli altri scritti che
riguardano al dilettevole e al bello. Ora io, per me, stimo che
il proporzionato giudizio e il perfetto senso, sia poco meno raro
verso quelle, che verso queste. Primieramente abbi per cosa certa,
che a far progressi notabili nella filosofia, non bastano
sottilità d'ingegno, e facoltà grande di ragionare, ma si
ricerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes,
Galileo, il Leibnitz, il Newton, il Vico, in quanto all'innata
disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi
poeti; e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi
filosofi. Ma perché questa materia, a dichiararla e trattarla
appieno, vorrebbe molte parole, e ci dilungherebbe assai dal
nostro proposito; perciò contentandomi pure di questo cenno, e
passando innanzi, dico che solo i filosofi possono conoscere
perfettamente il pregio, e sentire il diletto, dei libri
filosofici. Intendo dire in quanto si è alla sostanza, non a
qualsivoglia ornamento che possono avere, o di parole o di stile
o d'altro. Dunque, come gli uomini di natura, per modo di dire,
impoetica, se bene intendono le parole e il senso, non ricevono i
moti e le immagini de' poemi; così bene spesso quelli che non
sono dimesticati al meditare e filosofare seco medesimi, o che
non sono atti a pensare profondamente, per veri e per accurati
che sieno i discorsi e le conclusioni del filosofo, e chiaro il
modo che egli usa in espor gli uni e l'altre, intendono le parole
e quello che egli vuol dire, ma non la verità de' suoi detti.
Perocché non avendo la facoltà o l'abito di penetrar coi
pensieri nell'intimo delle cose, né di sciorre e dividere le
proprie idee nelle loro menome parti, né di ragunare e stringere
insieme un buon numero di esse idee, né di contemplare colla
mente in un tratto molti particolari in modo da poterne trarre un
generale, né di seguire indefessamente coll'occhio dell'intelletto
un lungo ordine di verità connesse tra loro a mano a mano, né
di scoprire le sottili e recondite congiunture che ha ciascuna
verità con cento altre; non possono facilmente, o in maniera
alcuna, imitare e reiterare colla mente propria le operazioni
fatte, né provare le impressioni provate, da quella del filosofo;
unico modo avedere, comprendere, ed estimare convenientemente
tutte le cause che indussero esso filosofo a far questo o quel
giudizio, affermare o negare questa o quella cosa, dubitar di
tale o di tal altra. Sicché quantunque intendano i suoi concetti,
non intendono che sieno veri o probabili; non avendo, e non
potendo fare, una quasi esperienza della verità e della
probabilità loro. Cosa poco diversa da quella che agli uomini
naturalmente freddi accade circa le immaginazioni e gli affetti
espressi dai poeti. E ben sai che egli è comune al poeta e al
filosofo l'internarsi nel profondo degli animi umani, e trarre in
luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e
i successi occulti, le cause e gli effetti dell'une e degli altri:
nelle quali cose, quelli che non sono atti a sentire in sé la
corrispondenza de' pensieri poetici al vero, non sentono anche, e
non conoscono, quella dei filosofici.
Dalle dette cause nasce quello che veggiamo tutto dì, che molte opere egregie, ugualmente chiare ed intelligibili a tutti, ciò non ostante, ad alcuni paiono contenere mille verità certissime; ad altri, mille manifesti errori: onde elle sono impugnate, pubblicamente o privatamente; non solo per malignità o per interesse o per altre simili cagioni, ma eziandio per imbecillità di mente, e per incapacità di sentire e di comprendere la certezza dei loro principii, la rettitudine delle deduzioni e delle conclusioni, e generalmente la convenienza, l'efficacia e la verità dei loro discorsi. Spesse volte le più stupende opere filosofiche sono anche imputate di oscurità, non per colpa degli scrittori, ma per la profondità o la novità dei sentimenti da un lato, e dall'altro l'oscurità dell'intelletto di chi non li potrebbe comprendere in nessun modo. Considera dunque anche nel genere filosofico quanta difficoltà di aver lode, per dovuta che sia. Perocché non puoi dubitare, se anche io non lo esprimo, che il numero dei filosofi veri e profondi, fuori dei quali non e chi sappia far convenevole stima degli altri tali, non sia piccolissimo anche nell'età presente, benché dedita all'amore della filosofia più che le passate. Lascio le varie fazioni, o comunque si convenga chiamarle, in cui sono divisi oggi, come sempre furono, quelli che fanno professione di filosofare: ciascuna delle quali nega ordinariamente la debita lode e stima a quei delle altre; non solo per volontà, ma per avere l'intelletto occupato da altri principii.
CAPITOLO OTTAVO
Se
poi (come non è cosa alcuna che io non mi possa promettere di
cotesto ingegno) tu salissi col sapere e colla meditazione a
tanta altezza, che ti fosse dato, come fu a qualche eletto
spirito, di scoprire alcuna principalissima verità, non solo
stata prima incognita in ogni tempo, ma rimota al tutto dall'espettazione
degli uomini, e al tutto diversa o contraria alle opinioni
presenti, anco dei saggi; non pensar di avere a raccorre in tua
vita da questo discoprimento alcuna lode non volgare. Anzi non ti
sarà data lode, né anche da' sapienti (eccettuato forse una
loro menoma parte), finché ripetute quelle medesime verità, ora
da uno ora da altro, a poco a poco e con lunghezza di tempo, gli
uomini vi assuefacciano prima gli orecchi e poi l'intelletto.
Perocché niuna verità nuova, e del tutto aliena dai giudizi
correnti; quando bene dal primo che se ne avvide, fosse
dimostrata con evidenza e certezza conforme o simile alla
geometrica; non fu mai potuta, se pure le dimostrazioni non
furono materiali, introdurre e stabilire nel mondo subitamente;
ma solo in corso di tempo, mediante la consuetudine e l'esempio:
assuefacendosi gli uomini al credere come ad ogni altra cosa;
anzi credendo generalmente per assuefazione, non per certezza di
prove concepita nell'animo: tanto che in fine essa verità,
cominciata a insegnare ai fanciulli, fu accettata comunemente,
ricordata con maraviglia l'ignoranza della medesima, e derise le
sentenze diverse o negli antenati o nei presenti. Ma ciò con
tanto maggiore difficoltà e lunghezza, quanto queste sì fatte
verità nuove e incredibili, furono maggiori e più capitali, e
quindi sovvertitrici di maggior numero di opinioni radicate negli
animi. Né anche gl'intelletti acuti ed esercitati, sentono
facilmente tutta l'efficacia delle ragioni che dimostrano simili
verità inaudite, ed eccedenti di troppo spazio i termini delle
cognizioni e dell'uso di essi intelletti; massime quando tali
ragioni e tali verità ripugnano alle credenze inveterate nei
medesimi. Il Descartes al suo tempo, nella geometria, la quale
egli amplificò maravigliosamente, coll'adattarvi l'algebra e
cogli altri suoi trovati, non fu né pure inteso, se non da
pochissimi. Il simile accadde al Newton. In vero, la condizione
degli uomini disusatamente superiori di sapienza alla propria
età, non è molto diversa da quella dei letterati e dotti che
vivono in città o province vacue di studi: perocché né questi,
come dirò poi, da' lor cittadini o provinciali, né quelli da'
contemporanei, sono tenuti in quel conto che meriterebbero; anzi
spessissime volte sono vilipesi, per la diversità della vita o
delle opinioni loro da quelle degli altri, e per la comune
insufficienza a conoscere il pregio delle loro facoltà ed opere.
Non
è dubbio che il genere umano a questi tempi, e insino dalla
restaurazione della civiltà, non vada procedendo innanzi
continuamente nel sapere. Ma il suo procedere e tardo e misurato:
laddove gli spiriti sommi e singoli, che si danno alla
speculazione di quest'universo sensibile all'uomo o intelligibile,
ed al rintracciamento del vero, camminano, anzi talora corrono,
velocemente, e quasi senza misura alcuna. E non per questo è
possibile che il mondo, in vederli procedere così spediti,
affretti il cammino tanto, che giunga con loro o poco più tardi
di loro, colà dove essi per ultimo si rimangono. Anzi non esce
del suo passo; e non si conduce alcune volte a questo o a quel
termine, se non solamente in ispazio di uno o di più secoli da
poi che qualche alto spirito vi si fu condotto.
È
sentimento, si può dire, universale, che il sapere umano debba
la maggior parte del suo progresso a quegl'ingegni supremi, che
sorgono di tempo in tempo, quando uno quando altro, quasi
miracoli di natura. Io per lo contrario stimo che esso debba agl'ingegni
ordinari il più, agli straordinari pochissimo. Uno di questi,
ponghiamo, fornito che egli ha colla dottrina lo spazio delle
conoscenze de' suoi contemporanei, procede nel sapere, per dir
così, dieci passi più innanzi. Ma gli altri uomini, non solo
non si dispongono a seguitarlo, anzi il più delle volte, per
tacere il peggio, si ridono del suo progresso. Intanto molti
ingegni mediocri, forse in parte aiutandosi dei pensieri e delle
scoperte di quel sommo, ma principalmente per mezzo degli studi
propri, fanno congiuntamente un passo; nel che per la brevità
dello spazio, cioè per la poca novità delle sentenze, ed anche
per la moltitudine di quelli che ne sono autori, in capo di
qualche anno, sono seguitati universalmente. Così, procedendo,
giusta il consueto, a poco a poco, e per opera ed esempio di
altri intelletti mediocri, gli uomini compiono finalmente il
decimo passo; e le sentenze di quel sommo sono comunemente
accettate per vere in tutte le nazioni civili. Ma esso, già
spento da gran tempo, non acquista pure per tal successo una
tarda e intempestiva riputazione; parte per essere già mancata
la sua memoria, o perché l'opinione ingiusta avuta di lui mentre
visse, confermata dalla lunga consuetudine, prevale a ogni altro
rispetto; parte perché gli uomini non sono venuti a questo grado
di cognizioni per opera sua; e parte perché già nel sapere gli
sono uguali, presto lo sormonteranno, e forse gli sono superiori
anche al presente, per essersi potute colla lunghezza del tempo
dimostrare e dichiarare meglio le verità immaginate da lui,
ridurre le sue congetture a certezza, dare ordine e forma
migliore a' suoi trovati, e quasi maturarli. Se non che forse
qualcuno degli studiosi, riandando le memorie dei tempi addietro,
considerate le opinioni di quel grande, e messe a riscontro con
quelle de' suoi posteri, si avvede come e quanto egli precorresse
il genere umano, e gli porge alcune lodi, che levano poco romore,
e vanno presto in dimenticanza.
Se bene il progresso del sapere umano, come il cadere dei gravi, acquista di momento in momento, maggiore celerità; nondimeno egli è molto difficile ad avvenire che una medesima generazione d'uomini muti sentenza, o conosca gli errori propri, in guisa, che ella creda oggi il contrario di quel che credette in altro tempo. Bensì prepara tali mezzi alla susseguente, che questa poi conosce e crede in molte cose il contrario di quella. Ma come niuno sente il perpetuo moto che ci trasporta in giro insieme colla terra, così l'universale degli uomini non si avvede del continuo procedere che fanno le sue conoscenze, né dell'assiduo variare de' suoi giudizi. E mai non muta opinione in maniera, che egli si creda di mutarla. Ma certo non potrebbe fare di non crederlo e di non avvedersene, ogni volta che egli abbracciasse subitamente una sentenza molto aliena da quelle tenute or ora. Per tanto, niuna verità così fatta, salvo che non cada sotto ai sensi, sarà mai creduta comunemente dai contemporanei del primo che la conobbe.
CAPITOLO NONO
Facciamo
che superato ogni ostacolo, aiutato il valore dalla fortuna, abbi
conseguito in fatti, non pur celebrità, ma gloria, e non dopo
morte ma in vita. Veggiamo che frutto ne ritrarrai. Primieramente
quel desiderio degli uomini di vederti e conoscerti di persona,
quell'essere mostrato a dito, quell'onore e quella riverenza
significata dai presenti cogli atti e colle parole, nelle quali
cose consiste la massima utilità di questa gloria che nasce
dagli scritti, parrebbe che più facilmente ti dovessero
intervenire nelle città piccole, che nelle grandi; dove gli
occhi e gli animi sono distratti e rapiti parte dalla potenza,
parte dalla ricchezza, in ultimo dalle arti che servono all'intrattenimento
e alla giocondità della vita inutile. Ma come le città piccole
mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga all'eccellenza
nelle lettere e nelle dottrine; e come tutto il raro e il
pregevole concorre e si aduna nelle città grandi; perciò le
piccole, di rado abitate dai dotti, e prive ordinariamente di
buoni studi, sogliono tenere tanto basso conto, non solo della
dottrina e della sapienza, ma della stessa fama che alcuno si ha
procacciata con questi mezzi, che l'una e l'altre in quei luoghi
non sono pur materia d'invidia. E se per caso qualche persona
riguardevole o anche straordinaria d'ingegno e di studi, si trova
abitare in luogo piccolo; l'esservi al tutto unica, non tanto non
le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte, quando
anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli
uomini, la più negletta e oscura persona del luogo. Come là
dove l'oro e l'argento fossero ignoti e senza pregio, chiunque
essendo privo di ogni altro avere, abbondasse di questi metalli,
non sarebbe più ricco degli altri, anzi poverissimo, e per tale
avuto; così là dove l'ingegno e la dottrina non si conoscono, e
non conosciuti non si apprezzano, quivi se pur vi ha qualcuno che
ne abbondi, questi non ha facoltà di soprastare agli altri, e
quando non abbia altri beni, è tenuto a vile. E tanto egli e
lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso
egli vi è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò
tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva
talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la terra ch'io
soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun poco nello
scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo, fisico,
matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte le lingue
del mondo; e m'interrogavano, senza fare una menoma differenza,
sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o favella
intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per questa
loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore
assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li
lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco
meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora
moltissimo nel loro concetto, e all'ultimo si persuadevano che
essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro.
Nelle città grandi, quanti ostacoli si frappongano, siccome all'acquisto della gloria, così a poter godere il frutto dell'acquistata, non ti sarà difficile a giudicare dalle cose dette alquanto innanzi. Ora aggiungo, che quantunque nessuna fama sia più difficile a meritare, che quella di egregio poeta o di scrittore ameno o di filosofo, alle quali tu miri principalmente, nessuna con tutto questo riesce meno fruttuosa a chi la possiede. Non ti sono ignote le querele perpetue, gli antichi e i moderni esempi, della povertà e delle sventure de' poeti sommi. In Omero, tutto (per cosi dire) è vago e leggiadramente indefinito, siccome nella poesia, così nella persona; di cui la patria, la vita, ogni cosa, è come un arcano impenetrabile agli uomini. Solo, in tanta incertezza e ignoranza, si ha da una costantissima tradizione, che Omero fu povero e infelice: quasi che la fama e la memoria dei secoli non abbia voluto lasciar luogo a dubitare che la fortuna degli altri poeti eccellenti non fosse comune al principe della poesia. Ma lasciando degli altri beni, e dicendo solo dell'onore, nessuna fama nell'uso della vita suol essere meno onorevole, e meno utile a esser tenuto da più degli altri, che sieno le specificate or ora. O che la moltitudine delle persone che le ottengono senza merito, e la stessa immensa difficoltà di meritarle, tolgano pregio e fede a tali riputazioni; o piuttosto perché quasi tutti gli uomini d'ingegno leggermente culto, si credono avere essi medesimi, o potere facilmente acquistare, tanta notizia e facoltà sì di lettere amene e sì di filosofia, che non riconoscono per molto superiori a sé quelli che veramente vagliono in queste cose; o parte per l'una, parte per l'altra cagione; certo si è che l'aver nome di mediocre matematico, fisico, filologo, antiquario; di mediocre pittore, scultore, musico; di essere mezzanamente versato anche in una sola lingua antica o pellegrina; è causa di ottenere appresso al comune degli uomini, eziandio nelle città migliori, molta più considerazione e stima, che non si ottiene coll'essere conosciuto e celebrato dai buoni giudici per filosofo o poeta insigne, o per uomo eccellente nell'arte del bello scrivere. Così le due parti più nobili, più faticose ad acquistare, più straordinarie, più stupende; le due sommità, per così dire, dell'arte e della scienza umana; dico la poesia e la filosofia; sono in chi le professa, specialmente oggi, le facoltà più neglette del mondo; posposte ancora alle arti che si esercitano principalmente colla mano, così per altri rispetti, come perché niuno presume né di possedere alcuna di queste non avendola procacciata, né di poterla procacciare senza studio e fatica. In fine, il poeta e il filosofo non hanno in vita altro frutto del loro ingegno, altro premio dei loro studi, se non forse una gloria nata e contenuta fra un piccolissimo numero di persone. Ed anche questa è una delle molte cose nelle quali si conviene colla poesia la filosofia, povera anch'essa e nuda, come canta il Petrarca , non solo di ogni altro bene ma di riverenza e di onore.
CAPITOLO DECIMO
Non
potendo nella conversazione degli uomini godere quasi alcun
beneficio della tua gloria, la maggiore utilità che ne ritrarrai,
sarà di rivolgerla nell'animo e di compiacertene teco stesso nel
silenzio della tua solitudine, con pigliarne stimolo e conforto a
nuove fatiche, e fartene fondamento a nuove speranze. Perocché
la gloria degli scrittori, non solo, come tutti i beni degli
uomini, riesce più grata da lungi che da vicino, ma non è mai,
si può dire, presente a chi la possiede, e non si ritrova in
nessun luogo.
Dunque per ultimo ricorrerai coll'immaginativa
a quell'estremo rifugio e conforto degli animi grandi, che è la
posterità. Nel modo che Cicerone, ricco non di una semplice
gloria, né questa volgare e tenue, ma di una moltiplice, e
disusata, e quanta ad un sommo antico e romano, tra uomini romani
e antichi, era conveniente che pervenisse; nondimeno si volge col
desiderio alle generazioni future, dicendo, benché sotto altra
persona: pensi tu che io mi fossi potuto indurre a prendere e a
sostenere tante fatiche il dì e la notte, in città e nel campo,
se avessi creduto che la mia gloria non fosse per passare i
termini della mia vita? Non era molto più da eleggere un vivere
ozioso e tranquillo, senza alcuna fatica o sollecitudine? Ma l'animo
mio, non so come, quasi levato alto il capo, mirava di continuo
alla posterità in modo, come se egli, passato che fosse di vita,
allora finalmente fosse per vivere. Il che da Cicerone si
riferisce a un sentimento dell'immortalità degli animi propri,
ingenerato da natura nei petti umani. Ma la cagione vera si è,
che tutti i beni del mondo non prima sono acquistati, che si
conoscono indegni delle cure e delle fatiche avute in
procacciarli; massimamente la gloria, che fra tutti gli altri è
di maggior prezzo a comperare, e di meno uso a possedere. Ma come,
secondo il detto di Simonide,
La
bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate;
Onde ciascuno indarno si affatica;
Altri l'aurora amica, altri l'etate
O la stagione aspetta:
E nullo in terra il mortal corso affretta,
Cui nell'anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La mente non prometta;
così, di mano in mano che altri per prova è fatto certo della vanità della gloria, la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, in ultimo non avendo più dove riposarsi in tutto lo spazio della vita, non perciò vien meno, ma passata di là dalla stessa morte, si ferma nella posterità. Perocché l'uomo è sempre inclinato e necessitato a sostenersi del ben futuro, così come egli è sempre malissimo soddisfatto del ben presente. Laonde quelli che sono desiderosi di gloria, ottenutala pure in vita, si pascono principalmente di quella che sperano possedere dopo la morte, nel modo stesso che niuno è così felice oggi, che disprezzando la vana felicità presente, non si conforti col pensiero di quella parimente vana, che egli si promette nell'avvenire.
CAPITOLO UNDECIMO
Ma
in fine, che è questo ricorrere che facciamo alla posterità?
Certo la natura dell'immaginazione umana porta che si faccia dei
posteri maggior concetto e migliore, che non si fa dei presenti,
né dei passati eziandio; solo perché degli uomini che ancora
non sono, non possiamo avere alcuna contezza, né per pratica né
per fama. Ma riguardando alla ragione, e non all'immaginazione,
crediamo noi che in effetto quelli che verranno, abbiano a essere
migliori dei presenti? Io credo piuttosto il contrario, ed ho per
veridico il proverbio, che il mondo invecchia peggiorando.
Miglior condizione mi parrebbe quella degli uomini egregi, se
potessero appellare ai passati; i quali, a dire di Cicerone , non
furono inferiori di numero a quello che saranno i posteri, e di
virtù furono superiori assai. Ma certo il più valoroso uomo di
questo secolo non riceverà dagli antichi alcuna lode. Concedasi
che i futuri, in quanto saranno liberi dall'emulazione, dall'invidia,
dall'amore e dall'odio, non già tra se stessi, ma verso noi,
sieno per essere più diritti estimatori delle cose nostre, che
non sono i contemporanei. Forse anco per gli altri rispetti
saranno migliori giudici? Pensiamo noi, per dir solamente di
quello che tocca agli studi, che i posteri sieno per avere un
maggior numero di poeti eccellenti, di scrittori ottimi, di
filosofi veri e profondi? poiché si è veduto che questi soli
possono fare degna stima dei loro simili. Ovvero, che il giudizio
di questi avrà maggior efficacia nella moltitudine di allora,
che non ha quello dei nostri nella presente? Crediamo che nel
comune degli uomini le facoltà del cuore, dell'immaginativa,
dell'intelletto, saranno maggiori che non sono oggi?
Nelle
lettere amene non veggiamo noi quanti secoli sono stati di sl
perverso giudizio, che disprezzata la vera eccellenza dello
scrivere, dimenticati o derisi gli ottimi scrittori antichi o
nuovi, hanno amato e pregiato costantemente questo o quel modo
barbaro; tenendolo eziandio per solo convenevole e naturale;
perché qualsivoglia consuetudine, quantunque corrotta e pessima,
difficilmente si discerne dalla natura? E ciò non si trova
essere avvenuto in secoli e nazioni per altro gentili e nobili?
Che certezza abbiamo noi che la posterità sia per lodar sempre
quei modi dello scrivere che noi lodiamo? se pure oggi si lodano
quelli che sono lodevoli veramente. Certo i giudizi e le
inclinazioni degli uomini circa le bellezze dello scrivere, sono
mutabilissime, e varie secondo i tempi, le nature dei luoghi e
dei popoli, i costumi, gli usi, le persone. Ora a questa varietà
ed incostanza è forza che soggiaccia medesimamente la gloria
degli scrittori.
Anche
più varia e mutabile si è la condizione così della filosofia
come delle altre scienze: se bene al primo aspetto pare il
contrario: perché le lettere amene riguardano al bello, che
pende in gran parte dalle consuetudini e dalle opinioni; le
scienze al vero, ch'è immobile e non patisce cambiamento. Ma
come questo vero è celato ai mortali, se non quanto i secoli ne
discuoprono a poco a poco; però da una parte, sforzandosi gli
uomini di conoscerlo, congetturandolo, abbracciando questa o
quella apparenza in sua vece, si dividono in molte opinioni e
molte sette: onde si genera nelle scienze non piccola varietà.
Da altra parte, colle nuove notizie e coi nuovi quasi barlumi del
vero, che si vengono acquistando di mano in mano, crescono le
scienze di continuo: per la qual cosa, e perché vi prevagliono
in diversi tempi diverse opinioni, che tengono luogo di certezze,
avviene che esse, poco o nulla durando in un medesimo stato,
cangiano forma e qualità di tratto in tratto. Lascio il primo
punto, cioè la varietà; che forse non è di minore nocumento
alla gloria dei filosofi o degli scienziati appresso ai loro
posteri, che appresso ai contemporanei. Ma la mutabilità delle
scienze e della filosofia, quanto pensi tu che debba nuocere a
questa gloria nella posterità? Quando per nuove scoperte fatte,
o per nuove supposizioni e congetture, lo stato di una o di altra
scienza sarà notabilmente mutato da quello che egli è nel
nostro secolo; in che stima saranno tenuti gli scritti e i
pensieri di quegli uomini che oggi in essa scienza hanno maggior
lode? Chi legge ora più le opere di Galileo? Ma certo elle
furono al suo tempo mirabilissime; né forse migliori, né più
degne di un intelletto sommo, né piene di maggiori trovati e di
concetti più nobili, si potevano allora scrivere in quelle
materie. Nondimeno ogni mediocre fisico o matematico dell'età
presente, si trova essere, nell'una o nell'altra scienza, molto
superiore a Galileo. Quanti leggono oggidì gli scritti del
cancellier Bacone? chi si cura di quello del Mallebranche? e la
stessa opera del Locke, se i progressi della scienza quasi
fondata da lui, saranno in futuro così rapidi, come mostrano
dover essere, quanto tempo andrà per le mani degli uomini?
