Giacomo Leopardi
LETTERE
AL PADRE
In appendice:
lettere alla madre e allo zio
1.
Quatuor sunt dies ex quo iterum summa nostra laetitia studia incepimus, quae utinam juxta tui, ac Praeceptoris desiderium evenirent. In haec incumbere toto animo volo, et erit gratius mihi studium, quam ludus. Tamen cupio etiam interdum animum relaxare, et tu cogitare debes mihi indulgere. Hoc spero, quia scio quantum me amas, et vellem posse respondere, sicut debeo, benevolentiae, quam mihi demonstras. Hoc, Deo auxiliante, faciam; interim curam habe de tua valetudine, ut cito redire possis mecum ad convivendum, et cum aliis omnibus domesticis, qui ex corde te salutant. Sine me osculari manum tuam, et demisse me subscribere Tui Pater dilectissime Recineti postridie idus Octobris millesimo octingentesimo septimo
Umil.mus obb.mus Filius
Iacobus
2.
Di casa ai 24 Decembre 1810
Carissimo e Stimatissimo Signor Padre.
Il ritrovarmi in quest'anno colle mani vuote non m'impedisce di venire a testificarle la mia gratitudine augurandogli ogni bene dal Cielo nelle prossime festive ricorrenze. Certo, che ella saprà compatirmi per la mia sventura lo faccio colla stessa animosità, colla quale solea farlo negli anni trascorsi.
Crescendo la età crebbe l'audacia, ma non crebbe il tempo dell'applicazione. Ardii intraprendere opere più vaste, ma il breve spazio, che mi è dato di occupare nello studio fece, che laddove altra volta compiva i miei libercoli nella estensione di un mese, ora per condurli a termine ho d'uopo di anni. Quindi è che malgrado le mie speranze, e ad onta del mio desiderio, non mi fu possibile di terminare veruno di quelli, che mi ritrovo avere cominciati. Tuttoché però mi vedessi inabile ad adempire all'atto di dovere, che la costumanza fra noi da qualche tempo addottata ha congiunto alla Sacra vicina festività; fece nondimeno la viva gratitudine ai di lei benefici da me gelosamente serbata nell'animo, che osassi anche in quest'anno di presentarmi a lei per augurarle a viva voce quella prosperità che di continuo le auguro nel mio cuore. I vantaggi da lei proccuratimi in ogni genere, ma specialmente in riguardo a quella occupazione, che forma l'oggetto del mio trastullo, mi ha riempito l'animo di una giusta gratitudine, che non posso non affrettarmi a testimoniarle. Conosco la cura grande, che ella compiacesi di avere pei miei vantaggi, e dietro alla chiara cognizione, viene come indivisibile compagna la riconoscenza. Se ella non conobbe fin qui questo reale sentimento del mio cuore, a me certo se ne deve il rimprovero, sì come a quello, che non seppe verso la sua persona mostrarsi così ossequioso come ad un figlio sì beneficato era convenevole di fare con un Padre sì benefico.
Amerei, che ella illustrato da un lume negato dalla natura a tutti gli uomini potesse nel mio cuore leggere a chiare note quei sentimenti, che cerco di esprimerle colle parole. Non v'ha in esse, nè esagerazione, nè menzogna. Non potendo ella penetrare nel mio interno può sicuramente riposare sulla testimonianza della mia penna.
Rinnuovati i voti sinceri per la sua perpetua felicità mi dichiaro col più vivo sentimento
Suo umilissimo obbligatissimo figlio Giacomo.
3.
Tre-cher Père
Encouragé par vôtre éxemple je ai entrepris d'ecrire une Tragedie. Elle est cette, que je vous present. Je ne ai pas moins profité des vôtres oeuvres que du vôtre exemple. En effet il paroît dans la premiere des vôtres Tragedies un Monarque des Indies occidentelles, et un Monarque des Indies orientelles paroît dans la mienne. Un Prince Roïal est le principal auteur du second entre les vôtres Tragedies, et un Prince Roïal soutient de le même la partie plus interessant de la mienne. Une Trahison est particulierement l'objet de la troisieme, et elle est pareillement le but de ma Tragedie. Si je sois bien, ou mal reussi en ce genre de poesie, ceci est cet, que vous devez juger. Contraire, ou favorable que soit le jugement, je serais toujours Votre tre-humble fils Jacques.
De la Maison 24 Decembre 1811.
4.
Recanati 12 Agosto
Signor Padre mio carissimo. Non avendo l'altra volta potuto risponderle come desiderava, voglio farlo adesso, per non defraudarmi di una soddisfazione che mi dispiacque di non aver potuto proccurarmi.
Il piacere che suo figlio prova nel trattenersi con lei può esser compreso solamente da un padre com'ella.
La sua assenza che lascia un gran vuoto nella mia vita ordinaria mi affliggerebbe sensibilmente, e dopo qualche tempo mi riuscirebbe intollerabile, se non conoscessi ciò, che la cagiona. Vedendo che essa ha per oggetto di produrre dei veri, e sodi vantaggi per i nostri amatissimi simili, che esiggono dal nostro cuore, e dalla nostra buona volontà i più grandi sacrifizi, mi consolo di una cosa, che mi amareggerebbe, mentre rifletto ancora che tutti quelli che hanno voluto travagliare per il bene dello stato, o per farsi un nome che viva onorato, e caro nella memoria dei posteri, hanno dovuto far sacrifici molto maggiori.
L'interesse vivissimo che io prendo per tutto ciò che riguarda il bene della sua persona non le può essere ignoto.
Io dubito se ella stessa ne abbia tanto per se medesima.
Ella conoscerà che io non esagero quando le dico, che ciò che le avviene di dispiacevole, e che giunge a mia cognizione mi rende inquietissimo, e mi turba grandissimamente. Sarei bene afflitto se potessi sospettare che ella dubitasse della mia corrispondenza alla tenerezza, che ella ha per noi. Il solo ricordarmi questo mio dovere è un rimprovero per me, mentre mi fa credere di aver dato luogo a qualche sospetto sopra materia troppo gelosa. Ciò mi avverte però ad esser più cauto nell'avvenire.
La posso assicurare che i sentimenti che le ho espressi sono communi a tutti i miei fratelli, in ispecie a quello che io conosco più intimamente, nè infatti si può aspirare a divenir saggio senza pensare in questa guisa. Essi m'impongono di salutarla da parte loro, e di baciarle la mano, ciò che io faccio in loro e in mio nome, pregandola a credermi immutabilmente suo affezionatissimo figlio Giacomo.
5..
Mio Signor Padre.
Sebbene dopo aver saputo quello ch'io avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare di sentir le prime e ultime voci di un figlio che l'ha sempre amata e l'ama, e si duole infinitamente di doverle dispiacere. Ella conosce me, e conosce la condotta ch'io ho tenuta fino ad ora, e forse quando voglia spogliarsi d'ogni considerazione locale, vedrà che in tutta l'Italia, e sto per dire in tutta l'Europa, non si troverà altro giovane, che nella mia condizione, in età anche molto minore, forse anche con doni intellettuali competentemente inferiori ai miei, abbia usato la metà di quella prudenza, astinenza da ogni piacer giovanile, ubbidienza e sommessione ai suoi genitori ch'ho usata io. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Ella non ignora che quanti hanno avuto notizia di me, ancor quelli che combinano perfettamente colle sue massime, hanno giudicato ch'io dovessi riuscir qualche cosa non affatto ordinaria, se mi si fossero dati quei mezzi che nella presente costituzione del mondo, e in tutti gli altri tempi, sono stati indispensabili per fare riuscire un giovane che desse anche mediocri speranze di se. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Certamente non l'è ignoto che non solo in qualunque città alquanto viva, ma in questa medesima, non è quasi giovane di 17 anni che dai suoi genitori non sia preso di mira, affine di collocarlo in quel modo che più gli conviene: e taccio poi della libertà ch'essi tutti hanno in quell'età nella mia condizione, libertà di cui non era appena un terzo quella che mi s'accordava ai 21 anno. Ma lasciando questo, benché io avessi dato saggi di me, s'io non m'inganno, abbastanza rari e precoci, nondimeno solamente molto dopo l'età consueta, cominciai a manifestare il mio desiderio ch'Ella provvedesse al mio destino, e al bene della mia vita futura nel modo che le indicava la voce di tutti. Io vedeva parecchie famiglie di questa medesima città, molto, anzi senza paragone meno agiate della nostra, e sapeva poi d'infinite altre straniere, che per qualche leggero barlume d'ingegno veduto in qualche giovane loro individuo, non esitavano a far gravissimi sacrifici affine di collocarlo in maniera atta a farlo profittare de' suoi talenti. Contuttoché si credesse da molti che il mio intelletto spargesse alquanto più che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, nè le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia. Io vedeva i miei parenti scherzare cogl'impieghi che ottenevano dal sovrano, e sperando che avrebbero potuto impegnarsi con effetto anche per me, domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo di vivere in maniera adattata alle mie circostanze, senza che perciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle risa, ed Ella non credè che le sue relazioni, in somma le sue cure si dovessero neppur esse impiegare per uno stabilimento competente di questo suo figlio. Io sapeva bene i progetti ch'Ella formava su di noi, e come per assicurare la felicità di una cosa ch'io non conosco, ma sento chiamar casa e famiglia, Ella esigeva da noi due il sacrifizio, non di roba nè di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù, e di tutta la nostra vita. Il quale essendo io certo ch'Ella nè da Carlo nè da me avrebbe mai potuto ottenere, non mi restava nessuna considerazione a fare su questi progetti, e non potea prenderli per mia norma in verun modo. Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch'io menava per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi proccurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch'era più ch'evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilissimamente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera complessione, non v'era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Contuttociò Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi micidiali o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine e dalla vita affatto disoccupata, come massimamente negli ultimi mesi. Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal suo proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una costantissima dissimulazione, e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo e le riflessioni fatte sulla natura degli uomini, mi persuasero ch'io benché sprovveduto di tutto, non dovea confidare se non in me stesso. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia sorte. Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.
So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perché la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi, tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare dei loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente d'ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche. Ma quanto a ciò molti sono d'altra opinione; quanto a noi, siccome il disperare di se stessi non può altro che nuocere, così non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei antenati.
Avendole reso quelle ragioni che ho saputo della mia risoluzione, resta ch'io le domandi perdono del disturbo che le vengo a recare con questa medesima e con quello ch'io porto meco. Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo. Ma essendo così debole come io sono, e non potendo sperar più nulla da Lei, per l'espressioni ch'Ella si è lasciato a bella posta più volte uscire disinvoltamente di bocca in questo proposito, mi son veduto obbligato, per non espormi alla certezza di morire di disagio in mezzo al sentiero il secondo giorno, di portarmi nel modo che ho fatto. Me ne duole sovranamente, e questa è la sola cosa che mi turba nella mia deliberazione, pensando di far dispiacere a Lei, di cui conosco la somma bontà di cuore, e le premure datesi per farci viver soddisfatti nella nostra situazione. Alle quali io son grato sino all'estremo dell'anima, e mi pesa infinitamente di parere infetto di quel vizio che abborro quasi sopra tutti, cioè l'ingratitudine. La sola differenza di principii, che non era in verun modo appianabile, e che dovea necessariamente condurmi o a morir qui di disperazione, o a questo passo ch'io fo, è stata cagione della mia disavventura. È piaciuto al cielo per nostro gastigo che i soli giovani di questa città che avessero pensieri alquanto più che Recanatesi, toccassero a Lei per esercizio di pazienza, e che il solo padre che riguardasse questi figli come una disgrazia, toccasse a noi. Quello che mi consola è il pensare che questa è l'ultima molestia ch'io le reco, e che serve a liberarla dal continuo fastidio della mia presenza, e dai tanti altri disturbi che la mia persona le ha recati, e molto più le recherebbe per l'avvenire, Mio caro Signor Padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m'inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà d'ora innanzi. Se la fortuna mi farà mai padrone di nulla, il mio primo pensiero sarà di rendere quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi.
L'ultimo favore ch'io le domando, è che se mai le si desterà la ricordanza di questo figlio che l'ha sempre venerata ed amata, non la rigetti come odiosa, nè la maledica; e se la sorte non ha voluto ch'Ella si possa lodare di lui, non ricusi di concedergli quella compassione che non si nega neanche ai malfattori
6.
Spoleto 20 Novembre 1822.
Carissimo Signor Padre.
Scrivo in gran fretta e a un barlume per darle nuova del mio arrivo felice in questa città con ottimo tempo, e perfetta salute. Il dolor di testa ha fatto risolvere il zio Momo di allungare d'un giorno il nostro viaggio. Saremo a Roma sabato, piacendo a Dio. Il zio Carlo co' suoi compagni ha seguito la sua strada, e sarà a Roma venerdì. Riserbo a un'altra lettera tutte le espressioni della mia vera ed eterna gratitudine verso di Lei, e del mio fermo proposito di far sempre quello che io creda doverle essere di maggior piacere. La prego de' miei saluti alla cara Mamma, al fratello Carlo, e agli altri tre; e similmente de' saluti del zio Momo, il quale dal primo giorno del viaggio in poi, non ha più sofferto, e sta bene.
Perdoni l'orridezza dello scrivere, il qual è dopo cena, in tavola, fra molte persone che mi assordano. Le bacio le mani, e con gran tenerezza mi segno Suo affettuosissimo e riconoscentissimo figlio Giacomo.
7.
Roma 9 Decembre 1822.
Carissimo Signor Padre.
Tutte le lettere ch'io ricevo da casa mia, e specialmente le sue, mi consolano e mi rallegrano sopra ogni altra cosa, perché in verità io ebbi sempre ed avrò sempre bisogno della comunicazione del cuore e dei sentimenti, la quale non posso trovare appresso i miei ospiti, quantunque non mi lascino mancare di nessun'altra cosa o necessaria o comoda. Ma i principii e gli elementi eterocliti ed affatto anomali di cui sono composti i loro naturali, e il disordine incredibile e inconcepibile che regna nel giornaliero di questa famiglia, non mi lasciano esser con loro altro che forestiere. Sono stato dalla Contessa Mazzagalli, la quale ho trovato bene, e le ho fatto i suoi saluti e quelli della Marchesa Roberti. Ringrazia e saluta Lei e la Marchesa, alla quale forse a quest'ora avrà scritto in proposito. Sono anche stato a posta dal Padre Trachini, il quale è molto invecchiato, ma il suo aspetto è sano. Ha gradito la visita, e la memoria ch'Ella tiene di lui, e m'ha incaricato di riverirla da sua parte. Di qui a pochi mesi, o forse a pochi giorni, compie il triennio del suo Procuratorato generale, e potrebb'essere che tornasse a stabilirsi costì. Ho mostrato a Melchiorri la descrizione ch'Ella mi consegnò della medaglia iscritta M. CARR. L'ha fatta vedere ad Alessandro Visconti che passa per il primo Numismatico di Roma, e (dicono costoro) d'Europa: e questi ha creduto che la medaglia appartenga alla famiglia Papiria, e che l'iscrizione si debba leggere M. CARB. cioè M. Carbo. Così veramente la riportano il Vaillant, l'Ekhel ed altri, come ho veduto io medesimo: e la descrizione che fanno della medaglia, concorda appunto colla sua. Farò ricerca dell'Arvood, e s'altro m'occorrerà in materia Bibliografica che faccia a proposito, non mancherò d'avvertirla. Cercherò anche il noto opuscolo di San Girolamo nell'edizione Vallarsiana, ch'è l'ultima e la più completa, delle opere di questo Padre. La ringrazio molto delle notizie ch'Ella mi dà, e godo che il fratellino stia meglio: desidero sapere che sia guarito, e spero che Ella o altri non lascerà di darmi notizia di lui ne' prossimi ordinarii. Del Grutero non dubito che non sia cosa magnifica, com'Ella dice, e son certo ch'è utilissima, e poco meno che necessaria, massimamente a una Biblioteca.
Quanto ai letterati, de' quali Ella mi domanda, io n'ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m'hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d'arrivare all'immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell'uomo è l'Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l'Archeologia.
Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e pare un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell'antichità. Tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne' giornali, e fanno cabale e partiti, e così vive e fa progressi la letteratura romana. Quanto a me, alcuni di costoro mi conoscevano avanti il mio arrivo, altri no. Quelli mi trattano molto bene, questi poco, come accade all'uomo nuovo, e massimamente ad uno che non s'è mai curato di farsi conoscere in questa città, e che non sa parlare della loro scienza favorita, o che s'annoia di parlarne. Cancellieri è insopportabile per le estreme lodi che colla maggiore indifferenza del mondo dice in faccia di chiunque lo va a trovare: ed è famoso per questa brutta proprietà, che rende la sua conversazione affatto insignificante, non potendosegli mai credere.
Monsignor Mai è tutt'altro da questa canaglia; è gentilissimo con tutti, compiacentissimo in parole, politico in fatti; mostra di voler soddisfare a ciascuno, e fa in ultimo il suo comodo; ma quanto a me, non solo non ho che lagnarmene, anzi debbo dire che m'ha compiaciuto realmente in ogni mia domanda, e che mi tratta quasi con rispetto.
Dopo il mio arrivo è uscita la sua Repubblica, la quale è una bella cosa, e molto lodata da chi la capisce, come biasimata dal partito contrario a Mai. Presto uscirà il Frontone accresciuto del doppio da quel che fu nell'edizione di Milano, in modo che gran parte delle sue opere viene ad essere intera e senza lagune. Ho conosciuto il Cav. Marini Direttore generale de' catasti, uomo coltissimo, il quale mi parlò subito di Lei, e de' suoi affari al tempo dell'annona, ne' quali anch'egli, come mi disse, ebbe parte; e mi dimostrò molta stima per la sua persona. Ha una ricchissima libreria, ch'è, si può dire, a disposizione di Melchiorri e mia. Non è pubblica. Quivi passiamo, per lo più, buona parte della mattina, e ordinariamente siamo soli. Presso il Ministro d'Olanda, (che mi chiese nuove di Lei, e volle la sua opera sulla nostra Zecca, avendola veduta annunziata nelle Effemeridi) ho conosciuto alcuni dotti forestieri, (ben altra cosa che i Romani). Uno de' quali venne ieri da me a posta, e spontaneamente; e mi pregò che gli comunicassi alcune osservazioni ch'io sono per fare stampare; le lodò, e mi dimandò dell'ora in cui sarebbe potuto tornare a côsare con me. Questi è un professore di letteratura greca di Monaco, uomo celebre, che io conosceva già di nome da più anni in qua. La ho trattenuta di queste bagattelle, perché credo, ed Ella m'assicura che si compiace d'essere informata delle cose mie. Desidero che il suo nuovo impiego le rechi il minor possibile incomodo: auguro e confido che riesca in benefizio della patria. La prego de' miei saluti a tutti i nostri, particolarmente alla Mamma, e de' miei ossequi alla Marchesa Roberti. Mi benedica: non è necessario dirle che mi comandi: solamente ne la posso pregare, perch'io abbia la consolazione di renderle qualche servigio secondo le mie forze.
Il suo tenero figlio Giacomo.
8.
Roma 27 Decembre 1822.
Carissimo Signor Padre.
Le scrissi già l'ordinario passato, rispondendo alla sua graziosissima dei 16 Decembre. Oggi m'è resa l'altra dei 20, benché arrivata qui fino dal 22, come leggo nell'impronta. Sarebbe quasi inutile ch'io provassi di ringraziarla della liberalità che mi usa, e dell'affetto che mi dimostra. Ella sa, carissimo Signor Padre, quali sono i miei sentimenti, ancorché io non li sappia esprimere. E per tanto mi basterà dirle che la ringrazio con tutto il cuore del dono, e che lo riconosco dall'antico e tenero, e forse pur troppo non meritato amore, ch'Ella mi porta: il quale amore però, quando anche non meritato, certamente è corrisposto, e corrisposto con tutte le forze possibili dell'animo mio. Scrivo qui dietro a Pietruccio per non moltiplicare le lettere. Salutai da sua parte il Cav. Marini, e gli feci l'invito ch'Ella mi scrisse. Ma il Cav. è così occupato, che difficilmente avrà mai libertà di muoversi da Roma. La ringrazia molto e la riverisce: e mi disse che non solamente si ricorda di Lei, ma che dal vederla e conoscerla prese ottima idea della prontezza, del talento e del buon tratto de' Signori Marchegiani. Non ho ancora vedute Fusconi, perché nessuno m'ha saputo dire dove abiti, ma lo saprò, e farò quanto Ella mi prescrive. Tutti (compreso anche me) stanno bene; e tutti la salutano; particolarmente Donna Marianna, alla quale ho dato da sua parte notizia dell'Opera di Recanati. Vorrebbe che io, per contraccambio, e quasi per soverchieria, le descrivessi l'opera d'Argentina che vedemmo ier sera, ma queste descrizioni non fanno per Lei nè per me. L'Opera è nuova, del maestro Caraffa: non mi parve gran cosa, benché avesse un incontro sufficiente. I politici di qui tengono per certa la guerra di Spagna e Francia, e molti vogliono, ma non so con qual fondamento, che le ostilità siano cominciate.
La prego de' miei amorosi saluti alla Mamma e ai fratelli, e baciandole la mano con tutta l'anima, mi confermo Suo riconoscentissimo figlio Giacomo.
9..
Roma 31 Decembre
Carissimo Signor Padre.
Peppino è stato contentissimo della descrizione ch'Ella gli ha favorito del Codice di Varrone, e m'assicura che questa è l'edizione principe, e che gli sarà di grandissima utilità il consultarla, mandandogliela Ella a suo comodo per occasione opportuna.
L'altro giorno fu da me Luigi Sorini, e mi disse che per gli armadi da lui fatti in cotesto archivio comunale, Ella promise di fargli avere gli armadi vecchi, ovvero otto scudi in danaro, oltre il resto del prezzo convenuto per la sua fattura. Disse ch'era stato pagato del resto, ma non aveva avuto nè gli armadi vecchi nè gli otto scudi; che non si curerebbe di averli se il suo credito fosse con Lei, ma ch'essendo colla Comune, non vedeva nessun motivo di trascurarlo: in somma mi pregò che gliene scrivessi, come faccio; ed Ella disporrà come crederà meglio, rispondendomi, se le piacerà, quello ch'io gli dovrò dire, in caso che torni. Ho trovato la cartina del Teopompo fra i miei scartafacci, e mi dispiace d'averle dato inutilmente l'incomodo di cercarla. Ho anche trovato qui fra i libri di Peppe Antici il 9° tomo del Metastasio, ediz. del Zatta, segnato Luigi Leopardi. M'immagino che questo tomo debba mancare nel nostro corpo, e perciò l'avverto ch'è nelle mie mani. Reinhold, dal quale fummo a pranzo Domenica, mi disse di Lei molte cose obbliganti, e fra l'altre, che aveva ricevuta una sua lettera, e fattale la risposta.
La sua carissima de' 20 Decembre, mi giunse ritardata, come mi pare averle scritto. Da quando io la ricevetti, non mi sono potuto muovere da casa se non di rado, e andando a poca distanza, a motivo de' geloni che ho ai piedi e che m'infastidiscono assai. Non sono dunque potuto andare alla posta a riscuotere il Franco di cui Ella si compiaceva di farmi dono e di darmi notizia. Ed essendo somma in questo paese la difficoltà di riscuotere i Franchi senz'andare in persona, non ho trovato chi mandare per me, fino a questa mattina. Così non prima di questa mattina ho potuto sapere che i dieci scudi non sono ancora arrivati. Del che mi pare di dovere avvisarla.
Questa notte, dopo dieci giorni di mal di punta, se n'è andato il povero Giuseppe Quercia. Anche la sua de' 13, come scrissi ieri a Paolina, m'è giunta ritardatissima, cioè avanti ieri, benché fosse arrivata a suo tempo in Roma. Non mancherò, com'Ella amorosamente mi ordina, di fare che ogni ordinario parta qualche mia lettera diretta alla mia famiglia. Nella quale, Ella dice troppo bene, che regna un ordine veramente raro, il qual ordine tanto più si stima, quanto più si conosce il disordine delle altre famiglie nel loro interno. Lo stesso prendersi un poco d'incomodo verso gli altri, affinché tutti gli altri lo prendano verso di voi, è la più comoda cosa del mondo; e un piccolo e moderato codice di creanza è necessarissimo anche nel più intimo ed assoluto domestico. Ma qui, dove niuno si vuole incomodare; dove i figli alla Madre, la Madre ai figli, il marito alla moglie, la moglie al marito si contrastano abitualmente e sinceramente le pagnotte di pane, i sorsi di vino, i migliori bocconi delle vivande, e se li negano scambievolmente, e se li tolgono di bocca, e se li rimproverano, e si danno dei ghiotti gli uni cogli altri; ciascheduno è incomodato da tutti e tutti da ciascuno. Ma sarebbe impresa troppo lunga il descrivere minutamente le assurdità del sistema di questa famiglia, e le contraddizioni che vi si trovano in ogni articolo. Io credo di potere, colla debita prudenza, farle fare molte risate innocenti sopra questo proposito, parlandole a voce.
Desidero ch'Ella s'abbia riguardo in questo inverno, che qui è considerato come straordinario, e secolare. Ed augurandole un felice cominciamento del nuovo anno e delle fatiche della sua carica, le bacio la mano e domando la sua benedizione.
Amorosissimo figlio Giacomo.
10.
Roma 4 del 1823.
Carissimo Signor Padre.
Scrivo questa per avvisarla che ieri mi furono resi dalla posta gli scudi dieci, e per darle nuova di me, che in questi giorni me la passo per lo più in casa, stando con due piaghette l'una alla mano e l'altra al piede, molto irresoluto s'io le debba medicare o no, e che cosa converrebbe metterci. Finora non ci ho fatto nulla: non mi danno dolore, stando fermo; e io mi contento di riguardarle. Lo stampatore De Romanis mi ha proposto d'intraprendere per lui una traduzione di tutte le opere di Platone. Questo lavoro si fa contemporaneamente in Germania e in Francia nelle rispettive lingue; ed è molto desiderato in Italia. Tutti i letterati nazionali e forestieri ai quali s'è parlato di questo disegno, l'hanno lodato infinitamente; lo Stampatore n'è invaghito; e credo anch'io che quest'impresa ben eseguita potrebbe far grande onore.
M'hanno consigliato di domandare a De Romanis 100 scudi per ciascun tomo della traduzione, la quale verrebbe a portare quattro o cinque tomi. Sono quasi nell'impegno; e se le condizioni mi converranno, penso di stringerlo. Mi sarà molto caro il suo parere in questo proposito. Il freddo qui è mitigato, ma pare presto voglia riprendere il suo rigore.
Mercoldì Roma era bianca dalla neve.
Saluti di tutti a tutti. La prego in particolare de' miei, specialmente alla cara Mamma e ai fratelli. E baciandole la mano, mi ripeto suo affettuosissimo e gratissimo figlio Giacomo.
11.
13 Gennaio
Carissimo Signor Padre.
Ho ricevuto oggi la sua amorosissima dei 10. Manderò alla posta a riscuotere l'unguento e il resto ch'Ella con tanta premura m'invia, e ne farò uso secondo il mio stato. Scrivo brevemente perché sono in letto, dove fo conto di passare una settimana, avendo veduto che la mia piaghetta, benché leggera, aperta da quindici giorni, non ha mai migliorato per la cura che gli ho avuta stando in piedi. Con un poco di pazienza spero di guarire. Non potendo scrivere a lungo, Ella mi perdonerà se non mi stendo sufficientemente sull'affare del Platone, intorno al quale Ella ha la bontà di consigliarmi e istruirmi così amorosamente. Le dirò solo che l'affare non è d'un triennio, ma di più o meno a piacer mio: che a piacer mio saranno ancora tutte le circostanze sì del lavoro, sì dell'impegno, quando si contragga; giacché per uso e per ragione gli autori non si legano cogli stampatori come due parti contraenti, ma li trattano a modo loro: che De Romanis è un buon uomo, non estremamente interessato, e se non altro, maneggiabile: che in Italia, e massimamente in Roma, com'Ella sa, non si può pretender gran cosa per lavori letterarii, giacché il guadagno degli stampatori è ristretto, e il numero di copie ch'Ella dice, non credo che possa trovar esito, anzi sarebbe molto che se n'esitasse la metà: che nell'impresa di De Romanis non avrebbe luogo il testo, ma la sola traduzione con note o filosofiche o storiche, ma non filologiche: che ho già presso di me un Platone di Lipsia 1819-22 in-8°, volumi, finora, 3, datomi da De Romanis gratis, come anche gratis mi dovrà proccurare qualunque altra opera, edizione ec. sia necessaria al proposito; e che finalmente o non si farà scrittura, ed io resterò libero di far quanto mi piacerà, e d'interrompere il lavoro subito che lo stampatore non corrisponda il convenuto; o dovendosi fare obbligazione in iscritto, non mancherò di comunicarnele il tenore antecedentemente. Mi sono sempre dimenticato di dirle che tempo fa Monsignor Nembrini mi parlò di Lei con gran lode, e m'incaricò di salutarla. Ho dato la sua risposta a Sorini, che la ringrazia e se le raccomanda. Saluti di tutti, e particolari del Zio Momo e del Zio Carlo.
Oggi (15) la mia piaghetta va meglio, ma mi ostino in letto finché non sia guarita in modo che non si debba riaprire.
Le bacio la mano, e chiedendole la benedizione mi ripeto il suo affettuosissimo figlio Giacomo.
12.
Roma 24 del 1823.
Carissimo Signor Padre.
Ricevo la sua graziosissima dei 20. Come scrissi già coll'ordinario passato, i miei geloni, grazie a Dio ed alla mia pazienza, son guariti. Ieri tornai ad uscire per la prima volta dopo 13 giorni. Oggi piove, come ha fatto per tutta quanta la settimana passata, e se dura così, il Carnevale vorrà esser magro, e si dovranno mangiare in casa i Confetti ch'Ella così gentilmente mi regala. Farò valere la pagella nel miglior modo possibile. Del Cav. Marini, dopo la morte di sua moglie, corse qui in Roma quella voce di cui Ella mi domanda. Ma egli se ne ride, e invece della prelatura, è verisimile che prenda un'altra moglie. D. Luigi Santacroce era l'altra sera al teatro, e non so ch'abbia avuto alcun male. Tornano i discorsi di guerra, ma non so con quanto fondamento. La promozione è stata prorogata fino a Quaresima. La prego a incaricarsi de' miei saluti, e baciandole amorosamente la mano mi confermo
Suo affezionatissimo figlio Giacomo.
13.
Roma 30 Gennaio 1823
Amatissimo signor Padre
Sono due ordinarii che io non ho lettere da casa, bench'io non abbia mai lasciato di scrivere. Da parecchi giorni il freddo è cessato, anzi abbiamo una specie di primavera. Io, grazie al cielo, sono guarito perfettamente da' geloni e sto benissimo. Siamo tutti in gran movimento per il carnevale incominciato oggi, e prevedo che in questi giorni non si potrà far nulla.
Domani avremo i famosi funerali di Canova a SS. Apostoli, e l'ingresso a questa funzione è molto ricercato, come sono qui tutte le corbellerie.
Saluti di tutti, e in particolare del zio Carlo. Le bacio la mano, e col solito invariabile affetto mi ripeto il suo amorosissimo figlio Giacomo.
14.
Carissimo Sig. Padre.
Sono cinque ordinarii continui ch'io manco di lettere sue o di casa. Non sapendo trovar colpa in me, spero che questo silenzio non derivi se non dalle sue occupazioni, o che tutto si debba alla posta. Noi stiamo, grazie a Dio, benissimo, e la primavera comincia a lasciarsi vedere. Sapendo ch'ella s'interessa delle cose mie, non voglio tacerle che da qualche tempo ho trovato mezzo di farmi incaricare del Catalogo de' Codici greci che sono nella Biblioteca Barberina; il qual Catalogo non era stato mai fatto, se non trascuratissimamente, e la maggior parte di quei codici, che non son pochi, era sconosciuta. Ho preso questo incarico colla speranza di far qualche scoperta, e di potermene servire, in caso che mi riuscisse di farne. Il che è difficilissimo in questa città, dove i Bibliotecari sono così gelosi ed avari come ignoranti, e non permettono quasi a niuno l'uso degl'infiniti codici che si conservano in queste librerie. Da parecchie settimane ho incominciato il Catalogo, e ultimamente, oltre varie scoperte minori, ho trovata un'operetta greca sconosciutissima, la quale essendo quasi intera, e di secolo e stile assolutamente classica, viene ad essere di tanta importanza quanto le più famose scoperte del nostro Mai.
Sono ora occupato a copiarla, nel che debbo superare infinite difficoltà, perché da una parte mi conviene combattere coll'oscurità del codice, e dall'altra sfuggire o deludere continuamente con vari pretesti la vigilanza del Bibliotecario. Per ora non si parlerà in nessun modo di questa scoperta, finché non sia finito il Catalogo, e trovato e copiato tutto quello che si troverà di nuovo e di buono nella Barberina. Solamente ho mostrato il Codice a un letterato tedesco, il quale è convenuto del pregio della scoperta, e mi ha confermato nelle mie congetture e opinioni intorno all'autore, al secolo ec. Quando sarà tempo, metteremo il campo a romore.
Le bacio la mano, e pregandola a non volermi privare delle sue nuove, e a ripetermi ch'ella mi ama, con tutto il cuore mi confermo Suo amantissimo figlio Giacomo.
15.
Roma 15 Marzo 1823.
Carissimo Sig. Padre.
Ricevetti coll'ultimo ordinario la sua graziosissima dei 10, e col penultimo, cioè ai 9 di questo, aveva riscossa l'altra dei 28 febbraio, benché giunta qui fino dai 2 del corrente. Nello stesso ordinario mi fu resa una lettera di Lombardia, giunta qui a' 27 di febbraio. Dico questo per toglierla da qualunque sospetto relativo a rivista di lettere o altro, giacché queste lettere, benché ritardate per negligenza dell'uffizio, erano però intatte. Il zio Carlo ed io siamo restati sorpresi del suo pensiero e desiderio circa la collocazione del nuovo teatro, giacché il zio Carlo aveva concepito questo medesimo progetto, e ce l'aveva esposto più volte, e desiderava ancor egli che fosse posto in opera: onde io da principio pensai ch'ella ed egli si fossero comunicato scambievolmente questo disegno. Ma il zio m'assicura di no, e compiacendosi di questa non proccurata conformità d'idee, vuole che io ne la ragguagli. Avrà già saputa la destinazione improvvisa dell'avvocato Fusconi al posto di Promotor della Fede; posto che l'avvocato, per quanto si dice, non ha voluto accettare.
Al pranzo, del quale ella mi domanda, dato da monsignor Mai, fummo il dott. De-Matthaeis che gode qui molta opinione in letteratura (ossia in antiquaria), monsignor Marini nepote del famoso Gaetano Marini e suo successore nell'impiego di archivista vaticano, l'abate Palcani ex gesuita, un ecclesiastico che non conoscevamo, ed io. Cadde il discorso sopra i celebri funerali di Canova fatti qui pochi giorni avanti, e sull'orazion funebre recitata dall'abate Missirini, la quale non valeva nulla; ma il carnevale e l'orazione del Missirini erano i discorsi della giornata, e conveniva adattarvisi. Io dissi sopra quella orazione il mio parere, che fu seguito e confermato dagli altri, fuorché da monsignor Mai, che per accidentalità non attese al discorso.
In somma l'orazione fu disapprovata a pieni voti. Dopo il pranzo, avanti di prendere il caffè, si seppe che quell'ecclesiastico sconosciuto era l'abate Missirini, che mons. Mai aveva inavvertitamente trascurato di far conoscere ai commensali. Dispiacque a tutti l'inconveniente; ma non essendovi neppur luogo a scuse, convenne dissimulare. Usciti di là, io non parlai, ma tutti gli altri, e lo stesso Missirini, raccontarono subito il fatto a mezzo mondo, e tutta Roma letterata fu piena di questa bagattella, della quale Missirini ed io fummo i protagonisti, perché gli altri erano venuti dietro al parer mio. Veramente le risate che furono fatte di questo incidente in vari luoghi non furono alle mie spalle. Seppi poi che Missirini aveva mandati a monsignor Mai certi pettegolezzi perché li rimettesse a me, e che monsignore era stato a posta da lui e l'aveva persuaso a non farne altro. Le ho raccontato questa storiella per ubbidirla. Noi abbiamo un gran freddo, e la primavera si tira sempre addietro, ma tutti stiamo bene.
La prego de' miei rispetti alla marchesa Roberti ed anche de' miei saluti al povero dottor Masi, s'ella ha occasione di vederlo. E baciandole la mano, mi ripeto suo amorosissimo figlio.
16.
Roma 2 Aprile 1823.
Amatissimo Sig. Padre.
Rispondo all'ultima sua carissima del 28 dello scorso. Il Cavalier Marini all'aspetto è un uomo d'età fra i quarantacinque e i cinquant'anni; di viso non affatto giovanile, ma niente vecchio; fisonomia molto amabile e per lo più ridente; occhi vivi; colorito sanissimo; complessione forte; statura mediocre e personale proporzionato. Tutto insieme, avuto riguardo al solo fisico, è dieci volte più amabile di quel che fosse Peroli. Ma perché gli uomini si rendono aggradevoli colle maniere molto più che col semplice aspetto, le dirò che le maniere del Cav. Marini sono piacevolissime, e che il Cav. avendo sempre trattato e trattando con ogni genere di persone, ed anche nella Corte, possiede ottimamente l'arte di farsi amare.
Quanto al carattere, io non saprei desiderare in lui cosa alcuna; anzi trovo in lui molto più e molto meglio di quello che avrei mai potuto sperare in un uomo di mondo e di lettere. Il Cav. è disingannato affatto del mondo e della società, ed ella se lo deve immaginare principalmente sotto questo aspetto. I suoi piaceri e i suoi desideri sono l'amicizia sincera, la pace domestica e i sentimenti del cuore che in lui sono vivissimi. Amava svisceratamente la sua moglie benché zoppa e brutta, e s'attristò della sua morte in modo che non trovava consolazione: io stesso l'ho veduto piangere sopra la sua perdita, due mesi e più dopo accaduta. D'allora in poi è stato sempre, ed è ancora, occupato ad onorare la memoria della sua compagna, con busti in marmo, iscrizioni, elogi che fa comporre da' suoi amici.
Pochissimo si diverte; attende per lo più agli affari del suo impiego, ed agli studi, nei quali consiste la sua principale ambizione: ma con tutto ciò non manca ai doveri sociali, e non trascurerebbe certo i riguardi che si dovessero alle inclinazioni giovanili d'una sua sposa, anzi sarebbe impegnatissimo di proccurarle tutti i passatempi convenienti, e di prendervi parte, e soddisfare anche all'ambizioncella naturale alle donne in una città grande: perché il suo carattere è veramente moderato, e formato dall'esperienza e dalla cognizione degli uomini. Mi par molto religioso: certamente la sua condotta pubblica in questa parte è esemplare; e i suoi discorsi anche i più confidenziali lo dimostrano espressamente Cristiano. Quanto alle sue finanze, io posso dirle, che tra' suoi pari, è de' più ricchi, e fa continuamente delle spese che non si farebbero forse in provincia dalle più ricche famiglie. So di alcuni suoi fondi nelle vicinanze di Roma o nell'interno; ma credo che la maggior parte della sua possidenza (oltre l'emolumento considerabile del suo impiego) consista in danaro. È per dare alla sua figlia (ch'è sola, e in trattativa di matrimonio) ventimila scudi di dote. Più di questo non posso dirle per ora, ma non mancherà poi modo d'informarsi meglio. So di certo che, riprendendo moglie, farà molto più caso delle qualità morali e intellettuali della persona, che della dote. Farà anche caso della nobiltà, della gioventù, e delle qualità fisiche: ma credo nel punto dell'interesse non sarà molto esigente; e in qualunque modo, egli è così trattabile e così ragionevole, che secondo me, sarà molto facile il ridurlo su questo articolo, quando anche presentemente egli avesse delle viste superiori a quelle che si richiederebbero nel caso nostro.
Certo è che il Cavaliere non è niente attaccato al danaro, e cerca la sua felicità per tutt'altra via. Da tutto questo le sarà facile di tirare quella conchiusione ch'Ella mi domanda, se questo trattato sia da coltivarsi o no. Io lo credo convenientissimo ad ambe le parti: e mi persuado che sia fattibilissimo dal lato del Cavaliere. Dal lato di Paolina spero che debba esserlo altrettanto; e che i molti e grandi vantaggi di questo partito debbano compensare appresso di lei quel poco di gioventù ch'è l'unica cosa che manchi al Cavaliere. I vantaggi, com'Ella ben vede, sono, vivere in una capitale, al fianco di un uomo ricco, amato e considerato da chi comanda, buono, di molto spirito, prudentissimo, interessatissimo alla felicità della sua sposa, cordiale, religioso, compiacente, non per dabbenaggine ma per riflessione per carattere e per sentimento. Di più la facilità di accomodarsi circa l'interesse, che in questi tempi e nelle date circostanze è pur molto, massimamente trattandosi di un paese che non sia di montagna, e molto più, di una capitale.
Scrivo tutto ciò per ubbidirla, e sottomettendo queste mie opinioni al suo giudizio, com'è naturale. Poco dopo ch'ebbi letta la sua lettera, il Zio Carlo mi fece sotto un altissimo secreto la confidenza della proposta ch'egli le aveva fatta, e ch'io dissimulai totalmente di sapere.
La nostra partenza, cioè del Zio Girolamo e mia, par fissata agli ultimi dell'entrante. Credo che possa piuttosto essere anticipata che differita: così almeno mi par d'intendere.
Non è necessario ch'io le significhi con quanto affetto e desiderio giungerò a rivederla e baciarle la mano, come fo presentemente di qua, pregandola a benedirmi e credermi il suo affezionatissimo figlio Giacomo.
17.
Roma 5 Aprile 1823.
Carissimo Sig. Padre.
Coll'ultimo ordinario risposi dettagliatamente alla sua graziosissima dei 28 Marzo. Ora debbo avvertirla che il Cav. Marini, avendo ricevuta, com'Ella certamente già sa, la nota proposizione di matrimonio, si è confidato segretissimamente su questo panto col mio cugino Melchiorri, ch'è suo intimo; e questo, non avendo alcuna cosa segreta per me, mi ha riferito il suo discorso, quantunque il Cav. l'avesse pregato di tacermelo.
Il Cav. è molto propenso a questo trattato, e benché sul momento non si trovi all'ordine di venire alle seconde nozze, desidera che l'affare non manchi di effetto. Stima molto la parentela, ed è contentissimo dell'educazione, delle qualità morali, e dello spirito della giovane, secondo i ragguagli che ne ha potuto avere. Conosco che mi usa più buone grazie del solito, anzi ultimamente m'invitò a pranzo.
Mio cugino mi assicura che il Cav. sarà trattabilissimo circa la dote, e che anche sopra di questa si è spiegato con lui in genere, molto favorevolmente. Ho creduto di doverla informare di tutto questo, e di non far torto con ciò a mio cugino che mi ha pregato di non parlarne ad alcuno: come anche ho creduto di doverlo intieramente tacere al Zio Carlo. So che questi le ha scritto del Memoriale che ho fatto presentare al Segretario di Stato per consiglio e col favore del Ministro di Prussia. Se il Ministro mi avesse lasciato tempo di chiedere a Lei i suoi consigli e il suo piacere, non avrei voluto che alcuno l'informasse di questo affare prima di me. Ma trovandosi allora il Ministro sul punto di partire (come è partito già da parecchi giorni), mi disse espressamente che non v'era luogo a dilazioni, e però mi convenne decidere dalla mattina alla sera circa l'impiego che s'aveva a domandare; e dentro due giorni portare il Memoriale in Segretarìa di Stato. Non potendo interrogar Lei, consultai la cosa coi miei due Zii, e volendo il Ministro ch'io domandassi qualche impiego specificato e non in genere, mi decisi per quello di Cancelliere del censo, non solamente perché così parve ai miei Zii, ma perché credetti che così piacesse anche a Lei, avendomi detto spesso la Mamma che questo era l'unico impiego che mi convenisse. Presentato il Memoriale, e non restando a far altro per parte mia, non nego ch'io ebbi in animo di farle una sorpresa al mio ritorno, raccontandole il tutto a voce.
Ora sapendola già informata, non voglio più mancare di scriverlene io stesso, e quantunque da una parte io non creda che si possa molto sperare da una protezione già lontana, dall'altra parte non veda qual altro passo utile si possa fare, contuttociò desidero ch'Ella si compiaccia di darmi su questo proposito i suoi consigli e i suoi ordini, che avrei già domandati antecedentemente, se dopo presentata la Supplica, avessi creduta o utile o possibile qualche altra pratica, o se avessi dovuto fare qualunque passo ulteriore.
Tutti stiamo bene, e da quindici giorni e più, abbiamo un bellissimo tempo. I Zii la salutano. Io la prego a benedirmi, e continuarmi l'amor suo, e baciandole la mano mi ripeto Suo affettuosissimo figlio Giacomo.
18.
Roma 16 Aprile 1823.
Carissimo Sig. Padre.
Non ho che soggiungere alle sue savissime riflessioni espresse nella lettera dei 10 corrente. Ma, com'Ella dice, non si rischia nulla, cercando un impiego, intorno al quale, ottenuto che fosse, e conosciutene le condizioni e circostanze, si avrebbe sempre luogo a deliberare se fosse da accettarsi, o da ricusarsi o rinunziarsi. Mi farei difficilmente credere se dicessi che il soggiorno di Recanati per se medesimo mi sia più grato che il soggiorno di Roma. Ma come quello indubitatamente mi è più caro per la presenza di Lei e della mia famiglia, così anche per tutti gli altri riguardi, Ella si deve persuadere che se io non considero il mio ritorno con gioia, neppur lo considero colla minima pena. Io sono naturalmente inclinato alla vita solitaria. Contuttociò non posso negare ch'io non desideri una vita distratta, avendo veduto per esperienza che nella solitudine io rodo e divoro me stesso. Ma fuor di ciò, qualunque soggiorno m'è indifferentissimo, e quello della mia famiglia, che non mi può essere indifferente, mi sarà sempre carissimo. La nostra partenza è fissata per li 28 del corrente. Essendo forse questa l'ultima lettera della quale potrò avere risposta qui in Roma, la prego a volermi sollecitamente dichiarare il suo parere e il suo giudizio circa le mancie che si dovranno lasciare alla famiglia de' miei ospiti. Questa è composta presentemente di due servitori di sala, che non mi hanno fatto altro se non servirmi in tavola e alzarmi qualche volta le portiere qui in casa; e due ufficiali di cucina e credenza insieme, che le mattine ch'io sono stato in camera, mi hanno mandato, per ordine de' padroni, il caffè. Due altri sono usciti di servizio un mese fa: l'uno era uffiziale di credenza, e questo mi aveva mandato il caffè nello stesso modo; l'altro, servitor di sala, e mi aveva salutato spesso quando io passava, e non altro. Tutti due hanno promesso o minacciato al Zio Momo e a me, di tornarci a riverire alla nostra partenza, e tutt'altro si può sperare, fuor che non mantengano la parola. Sono dunque in tutto, sei individui da riconoscersi. Le donne non hanno avuto mai niente a far con me, per nessun titolo. Quanto al Cameriere del Zio Momo, il quale mi ha discretamente servito per tutto questo tempo, potremo, s'Ella crede, discorrerne a Recanati, giacché il medesimo tornerà con noi. La prevengo che a conti fatti, mi resterà una quindicina di scudi in mano, prima di mettermi in viaggio, disponibili in queste mancie, se, e come Ella crederà. Il Cav. Marini è tornato a parlare con molto interesse a Melchiorri del noto affare, domandandogli ragguagli di Paolina, e mostrando molta indifferenza circa la quantità della dote.
Augurandomi di farlo presto in presenza, le bacio la mano col cuore, e mi ripeto Suo affettuosissimo figlio Giacomo.
19.
Amatissimo Signor Padre.
Seguendo il suo parere, mi sono spiegato sull'affare di Paolina col Zio Carlo, dal quale ho saputo quello che io già immaginava. Il Zio, (non volendo espor Lei ad un rifiuto) prima di scrivere a Lei il suo pensiero, o nello stesso tempo che le ne scrisse, fece parlare al Cavalier Marini da persona amica dell'uno e dell'altro, la quale parlò al Cavaliere come da sè. La risposta fu equivoca, cioè che in quel momento il Cavaliere aveva per le mani un altro partito, com'era verissimo. Il Zio Carlo ricevette questa risposta dopo aver già scritto a Lei la prima volta; e ricevutala, credette bene di significarne a Lei la sostanza, senza dirle di aver fatto interpellare il Cavaliere, e ciò per non inquietarla. Egli credette che questa risposta fosse stato un pretesto, e avendo pure inteso che il Cavaliere avesse forti pretensioni circa la dote, stimò che l'affare non fosse combinabile, e in questo sentimento le scrisse la lettera ch'Ella m'ha inviato, e che le rimando. Ora mosso dalla sua ultima, voleva per mezzo della stessa persona già da lui adoperata, fare avanzare al Cavaliere una proposizione decisa, per averne una risposta della stessa natura. Ma informato da me delle cose che ho saputo da Melchiorri, e persuaso che il Cavaliere non è alieno dal nostro partito, ha giudicato bene che il portatore di questa proposizione (o comunque si dovrà chiamare) sia lo stesso Melchiorri, ch'è il fa-tutto del Cavaliere, e il quale, ottenendo una risposta soddisfacente, potrà poi intendersela col Zio Carlo, e direttamente con Lei, per tutte le particolarità che si dovranno combinare.
Parlerò dunque a Melchiorri (autorizzato come sono da Lei), e farò che colla dovuta prudenza, cerchi di trarre dal Cavaliere una risposta concludente, com'Ella desidera. Sono certissimo che il Cavaliere gli risponderà sincerissimamente e col cuore sulle labbra, perché così suol fare con lui.
Questo è già molto. Ma di più spero che la risposta non sarà dispiacevole per noi, quando anche per l'esecuzione del trattato, il Cavaliere fosse per domandare qualche dilazione: giacché sento che per sua quiete e della sua futura sposa, desideri di maritar la figlia prima di ristringersi in matrimonio; e sta già in varie trattative per maritarla.
Ho consegnato al Cavaliere Marini la sua Memoria raccomandandogliela caldamente. Mi ha promesso di far tutto il possibile dal canto suo, e son certo che non mancherà.
Avrebbe voluto che la stessa Delegazione scrivesse al Buon Governo, ed assumesse (com'egli dice) l'iniziativa in questo reclamo, del quale egli ha pienamente e altamente riconosciuto la giustizia. Son persuaso che a Lei non sarà sfuggito il pensiero di mettere la Delegazione attivamente dalla sua parte, e che quando non l'abbia fatto, ciò sarà provenuto da qualche impedimento che il Cavaliere ed io non possiamo conoscere. Prima di consegnar la Memoria, l'ho fatta leggere al Zio Carlo, il quale ha concepito molta indignazione sul contenuto della medesima, e me l'ha fatta copiare, per mettere in opera, come ha già fatto, alcuni altri mezzi che ha creduto opportuni per farle ottenere la giustizia ch'Ella domanda.
Noi partiremo prestissimo, ma non posso ancora sapere il giorno preciso, benché questa settimana addietro, la partenza fosse stata fissata ai 28, come le scrissi col penultimo ordinario. Certo è che poco si potrà scostare dal detto termine, e pertanto non so se potrei ricevere il riscontro della presente.
Mille saluti de' Zii, e mille affettuosi ossequii del suo amorosissimo figlio Giacomo.
20.
Bologna 19 Luglio 1825.
Caro signor Padre.
Giunsi iersera in Bologna stanco, ma sano. I miei occhi, malgrado il gran sole e il gran caldo patiti pel viaggio, non sono peggiorati. Ancora non posso decidere se mi conviene di proseguire il viaggio per Milano, o di tornarmene indietro. Col venturo ordinario saprò darlene notizia positiva. Ho veduto qui Brighenti che mi ha pregato di riverirla da sua parte. Ho veduto anche Giordani, che mi ha raccomandato molto di salutarla a suo nome e di fare altrettanto a Carlo e a Paolina. La prego de' miei teneri saluti alla Mamma e ai fratelli. Non ho scritto pel viaggio, perché lo scrivere di sera al lume mi era difficile, e la mia stanchezza era eccessiva. Pur vedo che il moto mi va lentamente giovando.
Ella séguiti ad amarmi, come so e vedo che ha sempre fatto, e creda alle sincere e fervorose proteste di amore e di riconoscenza eterna del suo affettuosissimo figlio Giacomo.
21.
Bologna 22 Luglio 1825.
Carissimo signor Padre.
Ho ricevuta la cara sua dei 15.
Nella mia di Lunedì scorso fui brevissimo perché mi trovava la testa imbarazzata da mille faccende a cui non sono assuefatto. Mi dimenticai anche di dirle che vidi a Sinigaglia la Zia Eleonora, che sta bene e saluta caramente Lei e la Mamma. A Pesaro non ebbi tempo di vedere se non la famiglia Cassi che sta tutta bene, e quel che si è detto costì di Schiavini è un sogno. Io ho sofferto nel viaggio e qui in Bologna un caldo orribile, e dovendo girare continuamente nelle ore più abbruciate mi sono strutto e mi struggo ogni giorno in sudore. Il termometro è arrivato qui a 29 gradi. Con tutto questo, in vece di peggiorare, come io teneva per certo, sono anzi talmente migliorato della salute, che nessuno strapazzo mi fa più male, mangio come un lupo, e il solo incomodo che io abbia è tutto il contrario che per il passato, cioè una stitichezza di ventre che arriva ad un grado che io non ho mai più provato in mia vita. Anche gli occhi sono migliorati assai. Sono stato tentatissimo di fermarmi qui in Bologna, città quietissima, allegrissima, ospitalissima, dove ho trovato molto buone accoglienze, ed avrei forse modo di mantenermivi con poca spesa, occupandomi di qualche impresa letteraria che mi è stata offerta, e che non richiederebbe gran fatica, nè mi obbligherebbe per troppo tempo. Ma il Sig. Moratti, (il corrispondente di Stella), mi ha rappresentato che Stella avrebbe ben ragione di dolersi di me se io mancassi all'impegno contratto con lui, e non avendo potuto persuaderlo colle mie ragioni, sono stato costretto quasi per forza a consentire di veder Milano a spese di Stella.
Ancora non abbiamo determinato il giorno nè il modo della partenza, ma credo che questa sarà in breve. Fin qui non ho potuto vedere il Zio Raimondo perché, per quanto ne abbia cercato, nessuno mi ha saputo dire dove abiti. In ogni modo proccurerò ancora di vederlo, e se occorre, ne domanderò in Polizia. A caso ho saputo che D. Rodriguez, di cui la Mamma mi disse d'informarmi, sta passabilmente bene, quantunque più che ottuagenario. Io sono stato e sono ancora alloggiato ai Frati Conventuali, cioè nel Convento del mio compagno di viaggio. A Milano non contrarrò impegni troppo durevoli, perché, oltre che non piacciono a Lei, non piacerebbero nè anche a me. La ringrazio degli avvertimenti che Ella mi dà con tanto affetto, e propongo di seguirli in ogni parte. Se avrò un momento di tempo, le tornerò a scrivere prima di partire, se no, le scriverò da Milano. La prego dei miei teneri saluti alla Mamma e ai fratelli, e più la prego ad amarmi e a persuadersi della sincerità dell'affetto, con cui mi protesto Suo amorosissimo e gratissimo figlio Giacomo.
Scrivo oggi anche allo Zio Ettore.
22.
Bologna 26 Luglio 1825.
Carissimo signor Padre.
Non avendo potuto liberarmi dall'impegno di andare a Milano, partirò domani dopo pranzo per colà, con animo di restarvi non più che un mese circa, e poi tornare a Bologna, dove non le posso esprimere quante accoglienze, e quante premure mi sono state fatte perché io rimanga, e dove mi occuperò in cose letterarie che non mi impediranno di tornare a Recanati quando le piaccia. Ho ricevuto la sua del 22, nella quale mi raccomanda di scriverle spesso. Nel poco tempo che io conto di passare a Milano, forse le mie lettere non saranno molto frequenti, perché ciascuna mi costerà per francarla baiocchi otto, e ogni lettera di fuor dello Stato mi costerà per riscuoterla baiocchi sedici. Ma poi da Bologna non mancherò di scrivere il più spesso che potrò. La mia salute, grazie a Dio, è buona. Oggi abbiamo una giornata piovosa e fresca, che mi fa sperare un viaggio non troppo travagliato dal caldo.
I miei saluti amorosissimi a tutti; ed Ella mi ami, mi benedica, e mi creda sempre suo affettuosissimo figlio.
23.
Milano 24 Agosto 1825.
Carissimo Signor Padre.
Sono in gran confusione, non avendo mai ricevuto lettere da casa da che sono in Milano.
L'ultima che ricevetti a Bologna era di Carlo, in data dei 25 Luglio. Io scrissi di qua subito arrivato, dando le mie nuove e domandando le loro. Stava aspettando la risposta, acciocché le lettere non s'incrociassero, perché la spesa postale qui è veramente eccessiva, e anche maggiore di quel che le scrissi. Ma non vedendo mai nulla, non posso più tardare a pregarla di farmi giungere qualche loro notizia per levarmi di pena, benché mi paia di non potere attribuire il loro silenzio se non a qualche errore di posta. Io sto bene, quantunque l'aria, i cibi e le bevande di Milano sieno il rovescio di quello che mi bisognerebbe, e forse le peggiori del mondo. Contava di partire di qua sulla fine del mese, ma vedo che senza mancare alla civiltà verso lo Stella, non potrò mettermi in viaggio se non dentro il mese venturo, nel qual termine spero di avere sbrigato tutto quello che la creanza esige che io faccia per lui, non già tutto quello che egli desidererebbe da me, perché a far questo ci vorrebbero più anni, come sa bene egli stesso, il quale mi mostra chiaramente che vorrebbe trattenermi seco quasi per sempre. Ma nè Milano nè una casa d'altri sono soggiorni buoni per me. Bensì se potrò essergli utile da lontano, non mancherò di farlo, e da lontano farò che anch'egli sia utile a me, perché da vicino le cose vanno in complimenti. Si compiaccia, caro Sig. Padre, di salutare teneramente tutti da mia parte, e di credermi ch'io la amo quanto Ella merita, cioè con tutto il cuore. Non mi privi dei suoi caratteri, per amor di Dio. Le chieggo la sua benedizione, e mi ripeto suo affettuosissimo figlio Giacomo.
24.
Milano 7 Settembre 1825.
Carissimo Signor Padre.