Veramente la stessa forza d'ingegno, la stessa industria e fatica, che i filosofi e gli scienziati usano a procurare la propria gloria, coll'andar del tempo sono causa o di spegnerla o di oscurarla. Perocché dall'aumento che essi recano ciascuno alla loro scienza, e per cui vengono in grido, nascono altri aumenti, per li quali il nome e gli scritti loro vanno a poco a poco in disuso. E certo è difficile ai più degli uomini l'ammirare e venerare in altri una scienza molto inferiore alla propria. Ora chi può dubitare che l'età prossima non abbia a conoscere la falsità di moltissime cose affermate oggi o credute da quelli che nel sapere sono primi, e a superare di non piccolo tratto nella notizia del vero l'età presente?
CAPITOLO DUODECIMO
Forse in ultimo luogo ricercherai d'intendere il mio parere e consiglio espresso, se a te, per tuo meglio, si convenga più di proseguire o di omettere il cammino di questa gloria, sì povera di utilità, sì difficile e incerta non meno a ritenere che a conseguire, simile all'ombra, che quando tu l'abbi tra le mani, non puoi né sentirla, né fermarla che non si fugga. Dirò brevemente, senz'alcuna dissimulazione, il mio parere. Io stimo che cotesta tua maravigliosa acutezza e forza d'intendimento, cotesta nobiltà, caldezza e fecondità di cuore e d'immaginativa, sieno di tutte le qualità che la sorte dispensa agli animi umani, le più dannose e lacrimevoli a chi le riceve. Ma ricevute che sono, con difficoltà si fugge il loro danno: e da altra parte, a questi tempi, quasi l'unica utilità che elle possono dare, si è questa gloria che talvolta se ne ritrae con applicarle alle lettere e alle dottrine. Dunque, come fanno quei poveri, che essendo per alcun accidente manchevoli o mal disposti di qualche loro membro, s'ingegnano di volgere questo loro infortunio al maggior profitto che possono, giovandosi di quello a muovere per mezzo della misericordia la liberalità degli uomini; così la mia sentenza è, che tu debba industriarti di ricavare a ogni modo da coteste tue qualità quel solo bene, quantunque piccolo e incerto, che sono atte a produrre. Comunemente elle sono avute per benefizi e doni della natura, e invidiate spesso da chi ne è privo, ai passati o ai presenti che le sortirono. Cosa non meno contraria al retto senso, che se qualche uomo sano invidiasse a quei miseri che io diceva, le calamità del loro corpo; quasi che il danno di quelle fosse da eleggere volentieri, per conto dell'infelice guadagno che partoriscono. Gli altri attendono a operare, per quanto concedono i tempi, e a godere, quanto comporta questa condizione mortale. Gli scrittori grandi, incapaci, per natura o per abito, di molti piaceri umani; privi di altri molti per volontà; non di rado negletti nel consorzio degli uomini, se non forse dai pochi che seguono i medesimi studi; hanno per destino di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l'ottengono, dopo sepolti. Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù, e di quelli che ti somigliano.
DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE
Coro di morti
nello studio di Federico Ruysch
Sola
nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dall'antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l'arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d'affanno e di temenza è sciolto,
E l'età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell'alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n'avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de' vivi al pensiero
L'ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura,
Però ch'esser beato
Nega ai mortali e nega a' morti il fato.
Ruysch
fuori dello studio, guardando per gli spiragli dell'uscio.
Diamine.! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano
di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per
poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perché gli
ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant'è:
con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel
diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so
che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l'uscio,
o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al
letto? Chiamare aiuto per paura de' morti, non mi sta bene. Via,
facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far paura a loro.
Entrando.
Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di essere
morti? che è cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la
visita dello Czar , e vi pensate di non essere più soggetti alle
leggi di prima? Io m'immagino che abbiate avuto intenzione di far
da burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con
voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai
morti; e però levatevi di casa mia. Se è vero quel che si dice
dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere;
che io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi
sono stato liberale di quel finto, che vi ho messo nelle vene .
In somma, se vorrete continuare a star quieti e in silenzio, come
siete stati finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia
non vi mancherà niente; se no, avvertite ch'io piglio la stanga
dell'uscio, e vi ammazzo tutti.
Morto: Non andare in collera; che io ti prometto che
resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ci ammazzi.
Ruysch: Dunque che è cotesta fantasia che vi è nata
adesso, di cantare?
Morto: Poco fa sulla mezza notte appunto, si e compiuto
per la prima volta quell'anno grande e matematico, di cui gli
antichi scrivono tante cose; e questa similmente è la prima
volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero,
in ogni sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la
rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano, tutti i
morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella
canzoncina che hai sentita.
Ruysch: E quanto dureranno a cantare o a parlare?
Morto: Di cantare hanno già finito. Di parlare hanno
facoltà per un quarto d'ora. Poi tornano in silenzio per insino
a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.
Ruysch: Se cotesto è vero, non credo che mi abbiate a
rompere il sonno un'altra volta. Parlate pure insieme liberamente;
che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò volentieri, per
curiosità, senza disturbarvi.
Morto: Non possiamo parlare altrimenti, che rispondendo a
qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi, finita che
ha la canzone, si accheta.
Ruysch: Mi dispiace veramente: perché m'immagino che
sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che vi direste fra voi,
se poteste parlare insieme.
Morto: Quando anche potessimo, non sentiresti nulla;
perché non avremmo che ci dire.
Ruysch: Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma
perché il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi
ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d'animo
nel punto della morte.
Morto: Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi.
Gli altri morti. Né anche noi.
Ruysch: Come non ve n'accorgeste?
Morto: Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento
che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli porre.
Ruysch: Ma l'addormentarsi è cosa naturale.
Morto: E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo,
o una bestia, o una pianta, che non muoia.
Ruysch: Non mi maraviglio più che andiate cantando e
parlando, se non vi accorgeste di morire.
Cosi
colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto,
dice un
poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda della
morte, i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi.
Ma dunque, tornando sul sodo, non sentiste nessun dolore in punto
di morte?
Morto: Che dolore ha da essere quello del quale chi lo
prova, non se n'accorge?
Ruysch: A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento
della morte sia dolorosissimo.
Morto: Quasi che la morte fosse un sentimento, e non
piuttosto il contrario.
Ruysch: E tanto quelli che intorno alla natura dell'anima
si accostano col parere degli Epicurei, quanto quelli che tengono
la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono in quello
ch'io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria,
e senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo.
Morto: Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e
agli altri: se l'uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in
cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano
non più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope
o per qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le
medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di
tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un
sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa
morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la
facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta
a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che
la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo
medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba
essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli
che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull'appressarsi della
morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si
riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta
a piccola quantità, non e più sufficiente al dolore, sicché
questo cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a
chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte.
Ruysch: Agli Epicurei forse potranno bastare coteste
ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della sostanza
dell'anima; come ho fatto io per lo passato, e farò da ora
innanzi molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i
morti. Perché stimando che il morire consista in una separazione
dell'anima dal corpo, non comprenderanno come queste due cose,
congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo, che
constituiscono l'una e l'altra una sola persona, si possano
separare senza una grandissima violenza, e un travaglio
indicibile.
Morto: Dimmi: lo spirito e forse appiccato al corpo con
qualche nervo, o con qualche muscolo o membrana, che di
necessità si abbia a rompere quando lo spirito si parte? o forse
è un membro del corpo, in modo che n'abbia a essere schiantato o
reciso violentemente? Non vedi che l'anima in tanto esce di esso
corpo, in quanto solo è impedita di rimanervi, e non v'ha più
luogo; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradichi?
Dimmi ancora: forse nell'entrarvi, ella vi si sente conficcare o
allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perché
dunque sentirà spiccarsi all'uscirne, o vogliamo dire proverà
una sensazione veementissima? Abbi per fermo, che l'entrata e l'uscita
dell'anima sono parimente quiete, facili e molli.
Ruysch: Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?
Morto: Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire,
come l'addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi.
Vero è che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori,
secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell'ultimo
di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere alcuno,
come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può generare
dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi dell'uomo in
quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che
è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser
causa di piacere: perché il piacere non sempre è cosa viva;
anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in
qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell'uomo sono
capaci di piacere anche presso all'estinguersi; atteso che
spessissime volte la stessa languidezza e piacere; massime quando
vi libera da patimento; poiché ben sai che la cessazione di
qualunque dolore o disagio, e piacere per se medesima. Sicché il
languore della morte debbe esser più grato secondo che libera l'uomo
da maggior patimento. Per me, se bene nell'ora della morte non
posi molta attenzione a quel che io sentiva, perché mi era
proibito dai medici di affaticare il cervello; mi ricordo però
che il senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che
è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si
vengono addormentando.
Gli altri morti: Anche a noi pare di ricordarci
altrettanto.
Ruysch: Sia come voi dite: benché tutti quelli coi quali
ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia, giudicavano
molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro
esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre
sentivate quella dolcezza, vi credeste di morire, e che quel
diletto fosse una cortesia della morte; o pure immaginaste
qualche altra cosa?
Morto: Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non
avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino all'ultimo
punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di
vita un'ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono.
Gli altri morti: A noi successe il medesimo.
Ruysch: Così Cicerone dice che nessuno è talmente
decrepito, che non si prometta di vivere almanco un anno. Ma come
vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo?
Dite: come conosceste d'essere morti? Non rispondono. Figliuoli,
non m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un
poco. Sono rimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da
far paura un'altra volta: torniamocene a letto.
DETTI MEMORABILI DI FILIPPO OTTONIERI
CAPITOLO PRIMO
Filippo Ottonieri, del quale prendo a scrivere alcuni ragionamenti notabili, che parte ho uditi dalla sua propria bocca, parte narrati da altri; nacque, e visse il più del tempo, a Nubiana, nella provincia di Valdivento; dove anche morì poco addietro; e dove non si ha memoria d'alcuno che fosse ingiuriato da lui, né con fatti né con parole. Fu odiato comunemente da' suoi cittadini; perché parve prendere poco piacere di molte cose che sogliono essere amate e cercate assai dalla maggior parte degli uomini; benché non facesse alcun segno di avere in poca stima o di riprovare quelli che più di lui se ne dilettavano e le seguivano. Si crede che egli fosse in effetto, e non solo nei pensieri, ma nella pratica, quel che gli altri uomini del suo tempo facevano professione di essere; cioè a dire filosofo. Perciò parve singolare dall'altra gente; benché non procurasse e non affettasse di apparire diverso dalla moltitudine in cosa alcuna. Nel quale proposito diceva, che la massima singolarità che oggi si possa trovare o nei costumi, o negl'instituti, o nei fatti di qualunque persona civile; paragonata a quella degli uomini che appresso agli antichi furono stimati singolari, non solo e di altro genere, ma tanto meno diversa che non fu quella, dall'uso ordinario de' contemporanei, che quantunque paia grandissima ai presenti, sarebbe riuscita agli antichi o menoma o nulla, eziandio ne' tempi e nei popoli che furono anticamente più inciviliti o più corrotti. E misurando la singolarità di Gian Giacomo Rousseau, che parve singolarissimo ai nostri avi, con quella di Democrito e dei primi filosofi cinici, soggiungeva, che oggi chiunque vivesse tanto diversamente da noi quanto vissero quei filosofi dai Greci del loro tempo, non sarebbe avuto per uomo singolare, ma nella opinione pubblica, sarebbe escluso, per dir così, dalla specie umana. E giudicava che dalla misura assoluta della singolarità possibile a trovarsi nelle persone di un luogo o di un tempo qualsivoglia, si possa conoscere la misura della civiltà degli uomini del medesimo luogo o tempo.
Nella vita, quantunque temperatissimo, si
professava epicureo, forse per ischerzo più che da senno. Ma
condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui,
molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e
della gloria, che dall'ozio, dalla negligenza, e dall'uso delle
voluttà del corpo; nelle quali cose quegli riponeva il sommo
bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea,
proporzionatissima all'età moderna, fu del tutto aliena dall'antica.
Nella
filosofia, godeva di chiamarsi socratico; e spesso, come Socrate,
s'intratteneva una buona parte del giorno ragionando
filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni
suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata
dall'occasione. Ma non frequentava, come Socrate, le botteghe de'
calzolai, de' legnaiuoli, de' fabbri e degli altri simili;
perché stimava che se i fabbri e i legnaiuoli di Atene avevano
tempo da spendere in filosofare, quelli di Nubiana, se avessero
fatto altrettanto, sarebbero morti di fame. Né anche ragionava,
al modo di Socrate, interrogando e argomentando di continuo;
perché diceva che, quantunque i moderni sieno più pazienti
degli antichi, non si troverebbe oggi chi sopportasse di
rispondere a un migliaio di domande continuate, e di ascoltare un
centinaio di conclusioni. E per verità non avea di Socrate altro
che il parlare talvolta ironico e dissimulato. E cercando l'origine
della famosa ironia socratica, diceva: Socrate nato con animo
assai gentile, e però con disposizione grandissima ad amare; ma
sciagurato oltre modo nella forma del corpo; verisimilmente fino
nella giovanezza disperò di potere essere amato con altro amore
che quello dell'amicizia, poco atto a soddisfare un cuore
delicato e fervido, che spesso senta verso gli altri un affetto
molto più dolce. Da altra parte, con tutto che egli abbondasse
di quel coraggio che nasce dalla ragione, non pare che fosse
fornito bastantemente di quello che viene dalla natura, né delle
altre qualità che in quei tempi di guerre e di sedizioni, e in
quella tanta licenza degli Ateniesi, erano necessarie a trattare
nella sua patria i negozi pubblici. Al che la sua forma ingrata e
ridicola gli sarebbe anche stata di non piccolo pregiudizio
appresso a un popolo che, eziandio nella lingua, faceva
pochissima differenza dal buono al bello, e oltre di ciò
deditissimo a motteggiare. Dunque in una città libera, e piena
di strepito, di passioni, di negozi, di passatempi, di ricchezze
e di altre fortune; Socrate povero, rifiutato dall'amore, poco
atto ai maneggi pubblici; e nondimeno dotato di un ingegno
grandissimo, che aggiunto a condizioni tali, doveva accrescere
fuor di modo ogni loro molestia; si pose per ozio a ragionare
sottilmente delle azioni, dei costumi e delle qualità de' suoi
cittadini: nel che gli venne usata una certa ironia; come
naturalmente doveva accadere a chi si trovava impedito di aver
parte, per dir così, nella vita. Ma la mansuetudine e la
magnanimità della sua natura, ed anche la celebrità che egli si
venne guadagnando con questi medesimi ragionamenti, e dalla quale
dovette essergli consolato in qualche parte l'amor proprio;
fecero che questa ironia non fu sdegnosa ed acerba, ma riposata e
dolce.
Così
la filosofia per la prima volta, secondo il famoso detto di
Cicerone, fatta scendere dal cielo, fu introdotta da Socrate
nelle città e nelle case; e rimossa dalla speculazione delle
cose occulte, nella quale era stata occupata insino a quel tempo,
fu rivolta a considerare i costumi e la vita degli uomini, e a
disputare delle virtù e dei vizi, delle cose buone ed utili, e
delle contrarie. Ma Socrate da principio non ebbe in animo di
fare quest'innovazione, né d'insegnar che che sia, né di
conseguire il nome di filosofo; che a quei tempi era proprio dei
soli fisici o metafisici; onde egli per quelle sue tali
discussioni e quei tali colloqui non lo poteva sperare: anzi
professò apertamente di non saper cosa alcuna; e non si propose
altro che d'intrattenersi favellando dei casi altrui; preferito
questo passatempo alla filosofia stessa, niente meno che a
qualunque altra scienza ed a qualunque arte, perché inclinando
naturalmente alle azioni molto più che alle speculazioni, non si
volgeva al discorrere, se non per le difficoltà che gl'impedivano
l'operare. E nei discorsi, sempre si esercitò colle persone
giovani e belle più volentieri che cogli altri; quasi ingannando
il desiderio, e compiacendosi d'essere stimato da coloro da cui
molto maggiormente avrebbe voluto essere amato. E perciocché
tutte le scuole dei filosofi greci nate da indi in poi,
derivarono in qualche modo dalla socratica, concludeva l'Ottonieri,
che l'origine di quasi tutta la filosofia greca, dalla quale
nacque la moderna, fu il naso rincagnato, e il viso da satiro, di
un uomo eccellente d'ingegno e ardentissimo di cuore. Anche
diceva, che nei libri dei Socratici, la persona di Socrate è
simile a quelle maschere, ciascuna delle quali nelle nostre
commedie antiche, ha da per tutto un nome, un abito, un'indole;
ma nel rimanente varia in ciascuna commedia.
Non lasciò scritta cosa alcuna di filosofia, né d'altro che non appartenesse a uso privato. E dimandandolo alcuni perché non prendesse a filosofare anche in iscritto, come soleva fare a voce, e non deponesse i suoi pensieri nelle carte, rispose: il leggere è un conversare, che si fa con chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi pubblici, quelli che non sono o non credono di esser parte dello spettacolo, prestissimo si annoiano; così nella conversazione è più grato generalmente il parlare che l'ascoltare. Ma i libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.
CAPITOLO SECONDO
Non
ammetteva distinzione dai negozi ai trastulli; e sempre che era
stato occupato in qualunque cosa, per grave che ella fosse,
diceva d'essersi trastullato. Solo se talvolta era stato qualche
poco d'ora senza occupazione, confessava non avere avuto in quell'intervallo
alcun passatempo.
Diceva
che i diletti più veri che abbia la nostra vita, sono quelli che
nascono dalle immaginazioni false; e che i fanciulli trovano il
tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto.
Assomigliava
ciascuno de' piaceri chiamati comunemente reali, a un carciofo di
cui, volendo arrivare alla castagna, bisognasse prima rodere e
trangugiare tutte le foglie. E soggiungeva che questi tali
carciofi sono anche rarissimi; che altri in gran numero se ne
trovano, simili a questi nel di fuori, ma dentro senza castagna;
e che esso, potendosi difficilmente adattare a ingoiarsi le
foglie, era contento per lo più di astenersi dagli uni e dagli
altri.
Rispondendo
a uno che l'interrogò, qual fosse il peggior momento della vita
umana, disse: eccetto il tempo del dolore, come eziandio del
timore, io per me crederei che i peggiori momenti fossero quelli
del piacere: perché la speranza e la rimembranza di questi
momenti, le quali occupano il resto della vita, sono cose
migliori e più dolci assai degli stessi diletti. E paragonava
universalmente i piaceri umani agli odori: perché giudicava che
questi sogliano lasciare maggior desiderio di sé, che qualunque
altra sensazione, parlando proporzionatamente al diletto; e di
tutti i sensi dell'uomo, il più lontano da potere esser fatto
pago dai propri piaceri, stimava che fosse l'odorato. Anche
paragonava gli odori all'aspettativa de' beni; dicendo che quelle
cose odorifere che sono buone a mangiare, o a gustare in
qualunque modo, ordinariamente vincono coll'odore il sapore;
perché gustati piacciono meno ch'a odorarli, o meno di quel che
dall'odore si stimerebbe. E narrava che talvolta gli era avvenuto
di sopportare impazientemente l'indugio di qualche bene, che egli
era già certo di conseguire; e ciò non per grande avidità che
sentisse di detto bene, ma per timore di scemarsene il godimento
con fare intorno a questo troppe immaginazioni, che glielo
rappresentassero molto maggiore di quello che egli sarebbe
riuscito. E che intanto aveva fatta ogni diligenza, per divertire
la mente dal pensiero di quel bene, come si fa dai pensieri de'
mali.
Diceva
altresì che ognuno di noi, da che viene al mondo, è come uno
che si corica in un letto duro e disagiato: dove subito posto,
sentendosi stare incomodamente, comincia a rivolgersi sull'uno e
sull'altro fianco, e mutar luogo e giacitura a ogni poco; e dura
così tutta la notte, sempre sperando di poter prendere alla fine
un poco di sonno, e alcune volte credendo essere in punto di
addormentarsi; finché venuta l'ora, senza essersi mai riposato,
si leva.
Osservando
insieme con alcuni altri certe api occupate nelle loro faccende,
disse: beate voi se non intendete la vostra infelicità.
Non
credeva che si potesse né contare tutte le miserie degli uomini,
né deplorarne una sola bastantemente.
A
quella questione di Orazio, come avvenga che nessuno è contento
del proprio stato, rispondeva: la cagione è, che nessuno stato
è felice. Non meno i sudditi che i principi, non meno i poveri
che i ricchi, non meno i deboli che i potenti, se fossero felici,
sarebbero contentissimi della loro sorte, e non avrebbero invidia
all'altrui: perocché gli uomini non sono più incontentabili,
che sia qualunque altro genere: ma non si possono appagare se non
della felicità. Ora, essendo sempre infelici, che maraviglia è
che non sieno mai contenti?
Notava
che posto caso che uno si trovasse nel più felice stato di
questa terra, senza che egli si potesse promettere di avanzarlo
in nessuna parte e in nessuna guisa; si può quasi dire che
questi sarebbe il più misero di tutti gli uomini. Anche i più
vecchi hanno disegni e speranze di migliorar condizione in
qualche maniera. E ricordava un luogo di Senofonte , dove
consiglia che avendosi a comperare un terreno, si compri di
quelli che sono male coltivati; perché, dice, un terreno che non
è per darti più frutto di quello che dà, non ti rallegra tanto,
quanto farebbe se tu lo vedessi andare di bene in meglio; e tutti
quegli averi che noi veggiamo che vengono vantaggiando, ci danno
molto più contento che gli altri.
All'incontro
notava che niuno stato è così misero, il quale non possa
peggiorare; e che nessun mortale, per infelicissimo che sia, può
consolarsi né vantarsi, dicendo essere in tanta infelicità, che
ella non comporti accrescimento. Ancorché la speranza non abbia
termine, i beni degli uomini sono terminati; anzi a un di presso
il ricco e il povero, il signore e il servo, se noi compensiamo
le qualità del loro stato colle assuefazioni e coi desiderii
loro, si trovano avere generalmente una stessa quantità di bene.
Ma la natura non ha posto alcun termine ai nostri mali; e quasi
la stessa immaginativa non può fingere alcuna tanta calamità,
che non si verifichi di presente, o già non sia stata verificata,
o per ultimo non si possa verificare, in qualcuno della nostra
specie. Per tanto, laddove la maggior parte degli uomini non
hanno in verità che sperare alcuno aumento della quantità di
bene che posseggono; a niuno mai nello spazio di questa vita,
può mancar materia non vana di timore: e se la fortuna presto si
riduce in grado, che ella veramente non ha virtù di beneficarci
da vantaggio, non perde però in alcun tempo la facoltà di
offenderci con danni nuovi e tali da vincere e rompere la stessa
fermezza della disperazione.
Ridevasi
spesse volte di quei filosofi che stimarono che l'uomo si possa
sottrarre dalla potestà della fortuna, disprezzando e riputando
come altrui tutti i beni e i mali che non è in sua propria mano
il conseguire o evitare, il mantenere o liberarsene; e non
riponendo la beatitudine e l'infelicità propria in altro, che in
quel che dipende totalmente da esso lui. Sopra la quale opinione,
tra le altre cose, diceva: lasciamo stare che se anche fu mai
persona che cogli altri vivesse da vero e perfetto filosofo,
nessuno visse né vive in tal modo seco medesimo; e che tanto è
possibile non curarsi delle cose proprie più che delle altrui,
quanto curarsi delle altrui come fossero proprie. Ma dato che
quella disposizione d'animo che dicono questi filosofi, non solo
fosse possibile, che non è, ma si trovasse qui vera ed attuale
in uno di noi; vi fosse anche più perfetta che essi non dicono,
confermata e connaturata da uso lunghissimo, sperimentata in
mille casi; forse perciò la beatitudine e l'infelicità di
questo tale, non sarebbero in potere della fortuna? Non
soggiacerebbe alla fortuna quella stessa disposizione d'animo,
che questi presumono che ce ne debba sottrarre? La ragione dell'uomo
non e sottoposta tutto giorno a infiniti accidenti? innumerabili
morbi che recano stupidità, delirio, frenesia, furore,
scempiaggine, cento altri generi di pazzia breve o durevole,
temporale o perpetua; non la possono turbare, debilitare,
stravolgere, estinguere? La memoria, conservatrice della sapienza,
non si va sempre logorando e scemando dalla giovanezza in giù?
quanti nella vecchiaia tornano fanciulli di mente! e quasi tutti
perdono il vigore dello spirito in quella età. Come eziandio per
qualunque mala disposizione del corpo, anco salva ed intera ogni
facoltà dell'intelletto e della memoria, il coraggio e la
costanza sogliono, quando più, quando meno, languire; e non di
rado si spengono. In fine, è grande stoltezza confessare che il
nostro corpo è soggetto alle cose che non sono in facoltà
nostra, e contuttociò negare che l'animo, il quale dipende dal
corpo quasi in tutto, soggiaccia necessariamente a cosa alcuna
fuori che a noi medesimi. E conchiudeva, che l'uomo tutto intero,
e sempre, e irrepugnabilmente, è in potestà della fortuna.
Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nato.
CAPITOLO TERZO
In
proposito di certa disavventura occorsagli, disse: il perdere una
persona amata, per via di qualche accidente repentino, o per
malattia breve e rapida, non è tanto acerbo, quanto è vedersela
distruggere a poco a poco (e questo era accaduto a lui) da una
infermità lunga, dalla quale ella non sia prima estinta, che
mutata di corpo e d'animo, e ridotta già quasi un'altra da
quella di prima. Cosa pienissima di miseria: perocché in tal
caso la persona amata non ti si dilegua dinanzi lasciandoti, in
cambio di sé, la immagine che tu ne serbi nell'animo, non meno
amabile che fosse per lo passato; ma ti resta in sugli occhi
tutta diversa da quella che tu per l'addietro amavi: in modo che
tutti gl'inganni dell'amore ti sono strappati violentemente dall'animo;
e quando ella poi ti si parte per sempre dalla presenza, quell'immagine
prima, che tu avevi di lei nel pensiero, si trova essere
scancellata dalla nuova. Così vieni a perdere la persona amata
interamente; come quella che non ti può sopravvivere né anche
nella immaginativa: la quale, in luogo di alcuna consolazione,
non ti porge altro che materia di tristezza. E in fine, queste
simili disavventure non lasciano luogo alcuno di riposarsi in sul
dolore che recano.
Dolendosi
uno di non so qual travaglio, e dicendo: se potessi liberarmi da
questo, tutti gli altri che ho, mi sarebbero leggerissimi a
sopportare; rispose: anzi allora ti sarebbero gravi, ora ti sono
leggeri.
Dicendo
un altro: se questo dolore fosse durato più, non sarebbe stato
sopportabile; rispose: anzi, per l'assuefazione, l'avresti
sopportato meglio.
E
in molte cose attenenti alla natura degli uomini, si discostava
dai giudizi comuni della moltitudine, e da quelli anco dei savi
talvolta. Come, per modo di esempio, negava che al dimandare e al
pregare, sieno opportuni i tempi di qualche insolita allegrezza
di quelli a cui le dimande o le preghiere sono da porgere.
Massimamente, diceva, quando la instanza non sia tale, che ella,
per la parte di chi è pregato o richiesto, si possa soddisfare
presentemente, con solo o poco più che un semplice acconsentirla;
io reputo che nelle persone il giubilo, sia cosa, a impetrar che
che sia da esse, non manco inopportuna e contraria, che il dolore.
Perciocché l'una e l'altra passione riempiono parimente l'uomo
del pensiero di se medesimo in guisa, che non lasciano luogo a
quelli delle cose altrui. Come nel dolore il nostro male, così
nella grande allegrezza il bene, tengono intenti e occupati gli
animi, e inetti alla cura dei bisogni e desiderii d'altri. Dalla
compassione specialmente, sono alienissimi l'uno e l'altro tempo;
quello del dolore, perché l'uomo è tutto volto alla pietà di
se stesso; quello della gioia, perché allora tutte le cose umane,
e tutta la vita, ci si rappresentano lietissime e piacevolissime;
tanto che le sventure e i travagli paiono quasi immaginazioni
vane, o certo se ne rifiuta il pensiero, per essere troppo
discorde dalla presente disposizione del nostro animo. I migliori
tempi da tentar di ridurre alcuno a operar di presente, o a
risolversi di operare, in altrui beneficio, sono quelli di
qualche allegrezza placida e moderata, non istraordinaria, non
viva; o pure, ed anco maggiormente, quelli di una cotal gioia,
che, quantunque viva, non ha soggetto alcuno determinato, ma
nasce da pensieri vaghi, e consiste in una tranquilla agitazione
dello spirito. Nel quale stato, gli uomini sono più disposti
alla compassione che mai, più facili a chi li prega, e talvolta
abbracciano volentieri l'occasione di gratificare gli altri, e di
volgere quel movimento confuso e quel piacevole impeto de' loro
pensieri, in qualche azione lodevole.
Negava
similmente che l'infelice, narrando o come che sia dimostrando i
suoi mali, riporti per l'ordinario maggior compassione e maggior
cura da quelli che hanno con lui maggiore conformità di travagli.
Anzi questi in udire le tue querele, o intendere la tua
condizione in qualunque modo, non attendono ad altro, che ad
anteporre seco stessi, come più gravi, i loro a' tuoi mali: e
spesso accade che, quando più ti pensi che sieno commossi sopra
il tuo stato, quelli t'interrompono narrandoti la sorte loro, e
sforzandosi di persuaderti che ella sia meno tollerabile della
tua. E diceva che in tali casi avviene ordinariamente quello che
nella Iliade si legge di Achille, quando Priamo supplichevole e
piangente gli e prostrato ai piedi: il quale finito che ha quel
suo lamento miserabile, Achille si pone a piangere seco, non già
dei mali di quello, ma delle sventure proprie, e per la
ricordanza del padre, e dell'amico ucciso. Soggiungeva, che ben
suole alquanto conferire alla compassione l'avere sperimentato
altre volte in sé quegli stessi mali che si odono o veggono
essere in altri, ma non il sostenerli al presente.
Diceva
che la negligenza e l'inconsideratezza sono causa di commettere
infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno apparenza di
malvagità o crudeltà: come, a cagione di esempio, in uno che
trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo, lascia i
servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per animo
duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando colla mente
il loro disagio. E stimava che negli uomini l'inconsideratezza
sia molto più comune della malvagità, della inumanità e simili;
e da quella abbia origine un numero assai maggiore di cattive
opere: e che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti
degli uomini che si attribuiscono a qualche pessima qualità
morale, non sieno veramente altro che inconsiderati.
Disse
in certa occasione, essere manco grave al benefattore la piena ed
espressa ingratitudine, che il vedersi rimunerare di un beneficio
grande con uno piccolo, col quale il beneficato, o per grossezza
di giudizio o per malvagità, si creda o si pretenda sciolto dall'obbligo
verso lui; ed esso apparisca ricompensato, o per civiltà gli
convenga far dimostrazione di tenersi tale: in modo che dall'una
parte, venga ad essere defraudato anche della nuda e infruttuosa
gratitudine dell'animo, la quale verisimilmente egli si aveva
promessa in qualunque caso; dall'altra parte, gli sia tolta la
facoltà di liberamente querelarsi dell'ingratitudine, o di
apparire, siccome egli è nell'effetto, male e ingiustamente
corrisposto.
Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo inclinati e soliti a presupporre in quelli coi quali ci avviene di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi veri, o che noi c'immaginiamo, e per conoscere la bellezza o qualunque altra virtù d'ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta memoria, per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sempre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele.
CAPITOLO QUARTO
Notava
che talora gli uomini irresoluti sono perseverantissimi nei loro
propositi, non ostante qualunque difficoltà; e questo per la
stessa loro irresolutezza; atteso che a lasciare la deliberazione
fatta, converrebbe si risolvessero un'altra volta. Talora sono
prontissimi ed efficacissimi nel mettere in opera quello che
hanno risoluto: perché temendo essi medesimi d'indursi di
momento in momento ad abbandonare il partito preso, e di
ritornare in quella travagliosissima perplessità e sospensione d'animo,
nella quale furono prima di determinarsi; affrettano la
esecuzione, e vi adoprano ogni loro forza; stimolati più dall'ansietà
e dall'incertezza di vincere se medesimi, che dal proprio oggetto
dell'impresa, e dagli altri ostacoli che essi abbiano a superare
per conseguirlo.
Diceva
alle volte ridendo, che le persone assuefatte a comunicare di
continuo cogli altri i propri pensieri e sentimenti, esclamano,
anco essendo sole, se una mosca le morde, o che si versi loro un
vaso, o fugga loro di mano; e che per lo contrario quelle che
sono usate di vivere seco stesse e di contenersi nel proprio
interno, se anco si sentono cogliere da un'apoplessia, trovandosi
pure in presenza d'altri, non aprono bocca.
Stimava
che una buona parte degli uomini, antichi e moderni, che sono
riputati grandi o straordinari, conseguissero questa riputazione
in virtù principalmente dell'eccesso di qualche loro qualità
sopra le altre. E che uno in cui le qualità dello spirito sieno
bilanciate e proporzionate fra loro; se bene elle fossero o
straordinarie o grandi oltre modo, possa con difficoltà far cose
degne dell'uno o dell'altro titolo, ed apparire ai presenti o ai
futuri né grande né straordinario.
Distingueva
nelle moderne nazioni civili tre generi di persone. Il primo, di
quelle in cui la natura propria, ed anco in gran parte la natura
comune degli uomini, si trova mutata e trasformata dall'arte, e
dagli abiti della vita cittadinesca. Di questo genere di persone
diceva essere tutte quelle che sono atte ai negozi privati o
pubblici; a partecipare con diletto nel commercio gentile degli
uomini, e riuscire scambievolmente grate a quelli coi quali si
abbattono a convivere, o a praticare personalmente in uno o altro
modo; in fine, all'uso della presente vita civile. E a questo
solo genere, parlando universalmente, diceva toccare ed
appartenere nelle dette nazioni la stima degli uomini. Il secondo,
essere di quelli in cui la natura non si trova mutata
bastantemente dalla sua prima condizione; o per non essere stata,
come si dice, coltivata; o perciocché, per sua strettezza e
insufficienza, fu poco atta a ricevere e a conservare le
impressioni e gli effetti dell'arte, della pratica e dell'esempio.
Questo essere il più numeroso dei tre; ma disprezzato non manco
da se medesimo che dagli altri, degno di piccola considerazione;
e in somma consistere in quella gente che ha o merita nome di
volgo, in qualunque ordine e stato sia posta dalla fortuna. Il
terzo, incomparabilmente inferiore di numero agli altri due,
quasi così disprezzato come il secondo, e spesso anco
maggiormente, essere di quelle persone in cui la natura per
soprabbondanza di forza, ha resistito all'arte del nostro
presente vivere, ed esclusala e ributtata da sé; non ricevutone
se non così piccola parte, che questa alle dette persone non è
bastante per l'uso dei negozi e per governarsi cogli uomini, né
per sapere anco riuscire conversando, né dilettevoli né
pregiate. E suddivideva questo genere in due specie: l'una al
tutto forte e gagliarda; disprezzatrice del disprezzo che le è
portato universalmente, e spesso più lieta di questo, che se
ella fosse onorata; diversa dagli altri non per sola necessità
di natura, ma eziandio per volontà e di buon grado; rimota dalle
speranze o dai piaceri del commercio degli uomini, e solitaria
nel mezzo delle città, non meno perché fugge essa dall'altra
gente, che per essere fuggita. Di questa specie soggiungeva non
si trovare se non rarissimi. Nella natura dell'altra, diceva
essere congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e di
timidità; in modo che essa natura combatte seco medesima.
Perocché gli uomini di questa seconda specie, non essendo di
volontà punto alieni dal conversare cogli altri, desiderando in
molte e diverse cose di rendersi conformi o simili a quelli del
primo genere, dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui
si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente
inferiori a sé d'ingegno e d'animo; non vengono a capo, non
ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all'uso
pratico della vita, né di rendersi nella conversazione
tollerabili a sé, non che altrui. Tali essere stati negli ultimi
tempi, ed essere all'età nostra, se bene l'uno più, l'altro
meno, non pochi degl'ingegni maggiori e più delicati. E per un
esempio insigne, recava Gian Giacomo Rousseau; aggiungendo a
questo un altro esempio, ricavato dagli antichi, cioè Virgilio:
del quale nella Vita latina che porta il nome di Donato
grammatico , è riferito coll'autorità di Melisso pure
grammatico, liberto di Mecenate, che egli fu nel favellare
tardissimo, e poco diverso dagl'indotti. E che ciò sia vero, e
che Virgilio, per la stessa maravigliosa finezza dell'ingegno,
fosse poco atto a praticare cogli uomini, gli pareva si potesse
raccorre molto probabilmente, sì dall'artificio sottilissimo e
faticosissimo del suo stile, e sì dalla propria indole di quella
poesia; come anche da ciò che si legge in sulla fine del secondo
delle Georgiche. Dove il poeta, contro l'uso dei Romani antichi,
e massimamente di quelli d'ingegno grande, si professa desideroso
della vita oscura e solitaria; e questo in una cotal guisa, che
si può comprendere che egli vi e sforzato dalla sua natura, anzi
che inclinato; e che l'ama più come rimedio o rifugio, che come
bene. E perciocché, generalmente parlando, gli uomini di questa
e dell'altra specie, non sono avuti in pregio, se non se alcuni
dopo morte, e quelli del secondo genere vivi, non che morti, sono
in poco o niun conto; giudicava potersi affermare in universale,
che ai nostri tempi, la stima comune degli uomini non si ottenga
in vita con altro modo, che con discostarsi e tramutarsi di gran
lunga dall'essere naturale. Oltre di questo, perciocché nei
tempi presenti tutta, per dir così, la vita civile consiste
nelle persone del primo genere, la natura del quale tiene come il
mezzo tra quelle de' due rimanenti; conchiudeva che anche per
questa via, come per altre mille, si può conoscere che oggidì l'uso,
il maneggio, e la potestà delle cose, stanno quasi totalmente
nelle mani della mediocrità.
Distingueva ancora tre stati della vecchiezza considerata in rispetto alle altre età dell'uomo. Nei principii delle nazioni, quando di costumi e d'abito, tutte le età furono giuste e virtuose; e mentre la esperienza e la cognizione degli uomini e della vita, non ebbero per proprietà di alienare gli animi dall'onesto e dal retto; la vecchiezza fu venerabile sopra le altre età: perché colla giustizia e con simili pregi, allora comuni a tutte, concorreva in essa, come e natura che vi si trovi, maggior senno e prudenza che nelle altre. In successo di tempo, per lo contrario, corrotti e pervertiti i costumi, niuna età fu più vile ed abbominabile della vecchiezza; inclinata coll'affetto al male più delle altre, per la più lunga consuetudine, per la maggior conoscenza e pratica delle cose umane, per gli effetti dell'altrui malvagità, più lungamente e in maggior numero sopportati, e per quella freddezza che ella ha da natura; e nel tempo stesso impotente a operarlo, salvo colle calunnie, le frodi, le perfidie, le astuzie, le simulazioni, e in breve con quelle arti che tra le scellerate sono abbiettissime. Ma poiché la corruttela delle nazioni ebbe trapassato ogni termine, e che il disprezzo della rettitudine e della virtù precorse negli uomini l'esperienza e la cognizione del mondo e del tristo vero; anzi, per dir così, l'esperienza e la cognizione precorsero l'età, e l'uomo già nella puerizia fu esperto, addottrinato e guasto; la vecchiezza divenne, non dico già venerabile, che da indi innanzi molto poche cose furono capaci di questo titolo, ma più tollerabile delle altre età. Perocché il fervore dell'animo e la gagliardia del corpo, che per l'addietro, giovando all'immaginativa, ed alla nobiltà dei pensieri, non di rado erano state in qualche parte cagione di costumi, di sensi e di opere virtuose; furono solamente stimoli e ministri del mal volere o del male operare, e diedero spirito e vivezza alla malvagità: la quale nel declinare degli anni, fu mitigata e sedata dalla freddezza del cuore, e dall'imbecillità delle membra; cose per altro più conducenti al vizio che alla virtù. Oltre che la stessa molta esperienza e notizia delle cose umane, divenute al tutto inamabili, fastidiose e vili; in luogo di volgere all'iniquità i buoni come per lo passato, acquistò forza di scemarne e talvolta spegnerne l'amore nei tristi. Laonde, in quanto ai costumi, parlando della vecchiezza a comparazione delle altre età, si può dire che ella fosse nei primi tempi, come è al buono il migliore; nei corrotti, come al cattivo il pessimo; nei seguenti e peggiori, al contrario.
CAPITOLO QUINTO
Ragionava
spesso di quella qualità di amor proprio che oggi è detta
egoismo; porgendosegli, credo io, frequentemente l'occasione di
entrarne in parole. Nella qual materia narrerò qualcuna delle
sue sentenze. Diceva che oggidì, qualora ti è lodato alcuno, o
vituperato, di probità o del contrario, da persona che abbia
avuto a fare seco, o che di presente abbia; tu non ricevi di quel
tale altra contezza, se non che questa persona che lo biasima o
loda, è bene o male soddisfatta di lui: bene, se lo rappresenta
per buono; male, se per malvagio.
Negava
che alcuno a questi tempi possa amare senza rivale; e dimandato
del perché, rispondeva: perché certo l'amato o l'amata è
rivale ardentissimo dell'amante.
Facciamo
caso, diceva, che tu richiegga di un piacere una qualsivoglia
persona; della qual dimanda non ti si possa soddisfare senza
incorrere nell'odio o nella mala volontà di un terzo; e questo
terzo, tu e la persona richiesta, supponghiamo che in istato e in
potere, siete tutti e tre uguali, poco più o meno. Io dico che
verisimilmente la tua dimanda non ti verrà conseguita per nessun
modo; posto eziandio che il gratificartene avesse dovuto
obbligarti grandemente al gratificatore, e fargli anche più
benevolo te, che inimico quel terzo. Ma dall'odio e dall'ira
degli uomini si teme assai più che dall'amore e dalla
gratitudine non si spera: e ragionevolmente: perché in generale
si vede, che quelle due prime passioni operano più spesso, e
nell'operare mostrano molto maggiore efficacia, che le contrarie.
La cagione è, che chi si sforza di nuocere a quelli che egli
odia, e chi cerca vendetta, opera per sé; chi si studia di
giovare a quelli che egli ama, e chi rimerita i benefizi ricevuti,
opera per gli amici e i benefattori.
Diceva
che universalmente gli ossequi e i servigi che si fanno agli
altri con isperanze e disegni di utilità propria, rade volte
conseguiscono il loro fine; perché gli uomini, massimamente oggi,
che hanno più scienza e più senno che per l'addietro, sono
facili a ricevere e difficili a rendere. Nondimeno, che di tali
ossequi e servigi, quelli che sono prestati da alcuni giovani a
vecchie ricche o potenti, ottengono il loro fine, non solo più
spesse volte che gli altri, ma il più delle volte.
Queste considerazioni infrascritte, che
concernono principalmente i costumi moderni, mi ricordo averle
udite dalla sua bocca. Oggi non è cosa alcuna che faccia
vergogna appresso agli uomini usati e sperimentati nel mondo,
salvo che il vergognarsi; né di cosa alcuna questi sì fatti
uomini si vergognano, fuorché di questa, se a caso qualche volta
v'incorrono.
Maraviglioso potere è quel della moda:
la quale, laddove le nazioni e gli uomini sono tenacissimi delle
usanze in ogni altra cosa, e ostinatissimi a giudicare, operare e
procedere secondo la consuetudine, eziandio contro ragione e con
loro danno; essa sempre che vuole, in un tratto li fa deporre,
variare, assumere usi, modi e giudizi, quando pur quello che
abbandonano sia ragionevole, utile, bello e conveniente, e quello
che abbracciano, il contrario.
D'infinite
cose che nella vita comune, o negli uomini particolari, sono
ridicole veramente, è rarissimo che si rida; e se pure alcuno vi
si prova, non gli venendo fatto di comunicare il suo riso agli
altri, presto se ne rimane. All'incontro, di mille cose o
gravissime o convenientissime, tutto giorno si ride, e con
facilità grande se ne muovono le risa negli altri. Anzi le più
delle cose delle quali si ride ordinariamente, sono tutt'altro
che ridicole in effetto; e di moltissime si ride per questa
cagione stessa, che elle non sono degne di riso o in parte alcuna
o tanto che basti.
Diciamo
e udiamo dire a ogni tratto: i buoni antichi, i nostri buoni
antenati; e uomo fatto all'antica, volendo dire uomo dabbene e da
potersene fidare. Ciascuna generazione crede dall'una parte, che
i passati fossero migliori dei presenti; dall'altra parte, che i
popoli migliorino allontanandosi dal loro primo stato ogni giorno
più; verso il quale se eglino retrocedessero, che allora senza
dubbio alcuno peggiorerebbero.
Certamente
il vero non è bello. Nondimeno anche il vero può spesse volte
porgere qualche diletto: e se nelle cose umane il bello è da
preporre al vero, questo, dove manchi il bello, è da preferire
ad ogni altra cosa. Ora nelle città grandi, tu sei lontano dal
bello: perché il bello non ha più luogo nessuno nella vita
degli uomini. Sei lontano anche dal vero: perché nelle città
grandi ogni cosa è finta, o vana. Di modo che ivi, per dir così,
tu non vedi, non odi, non tocchi, non respiri altro che falsità,
e questa brutta e spiacevole. Il che agli spiriti delicati si
può dire che sia la maggior miseria del mondo.
Quelli
che non hanno necessità di provvedere essi medesimi ai loro
bisogni, e però ne lasciano la cura agli altri, non possono per
l'ordinario provvedere, o in guisa alcuna, o solo con grandissima
difficoltà, e meno suffcientemente che gli altri, a un bisogno
principalissimo che in ogni modo hanno. Dico quello di occupare
la vita: il quale è maggiore assai di tutti i bisogni
particolari ai quali, occupandola, si provvede; e maggiore
eziandio che il bisogno di vivere. Anzi il vivere, per se stesso,
non è bisogno; perché disgiunto dalla felicità, non è bene.
Dove che posta la vita, è sommo e primo bisogno il condurla con
minore infelicità che si possa. Ora dall'una parte, la vita
disoccupata o vacua, è infelicissima. Dall'altra parte, il modo
di occupazione col quale la vita si fa manco infelice che con
alcun altro, si è quello che consiste nel provvedere ai propri
bisogni.
Diceva
che il costume di vendere e comperare uomini, era cosa utile al
genere umano: e allegava che l'uso dell'innestare il vaiuolo
venne in Costantinopoli, donde passò in Inghilterra, e di là
nelle altre parti d'Europa, dalla Circassia; dove la infermità
del vaiuolo naturale, pregiudicando alla vita o alle forme dei
fanciulli e dei giovani, danneggiava molto il mercato che fanno
quei popoli delle loro donzelle.
Narrava di se medesimo, che quando prima uscì delle scuole ed entrò nel mondo, propose, come giovanetto inesperto e amico della verità, di non voler mai lodare né persona né cosa che gli occorresse nel commercio degli uomini, se non se qualora ella fosse tale, che gli paresse veramente lodevole. Ma che passato un anno, nel quale, mantenendo il proposito fatto, non gli venne lodata né cosa né persona alcuna; temendo non si dimenticare al tutto, per mancamento di esercizio, quello che nella rettorica non molto prima aveva imparato circa il genere encomiastico o lodativo, ruppe il proposito; e indi a poco se ne rimosse totalmente.
CAPITOLO SESTO
Usava
di farsi leggere quando un libro quando un altro, per lo più di
scrittore antico; e interponeva alla lettura qualche suo detto, e
quasi annotazioncella a voce, sopra questo o quel passo, di mano
in mano. Udendo leggere nelle Vite dei filosofi scritte da
Diogene Laerzio , che interrogato Chilone in che differiscano gli
addottrinati dagl'indotti, rispose che nelle buone speranze;
disse: oggi e tutto l'opposto; perché gl'ignoranti sperano, e i
conoscenti non isperano cosa alcuna.
Similmente,
leggendosi nelle dette Vite come Socrate affermava essere al
mondo un solo bene, e questo essere la scienza; e un solo male, e
questo essere l'ignoranza; disse: della scienza e dell'ignoranza
antica non so; ma oggi io volgerei questo detto al contrario.
Nello
stesso libro riportandosi questo dogma della setta degli Egesiaci:
il sapiente, che che egli si faccia, farà ogni cosa a suo
beneficio proprio; disse: se tutti quelli che procedono in questo
modo sono filosofi, oramai venga Platone, e riduca ad atto la sua
repubblica in tutto il mondo civile.
Commendava
molto una sentenza di Bione boristenite, posta dal medesimo
Laerzio ; che i più travagliati di tutti, sono quelli che
cercano le maggiori felicità. E soggiungeva che, all'incontro, i
più beati sono quelli che più si possono e sogliono pascere
delle minime, e anco da poi che sono passate, rivolgerle e
assaporarle a bell'agio colla memoria.
Recava
alle varie età delle nazioni civili quel verso greco che suona:
i giovani fanno, i mezzani consultano, i vecchi desidera no;
dicendo che in vero non rimane all'età presente altro che
desiderio.