Finalmente coll'ordinario passato, per la prima volta da che sono in Milano, ho ricevuto nuove di casa mia per mezzo della cara sua dei 30 Agosto. Ella s'immagini che consolazione fosse questa per me, che passai quella sera quasi in festa. Mi pareva di trovarmi in mezzo alla mia famiglia, l'amore verso la quale è anche accresciuto in me dalla lontananza. Nell'ultima mia non le dissi nulla del segretariato di Bologna, perch'è una cosa della quale io spero pochissimo, e non sapendone ancora niente di certo, non mi pareva che valesse la pena di parlarne; tanto più che anche senza l'impiego, non mi mancherebbero mezzi di vivere onoratamente in Bologna qualche parte dell'anno. Con grandissima consolazione ho sentito che il Zio Ettore sia pienamente ristabilito. Io ne stava in pena, avendo saputo a Bologna il suo incomodo, ed essendo stato poi tanto tempo senza loro lettere. Gli scrissi già direttamente da Bologna, ma forse la mia lettera l'avrà trovato incomodato. La prego a fargli i miei rallegramenti, e a salutarlo caramente per me. Col Conte Alborghetti, ch'è un uomo veramente amabile, farò le sue parti, quando e se lo potrò rivedere, perch'egli è ora in campagna, e da che fui a pranzo da lui, poco dopo arrivato in Milano, non l'ho più veduto. Io sto bene, e l'appetito che mi tornò a Bologna, non mi ha più lasciato; tanto più che qui non si cena, e il pranzo è spesso un esercizio di temperanza. Spero sempre di poter partire dentro questo mese, benché Stella che ha deciso di ritenermi in tutti i modi, mi usi tutte le cortesie possibili; il che m'imbarazza un poco, per quel gran difetto che io ho sempre avuto, di non saper dir di no anche a chi mi bastona, molto meno a chi mi prega. Ma vedrò pure di farmi forza, e intanto séguito sempre a dire di non volermi trattenere.
Mi ami, caro Signor Padre, e mi saluti teneramente la Mamma. Ai fratelli scrivo qui dietro. Sono e sarò sempre il suo affettuosissimo figlio Giacomo.
25.
Bologna 3 Ottobre 1825
Carissimo Signor Padre.
All'ultima sua che mi giunse in Milano, ed era dei 30 di Agosto, risposi ai 7 di Settembre, e finora non ne ho ricevuto replica. Partii da Milano il 26, secondo ch'io le aveva scritto di voler partire dentro il mese, ed arrivai qua con un ottimo viaggio, la mattina dei 29. Avrei voluto scriverle subito, ma nella locanda non potei trovar calamaio con inchiostro.
Qui ho tolto a pigione per un mese un appartamentino in casa di un'ottima e amorevolissima famiglia, la quale pensa anche a farmi servire e a darmi da mangiare, perché io non amo di profittar molto degli inviti che mi si fanno di pranzare fuori di casa. Lo Stella, che mi ha lasciato partire con molto dispiacere, mi ha assegnato per i lavori fatti e da farsi, dieci scudi al mese, come un acconto, senza pregiudizio di quel più che potranno meritare le mie fatiche letterarie dentro l'anno. Queste fatiche sono a mia piena disposizione, cioè io potrò occuparmi a scrivere quello che vorrò, dando le mie opere a lui. Per un'ora al giorno che io spendo in leggere il latino con un ricchissimo Signore greco, ricevo altri otto scudi al mese. Un'altr'ora e mezza passo a leggere il greco e il latino col Conte Papadopoli, nobile veneziano, giovane ricchissimo, studiosissimo, e mio grande amico, col quale non ho alcun discorso di danaro, ma son certo che ciò sarà senza mio pregiudizio. Eccole descritta la mia situazione, la quale proverò un poco come mi riesca. Io non cerco altro che libertà, e facoltà di studiare senza ammazzarmi. Ma veramente non trovo in nessun luogo nè la libertà nè i comodi di casa mia; e finora qui in Bologna vivo molto malinconico. Ella si può poi figurare per un'altra parte, quanto ardente sia il mio desiderio di riveder Lei, la Mamma e i fratelli. L'unica cosa che mi consigli di sopportare gl'incomodi della mia situazione (la quale però non sarebbe forse incomoda a nessun altro) è l'aver provato troppo lungamente e conosciuto con troppa certezza che quanto più io cerco di non patire, tanto più patisco, perché la pigrizia, e lo studio senza distrazioni grandi e continue, sono la rovina della mia salute.
Ella mi ami, e saluti caramente per me la Mamma, i fratelli, e il zio Ettore, ai quali scriverò quando avrò un poco più di agio. Io l'amo, come sempre e come debbo, con tutto il cuore, e desidero infinitamente le sue nuove e quelle della famiglia. E baciandole la mano mi ripeto teneramente suo affettuosissimo figlio Giacomo.
26.
Bologna 10 Ottobre 1825.
Carissimo sig. Padre.
Effettivamente le lettere che Ella dice di avermi scritte dopo ricevuta la mia dei 7 settembre, non mi sono mai giunte. Uno dei più forti motivi che mi hanno determinato a lasciar Milano, dove alla fine io mi era quasi accomodato, e dove si vive certamente meglio che a Bologna, è stata la troppa lontananza di quel luogo da casa mia, e il desiderio di ricevere le loro nuove più spesso e più facilmente, e di essere in maggiore unione con loro. L'appuntamento che io ricevo da Stella, non è altro che un a conto per i lavori letterarii che io gli farò, e se questi importeranno di più, egli me ne compenserà alla fine dell'anno. Il ricever poi questo danaro mensilmente, piuttosto che tutto in una volta alla fine di un lavoro, mi è di un gran vantaggio, per la certezza che me ne segue di avere di mano in mano quella tal somma da disporre. I lavori poi ch'io debbo fare, sono interissimamente a mia disposizione, giacché Stella non mi ha detto e ripetuto altro, se non che egli spera che le opere che io farò, non le manderò ad altri che a lui. Del resto, che io faccia quelle opere che mi piace. In queste cose a me pare che non vi sia nulla di umiliante. Quello che io ricevo dal Greco, sarebbe forse un poco meno nobile, come è seccantissima per me quell'ora che passo con lui. Nondimeno nelle idee di questa città non vi è nulla di vile annesso alla funzione di precettore; anzi qui tutti i letterati forestieri si chiamano professore; e Costa, nobile ravennate, fa professione espressa d'insegnar per danaro a parecchi giovani, fra i quali anche al mio Greco. Costa è uno dei letterati più rinomati di qui.
Della licenza dei libri proibiti le scriverò in caso che mi occorra. Al zio Antici ho scritto costà una lettera, la quale lo avrà trovato assente. Da Bunsen ebbi notizia prima di partire da Milano, che il Segretario di Stato non aveva avuto risposta da questa Legazione sopra il mio affare. Ne ho parlato al Direttor Generale di Polizia, il quale mi ha promesso di sentirne qualche cosa dal Legato con cui ha molta entratura. Mi dispiace assai del raffreddore della Mamma. Non le scrivo per non annoiarla, e perché so che questa lettera sarà comune anche a lei. Ma Ella le dica, la prego, le più tenere cose per me, e mi dia nuove della sua salute. Così anche del Zio Ettore, il quale saluto di tutto cuore. Non lasci anche di dirmi come sta Ella, e come la trattano i primi freddi, che qui sono assai vivi.
Mi ami, mi benedica, e mi creda pieno di amore e di gratitudine, e persuaso che io non potrò mai trovare in nessun luogo affezione e bontà uguale alla sua. Suo affezionatissimo figlio Giacomo.
27.
Bologna 24 Ottobre 1825.
Carissimo Signor Padre.
Risposi lungamente alla sua dei 6 del corrente, dopo la quale non ho veduta altra lettera di costà. Questo silenzio mi farebbe molta pena se io non l'attribuissi intieramente alla posta, la quale, al solito, mi priverà delle lettere che Ella o quei di casa mi avranno scritte. Bensì non posso a meno di lamentarmi di questa infame negligenza, che mi toglie uno dei maggiori piaceri, anzi forse il maggior piacere che io possa provare in questo tempo. Riconosco però coll'esperienza propria quello di cui mi era tante volte lagnato costì, come Ella forse si ricorda, cioè che le lettere di Recanati, non so per qual fatalità particolare, non arrivano al loro destino se non per miracolo, massimamente quelle dirette verso Lombardia.
In ogni modo la prego a non stancarsi di scrivermi, e a dirmi se ha ricevuta la mia lunga risposta alla sua dei 6.
Desidero anche ardentissimamente le sue nuove e quelle della Mamma, dei fratelli e del Zio Ettore, i quali saluto tutti con tutta l'anima. La Mamma come sta del raffreddore che Ella mi diceva? Io sto bene, e l'amo quanto Ella merita.
Ella mi ami, come fa, e mi benedica. Le bacio la mano e mi ripeto suo affettuosissimo figlio Giacomo.
Credo che a quest'ora il Zio Carlo sarà tornato costì da Urbino, e le avrà parlato di una lettera di Bunsen che egli mi spedì da Urbino a Milano, e che io ricevetti qui coll'ultimo ordinario; nella quale Bunsen mi dice per parte del Segretario di Stato che ne lo ha incaricato, che io non accetti nessuna proposizione che potesse venirmi dalla Toscana o d'altronde, avendo il Governo Pontificio fissato gli occhi sopra la mia persona per impiegarla degnamente.
Scrivo oggi medesimo al Zio Carlo costà.
28.
Bologna 23 Novembre 1825.
Amatissimo Signor Padre.
Ricevetti, benché molto ritardata al solito, la sua carissima in data dei 29 Ottobre, alla quale rispondo. Le sue osservazioni circa la Cattedra di Roma sono, come ogni sua cosa, giustissime e amorosissime. Le dico con verità che io non mi curo molto di quella Cattedra, perché le Cattedre sono poco adattate al mio fisico e morale, e poco amerei ancora di stare in Roma, dove l'aria nell'estate è così cattiva. Non nego però che la sua riflessione sopra la certezza di non esser più abbandonati dal governo se una volta si è ottenuto un posto, non mi faccia qualche forza. Intanto Bunsen mi scrive da Roma che non vi è niente di nuovo, e che l'emolumento ordinario della Cattedra è di 200 scudi, il quale se non si aumenta, io non so veramente che farmi di un impiego che non basterebbe per vivere. Bunsen avrebbe voluto ch'io mi portassi subito a Roma, assicurandomi che in tal caso io otterrei indubitatamente e prontamente un buon impiego, ma ho dovuto confessargli che in questo momento non mi sarebbe possibile di pormi in viaggio. Lo confesso ora anche a Lei volentieri, perché, grazie a Dio, posso aggiungerle di star meglio. Il viaggio fatto da me quest'estate mi guarì di ogni altro incomodo, ma mi proccurò una riscaldazioncella d'intestini che mi ha poi sempre perseguitato. A Milano l'incomodo non fu grave e lo disprezzai, ma da che fui tornato in Bologna, andò sempre crescendo in modo che per certo tempo, a causa della stitichezza eccessiva, io non poteva più andar di corpo se non a forza di lavativi. Ora, grazie a Dio, sto meglio, vado senza lavativo, e dopo una ventina di giorni passati in casa perch'io non poteva sopportare il moto, sono tornato a uscire. Con un poco di pazienza e di cura spero di guarire affatto, e così mi assicura un Medico che mi assiste, e mi dice che il mio incomodo è lungo, ma che non è niente.
Ho avuto carissimo di sentire che Pietruccio ha ricevuto la prima tonsura, e spero che ciò tornerà in vantaggio suo e della casa. Ella non mi dice nulla della sua salute, nè se Ella sia interamente ristabilita dai residui della malattia di questa primavera. Me ne dia un cenno, la prego. Il Zio Carlo è ancora costì? E il di lei ufficio o incomodo di Gonfaloniere dura ancora? Ella mi ami, e saluti infinitamente per me la mia cara, carissima Mamma, ed anche il Zio Ettore, e il Curato, e il Zio Carlo, se non è già partito. Io l'amo con tutto il cuore, e smanio di rivederla, e chiederle la benedizione a voce come gliela chiedo ora per lettera.
Il suo tenero figlio Giacomo.
29.
Bologna 4 Decembre 1825.
Carissimo Signor Padre. Ricevo in questo momento la sua cara dei 30. Non la ringrazierò dell'amore che Ella mi dimostra, perché nessun ringraziamento sarebbe proporzionato, e perché esso non mi giunge nuovo. Senza nasconderle nulla, le dico con verità ch'io vo migliorando di giorno in giorno sensibilmente, benché lentissimamente. Ma il Medico, ed altri che hanno patito di questo medesimo male, mi dicono che la lentezza del guarire è una sua qualità ordinaria, tanto più non usando certi rimedi forti, che il medico voleva porre in opera a ogni patto, come sanguigne o mignatte al sedere, ec. e che io non ho voluti.
Intanto vo passeggiando ogni giorno anche lungamente, e non sento più dolore nè gran calore al basso ventre come per l'addietro. Vedrò molto volentieri Setacci, e gli farò la migliore accoglienza che mi sarà possibile. Del Zio Ettore mi dispiace moltissimo, sebbene non lascio di sperare. Se le pare opportuno, lo saluti tanto da mia parte, e gli significhi il dispiacere che ho del suo incomodo. Già Carlo quest'estate mi aveva scritto che il male era una specie di apoplessia. Quanto al Segretariato, siamo ancora alle parole. Bunsen mi scrive che il Cardinal Camerlengo, al quale veramente appartiene la nomina, ha positivamente promesso al Segretario di Stato di conferir l'impiego a me, ma ecco tutto. Mi aggiunge che egli tiene la cosa per fatta.
Le occupazioni dell'impiego si riducono, per quel che sento, a tener certi registri e a fare una volta all'anno un discorso che poi si stampa. Dell'emolumento non saprei precisamente dirle, ma credo che basti a mantenersi sufficientemente in una città come questa. I miei saluti amorosissimi a tutti, e in particolare alla cara Mamma, la quale ricordo ogni giorno con tenerezza. Ella mi benedica, e mi conservi il suo amore.
Le bacio la mano, e con tutto il cuore mi ripeto suo affettuosissimo figlio Giacomo.
Tanti saluti a tutti per parte di Angelina, della quale in altro ordinario scriverò più dettagliatamente.
30.
Bologna 25 Dicembre 1825.
Carissimo Signor Padre.
Ella può figurarsi con quanto dolore leggo la carissima sua dell'altro ieri, che ricevo in questo momento. La bontà del povero Zio e l'amore che mi portava, mi fanno dolere della sua perdita fino all'anima; tanto più che io mi lusingava che la sua malattia, essendo di natura da andare in lungo, se anche non si fosse potuta guarire, mi avrebbe almeno lasciato tempo di riabbracciarlo.
Sia fatta la volontà di Dio. Spero che il buon Zio starà presentemente a goderlo, e pregherà per me e per la sua famiglia che l'ha amato veramente. Ella si accerti che il mio rammarico per questa disgrazia si raddoppia a pensare al dolore che Ella mi dice e io so ben che Ella ne sente. Se la presenza mia fosse buona a consolarla, e se io potessi ora mettermi in viaggio, l'assicuro che non tarderei un momento a volar da Lei per abbracciarla, e, se non altro, dividere la sua afflizione con Lei; ma le confesso che con questa stagione il viaggiare mi sarebbe insopportabile, ed Ella sa bene come la mia complessione è sensibile e nemica del freddo. A primo tempo, se Dio mi dà vita e salute spero che avrò questa gran consolazione di rivederla. Ma Ella non mi scriva più di se stessa quelle espressioni che io trovo nella sua lettera. Pensi, caro Papà, che ferita debbono fare in un cuore che l'ama più di se stesso, nel cuor di un figlio che darebbe volentieri il suo sangue (e glielo giuro) per ricomprare un solo dei di Lei giorni. Ella pensi un poco più lietamente, e si persuada che il suo figlio non ha cosa al mondo più cara e più adorata di Lei, come non ha maggiore desiderio che di stringerla novamente tra le braccia.
Eseguirò la sua commissione col marchese Mosca. La ringrazio molto del tabacco, che mi servirà assai. I miei teneri saluti alla Mamma e ai fratelli.
Le bacio la mano colle lagrime sugli occhi; e con tutto l'affetto dell'animo, domandandole la benedizione, mi dico il suo amorosissimo Giacomo.
31.
Bologna 13 Gennaio 1826.
Carissimo Signor Padre.
La ringrazio moltissimo della premura di spedirmi il tabacco che farò subito riscuotere, e mi sarà certamente molto a proposito. Similmente debbo ringraziarla dell'affettuosa offerta che Ella mi fa del benefizio. Poiché Ella mi dice che gradirebbe molto di darlo a me, io non sono alieno dal riceverlo, come son pieno di gratitudine alla sua bontà. Se in casa non vi fosse stato a chi darlo, io l'assicuro che mi sarei sottomesso a qualunque condizione per averlo. Ma ora che con mio grandissimo piacere, Pietruccio è in istato di riceverne la nomina, mi è permesso di accettarlo con alcune riserve, che Ella troverà, spero, giuste o condonabili. La prima è che io desidererei non essere obbligato ad altro abito e tonsura se non quello che usano qui anche i preti, e consiste solamente in abito nero o turchino, e fazzoletto da collo nero. La seconda è che bisognerebbe che io fossi dispensato dall'obbligo dell'Ufficio divino, perché, come Ella ben vede, quest'obbligo mi priverebbe quasi della facoltà di studiare. Io non posso assolutamente leggere se non la mattina. Se questa dovessi spenderla a dir l'Uffizio, non mi resterebbe altro tempo per le mie faccende. Mi basterebbe di esser dispensato dall'Uffizio divino anche a condizione di recitare una quantità di preci equivalenti, giacché, tolta la mattina, tutto il resto della giornata io non ho da far nulla, e ben volentieri ne spenderei qualche ora in preghiere determinate, purché queste non fossero da leggersi. Mi pare che si potrebbe anche rappresentare ingenuamente la cosa, e lo stato fisico de' miei occhi a chi può dar la dispensa, e che questa sarebbe una ragione sufficiente per ottenerla. Del resto, quando io fossi sicuro di ciò, se per qualche giorno da principio, bisognasse recitar l'Ufficio divino, non ci avrei difficoltà. Mi rimetto a Lei, ed Ella saprà meglio di me, se e con quali mezzi si possa ottenere una tal dispensa prontamente.
Io sto, grazie a Dio, passabilmente di salute, e forse o anche senza forse, starei bene, se non fosse l'inverno, che per me sarà sempre una malattia grave. Aspetto e invoco a ogni minuto la primavera. I miei tenerissimi saluti alla Mamma e ai fratelli. Veramente mi ha un poco sorpreso l'eccesso dell'impudenza usata nello spogliare il povero Zio.
Ella mi ami come io l'amo, che è quanto so e posso, mi benedica e mi creda suo affettuosissimo figlio Giacomo.
32.
Bologna 25 Gennaio 1826.
Carissimo Signor Padre.
Le considerazioni giustissime che Ella mi pone innanzi nella cara sua dei 16, e delle quali non posso che ringraziarla, mi convincono pienamente della impossibilità di conciliare la mia vita presente colla condizione di benefiziato ecclesiastico. Quanto al mutare stato, sebbene io non lasci di apprezzare infinitamente gli amorosi consigli che Ella mi porge, e le ragioni che ne adduce, debbo confessarle con libertà e sincerità filiale che io vi provo presentemente tal repugnanza, che quasi mi assicura di non esservi chiamato ed anche di dovere riuscire poco atto all'adempimento de' miei nuovi doveri in caso che io li volessi abbracciare. Prevedo non impossibile, anzi più possibile che forse Ella stessa non crede, che col crescere dell'età, la mia disposizione si cangi totalmente, e mi conduca a quella risoluzione, alla quale ora sono così poco inclinato, ma in ciò mi pare di non dover prevenire l'effetto del tempo, prendendo oggi un partito che io sento che sarebbe affatto prematuro. Circa il benefizio, Ella può ben credere che vedendone investito un mio fratello, io ne proverò quella stessissima soddisfazione che avrei se lo vedessi nelle mie mani. In ogni modo però torno a ringraziarla con tutto il cuore della bontà con cui le è piaciuto di rimettere a me la determinazione sopra questo punto.
Qui non abbiamo gran neve, ma freddi intensissimi, che mi tormentano in modo straordinario, perché la mia ostinata riscaldazione d'intestini e di reni m'impedisce l'uso del fuoco, il camminare e lo star molto in letto. Sicché dalla mattina alla sera non trovo riposo, e non fo altro che tremare e spasimare dal freddo, che qualche volta mi dà voglia di piangere come un bambino. Ma del resto, grazie a Dio, sto bene di salute.
Sospiro continuamente la primavera e il momento di baciarle la mano in presenza, come faccio ora col cuore, chiedendole la sua benedizione e ripetendomi con tutta la tenerezza possibile suo affettuosissimo figlio Giacomo.
33.
Bologna 8 Febbraio 1826.
Carissimo Sig. Padre.
Le scrivo oggi una lettera ostensibile, del tenore indicatomi da Lei nella cara sua dei 31 Gennaio. Confesso che non senza pena, e solo per ubbidirla, mi sono indotto a scrivere il paragrafo del Benefizio nel modo che Ella vedrà e che mi fu suggerito da Lei; giacché io, e quando scrissi le mie lettere passate, ed ora, e sempre, intendevo ed intendo, che in qualunque maniera e sotto qualunque nome Ella sia per disporre del benefizio, le rendite dovessero e debbano restar sempre a Sua piena disposizione, per applicarle a me o ad altri, in tutto o in parte, come cosa Sua, e come le rendite della Casa sua propria, e non altrimenti. Nondimeno ho scritto come a Lei è piaciuto, giudicando che ciò potesse servire alle Sue intenzioni in qualunque modo, e non potesse nuocere.
Con tutto il cuore sulla penna, dimandandole nuovamente la Sua benedizione, mi ripeto Suo affettuosissimo e riconoscentissimo figlio Giacomo.
34.
Bologna 8 Febbraio 1826.
Carissimo Signor Padre.
Ricevo la cara sua dei 31 Gennaio. Già fin dal primo di questo mese, il freddo qui, grazie a Dio, è molto scemato, anzi abbiamo avuto qualche giorno quasi di primavera: io ho ripreso le mie passeggiate campestri, e mi pare di esser rinato. Non ho ancora veduto Fusello. Il dono che Ella mi manda mi sarà carissimo, e mi servirà per farmi onore con questi miei amici, presso i quali trovo che l'olio e i fichi della Marca sono già famosi, come anche i nostri formaggi, che qui si stimano più del parmegiano, il quale non ardisce di comparire in una tavola signorile: bensì vi comparisce una forma di formaggio della Marca, quando se ne può avere, che è cosa rara. Ella non dubiti che i suoi libri non sieno per esser tenuti con tutta la cura possibile, e restituiti puntualmente. Io me ne faccio responsabile. A momenti debbo avere occasione di scrivere a Melchiorri, e gli ricorderò la restituzion del Varrone, secondo che Ella mi scrive. Ricevetti per la Diligenza l'abito e il tabacco, e ne la ringrazio di nuovo cordialmente. Il tabacco ho cominciato subito a usarlo, e mi piace molto.
Circa il benefizio; dopo scritta l'ultima mia, ho inteso che Roma accorda qualche volta ai patroni la facoltà di sospendere la presentazione del nuovo rettore per sei o otto anni, e di applicare intanto le rendite a un uso onesto, sopportati i pesi consueti. Ella saprà meglio di me se questo sia vero, come mi si assicura. In tal caso, e se Ella a quest'ora non avesse già disposto altrimenti del Benefizio, e credesse di potere ottenere senza troppa difficoltà e incomodo una tal dispensa, riconoscerei come un segnalato favore della sua bontà, se Ella volesse prevalersi di questo temperamento per farmi godere, finché a Lei piacerà, questa provvisione; la quale certamente mi riuscirà molto utile. In questo modo, senza dare alla Casa altro incomodo, come io non ne do presentemente, e spero in Dio di non essere obbligato a darne per l'avvenire, io sarò pur debitore a Lei ed alla famiglia, di una provvista che mi porrebbe in un certo agio. La prego delle mie più tenere espressioni alla Mamma e ai fratelli, ed anche, se le piace, dei miei complimenti alla Marchesa Roberti, e dei saluti al Curato e a D. Vincenzo.
Ella mi ami e mi benedica come suo affettuosissimo figlio Giacomo.
35.
Bologna 20 Febbraio 1826.
Carissimo Signor Padre.
Quando mi giunse la sua dei 12, io aveva già poco prima riscossa finalmente la roba portata da Fusello. I fichi e l'olio sono qui applauditissimi e graditissimi, e quantunque in casa io non fossi solito di mangiar de' fichi, adesso, non so come, trovo che sono pure una cosa di un sapore eccellente, e ho pensato di salvarne un poco anche per me, giacché Ella me ne ha favorito così liberalmente che ve n'è abbastanza per me e per gli altri.
È ben giusta la sua maraviglia che costà non si pensi punto a far commercio di formaggi con queste parti, dove non si fa formaggio se non pochissimo e cattivo. Veramente non si può scusare l'indolenza della nostra provincia nel mettere a profitto i tanti generi squisiti che essa possiede, e che eccedono il consumo dell'interno: giacché i formaggi non sono il solo capo che manca in altre parti d'Italia, e che sarebbe ben accolto, ma noi abbiamo ancora molti e molti altri capi che da noi non si stimano e non si trovano a vendere perché soprabbondano, e altrove sarebbero ricercatissimi. E i nostri vini, che noi mandiamo solamente a Roma e in piccola quantità, mentre ne abbiamo tanta abbondanza, non si venderebbero qui nel Bolognese a preferenza di questi vini fatturati e pessimi della provincia, tutti ingrati al gusto, e scomunicati generalmente da tutti i medici? Certo non fa per i possidenti di attendere al traffico; ma se nella nostra provincia ci fossero altri che vi attendessero, si arricchirebbero essi, e i possidenti avrebbero modo di vendere i loro generi a prezzi convenienti. Mi rallegro con Lei della riacquistata libertà. Ho già scritto a Melchiorri del Varrone. Qui continuano le giornate temperate, che mi han fatto tornare in vita da una vera morte, perché le pene che ho provate in quest'inverno non sono descrivibili.
Saluti tenerissimi alla Mamma e ai fratelli; e così vedendo il Zio Vito o la sua famiglia, la prego a salutarli in mio nome; come anche il Dott. Masi e il Chirurgo Prosperi, se Ella ne ha occasione. Mi ami, mi benedica e mi creda sempre suo affettuosissimo figlio Giacomo.
36.
Bologna 1 Marzo 1826.
Carissimo signor padre.
La ringrazio infinitamente della Leggenda che Ella mi ha favorita, e della noia che per amor mio Ella si è voluto prendere di copiarla. Lo stile non è di autore toscano, ma marchegiano o romano. Ma il monumento è curiosissimo, e certamente antichissimo, giacché oltre l'epoca che Ella mi accenna del 1326, epoca già molto antica, la dicitura mi dà indizio di maggiore antichità, ed io la credo cosa del secolo del duecento. Forse non mi mancherà occasione di farne uso presto. Intanto se Ella mi sapesse dir qualche cosa circa il tempo in cui si sa o si crede che sia vissuto quel San Gerio, ciò sarebbe molto a proposito. La traduzione che ho mandata a Paolina, è mia veramente, come Ella dice, benché passi per opera del trecento. Il mettere il nome della mia patria in fronte ai volumi delle mie operette, e nel manifesto ec., non ha la menoma difficoltà, ed io lo farò volentierissimo, specialmente essendo cosa di suo piacere. Quanto ai formaggi, di cui Paolina mi scrive per di Lei parte, la ringrazio della sua intenzione, e parlerò coll'uffiziale di questa posta, ma bisognerebbe lasciar passare qualche giorno, perché avendomi egli favorito poco fa, temerei se io gli chiedessi ora un piacere simile, che la cosa non gli paresse troppo frequente e indiscreta, ed anche tale da comprometterlo. Io sto, grazie a Dio, sufficientemente bene, e trovandomi entrato in Marzo, fo conto di averla vinta per quest'anno.
Mi benedica e mi voglia bene; e con tutto il cuore mi ripeto Suo affettuosissimo figlio Giacomo.
37
17 Aprile 1826.
Carissimo Signor Padre.
Eccola servita subito. Veramente queste bestialità sono cose da far perdere la pazienza, ed io compatisco ben di cuore a chi deve soffrirle, ed alla pena e briga che le costa il rimediarvi. Ecco poi come vanno gli affari anche del più gran momento, e come noi siamo governati. Ringrazio Dio che tutti loro stieno bene. Io coll'inoltrarsi della primavera, vengo migliorando di quel poco di disturbo che mi aveva cagionato il primo caldo, che qui è stato ed è tuttavia straordinario. Sono tornato nel gran mondo, che avevo abbandonato affatto questo inverno.
Ultimamente ho riveduto il zio Mosca, che sta bene, e saluta lei e tutta la famiglia. La prego de' miei tenerissimi saluti alla Mamma e ai fratelli. I miei complimenti alla marchesa Roberti. Non ho potuto mai più riveder Setacci, benché sia stato da lui due volte, ma chi lo vuol trovare, deve cercarlo da per tutto fuorché in casa. Solamente l'incontrai una volta, ma me ne accorsi troppo tardi, ed egli non mi conobbe.
Ella benedica ed ami il suo affettuosissimo ed amantissimo figlio Giacomo.
38.
Bologna 24 Aprile 1826.
Amatissimo signor Padre.
Ho ricevuto la carissima sua dei 21. Ella dev'esser certa della mia piena segretezza circa l'affare della Rinunzia. RingraziandoLa poi sinceramente e vivamente della bontà con cui Ella mi ha destinati i Benefizii e desidera ch'io li ritenga, le confermo la mia intenzione di rinunziarli per non portare i pesi annessi ed indispensabili. Quello che io farò, sarà di tenermi in casa per questo tempo, senza uscire se non intabarrato. A Lei non mancano cagioni da allegare circa la mia rinunzia, nè ha bisogno che se le suggeriscano. Se Ella dirà che io aveva sperato di ottener delle dispense, avute le quali, avrei conservati i benefizii, ma che intendendo che queste non si accordano, non ho voluto ritenerli un momento, dirà pur la semplice verità. Ella mi leverà una spina dall'anima quando (senza però precipitar l'affare più che Ella creda bene) mi avviserà di aver dato corso alla Rinunzia.
Desidero sentir pienamente guariti i fratelli. Qui abbiamo gran freddo, che da otto giorni in qua cresce sempre. Io mi ho cura, e grazie a Dio sto bene. Sono seguiti qui veramente parecchi omicidii, da canaglia a canaglia, ma chi dice cinquanta, conta le unità per diecine. Mando questa sotto coperta alla Marchesa Roberti come Ella mi disse altra volta. La prego a riverirla in mio nome, e scusarmi con Lei della libertà, tanto più che mando la lettera chiusa. Ella mi dirà se ho fatto bene o male servendomi di questo mezzo.
Io non ho arrischiato di mandarla altrimenti. Mi confermi la sua benevolenza e mi ami come io l'amo.
Il suo tenerissimo figlio Giacomo.
39.
Bologna 10 Maggio 1826.
Carissimo Signor Padre.
Ho ricevute le sue dei 23 aprile e degli 8 del corrente, e dalla signora Bosi ebbi puntualmente il formaggio e la bella scatola. Non ho scritto per la posta dopo la mia de' 24 aprile, perché fin dal primo di Maggio scrissi a Paolina una lettera che consegnai alla signora Bosi. Incaricai Paolina di ringraziarla caramente dei formaggi, e della scatola, di cui ella si è voluta privare per amor mio, e risposi all'articolo della Sua lettera che riguardava la musica desiderata da Luigi, intorno alla quale procurerò di servirlo, avuti gli schiarimenti che dimandai nella stessa lettera a Paolina. Io sto di salute passabilmente, grazie a Dio, benché questo benedetto ventre non si sia voluto accomodar mai più, e mi disturbi perpetuamente. Mille saluti a tutti del marchese Mosca. Altrettanti, e in particolare alla Mamma, del cav.Montani, che è invecchiato molto, e da pochi mesi in qua patisce assai della vista, ma del rimanente sta bene e allegro, ed esce di casa ogni giorno. Faccia le mie parti, la prego, colla Mamma e coi fratelli: le bacio la mano con tutta l'anima, e chiedendole la benedizione, mi ripeto suo amorosissimo figlio.
P.S. Ebbi già il manifesto di Cassi, di cui ella mi scrive nella sua dei 23 aprile. Veramente l'idea, non solo è originale, ma pecca un poco d'impertinente; tanto più che alla fine non sarebbe un gran danno, nè per l'anima di Perticari nè per l'Italia, se Perticari, ch'era al più un grammatico, avesse due soli monumenti funebri, e non tre, o anche quattro.
40.
Bologna 3 Luglio 1826.
Carissimo Signor Padre.
La sua lettera mi ha cagionata una vera gioia, come sempre me ne cagionerà il trattenermi con Lei, e come mi aveva dato e mi darà sempre pena il suo lungo silenzio, se non in quanto io penserò che questo possa nascere da sue occupazioni più rilevanti e che serva a risparmiarle fastidio. Certamente se a Dio piace, io non passerò mai più l'inverno in climi più freddi del mio nativo. Io conto, se la salute non me lo impedisse insuperabilmente, di essere in ogni modo costì pel primo entrar dell'autunno, e quanto al trattenermi, Ella disporrà di ciò a suo piacere. Intanto Ella non si dia pensiero alcuno circa la mia sicurezza. La frequenza degli omicidii in questi ultimi giorni è stata qui veramente orribile, ma io ho preso il partito di non andar mai di notte se non per le strade e i luoghi più frequentati di Bologna; sicché, fintanto che non assassineranno in mezzo alla gente (nel qual caso il pericolo sarebbe altrettanto di giorno come di notte), non mi potrà succedere sicuramente nulla. Ho anche il vantaggio di abitare nel centro della città e in faccia a un corpo di guardia, in modo che per tornare a casa non sono obbligato a traversar luoghi pericolosi.
Non ho posto il nome di Recanati in fronte al Petrarca, non certamente perché io mi vergogni della mia patria, ma perché il metterlo avanti a ogni cosa mia, mi sarebbe sembrata una affettazione; ed Ella vede che nessuno scrittore ai nostri tempi lo fa, o illustre o non illustre che sia la sua patria. Stampandosi le mie operette in un corpo, non parrà affettazione il nominar la patria, ed io lo farò senza fallo. Il Petrarca è sembrato allo Stella un'ottima speculazione, non solo per gli esteri, ma anche perché questi studi, o pedanterie, sono dominanti in Italia, e massimamente in Lombardia, dove non si conosce quasi altro; sicché egli crede di fare un bellissimo interesse stampando quest'opera, e ancor io sono della sua opinione.
Del resto il lavoro è stato di somma difficoltà, lunghezza e noia. Nondimeno, benché avessi dato speranza di finirlo solo in autunno, l'ho già terminato e spedito tutto fin da ora, e se non l'avessi interrotto per cinque mesi, occupati parte in altre cose, parte nello smaniare dal freddo, che mi fece tralasciare affatto ogni studio, l'avrei terminato assai prima.
Qui, da più d'una settimana abbiamo sereno e caldo. Il tempo ha favorito la festa degli addobbi, che a me, poco amante degli spettacoli, è parsa una cosa bella e degna di esser veduta, specialmente la sera, quando tutta una lunga contrada, illuminata a giorno, con lumiere di cristallo e specchi, apparata superbamente, ornata di quadri, piena di centinaia di sedie tutte occupate da persone vestite signorilmente, par trasformata in una vera sala di conversazione.
La mia salute, grazie a Dio è passabile. Il Zio Mosca, che la saluta caramente, vorrebbe sapere che cosa è del medico Giordani, del quale non ha più notizia da molto tempo. I miei tenerissimi saluti alla Mamma e ai fratelli. I miei rispetti alla marchesa Roberti e a Broglio, se Ella ha occasione di scrivergli. Ella mi ami, e se non le è grave, mi dia notizia della sua salute e delle sue occupazioni presenti. Avrò in mira quello che Ella mi scrive. Sia persuasa del vivissimo e cordialissimo amore che io le porto, e dell'immensa gratitudine che le ho ed avrò per tutta la vita.
Le bacio la mano coll'anima, e chiedendole la benedizione mi ripeto suo affettuosissimo figlio.
41-
Ravenna 9 Agosto 1826.
Carissimo Signor Padre.
Sono qui da alcuni giorni in casa di un mio amico che mi ha voluto seco per forza, a vedere le antichità di Ravenna. Torno a Bologna a momenti. Qui si vive quietissimi e con ogni sicurezza, quanto ai privati. Ho veduto il Cardinale, ho veduto il Canonico ferito in sua vece, il quale è fuor di pericolo, e sarà presto in piedi.
Qui ho ricevuta la lettera di Paolina, 29 Luglio, colle loro nuove, che io desiderava da tanto tempo. Ho fatto ricerca dei partiti che si trovano in questi paesi, e veggo che le gran doti sono uscite di moda affatto. Il maggior partito di questi contorni è Pasolini di Ravenna, Contessa, famiglia ricchissima, nobilissima, principale; diecimila scudi di dote in pronti contanti; cinquecento scudi di proprietà della ragazza, lasciatile dall'Arcivescovo Codronchi suo prozio; corredo a parte; giovane bella e di talento e buona. Il padre non si cura di gran trattamento per la ragazza; solamente esigerebbe uno stato esatto ed autentico della casa, e una disposizione che assicurasse lo sposo dal lato dei fratelli. L'affare si concluderebbe prontamente: se Ella credesse opportuno di prenderlo in considerazione, non avrebbe che a mandarmi lo stato della famiglia in forma autentica, e qui si tratterebbe l'affare per mezzi che io le farò conoscere al suo primo cenno; e si userebbe ogni segretezza. Così prego Lei di usarla circa le informazioni che io le ho date, per non nuocere alla ragazza, in caso di rifiuto. Vedo bene che la dote è piccola, ma non se ne trovano delle maggiori in Romagna; il soggiorno di Recanati è in discredito; e l'essere in pronti contanti mi pare una qualità calcolabile, e che possa compensare in parte la mediocrità della somma. Tornato a Bologna, cercherò più diligentemente in ordine ai partiti di là, quantunque con poca speranza di trovar doti maggiori senza pretensioni eccessive, e senza ripugnanza decisa al soggiorno di Recanati. Da Bologna le scriverò più lungamente e con più quiete.
I miei teneri saluti alla Mamma e ai fratelli. Le bacio la mano con tutto il cuore, e le chiedo la benedizione.
Il suo affettuosissimo figlio Giacomo.
42.
Bologna 6 Settembre 1826.
Carissimo Signor Padre.
Ho ricevuta la cara sua de' 26. L'affare della Modanese dei 50 m. zecchini, credo che in verità non sarebbe stato degl'impossibilissimi. La sposa, del resto, senza esser bella, non è dispiacevole. Ma non siamo più in tempo, perché improvvisamente si è saputa qui la conclusione di un suo trattato di matrimonio con un Conte Marsigli di qui, ricchissimo, ma attempato e deforme.
So poi che la dote non è in contanti, ma in terre, pervenute alla sposa per un'eredità; sicché è verisimile assai che la somma sia esagerata non poco, come è solito, per far numero tondo. Un mio amico si è voluto incaricare di far un tentativo colla Faentina, la quale oltre i 17 m. di dote, si dice che avrà dalla madre 3 m. scudi a titolo di dono:
in tutto 20 m. scudi. Sentiremo la risposta. Aspetto poi delle notizie da Parma, da Reggio e da Milano, che dovrebbero venir presto.
Dovetti, tempo fa, rimandare al Governatore il baule che egli mi avea prestato, sicché mi trovo adesso senza baule.
Non so se costì sarà possibile di trovar modo per fare arrivar qua quello che io portai con me a Roma. Se la cosa fosse praticabile (e certo a Macerata o a Loreto si dovrebbero trovar mezzi facilmente), la pregherei di spedirmelo, giacché il trasporto mi costerà meno assai che non costerebbe il comprar qui un baule a posta. La spedizione di quello del Governatore, il quale arrivò a Recanati prontamente, franco d'ogni spesa, non mi costò che 9 paoli. Se la cosa dovesse portar troppo incomodo, Ella non ci pensi, ed io ripiegherò in altro modo.
I miei teneri saluti a tutti. Spero che Paolina sarà rimessa pienamente del suo disturbo. La Mamma mi ha voluto fare un tacito rimprovero di negligenza, facendomi sapere la morte di D. Rodriguez. Veramente, non uscendo mai di giorno, per evitare il gran caldo, era un pezzo che io non vedeva nessuno a cui domandarne.
Ella mi ami e mi benedica, e mi aspetti presto, se a Dio piace. Suo affezionatissimo figlio Giacomo.
43.
Bologna 26 Ottobre 1826.
Carissimo signor Padre.
Ricevo, ritardata al solito, la sua amorosissima dei 16, piena di tante espressioni affettuosissime, le quali, benché non mi giungano nuove, e benché io sia assuefatto sin dalla prima infanzia alle testimonianze del suo amore vivissimo, non lasciano però di farmi un'impressione ben sentita, e di destarmi nel cuore nuovi moti di gratitudine. Ho cercato d'informarmi circa il signor Luigi Gezzi, il quale non è prete, ma secolare: bensì ha un zio sacerdote... Ho saputo dove abita; e prima di partire, procurerò di vederlo. La mia intenzione è di mettermi in viaggio l'ultimo giorno del corrente, o il primo dell'altro; ma siccome non posso ancora assicurarlo, così le scriverò un'altra volta per farle sapere il giorno precisamente. Credo però che una sua risposta alla presente non mi troverebbe a Bologna.
Mille tenerissimi saluti alla Mamma e ai fratelli. Mi conservi l'amor suo, e mi benedica.
Suo tenerissimo figlio Giacomo.
44.
Bologna 1 Novembre 1826.
Carissimo Signor Padre.
Le scrissi già il 26 del mese scorso, in risposta all'amorossima sua dei 16. Questa è per dirle che io, a Dio piacendo, parto per Recanati dopo dimani, 3 dell'entrante. Per diminuirmi la noia e l'incomodo del viaggio, mando il baule da se, e verrò fermandomi per la strada; il che mi servirà anche per fare o rinnovare delle conoscenze. Perciò Ella non si dia alcuna pena se non mi vede arrivar subito. Siccome però l'impazienza di riveder Lei e la mia cara famiglia cresce in me a proporzione che si avvicina il momento di ottener questo bene, così credo che le mie fermate saranno molto brevi. Ella preghi il Signore che mi conceda un buon viaggio, e mi saluti caramente tutti.
Le bacio la mano, e chiedendole la benedizione, mi ripeto suo affettuosissimo figlio Giacomo.
45.
Bologna 27 Aprile 1827.
Carissimo signor padre.
Arrivai qua in Bologna ieri giovedì a tredici ore e mezza, dopo un viaggio ottimo veramente, e che fuor dell'incomodo e della noia, inseparabili dal viaggiare, non mi ha cagionato nessun'alterazione nella salute: neppur la difficoltà del ventre, che io teneva per inevitabile. Amato mi lasciò a Pesaro, ma mi lasciò con miglior legno, migliori cavalli, e miglior vetturino, il quale mi ha condotto qua più di mezza giornata prima che non avrebbe fatto un altro. Vidi a Sinigaglia la zia Leonora e il marchese Romualdo, che salutano tanto lei e la mamma. La casa Cassi e la casa Lazzari salutano lei e tutta la famiglia, e Vittorina in particolare manda mille saluti a Paolina. Io sono qui alla locanda della Pace nel Corso, dove ho combinato una dozzina per un mese. Sto in ansietà delle sue nuove e di quelle della mamma e dei fratelli; e vorrei sapere se è partito da Recanati il governatore, molte pazzie del quale mi sono state raccontate a Pesaro da' suoi stessi amici, che nondimeno si sono maravigliati di sentir quelle che io raccontava fatte a Recanati. Gli occhi affaticati dal sole e dalla vigilia, non mi permettono per questa volta di esser più lungo. La prego con tutto il cuore a dire in mio nome le più tenere cose alla mamma, ai fratelli, e in particolare a se stesso, al quale baciando la mano, domando la benedizione, e mi ripeto col maggior affetto possibile al mondo suo amoroso figlio.
46.
Bologna 14 Maggio 1827.
Carissimo Signor Padre.
Ebbi la cara sua de' 29 Aprile, e conosco tutta la verità delle sue osservazioni sugli effetti della fantasia, e sul danno del voler troppo far uso della ragione. Quel che Ella soggiunge, che per esser troppo ragionevoli spesso si opera contro ragione, non potrebbe essere nè più vero nè più profondo. Fui contento delle nuove che Ella mi diede circa il coram equite, il quale poi dalla lettera dei fratelli in data dei 5 ho sentito che fosse per partire a momenti. Vorrei sapere che fosse già partito. Con uno dei prossimi ordinari le manderò la ricetta del famoso latte-e-mèle, che debbo avere fra poco. Io, grazie a Dio, sto bene; e chiunque mi vede mi fa complimenti sul mio buon aspetto. I miei tenerissimi saluti alla Mamma e ai fratelli. La prego anche de' miei rispetti alla marchesa Roberti. Qui in Bologna, dopo il ritorno del cardinale Albani, il supplizio di qualche assassino, e un editto che prometteva di fare impiccare senz'altro processo chiunque fosse trovato coll'armi alla mano, si vive quieti e sicuri di giorno e di notte. Ella mi ami, mi benedica, e mi creda come sono con tutta l'anima suo amorosissimo figlio.
47.
Bologna 1 Giugno 1827.
Carissimo Signor Padre.
Rispondo tardi e brevemente alla cara sua del 22 Maggio, perché il solito mio male degli occhi mi dà fastidio più del solito, e scrivo con molta fatica. Del resto, grazie a Dio, sto bene. Qui abbiamo una perfetta estate. A momenti la informerò di quanto Ella mi ricerca intorno al Governatore, il quale per quel che ho potuto sapere fin qui, non è nel numero degli avvocati addetti a questo tribunale di appello. La ricetta del latte-e-mèle è molto semplice perché consiste in fior di latte o panna, gelatina non salata, e zucchero a piacere. Ma il principale consiste nella manipolazione della quale mi hanno fatto una descrizione assai lunga e tale che io non so se la saprei riferir bene. Quando poi mi riuscisse di darla ad intendere, nondimeno non credo che la esecuzione corrisponderebbe; perché vedo insomma che tutto l'affare consiste nella pratica e nell'abilità manuale del cuoco. Mi hanno assicurato poi che in questa stagione sarebbe impossibile che il piatto riuscisse bene; e in fatti, adesso non si fa neppur qui. Mille tenerezze alla Mamma e ai fratelli.
Le bacio la mano e, chiedendole la benedizione, mi ripeto con tutto il cuore suo affettuosissimo figlio.
48.
Firenze 23 Giugno 1827.
Carissimo Signor Padre.
Partii da Bologna ai 20, e il giorno seguente, la mattina, arrivai a Firenze, dopo un viaggio ottimo. Non so quanto mi tratterrò. Il non poter uscir di casa di giorno per la flussion d'occhi, che mi molesta costantemente, mi dà molta malinconia e m'impedisce di conoscere la città; nella quale veramente non godo nulla.
Sono obbligato a rifiutare tutti gl'inviti che mi vengono fatti, e la gran festa fiorentina di domani (giorno di San Giovanni Battista) sarà per me un giorno feriato. Gli altri avranno corse di bighe, corse di barberi dei primi d'Italia, fuochi artifiziali, che costano non so quante migliaia, ec.
Faccia, la prego, i miei saluti più teneri alla Mamma e ai fratelli. Sono impaziente di sentire che la Mamma sia perfettamente guarita del piede. Le bacio la mano con tutta l'anima, e le chiedo la benedizione.
Il suo amorosissimo figlio Giacomo.
49.
Firenze 24 Luglio 1827.
Carissimo Signor Padre.
Ebbi l'amorosa sua dei 2 del corrente, dalla quale intesi con mia infinita consolazione il miglioramento della Mamma. Sto sempre in ansietà di sentire che sia sparito anche quel gonfiore della gamba, che Paolina mi accennò nell'ultima sua. Compatisco ben di cuore alla molestia terribile che Ella deve soffrire per ribattere le imputazioni di Mazzanti: desidererei sapere se Ella sia giunta alla fine del suo noiosissimo lavoro, e l'esito che questo avrà. Il mio incomodo degli occhi non è maggiore di quelli che ho provati altre volte, ed ora è un poco scemato; ma la guarigione (provvisoria e non radicale) non la spero se non coll'inverno, il quale pregiudicandomi in tutto il resto, negli occhi mi ha giovato sempre. Scrissi giorni sono a Paolina lungamente. Qui nello scrivere provo una gran miseria: perché nella civilizzatissima Firenze, le poste, contro il costume di tutte le città grandi del mondo, non stanno aperte se non quattr'ore della giornata, dal mezzogiorno alle quattro; vale a dir le ore più ardenti. In quelle ore mi è impossibile di uscire: consegnar le lettere a gente della Locanda, sarebbe inutile, perché sicurissimamente il danaro resterebbe in saccoccia loro: non ho altro rimedio che raccomandarmi a qualche amico che capiti da me a caso, acciocché andando alla posta, porti anche le mie lettere: ma se nessuno capita, o se non prevedo che debba capitare, non posso scrivere.
Qui ho conosciuto molti, ma fatto poche amicizie, e ci vivo poco contento; ma fino alla stagione fresca non posso muovermi. I miei teneri saluti alla Mamma e ai fratelli. Le bacio la mano con tutta l'anima: mi voglia sempre bene, e mi benedica.
Il suo affettuosissimo figlio Giacomo.
50.
Firenze 8 settembre 1827.
Carissimo Signor Padre.
Rispondo pur troppo tardi alla cara sua ultima, ma Ella non si può immaginare la pena che mi dà lo scrivere, a causa del cattivo stato de' miei occhi.
Sono costretto a mancare non solo all'affezione, ma anche alla creanza, lasciando senza risposta parecchie lettere che mi vengono da persone degne di riguardo. La mia debolezza d'occhi è la più grave ed ostinata che io abbia sofferto da otto anni in qua: tuttavia spero nell'inverno; ma l'autunno, al solito, me la rende più molesta. Del rimanente, grazie a Dio, sto bene, eccetto incomodi leggeri di flussioni e di stomaco. Ella indovina assai bene che io non posso curarmi molto di certe alte conoscenze, dalle quali anche non potrei sperar nulla. Me la passo con questi letterati, che sono tutti molto sociali, e generalmente pensano e valgono assai più de' bolognesi. Tra' forestieri ho fatto conoscenza e amicizia col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l'Italia parla, e che ora è qui colla sua famiglia. Non ho mai avuta occasione di vedere il P. Marsigli. La stagione ancor qui è stata lungamente calda più dell'ordinario: poi sulla fine d'agosto si cangiò in un vero inverno: ora e temperata. La prego a dire per parte mia le più tenere cose alla Mamma e ai fratelli. Mi benedica, e mi creda con tutto l'affetto possibile suo amorosissimo figlio.
51.
4 Dicembre
Mio caro Papà.
Parte per pigrizia, parte per economia, e perché il mio albergatore dell'altra volta non ha quartiere per me, ho rinunziato a Pisa quest'anno. Spero in Dio un buon inverno: ho fatto far qui nel mio quartiere un camminetto; e mi si dà la bella combinazione che precisamente nel contorno di casa mia ho dodici case di conoscenti e di amici dove passar delle ore. Quando non potrò uscire, avrò gente che verrà a farmi compagnia. La mia salute è più tollerabile del solito, o piuttosto, come suole essere nelle stagioni medie e temperatissime. Abbraccio tutti. Mi ami come io l'amo, e mi benedica.
52.
Firenze 4 Ottobre 1827.
Carissimo Sig. Padre.
Con molto piacere, perché so bene che questo farà piacere a Lei, le dico che in questi ultimi giorni, grazie a Dio, posso piuttosto lodarmi della salute.
Il fresco, che da principio mi aveva turbato molto, ora mi riesce favorevole: e gli occhi, benché non possano ancora leggere nè scrivere senza dolore, sono però migliorati in modo, che io posso uscire di giorno: e così col moto e colla distrazione, vengo anche acquistando di più.
Mi dispiace che la cara sua non mi sia giunta prima che l'altro ieri. Essendo stato qui Bunsen, di passaggio per Berlino, pochi giorni fa, avrei potuto parlargli a voce sopra ciò che Ella mi scrive. Ma spero che lo rivedrò al suo ritorno, il quale sarà presto, e gliene parlerò allora.
Quanto all'inverno, io sono ben risoluto di non passarlo in Firenze. Questo clima non è molto freddo, ma infestato continuamente da venti e da nebbie. è simile in tutto e per tutto al clima di Recanati, ma io non avrei qui la decima parte dei comodi della casa propria. Subito che avrò potuto risolvermi circa la mia partenza, gliene scriverò.
Della mia vita posso dirle solamente, che non fo altro che divertirmi. Ho fatta una quantità di conoscenze di brave persone: ho anche molti buoni amici, e il soggiorno tutto insieme non mi dispiacerebbe se non fosse così lontano dai miei. - Questo infernale inchiostro bianco mi strazia gli occhi, e però conchiudo, pregandola a persuadersi dell'amore estremo ch'io le porto, e domandandole la benedizione.
Il suo affettuosissimo figlio Giacomo.
53.
Pisa 3 Decembre 1827.
Carissimo Signor Padre.
Le scrivo per desiderio di vedere di quando in quando i suoi caratteri, dei quali son privo da ben lungo tempo, e i quali Ella sa bene che io desidererei non di quando in quando, ma spesso, se ciò potesse essere senza incomodo e disturbo suo. Dopo una lunghissima irresoluzione circa il dove passar questo inverno, finalmente mi sono determinato a passarlo qui, per aver la possibilità di passeggiare assai, stante la bontà del clima, l'aria poco ventosa, le strade della città buone, e con ombra sufficiente per poter camminar di giorno senza sole.
Sono venuto qua preparato a patir molto, per non istar male di salute, il che è per me inevitabile quando sono costretto a passar mesi interi senza prender aria e senza far moto:
alla primavera comincio a cadere in mille incomodi, che mi durano tutta l'estate, come mi è accaduto quest'anno.
Nell'autunno ho cominciato a far gran moto, e finora non l'ho mai intermesso neppure un giorno. Mi sono sentito e mi sento assai meglio che nei mesi passati, benché non lasci però di patire assai dal freddo, come avevo preveduto; perché in casa non fo altro che tremare, non potendo usar fuoco, nè avendo quelle comodità impagabili e impareggiabili che avrei avute in casa. Nondimeno non mi spavento, affronto il freddo, e, grazie a Dio, sto benino. Questo clima è molto meno rigoroso che quello di Firenze e di Recanati, senza paragone poi con quello di Bologna: ma il freddo si sente anche qua non poco, ed anche qua abbiamo avuto neve, benché più tardi che a Recanati, e non per tre giorni, come mi scrive Paolina, ma per un sol giorno, e senza imbiancare. Ho qui parecchi amici, e più ne avrei, se volessi far visite; perché da per tutto mi è usata assai buona accoglienza: ma il freddo mi toglie il coraggio e la voglia di andare in giro, eccetto che bene inferraiuolato a passeggiare; e tutto il resto del giorno e la sera me ne sto in casa al mio solito.
La prego di cuore a darmi con due righe le notizie sue e di tutti, e ad assicurarmi che ella mi vuol bene. I miei saluti amorosissimi alla Mamma e ai fratelli. Le bacio la mano, domandandole la benedizione, e ricordandole che l'ama con tutta la possibile intensità e tenerezza di affetto e di gratitudine il suo Giacomo.
54.
Pisa 24 Decembre 1827.
Carissimo Signor Padre.
La carissima sua ultima non ha lasciato di contristarmi sensibilmente coi rimproveri, quantunque amorosi, che essa contiene. Ella mi riprende dell'aridità delle mie lettere; la quale deriva da mancanza di materia, ed è comune a tutte le lettere mie perché la mia vita è monotona e senza novità. Ella desidererebbe che io vedessi il suo cuore per un solo momento; e a questo proposito mi permetta che io le faccia una protesta e una dichiarazione, la quale da ora innanzi per sempre le possa servir di lume sul mio modo di sentire verso di Lei. Le dico dunque e le protesto con tutta la possibile verità, innanzi a Dio, che io l'amo tanto teneramente quanto è o fu mai possibile a figlio alcuno di amare il suo padre; che io conosco chiarissimamente l'amore che Ella mi porta, e che a' suoi benefizi e alla sua tenerezza io sento una gratitudine tanto intima e viva, quanto può mai essere gratitudine umana; che darei volentieri a Lei tutto il mio sangue, non per solo sentimento di dovere, ma di amore, o, in altri termini, non per sola riflessione, ma per efficacissimo sentimento. Se poi Ella desidera qualche volta in me più di confidenza e più dimostrazioni d'intimità verso di Lei, la mancanza di queste cose non procede da altro che dall'abitudine contratta sino dall'infanzia, abitudine imperiosa e invincibile, perché troppo antica e cominciata troppo per tempo. Se io non le dichiarai apertamente la mia intenzione circa l'inverno futuro, e se in qualche modo le feci credere che lo avrei passato a casa, ciò fu perché io stesso non ne sapeva niente di più; e fui sempre indeciso sopra questo punto sino al momento che partii da Firenze per Pisa. Di questa mia risoluzione non scrissi a Lei direttamente, ma a Paolina, immaginandomi che la lettera sarebbe stata comune a tutta la famiglia, ma presentata principalmente a Lei: e d'altronde supposi, anche per le espressioni delle sue lettere passate, che circa la mia risoluzione Ella mi lasciasse in libertà di appigliarmi a quella che fosse più convenuta alla mia salute. Il viaggio da Firenze a Recanati non avrebbe potuto essere senza mio grave imbarazzo di borsa, e più grave incomodo di salute, trattandosi di cinque giorni, tra montagne, nello stato in cui mi trovavo allora. Il soggiorno poi di Recanati nell'inverno, quanto mi sarebbe stato caro per la presenza e la compagnia sua e de' miei (che io preferisco ad ogni piacere), altrettanto, senza il minimo dubbio, mi sarebbe stato micidiale alla sanità. Ella si può bene accertare che l'uso del camminetto mi è impossibile assolutamente e totalmente; giacché anche lo scaldino, il quale adopero con moderazione infinita, m'incomoda assaissimo, e il colore della mia orina è costantemente di fiamma, bench'io non beva che acqua. Ma prescindendo dal fuoco, in Recanati io non avrei potuto vivere se non in casa, perché costì non v'è mai giorno senza vento o nebbia o pioggia: e se per miracolo si ha una giornata buona, io non posso passeggiare a causa del sole, giacché non v'è ombra nè in città nè fuori. Un inverno passato in casa, e tutto (com'è naturale) a studiare, mi avrebbe rovinato i nervi degli occhi, e lo stomaco, e collo stomaco l'intera salute, in modo da farmi poi passare un'estate infelicissima come ho passato quest'ultima, come mi accadde prima ch'io partissi per Milano, come ho provato sempre dacché sono uscito dalla fanciullezza. Qui non v'è mai vento, mai nebbia; v'è sempre ombra, come in tutte le città grandi, e se si hanno giornate piovose, essendo io padrone delle mie ore e di pranzare la sera (come fo sempre), è ben difficile che non trovi un intervallo di tempo da poter passeggiare. Infatti, dacché sono in Pisa, non è passato giorno che io non abbia passeggiato per due in tre ore: cosa per me necessarissima, e la cui mancanza è la mia morte; perché il continuo esercizio de' nervi e muscoli del capo, senza il corrispondente esercizio di quelli delle altre parti del corpo, produce quello squilibrio totale nella macchina, che è la rovina infallibile degli studiosi, come io ho veduto in me per così lunga esperienza. Quanto al clima, dopo tre o quattro giorni di straordinario freddo in novembre (molto minore però di quello che è stato altrove), qui per tutto decembre abbiamo avuto ed abbiamo una temperatura tale, che io mi debbo difendere dal caldo più che dal freddo. Oltre la passeggiata del giorno, esco anche la sera, spesso senza ferraiuolo; leggo e scrivo a finestre aperte: e in una camera che ha mura sottilissime, e che non vede mai fuoco, bisogna che abbia gran cura di non caricarmi troppo di panni nel letto. Queste cose le possono dimostrare la differenza reale che v'è tra il clima di Pisa e quello di Recanati: e vi aggiunga che in questo mese (e così accade in tutti gli altri) abbiamo avuto finora due temporali con fulmini, e così grossi e lunghi come potrebbero essere nell'estate. In ultimo io le protesto e le giuro che non ho desiderio maggiore che quello di vivere in compagnia sua e in seno della mia famiglia; e che quando io possa vivere a Recanati con salute sufficiente, e sufficiente possibilità di occuparmi nello studio per passatempo, io non tarderò neppure un momento a volare costì; e rinunziando alla gloria, rinunziando al piacere e al vantaggio di vivere in luogo dove io sia apprezzato, ricercato, quasi corteggiato, invece d'essere disprezzato e fuggito, come sono stato necessariamente a Recanati (cosa che per altro ha pregiudicato per sempre al mio carattere), mi stabilirò costì, per vivere al suo fianco, e non allontanarmene mai più.