A
un passo di Plutarco , che e trasportato da Marcello Adriani
giovane in queste parole: molto meno arieno ancora gli Spartani
patito l'insolenza e buffonerie di Stratocle: il quale avendo
persuaso il popolo (ciò furono gli Ateniesi) a sacrificare come
vincitore; che poi, sentito il vero della rotta, si sdegnava;
disse: qual ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa
ed in gioia per ispazio di tre giorni? soggiunse l'Ottonieri: il
simile si potrebbe rispondere molto convenientemente a quelli che
si dolgono della natura, gravandosi che ella, per quanto è in
sé, tenga celato a ciascuno il vero, e coperto con molte
apparenze vane, ma belle e dilettevoli: che ingiuria vi fa ella a
tenervi lieti per tre o quattro giorni? E in altra occasione
disse, potersi appropriare alla nostra specie universalmente,
avendo rispetto agli errori naturali dell'uomo, quello che del
fanciullo ridotto ingannevolmente a prendere la medicina, dice il
Tasso: e da l'inganno suo vita riceve.
Nei
Paradossi di Cicerone essendogli letto un luogo, che in volgare
si ridurrebbe come segue: forse le voluttà fanno la persona
migliore o più lodevole? e hacci per avventura alcuno che del
goderle si magnifici o pavoneggi? disse: caro Cicerone, che i
moderni divengano per la voluttà o migliori o più lodevoli, non
ardisco dire; ma più lodati, sì bene. Anzi hai da sapere che
oggi questo solo cammino di lode si propongono e seguono quasi
tutti i giovani; cioè quello che mena per le voluttà. Delle
quali non pure si vantano, ottenendole, e ne fanno infinite
novelle cogli amici e cogli strani, con chi vuole e con chi non
vorrebbe udire; ma oltre di ciò, moltissime ne appetiscono e ne
procacciano, non come voluttà, ma come cagione di lode e di fama,
e come materia da gloriarsi; moltissime eziandio se ne
attribuiscono o non ottenute, o anco pure non cercate, o finte
del tutto.
Notava
nell'istoria che scrisse Arriano delle imprese di Alessandro
Magno , che alla giornata dell'Isso, Dario collocò i soldati
mercenari greci nella fronte dell'esercito, e Alessandro i suoi
mercenari pur greci alle spalle; e stimava che da questa
circostanza sola senza più, si fosse potuto antivedere il
successo della battaglia.
Non riprendeva, anzi lodava ed amava, che gli scrittori ragionassero molto di se medesimi: perché diceva che in questo, sono quasi sempre e quasi tutti eloquenti, e hanno per l'ordinario lo stile buono e convenevole, eziandio contro il consueto o del tempo, o della nazione, o proprio loro. E ciò non essere maraviglia; poiché quelli che scrivono delle cose proprie, hanno l'animo fortemente preso e occupato dalla materia; non mancano mai né di pensieri né di affetti nati da essa materia e nell'animo loro stesso, non trasportati di altri luoghi, né bevuti da altre fonti, né comuni e triti; e con facilità si astengono dagli ornamenti frivoli in sé, o che non fanno a proposito, dalle grazie e dalle bellezze false, o che hanno più di apparenza che di sostanza, dall'affettazione, e da tutto quello che è fuori del naturale. Ed essere falsissimo che i lettori ordinariamente si curino poco di quello che gli scrittori dicono di se medesimi: prima, perché tutto quello che veramente e pensato e sentito dallo scrittore stesso, e detto con modo naturale e acconcio, genera attenzione, e fa effetto; poi, perché in nessun modo si rappresentano o discorrono con maggior verità ed efficacia le cose altrui, che favellando delle proprie: atteso che tutti gli uomini si rassomigliano tra loro, sì nelle qualità naturali, e sì negli accidenti, in quel che dipende dalla sorte; e che le cose umane, a considerarle in se stesso, si veggono molto meglio e con maggior sentimento che negli altri. In confermazione dei quali pensieri adduceva, tra le altre cose, l'aringa di Demostene per la Corona, dove l'oratore parlando di sé continuamente, vince se medesimo di eloquenza: e Cicerone, al quale, il più delle volte, dove tocca le cose proprie, vien fatto altrettanto: il che si vede in particolare nella Miloniana, tutta maravigliosa, ma nel fine maravigliosissima, dove l'oratore introduce se stesso. Come similmente bellissimo ed eloquentissimo nelle orazioni del Bossuet sopra tutti gli altri luoghi, è quello dove chiudendo le lodi del Principe di Condé, il dicitore fa menzione della sua propria vecchiezza e vicina morte. Degli scritti di Giuliano imperatore, che in tutti gli altri è sofista, e spesso non tollerabile, il più giudizioso e più lodevole è la diceria che s'intitola Misopogone, cioè contro alla barba; dove risponde ai motti e alle maldicenze di quelli di Antiochia contro di lui. Nella quale operetta, lasciando degli altri pregi, egli non è molto inferiore a Luciano né di grazia comica, né di copia, acutezza e vivacità di sali; laddove in quella dei Cesari, pure imitativa di Luciano, è sgraziato, povero di facezie, ed oltre alla povertà, debole e quasi insulso. Tra gl'Italiani, che per altro sono quasi privi di scritture eloquenti, l'apologia che Lorenzino dei Medici scrisse per giustificazione propria, è un esempio di eloquenza grande e perfetta da ogni parte; e Torquato Tasso ancora è non di rado eloquente nelle altre prose, dove parla molto di se stesso, e quasi sempre eloquentissimo nelle lettere, dove non ragiona, si può dire, se non de' suoi propri casi.
CAPITOLO SETTIMO
Si
ricordano anche parecchi suoi motti e risposte argute: come fu
quella ch'ei diede a un giovanetto, molto studioso delle lettere,
ma poco esperto del mondo; il quale diceva, che dell'arte del
governarsi nella vita sociale, e della cognizione pratica degli
uomini, s'imparano cento fogli il dì. Rispose l'Ottonieri: ma il
libro fa cinque milioni di fogli.
A
un altro giovane inconsiderato e temerario, il quale per
ischermirsi da quelli che gli rimproveravano le male riuscite che
faceva giornalmente, e gli scorni che riportava, era usato
rispondere, che della vita non è da fare più stima che di una
commedia; disse una volta l'Ottonieri: anche nella commedia è
meglio riportare applausi che fischiate; e il commediante male
instrutto nell'arte sua, o mal destro in esercitarla, all'ultimo
si muore di fame.
Preso
dai sergenti della corte un ribaldo omicida, il quale per essere
zoppo, commesso il misfatto, non era potuto fuggire; disse:
vedete, amici, che la giustizia, se bene si dice che sia zoppa,
raggiunge però il malfattore, se egli è zoppo.
Viaggiando
per l'Italia, essendogli detto, non so dove, da un cortigiano che
lo voleva mordere: io ti parlerò schiettamente, se tu me ne dai
licenza; rispose: anzi avrò caro assai di ascoltarti; perché
viaggiando si cercano le cose rare.
Costretto
da non so quale necessità una volta, a chiedere danari in
prestanza a uno, il quale scusandosi di non potergliene dare,
concluse affermando, che se fosse stato ricco, non avrebbe avuto
maggior pensiero che delle occorrenze degli amici; esso replicò:
mi rincrescerebbe assai che tu stessi in pensiero per causa
nostra. Prego Dio che non ti faccia mai ricco.
Da
giovane, avendo composto alcuni versi, e adoperatovi certe voci
antiche; dicendogli una signora attempata, alla quale, richiesto
da essa, li recitava, non li sapere intendere, perché quelle
voci al tempo suo non correvano; rispose: anzi mi credeva che
corressero; perché sono molto antiche.
Di
un avaro ricchissimo, al quale era stato fatto un furto di pochi
danari, disse, che si era portato avaramente ancora coi ladri.
Di
un calcolatore, che sopra qualunque cosa gli veniva udita o
veduta, si metteva a computare, disse: gli altri fanno le cose, e
costui le conta.
Ad
alcuni antiquari che disputavano insieme dintorno a una figurina
antica di Giove, formata di terra cotta; richiesto del suo parere;
non vedete voi, disse, che questo è un Giove in Creta?
Di
uno sciocco il quale presumeva saper molto bene raziocinare, e ne'
suoi discorsi, a ogni due parole, ricordava la logica; disse:
questi è propriamente l'uomo definito alla greca; cioè un
animale logico.
Vicino a morte, compose esso medesimo questa inscrizione, che poi gli fu scolpita sopra la sepoltura.
OSSA
Dl FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE OPERE VIRTUOSE
E ALLA GLORIA
VISSUTO OZIOSO E DISUTILE
E MORTO SENZA FAMA
NON IGNARO DELLA NATURA
NÉ DELLA FORTUNA
SUA
DIALOGO DI CRISTOFORO COLOMBO E DI PIETRO GUTIERREZ
Colombo:
Bella notte, amico.
Gutierrez: Bella in verità: e credo che a vederla da
terra, sarebbe più bella.
Colombo: Benissimo: anche tu sei stanco del navigare.
Gutierrez: Non del navigare in ogni modo; ma questa
navigazione mi riesce più lunga che io non aveva creduto, e mi
dà un poco di noia. Contuttociò non hai da pensare che io mi
dolga di te, come fanno gli altri. Anzi tieni per certo che
qualunque deliberazione tu sia per fare intorno a questo viaggio,
sempre ti seconderò, come per l'addietro, con ogni mio potere.
Ma, così per via di discorso, vorrei che tu mi dichiarassi
precisamente, con tutta sincerità, se ancora hai così per
sicuro come a principio, di avere a trovar paese in questa parte
del mondo; o se, dopo tanto tempo e tanta esperienza in contrario,
cominci niente a dubitare.
Colombo: Parlando schiettamente, e come si può con
persona amica e segreta, confesso che sono entrato un poco in
forse: tanto più che nel viaggio parecchi segni che mi avevano
dato speranza grande, mi sono riusciti vani; come fu quel degli
uccelli che ci passarono sopra, venendo da ponente, pochi dì poi
che fummo partiti da Gomera, e che io stimai fossero indizio di
terra poco lontana. Similmente, ho veduto di giorno in giorno che
l'effetto non ha corrisposto a più di una congettura e più di
un pronostico fatto da me innanzi che ci ponessimo in mare, circa
a diverse cose che ci sarebbero occorse, credeva io, nel viaggio.
Però vengo discorrendo, che come questi pronostici mi hanno
ingannato, con tutto che mi paressero quasi certi; così potrebbe
essere che mi riuscisse anche vana la congettura principale,
cioè dell'avere a trovar terra di là dall'Oceano. Bene è vero
che ella ha fondamenti tali, che se pure e falsa, mi parrebbe da
un canto che non si potesse aver fede a nessun giudizio umano,
eccetto che esso non consista del tutto in cose che si veggano
presentemente e si tocchino. Ma da altro canto, considero che la
pratica si discorda spesso, anzi il più delle volte, dalla
speculazione: e anche dico fra me: che puoi tu sapere che
ciascuna parte del mondo si rassomigli alle altre in modo, che
essendo l'emisfero d'oriente occupato parte dalla terra e parte
dall'acqua, seguiti che anche l'occidentale debba essere diviso
tra questa e quella? che puoi sapere che non sia tutto occupato
da un mare unico e immenso? o che in vece di terra, o anco di
terra e d'acqua, non contenga qualche altro elemento? Dato che
abbia terre e mari come l'altro, non potrebbe essere che fosse
inabitato? anzi inabitabile? Facciamo che non sia meno abitato
del nostro: che certezza hai tu che vi abbia creature razionali,
come in questo? e quando pure ve ne abbia, come ti assicuri che
sieno uomini, e non qualche altro genere di animali intellettivi?
ed essendo uomini; che non sieno differentissimi da quelli che tu
conosci? ponghiamo caso, molto maggiori di corpo, più gagliardi,
più destri; dotati naturalmente di molto maggiore ingegno e
spirito; anche, assai meglio inciviliti, e ricchi di molta più
scienza ed arte? Queste cose vengo pensando fra me stesso. E per
verità, la natura si vede essere fornita di tanta potenza, e gli
effetti di quella essere così vari e moltiplici, che non
solamente non si può fare giudizio certo di quel che ella abbia
operato ed operi in parti lontanissime e del tutto incognite al
mondo nostro, ma possiamo anche dubitare che uno s'inganni di
gran lunga argomentando da questo a quelle, e non sarebbe
contrario alla verisimilitudine l'immaginare che le cose del
mondo ignoto, o tutte o in parte, fossero maravigliose e strane a
rispetto nostro. Ecco che voi veggiamo cogli occhi propri che l'ago
in questi mari declina dalla stella per non piccolo spazio verso
ponente: cosa novissima, e insino adesso inaudita a tutti i
navigatori; della quale, per molto fantasticarne, io non so
pensare una ragione che mi contenti. Non dico per tutto questo,
che si abbia a prestare orecchio alle favole degli antichi circa
alle maraviglie del mondo sconosciuto, e di questo Oceano; come,
per esempio, alla favola dei paesi narrati da Annone , che la
notte erano pieni di fiamme, e dei torrenti di fuoco che di là
sboccavano nel mare: anzi veggiamo quanto sieno stati vani fin
qui tutti i timori di miracoli e di novità spaventevoli, avuti
dalla nostra gente in questo viaggio; come quando, al vedere
quella quantità di alghe, che pareva facessero della marina
quasi un prato, e c'impedivano alquanto l'andare innanzi,
pensarono essere in sugli ultimi confini del mar navigabile. Ma
voglio solamente inferire, rispondendo alla tua richiesta, che
quantunque la mia congettura sia fondata in argomenti
probabilissimi, non solo a giudizio mio, ma di molti geografi,
astronomi e navigatori eccellenti, coi quali ne ho conferito,
come sai, nella Spagna, nell'Italia e nel Portogallo; nondimeno
potrebbe succedere che fallasse: perché, torno a dire, veggiamo
che molte conclusioni cavate da ottimi discorsi, non reggono all'esperienza;
e questo interviene più che mai, quando elle appartengono a cose
intorno alle quali si ha pochissimo lume.
Gutierrez: Di modo che tu, in sostanza, hai posto la tua
vita, e quella de' tuoi compagni, in sul fondamento di una
semplice opinione speculativa.
Colombo: Così è: non posso negare. Ma, lasciando da
parte che gli uomini tutto giorno si mettono a pericolo della
vita con fondamenti più deboli di gran lunga, e per cose di
piccolissimo conto, o anche senza pensarlo; considera un poco. Se
al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo in
su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine
incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in
quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? in che
saremmo occupati? in che modo passeremmo questi giorni? Forse
più lietamente? o non saremmo anzi in qualche maggior travaglio
o sollecitudine, ovvero pieni di noia? Che vuol dire uno stato
libero da incertezza e pericolo? se contento e felice, quello è
da preferire a qualunque altro; se tedioso e misero, non veggo a
quale altro stato non sia da posporre. Io non voglio ricordare la
gloria e l'utilità che riporteremo, succedendo l'impresa in modo
conforme alla speranza. Quando altro frutto non ci venga da
questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima
in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa
cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non
avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi, come avrai letto
o udito, che gli amanti infelici, gittandosi dal sasso di Santa
Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e
scampandone; restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla
passione amorosa. Io non so se egli si debba credere che
ottenessero questo effetto; ma so bene che, usciti di quel
pericolo, avranno per un poco di tempo, anco senza il favore di
Apollo, avuta cara la vita che prima avevano in odio; o pure
avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna navigazione
e, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade;
producendo le medesime utilità, ma più durevoli che quello non
produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore assai.
Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a
ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita
propria, che non fanno gli altri della loro. Io per lo stesso
rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche persone in
tanto amore e pregio come da' navigatori e soldati. Quanti beni
che, avendoli, non si curano, anzi quante cose che non hanno pur
nome di beni, paiono carissime e preziosissime ai naviganti, solo
per esserne privi! Chi pose mai nel numero dei beni umani l'avere
un poco di terra che ti sostenga? Niuno, eccetto i navigatori, e
massimamente noi, che per la molta incertezza del successo di
questo viaggio, non abbiamo maggior desiderio che della vista di
un cantuccio di terra; questo è il primo pensiero che ci si fa
innanzi allo svegliarci, con questo ci addormentiamo; e se pure
una volta ci verrà scoperta da lontano la cima di un monte o di
una foresta, o cosa tale, non capiremo in noi stessi dalla
contentezza; e presa terra, solamente a pensare di ritrovarci in
sullo stabile, e di potere andare qua e là camminando a nostro
talento, ci parrà per più giorni essere beati.
Gutierrez: Tutto cotesto è verissimo: tanto che se quella
tua congettura speculativa riuscirà così vera come è la
giustificazione dell'averla seguita, non potremo mancar di godere
questa beatitudine un giorno o l'altro.
Colombo: Io per me, se bene non mi ardisco più di
promettermelo sicuramente, contuttociò spererei che fossimo per
goderla presto. Da certi giorni in qua, lo scandaglio, come sai,
tocca fondo; e la qualità di quella materia che gli vien dietro,
mi pare indizio buono. Verso sera, le nuvole intorno al sole, mi
si dimostrano d'altra forma e di altro colore da quelle dei
giorni innanzi. L'aria, come puoi sentire, è fatta un poco più
dolce e più tepida di prima. Il vento non corre più, come per l'addietro,
così pieno, né così diritto, né costante; ma piuttosto
incerto, e vario, e come fosse interrotto da qualche intoppo.
Aggiungi quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra
essere tagliata di poco; e quel ramicello di albero con quelle
coccole rosse e fresche. Anche gli stormi degli uccelli, benché
mi hanno ingannato altra volta, nondimeno ora sono tanti che
passano, e così grandi; e moltiplicano talmente di giorno in
giorno; che penso vi si possa fare qualche fondamento; massime
che vi si veggono intramischiati alcuni uccelli che, alla forma,
non mi paiono dei marittimi. In somma tutti questi segni raccolti
insieme, per molto che io voglia essere diffidente, mi tengono
pure in aspettativa grande e buona.
Gutierrez: Voglia Dio questa volta, ch'ella si verifichi.
Amelio
filosofo solitario, stando una mattina di primavera, co' suoi
libri, seduto all'ombra di una sua casa in villa, e leggendo;
scosso dal cantare degli uccelli per la campagna, a poco a poco
datosi ad ascoltare e pensare, e lasciato il leggere; all'ultimo
pose mano alla penna, e in quel medesimo luogo scrisse le cose
che seguono.
Sono
gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo. Non
dico ciò in quanto se tu li vedi o gli odi, sempre ti rallegrano;
ma intendo di essi medesimi in sé, volendo dire che sentono
giocondità e letizia più che alcuno altro animale. Si veggono
gli altri animali comunemente seri e gravi; e molti di loro anche
paiono malinconici: rade volte fanno segni di gioia, e questi
piccoli e brevi; nella più parte dei loro godimenti e diletti,
non fanno festa, né significazione alcuna di allegrezza; delle
campagne verdi, delle vedute aperte e leggiadre, dei soli
splendidi, delle arie cristalline e dolci, se anco sono dilettati,
non ne sogliono dare indizio di fuori: eccetto che delle lepri si
dice che la notte, ai tempi della luna, e massime della luna
piena, saltano e giuocano insieme, compiacendosi di quel chiaro,
secondo che scrive Senofonte . Gli uccelli per lo più si
dimostrano nei moti e nell'aspetto lietissimi; e non da altro
procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se
non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali,
che per natura dinotano abilità e disposizione speciale a
provare godimento e gioia: la quale apparenza non è da riputare
vana e ingannevole. Per ogni diletto e ogni contentezza che hanno,
cantano; e quanto è maggiore il diletto o la contentezza, tanto
più lena e più studio pongono nel cantare. E cantando buona
parte del tempo, s'inferisce che ordinariamente stanno di buona
voglia e godono. E se bene è notato che mentre sono in amore,
cantano meglio, e più spesso, e più lungamente che mai; non è
da credere però, che a cantare non li muovano altri diletti e
altre contentezze fuori di queste dell'amore. Imperocché si vede
palesemente che al dì sereno e placido, cantano più che all'oscuro
e inquieto: e nella tempesta si tacciono, come anche fanno in
ciascuno altro timore che provano; e passata quella, tornano
fuori cantando e giocolando gli uni cogli altri. Similmente si
vede che usano di cantare in sulla mattina allo svegliarsi; a che
sono mossi parte dalla letizia che prendono del giorno nuovo,
parte da quel piacere che è generalmente a ogni animale sentirsi
ristorati dal sonno e rifatti. Anche si rallegrano sommamente
delle verzure liete, vallette fertili, delle acque pure e lucenti,
del paese bello. Nelle quali cose è notabile che quello che pare
ameno e leggiadro a noi, quello pare anche a loro; come si può
conoscere dagli allettamenti coi quali sono tratti alle reti o
alle panie, negli uccellari e paretai. Si può conoscere altresì
dalla condizione di quei luoghi alla campagna, nei quali per l'ordinario
è più frequenza di uccelli, e il canto loro assiduo e fervido.
Laddove gli altri animali, se non forse quelli che sono
dimesticati e usi a vivere cogli uomini, o nessuno o pochi fanno
quello stesso giudizio che facciamo noi, dell'amenità e della
vaghezza dei luoghi. E non è da maravigliarsene: perocché non
sono dilettati se non solamente dal naturale. Ora in queste cose,
una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non
è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati,
gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i
fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e
cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che
avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese
abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non
considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si
riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da
quella che sarebbe in natura. Dicono alcuni, e farebbe a questo
proposito, che la voce degli uccelli è più gentile e più dolce,
e il canto più modulato, nelle parti nostre, che in quelle dove
gli uomini sono selvaggi e rozzi; e conchiudono che gli uccelli,
anco essendo liberi, pigliano alcun poco della civiltà di quegli
uomini alle cui stanze sono usati.
O
che questi dicano il vero o no, certo fu notabile provvedimento
della natura l'assegnare a un medesimo genere di animali il canto
e il volo; in guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri
viventi colla voce, fossero per l'ordinario in luogo alto; donde
ella si spandesse all'intorno per maggiore spazio, e pervenisse a
maggior numero di uditori. E in guisa che l'aria, la quale si è
l'elemento destinato al suono, fosse popolata di creature vocali
e musiche. Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non
meno, per mio parere, agli altri animali che agli uomini, l'udire
il canto degli uccelli. E ciò credo io che nasca principalmente,
non dalla soavità de' suoni, quanta che ella si sia, né dalla
loro varietà, né dalla convenienza scambievole; ma da quella
significazione di allegrezza che è contenuta per natura, sì nel
canto in genere, e sì nel canto degli uccelli in ispecie. Il
quale è, come a dire, un riso, che l'uccello fa quando egli si
sente star bene e piacevolmente.
Onde
si potrebbe dire in qualche modo, che gli uccelli partecipano del
privilegio che ha l'uomo di ridere: il quale non hanno gli altri
animali; e perciò pensarono alcuni che siccome l'uomo è
definito per animale intellettivo o razionale, potesse non meno
sufficientemente essere definito per animale risibile; parendo
loro che il riso non fosse meno proprio e particolare all'uomo,
che la ragione. Cosa certamente mirabile è questa, che nell'uomo,
il quale infra tutte le creature è la più travagliata e misera,
si trovi la facoltà del riso, aliena da ogni altro animale.
Mirabile ancora si è l'uso che noi facciamo di questa facoltà:
poiché si veggono molti in qualche fierissimo accidente, altri
in grande tristezza d'animo, altri che quasi non serbano alcuno
amore alla vita, certissimi della vanità di ogni bene umano,
presso che incapaci di ogni gioia, e privi di ogni speranza;
nondimeno ridere. Anzi, quanto conoscono meglio la vanità dei
predetti beni, e l'infelicità della vita; e quanto meno sperano,
e meno eziandio sono atti a godere; tanto maggiormente sogliono i
particolari uomini essere inclinati al riso. La natura del quale
generalmente, e gl'intimi principii e modi, in quanto si è a
quella parte che consiste nell'animo, appena si potrebbero
definire e spiegare; se non se forse dicendo che il riso e specie
di pazzia non durabile, o pure di vaneggiamento e delirio.