Mi consolano moltissimo le buone notizie che Ella mi dà del nuovo governatore, e dello stato della città. Quanto all'opera bibliografica, la più accreditata oggi, e la più veramente utile, è il Manuel du Libraire di Brunet, Parigi, 4 voll. in 8°, ma il suo prezzo è eccessivo: passa, se non erro, i 10 scudi. Altri che facciano a proposito, non mi sovvengono ora; ma me ne informerò, e le ne scriverò. Tornerò poi a scrivere a quella bestia di Melchiorri, al quale ho già scritto ultimamente senza risposta.
Desidero con tutto il cuore a Lei, alla Mamma, ai fratelli le più felici e liete feste, e capo d'anno. Io sto, grazie a Dio, molto passabilmente.
Le chiedo la benedizione, e baciandole tenerissimamente la mano, con tutta l'effusione del cuore mi ripeto suo affettuosissimo figlio.
55.
Pisa 5 Marzo 1828.
Carissimo Signor Padre.
Lascio pensare a Lei quanto mi abbia rallegrato il vedere i suoi caratteri dopo tanto intervallo. Spero che a quest'ora la stagione sarà migliorata anche costì, come ha fatto qua, dopo due o tre settimane di freddo, non mai però eccessivo. In tutto l'inverno io non ho mai lasciato di passeggiare lungamente, anche più d'una volta al giorno: il freddo non mi ha fatto mai male, e appena mi par credibile di trovarmi già in Marzo, e colla primavera alle porte: perché non mi sono quasi accorto dell'inverno; o sia che la stagione sia stata straordinariamente buona, o sia la clemenza di questo clima, o che sin dal principio io mi sono avvezzato ad affrontare il freddo, e a non aver paura. La mia salute, grazie a Dio, è sempre passabile: i nervi mi tormentano, e nessun metodo mi vale per poter digerire: ma bisogna sopportar qualche cosa, specialmente leggera, con una complessione come è la mia. Ancora non sono tornato nel mondo, cioè non ho ricominciato ad uscir la sera: ma spero di farlo presto. Ho poi in casa tante visite, che qualche volta mi annoiano.
Anche qui tutti mi vogliono bene, e quelli che parrebbe dovessero guardarmi con più gelosia sono i miei panegiristi ed introduttori, e mi stanno sempre attorno.
Mi ha fatto grandissimo piacere la nuova del canonicato:
spero in Dio che non saranno nati e non nasceranno nuovi ostacoli. Trovo poi ragionevolissimo ed ottimo il partito preso da Lei di concludere un accordo, non ostante la nullità dei diritti dell'avversario.
Credo anch'io che il codicetto da Lei acquistato sia interessante. Ho procurato d'informarmi circa l'edizioni degli Aldi, Giunti, ec. Si trovano (non sono però comuni) dei cataloghi bibliografici delle stampe de' Manuzi, dei Giunti, dei Gioliti ec. in opere separate. Ma cataloghi manuali, e che particolarmente indichino il prezzo di tali edizioni, nessuno me ne ha saputo nominare, e credo che in verità non si trovino, e che il prezzo di quelle stampe sia totalmente incerto e vario, secondo le città, i possessori e i compratori. Il suo pensiero di riunire alla libreria lo stanzino delle porcellane, mi piace moltissimo: e a proposito della libreria, so che il Ministro di Olanda (che mi è molto amico) ne parlò ultimamente in Firenze nella società di Vieusseux, con molte lodi. Mille e mille saluti, de' più affettuosi e dei più cordiali, a tutti.
Le bacio teneramente la mano, e la prego a benedire il suo amorosissimo figlio.
56.
Pisa 14 Maggio 1828.
Carissimo Signor Padre.
Pare incredibile, ma pure io non ricevo che oggi la sua cara dei 2: Dio vede con che cuore mi trovo dopo letto quello che essa contiene. è molto tempo che non provo una pena simile, e certamente queste sono le maggiori pene che io possa provare in mia vita. Ella che s'immagina l'ansietà ch'io sento e per Lei e per me, spero che non vorrà lasciarmi senza notizie pronte e sincere di tutto quello che accaderà. Sia fatta la volontà di Dio. Non ho mai sentito così vivo come questa volta il dispiacere di non trovarmi fra loro. Mi travaglia anche infinitamente il pensare che la sua salute indebolita per l'incomodo che Ella mi annunzia, e che avevo già inteso da Paolina, possa soffrire per questa nuova afflizione. La prego con tutto il cuore ad aversi cura. Spero anch'io che Dio ci consolerà. Io grazie a Dio, sto bene, specialmente ora che la stagione è divenuta un poco più costante, e che comincio ad assuefarmi al caldo. Aspetto lettere di casa con un'impazienza che non si può descrivere. Vorrei anche sapere precisamente che Mamma stia bene, perché Paolina mi scrisse che era stata disturbata e poi guarita, ma Ella non mi dice niente come stia. Appena intendo quello che scrivo. Di nuovo la prego con tutto il cuore ad aversi cura. Bacio le mani a Lei e a Mamma, e li prego instantemente a benedirmi.
Mio carissimo signor Padre, mi creda sempre con tutta l'anima suo tenerissimo figlio.
57.
Pisa 18 Maggio 1828.
Mio carissimo Signor Padre.
Non le parlerò del mio dolore, il quale è tanto, che io non giungo ad abbracciarlo tutto intero. Sento troppo bene quanto Ella abbia bisogno di consolazioni piuttosto che d'altro, e il pensiero dello stato suo, e di quello della Mamma e dei fratelli, è uno dei principali fra quelli che mi fanno pianger tanto.
Fino dal momento che ricevetti la cara sua dei 2, la lontananza in cui mi trovo da loro cominciò a diventarmi acerbissima. Ora poi essa mi riesce quasi insopportabile; e se tutto il viaggio di qui a Recanati si potesse far di notte, come si fa con sicurezza di qui a Firenze, io l'accerto senza alcuna esagerazione, che a quest'ora o sarei già in cammino alla volta loro, o sul punto di partire. Ma perché conosco che avendo a viaggiar di giorno, in questa stagione già per me inoltrata, non potrei reggere al caldo, dal quale ancor qui bisogna che mi abbia una cura straordinaria, sono costretto con mia gran pena ad aspettare fino alla stagione più fresca; nel qual tempo, se Dio mi darà vita, e tanta salute da poter solamente salire in un legno, non vi sarà cosa al mondo che mi impedisca di mettermi in viaggio per tornar fra loro. Intanto, per questi pochi mesi, la supplico a fare ch'io abbia le loro nuove colla maggior frequenza possibile: non potrei più viver quieto in nessuna maniera, se mi trovassi per qualche tempo senza notizie precise dello stato loro. Io per la mia parte non mancherò d'informarla del mio con altrettanta frequenza.
Ora, grazie a Dio, sto bene, e rassegnato al voler divino.
Ebbi la sua lettera ier l'altro; ma quel giorno non ebbi forza di scrivere. Non ho veduto Rossi, e non me ne maraviglio, perché Ella non avrà potuto sapere il suo nome di battesimo (Antonio), ed essendo qui moltissimi i Rossi, è difficile che la lettera sia capitata al suo destino.
I miei teneri saluti a tutti. Ella si abbia cura, e mi benedica.
Il suo Giacomo.
58.
Pisa 26 Maggio 1828.
Mio caro Papà.
Fra le tante cause di cordoglio che mi reca la cara sua dei 16, una cosa, oltre i motivi di religione, mi ha dato qualche conforto; ed è stata il ricevere lo sfogo del suo dolore, e l'andarmi lusingando che questo sfogo possa averlo mitigato, almeno per un momento.
Io non posso intraprendere di consolarla, tanto più che sono inconsolabile anch'io. Ma tra le considerazioni che tutto il giorno sto facendo sopra il suo stato, mi dà gran pena l'immaginarmi che Ella certamente finora non avrà fatto nessuno sforzo per allontanare un poco la mente dal pensiero che la domina e la tormenta. Caro Papà, io so bene che le anime sensibili, in casi di questa sorta, quasi si vergognerebbero di se stesse se tentassero di sottrarsi al loro dolore, e se ammettessero qualche sollievo: pare come un sacro dovere l'abbandonarsi interamente e senza alcuna cura di se medesimi al pensiero che ci affligge. Ma io non posso a meno di pregarla a procurarsi un poco di distrazione: e l'animo suo troverà minor difficoltà ad esaudirmi, se penserà che io la prego per un motivo altrettanto sacro e tenero quanto è quello che cagiona il suo dolore; la prego, non per l'amor di se stessa, ma per l'amor di noi altri che viviamo in lei e per lei, e che sentiremmo scemata e mutilata la nostra vita, se in lei si scemasse la salute. Io per la parte mia posso giurarle che, parlando umanamente, non vivo se non per lei e per la mia cara famiglia: non ho mai goduto della vita se non in relazione a loro; ed ora la vita non mi è cara se non in vista del dolore che cagionerei a loro se la perdessi. Veda dunque di esaudirmi, e faccia la stessa preghiera alla Mamma per parte mia: non le posso esprimere quanto accresca la mia angustia presente il dubbio e la paura che la loro salute possa soffrire in questa circostanza. Anch'io in questi giorni ho ricevuto i SS. Sacramenti colla intenzione ch'Ella sa. Di salute, grazie a Dio, sto bene. Mi vo sostenendo col pensiero di esser presto con loro, ogni altro sollievo mi riesce vano. Fra un paio di settimane, a Dio piacendo, conto d'essere a Firenze; dove mi tratterrò forse non molto, ma passerò a Siena, per andare di là a Perugia, e così lentamente, secondo la mia possibilità, avvicinarmi a casa.
Papà mio, abbracci per me i fratelli, e, se pure non è superfluo il dirlo, pensi che mi troverà sempre uno de' più amorosi figli che siano mai stati o che possano essere al mondo.
Il suo Giacomo.
59.
Pisa 2 Giugno 1828.
Mio caro Papà.
Questa è la quarta lettera che io scrivo costà dopo quella dei 14 Maggio. Due altre ne ho scritte a Lei, ed una a Carlo. Mi dà grandissimo dispiacere il sentire dalla cara sua de' 23, che Ella si trovava ancora senza mie nuove, dopo ricevuta la mia de' 14. Non me ne maraviglio però, attesa l'irregolarità delle poste. Spero intanto che a quest'ora le mie lettere saranno giunte, e che dalle medesime Ella avrà conosciuta l'impazienza in cui sono di tornar con Lei. Il sentire che tutti loro grazie a Dio, stanno bene, mi dà un gran conforto; un conforto uguale al bisogno ch'io provo di sentirmi ripetere questa nuova ad ogni poco: perché posso dire che se Ella e la Mamma e i fratelli sono stati sempre il mio pensiero principale, ora sono il solo che mi occupa giorno e notte. Però novamente la prego a fare che io non resti mai senza loro notizie in questo poco tempo che rimane della mia assenza. Come le dissi nella mia del 26, io partirò presto per Firenze: se Dio mi dà la salute, credo che sarò là circa il 10 di questo mese. Perciò da ora innanzi Ella potrà dirigermi a Firenze le lettere. Io sto bene, quanto si può stare avendo l'animo in quella disposizione che Ella può immaginarsi.
Dica per me alla Mamma e ai fratelli quello che il suo cuore le suggerirà, e benedica il suo tenero figlio Giacomo.
Io non ho preso insegne di lutto, per evitare le innumerabili questioni che esse mi avrebbero procurate; le quali venendomi da persone indifferenti, sarebbero state insopportabili al mio dolore: tanto più che il mio carattere è di chiudere nel profondo di me stesso tutti gli affanni e le affezioni vere.
60.
Firenze 10 Giugno 1828.
Mio caro Papà.
Dopo il viaggio d'una notte, sono qui piuttosto disturbato, ma non malato. Quest'anno il caldo mi riesce incomodo alla salute: il freddo mi aveva fatto del bene, ed io l'aspetto con desiderio. Sono impaziente d'intendere le sue nuove, delle quali manco da qualche ordinario. Non so quanto mi fermerò qui, dove nessuna distrazione è capace di rallegrarmi. Il caldo solamente mi ci ritiene, e m'impedisce di tornare a baciarle la mano, come vorrei, e lo sospiro giorno e notte. Gliela bacio coll'animo da lontano, e la prego a benedirmi e a scrivermi.
Bunsen, tornato a Roma, mi scrive spontaneamente di avere rinnovate le istanze per cotesto Cancellierato del Censo.
61.
Firenze 17 Giugno 1828.
Caro Papà mio.
Ricevo qui da Pisa la carissima sua del primo. Le sue lettere sono assolutamente l'unica consolazione ch'io abbia; ma da quest'ultima provo tutto il conforto che può dare nelle grandi afflizioni l'amore delle persone care. Ella mi significa l'amor suo così teneramente, che giunge a rallegrarmi; tanto più ch'io sento assai bene di meritarlo interamente, se l'amore si merita coll'amore.
Io entro con tutta l'anima in ciascuna particolarità del dolor suo. Mi sarebbe impossibile di decidere se nella pena che ho provata e che provo, abbia più parte il sentimento mio proprio della nostra disgrazia comune, o la riflessione che fa nell'animo mio il dolor loro. Ma come potrei deciderlo, se la disgrazia è tanto grande, che io posso dire di non averla mai intesa bene, e di non intenderla ancora? Ho pianto macchinalmente, senza quasi sapere il perché, senza nessun pensiero determinato che mi commovesse.
Intanto Ella mi perdonerà se torno a pregarla di accettare qualche distrazione. Finché Dio ci vuole in vita, Ella è necessaria a noi, e noi a Lei: dobbiamo aver cura alla nostra salute, non più per noi stessi, ma gli uni per amor degli altri. Io per causa mia propria le raccomando con tutto il cuore di acconsentire a trattar l'animo suo in modo, che la sua salute non ne patisca. E son certo che la mia cara Mamma e i miei cari fratelli le fanno, ciascuno in particolare, la stessa preghiera per causa loro.
è probabile che la lettera al Cav. Rossi non sia stata riscossa da alcuno, e sia restata alla posta. Ho piacere che Ella abbia veduto e gustato il romanzo cristiano di Manzoni.
è veramente una bell'opera; e Manzoni è un bellissimo animo, e un caro uomo. Qui si pubblicherà fra non molto una specie di continuazione di quel romanzo, la quale passa tutta per le mie mani. Sarà una cosa che varrà poco; e mi dispiace il dirlo, perché l'autore è mio amico, e ha voluto confidare a me solo questo secreto, e mi costringe a riveder la sua opera, pagina per pagina: ma io non so che ci fare.
Prego però anche Lei a tener la cosa secreta affatto. Bacio la mano alla Mamma, e abbraccio teneramente i fratelli. Mi benedica: e con effusione di cuore mi ripeto suo amorosissimo figlio Giacomo.
Io, grazie a Dio, sto bene.
62.
Firenze 24 Giugno 1828.
Mio caro Papà.
Ebbi il suo libretto, spedito il giorno 14, e poi coll'ordinario seguente mi giunse la carissima sua dei 10. Da questo Ella vede quanto possiamo fidarci della posta. Spero intanto, che Ella abbia ricevute le mie del 10 e del 17. Ho mostrato qui il suo libretto ad alcuni letterati, e Vieusseux mi ha detto di voler farlo annunziare nell'Antologia. Lo farò vedere anche ad altri.
Desidererei di sapere se quei testi antichi sono tutte finzioni, come mi pare che Ella mi dicesse del primo, o se ve ne sono dei veri. Certo che, se sono finti, son fatti con tanto ingegno, che ingannerebbero anche i meglio intendenti.
Quanto al dirmi di aver dubitato che la cosa mi dispiacesse, credo certo che Ella abbia voluto scherzare, e però non aggiungo altro in tal proposito.
Reinhold è andato ministro del suo re presso la Confederazione Svizzera, posto assai stimato. Passando per Pisa, non mi potè vedere, benché in Firenze si fosse fatto dare il mio indirizzo; ma ha lasciato qui i suoi saluti ed in particolare per Lei.
La prego de' miei saluti cordiali alla famiglia Antici subito che sarà arrivata. Può immaginare se è possibile che io mi dimentichi di chi è stato e sarà il soggetto delle nostre lagrime finché vivremo. Non posso abbastanza lodare la sua pietà dei soccorsi religiosi implorati, com'Ella mi scrive. Iddio certamente gliene renderà merito, ed esaudirà le sue e le nostre ardentissime preghiere.
Io sto qui trattenuto dal caldo più che da altro.
Firenze mi riesce malinconica al solito, e quasi mi pento di aver lasciata quella bell'aria di Pisa. Ma in questo mese la notte è troppo corta per poter fare un viaggio di qualche lunghezza senza prender sole.
Ricordi alla Mamma e ai fratelli e a se stessa il suo Giacomo che l'ama tanto.
63.
Firenze 1 Luglio 1828.
Mio caro Papà.
Fino dall'ordinario passato, cioè appena ricevuta la cara sua dei 19, scrissi a Monsignor Muzzarelli. Io conosco di persona questo prelato, ch'è un ottimo giovane, e mi vuol bene, e poco fa ho ricevuto i suoi saluti. Sono certissimo che farà in favor nostro tutto quel che potrà: ed io gli ho raccomandato l'affare colla maggior istanza possibile dentro i limiti della convenienza. Ho fatto vedere il suo libretto anche a Giordani, che lo ha lodato molto. Io gli ho lasciato supporre che quei testi fossero antichi, ed egli non ha trovato difficoltà a crederlo. Spero che a quest'ora Ella godrà la compagnia della famiglia Antici, la quale mi lusingo di rivedere anch'io quest'anno. Intanto la prego a rinnovarle i miei saluti cordiali.
Dalle mie de' 17 e de' 24 Giugno, avrà veduto che la mia salute presentemente, grazie al Signore, non è cattiva.è ben vero che mi bisogna una gran cura; per la gran facilità che ho di riscaldarmi: ma purch'io viva da poltrone e senza far nulla, sto sufficientemente bene.
Mi ami, caro Papà, e mi continui le sue nuove, e quelle della Mamma e dei fratelli, che saluto coll'anima.
Il suo amorosissimo Giacomo.
64.
Firenze 8 Luglio 1828.
Mio caro Papà.
Ho ricevute le care sue del 23 e del 30 giugno. Dio sia benedetto del nuovo disastro ch'Ella mi annunzia, del quale risento, come può credere, grande afflizione per causa loro. Monsignor Muzzarelli mi rispose subito, promettendomi ogni attenzione, ed ogni favor possibile nella causa raccomandata, se essa sarà di suo turno. Bisognerebbe che Ella mi sapesse dire se toccherà veramente a Monsignor Muzzarelli, o se, anche non toccando a lui, egli potrebbe assisterci in qualche modo; perché in tal caso tornerò a raccomandargliela.
Godo assai che gli Antici stieno bene, e li saluto tutti di cuore. Io patisco molto dal caldo, che mi si è dichiarato nemico peggiore che mai fosse il freddo; ma nondimeno la mia salute è passabile. Non mancherò di spedirle il fascicolo dell'Antologia, se questo giornale, come credo, farà menzione del suo libro; il quale mi rallegro molto che incontri, e torno a dirle che mi pare che ingannerebbe chiunque. Paolina sarà servita dell'acqua di odore.
Abbraccio i fratelli, e bacio la mano alla mamma. Ami sempre il suo Giacomo.
65.
Firenze 15 Luglio 1828.
Mio caro Papà.
L'ultima che ho di Lei è del 30 di Giugno. Io le scrissi il primo e l'8 del corrente. Sto in molta aspettativa delle sue nuove. Le mie sono le solite: non perfetta salute, ma pur tollerabile. Qui il caldo, dopo essere arrivato a un grado assai forte, è sufficientemente diminuito, e si respira. Sono quasi cinquanta giorni, cioè da' 27 di Maggio in poi, che abbiamo una serenità, si può dir, continua, cioè non interrotta se non per pochi momenti in alcuni giorni.
Io affretto col desiderio l'ora di rivederla, e ogni giorno fra tanto mi pare un anno. Rinnuovi i miei saluti alla famiglia Antici; mi ami sempre, e mi benedica.
Il suo affettuosissimo figlio Giacomo.
66.
Firenze 22 Luglio 1828.
Mio caro Papà.
Dopo essere stato in qualche agitazione per la mancanza delle sue nuove, ricevetti il giorno 17 la cara sua dei 4, a tredici giorni di data, come Ella vede.
D'allora fino a quest'oggi, sono nuovamente privo delle sue notizie. Attribuisco questa mancanza alla visibile ed enorme trascuratezza delle poste, e ciò mi consola un poco; ma tuttavia la sospensione in cui rimango, non lascia di affliggermi. Compiango di cuore i poveri Broglio, padre e figlio. Qui si era saputa dalle gazzette francesi la morte di un conte Broglio, ma chi avrebbe indovinato che fosse quel nostro recanatese? Io non sapeva che il suo fanatismo l'avesse portato ad andare ad espor la vita per causa e patria non sua. La mia salute, grazie a Dio, continua ad essere sopportabile.
Saluto caramente la Mamma, i fratelli, e gli Antici, e le chiedo la benedizione, baciandole teneramente la mano.
Il suo Giacomo.
Avrà Ella ricevuto le tre mie dell'uno, dell'8, e del 15?
67.
Firenze 29 Luglio 1828.
Mio caro Papà.
La carissima sua de' 14 pose fine all'agitazione in cui mi trovavo, e di cui le parlai nell'ultima mia de' 22. Questa sua de' 14 era stata visibilmente aperta: quando vedono qui un carteggio frequente fra persone non conosciute, aprono due o tre lettere per conoscere di che si tratta. Sono ben lieto che la Mamma sia ristabilita del suo breve incomodo. Ancor io sono molestato assai da sciolte, stitichezze e dolori frequenti di ventre, che mi hanno tenuto in qualche apprensione, finché i medici mi hanno assicurato che il male non è niente, che i miei visceri sono sanissimi, e che tutto dipende da una straordinaria ed estrema sensibilità della tunica interiore degl'intestini, la quale mi rende suscettibile d'ogni minima impressione, e si deve curare con rinfrescanti, e colla regolarità del vitto.
Io non aveva mandato la Crestomazia, perché troppo voluminosa per la posta, come scrissi a Paolina. Mi dispiace che ho già dovuto spedire a Milano il manoscritto della Crestomazia poetica: nella quale però non avrei potuto far piacere a Broglio (come vorrei ben di cuore) perché per troppe ragioni ho dovuto escluderne gli autori viventi.
Io le invidio il soggiorno della libreria, nella quale mi ricordo bene di non aver mai conosciuta l'estate, nè sentito molto l'inverno.
Saluto teneramente tutti, e la prego a benedire di nuovo il suo Giacomo.
68.
Firenze 5 Agosto 1828.
Mio caro Papà.
Ricevo la carissima sua de' 26 Luglio, nella quale leggo con gran rammarico questo periodo: Dio sa quanto desidero il rivedervi, e al vostro arrivo conoscerete quanto grande ragione ho per desiderarlo. Più ch'io penso a queste parole, e più mi cresce la pena: mi pare ch'Ella mi accenni qualche suo travaglio che io non conosca. Con tutto il cuore la prego a levarmi di questa incertezza, e ad espormi sinceramente tutto quel che l'affligge: la notizia della cosa non potrebbe darmi maggior dolore di quello che mi dà ora l'immaginazione lavorando nell'oscurità.
Qui, da molti giorni, il caldo è scemato in modo che si sopporta assai bene. Io ho riprese le mie passeggiate prima di pranzo, che avea tralasciate da più mesi per timor del caldo. Queste passeggiate sono la mia salute, mentre quelle dopo pranzo non mi fanno altro che male. Me ne sono trovato subito assai migliorato, e fino dal primo giorno mi parve d'essere un altro.
Non ho vedute le poesie dell'Ilarii, di cui Pietruccio mi parla. Caro papà, se mi ama, abbia cura alla sua salute.
La mia impazienza di tornare non è minore della sua in aspettarmi. Saluto tutti amorosamente, e prego Lei a benedirmi.
Il suo Giacomo.
69.
Firenze 11 Agosto 1828.
Mio caro Papà.
Scrivo anche oggi per salutarla e darle, le mie nuove, benché non abbia ricevuto sue lettere dopo quella de' 26 Luglio, alla quale risposi il 5 di questo, come anche non ho riscontro all'altra mia de' 29 Luglio.
La mia salute è passabile, e si può dir buona, ogni volta che i dolori mi lasciano in pace. E questi ora sono divenuti meno frequenti. La loro causa è manifestamente una semplice debolezza d'intestini. Tommasini mi assicura che egli si prometterebbe di guarirmi quasi completamente di questo male e di tutti quelli che ne dipendono (compreso quello degli occhi), se io potessi stare per qualche tempo sotto la sua cura: ma questo per ora è impraticabile. Sono impaziente di ricevere le sue nuove, senza le quali non ho pace nè giorno nè notte.
Le bacio la mano con tutto il cuore, l'abbraccio e la prego a benedire il suo Giacomo.
70.
Firenze 19 Agosto 1828.
Mio caro Papà.
Ebbi la carissima sua de' 6. Mi lusingo ancor io, anzi voglio credere costantemente, che la debolezza ch'Ella soffre alle gambe sia mal di stagione. Io medesimo in quest'anno l'ho provata e la provo spesso, e non ero solito a patirne: ho sentito lamentarsene anche altri.
Qui il caldo da più di un mese è moderato, anzi spesso abbiamo de' freschi molto sensibili: continua però sempre la straordinaria serenità e siccità dagli ultimi di Maggio in poi. La mia salute, grazie a Dio, è tollerabile, malgrado la grande difficoltà della digestione, cagionata dalla debolezza degl'intestini, che forse il freddo renderà un poco minore.
Saluto caramente tutti gli Antici, ed abbraccio i fratelli. A Lei ed alla Mamma bacio la mano, e domando la benedizione.
71.
Firenze 26 Agosto 1828.
Mio caro Papà.
Le scrissi il giorno 19. Con questo ordinario aspetto le sue notizie. Desidero che il fresco, che qui si è fatto sentire molto bene, sia arrivato costì ancora, ed abbia giovato alla sua salute. Io sto nè bene, nè posso dir male: passeggio molto, e proccuro di non pensare agl'incomodi. Qui si parla di un buon aumento del prezzo dei grani, che ha luogo in tutta la Toscana. Vorrei che anche la Marca lo risentisse. Le altre raccolte qui sono state scarsissime, per mancanza di pioggia.
Saluti tutti per me: abbracci e benedica il suo Giacomo, che sta contando i giorni e le ore per impazienza di rivederla.
72.
Firenze 28 Agosto 1828.
Mio caro Papà.
Ier l'altro ricevetti la cara sua degli 11 ritardata per l'infame negligenza di questa posta, e unitamente all'altra dei 19. Le notizie ch'Ella mi dà, mi hanno colpito straordinariamente; e in mezzo all'angustia in cui mi trovo, non posso a meno di non dolermi affettuosamente ancora di Lei, che mi abbia celato questa cosa fino a quest'ora, come se io non fossi parte interessantissima nell'affare, per l'indicibile sollecitudine che ho d'ogni cosa loro. In questa mia lontananza, che mi riesce sempre più amara, non posso dir nulla di preciso sopra tal materia: solamente posso assicurarla che, conoscendo Carlo intimissimamente e meglio che verun altro al mondo, per aver diviso la vita con lui durante 26 anni interi, io credo anzi so di certissimo, che il suo cuore e il suo carattere sono talmente buoni, che senza una forza soprannaturale, è impossibile che diventino cattivi. E però tengo fermamente per impossibile che Carlo riflettutamente, e in cosa grave, si riduca a mancare al dovere verso lei e la Mamma, e a dar loro un terribile disgusto. Io resterò loro certamente sempre finché vivo; e morrò per loro, se bisogna: ma mi creda, mio caro Papà, che indubitatamente Ella non perderà neanche Carlo, qualunque sieno le apparenze presenti, e i progetti che egli possa volgere in mente. Ho dubitato molto se fosse a proposito ch'io gli scrivessi: il mio cuore mi ha costretto a farlo, non per urtar la cosa di fronte, ma per mettermi in relazione con lui sopra questo affare, del quale egli non mi ha mai scritto, nè fatto scrivere nè dire una sola parola.