Perciocché gli uomini, non essendo mai soddisfatti né mai
dilettati veramente da cosa alcuna, non possono aver causa di
riso che sia ragionevole e giusta. Eziandio sarebbe curioso a
cercare, donde e in quale occasione più verisimilmente, l'uomo
fosse recato la prima volta a usare e a conoscere questa sua
potenza. Imperocché non è dubbio che esso nello stato primitivo
e selvaggio, si dimostra per lo più serio, come fanno gli altri
animali; anzi alla vista malinconico. Onde io sono di opinione
che il riso, non solo apparisse al mondo dopo il pianto, della
qual cosa non si può fare controversia veruna; ma che penasse un
buono spazio di tempo a essere sperimentato e veduto
primieramente. Nel qual tempo, né la madre sorridesse al bambino,
né questo riconoscesse lei col sorriso, come dice Virgilio. Che
se oggi, almeno dove la gente è ridotta a vita civile,
incominciano gli uomini a ridere poco dopo nati; fannolo
principalmente in virtù dell'esempio, perché veggono altri che
ridono. E crederei che la prima occasione e la prima causa di
ridere, fosse stata agli uomini la ubbriachezza; altro effetto
proprio e particolare al genere umano. Questa ebbe origine lungo
tempo innanzi che gli uomini fossero venuti ad alcuna specie di
civiltà; poiché sappiamo che quasi non si ritrova popolo così
rozzo, che non abbia provveduto di qualche bevanda o di qualche
altro modo da inebbriarsi, e non lo soglia usare cupidamente.
Delle quali cose non è da maravigliare; considerando che gli
uomini, come sono infelicissimi sopra tutti gli altri animali,
eziandio sono dilettati più che qualunque altro, da ogni non
travagliosa alienazione di mente, dalla dimenticanza di se
medesimi, dalla intermissione, per dir così, della vita; donde o
interrompendosi o per qualche tempo scemandosi loro il senso e il
conoscimento dei propri mali, ricevono non piccolo benefizio. E
in quanto al riso, vedesi che i selvaggi, quantunque di aspetto
seri e tristi negli altri tempi, pure nella ubbriachezza ridono
profusamente; favellando ancora molto e cantando, contro al loro
usato. Ma di queste cose tratterò più distesamente in una
storia del riso, che ho in animo di fare: nella quale, cercato
che avrò del nascimento di quello, seguiterò narrando i suoi
fatti e i suoi casi e le sue fortune, da indi in poi, fino a
questo tempo presente; nel quale egli si trova essere in dignità
e stato maggiore che fosse mai; tenendo nelle nazioni civili un
luogo, e facendo un ufficio, coi quali esso supplisce per qualche
modo alle parti esercitate in altri tempi dalla virtù, dalla
giustizia, dall'onore e simili; e in molte cose raffrenando e
spaventando gli uomini dalle male opere. Ora conchiudendo del
canto degli uccelli, dico, che imperocché la letizia veduta o
conosciuta in altri, della quale non si abbia invidia, suole
confortare e rallegrare; però molto lodevolmente la natura
provvide che il canto degli uccelli, il quale è dimostrazione di
allegrezza, e specie di riso, fosse pubblico; dove che il canto e
il riso degli uomini, per rispetto al rimanente del mondo, sono
privati: e sapientemente operò che la terra e l'aria fossero
sparse di animali che tutto dì, mettendo voci di gioia risonanti
e solenni, quasi applaudissero alla vita universale, e
incitassero gli altri viventi ad allegrezza, facendo continue
testimonianze, ancorché false, della felicità delle cose.
E
che gli uccelli sieno e si mostrino lieti più che gli altri
animali, non è senza ragione grande. Perché veramente, come ho
accennato a principio, sono di natura meglio accomodati a godere
e ad essere felici. Primieramente, non pare che sieno sottoposti
alla noia. Cangiano luogo a ogni tratto; passano da paese a paese
quanto tu vuoi lontano, e dall'infima alla somma parte dell'aria,
in poco spazio di tempo, e con facilità mirabile; veggono e
provano nella vita loro cose infinite e diversissime; esercitano
continuamente il loro corpo; abbondano soprammodo della vita
estrinseca. Tutti gli altri animali, provveduto che hanno ai loro
bisogni, amano di starsene quieti e oziosi; nessuno, se già non
fossero i pesci, ed eccettuati pure alquanti degl'insetti
volatili, va lungamente scorrendo per solo diporto. Così l'uomo
silvestre, eccetto per supplire di giorno in giorno alle sue
necessità, le quali ricercano piccola e breve opera; ovvero se
la tempesta, o alcuna fiera, o altra sì fatta cagione non lo
caccia; appena è solito di muovere un passo: ama principalmente
l'ozio e la negligenza: consuma poco meno che i giorni intieri
sedendo neghittosamente in silenzio nella sua capannetta informe,
o all'aperto, o nelle rotture e caverne delle rupi e dei sassi.
Gli uccelli, per lo contrario, pochissimo soprastanno in un
medesimo luogo; vanno e vengono di continuo senza necessità
veruna; usano il volare per sollazzo; e talvolta, andati a
diporto più centinaia di miglia dal paese dove sogliono
praticare, il dì medesimo in sul vespro vi si riducono. Anche
nel piccolo tempo che soprasseggono in un luogo, tu non li vedi
stare mai fermi della persona; sempre si volgono qua e là,
sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si crollano, si
dimenano; con quella vispezza, quell'agilità, quella prestezza
di moti indicibile. In somma, da poi che l'uccello è schiuso
dall'uovo, insino a quando muore, salvo gl'intervalli del sonno,
non si posa un momento di tempo. Per le quali considerazioni
parrebbe si potesse affermare, che naturalmente lo stato
ordinario degli altri animali, compresovi ancora gli uomini, si
è la quiete; degli uccelli, il moto.
A
queste loro qualità e condizioni esteriori corrispondono le
intrinseche, cioè dell'animo; per le quali medesimamente sono
meglio atti alla felicità che gli altri animali. Avendo l'udito
acutissimo, e la vista efficace e perfetta in modo, che l'animo
nostro a fatica se ne può fare una immagine proporzionata; per
la qual potenza godono tutto giorno immensi spettacoli e
variatissimi, e dall'alto scuoprono, a un tempo solo, tanto
spazio di terra, e distintamente scorgono tanti paesi coll'occhio,
quanti, pur colla mente, appena si possono comprendere dall'uomo
in un tratto; s'inferisce che debbono avere una grandissima forza
e vivacità, e un grandissimo uso d'immaginativa. Non di quella
immaginativa profonda, fervida e tempestosa, come ebbero Dante,
il Tasso; la quale è funestissima dote, e principio di
sollecitudini e angosce gravissime e perpetue; ma di quella ricca,
varia, leggera, instabile e fanciullesca; la quale si è
larghissima fonte di pensieri ameni e lieti, di errori dolci, di
vari diletti e conforti; e il maggiore e più fruttuoso dono di
cui la natura sia cortese ad anime vive. Di modo che gli uccelli
hanno di questa facoltà, in copia grande, il buono, e l'utile
alla giocondità dell'animo, senza però partecipare del nocivo e
penoso. E siccome abbondano della vita estrinseca, parimente sono
ricchi della interiore: ma in guisa, che tale abbondanza risulta
in loro benefizio e diletto, come nei fanciulli; non in danno e
miseria insigne, come per lo più negli uomini. Perocché nel
modo che l'uccello quanto alla vispezza e alla mobilità di fuori,
ha col fanciullo una manifesta similitudine; così nelle qualità
dell'animo dentro, ragionevolmente è da credere che lo somigli.
I beni della quale età se fossero comuni alle altre, e i mali
non maggiori in queste che in quella; forse l'uomo avrebbe
cagione di portare la vita pazientemente. A parer mio, la natura
degli uccelli, se noi la consideriamo in certi modi, avanza di
perfezione quelle degli altri animali. Per maniera di esempio, se
consideriamo che l'uccello vince di gran lunga tutti gli altri
nella facoltà del vedere e dell'udire, che secondo l'ordine
naturale appartenente al genere delle creature animate, sono i
sentimenti principali; in questo modo seguita che la natura dell'uccello
sia cosa più perfetta che sieno le altre nature di detto genere.
Ancora, essendo gli altri animali, come è scritto di sopra,
inclinati naturalmente alla quiete, e gli uccelli al moto; e il
moto essendo cosa più viva che la quiete, anzi consistendo la
vita nel moto, e gli uccelli abbondando di movimento esteriore
più che veruno altro animale; e oltre di ciò, la vista e l'udito,
dove essi i eccedono tutti gli altri, e che maggioreggiano tra le
loro potenze, essendo i due sensi più particolari ai viventi,
come anche più vivi e più mobili, tanto in se medesimi, quanto
negli abiti e altri effetti che da loro si producono nell'animale
dentro e fuori; e finalmente stando le altre cose dette dinanzi;
conchiudesi che l'uccello ha maggior copia di vita esteriore e
interiore, che non hanno gli altri animali. Ora, se la vita è
cosa più perfetta che il suo contrario, almeno nelle creature
viventi; e se perciò la maggior copia di vita è maggiore
perfezione; anche per questo modo seguita che la natura degli
uccelli sia più perfetta. Al qual proposito non è da passare in
silenzio che gli uccelli sono parimente acconci a sopportare gli
estremi del freddo e del caldo; anche senza intervallo di tempo
tra l'uno e l'altro: poiché veggiamo spesse volte, che da terra,
in poco più che un attimo, si levano su per l'aria insino a
qualche parte altissima, che è come dire a un luogo
smisuratamente freddo; e molti di loro, in breve tempo,
trascorrono volando diversi climi.
In fine, siccome Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per esser mirato continuamente da quella che egli amava, o in gonnellino per coprirla, o in unguento per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell'uno e mezzo nell'altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo . Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d'un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d'intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l'oda cantare, o chi l'abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte all'uso delle lingue, e massime dei poeti, d'oriente.
Su,
mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla
terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la
soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.
Ciascuno
in questo tempo raccoglie e ricorre coll'animo tutti i pensieri
della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli
studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli
sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno
in questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure
nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi
sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è
danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani
dell'infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare
il quale concorse o letizia o speranza. L'una e l'altra insino
alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e salva; ma in
questa, o manca o declina.
Se
il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla
vita; se sotto l'astro diurno, languendo per la terra in
profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna;
non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le
foreste, né canto di uccelli per l'aria, né susurro d'api o di
farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se
non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna
banda; certo l'universo sarebbe inutile; ma forse che vi si
troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che
oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno
e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e
consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un
solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei
mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l'intento
suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella
creatura che la produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai
la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna,
in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese
abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme
illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e
siede nell'imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del
mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che
tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtù
vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante
instancabile, velocemente, dì e notte, senza sonno né requie,
corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o
infelice?
Mortali,
destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che
niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà
dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente
riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto
in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una
somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe
conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo
lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé
mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a
portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un
poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di
morte.
Pare
che l'essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto
il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla
scaturirono le cose che sono. Certo l'ultima causa dell'essere
non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero e che
le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera
loro; ma da niuna l'ottengono: e in tutta la loro vita,
ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono
veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a
questo solo intento della natura, che è la morte.
A
ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il
più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro
mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono
e formano di presente: perocché gli animi in quell'ora, eziandio
senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra
tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri
tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu
sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione;
destandosi, accetta novamente nell'animo la speranza, quantunque
ella in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli
propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo
minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le
angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco
in riso come effetto di errori, e d'immaginazioni vane. La sera
è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del
mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più racconsolato
e confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar
male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella che i
mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e
prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta.
Il fior degli anni, se bene e il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura e intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell'universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l'universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell'autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l'universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi .
FRAMMENTO APOCRIFO DI STRATONE DA LAMPSACO
PREAMBOLO
Questo Frammento, che io per passatempo ho recato dal greco in volgare, è tratto da un codice a penna che trovavasi alcuni anni sono, e forse ancora si trova, nella libreria dei monaci del monte Athos. Lo intitolo Frammento apocrifo perché, come ognuno può vedere, le cose che si leggono nel capitolo della fine del mondo, non possono essere state scritte se non poco tempo addietro; laddove Stratone da Lampsaco, filosofo peripatetico, detto il fisico, visse da trecento anni avanti l'era cristiana. È ben vero che il capitolo della origine del mondo concorda a un di presso con quel poco che abbiamo delle opinioni di quel filosofo negli scrittori antichi. E però si potrebbe credere che il primo capitolo, anzi forse ancora il principio dell'altro, sieno veramente di Stratone; il resto vi sia stato aggiunto da qualche dotto Greco non prima del secolo passato. Giudichino gli eruditi lettori.
DELLA ORIGINE DEL MONDO
Le
cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così
tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno
incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria
forza ab eterno. Imperocché se dal vedere che le cose materiali
crescono e diminuiscono e all'ultimo si dissolvono, conchiudesi
che elle non sono per sé né ab eterno, ma incominciate e
prodotte, per lo contrario quello che mai non cresce né scema e
mai non perisce, si dovrà giudicare che mai non cominciasse e
che non provenga da causa alcuna. E certamente in niun modo si
potrebbe provare che delle due argomentazioni, se questa fosse
falsa, quella fosse pur vera. Ma poiché noi siamo certi quella
esser vera il medesimo abbiamo a concedere anco dell'altra. Ora
noi veggiamo che la materia non si accresce mai di una eziandio
menoma quantità, niuna anco menoma parte della materia si perde,
in guisa che essa materia non è sottoposta a perire. Per tanto i
diversi modi di essere della materia, i quali si veggono in
quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e
passeggeri; ma niun segno di caducità né di mortalità si
scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella
sia cominciata, né che ad essere le bisognasse o pur le bisogni
alcuna causa o forza fuori di sé. Il mondo, cioè l'essere della
materia in un cotal modo, è cosa incominciata e caduca. Ora
diremo della origine del mondo.
La materia in universale, siccome in particolare le piante e le creature animate, ha in sé per natura una o più forze sue proprie, che l'agitano e muovono in diversissime guise continuamente. Le quali forze noi possiamo congetturare ed anco denominare dai loro effetti, ma non conoscere in sé, né scoprir la natura loro. Né anche possiamo sapere se quegli effetti che da noi si riferiscono a una stessa forza, procedano veramente da una o da più, e se per contrario quelle forze che noi significhiamo con diversi nomi, sieno veramente diverse forze, o pure una stessa. Siccome tutto dì nell'uomo con diversi vocaboli si dinota una sola passione o forza: per modo di esempio, l'ambizione, l'amor del piacere e simili, da ciascuna delle quali fonti derivano effetti talora semplicemente diversi, talora eziandio contrari a quei delle altre, sono in fatti una medesima passione, cioè l'amor di se stesso, il quale opera in diversi casi diversamente. Queste forze adunque o si debba dire questa forza della materia, movendola, come abbiamo detto, ed agitandola di continuo, forma di essa materia innumerabili creature, cioè la modifica in variatissime guise. Le quali creature, comprendendole tutte insieme, e considerandole siccome distribuite in certi generi e certe specie, e congiunte tra sé con certi tali ordini e certe tali relazioni che provengono dalla loro natura, si chiamano mondo. Ma imperciocché la detta forza non resta mai di operare e di modificar la materia, però quelle creature che essa continuamente forma, essa altresì le distrugge, formando della materia loro nuove creature. Insino a tanto che distruggendosi le creature individue, i generi nondimeno e le specie delle medesime si mantengono, tutte o le più, e che gli ordini e le relazioni naturali delle cose non si cangiano o in tutto o nella più parte, si dice durare ancora quel cotal mondo. Ma infiniti mondi nello spazio infinito della eternità, essendo durati più o men tempo, finalmente sono venuti meno, perdutisi per li continui rivolgimenti della materia, cagionati dalla predetta forza, quei generi e quelle specie onde essi mondi si componevano, e mancate quelle relazioni e quegli ordini che li governavano. Né perciò la materia è venuta meno in qual si sia particella, ma solo sono mancati que' suoi tali modi di essere, succedendo immantinente a ciascuno di loro un altro modo, cioè un altro mondo, di mano in mano.
DELLA FINE DEL MONDO
Questo
mondo presente del quale gli uomini sono parte, cioè a dir l'una
delle specie delle quali esso è composto, quanto tempo sia
durato fin qui, non si può facilmente dire, come né anche si
può conoscere quanto tempo esso sia per durare da questo innanzi.
Gli ordini che lo reggono paiono immutabili, e tali sono creduti,
perciocché essi non si mutano se non che a poco a poco e con
lunghezza incomprensibile di tempo, per modo che le mutazioni
loro non cadono appena sotto il conoscimento, non che sotto i
sensi dell'uomo. La quale lunghezza di tempo, quanta che ella si
sia, è ciò non ostante menoma per rispetto alla durazione
eterna della materia. Vedesi in questo presente mondo un continuo
perire degl'individui ed un continuo trasformarsi delle cose da
una in altra; ma perciocché la distruzione è compensata
continuamente dalla produzione, e i generi si conservano, stimasi
che esso mondo non abbia né sia per avere in sé alcuna causa
per la quale debba né possa perire, e che non dimostri alcun
segno di caducità. Nondimeno si può pur conoscere il contrario,
e ciò da più d'uno indizio, ma tra gli altri da questo.
Sappiamo
che la terra, a cagione del suo perpetuo rivolgersi intorno al
proprio asse, fuggendo dal centro le parti dintorno all'equatore,
e però spingendosi verso il centro quelle dintorno ai poli, è
cangiata di figura e continuamente cangiasi, divenendo intorno
all'equatore ogni dì più ricolma, e per lo contrario intorno ai
poli sempre più deprimendosi. Or dunque da ciò debbe avvenire
che in capo di certo tempo, la quantità del quale, avvengaché
sia misurabile in sé, non può essere conosciuta dagli uomini,
la terra si appiani di qua e di là dall'equatore per modo, che
perduta al tutto la figura globosa, si riduca in forma di una
tavola sottile ritonda. Questa ruota aggirandosi pur di continuo
dattorno al suo centro, attenuata tuttavia più e dilatata, a
lungo andare, fuggendo dal centro tutte le sue parti, riuscirà
traforata nel mezzo. Il qual foro ampliandosi a cerchio di giorno
in giorno, la terra ridotta per cotal modo a figura di uno anello,
ultimamente andrà in pezzi; i quali usciti della presente orbita
della terra, e perduto il movimento circolare, precipiteranno nel
sole o forse in qualche pianeta.
Potrebbesi
per avventura in confermazione di questo discorso addurre un
esempio, io voglio dire dell'anello di Saturno, della natura del
quale non si accordano tra loro i fisici. E quantunque nuova e
inaudita, forse non sarebbe perciò inverisimile congettura il
presumere che il detto anello fosse da principio uno dei pianeti
minori destinati alla sequela di Saturno; indi appianato e poscia
traforato nel mezzo per cagioni conformi a quelle che abbiamo
dette della terra, ma più presto assai, per essere di materia
forse più rara e più molle, cadesse dalla sua orbita nel
pianeta di Saturno, dal quale colla virtù attrattiva della sua
massa e del suo centro, sia ritenuto, siccome lo veggiamo essere
veramente, dintorno a esso centro. E si potrebbe credere che
questo anello, continuando ancora a rivolgersi, come pur fa,
intorno al suo mezzo, che è medesimamente quello del globo di
Saturno, sempre più si assottigli e dilati, e sempre si accresca
quello intervallo che è tra esso e il predetto globo, quantunque
ciò accada troppo più lentamente di quello che si richiederebbe
a voler che tali mutazioni fossero potute notare e conoscere
dagli uomini, massime così distanti. Queste cose, o seriamente o
da scherzo, sieno dette circa all'anello di Saturno.
Ora
quel cangiamento che noi sappiamo essere intervenuto e
intervenire ogni giorno alla figura della terra, non è dubbio
alcuno che per le medesime cause non intervenga somigliantemente
a quella di ciascun pianeta, comeché negli altri pianeti esso
non ci sia così manifesto agli occhi come egli ci è pure in
quello di Giove. Né solo a quelli che a similitudine della terra
si aggirano intorno al sole, ma il medesimo senza alcun fallo
interviene ancora a quei pianeti che ogni ragion vuole che si
credano essere intorno a ciascuna stella. Per tanto in quel modo
che si è divisato della terra tutti i pianeti in capo di certo
tempo, ridotti per se medesimi in pezzi, hanno a precipitare gli
uni nel sole, gli altri nelle stelle loro. Nelle quali fiamme
manifesto è che non pure alquanti o molti individui, ma
universalmente quei generi e quelle specie che ora si contengono
nella terra e nei pianeti, saranno distrutte insino, per dir
così, dalla stirpe. E questo per avventura, o alcuna cosa a ciò
somigliante, ebbero nell'animo quei filosofi, così greci come
barbari, i quali affermarono dovere alla fine questo presente
mondo perire di fuoco. Ma perciocché noi veggiamo che anco il
sole si ruota dintorno al proprio asse, e quindi il medesimo si
dee credere delle stelle, segue che l'uno e le altre in corso di
tempo debbano non meno che i pianeti venire in dissoluzione, e le
loro fiamme dispergersi nello spazio. In tal guisa adunque il
moto circolare delle sfere mondane, il quale è principalissima
parte dei presenti ordini naturali, e quasi principio e fonte
della conservazione di questo universo, sarà causa altresì
della distruzione di esso universo e dei detti ordini.
Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di quelli, siccome eziandio degl'innumerabili che già furono e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare.
DIALOGO DI TIMANDRO E DI ELEANDRO
Timandro:
Io ve lo voglio anzi debbo pur dire liberamente. La sostanza e l'intenzione
del vostro scrivere e del vostro parlare, mi paiono molto
biasimevoli.
Eleandro: Quando non vi paia tale anche l'operare,
io non mi dolgo poi tanto: perché le parole e gli scritti
importano poco.
Timandro: Nell'operare, non trovo di che
riprendervi. So che non fate bene agli altri per non potere, e
veggo che non fate male per non volere. Ma nelle parole e negli
scritti, vi credo molto riprensibile; e non vi concedo che oggi
queste cose importino poco; perché la nostra vita presente non
consiste, si può dire, in altro. Lasciamo le parole per ora, e
diciamo degli scritti. Quel continuo biasimare e derider che fate
la specie umana, primieramente è fuori di moda.
Eleandro: Anche il mio cervello è fuori di moda. E
non è nuovo che i figliuoli vengano simili al padre.
Timandro: Né anche sarà nuovo che i vostri libri,
come ogni cosa contraria all'uso corrente, abbiano cattiva
fortuna.
Eleandro: Poco male. Non per questo andranno
cercando pane in sugli usci.
Timandro: Quaranta o cinquant'anni addietro, i
filosofi solevano mormorare della specie umana; ma in questo
secolo fanno tutto al contrario.
Eleandro: Credete voi che quaranta o cinquant'anni
addietro, i filosofi, mormorando degli uomini, dicessero il falso
o il vero?
Timandro: Piuttosto e più spesso il vero che il
falso.
Eleandro: Credete che in questi quaranta o cinquant'anni,
la specie umana sia mutata in contrario da quella che era prima?
Timandro: Non credo; ma cotesto non monta nulla al
nostro proposito.
Eleandro: Perché non monta? Forse è cresciuta di
potenza, o salita di grado; che gli scrittori d'oggi sieno
costretti di adularla, o tenuti di riverirla?
Timandro: Cotesti sono scherzi in argomento grave.
Eleandro: Dunque tornando sul sodo, io non ignoro
che gli uomini di questo secolo, facendo male ai loro simili
secondo la moda antica, si sono pur messi a dirne bene, al
contrario del secolo precedente. Ma io, che non fo male a simili
né a dissimili, non credo essere obbligato a dir bene degli
altri contro coscienza.
Timandro: Voi siete pure obbligato come tutti gli
altri uomini, a procurar di giovare alla vostra specie.
Eleandro: Se la mia specie procura di fare il
contrario a me, non veggo come mi corra cotesto obbligo che voi
dite. Ma ponghiamo che mi corra. Che debbo io fare, se non posso?
Timandro: Non potete, e pochi altri possono, coi
fatti. Ma cogli scritti, ben potete giovare, e dovete. E non si
giova coi libri che mordono continuamente l'uomo in generale;
anzi si nuoce assaissimo.
Eleandro: Consento che non si giovi, e stimo che
non si noccia. Ma credete voi che i libri possano giovare alla
specie umana?
Timandro: Non solo io, ma tutto il mondo lo crede.
Eleandro: Che libri?
Timandro: Di più generi; ma specialmente del
morale.
Eleandro: Questo non è creduto da tutto il mondo;
perché io, fra gli altri, non lo credo; come rispose una donna a
Socrate. Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che
gioverebbero massimamente i poetici: dico poetici, prendendo
questo vocabolo largamente; cioè libri destinati a muovere la
immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi. Ora io
fo poca stima di quella poesia che letta e meditata, non lascia
al lettore nell'animo un tal sentimento nobile, che per mezz'ora,
gl'impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un'azione
indegna. Ma se il lettore manca di fede al suo principale amico
un'ora dopo la lettura, io non disprezzo perciò quella tal
poesia: perché altrimenti mi converrebbe disprezzare le più
belle, più calde e più nobili poesie del mondo. Ed escludo poi
da questo discorso i lettori che vivono in città grandi: i quali,
in caso ancora che leggano attentamente, non possono essere
giovati anche per mezz'ora, né molto dilettati né mossi, da
alcuna sorta di poesia.
Timandro: Voi parlate, al solito vostro,
malignamente, e in modo che date ad intendere di essere per l'ordinario
molto male accolto e trattato dagli altri: perché questa il più
delle volte è la causa del mal animo e del disprezzo che certi
fanno professione di avere alla propria specie.
Eleandro: Veramente io non dico che gli uomini mi
abbiano usato ed usino molto buon trattamento: massime che
dicendo questo, io mi spaccerei per esempio unico. Né anche mi
hanno fatto però gran male: perché, non desiderando niente da
loro, né in concorrenza con loro, io non mi sono esposto alle
loro offese più che tanto. Ben vi dico e vi accerto, che siccome
io conosco e veggo apertissimamente di non saper fare una menoma
parte di quello che si richiede a rendersi grato alle persone; e
di essere quanto si possa mai dire inetto a conversare cogli
altri, anzi alla stessa vita; per colpa o della mia natura o mia
propria; però se gli uomini mi trattassero meglio di quello che
fanno, io gli stimerei meno di quel che gli stimo.
Timandro: Dunque tanto più siete condannabile:
perché l'odio, e la volontà di fare, per dir così, una
vendetta degli uomini, essendone stato offeso a torto, avrebbe
qualche scusa. Ma l'odio vostro, secondo che voi dite, non ha
causa alcuna particolare; se non forse un'ambizione insolita e
misera di acquistar fama dalla misantropia, come Timone:
desiderio abbominevole in sé, alieno poi specialmente da questo
secolo, dedito sopra tutto alla filantropia.
Eleandro: Dell'ambizione non accade che io vi
risponda; perché ho già detto che non desidero niente dagli
uomini: e se questo non vi par credibile, benché sia vero;
almeno dovete credere che l'ambizione non mi muova a scriver cose
che oggi, come voi stesso affermate, partoriscono vituperio e non
lode a chi le scrive. Dall'odio poi verso tutta la nostra specie,
sono così lontano, che non solamente non voglio, ma non posso
anche odiare quelli che mi offendono particolarmente; anzi sono
del tutto inabile e impenetrabile all'odio. Il che non è piccola
parte della mia tanta inettitudine a praticare nel mondo. Ma io
non me ne posso emendare: perché sempre penso che comunemente,
chiunque si persuade, con far dispiacere o danno a chicchessia,
far comodo o piacere a se proprio; s'induce ad offendere; non per
far male ad altri (che questo non è propriamente il fine di
nessun atto o pensiero possibile), ma per far bene a sé; il qual
desiderio è naturale, e non merita odio. Oltre che ad ogni vizio
o colpa che io veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a
esaminare me stesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le
circostanze convenevoli a quel proposito; e trovandomi sempre o
macchiato o capace degli stessi difetti, non mi basta l'animo d'irritarmene.
Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una
malvagità che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui
non ne ho potuto vedere. Finalmente il concetto della vanità
delle cose umane, mi riempie continuamente l'animo in modo, che
non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in battaglia; e l'ira
e l'odio mi paiono passioni molto maggiori e più forti, che non
è conveniente alla tenuità della vita. Dall'animo di Timone al
mio, vedete che diversità ci corre. Timone, odiando e fuggendo
tutti gli altri, amava a accarezzava solo Alcibiade, come causa
futura di molti mali alla loro patria comune. Io, senza odiarlo,
avrei fuggito più lui che gli altri, ammoniti i cittadini del
pericolo, e confortati a provvedervi. Alcuni dicono che Timone
non odiava gli uomini, ma le fiere in sembianza umana. Io non
odio né gli uomini né le fiere.
Timandro: Ma né anche amate nessuno.
Eleandro: Sentite, amico mio. Sono nato ad amare,
ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in
anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età
naturalmente fredda, né forse anco tepida; non mi vergogno a
dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di
natura, e il meno che mi è possibile. Contuttociò sono solito e
pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di
patimento agli altri. E di questo, per poca notizia che abbiate
de' miei costumi, credo mi possiate essere testimonio.
Timandro: Non ve lo nego.
Eleandro: Di modo che io non lascio di procurare
agli uomini per la mia parte, posponendo ancora il rispetto
proprio, quel maggiore, anzi solo bene che sono ridotto a
desiderare per me stesso, cioè di non patire.
Timandro: Ma confessate voi formalmente, di non
amare né anche la nostra specie in comune?
Eleandro: Sì, formalmente. Ma come tuttavia, se
toccasse a me, farei punire i colpevoli, se bene io non gli odio;
così, se potessi, farei qualunque maggior benefizio alla mia
specie, ancorché io non l'ami.
Timandro: Bene, sia così. Ma in fine, se non vi
muovono ingiurie ricevute, non odio, non ambizione; che cosa vi
muove a usare cotesto modo di scrivere?
Eleandro: Diverse cose. Prima, l'intolleranza di
ogni simulazione e dissimulazione: alle quali mi piego talvolta
nel parlare, ma negli scritti non mai; perché spesso parlo per
necessità, ma non sono mai costretto a scrivere; e quando avessi
a dire quel che non penso, non mi darebbe un gran sollazzo a
stillarmi il cervello sopra le carte. Tutti i savi si ridono di
chi scrive latino al presente, che nessuno parla quella lingua, e
pochi la intendono. Io non veggo come non sia parimente ridicolo
questo continuo presupporre che si fa scrivendo e parlando, certe
qualità umane che ciascun sa che oramai non si trovano in uomo
nato, e certi enti razionali o fantastici, adorati già lungo
tempo addietro, ma ora tenuti internamente per nulla e da chi gli
nomina, e da chi gli ode a nominare. Che si usino maschere e
travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere
conosciuti; non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati
con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo,
senza ingannare l'un l'altro, e conoscendosi ottimamente tra loro;
mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi le maschere, si rimangano
coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e staranno
più a loro agio. Perché pur finalmente, questo finger sempre,
ancorché inutile, e questo sempre rappresentare una persona
diversissima dalla propria, non si può fare senza impaccio e
fastidio grande. Se gli uomini dallo stato primitivo, solitario e
silvestre, fossero passati alla civiltà moderna in un tratto, e
non per gradi; crediamo noi che si troverebbero nelle lingue i
nomi delle cose dette dianzi, non che nelle nazioni l'uso di
ripetergli a ogni poco, e di farvi mille ragionamenti sopra? In
verità quest'uso mi par come una di quelle cerimonie o pratiche
antiche, alienissime dai costumi presenti, le quali contuttociò
si mantengono, per virtù della consuetudine. Ma io che non mi
posso adattare alle cerimonie, non mi adatto anche a quell'uso; e
scrivo in lingua moderna, e non dei tempi troiani. In secondo
luogo; non tanto io cerco mordere ne' miei scritti la nostra
specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa credo sia più
manifesta e palpabile, che l'infelicità necessaria di tutti i
viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e
lasciamo pur questo e qualunque altro discorso. Se è vera,
perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene
apertamente e liberamente, e dire, io patisco? Ma se mi dolessi
piangendo (e questa si è la terza causa che mi muove), darei
noia non piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun frutto.
Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di
recarne altrui nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto,
tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l'unico
profitto che se ne possa cavare, e l'unico rimedio che vi si
trovi. Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca
un sorriso. Non dovete pensare che io non compatisca all'infelicità
umana. Ma non potendovisi riparare con nessuna forza, nessuna
arte, nessuna industria, nessun patto; stimo assai più degno
dell'uomo, e di una disperazione magnanima, il ridere dei mali
comuni; che il mettermene a sospirare, lagrimare e stridere
insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto. In ultimo
mi resta a dire, che io desiderio quanto voi, e quanto qualunque
altro, il bene della mia specie in universale; ma non lo spero in
nessun modo; non mi so dilettare e pascere di certe buone
aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo; e
la mia disperazione, per essere intera, e continua, e fondata in
un giudizio fermo e in una certezza, non mi lascia luogo a sogni
e immaginazioni liete circa il futuro, né animo d'intraprendere
cosa alcuna per vedere di ridurle ad effetto. E ben sapete che l'uomo
non si dispone a tentare quel che egli sa o crede non dovergli
succedere, e quando vi si disponga, opera di mala voglia e con
poca forza; e che scrivendo in modo diverso o contrario all'opinione
propria, se questa fosse anco falsa, non si fa mai cosa degna di
considerazione.
Timandro: Ma bisogna ben riformare il giudizio
proprio quando sia diverso dal vero; come è il vostro.
Eleandro: Io giudico quanto a me di essere infelice,
e in questo so che non m'inganno. Se gli altri non sono, me ne
congratulo seco loro con tutta l'anima. Io sono anche sicuro di
non liberarmi dall'infelicità, prima che io muoia. Se gli altri
hanno diversa speranza di sé, me ne rallegro similmente.
Timandro: Tutti siamo infelici, e tutti sono stati:
e credo non vorrete gloriarvi che questa vostra sentenza sia
delle più nuove. Ma la condizione umana si può migliorare di
gran lunga da quel che ella è, come e già migliorata
indicibilmente da quello che fu. Voi mostrate non ricordarvi, o
non volervi ricordare, che l'uomo è perfettibile.
Eleandro: Perfettibile lo crederò sopra la vostra
fede; ma perfetto, che e quel che importa maggiormente, non so
quando l'avrò da credere né sopra la fede di chi.
Timandro: Non è giunto ancora alla perfezione,
perché gli e mancato tempo; ma non si può dubitare che non vi
sia per giungere.
Eleandro: Né io ne dubito. Questi pochi anni che
sono corsi dal principio del mondo al presente, non potevano
bastare; e non se ne dee far giudizio dell'indole, del destino e
delle facoltà dell'uomo: oltre che si sono avute altre faccende
per le mani. Ma ora non si attende ad altro che a perfezionare la
nostra specie.
Timandro: Certo vi si attende con sommo studio in
tutto il mondo civile. E considerando la copia e l'efficacia dei
mezzi, l'una e l'altra aumentate incredibilmente da poco in qua,
si può credere che l'effetto si abbia veramente a conseguire fra
più o men tempo: e questa speranza è di non piccolo giovamento
a cagione delle imprese e operazioni utili che ella promuove o
partorisce. Però se fu mai dannoso e riprensibile in alcun tempo,
nel presente è dannosissimo e abbominevole l'ostentare cotesta
vostra disperazione, e l'inculcare agli uomini la necessità
della loro miseria, la vanità della vita, l'imbecillità e
piccolezza della loro specie, e la malvagità della loro natura:
il che non può fare altro frutto che prostrarli d'animo;
spogliarli della stima di se medesimi, primo fondamento della
vita onesta, della utile, della gloriosa; e distorli dal
procurare il proprio bene.
Eleandro: Io vorrei che mi dichiaraste precisamente,
se vi pare che quello che io credo e dico intorno all'infelicità
degli uomini, sia vero o falso.
Timandro: Voi riponete mano alla vostra solita arme;
e quando io vi confessi che quello che dite è vero, pensate
vincere la questione. Ora io vi rispondo, che non ogni verità è
da predicare a tutti, né in ogni tempo.
Eleandro: Di grazia, soddisfatemi anche di un'altra
domanda. Queste verità che io dico e non predico, sono nella
filosofia, verità principali, o pure accessorie?
Timandro: Io, quanto a me, credo che sieno la
sostanza di tutta la filosofia.
Eleandro: Dunque s'ingannano grandemente quelli che
dicono e predicano che la perfezione dell'uomo consiste nella
conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle
opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano allora
finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini
conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e
governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco meno che
tutti i filosofi antichi e moderni. Ecco che a giudizio vostro,
quelle verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si
debbono occultare alla maggior parte degli uomini; e credo che
facilmente consentireste che debbano essere ignorate o
dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell'animo, non
possono altro che nuocere. Il che è quanto dire che la filosofia
si debba estirpare dal mondo. Io non ignoro che l'ultima
conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è,
che non bisogna filosofare. Dal che s'inferisce che la filosofia,
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non
filosofare, non fa di bisogno esser filosofo; secondariamente è
dannosissima, perché quella ultima conclusione non vi s'impara
se non alle proprie spese, e imparata che sia, non si può
mettere in opera; non essendo in arbitrio degli uomini
dimenticare le verità conosciute, e deponendosi più facilmente
qualunque altro abito che quello di filosofare. In somma la
filosofia, sperando e promettendo a principio di medicare i
nostri mali, in ultimo si riduce a desiderare invano di rimediare
a se stessa. Posto tutto ciò, domando perché si abbia da
credere che l'età presente sia più prossima e disposta alla
perfezione che le passate. Forse per la maggior notizia del vero;
la quale si vede essere contrarissima alla felicità dell'uomo? O
forse perché al presente alcuni pochi conoscono che non bisogna
filosofare, senza che però abbiano facoltà di astenersene? Ma i
primi uomini in fatti non filosofarono, e i selvaggi se ne
astengono senza fatica. Quali altri mezzi o nuovi, o maggiori che
non ebbero gli antenati, abbiamo noi, di approssimarci alla
perfezione?
Timandro: Molti, e di grande utilità: ma l'esporgli
vorrebbe un ragionamento infinito.
Eleandro: Lasciamoli da parte per ora: e tornando
al fatto mio, dico, che se ne' miei scritti io ricordo alcune
verità dure e triste, o per isfogo dell'animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia
negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è
fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d'animo,
iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi:
laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,
benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,
magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune o privato; quelle
immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio
alla vita; le illusioni naturali dell'animo; e in fine gli errori
antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali solamente, e
non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà
moderna e della filosofia. Ma queste, secondo me, trapassando i
termini (come è proprio e inevitabile alle cose umane); non
molto dopo sollevati da una barbarie, ci hanno precipitati in un'altra,
non minore della prima; quantunque nata dalla ragione e dal
sapere, e non dall'ignoranza; e però meno efficace e manifesta
nel corpo che nello spirito, men gagliarda nelle opere, e per dir
così, più riposta ed intrinseca. In ogni modo, io dubito, o
inclino piuttosto a credere, che gli errori antichi, quanto sono
necessari al buono stato delle nazioni civili, tanto sieno, e
ogni dì più debbano essere, impossibili a rinnovarveli. Circa
la perfezione dell'uomo, io vi giuro, che se fosse già
conseguita, avrei scritto almeno un tomo in lode del genere umano.
Ma poiché non è toccato a me di vederla, e non aspetto che mi
tocchi in mia vita, sono disposto di assegnare per testamento una
buona parte della mia roba ad uso che quando il genere umano
sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblicamente un
panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un tempietto
all'antica, o una statua, o quello che sarà creduto a proposito.
Scena prima
L'Ora prima e il Sole
Ora prima: Buon giorno, Eccellenza.
Sole: Sì: anzi buona notte.
Ora prima: I cavalli sono in ordine.
Sole: Bene.
Ora prima: La diana è venuta fuori da un pezzo.
Sole: Bene: venga o vada a suo agio.
Ora prima: Che intende di dire vostra Eccellenza?
Sole: Intendo che tu mi lasci stare.
Ora prima: Ma, Eccellenza, la notte già è durata
tanto, che non può durare più; e se noi c'indugiassimo, vegga,
Eccellenza, che poi non nascesse qualche disordine.
Sole: Nasca quello che vuole, che io non mi muovo.
Ora prima: Oh, Eccellenza, che è cotesto? si
sentirebbe ella male?
Sole: No no, io non mi sento nulla; se non che io
non mi voglio muovere: e però tu te ne andrai per le tue
faccende.
Ora prima: Come debbo io andare se non viene ella,
ché io sono la prima Ora del giorno? e il giorno come può
essere, se vostra Eccellenza non si degna, come è solita, di
uscir fuori?
Sole: Se non sarai del giorno, sarai della notte;
ovvero le Ore della notte faranno l'uffizio doppio, e tu e le tue
compagne starete in ozio. Perché, sai che è? io sono stanco di
questo continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi,
che vivono In su un pugno di fango, tanto piccino, che io, che ho
buona vista, non lo arrivo a vedere: e questa notte ho fermato di
non volere altra fatica per questo; e che se gli uomini vogliono
veder lume, che tengano i loro fuochi accesi, o proveggano in
altro modo.
Ora prima: E che modo, Eccellenza, vuole ella che
ci trovino i poverini? E a dover poi mantenere le loro lucerne, o
provvedere tante candele che ardano tutto lo spazio del giorno,
sarà una spesa eccessiva. Che se fosse già ritrovato di fare
quella certa aria da servire per ardere, e per illuminare le
strade, le camere, le botteghe, le cantine e ogni cosa, e il
tutto con poco dispendio; allora direi che il caso fosse manco
male. Ma il fatto è che ci avranno a passare ancora trecento
anni, poco più o meno, prima che gli uomini ritrovino quel
rimedio: e intanto verrà loro manco l'olio e la cera e la pece e
il sego; e non avranno più che ardere.
Sole: Andranno a caccia delle lucciole, e di quei
vermicciuoli che splendono.
Ora prima: E al freddo come provvederanno? che
senza quell'aiuto che avevano da vostra Eccellenza, non basterà
il fuoco di tutte le selve a riscaldarli. Oltre che si morranno
anco dalla fame: perché la terra non porterà più i suoi frutti.
E così, in capo a pochi anni, si perderà il seme di quei poveri
animali: che quando saranno andati un pezzo qua e là per la
Terra, a tastone, cercando di che vivere e di che riscaldarsi;
finalmente, consumata ogni cosa che si possa ingoiare, e spenta l'ultima
scintilla di fuoco, se ne morranno tutti al buio, ghiacciati come
pezzi di cristallo di roccia.
Sole: Che importa cotesto a me? che, sono io la
balia del genere umano; o forse il cuoco, che gli abbia da
stagionare e da apprestare i cibi? e che mi debbo io curare se
certa poca quantità di creaturine invisibili, lontane da me i
milioni delle miglia, non veggono, e non possono reggere al
freddo, senza la luce mia? E poi, se io debbo anco servir, come
dire, di stufa o di focolare a questa famiglia umana, è
ragionevole, che volendo la famiglia scaldarsi, venga essa
intorno del focolare, e non che il focolare vada dintorno alla
casa. Per questo, se alla Terra fa di bisogno della presenza mia,
cammini ella e adoprisi per averla: che io per me non ho bisogno
di cosa alcuna dalla Terra, perché io cerchi di lei.
Ora prima: Vostra Eccellenza vuol dire, se io
intendo bene, che quello che per lo passato ha fatto ella, ora
faccia la Terra.
Sole: Sì: ora, e per l'innanzi sempre.
Ora prima: Certo che vostra Eccellenza ha buona
ragione in questo: oltre che ella può fare di sé a suo modo. Ma
pure contuttociò, si degni, Eccellenza, di considerare quante
cose belle è necessario che sieno mandate a male, volendo
stabilire questo nuovo ordine. Il giorno non avrà più il suo
bel carro dorato, co' suoi bei cavalli, che si lavavano alla
marina: e per lasciare le altre particolarità, noi altre povere
Ore non avremo più luogo in cielo, e di fanciulle celesti
diventeremo terrene; se però, come io aspetto, non ci
risolveremo piuttosto in fumo. Ma sia di questa parte come si
voglia: il punto sarà persuadere alla Terra di andare attorno;
che ha da esser difficile pure assai: perch'ella non ci è usata;
e le dee parere strano di aver poi sempre a correre e affaticarsi
tanto, non avendo mai dato un crollo da quel suo luogo insino a
ora. E se vostra Eccellenza adesso, per quel che pare, comincia a
porgere un poco di orecchio alla pigrizia; io odo che la Terra
non sia mica più inclinata alla fatica oggi che in altri tempi.
Sole: Il bisogno, in questa cosa, la pungerà, e la
farà balzare e correre quanto convenga. Ma in ogni modo, qui la
via più spedita e la più sicura è di trovare un poeta ovvero
un filosofo che persuada alla Terra di muoversi, o che quando
altrimenti non la possa indurre, la faccia andar via per forza.
Perché finalmente il più di questa faccenda è in mano dei
filosofi e dei poeti; anzi essi ci possono quasi il tutto. I
poeti sono stati quelli che per l'addietro (perch'io era più
giovane, e dava loro orecchio), con quelle belle canzoni, mi
hanno fatto fare di buona voglia, come per un diporto, o per un
esercizio onorevole, quella sciocchissima fatica di correre alla
disperata, così grande e grosso come io sono, intorno a un
granellino di sabbia. Ma ora che io sono maturo di tempo, e che
mi sono voltato alla filosofia, cerco in ogni cosa l'utilità, e
non il bello; e i sentimenti dei poeti, se non mi muovono lo
stomaco, mi fanno ridere. Voglio, per fare una cosa, averne buone
ragioni, e che sieno di sostanza: e perché io non trovo nessuna
ragione di anteporre alla vita oziosa e agiata la vita attiva; la
quale non ti potria dar frutto che pagasse il travaglio, anzi
solamente il pensiero (non essendoci al mondo un frutto che
vaglia due soldi); perciò sono deliberato di lasciare le fatiche
e i disagi agli altri, e io per la parte mia vivere in casa
quieto e senza faccende. Questa mutazione in me, come ti ho detto,
oltre a quel che ci ha cooperato l'età, l'hanno fatta i filosofi;
gente che in questi tempi è cominciata a montare in potenza, e
monta ogni giorno più. Sicché, volendo fare adesso che la Terra
si muova, e che diasi a correre attorno in vece mia; per una
parte veramente sarebbe a proposito un poeta più che un filosofo:
perché i poeti, ora con una fola, ora con un'altra, dando ad
intendere che le cose del mondo sieno di valuta e di peso, e che
sieno piacevoli e belle molto, e creando mille speranze allegre,
spesso invogliano gli altri di faticare; e i filosofi gli
svogliano. Ma dall'altra parte, perché i filosofi sono
cominciati a stare al di sopra, io dubito che un poeta non
sarebbe ascoltato oggi dalla Terra, più di quello che fossi per
ascoltarlo io; o che, quando fosse ascoltato, non farebbe effetto.
E però sarà il meglio che noi ricorriamo a un filosofo: che se
bene i filosofi ordinariamente sono poco atti, e meno inclinati,
a muovere altri ad operare; tuttavia può essere che in questo
caso così estremo, venga loro fatta cosa contraria al loro usato.
Eccetto se la Terra non giudicherà che le sia più espediente di
andarsene a perdizione, che avere a travagliarsi tanto: che io
non direi però che ella avesse il torto: basta, noi vedremo
quello che succederà. Dunque tu farai una cosa: tu te n'andrai
là in Terra; o pure vi manderai l'una delle tue compagne, quella
che tu vorrai: e se ella troverà qualcuno di quei filosofi che
stia fuori di casa al fresco, speculando il cielo e le stelle;
come ragionevolmente ne dovrà trovare, per la novità di questa
notte così lunga; ella senza più, levatolo su di peso, se lo
gitterà in sul dosso; e così torni, e me lo rechi insin qua:
che io vedrò di disporlo a fare quello che occorre. Hai tu
inteso bene?
Ora prima: Eccellenza sì. Sarà servita.
Scena seconda
Copernico
in sul terrazzo di casa sua, guardando in cielo a levante, per
mezzo d'un cannoncello di carta; perché non erano ancora
inventati i cannocchiali.
Gran cosa è questa. O che tutti gli
oriuoli fallano, o il sole dovrebbe esser levato già è più di
un'ora: e qui non si vede né pure un barlume in oriente; con
tutto che il cielo sia chiaro e terso come uno specchio. Tutte le
stelle risplendono come fosse la mezza notte. Vattene ora all'Almagesto
o al Sacrobosco, e dì che ti assegnino la cagione di questo caso.
Io ho udito dire più volte della notte che Giove passò colla
moglie d'Anfitrione: e così mi ricordo aver letto poco fa in un
libro moderno di uno Spagnuolo, che i Peruviani raccontano che
una volta, in antico, fu nel paese loro una notte lunghissima,
anzi sterminata; e che alla fine il sole uscì fuori da un certo
lago, che chiamano di Titicaca. Ma insino a qui ho pensato che
queste tali, non fossero se non ciance; e io l'ho tenuto per
fermo; come fanno tutti gli uomini ragionevoli. Ora che io m'avveggo
che la ragione e la scienza non rilevano, a dir proprio, un'acca;
mi risolvo a credere che queste e simili cose possano esser vere
verissime: anzi io sono per andare a tutti i laghi e a tutti i
pantani che io potrò, e vedere se io m'abbattessi a pescare il
sole. Ma che è questo rombo che io sento, che par come delle ali
di uno uccello grande?
Scena terza
L'Ora
ultima e Copernico
Ora ultima: Copernico, io sono l'Ora ultima.
Copernico: L'ora ultima? Bene: qui bisogna
adattarsi. Solo, se si può, dammi tanto di spazio, che io possa
far testamento, e dare ordine a' fatti miei, prima di morire.
Ora ultima: Che morire? io non sono già l'ora
ultima della vita.