Dio vede, caro Papà mio, quanto compatisco Lei e la Mamma di questa nuova afflizione. Oh se potessi già trovarmi con loro! La ringrazio tanto della premura circa la camera; ma credo che combineremo meglio in presenza, e credo ancora che potrò prendere un metodo di vita meno incomodo dell'altra volta. Intanto Ella abbia cura alla sua salute, e non si dia troppa pena di questa cosa, della quale ho certa speranza che non debba riuscire a cattivo fine. Della mia salute le scrissi l'ordinario passato: ora un po' di flussion d'occhi m'impedisce di scriver più a lungo, come vorrei; ma è piccola cosa. Mi abbracci, caro Papà, mi aspetti, e si ricordi di avere in me un tenerissimo figlio.
Mi tenga informato, la prego, di ogni nuova particolarità.
73.
Firenze 4 Settembre 1828.
Mio caro Papà.
Ricevo la carissima sua de' 26 Agosto.
A quest'ora Ella avrà la mia de' 28, che risponde finalmente alle sue degli 11 e dei 19. Ringrazio Iddio di sentire che la loro salute sia buona: anche la mia in questi ultimi giorni è tale ch'io non posso lagnarmene; mi resta solo l'impossibilità di applicare; che è per me una gran pena, com'Ella immagina. La sua compagnia mi terrà luogo de' libri, quando io sarò costì, se a Dio piace.
M'informerò della geografia più adattata all'uso di Pietruccio. Le bacio la mano, e, abbracciandola e chiedendole la benedizione, mi ripeto con tutta l'anima suo affettuosissimo figlio.
Dell'affare di Carlo la prego a tenermi informato sempre minutamente.
74.
Firenze 11 Settembre 1828.
Mio caro Papà.
Ho ricevuta la cara sua de' 31 Agosto.
Certamente il modo con cui si è proceduto e si procede verso di Lei e della Mamma, tentando di rapir loro Carlo per viva forza, è un modo che nessuno potrà scusare, e che io sarei stato sempre lontanissimo dal credere che potesse essere usato da tali persone. Carlo non mi risponde ancora: forse non ha ricevuta la mia lettera, o gli sarà stata ritardata dalla posta: io aspetto la sua risposta con impazienza. Del resto sono sempre certissimo che egli non verrà mai ad un passo decisivo senza il loro consenso: nessuna cosa del mondo mi potrebbe persuadere del contrario, se non quando vedessi il fatto. Solo mi passa per la mente un'immaginazione, che in questa lontananza non lascia di turbarmi: ed è che Carlo vedendosi stretto dalla sua promessa per una parte, e per l'altra dal suo dovere verso di loro, non fosse strascinato dall'entusiasmo e dalla disperazione a concepire qualche risoluzione funesta contro se stesso. Il carattere fermo di Carlo, che io conosco benissimo, dà luogo a questo dubbio, che io non posso a meno di comunicare a Lei, perché essendo in presenza, Ella osservi gli andamenti di Carlo con questa mira. Non posso esprimerle quanto questa immaginazione che mi viene ora (e che sarà forse un sogno), mi travagli e mi faccia sudare; massimamente considerato l'assoluto silenzio di Carlo verso di me.
Quanto alle camere, mi par difficile di potermi determinare senza essere sul luogo, e però non vorrei che Ella facesse per ora alcuna mutazione. Intanto la ringrazio con tutto il cuore della sua bontà. La mia salute è passabile.
Le bacio la mano coll'anima.
Il suo Giacomo
75.
Firenze 18 Settembre
Mio caro Papà.
Rispondo alla cara sua dei, 7. Una lettera di Carlo che ho ricevuta, mi ha racquietato circa il dubbio di cui le parlai nell'ultima mia. Benché egli non si risolva ad entrare in comunicazioni con me per iscritto, nondimeno qualche sua espressione mi conferma nella certezza che egli non farà mai cosa contraria ai principali doveri verso di lei e della Mamma; la quale io prego con tutto il cuore a non affliggersi, o almeno a darsi la minor pena possibile di questo affare, che io confido che sia per riuscire, se non a lieto fine, almeno a un fine non dispiacevole.
La mia salute è passabile, eccetto la solita estrema sensibilità ed irritabilità d'ogni sorta, la quale non posso vincere coll'esercizio (benché questo per il momento mi sia sempre giovevolissimo), e mi obbliga ad avermi una cura eccessiva, minuta e penosa.
Se troverò la musica di cui Pietruccio mi scrive per Mariuccia Antici, la porterò con me.
Caro Papà, le bacio la mano con tutto il cuore, e si raccomanda all'amor suo il suo Giacomo.
76.
Firenze 25 Settembre 1828.
Mio caro Papà.
Avrà ricevuta a quest'ora la mia de' 18.
Quel ma della cara sua de' 14 non saprei che cosa volesse significare, se non forse che Ella avesse concepito qualche dubbio della mia volontà di tornar con Lei. Ma Ella si accerti pure che quando anche il mio desiderio non mi spingesse continuamente costà, io sarei ben lontano dal cercar pretesti per mancare ad una promessa fatta.
Aggiungerò poi, che già a quest'ora sarei partito, se il partire dipendesse dalla mia volontà; ma aspetto, com'Ella vede, il freddo, perché l'esperienza mi ha dimostrato che il caldo è il maggiore e più pericoloso nemico che io abbia nel viaggio. Il freddo mi fa patire, ma mi è necessario per evitare le riscaldazioni che il viaggio mi cagiona con una facilità incredibile. Questa enorme soggezione mi ha impedito in tutto questo tempo di far de' piccoli viaggetti per queste bellissime città di Toscana, che mi avrebbero divertito moltissimo. Sono stato immobile a Firenze, immobile a Pisa, senza neanche veder Livorno nè Lucca, città distanti da Pisa due ore. Ho risoluto di venire a Recanati direttamente (viaggio di 6 giorni), fermandomi solo un poco a Perugia per riposare. Intanto il mio desiderio, anzi impazienza, di rivederla, non solo non è minore di prima, ma cresce ogni giorno. Le bacio la mano con tutto il cuore: mi ami, mi benedica, e mi aspetti. Il suo Giacomo.
77.
Firenze 2 Ottobre 1828.
Mio caro Papà.
Ho ricevuto le care sue de' 21 e de' 24 Settembre, e la ringrazio dei dettagli, quantunque poco soddisfacenti, che mi dà intorno alle cose di Carlo. Quanto alla mia dimora costì, certamente, se Dio mi permette di arrivarvi, essa non sarà breve: e se io non mi sono espresso intorno alle camere, ciò è provenuto in parte appunto da qualche difficoltà di separarmi da Carlo, e in parte ancora dal desiderio di provare un poco, prima di decidere; giacché dubito che la stanza dell'archivio sia un poco fredda, e non comodissima per dormire, a causa di quel passaggio che ha di dietro, e della contiguità di un'altra stanza abitata. E molto dipenderà ancora dal metodo di vita che io potrò adottare costì, secondo la mia salute ec.; giacché a ragione del metodo, dell'alzarmi più presto o più tardi, e cose simili, una stanza mi converrà meglio che un'altra. Intanto torno a ringraziarla caramente delle sue premure. Gran consolazione mi dà il sentire che tutti loro stanno bene, e ne ringrazio di cuore Iddio. La mia salute è passabile.
Mi ami, caro Papà, e mi benedica. Il suo Giacomo.
78.
Firenze 9 Ottobre 1828.
Mio caro Papà.
Ho la carissima sua de' 28 Settembre.
Ella avrà la mia dei 2 del corrente. Il mio viaggio, se a Dio piace, non sarà del tutto continuo, perché mi fermerò qualche giorno a Perugia. Altre fermate sarebbero difficili e incomode, specialmente di là da Perugia, che è alla metà della strada, e dopo la quale il cammino sarà tutto per montagne. Ma Ella sia pur certa che mi avrò tutta la cura, per patire il meno possibile. Conto di partire di qua sul principio di Novembre. Ho piacere assai che di Carlo non ci sia niente di nuovo. La società dei redattori del Globo (giornale letterario e politico di Parigi) ha commessa qui a Firenze la traduzione italiana della Vita di Gesù Cristo di Stolberg, fatta dal zio Carlo, la quale non trovandosi qui, è stata ordinata e trovata a Roma. La mia salute è passabile quanto al sostanziale, benché in questi ultimi giorni i dolori e la difficoltà smaniosa del digerire mi travaglino molto. Ma spero nella stagione più ferma, ed anche nel viaggio. L'abbraccio, e la prego di assicurare la Mamma che io non sono meno impaziente di ritornare, che ella di rivedermi.
Mi ami e mi benedica.
79
Firenze 25 Ottobre
Mio caro Papà.
Dopo la cara sua de' 5, sono privo de' suoi caratteri. Lo credo difetto della posta, la quale, mi ritardò molto anche la sua ultima. Ho però una lettera di Carlo in data dei 15 (che parla di cose indifferenti), dalla quale arguisco che tutti stiano bene. Io comincio a prepararmi al viaggio, e credo che con la mia prossima potrò annunziarle il giorno fissato alla mia partenza. La stagione qui è ancora bellissima, e la mia salute è passabile. Io non vedo il momento di domandarle a voce la benedizione, che ora le domando coll'animo. Il suo Giacomo.
80.
4 Novembre
Mio caro Papà.
Fra 4 o 5 giorni, se piace a Dio, partirò da Firenze. La terza sera sarò a Perugia. Là mi fermerò uno o due giorni o tre, per riposare. Poi partirò per Recanati, che sarà un viaggio di altri tre o quattro giorni al più. Prima di muovermi di qua, le scriverò ancora una riga di avviso. Durante il mio viaggio Ella non stia in alcuna pena per me, perché mi avrò tanta cura, e viaggerò con tanto comodo, da non correre maggior pericolo che se stassi fermo. Qui, da più d'una settimana fa il freddo precisamente di Gennaio, il che mi ha obbligato a ritardare d'un poco la mia partenza. Mi raccomandi al Signore, e mi benedica, insieme colla Mamma.
Il suo Giacomo.
81.
Firenze 8 Novembre 1828.
Mio caro Papà.
Ho ricevuto la cara sua de' 29 Ottobre, ma non mai l'altra de' 26. Io parto, se a Dio piace, dopo domani. A Perugia, potendo, vedrò certamente la Veglia.
Arrivando a Recanati, avrò meco un giovine signore torinese, mio buon amico. Non potrò a meno di pregarlo a smontare a casa nostra, tanto più ch'egli farà la via delle Marche, come fa il viaggio di Perugia, principalmente per tenermi compagnia. Spero che a lei non rincrescerà questa mia libertà. Egli si tratterrà in Recanati una sera, o una giornata al più. La mia salute, grazie a Dio, è discreta, e ho qualche speranza nel viaggio.
Mi benedica, e preghi il Signore per me. L'abbraccio con tutta l'anima e le bacio la mano.
82.
10 Febbraio [1829].
Mio caro Papà.
Io non le scrissi nulla di quello sciocco e maledetto affare di questo pazzo Vicario, perché non era cosa di vero rilievo, e perch'io non poteva pensare le apprensioni in cui, con mio dolore, veggo ch'Ella si è trovata. So che Carlo le ne ha scritto, non so in che termini, ma certo in modo che Ella a quest'ora sarà, spero, più quieta. L'arrivo della dispensa non era una novità.
L'hanno fatta venire la Madre di Paolina, e forse Peppe. Ma Paolina diceva che, arrivata che fosse, se ne voleva servire per conservarla in una cassettina colle lettere di Carlo:
quando fu arrivata, disse che la potevano stracciare. Il Vicario, o di suo moto, o spinto dalla Madre andò ad annunziare a Paolina l'arrivo della dispensa, ed esortarla a sposar subito. Paolina rispose con dispetto, che avrebbe sposato quando paresse a lei, non a lui; che non ci erano stati disordini che rendessero nè necessario, nè opportuno, lo sposare, nè presto nè mai. Il Vicario entrò in prediche sopra i pericoli della carne se continuavano a vedersi senza sposarsi. Paolina gli voltò le spalle. Allora il Vicario mandò la prima ammonizione canonica a Paolina e Carlo. La Madre, rotta anch'essa totalmente con Paolina, pel suo rifiuto di sposare; non vuol più che si veggano in casa:
permette solo che si scrivano. Si vedono in teatro, e si parlano, non più da un palco all'altro, ma in quello delle Mazzagalli. Il Vicario sta quieto, e non par che si voglia muovere.
Quanto allo stato delle cose nel rimanente, io l'assicuro e le giuro, che Paolina e Carlo sono non solamente alieni dallo sposare, ma desiderosi di non farlo, nè ora nè mai. Altrettanto però sono risoluti di conservarsi amici. Carlo è innamorato, non a furore, come sarebbe stato una volta, ma tanto più di cuore e profondamente. Paolina è innamorata di certo, benché odii il matrimonio. La sola disperazione potrebbe condurli a sposare, cioè se fossero impediti di più vedersi e trattarsi: se potranno continuare a farlo come prima, che è tutto quello che desiderano, non sposeranno mai. Intanto la nostra Mamma serve continuamente i nostri nemici col mettere in opera tutte le possibili macchine per impedire a Carlo ogni relazione con Paolina:
non pare che possa aver pace finché Carlo può dire o scrivere a Paolina una parola. Carlo mi accerta che la Mamma non dice a Lei nè tutto, nè il vero: ed io lo credo.
L'effetto di questi maneggi non potrebbe essere che direttamente contrario ai nostri desiderii. Il tempo e il lasciar fare quanto si può, sono (Ella lo sa bene) la miglior medicina di queste tali passioni. Essi vorrebbero conservar la decenza come han fatto finora, non essendosi mai visti da solo a solo: le ciarle, non fomentate e non ascoltate, non farebbero nulla. Un'altra cosa le giuro (e Carlo l'ha pur promessa a Mamma): che neanche la disperazione potrebbe indurre Carlo e Paolina a fare un passo decisivo durante la di Lei assenza. Anche vorrei ch'Ella mi credesse, che le intenzioni ostili verso di Lei, sono state e sono nella Madre, nel Vicario, e forse in altri; ma non in Paolina; la quale ha operato ed opera giovanilmente, per passion di cuore, e senza disegno. Se v'è entrata ambizione, è stata ambizione di galanteria, non d'altro. Perciò essa si è fatta nemica la Madre sua, più che gli altri.
Io la prego necessariamente, e di cuore, a non voler fare alcun uso diretto di alcuna delle confidenze ch'io le ho fatte qui, circa le intenzioni di Paolina e di Carlo.
Ella ben vede che questi sono segreti, e ch'io stesso non ne sono padrone. Altrettanto di cuore la prego a star coll'animo quieto sopra questo malaugurato affare, il quale per ora non è in punto di produr conseguenze più che per l'addietro. Quanto a me, servirei ben volentieri la Mamma, persuadendo Carlo a lasciar Paolina totalmente, se potessi persuaderlo: ma mi dica Ella se ha mai conosciuta, se crede che vi sia mai stata al mondo, una persona che abbia lasciata una passione per discorsi e per esortazioni.
Scriverei più a lungo, ma Dio vede se gli occhi e gl'intestini mi lasciano andare avanti.
Le bacio la mano, e le chiedo coll'anima la benedizione.
Il suo Giacomo.
83.
Bologna 4 Maggio 1830.
Mio caro Papà.
Arrivai qua ieri, ma non a tempo per iscrivere. Sto bene, e il viaggio (fuorché agli occhi e alla testa) mi giova tanto, che mi pare il mio stato naturale. Il povero Schiavone mi ha servito benissimo: è un bonissimo uomo, da farne tutto quel che si vuole. Saluto, abbraccio tutti. Quante infinite cose mi convien tacere per questa mia impossibilità di scriverle.
P.S. Non so ancora quando partirò da Bologna. Ella diriga pur qua per ora. Angelina riverisce tanto tutti. Ho la cara sua dei 30. Quanto al Gamba, vedrò di qualche altro mezzo, perché Schiavone, non avendo le carte in regola, dovette lasciarmi a Faenza.
84.
Bologna 8 Maggio 1830.
Mio caro Papà.
Piacendo a Dio, partirò domani per Firenze. Non sono stato dal Cardinale, parte per pigrizia, parte perché sono stato occupato. Desidero con impazienza le nuove loro, e quelle del Zio Carlo. Qui ed altrove mi è stato parlato con lode del suo Fra Giovanni e dimandato se continuerebbe. Io non ho mai tradito il segreto.
Il suo Leopardi.
85.
Firenze 12 Maggio 1830.
Mio caro Papà.
Sono arrivato qua ier l'altro senza disgrazia, dopo aver passato la tourmente sugli Appennini. Mi trovo affollato di visite, e tutti mi fanno complimenti sulla mia buona ciera. Aspetto ansiosamente le loro nuove con dettaglio.
Il suo Giacomo.
86.
Firenze 23 Ottobre 1830.
Mio caro Papà.
Ella non mi conosce perfettamente, se crede possibile che le critiche mi dispiacciano, quando pure mi venissero da un nemico. Io poi m'astengo dallo scrivere, perché veramente ogni riga mi costa sudor di sangue. Fra 20 o 30 giorni, se piace a Dio, partirò per Pisa, dove passerò l'inverno. Qui mi trovo assai bene della mia ultima dozzina. Vorrei ch'ella si compiacesse di dire a Pietruccio, che a posta corrente mi mandi sotto fascia una copia del mio Discorso sopra Gemisto ec. Milano 1827. Mi riverisca la marchesa Roberti, alla quale mi offro per servirla come suo agente in Toscana, s'io vaglio. Abbraccio i cari fratelli, ed alla cara Mamma ed a Lei, che Dio sa quanto amo, domando la benedizione.
Il suo Giacomo.
87.
23 Dicembre 1830.
Mio caro Papà
è giustissimo il suo sospetto circa la possibilità di una mala fede nel mio Tedesco; ma sappia ch'egli stesso, quando si discorse della cosa in genere, mi avvertì di questo pericolo, e che d'altronde il suo carattere inspira ogni possibil fiducia. Spero che a quest'ora Ella avrà ricevuta la mia dei 4. Ho venduto il ms. de' miei versi, con 700 associazioni, per 80 zecchini: nello stato attuale sì problematico del commercio, non è stato possibile ottenere di più. Io sto ancora passabilmente, benché il freddo e il fuoco comincino a incomodarmi. Felicissime feste a Lei, alla cara Mamma, ai cari fratelli, che abbraccio.
Mi ami, come sempre, e mi benedica.
Giacomo.
88.
Mio caro Papà.
Dalla carissima sua degli 11 mi avvedo ch'Ella è stata in pena sul conto mio, cosa alla quale, non so come, io non aveva pensato, altrimenti mi sarei data più premura di scriver costì. La ringrazio teneramente delle sue amorosissime espressioni. Qui tutto è, e speriamo che sarà sempre, tranquillissimo. Oggi o dinnazi passano di qua 4000 austriaci diretti verso Forlì per la via de' monti.
Io sto passabilmente, ma gli occhi non mi lasciano far nulla nulla: perciò non posso se non ricordare a Lei, alla cara Mamma, e ai cari fratelli, l'amore del loro Giacomo.
Desidero esser tenuto al corrente delle nuove loro, per mia quiete. Non è vero (che qui si sappia) che Giordani sia mai stato a Bologna ultimamente. Io aveva deciso di andare a passare tutta la buona stagione a Parma, per provare di curarmi seriamente sotto Tommasini; ma lo stato delle cose essendo troppo incerto, prevedo che non mi moverò di Toscana.
89.
Firenze 29 Marzo
Mio caro Papà.
Spero ch'Ella sarà contenta dell'acclusa, ch'Ella suggellerà. Desidero però sommamente che la città e la provincia si scordino ora totalmente di me e de' miei:
creda per certo che non possono farci cosa più vantaggiosa.
Io sto benino. Gli austriaci sono a Rimini. Io le scrissi già pochi ordinarii addietro. Il suo Giacomo.
Fatta la risposta, vedo per notizie più recenti, che forse gli Austriaci saranno costì prima della presente.
Credo perciò bastare, che Ella medesima risponda questo in mio nome, aggiungendo tutto ciò che le parrà convenevole.
Vorrei che facesse dire a Morici che ho ricevuto la sua del 16, e lo saluto; che non ho risposto perché pochissimo, al solito, posso scrivere, e perché gli avvenimenti rispondono abbastanza.
90.
Firenze 19 Maggio 1831.
Mio caro Papà.
Dalla carissima sua dei 5 veggo che Ella non ha ricevuta la mia del 29 Marzo responsiva alle sue del 18 e del 21. Avrei moltissimo desiderato ancor io ch'Ella potesse portarsi a Roma nelle circostanze attuali per assistere co' suoi lumi il governo, che certo non abbonda d'ingegni capaci di fare il bene fra tante difficoltà. Ma pur troppo la sventura del nostro Stato farà che anche il momento presente passerà senza alcun frutto. Io sto straordinariamente bene per la straordinaria bontà della stagione, che qui da tre mesi e mezzo è perfetta e non interrotta primavera. Ma nè occhi nè testa non hanno ricuperato un solo menomissimo atomo delle loro facoltà, perdute certamente per sempre. Ella mi raccomandi al Signore, e così la Mamma e i fratelli. Mi benedica, la prego con tutto l'animo, e mi creda il suo tenero Giacomo.
91.
Firenze 21 Giugno 1831.
Mio caro Papà.
L'esibizione che Ella mi fa nella carissima sua de' 7, m'empie di tanta gratitudine, ch'io non so esprimerla. In altre circostanze non avrei tardato un momento a profittarne, non quanto al nome e all'onore (che avrebbe dovuto e deve restare a Lei solo), ma quanto all'utilità pecuniaria. Ma qui in Toscana è stato sempre difficilissimo il trovare a vendere manoscritti, perché questi librai, poveri ed avari, se non hanno i manoscritti gratis, preferiscono di ristampare libri antichi, o di contraffare edizioni d'opere recenti. Oggi poi, nelle circostanze malaugurate del commercio, in Francia stessa non si trova a stampare altro che giornali o pamphlets politici: e non solo in Toscana, ma neppure in Lombardia s'intraprendono edizioni. Io ho dovuto scrivere a Milano per un mio amico Russo, assai conosciuto in Europa, che avrebbe voluto fare stampare colà un suo ms. molto interessante, rifiutato qui da tutti i librai; e mi è stato risposto che non avrebbero potuto stamparlo se non a tutte spese dell'autore. Perciò desidero ch'Ella non si lasci sfuggire l'occasione di Venezia, che a questi tempi è rara. La letteratura è in istato d'asfissia dappertutto, i poveri letterati sono in mezzo alla strada. L'Antologia è stata sul punto di cessare, e non continua se non per impegno e per soccorsi prestati da alcuni benefattori. L'Europa è piena di fallimenti di librai.
Io, grazie a Dio, continuo a star bene. Ella ami sempre il suo Giacomo, che le chiede di tutto cuore la benedizione.
92.
3 Luglio
Dio sa quanto le son grato de' suoi avvertimenti circa il mio libro. Io le giuro che l'intenzione mia fu di far poesia in prosa, come s'usa oggi; e però seguire ora una mitologia ed ora un'altra, ad arbitrio; come si fa in versi, senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ec.
E l'assicuro che così il libro è stato inteso generalmente, e così coll'approvazione di severissimi censori teologi è passato in tutto lo Stato romano liberamente, e da Roma, da Torino ec. mi è stato lodato da dottissimi preti. Quanto al correggere i luoghi ch'Ella accenna, e che ora io non ho presenti, le prometto che ci penserò seriamente; ma ora vede Iddio se mi sarebbe fisicamente possibile, non dico di correggere il libro, ma di rileggerlo. Una dichiarazione o protesta che pubblicassi, creda Ella all'esperienza che oramai ho di queste cose, che non farebbe altro che scandalo, e quel che vi fosse di pericoloso il libro, non ne diverrebbe che più ricercato, più osservato, e più nocivo.
Godo, e molti godranno, della pubblicazione del Memoriale. Non amerei che il ritratto andasse fuori, tra quelli che non mi conoscono: è troppo brutto. Se sarà mandato a Roma, lo stampatore, malgrado di qualunque patto, ne tirerà copie per sè, come accade sempre. Io, grazie a Dio, sto benino; ma occhi e testa non riguadagnano un atomo.
Il suo Giacomo.
93.
6 Agosto
Caro Papà.
è gran tempo ch'io son privo de' suoi caratteri, ed è inutile ch'io le parli del desiderio che ho di rivederli. Le mie nuove quanto alla salute, grazie a Dio, sono sempre buone. Il mio vitto è tornato quasi a quel che era prima del mio andare a Roma. Mangio ad ore fisse, digerito o non digerito: per lo più quattro volte il giorno, cioè fo anche merenda. Mangio qualunque sorta di cose, carni, latti, frutta (compresi i fichi, ch'io non provava più da sei anni), in somma tutto, fuori solamente lardi e brodi grassi. Mangio anche fuor d'ora, e prendo bibite ogni volta che voglio, e gelati ogni sera. In fine, tutti mi dicono ch'io son diventato come un altro.
Per una combinazione, sono stato costretto ad acquistare un'opera francese del valore di sei zecchini. Ma ho fatto patto col libraio, ch'è mio amico, di non pagarla in danaro, cosa che mi rovinerebbe, ma in libri, dei quali ho promesso di mostrargli una nota dov'egli abbia a scegliere. Spero ch'Ella non voglia farmi restar bugiardo, e mi raccomando a Lei perché si compiaccia di farmi fare e mandarmi al più presto una nota di duplicati o altri libri disponibili della sua libreria. Vorrebbero esser libri buoni veramente, e molti, perché il libraio possa scegliere. Amerò anche di sapere quante copie avanzino della mia Crestomazia poetica.
Mi ami, caro Papà, come sempre, e mi benedica. Io sono con tutto lo spirito il suo tenero figlio Giacomo.
94.
Firenze 5 Settembre 1831.
Mio carissimo Papà.
Ebbi la affettuosissima sua de' 21, ma molto ritardata, perché pare che vi siano ora cordoni e visite ai confini, e che i corrieri vadano lentamente. Se si ha ad ascoltare i medici, Recanati in ogni sinistro caso dovrebbe essere esente dal contagio che minaccia di fare il giro del globo; perché si pretende che quel morbo rada sempre il piano, e non si fermi sulle alture, anzi questa si dà per osservazione costante. La mia salute, grazie a Dio, continua ad esser buona; ed io disprezzo, come Ella ragionevolmente mi consiglia, i piccoli incomodi. Del resto, a me non potrà mai esser piccolo incomodo l'impossibilità di applicare, la quale è sempre la stessa che innanzi, e me lo prova l'esperienza, e l'inutilità dei tentativi ch'io fo pure ostinatamente ogni giorno per leggere o scrivere. Mi sarà molto cara ed opportuna la nota de' libri ch'io le richiesi, quando Ella avrà potuto spedirmela. Mi raccomandi al Signore, mi benedica; mi raccomandi alla Mamma, e poi ai fratelli, e creda che poche cose o nessuna mi può riuscir così grata come le sue lettere.
95.
Roma 2 Dicembre 1831.
Caro Papà.
Sono in piedi per la prima volta, anzi per il primo momento, dopo 15 giorni di letto, benché sfebbrato già da più giorni. Mi sono avuto un poco di cura a causa della cattiva stagione, e perché essendomi coricato in autunno, conviene che mi levi d'inverno. Del resto, sono guarito perfettamente, quasi anche della tosse. Solo mi annoia molto il pensare ai riguardi che dovrò avermi quest'inverno, cioè al doverlo probabilmente passare in casa, secondo il mio antico e poco ameno costume. Ebbi la cara sua de' 15, e mi affretto ad assicurarla che niente fuorché la mia spontanea volontà mi ha condotto a Roma, per ritornare in Toscana tutte le volte che mi piacerà. Le bacio la mano con tutto il cuore.
96.
6 Dicembre
Caro Papà.
Continuo a star meglio, ma non esco ancora della camera. La testa mi regge poco, e però non posso dilungarmi. Saluto tutti, e le bacio la mano con tutta l'anima. è quasi un mese che non vedo gli Antici, cioè dal giorno medesimo che ammalai. Fucili non l'ho veduto da quasi due mesi: in casa, dove fui a rendergli visita, non lo trovai.
97.
22 Dicembre
Mio caro Papà.
Le rendo grazie infinite della mancia ch'Ella ha la bontà di mandarmi, benché non possa non dispiacermi sempre che Ella s'incomodi per amor mio. Debbo avvisarla che a questa posta nessun gruppo è arrivato per me; non so se sia necessario far delle ricerche a cotesto ufficio. Io continuo ad uscir di casa, la mattima però solamente. Vengo ogni giorno ricuperando le forze, e racquistando la regolarità della digestione che a forza di dieta e di febbre si era molto disordinata. Il povero Fucili era stato da me più volte, ad ore ch'io non era ancora visibile, nè questi di casa me ne avevano poi detto nulla.