Copernico: Oh, che sei tu dunque? l'ultima ora dell'ufficio
del breviario?
Ora ultima: Credo bene io, che cotesta ti sia più
cara che l'altre, quando tu ti ritrovi in coro.
Copernico: Ma come sai tu cotesto, che io sono
canonico? E come mi conosci tu? che anche mi hai chiamato dianzi
per nome.
Ora ultima: Io ho preso informazione dell'esser tuo
da certi ch'erano qua sotto, nella strada. In breve, io sono l'ultima
ora del giorno.
Copernico: Ah, io ho inteso: la prima Ora è malata;
e da questo e che il giorno non si vede ancora.
Ora ultima: Lasciami dire. Il giorno non è per
aver luogo più, né oggi né domani né poi, se tu non provvedi.
Copernico: Buono sarebbe cotesto; che toccasse a me
il carico di fare il giorno.
Ora ultima: Io ti dirò il come. Ma la prima cosa,
è di necessità che tu venga meco senza indugio a casa del Sole,
mio padrone. Tu intenderai ora il resto per via; e parte ti sarà
detto da sua Eccellenza, quando noi saremo arrivati.
Copernico: Bene sta ogni cosa. Ma il cammino, se
però io non m'inganno, dovrebbe esser lungo assai. E come potrò
io portare tanta provvisione che mi basti a non morire affamato
qualche anno prima di arrivare? Aggiungi che le terre di sua
Eccellenza non credo io che producano di che apparecchiarmi
solamente una colazione.
Ora ultima: Lascia andare cotesti dubbi. Tu non
avrai a star molto in casa del Sole; e il viaggio si farà in un
attimo; perché io sono uno spirito, se tu non sai.
Copernico: Ma io sono un corpo.
Ora ultima: Ben bene: tu non ti hai da impacciare
di cotesti discorsi, che tu non sei già un filosofo metafisico.
Vien qua: montami in sulle spalle; e lascia fare a me il resto.
Copernico: Orsù: ecco fatto. Vediamo a che sa
riuscire questa novità.
Scena quarta
Copernico
e il Sole
Copernico: Illustrissimo Signore.
Sole: Perdona, Copernico, se io non ti fo sedere;
perché qua non si usano sedie. Ma noi ci spacceremo tosto. Tu
hai già inteso il negozio dalla mia fante. Io dalla parte mia,
per quel che la fanciulla mi riferisce della tua qualità, trovo
che tu sei molto a proposito per l'effetto che si ricerca.
Copernico: Signore, io veggo in questo negozio
molte difficoltà.
Sole: Le difficoltà non debbono spaventare un uomo
della tua sorte. Anzi si dice che elle accrescono animo all'animoso.
Ma quali sono poi, alla fine, coteste difficoltà?
Copernico: Primieramente, per grande che sia la
potenza della filosofia, non mi assicuro che ella sia grande
tanto, da persuadere alla Terra di darsi a correre, in cambio di
stare a sedere agiatamente; e darsi ad affaticare, in vece di
stare in ozio: massime a questi tempi; che non sono già i tempi
eroici.
Sole: E se tu non la potrai persuadere, tu la
sforzerai.
Copernico: Volentieri, illustrissimo, se io fossi
un Ercole, o pure almanco un Orlando; e non un canonico di Varmia.
Sole: Che fa cotesto al caso? Non si racconta egli
di un vostro matematico antico, il quale diceva che se gli fosse
dato un luogo fuori del mondo, che stando egli in quello, si
fidava di smuovere il cielo e la terra? Or tu non hai a smuovere
il cielo; ed ecco che ti ritrovi in un luogo che è fuor della
Terra. Dunque, se tu non sei da meno di quell'antico, non dee
mancare che tu non la possa muovere, voglia essa o non voglia.
Copernico: Signor mio, cotesto si potrebbe fare: ma
ci si richiederebbe una leva; la quale vorrebbe essere tanto
lunga, che non solo io, ma vostra signoria illustrissima,
quantunque ella sia ricca, non ha però tanto che bastasse a
mezza la spesa della materia per farla, e della fattura. Un'altra
difficoltà più grave è questa che io vi dirò adesso; anzi
egli è come un groppo di difficoltà. La Terra insino a oggi ha
tenuto la prima sede del mondo, che è a dire il mezzo; e (come
voi sapete) stando ella immobile, e senza altro affare che
guardarsi all'intorno, tutti gli altri globi dell'universo, non
meno i più grandi che i più piccoli, e così gli splendenti
come gli oscuri, le sono iti rotolandosi di sopra e di sotto e ai
lati continuamente; con una fretta, una faccenda, una furia da
sbalordirsi a pensarla. E così, dimostrando tutte le cose di
essere occupate in servizio suo, pareva che l'universo fosse a
somiglianza di una corte; nella quale la Terra sedesse come in un
trono; e gli altri globi dintorno, in modo di cortigiani, di
guardie, di servitori, attendessero chi ad un ministero e chi a
un altro. Sicché, in effetto, la Terra si è creduta sempre di
essere imperatrice del mondo: e per verità, stando così le cose
come sono state per l'addietro, non si può mica dire che ella
discorresse male; anzi io non negherei che quel suo concetto non
fosse molto fondato. Che vi dirò poi degli uomini? che
riputandoci (come ci riputeremo sempre) più che primi e più che
principalissimi tra le creature terrestri; ciascheduno di noi se
ben fosse un vestito di cenci e che non avesse un cantuccio di
pan duro da rodere, si è tenuto per certo di essere uno
imperatore; non mica di Costantinopoli o di Germania, ovvero
della metà della Terra, come erano gl'imperatori romani, ma un
imperatore dell'universo; un imperatore del sole, dei pianeti, di
tutte le stelle visibili e non visibili; e causa finale delle
stelle, dei pianeti, di vostra signoria illustrissima, e di tutte
le cose. Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel suo
luogo di mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli,
che ella si affanni di continuo, che eseguisca quel tanto, né
più né meno, che si è fatto di qui addietro dagli altri globi;
in fine, che ella divenga del numero dei pianeti; questo porterà
seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane, dovranno
sgomberare il trono, e lasciar l'impero; restandosene però
tuttavia co' loro cenci, e colle loro miserie, che non sono poche.
Sole: Che vuol conchiudere in somma con cotesto
discorso il mio don Niccola? Forse ha scrupolo di coscienza, che
il fatto non sia un crimenlese?
Copernico: No, illustrissimo; perché né i codici,
né il digesto, né i libri che trattano del diritto pubblico,
né del diritto dell'Imperio, né di quel delle genti, o di
quello della natura, non fanno menzione di questo crimenlese, che
io mi ricordi. Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro
non sarà così semplicemente materiale, come pare a prima vista
che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla
fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle
dignità delle cose, e l'ordine degli enti; scambierà i fini
delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento
anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte
speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur
sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere
tutt'altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno
immaginato di essere.
Sole: Figliuol mio, coteste cose non mi fanno punto
paura: ché tanto rispetto io porto alla metafisica, quanto alla
fisica, e quanto anche all'alchimia, o alla negromantica, se tu
vuoi. E gli uomini si contenteranno di essere quello che sono: e
se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e
argomentando in dispetto della evidenza delle cose; come
facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a
tenersi per quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o
altro di più che si vogliano: che essi ne staranno più
consolati, e a me con questi loro giudizi non daranno un
dispiacere al mondo.
Copernico: Orsù, lasciamo degli uomini e della
Terra. Considerate, illustrissimo, quel ch'è ragionevole che
avvenga degli altri pianeti. Che quando vedranno la Terra fare
ogni cosa che fanno essi, e divenuta uno di loro, non vorranno
più restarsene così lisci, semplici e disadorni, così deserti
e tristi, come sono stati sempre; e che la Terra sola abbia quei
tanti ornamenti: ma vorranno ancora essi i lor fiumi, i lor mari,
le loro montagne, le piante, e fra le altre cose i loro animali e
abitatori; non vedendo ragione alcuna di dovere essere da meno
della Terra in nessuna parte. Ed eccovi un altro rivolgimento
grandissimo nel mondo; e una infinità di famiglie e di
popolazioni nuove, che in un momento si vedranno venir su da
tutte le bande, come funghi.
Sole: E tu le lascerai che vengano; e sieno quante
sapranno essere: ché la mia luce e il calore basterà per tutte,
senza che io cresca la spesa però; e il mondo avrà di che
cibarle, vestirle, alloggiarle, trattarle largamente, senza far
debito.
Copernico: Ma pensi vostra signoria illustrissima
un poco più oltre, e vedrà nascere ancora un altro scompiglio.
Che le stelle, vedendo che voi vi siete posto a sedere, e non
già su uno sgabello, ma in trono; e che avete dintorno questa
bella corte e questo popolo di pianeti; non solo vorranno sedere
ancor esse e riposarsi, ma vorranno altresì regnare: e chi ha da
regnare, ci hanno a essere i sudditi: però vorranno avere i loro
pianeti, come avrete voi; ciascuna i suoi propri. I quali pianeti
nuovi, converrà che sieno anche abitati e adorni come è la
Terra. E qui non vi starò a dire del povero genere umano,
divenuto poco più che nulla già innanzi, in rispetto a questo
mondo solo; a che si ridurrà egli quando scoppieranno fuori
tante migliaia di altri mondi, in maniera che non ci sarà una
minutissima stelluzza della via lattea, che non abbia il suo. Ma
considerando solamente l'interesse vostro, dico che per insino a
ora voi siete stato, se non primo nell'universo, certamente
secondo, cioè a dire dopo la Terra, e non avete avuto nessuno
uguale; atteso che le stelle non si sono ardite di pareggiarvisi:
ma in questo nuovo stato dell'universo avrete tanti uguali,
quante saranno le stelle coi loro mondi. Sicché guardate che
questa mutazione che noi vogliamo fare, non sia con pregiudizio
della dignità vostra.
Sole: Non hai tu a memoria quello che disse il
vostro Cesare quando egli, andando per le Alpi, si abbatté a
passare vicino a quella borgatella di certi poveri Barbari: che
gli sarebbe piaciuto più se egli fosse stato il primo in quella
borgatella, che di essere il secondo in Roma? E a me similmente
dovrebbe piacer più di esser primo in questo mondo nostro, che
secondo nell'universo. Ma non è l'ambizione quella che mi muove
a voler mutare lo stato presente delle cose: solo è l'amor della
quiete, o per dir più proprio, la pigrizia. In maniera che dell'avere
uguali o non averne, e di essere nel primo luogo o nell'ultimo,
io non mi curo molto: perché, diversamente da Cicerone, ho
riguardo più all'ozio che alla dignità.
Copernico: Cotesto ozio, illustrissimo, io per la
parte mia, il meglio che io possa, m'ingegnerò di acquistarvelo.
Ma dubito, anche riuscendo la intenzione, che esso non vi durerà
gran tempo. E prima, io sono quasi certo che non passeranno molti
anni, che voi sarete costretto di andarvi aggirando come una
carrucola da pozzo, o come una macina; senza mutar luogo però.
Poi, sto con qualche sospetto che pure alla fine, in termine di
più o men tempo, vi convenga anco tornare a correre: io non dico,
intorno alla Terra; ma che monta a voi questo? e forse che quello
stesso aggirarvi che voi farete, servirà di argomento per farvi
anco andare. Basta, sia quello che si voglia; non ostante ogni
malagevolezza e ogni altra considerazione, se voi perseverate nel
proposito vostro, io proverò di servirvi; acciocché, se la cosa
non mi verrà fatta, voi pensiate ch'io non ho potuto, e non
diciate che io sono di poco animo.
Sole: Bene sta, Copernico mio: prova.
Copernico: Ci resterebbe una certa difficoltà
solamente.
Sole: Via, qual è?
Copernico: Che io non vorrei, per questo fatto,
essere abbruciato vivo, a uso della fenice: perché accadendo
questo, io sono sicuro di non avere a risuscitare dalle mie
ceneri come fa quell'uccello, e di non vedere mai più, da quell'ora
innanzi, la faccia della signoria vostra.
Sole: Senti, Copernico: tu sai che un tempo, quando
voi altri filosofi non eravate appena nati, dico al tempo che la
poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio che adesso
tu mi lasci profetare per l'ultima volta, e che per la memoria di
quella mia virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque
che forse, dopo te ad alcuni i quali approveranno quello che tu
avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra
cosa simile; ma che tu per conto di questa impresa, a quel ch'io
posso conoscere, non patirai nulla. E se tu vuoi essere più
sicuro, prendi questo partito: il libro che tu scriverai a questo
proposito, dedicarlo al papa . In questo modo, ti prometto che
né anche hai da perdere il canonicato.
DIALOGO DI PLOTINO E DI PORFIRIO
Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi di vita, Plotino se ne avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese. Porfirio nella vita di Plotino. Il simile in quella di Porfirio scritta da Eunapio: il quale aggiunge che Plotino distese in un libro i ragionamenti avuti con Porfirio in quella occasione.
Plotino:
Porfirio, tu sai ch'io ti sono amico; e sai quanto: e non ti dei
maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e
il tuo stato con una certa curiosità; perché nasce da questo,
che tu mi stai sul cuore. Già sono più giorni che io ti veggo
tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura, e lasci
andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza
aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.
Porfirio: Come, che vuoi tu dire?
Plotino: Una mala intenzione contro te stesso. Il
fatto e stimato cattivo augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio,
non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore che
noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo
dispiacere a muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe
stato caro di tenerti il tuo proposito celato: ma in cosa di
tanto momento io non poteva tacere; e tu non dovresti avere a
male di conferirla con persona che ti vuol tanto bene quanto a se
stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le
ragioni: tu sfogherai l'animo tuo meco, ti dorrai, piangerai; che
io merito da te questo: e in ultimo io non sono già per
impedirti che tu non facci quello che noi troveremo che sia
ragionevole, e di tuo utile.
Porfirio: Io non ti ho mai disdetto cosa che tu
domandassi, Plotino mio. Ed ora confesso a te quello che avrei
voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per cosa
alcuna del mondo; dico che quel che tu immagini della mia
intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo a
ragionare sopra questa materia; benché l'animo mio ci ripugna
molto, perché queste tali deliberazioni pare che si compiacciano
di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti pensieri
ami di essere solitaria e ristretta in se medesima più che mai;
pure io sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo. Anzi
incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia inclinazione
non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che
io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da
un tedio che io provo, così veemente, che si assomiglia a dolore
e a spasimo; da un certo non solamente conoscere, ma vedere,
gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi occorre nella
giornata. Di maniera che non solo l'intelletto mio, ma tutti i
sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano,
ma accomodato al caso) pieni di questa vanità. E qui
primieramente non mi potrai dire che questa mia disposizione non
sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella in
buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella
nondimeno è ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni
degli uomini fuori di questa, per le quali, in qualunque maniera,
si vive, e stimasi che la vita e le cose umane abbiano qualche
sostanza; sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione, e si
fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. E
nessuna cosa è più ragionevole che la noia. I piaceri sono
tutti vani. Il dolore stesso, parlo di quel dell'animo, per lo
più è vano: perché se tu guardi alla causa ed alla materia, a
considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna. Il
simile dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia,
la qual nasce sempre dalla vanità delle cose, non è mai vanità,
non inganno; mai non è fondata in sul falso. E si può dire che,
essendo tutto l'altro vano, alla noia riducasi, e in lei consista,
quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di reale.
Plotino: Sia così. Non voglio ora contraddirti
sopra questa parte. Ma noi dobbiamo adesso considerare il fatto
che tu vai disegnando: dico, considerarlo più strettamente, e in
se stesso. Io non ti starò a dire che sia sentenza di Platone,
come tu sai, che all'uomo non sia lecito, in guisa di servo
fuggitivo, sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere
nella quale egli si ritrova per volontà degli Dei; cioè
privarsi della vita spontaneamente.
Porfirio: Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte
adesso Platone, e le sue dottrine, e le sue fantasie. Altra cosa
è lodare, comentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei
libri; ed altra è seguitarle nell'uso pratico. Alla scuola e nei
libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e
seguirli; poiché tale è l'usanza oggi: nella vita, non che gli
approvi, io piuttosto gli abbomino. So ch'egli si dice che
Platone spargesse negli scritti suoi quelle dottrine della vita
avvenire, acciocché gli uomini, entrati in dubbio e in sospetto
circa lo stato loro dopo la morte; per quella incertezza, e per
timore di pene e di calamità future, si ritenessero nella vita
dal fare ingiustizia e dalle altre male opere . Che se io
stimassi che Platone fosse stato autore di questi dubbi, e di
queste credenze; e che elle fossero sue invenzioni; io direi: tu
vedi, Platone, quanto o la natura o il fato o la necessità, o
qual si sia potenza autrice e signora dell'universo, è stata ed
è perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale molte,
anzi innumerabili ragioni potranno contendere quella maggioranza
che noi, per altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali;
ma nessuna ragione si troverà che le tolga quel principato che l'antichissimo
Omero le attribuiva; dico il principato della infelicità.
Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali la
morte: la quale da coloro che non molto usassero il discorso dell'intelletto,
saria poco temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe un conforto
dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori, 'aspettazione
é il pensiero del nostro fine. Tu con questo dubbio terribile,
suscitato da te nelle menti degli uomini, hai tolta da questo
pensiero ogni dolcezza, e fattolo il più amaro di tutti gli
altri. Tu sei cagione che si veggano gl'infelicissimi mortali
temere più il porto che la tempesta, e rifuggire coll'animo da
quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e agli
spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele che il
fato o la necessità o la natura. E non si potendo questo dubbio
in alcun modo sciorre, né le menti nostre esserne liberate mai,
tu hai recati per sempre i tuoi simili a questa condizione, che
essi avranno la morte piena d'affanno, e più misera che la vita.
Perciocché per opera tua, laddove tutti gli altri animali
muoiono senza timore alcuno, la quiete e la sicurtà dell'animo
sono escluse in perpetuo dall'ultima ora dell'uomo. Questo
mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana.
Lascio
che quello effetto che ti avevi proposto, di ritenere gli uomini
dalle violenze e dalle ingiustizie, non ti è venuto fatto.
Perocché quei dubbi e quelle credenze spaventano tutti gli
uomini in sulle ore estreme, quando essi non sono atti a nuocere:
nel corso della vita, spaventano frequentemente i buoni, i quali
hanno volontà non di nuocere, ma di giovare; spaventano le
persone timide, e le deboli di corpo, le quali alle violenze e
alle iniquità non hanno né la natura inclinata, né sufficiente
il cuore e la mano. Ma gli arditi, e i gagliardi, e quelli che
poco sentono la potenza della immaginativa; in fine coloro ai
quali in generalità si richiederebbe altro freno che della sola
legge; non ispaventano esse, né tengono dal male operare: come
noi veggiamo per gli esempi quotidianamente, e come la esperienza
di tutti i secoli, da' tuoi dì per insino a oggi, fa manifesto.
Le buone leggi, e più la educazione buona, e la cultura dei
costumi e delle menti, conservano nella società degli uomini la
giustizia e la mansuetudine: perocché gli animi dirozzati e
rammorbiditi da un poco di civiltà, ed assuefatti a considerare
alquanto le cose, e ad operare alcun poco l'intendimento; quasi
di necessità e quasi sempre abborriscono dal por mano nelle
persone e nel sangue dei compagni; sono per lo più alieni dal
fare ad altri nocumento in qualunque modo; e rare volte e con
fatica s'inducono a correre quei pericoli che porta seco il
contravvenire alle leggi. Non fanno già questo buono effetto le
immaginazioni minacciose, e le opinioni triste di cose fiere e
spaventevoli: anzi come suol fare la moltitudine e la crudeltà
dei supplizi che si usino dagli stati, così ancora quelle
accrescono, in un lato la viltà dell'animo, in un altro la
ferocità; principali inimiche e pesti del consorzio umano.
Ma
tu hai posto ancora innanzi e promesso guiderdone ai buoni. Qual
guiderdone? Uno stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor
meno tollerabile che questa vita. A ciascheduno è palese l'acerbità
di que' tuoi supplicii; ma la dolcezza de' tuoi premii è nascosa,
ed arcana, e da non potersi comprendere da mente d'uomo. Onde
nessuna efficacia possono aver così fatti premii di allettarci
alla rettitudine e alla virtù. E in vero, se molto pochi ribaldi,
per timore di quel suo spaventoso Tartaro si astengono da alcuna
mala azione: mi ardisco io di affermare che mai nessun buono, in
un suo menomo atto, si mosse a bene operare per desiderio di quel
tuo Eliso. Che non può esso alla immaginazione nostra aver
sembianza di cosa desiderabile. Ed oltre che di molto lieve
conforto sarebbe eziandio la espettazione certa di questo bene,
quale speranza hai tu lasciato che ne possano avere anco i
virtuosi e i giusti; se quel tuo Minosse e quello Eaco e
Radamanto, giudici rigidissimi e inesorabili, non hanno a
perdonare a qualsivoglia ombra o vestigio di colpa? E quale uomo
è che si possa sentire o credere così netto e puro come lo
richiedi tu? Sicché il conseguimento di quella qual che si sia
felicità viene a esser quasi impossibile: e non basterà la
coscienza della più retta e della più travagliosa vita ad
assicurare l'uomo in sull'ultimo, dalla incertezza del suo stato
futuro, e dallo spavento dei gastighi. Così per le tue dottrine
il timore, superata con infinito intervallo la speranza, è fatto
signore dell'uomo: e il frutto di esse dottrine ultimamente è
questo; che il genere umano, esempio mirabile d'infelicità in
questa vita, si aspetta, non che la morte sia fine alle sue
miserie, ma di avere a essere dopo quella, assai più infelice.
Con che tu hai vinto di crudeltà, non pur la natura e il fato,
ma ogni tiranno più fiero, e ogni più spietato carnefice, che
fosse al mondo.
Ma
con qual barbarie si può paragonare quel tuo decreto, che all'uomo
non sia lecito di por fine a' suoi patimenti, ai dolori, alle
angosce, vincendo l'orrore della morte, e volontariamente
privandosi dello spirito? Certo non ha luogo negli altri animali
il desiderio di terminar la vita; perché le infelicità loro
hanno più stretti confini che le infelicità dell'uomo: né
avrebbe anco luogo il coraggio di estinguerla spontaneamente. Ma
se pur tali disposizioni cadessero nella natura dei bruti,
nessuno impedimento avrebbero essi al poter morire; nessun
divieto, nessun dubbio torrebbe loro la facoltà di sottrarsi dai
loro mali. Ecco che tu ci rendi anco in questa parte, inferiori
alle bestie: e quella libertà che avrebbero i bruti se loro
accadesse di usarla; quella che la natura stessa, tanto verso noi
avara, non ci ha negata; vien manco per tua cagione nell'uomo. In
guisa che quel solo genere di viventi che si trova esser capace
del desiderio della morte, quello solo non abbia in sua mano il
morire. La natura, il fato e la fortuna ci flagellano di continuo
sanguinosamente, con istrazio nostro e dolore inestimabile: tu
accorri, e ci annodi strettamente le braccia, e incateni i piedi;
sicché non ci sia possibile né schermirci né ritrarci indietro
dai loro colpi. In vero, quando io considero la grandezza della
infelicità umana, io penso che di quella si debbano più che
veruna altra cosa, incolpare le tue dottrine; e che si convenga
agli uomini, assai più dolersi di te che della natura. La quale
se bene, a dir vero, non ci destinò altra vita che infelicissima;
da altro lato però ci diede il poter finirla ogni volta che ci
piacesse. E primieramente non si può mai dire che sia molto
grande quella miseria la quale, solo che io voglia, può di
durazione esser brevissima: poi, quando ben la persona in effetto
non si risolvesse a lasciar la vita, il pensiero solo di potere
ad ogni sua voglia sottrarsi dalla miseria, saria tal conforto e
tale alleggerimento di qualunque calamità, che per virtù di
esso, tutte riuscirebbero facili a sopportare. Di modo che la
gravezza intollerabile della infelicità nostra, non da altro
principalmente si dee riconoscere, che da questo dubbio di potere
per avventura, troncando volontariamente la propria vita,
incorrere in miseria maggiore che la presente. Né solo maggiore,
ma di tanto ineffabile atrocità e lunghezza, che posto che il
presente sia certo, e quelle pene incerte, nondimeno
ragionevolmente debba il timore di quelle, senza proporzione o
comparazione alcuna, prevalere al sentimento di ogni qual si
voglia male di questa vita. Il qual dubbio, o Platone, ben fu a
te agevole a suscitare; ma prima sarà venuta meno la stirpe
degli uomini, che egli sia risoluto. Però nessuna cosa nacque,
nessuna è per nascere in alcun tempo, così calamitosa e funesta
alla specie umana, come l'ingegno tuo.
Queste
cose io direi, se credessi che Platone fosse stato autore o
inventore di quelle dottrine; che io so benissimo che non fu. Ma
in ogni modo, sopra questa materia, s'è detto abbastanza, e io
vorrei che noi la ponessimo da canto.
Plotino: Porfirio, veramente io amo Platone, come
tu sai. Ma non è già per questo, che io voglia discorrere per
autorità; massimamente poi teco e in una questione tale: ma io
voglio discorrere per ragione. E se ho toccato così alla
sfuggita quella tal sentenza platonica, io l'ho fatto più per
usare come una sorta di proemio, che per altro. E ripigliando il
ragionamento ch'io aveva in animo, dico che non Platone o qualche
altro filosofo solamente, ma la natura stessa par che c'insegni
che il levarci dal mondo di mera volontà nostra, non sia cosa
lecita. Non accade che io mi distenda circa questo articolo:
perché se tu penserai un poco, non può essere che tu non
conosca da te medesimo che l'uccidersi di propria mano senza
necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, e l'atto più
contrario a natura, che si possa commettere. Perché tutto l'ordine
delle cose saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se
stesse. E par che abbia repugnanza che uno si vaglia della vita a
spegnere essa vita, che l'essere ci serva al non essere. Oltre
che se pur cosa alcuna ci è ingiunta e comandata dalla natura,
certo ci comanda ella strettissimamente e sopra tutto, e non solo
agli uomini, ma parimente a qualsivoglia creatura dell'universo,
di attendere alla conservazione propria, e di procurarla in tutti
i modi; ch'è il contrario appunto dell'uccidersi. E senza altri
argomenti, non sentiamo noi che la inclinazione nostra da per se
stessa ci tira, e ci fa odiare la morte, e temerla, ed averne
orrore, anche a dispetto nostro? Or dunque, poiché questo atto
dell'uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario quanto
noi veggiamo; io non mi saprei risolvere che fosse lecito.
Porfirio: Io ho considerata già tutta questa parte:
che, come tu hai detto, è impossibile che l'animo non la scorga,
per ogni poco che uno si fermi a pensare sopra questo proposito.
Mi pare che alle tue ragioni si possa rispondere con molte altre,
e in più modi: ma studierò d'esser breve. Tu dubiti se ci sia
lecito di morire senza necessità: io ti domando se ci è lecito
di essere infelici. La natura vieta l'uccidersi. Strano mi
riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di farmi né
felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a
vivere. Certo se la natura ci ha ingenerato amore della
conservazione propria, e odio della morte; essa non ci ha dato
meno odio della infelicità, e amore del nostro meglio; anzi
tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni
che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni nostro
atto, e di ogni nostro amore e odio; e che non si fugge la morte,
né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del
nostro meglio e odio del male e del danno nostro. Come dunque
può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità in
quel solo modo che hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di
tormi dal mondo: perché mentre son vivo, io non la posso
schifare. E come sarà vero che la natura mi vieti di appigliarmi
alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di
ripudiar la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e
mala; poiché non mi può valere ad altro che a patire, e a
questo per necessità mi vale e mi conduce in fatto.
Plotino: A ogni modo queste cose non mi persuadono
che l'uccidersi da se stesso non sia contro natura: perché il
senso nostro porta troppo manifesta contrarietà e abborrimento
alla morte: e noi veggiamo che le bestie; le quali (quando non
sieno forzate dagli uomini o sviate) operano in ogni cosa
naturalmente; non solo non vengono mai a questo atto, ma eziandio
per quanto che sieno tribolate e misere, se ne dimostrano
alienissime. E in fine non si trova, se non fra gli uomini soli
qualcuno che lo commette: e non mica fra quelle genti che hanno
un modo di vivere naturale; che di queste non si troverà niuno
che non lo abbomini, se pur ne avrà notizia o immaginazione
alcuna; ma solo fra queste nostre alterate e corrotte, che non
vivono secondo natura.
Porfirio: Orsù, io ti voglio concedere anco, che
questa azione sia contraria a natura, come tu vuoi. Ma che val
questo; se noi non siamo creature naturali, per dir così?
intendo degli uomini inciviliti. Paragonaci, non dico ai viventi
di ogni altra specie che tu vogli, ma a quelle nazioni là delle
parti dell'India e della Etiopia, le quali, come si dice, ancora
serbano quei costumi primitivi e silvestri; e a fatica ti parrà
che si possa dire, che questi uomini e quelli sieno creature di
una specie medesima. E questa nostra, come a dire, trasformazione;
e questa mutazion di vita, e massimamente d'animo; io quanto a me,
ho avuto sempre per fermo che non sia stata senza infinito
accrescimento d'infelicità. Certo che quelle genti salvatiche
non sentono mai desiderio di finir la vita; né anco va loro per
la fantasia che la morte si possa desiderare: dove che gli uomini
costumati a questo modo nostro e, come diciamo, civili, la
desiderano spessissime volte, e alcune se la procacciano. Ora, se
è lecito all'uomo incivilito, e vivere contro natura, e contro
natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire
contro natura? essendo che da questa infelicità nuova, che
risulta a noi dall'alterazione dello stato, non ci possiamo anco
liberare altrimenti, che colla morte. Che quanto a ritornarci in
quello stato primo, e alla vita disegnataci dalla natura; questo
non si potrebbe appena, e in nessun modo forse, circa l'estrinseco;
e per rispetto all'intrinseco, che è quello che più rileva,
senza alcun dubbio sarebbe impossibile affatto. Qual cosa è
manco naturale della medicina? così di quella che si esercita
con la mano, come di quella che opera per via di farmachi. Che l'una
e l'altra, la più parte, sì nelle operazioni che fanno, e sì
nelle materie, negli strumenti e nei modi che usano, sono
lontanissime dalla natura: e i bruti e gli uomini selvaggi non le
conoscono. Nondimeno, perocché ancora i morbi ai quali esse
intendono di rimediare, sono fuor di natura, e non hanno luogo se
non per cagione della civiltà, cioè della corruttela del nostro
stato; perciò queste tali arti, benché non sieno naturali, sono
e si stimano opportune, e anco necessarie. Così questo atto dell'uccidersi,
il quale ci libera dalla infelicità recataci dalla corruzione,
perché sia contrario alla natura, non seguita che sia
biasimevole: bisognando a mali non naturali, rimedio non naturale.
E saria pur duro ed iniquo che la ragione, la quale per far noi
più miseri che naturalmente non siamo, suol contrariar la natura
nelle altre cose; in questa si confederasse con lei, per torci
quello estremo scampo che ci rimane; quel solo che essa ragione
insegna; e costringerci a perseverare nella miseria.
La
verità è questa, Plotino. Quella natura primitiva degli uomini
antichi, e delle genti selvagge e incolte, non è più la natura
nostra: ma l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un'altra
natura; la quale noi abbiamo, ed avremo sempre, in luogo di
quella prima. Non era naturale all'uomo da principio il
procacciarsi la morte volontariamente: ma né anco era naturale
il desiderarla. Oggi e questa cosa e quella sono naturali; cioè
conformi alla nostra natura nuova: la quale, tendendo essa ancora
e movendosi necessariamente come l'antica, verso ciò che
apparisce essere il nostro meglio; fa che noi molte volte
desideriamo e cerchiamo quello che veramente è il maggior bene
dell'uomo, cioè la morte. E non è maraviglia: perciocché
questa seconda natura è governata e diretta nella maggior parte
dalla ragione. La quale afferma per certissimo, che la morte, non
che sia veramente un male, come detta la impressione primitiva;
anzi è il solo rimedio valevole ai nostri mali, la cosa più
desiderabile agli uomini, e la migliore. Adunque domando io:
misurano gli uomini inciviliti le altre azioni loro dalla natura
primitiva? Quando, e quale azione mai? Non dalla natura primitiva,
ma da quest'altra nostra, o pur vogliamo dire dalia ragione.
Perché questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare
non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva?
Perché dovrà la natura primitiva, la quale non dà più legge
alla vita nostra, dar legge alla morte? Perché non dee la
ragione governar la morte, poiché regge la vita? E noi veggiamo
che in fatto, sì la ragione, e sì le infelicità del nostro
stato presente, non solo estinguono, massime negli sfortunati e
afflitti, quello abborrimento ingenito della morte che tu dicevi;
ma lo cangiano in desiderio e amore, come io ho detto innanzi.
Nato il qual desiderio e amore, che secondo natura, non sarebbe
potuto nascere; e stando la infelicità generata dall'alterazione
nostra, e non voluta dalla natura; saria manifesta repugnanza e
contraddizione, che ancora avesse luogo il divieto naturale di
uccidersi. Questo pare a me che basti, quanto a sapere se l'uccider
se stesso sia lecito. Resta se sia utile.
Plotino: Di cotesto non accade che tu mi parli,
Porfirio mio: che quando cotesta azione sia lecita (perché una
che non sia giusta né retta non concedo che possa esser di
utilità), io non ho dubbio nessuno che non sia utilissima.
Perché la quistione in somma si riduce a questo: quale delle due
cose sia la migliore; il non patire, o il patire. So ben io che
il godere congiunto al patire, verisimilmente sarebbe eletto da
quasi tutti gli uomini, piuttosto che il non patire e anco non
godere: tanto è il desiderio, e per così dir, la sete, che l'animo
ha del godimento. Ma la deliberazione non cade fra questi termini:
perché il godimento e il piacere, a parlar proprio e diritto, è
tanto impossibile, quanto il patimento è inevitabile. E dico un
patimento così continuo, come è continuo il desiderio e il
bisogno che abbiamo del godimento e della felicità, il quale non
è adempiuto mai: lasciando ancora da un lato i patimenti
particolari ed accidentali che intervengono a ciascun uomo, e che
sono parimente certi; intendo dire, è certo che ne debbono
intervenire (più o meno, e d'una qualità o d'altra), eziandio
nella più avventurosa vita del mondo. E per verità, un
patimento solo e breve, che la persona fosse certa che,
continuando essa a vivere, le dovesse accadere; saria sufficiente
a fare che, secondo ragione, la morte fosse da anteporre alla
vita: perché questo tal patimento non avrebbe compensazione
alcuna; non potendo occorrere nella vita nostra un bene o un
diletto vero.
Porfirio: A me pare che la noia stessa, e il
ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di fortuna migliore,
sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita, anco
a chi si trovi in istato e in fortuna, non solamente non cattiva,
ma prospera. E più volte mi sono maravigliato che in nessun
luogo si vegga fatta menzione di principi che sieno voluti morire
per tedio solamente, e per sazietà dello stato proprio; come di
genti private e si legge, e odesi tuttogiorno. Quali erano coloro
che udito Egesia, filosofo cirenaico, recitare quelle sue lezioni
della miseria della vita; uscendo della scuola, andavano e si
uccidevano: onde esso Egesia fu detto per soprannome il
persuasor di morire; e si dice, come credo che tu sappi, che
all'ultimo il re Tolomeo gli vietò che non disputasse più oltre
in quella materia . Che se bene si trova di alcuni, come del re
Mitridate, di Cleopatra, di Ottone romano, e forse di alquanti
altri principi, che si uccisero da se stessi; questi tali si
mossero per trovarsi allora in avversità e in miseria, e per
isfuggirne di più gravi. Ora a me sarebbe paruto credibile che i
principi più facilmente che gli altri, concepissero odio del
loro stato, e fastidio di tutte le cose; e desiderassero di
morire. Perché, essendo eglino in sulla cima di quella che
chiamasi felicità umana, avendo pochi altri a sperare, o nessuno
forse, di quelli che si dimandano beni della vita (poiché li
posseggono tutti); non si possono prometter migliore il domani
che il giorno d'oggi. E sempre il presente, per fortunato che sia,
è tristo e inamabile: solo il futuro può piacere. Ma come che
sia di ciò; in fine, noi possiamo conoscere che (eccetto il
timor delle cose di un altro mondo) quello che ritiene gli uomini
che non abbandonino la vita spontaneamente; e quel che gl'induce
ad amarla, e a preferirla alla morte; non è altro che un
semplice e un manifestissimo errore, per dir così, di computo e
di misura: cioè un errore che si fa nel computare, nel misurare,
e nel paragonar tra loro, gli utili o i danni. Il quale errore ha
luogo, si potrebbe dire, altrettante volte, quanti sono i momenti
nei quali ciascheduno abbraccia la vita, ovvero acconsente a
vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla volontà, o
sia col fatto solo.
Plotino: Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto
questo, lascia ch'io ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi,
di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla
natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a
quella madre nostra e dell'universo; la quale se bene non ha
mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci
è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi
coll'ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata,
colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e
dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di
medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con
trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande l'alterazione
nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur questa
non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto,
che non resti in ciascuno gran parte dell'uomo antico. Il che,
mal grado che n'abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere
altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo;
veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si
commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl'idioti,
ma dagl'ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in
eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa
medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli uomini,
non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita, non
disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità
delle cure, della solitudine dell'uomo; non odio del mondo e di
se medesimo; che possa durare assai: benché queste disposizioni
dell'animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata
leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco; e spesse
volte in un subito, per cagioni menomissime e appena possibili a
notare; rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella
speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza,
e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all'intelletto;
ma sì, per modo di dire, al senso dell'animo. E ciò basta all'effetto
di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa
della verità, nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri
nella vita, e proceda in essa come fanno gli altri: perché quel
tal senso (si può dire), e non l'intelletto, è quello che ci
governa.
Sia
ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo
alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non
dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo
ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non
vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei
congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori,
della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali
siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna
lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno
di questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno
essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità
del caso? Io so bene che non dee l'animo del sapiente essere
troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio
in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda
e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate,
ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro
conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d'animo
si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla
fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci
spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della
consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della
disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei
compagni; o non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore
alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di
addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di
non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in
vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero
alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si
gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e
tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di
vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men
bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l'uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosi, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.
DIALOGO DI UN VENDITORE D'ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE
Venditore:
Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore,
almanacchi?
Passeggere: Almanacchi per l'anno nuovo?
Venditore: Si signore.
Passeggere: Credete che sarà felice quest'anno
nuovo?
Venditore: Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere: Come quest'anno passato?
Venditore: Più più assai.
Passeggere: Come quello di là?
Venditore: Più più, illustrissimo.
Passeggere: Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli
che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
Venditore: Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere: Quanti anni nuovi sono passati da che
voi vendete almanacchi?
Venditore: Saranno vent'anni, illustrissimo.
Passeggere: A quale di cotesti vent'anni vorreste
che somigliasse l'anno venturo?
Venditore: Io? non saprei.
Passeggere: Non vi ricordate di nessun anno in
particolare, che vi paresse felice?
Venditore: No in verità, illustrissimo.
Passeggere: E pure la vita è una cosa bella. Non
è vero?
Venditore: Cotesto si sa.
Passeggere: Non tornereste voi a vivere cotesti
vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che
nasceste?
Venditore: Eh, caro signore, piacesse a Dio che si
potesse.
Passeggere: Ma se aveste a rifare la vita che avete
fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che
avete passati?
Venditore: Cotesto non vorrei.
Passeggere: Oh che altra vita vorreste rifare? la
vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non
credete che io, e che il principe, e che chiunque altro,
risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la
stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore: Lo credo cotesto.
Passeggere: Né anche voi tornereste indietro con
questo patto, non potendo in altro modo?
Venditore: Signor no davvero, non tornerei.
Passeggere: Oh che vita vorreste voi dunque?
Venditore: Vorrei una vita così, come Dio me la
mandasse, senz'altri patti.
Passeggere: Una vita a caso, e non saperne altro
avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore: Appunto.
Passeggere: Così vorrei ancor io se avessi a
rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a
tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che
ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso il male
che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di
prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe
rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che
si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma
la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene
voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non
è vero?
Venditore: Speriamo.
Passeggere: Dunque mostratemi l'almanacco più
bello che avete.
Venditore: Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta
soldi.
Passeggere: Ecco trenta soldi.
Venditore: Grazie, illustrissimo: a rivederla.
Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.
DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO
Amico:
Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano: Sì, al mio solito.
Amico: Malinconico, sconsolato, disperato; si vede
che questa vita vi pare una gran brutta cosa.
Tristano: Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo
questa pazzia, che la vita umana fosse infelice.
Amico: Infelice sì forse. Ma pure alla fine . . .
Tristano: No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata
opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia
in capo, come vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi
sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le
osservazioni ch'io faceva in quel proposito, parendomi che la
coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima
testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse
disputa dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non
mai della verità: anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli,
per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno
che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche
proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è
infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità,
o d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito,
sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di
trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai
un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in generale come i
mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che
credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche
quando la metà del mondo sa che il vero e tutt'altro. Chi vuole
o dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori
della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente,
volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e
tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti.
Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma
quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere
umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non
crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né
di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una
di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta,
specialmente nel popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a
proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la superbia
degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono
coraggio e fortezza d'animo a essere credute. E gli uomini sono
codardi, deboli, d'animo ignobile e angusto; docili sempre a
sperar bene, perché sempre dediti a variare le opinioni del bene
secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a
render l'arme, come dice il Petrarca , alla loro fortuna,
prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura,
ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è
negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque
condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando
sieno privati d'ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false,
così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più
fondate del mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei
mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere
umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler
lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali
che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del
destino. Parlo sempre degl'inganni non dell'immaginazione, ma
dell'intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia,
non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli
uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn'inganno puerile, ed ho il
coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare
intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna
parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze
di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad
altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere
strappato ogni manto alla coperta e misteriosa crudeltà del
destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella
filosofia dolorosa fosse d'invenzione mia; vedendola così
rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più
sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch'ella era tanto nuova,
quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più
antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di
figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità
umana; e chi di loro dice che l'uomo è il più miserabile degli
animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato,
morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in
giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare . E
anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all'altr'ieri,
tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli,
in un modo o in un altro, avevano ripetute o confermate le stesse
dottrine. Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la
maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché
studiando più profondamente questa materia, conobbi che l'infelicità
dell'uomo era uno degli errori inveterati dell'intelletto, e che
la falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era
una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m'acquetai,
e confesso ch'io aveva il torto a credere quello ch'io credeva.
Amico: E avete cambiata opinione?
Tristano: Sicuro. Volete voi ch'io contrasti alle
verità scoperte dal secolo decimonono?
Amico: E credete voi tutto quello che crede il
secolo?
Tristano: Certamente. Oh che maraviglia?
Amico: Credete dunque alla perfettibilità
indefinita dell'uomo?
Tristano: Senza dubbio.
Amico: Credete che in fatti la specie umana vada
ogni giorno migliorando?
Tristano: Sì certo. È ben vero che alcune volte
penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno
per quattro di noi. E il corpo e l'uomo; perché (lasciando tutto
il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza
di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la
vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo.
Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio;
perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono,
ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però
anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei
secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione
non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta:
pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito,
rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a
vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò
all'educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo
stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in
ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte,
di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a
conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L'effetto è
che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e
che gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che
furono uomini. Parlo così degl'individui paragonati agl'individui,
come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna)
paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono
incomparabilmente più virili di noi anche ne' sistemi di morale
e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali
piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada
sempre acquistando.
Amico: Credete ancora, già s'intende, che il
sapere, o, come si dice, i lumi, crescano continuamente.
Tristano: Certissimo. Sebbene vedo che quanto
cresce la volontà d'imparare, tanto scema quella di studiare. Ed
è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri
dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant'anni addietro,
e anche più tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore
di quello dell'età presente. Né mi dicano che i dotti sono
pochi perché in generale le cognizioni non sono più accumulate
in alcuni individui ma divise fra molti; e che la copia di questi
compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le
ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa
somma. Dove tutti sanno poco, e' si sa poco; perché la scienza
va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L'istruzione
superficiale può essere, non propriamente divisa fra molti, ma
comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se
non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo.
E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito
esso individualmente di un immenso capitale di cognizioni, è
atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il sapere umano.
Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata
ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di
questi uomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io
fo queste riflessioni così per discorrere, e per filosofare un
poco, o forse sofisticare; non ch'io non sia persuaso di ciò che
voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d'ignoranti
impostori da un lato, e d'ignoranti presuntuosi dall'altro,
nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano
di continuo.
Amico: In conseguenza, credete che questo secolo
sia superiore a tutti i passati.
Tristano: Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti
i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed
io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli
altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che
appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cose dette dianzi.
Amico: In somma, per ridurre il tutto in due parole,
pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose
(poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello
che ne pensano i giornali?
Tristano: Appunto. Credo ed abbraccio la profonda
filosofia de' giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura
e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole, sono
maestri e luce dell'età presente. Non è vero?
Amico: Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da
vero e non da burla, voi siete diventato de' nostri.
Tristano: Sì certamente, de' vostri.
Amico: Oh dunque, che farete del vostro libro?
Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così contrari
alle opinioni che ora avete?
Tristano: Ai posteri? Io rido, perché voi
scherzate; e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei.
Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d'individui o di cose
individuali del secolo decimonono, intendete bene che non v'è
timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero
gli antenati. Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse,
dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch'è
inutile che l'individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per
qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria
gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare
alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui,
essendo composte d'individui, desidero e spero che me lo
spieghino gl'intendenti d'individui e di masse, che oggi
illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de'
posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in
minor tempo che non ne bisogna a leggerli, vedete bene che,
siccome costano quel che vagliono, così durano a proporzione di
quel che costano. Io per me credo che il secolo venturo farà un
bellissimo frego sopra l'immensa bibliografia del secolo
decimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere di libri che
sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali
meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché
la verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e
quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora
metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è
un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si
debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che
camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi
vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno
fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto
senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al
quale è pervenuta la civiltà, e che l'indole del tempo presente
e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni
necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose.
Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di
faccende, che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi
tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a
quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha
destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch'è
da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo,
il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha
tenuto il campo, in questo la nullità. Onde è tale il romore e
la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna
attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali,
nell'immensa moltitudine de' concorrenti, non è più possibile
di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl'infimi si credono
illustri, l'oscurità e la nullità dell'esito diviene il fato
comune e degl'infimi e de' sommi. Ma viva la statistica! vivano
le scienze economiche, morali e politiche, le enciclopedie
portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro
secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose,
ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno
ottimo, come sapete. E consoliamoci, che per altri sessantasei
anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sue
ragioni.
Amico: Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico.
Ma dovreste almeno all'ultimo ricordarvi che questo è un secolo
di transizione.
Tristano: Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti
i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione,
perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà
secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché
cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono,
o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare,
andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba
riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al
meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente
è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno
stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In
tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e
rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio;
perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si
torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è
accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e
che forzando la natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero,
per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono
transizioni apparenti, ma non reali.
Amico: Vi prego, non fate di cotesti discorsi con
troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici.
Tristano: Poco importa. Oramai né nimici né amici
mi faranno gran male.
Amico: O più probabilmente sarete disprezzato,
come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del
progresso della civiltà e dei lumi.
Tristano: Mi dispiace molto, ma che s'ha a fare? se
mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.
Amico: Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e
che s'ha egli a fare di questo libro?
Tristano: Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo
bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d'invenzioni e
di capricci malinconici, ovvero come un'espressione dell'infelicità
dell'autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo
felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con
licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo;
e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il
contrario.
Amico: Io non conosco le cagioni di cotesta
infelicità che dite. Ma se uno sia felice o infelice
individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e
il giudizio di questa non può fallare.
Tristano: Verissimo. E di più vi dico francamente,
ch'io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo
al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e
ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con
tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente
che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi
parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l'ora, il fatto
non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga
ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro,
che quasi mi fa sicuro che l'ora ch'io dico non sia lontana.
Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e
incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente,
così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare
ancora quaranta o cinquant'anni, quanti mi sono minacciati dalla
natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come
ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la
forza immaginativa, così questo mi pare un sogno e un'illusione,
impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un
avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso
tenermi dal sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la
via che mi resta a compiere non sia lunga. E questo, posso dire,
è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che spesso mi
maraviglio d'aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze
di gloria e d'immortalità, sono cose delle quali è anche
passato il tempo di ridere. Dei disegni e delle speranze di
questo secolo non rido: desidero loro con tutta l'anima ogni
miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e
sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri,
né quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi
ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un
gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con
qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né savi, né
grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e
solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole,
ogni pensiero dell'avvenire, ch'io fo, come accade, nella mia
solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte,
e di là non sa uscire. Né in questo desiderio la ricordanza dei
sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto invano, mi
turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così
tranquillo e così contento, come se mai null'altro avessi
sperato né desiderato al mondo. Questo e il solo benefizio che
può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la
fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia,
dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi,
morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.