L'altra sera lo rividi finalmente, e si stette un pezzo insieme, parlando di Recanati, e della colonia recanatese ch'è in Roma. Fui già da Monsignor Cupis, ed egli tornò da me, e mi fece mille amorevolezze, pregandomi molto a vederlo spesso, e promettendo di farmi sentire e leggere un migliaio e mezzo ch'egli ha tra Sonetti, canzoni e Capitoli di sua fattura, ch'egli vorrebbe poi farmi rivedere o limare.
Questa cosa mi ha spaventato talmente, che malgrado il bene che gli voglio, e le gentilezze che mi fa, non ho avuto il coraggio di ritornarci. Procurerò di veder Donna Livia, la quale abita molto lontano da me. L'assicuro che il guardar la lista delle visite che per istretta convenienza mi occorrerebbe di fare, mi agghiaccia il sangue. Assolutamente colle mie gambe sempre deboli, in questa città che non finisce mai, con un pavimento infame infernale, che dopo mezz'ora di cammino vi fa sentir dieci volte più stanco che quel di Firenze, di Bologna, di Milano dopo due ore; io non riesco a far nulla nè per il dovere nè per il piacere. Ed ho già rinunziato alla speranza di godermi le infinite belle cose di Roma, perché queste distanze non fanno per me, e le carrozze o i fiacres molto meno. Desidero sapere che la Mamma sia guarita della tosse. Le bacio la mano, e le auguro infinitamente prospere le vicine feste.
Il suo Giacomo.
D. Paolo Melchiorri, che sabato si è fatto diacono, mi ha raccomandato di salutarla tanto. Spera di mandarle qualche nuovo associato alla sua traduzione degli Evangelii.
98.
Roma 3 Gennaio 1832.
Mio caro Papà.
Con dispiacere e con maraviglia ho sentito che sieno stati in pena pel mio silenzio, quando io, appunto per impedir questo, aveva scritto il 12 a Paolina, dandole nuova della mia prima uscita e del secondo vessicante evitato, e d'altre mie inezie. Il gruppo mi fu ritardato per negligenza di questo ufficio, essendo arrivato qua debitamente il dì 13. Mi è stato assai caro vedere il suo manifesto; e il saggio ch'Ella dà della sua traduzione mi è piaciuto molto ma molto. Già ne aveva sentito parlare qui da parecchi con molta lode. Solamente, se si è a tempo, vorrei che nell'opera si mutasse una parola, cioè dov'Ella dice aveva giaciuto, si dicesse era giaciuto, perché giacere, come verbo neutro, abbia l'ausiliare essere, secondo la regola. Del resto la concordanza da lei intrapresa è opera, a quel ch'io credo, di non poca fatica e ingegno. Spero ch'Ella mi farà tosto avere le nuove di Carlo, sopra il quale non lascio di stare in qualche pena. Io sto bene, ma obbligato a grande e noioso riguardo; e trovo quest'aria contrarissima al mio fisico, e nemica mortale del digerire. Almeno, mentre a Firenze non v'era più cibo ch'io non digerissi senza fatica, qui non v'è cibo abbastanza sano che mi convenga, ed ogni menomissima libertà mi fa male. Mi benedica, caro Papà, e creda all'affezione colla quale io le desidero prospero il nuovo anno.
99.
Roma 8 Marzo 1832.
Mio caro Papà.
I Dialoghetti, di cui la ringrazio di cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano. Mi dispiace molto di un falò del quale mi scrisse Paolina; tanto più che non posso credere che vi sia o vi sia stato veramente pericolo. Io forse con qualche mia colpa, ho ripreso un poco di febbre; la quale però, mediante un buon purgante, passò la sera del primo giorno, e mi lasciò un discreto raffreddor di petto, il quale pure colla cura, e collo stare in casa, par che vada a finire: e spero che non m'impedirà di pormi in legno per Firenze, come ho intenzione di fare tra pochi giorni, se piace a Dio. Tornerò a scriverle prima della mia partenza, e gliel annunzierò più precisamente. Matteo e Don Paolo, partito per Perugia, dove è stato mandato di stanza, mi raccomandano di riverirli. Così Fucili, il quale veggo non di rado; ottima persona e molto sensata a parer mio. Fui da donna Livia, la quale si loda moltissimo di Recanati, e massime delle attenziosi usatele da lei. Le auguro una buona quaresima, e baciandole la mano la prego di cuore a benedirmi. Il suo Giacomo.
Mi dispiace proprio nell'anima infinitamente di seccarla. Ma mi trovo forzato da estrema necessità, essendomi infamemente negati da Napoli 107 scudi da me prestati in contante; del che sarebbe lungo a narrarle la storia. Questa cosa sconcerta tutte le mie disposizioni finanziarie, e mi costringe a ricorrere a lei. Se trovassi qui danari in prestito, volentierissimo farei un debito piuttosto che molestarla; ma chi vorrebbe prestare a me, conosciutissimo per quel che sono? Il danaro, consegnato a cotesto signor Regini, diretto al signor Luigi Ciambene Segretario Generale delle poste pontificie, arriverà come franco, senza che costì Ella paghi nulla.
100.
17 Marzo [1832].
Caro Papà.
Le scrissi il giorno 8. Oggi parto per Firenze. Torno a raccomandarmi a Lei, trovandomi propriamente coll'acqua alla gola, perché non ho potuto ritardare neppur di un giorno di più la mia partenza, e dall'altra parte arriverò a Firenze con tanto danaro quanto mi potrà bastare a vivere una settimana. Ella vede l'urgenza della mia situazione, e l'assicuro che nemmeno in termine di morte aprirei bocca per dimandare in prestito a chicchessia, essendo più che certissimo che vedrei impallidire la persona a cui dimandassi, perché tutti sanno ch'io non ho nulla.
Confido dunque in Lei; e s'Ella spedirà il danaro, come le scrissi, a questo Signor Luigi Ciambene Segretario generale delle poste pontefice, egli me ne spedirà subito una cambiale a Firenze. Le bacio la mano, e di cuore la prego a non dimenticarmi, non potendo il mio bisogno essere più pressante.
101.
Firenze 23 Marzo 1832.
Mio caro Papà.
Arrivai qua iersera, dopo sei giorni di prospero viaggio, il quale, grazie a Dio, non solo non mi ha nociuto, ma mi ha guarito affatto de' residui del raffreddore. E non mi par poco, aver superate le alture degli Apennini nei giorni equinoziali senza prender punture, ed aver traversate quelle orride vie tra Roma e Siena senza essere assassinato. Qui tutto è tranquillo, ed è impossibile esprimerle il sentimento di pace e di sicurezza che si prova entrando in Firenze, mentre in Roma convien sempre tremare per gli amici o i parenti che si trovan fuori la sera, non passando sera che non accada qualche assassinio, fino sul Corso stesso o in Piazza di Spagna, a un'ora o due di notte.
Abbraccio i cari fratelli, e bacio la mano con tutto il cuore a Lei ed alla Mamma, dimandando la benedizione.
24 Marzo.
Ricevo la carissima sua de' 20, e la ringrazio mille e mille volte della sua premura in soccorrermi. Scrivo oggi stesso al Giambene (non Ciambene, come le scrissi prima per errore) sollecitandolo a spedirmi subito il danaro, il libro e la lettera, che non potei ricevere il dì 17 in Roma, essendo partito prima della distribuzione postale.
102.
5 Aprile
Caro Papà.
Dal Giambene ho ricevuto il tutto, meno la lettera da Lei annunziatami; il che non mi fa meraviglia, atteso il costume dell'infame posta di quell'infelice paese, dove continuamente ed a tutti accade di ricevere una lettera 20, 30, 40 giorni dopo quello dell'arrivo che vi è marcato sopra; e ciò non per motivi politici, ma per una strana ed inesplicabile incapacità, per cui non sanno trovare i nomi; incapacità unica al mondo, e non paragonabile se non alle tante altre di quel povero e disperato governo. Anche qua ho trovato i Dialoghetti molto conosciuti, e benché i principii e lo spirito generale che qua è diverso da quel di Roma e di Modena, non li lasci divenir così popolari qui come là, tutti nondimeno rendono giustizia all'ingegno e al merito dell'autore, essendo i Toscani assai ragionevoli ed imparziali nel giudicare. La ringrazio del nuovo esemplare che me ne ha spedito, tanto più ch'io n'era rimasto affatto senza, essendomi stato ritenuto da una Signora anche l'ultimo ch'io aveva serbato per me. Se qualche cosa d'importante si conteneva nella sua ultima a Roma, spero che avrà la bontà di ripetermelo. Io ho avuto grandi disgrazie di trovare occupato il mio solito quartiere, la mia solita Locanda, e poi per ultimo trovar umido il nuovo quartiere che avevo preso, onde sono obbligato a sloggiare subito con danno e con grave incomodo.
Saluto teneramente tutti, e la prego con tutto il cuore a benedirmi. Il suo Giacomo.
103.
28 Maggio
Mio caro Papà.
Paolina mi dice che io lascio passare i mesi senza scrivere. Questo mi prova che le mie lettere si perdono, come fra l'altre veggo che se n'è perduta una, dov'io le parlava dei libri che ho ricevuti dal Nobili, e rispondeva ad alcune sue questioni. L'articolo sull'Istoria Evangelica, ch'Ella vedrà nell'ultimo numero dell'Antologia, è del Montanari di Savignano, uno de' collaboratori.
Nel medesimo numero, e nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me.
A Roma, dove la sua persona è più conosciuta, due terzi del pubblico lo credevano mio: ed io non mi era appena nominato o fatto nominare in qualunque luogo, che era salutato come autore de' Dialoghetti. In Toscana poi tutti quelli che lo credevano di Leopardi (e non di Canosa o d'altri ai quali è stato attribuito) lo credevano mio. A Lucca il libro correva sotto il mio nome. Si dice ch'egli abbia operato grandi conversioni per mezzo di questa credenza: così almeno mi hanno detto molti: e il duca di Modena, che probabilmente sa la verità della cosa, nondimeno dice pubblicamente che l'autore son io, che ho cambiato opinioni, che mi sono convertito, che così fece il Monti, che così fanno i bravi uomini. E dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per due ragioni.
L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, e massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. Se il romanzo di Manzoni fosse stato attribuito a me, io non dopo 4 mesi, ma il giorno che l'avessi saputo, avrei messo mano a smentire questa voce in tutti i Giornali. L'altra, ch'io non voglio nè debbo soffrire di passare per convertito, nè di essere assomigliato al Monti ec. ec. Io non sono stato mai nè irreligioso nè rivoluzionario di fatto nè di massime. Se i miei principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e ch'io rispetto in Lei ed in chiunque li professa di buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io dovessi nè debba nè voglia disapprovarli. Il mio onore esigeva ch'io dichiarassi di non aver punto mutato opinioni, e questo è ciò ch'io ho inteso di fare ed ho fatto (per quanto oggi è possibile) in alcuni Giornali. In altri non mi è stato permesso.
Credo ch'Ella approverà la mia risoluzione. Altre cose le direi e le racconterei in tal proposito, ma i miei occhi sono troppo affaticati, e la posta parte. Forse in altra lettera tornerò sopra questo argomento.
Le bacio la mano, e le chiedo di tutto cuore la benedizione.
Il suo Giacomo.
104.
Firenze 3 Luglio 1832.
Mio carissimo Papà.
Iddio mi liberi dal sentir dispiacere delle cose che Ella con paterna bontà mi dice nella sua affettuosissima dei 12 Giugno. Io gliene rendo grazie anzi con tutto il cuore, e con la mia solita sincerità: e piacendo a Dio, non lascerò di profittare de' suoi avvisi nel modo che mi sembrerà più conveniente e più utile. Quanto alla maniera secca nella quale era concepita la mia dichiarazione, essa era di precisa necessità, perché nessuna censura avrebbe lasciata passare una parola nè favorevole nè contraria al libro, o alle sue massime, o ad alcuna parte del medesimo, nè avrebbe permesso una minima ombra di discussione su tal proposito. Oltre che la mia relazione coll'autore del libro era di tal natura, da escludere per parte mia ogni dimostrazione sopra di esso in qualunque senso.
Ora sono a parlarle di un argomento insolito, del quale se mi è molto dispiacevole il ragionare, non mi sarà dispiacevole punto che il mio discorso non abbia verun effetto. Io credo ch'Ella sia persuasa degli estremi sforzi ch'io ho fatti per sette anni affine di proccurarmi i mezzi di sussistere da me stesso. Ella sa che l'ultima distruzione della mia salute venne dalle fatiche sostenute quattro anni fa, per lo Stella, al detto fine. Ridotto a non poter più nè leggere nè scrivere nè pensare (e per più di un anno nè anche parlare), non mi perdetti di coraggio, e quantunque non potessi più fare, pur solamente col già fatto, aiutandomi gli amici, tentai di continuare a trovar qualche mezzo. E forse l'avrei trovato, parte in Italia, parte fuori, se l'infelicità straordinaria de' tempi non fosse venuta a congiurare colle altre difficoltà, ed a renderle finalmente vincitrici. La letteratura è annientata in Europa: i librai, chi fallito, chi per fallire, chi ridotto ad un solo torchio, chi costretto ad abbandonare le imprese meglio avviate. In Italia sarebbe ridicolo ora il presumere di vender nulla con onore in materie letterarie, e di proporre ai librai delle imprese nuove: da Francia, Germania, Olanda dove io aveva mandata una gran quantità di mss. filologici con fondatissime speranze di profitto, non ricevo, invece di danari, che articoli di Giornali, biografie e traduzioni. Mi trovo dunque, com'Ella può ben pensare, senza i mezzi di andare innanzi.
Se mai persona desiderò la morte così sinceramente e vivamente come la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in ciò mi fu superiore. Chiamo Iddio in testimonio della verità di queste mie parole. Egli sa quante ardentissime preghiere io gli abbia fatte (sino a far tridui e novene) per ottener questa grazia; e come ad ogni leggera speranza di pericolo vicino o lontano, mi brilli il cuore dall'allegrezza. Se la morte fosse in mia mano, chiamo di nuovo Iddio in testimonio ch'io non le avrei mai fatto questo discorso: perché la vita in qualunque luogo mi è abbominevole e tormentosa. Ma non piacendo ancora a Dio d'esaudirmi, io tornerei costà a finire i miei giorni, se il vivere in Recanati, soprattutto nella mia attuale impossibilità di occuparmi, non superasse le gigantesche forze ch'io ho di soffrire. Questa verità (della quale io credo persuasa per l'ultima acerba esperienza ancor Lei), mi è talmente fissa nell'animo, che malgrado del gran dolore ch'io provo stando lontano da Lei, dalla Mamma e dai fratelli, io sono invariabilmente risoluto di non tornare stabilmente costà se non morto. Io ho un estremo desiderio di riabbracciarla, e solo la mancanza de' mezzi di viaggiare ha potuto e potrà nelle stagioni propizie impedirmelo: ma tornar costà senza la materiale certezza di avere il modo di riuscirne dopo uno o due mesi, questo è ciò sopra di cui il mio partito è preso, e spero che Ella mi perdonerà se le mie forze e il mio coraggio non si estendono fino a tollerare una vita impossibile a tollerarsi.
Non so se le circostanze della famiglia permetteranno a Lei di farmi un piccolo assegnamento di dodici scudi il mese. Con dodici scudi non si vive umanamente neppure in Firenze, che è la città d'Italia dove il vivere è più economico. Ma io non cerco di vivere umanamente: farò tali privazioni, che a calcolo fatto, dodici scudi mi basteranno.
Meglio varrebbe la morte, ma la morte bisogna aspettarla da Dio. In caso che Ella potesse e volesse questo, non avrebbe che a porre di due in due mesi a mia disposizione la somma di 24 scudi presso qualche suo corrispondente in Roma, avvisandomi la persona; sopra la quale io trarrei di qua la detta somma per cambiale. Avrei caro che il suo ordine fosse per 24 francesconi, il che a Lei non porterebbe grande aumento di spesa, e a me farebbe gran divario, essendoci ora grandissima perdita nel cambio degli scudi romani o colonnati con francesconi. Ed Ella sa che i francesconi si spendono qui come costà i colonnati.
Se le circostanze, mio caro Papà, non le consentiranno di soddisfare a questa mia domanda, la prego con ogni possibile sincerità e calore a non farsi una minima difficoltà di rigettarla. Io mi appiglierò ad un altro partito: e forse a questo avrei dovuto appigliarmi senza altrimenti annoiar Lei con questo discorso: ma come il partito ch'io dico, è tale, che stante la mia salute, non è verisimile che io in breve tempo non vi soccomba, ho temuto che Ella avesse a fare un rimprovero alla mia memoria dell'averlo abbracciato senza prima confidarmi con Lei sopra le cose che le ho esposte. Del rimanente, io da un lato provo tanto dolore nel dar noia a Lei, e dall'altro sono così lontano da ogni fine capriccioso e da ogni lieta speranza nel voler vivere fuori di costà che ho perfino desiderato, ed ancora desidererei, che mi fosse tolta la possibilità di ogni ricorso alla mia famiglia, acciocché non potendo io mantenermi da me, e molto meno essendomi possibile il mendicare, io mi trovassi nella materiale, precisa e rigorosa necessità di morir di fame.
Scusi, mio caro Papà, questo malinconico discorso che mi è convenuto tenerle per la prima e l'ultima volta della mia vita. Si accerti della mia estremissima indifferenza circa il mio avvenire su questa terra, e se la mia domanda le riesce eccessiva, o importuna, o non conveniente, non ne faccia alcun caso.
In ogni modo, se Dio vorrà ch'io viva ancora, io non cesserò di adoperarmi, come per lo passato, con tutte le mie forze, per proccurarmi il modo di vivere senza incomodo della casa, e per far cessare le somministrazioni che ora le chiedo.
Mi benedica, mio caro Papà, e preghi Dio per me, che le bacio la mano con tutto il cuore. Mille saluti cordiali al Zio Carlo e ai cugini. Nuovamente le chiedo scusa della malinconia con la quale per necessità, e contro ogni mia voglia ed abitudine, sono venuto questa volta ad importunarla.
Il suo affettuosissimo figlio Giacomo.
105.
Firenze 24 Luglio 1832.
Caro Papà.
Le scrissi il 3 dello spirante un gran letterone. Non avendo risposta, sto in molta pena, prima perché mi rincrescerebbe di avere a rifare quella fatica, per me enorme; poi perché la cosa di cui le parlavo, è urgentissima. Non è possibile che Ella non voglia rispondermi, e d'altronde è una grandissima fatalità che sempre si perdano le lettere che più mi costano e che più importano. La prego a volermi trar subito di questa incertezza perché l'urgenza, torno a dire, è grandissima.
Basterà una riga che mi annunzi che debbo tornare a scrivere. Le bacio la mano con tutto il cuore, e chiedo la sua benedizione.
106.
Firenze 14 Agosto 1832.
Mio Caro Papà
Prevalendomi del permesso da Lei datomi nella carissima sua dei 4, ho tratto oggi una cambialina di 24 francesconi a 20 giorni data sopra il sig. Luigi Giambene segretario generale delle poste pontificie il quale mi farà il piacere di accettarla, ed al quale ho acclusa una letterina a lei diretta (per esserle da lui spedita), dove la prego di fargli pervenire quella somma prima della scadenza. Varrà quella somma, se così le piace per le mesate di Agosto e Settembre. Io ho già esatto qui, com'Ella intende, il danaro dal banchiere a cui ho consegnata la cambialina.
Godo di sentire ch'Ella sia così occupata, come mi scrive, poiché questa occupazione mi è annunzio di suoi nuovi lavori. Ha Ella mai veduta la ristampa dei Dialoghi fatta in Toscana? Io vidi, al suo passaggio da Firenze, il famoso abate La Mennais, abilissimo parlatore.
Del permesso ch'Ella mi ha dato, e della bontà e cordialità che sempre mi dimostra, io le rendo quelle sterili grazie che posso, ma prego caldamente Iddio che gliene renda abbondante e solido frutto.
Le bacio la mano con tutta l'anima.
Il suo gratissimo figlio Giacomo.
107.
Firenze 13 Settembre 1832.
Mio caro Papà
Ai 14 di Agosto io, a tenore della sua carissima dei 4, trassi di qua una cambialina a 20 giorni data, per 24 francesconi, sopra il sig. L. Giambene a Roma, all'ordine di questo banchiere Wolf e C., dal quale, com'Ella intende, nel medesimo giorno ricevetti il contante.
Di ciò le diedi avviso da Roma per mezzo del Giambene, e direttamente di qua, pregandola a far pervenire il danaro prima della scadenza al detto Giambene, Segretario generale delle poste pontificie. Non ho notizia ch'egli abbia ricevuto il danaro, ma non ne dubito punto: Ella bene intende che in ciò è interessato seriamente il mio onore, trattandosi di cambiale. Dovetti pregare il Giambene, non avendo io altri a cui dirigermi con sicurezza in Roma, e non avendomi Ella indicato un suo corrispondente colà, sopra cui dovessi trarre. Io non vedo altro mezzo di aver danaro dalla Marca in Toscana, se non le cambiali. Ma, come la pregai nella prima mia, così la prego ora, che Ella medesima voglia indicarmi un suo corrispondente qualunque, sopra il quale io possa ogni due mesi trarre una cambialina di 24 francesconi, la quale da questo corrispondente, autorizzato da Lei in prevenzione, sarebbe accettata, e pagata poi alla scadenza col danaro che Ella gli farebbe giungere. Questo corrispondente può essere ogni sorta di persona, ed in qualunque luogo a lei piaccia; può essere p. es. il suo avvocato o curiale in Roma; può essere un suo conoscente in Pesaro, Ancona, Bologna ecc.; può in somma e deve essere quella persona alla quale le sia più facile e più comodo di far giungere in mano 24 francesconi ogni due mesi. Potrei anche trarre sopra Lei stessa a Recanati, se così le piacesse; benché ciò sia più difficile, non trovandosi ad esitare una cambiale per costà.
Mi duole assai di annoiarla, sapendo quanto Ella è occupata. Ma basterà una sua riga sola prima della fine di Settembre, nella quale Ella abbia la bontà di chiarirmi sopra questo particolare. Altrimenti io sarei sempre obbligato a raccomandarmi a questo e a quello, che non autorizzato da Lei, per favore, accettasse una mia cambiale, sopra il semplice appoggio di un mio biglietto diretto a Lei; e forse non sempre troverei chi mi compiacesse.
Le bacio la mano, e con tutto il cuore la prego a benedire il suo Giacomo.
Ora appunto ricevo avviso dal Giambene che nulla gli è pervenuto da Recanati fino al dì 11 in cui egli scrive. Io sudo freddo, e gli scrivo subito di rivalersi sopra di me, con cambiale, ch'io accetterò immediatamente, e non avrò poi come pagare. Se le è caro il mio onore, la supplico a far giungere senza verun indugio al Giambene i 24 francesconi ch'io trassi, per avermi Ella detto che sarebbero subito pagati. Nell'avvenire, se questo mezzo delle cambiali, dove è troppo fieramente compromesso l'onore delle persone, le piacesse poco, Ella me ne suggerisca uno più a proposito.
108.
8 Ottobre [1832].
Caro Papà mio.
Mi levo in questo momento dopo dodici giorni di letto, con 7 o 8 febbri cagionate da un reuma di petto, ch'è il terzo che ho in 10 mesi. Sono proprio abîmé di debolezza, e costretto, con mio dolore, ad esser brevissimo. Del resto vo sempre, benché lentamente, migliorando. Io ho sempre sentito da molti già nominare e lodare il suo Buonafede, ma non mai visto ancora, non che ricevuto, quantunque lo desideri molto. Le bacio con tutto il cuore la mano. Suo amorosissimo figlio Giacomo.
109.
Firenze 13 Ottobre 1832.
Mio caro Papà.
Non posso esprimerle la gratitudine che m'ispirano le sue due ultime, sebbene da esse non conosca nulla di nuovo, conoscendo il suo cuore. La ringrazio affettuosamente molte e molte volte, e l'assicuro della mia tenera riconoscenza. Scriverò alla Mamma subito che potrò.
Ora sono troppo debole, e appena scrivo queste due righe, pregandola di far le mie scuse colla marchesa se le accludo questa così seccamente senza nulla aggiungere. La malattia mi ha fatta una forte impressione, perché mi ha trovato straordinariamente estenuato dal caldo. Vengo risorgendo, ma molto adagio.
Mi benedica, caro Papà mio, e mi creda sempre suo affettuosissimo e riconoscentissimo figlio.
110.
Firenze 24 Ottobre 1832.
Caro Papà mio.
Torno in questo punto da una breve passeggiata che ho fatto dopo un mese giusto di ritiro.
Sto sufficientemente, e spero che le forze mi torneranno presto, se la stagione mi lascerà fare un poco di moto. Non sono ancora deciso dove passar l'inverno, e la decisione dipenderà in gran parte dalla mia salute: ma benché questo clima non sia eccellente, si può scusare con questo, che gli altri due reumi ultimi mi favorirono in Roma, non qui.
Ranieri mi aveva già scritto da Roma l'incontro avuto, lodandosi della sua gentilezza. Aspetto a momenti l'esemplare del Bonafede, che deve già essere in Firenze. Caro Papà mio, scriverei più, ma gli occhi non mi concedono altro. Saluto tutti, e bacio a Lei affettuosamente la mano. Il suo Giacomo.
111.
Per gentilezza della Sig.ra Marchesa Roberti
Mio caro Papà
Scrivo oggi alla Mamma, secondo il suo suggerimento. Acconsentendo essa, la prego a volermi tosto dire sopra chi potrò trarre la cambialina.
Qui non si prendono cambiali dai banchieri se non per Roma e Bologna in tutto lo Stato Pontificio. Giambene non è più al caso, perché si trova in bisogno, e con citazioni addosso. Voglia dunque dirmi la persona a cui le sarà più comodo di far tenere il danaro in Roma o in Bologna.
Ciò che dico alla Mamma dei mesi scorsi da Luglio in qua, è anche meno del vero, perché in fatti senza i 54 francesconi che debbo alla sua bontà, non sarei potuto vivere in nessun modo, non avendo altro avanzo che 30 sc. dei quali la metà è ita nella malattia.
Io sono innamorato del suo Buonafede, che leggo quanto permettono i miei occhi straordinariamente infermi.
Libro pieno d'interesse, e degno di servir d'esempio a chi vuole scriver libri piacevoli ed utili in questo secolo di frivolezze. Sarebbe desiderabile che quel genere fosse molto coltivato.
L'inverno, forse fo male, ma credo che lo passerò qui, non arrischiandomi ad un viaggio, nemmeno di poche miglia, coll'estrema suscettibilità lasciatami dalla malattia: ebbi una febbretta l'altra notte per aver fatta una visita dentro casa alle padrone.
Mi riverisca la Marchesa, e mi benedica, caro Papà: le bacia con tutto il cuore la mano il suo Giacomo.
Il cambio, volendo avere qui 24 francesconi, porta in Roma scudi 25.26. è molto, ma non si trova per meno, e Giambene, benché per la posta, mi ha fatto avere anche maggior perdita.
112.
11 Dicembre
Mio caro Papà.
Solo colle lettere dell'ultimo ordinario ho ricevuto la carissima sua de' 27 Novembre, benché arrivata qui il 4. Della mia gratitudine alla sua tanta bontà non potrei mai parlarle bastantemente. Oggi o domani, se potrò uscire, mi varrò, secondo il suo avviso, sopra il Zio Carlo, a 15 o 20 data. Con lui poi m'intenderò circa l'usare se sarà possibile, che non credo, altri mezzi che cambiali per avere il danaro qui. Io sto passabilmente, salvo degli occhi, oramai affatto inabili. Son breve per estrema necessità. Il mio desiderio di rivederla è almeno pari al suo, e spero che non sia lontano il momento di soddisfarlo.
Mia cara Mamma.
Le sue poche righe mi hanno commosso.
Dio solo solo comprende quanto mi costi il darle cagione d'incomodo, e quanto sia tenera la mia gratitudine alla sua cordialità. Le bacio la mano con tutto quanto l'affetto dell'animo.
Il suo Giacomo.
113.
Firenze 23 Marzo [1833].
Papà mio.
La sua dei 2 mi straccia l'anima. Dio sa quanto ho penato pensando a loro. Ma fare scrivere mi pareva peggio, e scrivere io non poteva assolutamente, nè posso ancora, benché la vista paia, grazie a Dio, in salvo.
Benedica, la prego istantissimamente, il suo amantissimo figlio.
114.
7 Luglio
Papà mio.
Sono stato più di 50 giorni combattendo con una brutta e minacciosa malattia intorno agli occhi, uno de' quali era già semichiuso. Mediante una savia e semplice cura, il principio maligno ch'io ho nel sangue sembra neutralizzato in quella parte. La sua dei 7 maggio mi causò un dolore immenso.
Dio mi conceda di rivederla presto.
Il suo Giacomo.
115.
Firenze 1° Settembre 1833.
Mio caro Papà.
Alla mia salute, che non fu mai così rovinata come ora, avendomi i medici consigliato come sommo rimedio l'aria di Napoli, un mio amicissimo che parte a quella volta ha tanto insistito per condurmi seco nel suo legno ch'io non ho saputo resistere e parto con lui domani.
Provo un grandissimo dolore nell'allontanarmi maggiormente da lei; ed era mia intenzione di venire a passare questo inverno a Recanati. Ma sento pur troppo che quell'aria, che mi è stata sempre dannosa ora mi sarebbe dannosissima; e d'altra parte la malattia de' miei occhi è troppo seria per confidarla ai medici ed agli speziali di costì. Avrei voluto almeno, allungando la strada, passare per Recanati. Ma ciò non era compatibile col profittare della bellissima occasione che mi si è presentata. Passato qualche mese a Napoli, se ne ritrarrò quel miglioramento che ne spero, avrò finalmente l'incredibile piacere di riabbracciarla. Da Roma, dove sarò domenica sera Le darò di nuovo le mie notizie.
Sono costretto a servirmi della mano altrui, perché quelle poche ore della mattina, nelle quali con grandissimo stento potrei pure scrivere qualche riga, le spendo necessariamente a medicarmi gli occhi.
Mi benedica mio caro Papà; le bacio la mano con tutta l'anima.
116.
Roma 28 Settembre 1833.
Mio caro Papà.
Ho ricevute le sue amorosissime dei 17 e dei 21. Il viaggio ed il cambiamento dell'aria mi hanno fatto qualche bene: ma non quanto io speravo. Gli occhi non hanno guadagnato nulla. Obbligato a servirmi sempre del ministero altrui, appena arrivato, pregai Antici a darle le mie notizie. Oggi ho potuto stabilire il giorno della mia partenza che sarà lunedì, per essere a Napoli la sera appresso. A primavera senza dubbio, se Dio mi conserva la vita, correrò a riabbracciarla; cosa della quale non è minore impazienza la mia che la sua. Abbraccio caramente i fratelli; e a Lei ed alla Mamma bacio mille volte la mano.
Il suo Giacomo.
117.
Napoli 5 Ottobre 1833.
Caro Papà.
Giunsi qua felicemente cioè senza danno e senza disgrazie. La mia salute del resto non è gran cosa e gli occhi sono sempre nel medesimo stato. Pure la dolcezza del clima la bellezza della città e l'indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli. Trovo qui la sua carissima del 10 Settembre. La falsa notizia data dai fogli di Francia nacque dall'aver confuso me con altra persona che porta il mio cognome. Circa i miei principii non le dirò altro se non che se i tempi presenti avessero alcuna forza sopra di loro non potrebbero altro che confermarli. Iddio mi conceda di assicurarnela a voce.
Il suo Giacomo.
118.
Napoli 5 Aprile 1834.
Mio caro Papà.
Dopo la sua dei 23 dicembre, alla quale risposi subito, io non ho più notizie da casa. Questo silenzio mi conferma il dispiacevole sospetto mossomi, come Le dissi, da un'espressione della sua ultima, che le mie lettere di qua non le giungano.
Il giovamento che mi ha prodotto questo clima è appena sensibile: anche dopo che io sono passato a godere la migliore aria di Napoli abitando in un'altura a vista di tutto il golfo di Portici e del Vesuvio, del quale contemplo ogni giorno il fumo ed ogni notte la lava ardente. I miei occhi sono sotto una cura di sublimato corrosivo. La mia impazienza di rivederla è sempre maggiore, ed io partirò da Napoli il più presto ch'io possa, non ostante che i medici dicano che l'utilità di quest'aria non si può sperimentare che nella buona stagione.
Se Dio permette che questa lettera le giunga, mi consoli subito con le sue nuove. Le bacia la mano con tutta l'anima, e mille volte saluta la Mamma e i fratelli tenerissimamente il suo Giacomo.
119.
Napoli 2 Settembre 1834.
Mio caro Papà.
Sono stato lungamente senza scriverle, vergognandomi di non poterle avvisare l'epoca della mia partenza; sebbene la vergogna sarebbe cessata se avessi potuto ragguagliarla per lettera di tutti gl'imbarazzi che mi hanno a viva forza soprattenuto, sempre nella speranza e nella ferma risoluzione di partire di giorno in giorno. Oggi tale ragguaglio, se fosse possibile, sarebbe inutile, perché glielo farò io a voce fra poco, e so bene ch'Ella mi darà ragione. Intanto la cura de' miei occhi, grazie a Dio, è andata assai bene, e sono, si può dir, guariti del male esterno: l'interno non è curabile.
Oltre l'essermi già servito dei soliti colonnati 25 che doveano scadere a Settembre, io sono stato costretto a trarre ancora sopra lo zio Antici un'altra cambialetta straordinaria per colonnati 33 pari a ducati 40 pagabili alla fine del corrente. Con questa somma verrò accomodando le mie cose nei pochi giorni che dovrò rimanere ancora e supplirò alle interminabili spese che precedono un viaggio.
Poi, o di qua, o personalmente a Roma presso lo Zio, dovrò pure valermi sopra la famiglia di quello che importerà strettamente il viaggio stesso. Difficilmente le potrei significare quanto mi pesino e mi attristino questi incomodi che sono obbligato a recar loro: e schiettamente le dico che una delle forti ragioni che mi hanno fatto indugiare fin qui, è stata la speranza di pur raccapezzare qualche moneta per fare il viaggio senza loro aggravio. Ma ogni mio sforzo essendomi venuto fallito, spero che Ella e la Mamma, a cui desidero che la presente sia comune, mi perdoneranno un ardire al quale sono costretto da un'estrema necessità, e di cui non mi consola che il pensiero di presto riabbracciarli.
Sono breve per la solita causa degli occhi. All'uno e all'altra bacio mille e mille volte la mano. Il loro Giacomo.
La prego di scrivermi ancora una volta a Napoli, se questa le giunge regolarmente.
120.
Napoli 21 Ottobre 1834.
Mio caro Papà.
Io non sono partito ancora, perché il mio amico Ranieri, con cui farò il viaggio di Roma, dove egli deve condurre due sue sorelle in educazione, è costretto ad aspettare il ritorno di Sicilia del cardinale Zurla, al quale qui ho parlato ancor io per questo affare. Egli le farà ricevere per eccezione, perché altrimenti non potrebbero per l'età. Il cardinale sarà a Roma ai primi di Novembre, e dietro il suo arrivo, sarà la nostra mossa.
Questo ritardo non aspettato (perché noi speravamo di conchiudere la cosa col cardinale qui al suo passaggio in Settembre), mi ha costretto a trarre ancora (colla solita dilazione dei 30 giorni) la cambialetta di Novembre. Io sto, grazie a Dio, assai benino, e spero di non farle paura al mio arrivo, come avrei fatto qualche mese addietro.
Ranieri la riverisce distintamente, ed io con tutto il cuore le chiedo la benedizione.
121.
Napoli 27 Novembre 1834.
Mio caro Papà.
La morte del Cardinale Zurla ha sospeso la partenza del mio amico Ranieri per Roma, ed ha privato me di questa propizia occasione, la quale mi avrebbe risparmiato buona parte della spesa che bisogna a me per viaggiare comodamente, massime in questa stagione. A questo imbarazzo se n'è aggiunto un altro più grave, cioè della casa; perché in questa civilissima città non si trovano quartieri ammobigliati, se non a prezzi enormi, e però tutti i forestieri che vogliono stare un pezzo, se non sono inglesi, sono costretti a prendere un quartiere nudo, e ammobigliarlo alla meglio o alla peggio, come ho fatt'io. Ma questi quartieri, che pur sono carissimi, non si trovano a mesi, ma almeno ad anno: ed a me fu data certa speranza che avrei potuto subaffittare il mio, volendo partire. Ma come dai discorsi ai fatti si trova sempre gran differenza, oggi non v'è alcuno che voglia il mio quartiere: cosa naturalissima, perché nessuno qui prende quartieri a mesi per la stessa ragione per la quale io ho dovuto prenderlo ad anno. Ora io non sarei lasciato partire senza una garanzia, la quale io troverei, non senza qualche mia difficoltà a domandarla; ma in ogni modo avrei a pagare la casa, senza abitarla, fino a tutto Aprile, termine qui delle pigioni. Questi ostacoli mi hanno tenuto qui ancora, con mio estremo dispiacere ed incomodo avendo io preparata ogni cosa per la partenza.
Nondimeno, accomodandosi questo affare della casa, come me n'è data ancora lusinga, e molto più, risolvendosi, come pare, il mio amico Ranieri a partire per Roma nel mese entrante, io sono risolutissimo di mettermi in viaggio malgrado il freddo; perché oltre all'impazienza di rivederla, non posso più sopportare questo paese semibarbaro e semiaffricano, nel quale io vivo in un perfettissimo isolamento da tutti. Del rimanente Ella non si dee maravigliare della mia tardanza, perché qui ogni affare d'una spilla porta un'eternità di tempo; ed è così difficile il muoversi di qua, come il viverci senza crepar di noia. La mia salute, grazie a Dio, è molto tollerabile, e perfino io leggo un pochino e scrivo, attesa, credo, la benignità non ordinaria della stagione passata e presente. Ella mi raccomandi al Signore, mio caro Papà, e mi benedica: le bacio la mano col cuore, sospirando di farlo finalmente di nuovo in persona.
Il suo Giacomo.
122.
Napoli 3 Febbraio 1835.
Mio caro Papà.
Sono stato per due interi mesi in una dolorosa oscurità circa le sue nuove, non vedendo risposta alla mia degli ultimi di Novembre, nè sapendo come interpretare a me stesso il suo silenzio, sinché finalmente oggi mi è stata mandata dalla posta la sua carissima dei 4 Dicembre giunta qui l'11 del med. Più che l'altre circostanze, un freddo intenso e straordinario cominciato qui ai 10 di decembre e continuato costantemente per un mese, mi ha impedito di pormi in via, com'io sperava di fare, prima del nuovo anno. Ora il mio principale pensiero è di disporre le cose in modo, ch'io possa sradicarmi di qua al più presto; ed Ella viva sicura che quanto prima mi sarà umanamente possibile, io partirò per Recanati, essendo nel fondo dell'anima impazientissimo di rivederla, oltre il bisogno che ho di fuggire da questi Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e b. f. degnissimi di Spagnuoli e di forche. La mia salute, grazie a Dio, continua a migliorare notabilmente; effetto, cred'io, della stagione sana, più che del clima. Mi benedica di nuovo, e riceva infiniti augurii d'ogni maggiore prosperità dal suo amantissimo figlio Giacomo.
123.
Napoli 25 Aprile 1835.
Mio caro Papà.
Ho lungamente sperato di rispondere alla sua ultima, annunziandole la mia partenza per Roma. Io aveva già, secondo l'uso, a Gennaio disdetta la casa, nè cercato d'altra, quasi mettendomi così nella necessità di partire; perché qui, dentro il Gennaio, quasi tutte le case sfittate si riaffittano per il 4 maggio, giorno in cui si fanno gli sgomberi; e da Gennaio in poi è difficilissimo trovar quartieri. Ma da che io sono a Napoli, una serie di circostanze penose, nelle quali io non ho alcuna colpa, e che sono difficili a descriversi per lettera, mi ha travagliato in modo, che mentre mi rendeva duro lo stare, non mi concedeva il partire. Lascio che non ho mai potuto veramente porre insieme tanto danaro che bastasse per il viaggio: perché questa difficoltà, benché grave, non è la maggiore fra quelle che mi hanno trattenuto. Mi contenterò di dirle che dopo essermi trovato non di rado, anzi spesso, in istrette assai forti, e per me nuove, pare che il mio amico Ranieri sia riuscito a stabilire un'impresa letteraria, nella quale io avrò parte col nome, e con qualche aiuto di fatto; e che a lui ed a me può riuscire di molta utilità. Ho avuto la sorte, qui singolarissima, di trovare un quartiere a mese, senza dovere andare, come io temeva, in locanda: non sarò obbligato di trattenermi ancora se non quanto sarà necessario ad avviare quest'impresa, la quale dee somministrarmi i mezzi di lasciare questo odioso soggiorno, e di riabbracciar Lei e la mia famiglia: cosa la quale desidero che Ella sia persuasa che è almeno altrettanto sospirata da me che da Lei, e che in queste lunghe e sempre ripetute dilazioni della mia partenza non entra nessuna mia nè colpa nè volontà.
Dalla sua ultima ho veduto con vivo dispiacere il mal pagamento che le è reso dai sacerdoti dell'interesse con cui Ella ha difesa la loro causa. Ma gli uomini sono sempre e dappertutto uomini, cioè traditori, e vigliaccamente malvagi. Io continuo, grazie a Dio, a star benino, anche non ostante un'infame stagione che qui si è messa dopo una terribile esplosione del Vesuvio, che la sera del primo di questo mese spaventò tutta la città.
Mi raccomando all'amore della Mamma a cui bacio la mano con tutto il cuore, e dei fratelli, che abbraccio teneramente, invocando vicino il giorno di rivedermi tra loro. Se qualcun altro costì si ricordasse di me, la prego di salutarlo da mia parte. Ella mi tenga ricordato e presente soprattutto a se stessa, e preghi per me, che con tutti i sentimenti dell'animo le bacio la mano, chiedendole la benedizione.
Mia cara Mamma, Carlo, Paolina, Pietruccio, vi prego a voler bene, e qualche volta scrivere al vostro Giacomo, il quale è poco forte degli occhi, ma non poco amoroso di cuore.
124.
Napoli 22 Agosto 1835.
Mio caro Papà.
Con mio grave dolore manco di riscontro ad una mia di Aprile, e ad un'altra dei 22 di Giugno. Per il ricapito di questa mi prevalgo della gentilezza dello zio Carlo; al quale in una mia urgenza, il Maggio passato, trassi per col. 39 pregandolo di rivalersi sopra di me alla scadenza con altra tratta pagabili in Luglio. In Luglio il negoziante che mi era debitor di quella e maggior somma, con perfidia sconosciuta a chi non conosce Napoli, ha mancato al promesso pagamento: onde mi è convenuto con altri miei soci letterarii, farlo notificare; e da questo tribunale civile è stato condannato in contumacia come debitore liquido di 219 ducati. Ma intanto, le procedure essendo lunghe, e non avendo io potuto soddisfare allo Zio, sono costretto pregar Lei di volere riconoscere presso lo zio questo mio debito, restando inteso che io a Lei ne renderò sconto all'esazione del mio credito, il cui titolo è fuori d'ogni disputa.
Non potrei esprimerle l'impazienza colla quale attendo le nuove sue e di casa, e il dolore che mi causa l'esserne privo da tanto tempo. Alla sua risposta che spero alla presente, io sforzerò i miei occhi (cosa non potuta da me finora) tanto, da darle in una lunga lettera un pieno e minuto ragguaglio dello stato mio. La mia salute, grazie al Signore, è buona. La prego ad abbracciare per me i fratelli, bacio la mano con lagrime a Lei ed alla Mamma, e alla memoria di tutti loro raccomando il suo amoroso e tenero figlio Giacomo.
19 Settembre
Lo zio Antici ricusò d'incaricarsi del ricapito della presente. Checco Fabiani, l'antico suo Cameriere, è venuto ad offrirmi i suoi servigi per Recanati, per dove dice di partire fra poco colla sua figlia adottiva: ma non mi è parso prudenza il porre lettere di affari in mano di tal gente. Affido dunque ancor questa alla nostra posta. Le confesso che mi dispiace molto di aver chiesto allo zio quel favore, il quale del resto, senza l'infame tradimento di questo negoziante, sarebbe stato un favore discretissimo, perché lo zio nel giorno medesimo in cui avrebbe pagato la mia cambiale, avrebbe esatto in Roma il danaro della rivalsa, pagabile qui dopo un mese. E in tal modo e non altrimenti io m'indussi a chiedergli quel piacere, che prima di chiedergli in altro caso, sarei morto volentieri di fame.
Il negoziante mio debitore è vicino ad essere condannato la seconda volta in grado di opposizione; e pare che desideri accomodamento.
Mio caro Papà, non voglia lasciarmi più lungo tempo senza qualche sua riga. Io sto, grazie a Dio, molto sufficientemente bene, ed anche gli occhi vengono un poco ricuperando. Col buon Matteo Antici, che ancora è qui, ho la consolazione di parlare continuamente di Lei, della Mamma e dei fratelli; il rivedere i quali, e l'esserne riamato, è il maggior desiderio ch'io abbia in terra.
125.
Napoli 4 Dicembre 1835.
Mio caro Papà.
Ho pagato ancor io il mio tributo alla stagione cattiva, con una costipazione, che sarebbe stata malattia molto leggera, se non fosse stata accompagnata da copiose e non opportune emorragie dal naso, che mi hanno lasciato un certo abbattimento, dal quale pure, grazie a Dio, vengo gradatamente risorgendo. La sua de' 13 Ottobre, consegnatami qui alla fine del mese, ma intatta, mi cagionò una viva allegrezza, dandomi dopo più mesi d'intervallo, nuove significazioni dell'amor suo, e fresche notizie de' miei, de' quali da Matteo non aveva potuto sapere se non fino ad un certo tempo. Ella viva sicura che le correzioni necessarie alle Operette morali, da Lei amorevolmente suggeritemi, si faranno, se però questa edizione andrà innanzi: cosa della quale dubito molto, perché sono risolutissimo di non dar nulla al libraio non solamente gratis, ma neppure senza pagamento anticipato; così consigliandomi tutti gli amici che bisogni fare in questo paese di ladri; ma da altra parte questi librai mezzo falliti restano tutti senza parola al solo udire il nome di anticipazione. La Storia di Napoli della quale mandai i primi fascicoli, è del mio amico Ranieri, che ha voluto farne un presente alla Libreria Leopardi. Già da Matteo con molto mio dispiacere mi era stata data la nuova della morte del povero Sanchini. Credo che quest'ora Ella avrà avuto le nuove mie di veduta di Checco Fabiani, che ritornò da me prima di partire, come mi disse, a cotesta volta. Più circostanziate ne avrà da me stesso in una lunga lettera che voglio scriverle. Intanto ringraziandola dell'amorosa sua ultima, la prego a non essermi avaro de' suoi caratteri in questo tempo, che spero breve, nel quale piacerà a Dio che mi sia ancora differito il riabbracciarla. Con tutta l'anima le bacio la mano, e chiedendole la benedizione, le desidero ogni massima prosperità nelle prossime feste, e la prego a fare per me simili augurii a tutti i miei.
Mi raccomandi al Signore, e mi creda suo amorosissimo figlio Giacomo.
126.
Napoli 19 Febbraio 1836.
Mio carissimo Papà.
Col solito inesplicabile ritardo, la sua de' 19 Dicembre, benché, per quanto pare, non aperta, non mi è stata renduta dalla posta, che ai primi di questo mese. Ringrazio caramente Lei e la Mamma del dono dei dieci scudi, del quale ho già profittato nel solito modo. Mi è stato molto doloroso di sentire che la legittimità si mostri così poco grata alla sua penna di tanto che essa ha combattuto per la causa di quella. Dico doloroso, non però strano: perché tale è il costume degli uomini di tutti i partiti, e perché i legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano troppo che la loro causa si difenda con parole, atteso che il solo confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che volga in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di gran lunga la libertà conceduta alle penne dei mortali: oltre che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversarii per ora non hanno che rispondere.
Mi sarebbe carissimo di ricevere la copia che ella mi esibisce completa della Voce della Ragione; e se volessi, com'Ella dice, disfarmene, potrei far piacere a molti, essendo il suo nome anche qui in molta stima. Ma non posso pregarla di eseguire la sua buona intenzione, perché l'impresa di ricevere libri esteri a Napoli è disperata, non solo a causa del terribile dazio (3 carlini ogni minimo volume, e 6 se il volume è grosso) il quale è difficilissimo di evitare, ma per le interminabili misure sanitarie (ogni stampa estera, che sia legata con filo, sta 50 giorni in lazzaretto) e di revisione, le quali sgomentano ogni animo più risoluto. Più volte mi è stata dimandata la sua Storia evangelica, di cui dovetti disfarmi a Firenze, e il libro sulle usure: scrivendone a Lei, facilmente avrei potuto procurarmi i volumi, e il soddisfarne i richiedenti mi avrebbe fatto molto piacere: ma ho dovuto indicare alla meglio il modo che dovevano tenere per averli, senza incaricarmi del porto, come di cosa superiore alle forze ordinarie degli uomini. E così alcuni de' libri miei che mi sarebbero bisognati, e che qui non si trovano, non ho neppur pensato a farli venire di costì nè d'altronde, considerando il riceverli come cosa vicina all'impossibile.
La mia salute, non ostante la cattiva stagione, è sempre, grazie a Dio, molto sufficiente. Desidero sapere che il medesimo sia stato della loro in quest'anno insigne da per tutto per malattie. Io spero che avrò l'immenso bene di riveder Lei, la Mamma e i fratelli verso la metà di Maggio, contando di partire di qua al principio di quel mese, o agli ultimi di Aprile. Ranieri la riverisce, e colla prima occasione le manderà gli altri quattro fascicoli stampati finora della sua Storia. Saluto ed abbraccio i fratelli, e bacio la mano alla Mamma ed a Lei, pregando l'uno e l'altra di raccomandarmi caldamente al Signore. La mia gioia in rivederli sarà uguale all'amore mio verso loro, il quale per la lontananza è certamente piuttosto cresciuto, se poteva crescere, che scemato. Mi benedica e mi creda Suo affettuosissimo figlio Giacomo.
127.
Di villa 30 Ottobre 1836
Mio caro Papà.
Non replicai alla carissima sua di Marzo, perché vergognandomi io stesso delle mie lunghe tardanze (benché Dio sappia quanto innocente) era risoluto di non iscriverle se non già partito o sul punto di partire per Recanati. Ma triste necessità, delle quali non potrò mai informarla senza scrivere un volume intero, mi hanno trattenuto di giorno in giorno fino alla più trista di tutte, ch'è il cholèra, scoppiato prima, com'Ella saprà, nelle provincie del Regno, e poi nella capitale. Non leggendo io i giornali, i miei amici mi avevano tenuto diligentemente celato il cholèra di Ancona. Se lo avessi saputo, credo che nessuna forza avrebbe potuto impedirmi di non venire, anche a piedi, a dividere il loro pericolo. Ora per le notizie che ho potuto raccogliere, mi pare che coteste parti sieno libere, sebbene io non sono tranquillo nè anche sopra di ciò; ma qui nessuno pensa più all'estero, stante la confusione che produce il cholèra in una città così immensa e popolosa come Napoli. Io fortunatamente aveva potuto prima dello scoppio ritirarmi in campagna, dove vivo in un'aria eccellente, e in buona compagnia, distante da Napoli quasi 12 miglia. Sicché Ella stia riposatissima sul conto mio, perch'io uso tali cautele in qualunque genere, che, secondo ogni discorso umano, prima di me dovranno morire tutti gli altri. Ma dovendo in tali circostanze tutto farsi a forza di danari, essendo smisuratamente accresciuti i prezzi d'ogni cosa, ognuno tenendo il suo danaro chiuso, e parendo imminente una stretta, in cui non sia neppur possibile di trarre più sopra l'estero, fui costretto ai 25 di questo, contro ogni mia precedente aspettativa e disposizione, di valermi straordinariamente sopra lo Zio Carlo per la somma di 41 colonnati, con una tratta che solo per favore singolarissimo potei negoziare.
M'inginocchio innanzi a Lei ed alla Mamma per pregarli di condonare al frangente nel quale si trova insieme con me un mezzo milione d'uomini, quest'incomodo che con estremissima ripugnanza io reco loro. La mia salute, grazie a Dio, fuorché negli occhi, è ottima in tutto. Se Dio mi dà vita, e se la peste non ci tiene ancora chiusi per lungo tempo, certissimamente io le ribacerò la mano prima di ciò che Ella forse, dopo tante speranze che intorno a questo io ho vanamente nutrite, non istarà aspettando. Mi benedica e mi raccomandi al Signore Ella e la Mamma, e se può tranquillarmi circa lo stato di cotesti luoghi, mi dia tanta consolazione. Abbraccio i fratelli, e assicurandola di nuovo che la mia posizione qui è poco meno che fuori di pericolo, con effusione di cuore mi dico Suo affettuosissimo figlio Giacomo.
128.
Di villa 11 Dicembre 1836
Mio caro Papà
Io non sapeva come interpretare l'assoluta mancanza di ogni riscontro di costà, in cui sono vissuto fino a oggi che dalla posta mi vengono 7 lettere, tra le quali le sue care dei 22 Ottobre e dei 10 Novembre, e che coi miei infelicissimi occhi incomincio la presente. La confusione causata dal cholèra, e la morte di 3 impiegati alla posta, potranno forse spiegarle questo ritardo. Rendo grazie senza fine a Lei ed alla Mamma della carità usatami dei 41 colonnati. Il tuono delle sue lettere alquanto secco, è giustissimo in chi fatalmente non può conoscere il vero mio stato, perch'io non ho avuto mai occhi da scrivere una lettera che non si può dettare, e che non può non essere infinita; e perché certe cose non si debbono scrivere ma dire solo a voce. Ella crede certo ch'io abbia passati fra le rose questi 7 anni, ch'io ho passati fra i giunchi marini. Quando la Mamma conoscerà che il trarre per una sovvenzione straordinaria non può accadermi e non mi è accaduto se non quando il bisogno è arrivato all'articolo pane; quando saprà che nessuno di loro si è mai trovato in sua vita, nè, grazie a Dio, si troverà in angustie della terribile natura di quelle in cui mi sono trovato io molte volte senza nessuna mia colpa; quando vedrà in che panni io le tornerò davanti, e saprà ancora che il rifiuto di una cambiale significa protesto, e il protesto di una mia cambiale, non potendo io ripagare l'equivalente somma, significa pronto arresto mio personale; forse proverà qualche dispacere dell'ostile divieto che lo Zio Antici mi annuncia in una dei 6 Nov.
che mi giunge insieme colle due sue.
Mi è stato di gran consolazione vedere che la peste, chiamata per la gentilezza del secolo cholèra, ha fatto poca impressione costì. Qui, lasciando il rimanente della trista storia, che gli occhi non mi consentono di narrare, dopo più di 50 giorni (dico a Napoli) la malattia pareva quasi cessata; ma in questi ultimi giorni la mortalità è rialzata di nuovo. Io ho notabilmente sofferto nella salute dall'umidità di questo casino nella cattiva stagione; nè posso tornare a Napoli, perché chiunque v'arriva dopo una lunga assenza, è immancabilmente vittima della peste; la quale del rimanente ha guadagnato anche la campagna, e nelle mie vicinanze ne sono morte più persone.
Mio caro Papà, se Iddio mi concede di rivederla, Ella e la Mamma e i fratelli conosceranno che in questi sette anni io non ho demeritata una menoma particella del bene che mi hanno voluto innanzi, salvo se le infelicità non iscemano l'amore nei genitori e nei fratelli, come l'estinguono in tutti gli altri uomini. Se morrò prima, la mia giustificazione sarà affidata alla Provvidenza.
Iddio conceda a tutti loro nelle prossime feste quell'allegrezza che io difficilmente proverò. La prego di cuore a benedire il suo affezionatissimo figlio Giacomo.
Le ultime nuove di Napoli e contorni sul cholèra, oggi 15 sono buone.
128.
Napoli 9 Marzo 1837.
Mio caro Papà.
Non ho mai ricevuto riscontro a una lunga mia di Decembre passato, nè so con chi dolermi di questo, perché la nostra posta è ancora in tale stato, che potrebbe benissimo trovarvisi da qualche mese una sua lettera per me, e non essermi stata mai data. Io, grazie a Dio, sono salvo dal cholèra, ma a gran costo. Dopo aver passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo ciascun giorno sei pericoli di vita ben contati, imminenti, e realizzabili d'ora in ora; e dopo aver sofferto un freddo tale, che mai nessun altro inverno, se non quello di Bologna, io aveva provato il simile; la mia povera macchina, con dieci anni di più che a Bologna, non potè resistere, e fino dal principio di Decembre, quando la peste cominciava a declinare, il ginocchio colla gamba diritta, mi diventò grosso il doppio dell'altro, facendosi di un colore spaventevole. Nè si potevano consultar medici, perché una visita di medico in quella campagna lontana non poteva costar meno di 15 ducati. Così mi portai questo male fino alla metà di Febbraio, nel qual tempo, per l'eccessivo rigore della stagione, benché non uscissi punto di casa, ammalai di un attacco di petto con febbre, pure senza potere consultar nessuno. Passata la febbre da sè, tornai in città, dove subito mi riposi in letto, come convalescente, quale sono, si può dire, ancora, non avendo da quel giorno, a causa dell'orrenda stagione, potuto mai uscir di casa per ricuperare le forze coll'aria e col moto. Nondimeno la bontà e il tepore dell'abitazione mi fanno sempre più riavere; e il ginocchio e la gamba sì per la stessa ragione, sì per il letto, e sì per lo sfogo che l'umore ha avuto da altra parte, sono disenfiate in modo, che me ne trovo quasi guarito.
Intanto le comunicazioni col nostro Stato non sono riaperte; e fino a questi ultimi giorni ho saputo dalla Nunziatura che nessuna probabilità v'era che si riaprissero per ora. Ed è cosa naturale; perché il cholèra oltre che è attualmente in vigore in più altre parti del regno, non è mai cessato neppure a Napoli, essendovi ogni giorno, o quasi ogni giorno, de' casi, che il governo cerca di nascondere.
Anzi in questi ultimi giorni tali casi paiono moltiplicati, e più e più medici predicono il ritorno del contagio in primavera o in estate, ritorno che anche a me pare assai naturale, perché la malattia non ha avuto lo sfogo ordinario, forse a causa della stagione fredda. Questo incomodissimo impedimento paralizza qualunque mia risoluzione, e di più mi mette nella dura ma necessarissima necessità di fermar la casa qui per un anno: necessità della quale chi non è stato a Napoli non si persuaderà facilmente. Qui quartieri ammobigliati a mese non si trovano, come da per tutto, perché non sono d'uso, salvo a prezzi enormi, e in famiglie per lo più di ladri. Io il primo mese dopo arrivato pagai 15 ducati, e il secondo 22, e a causa della mia cassetta fui assalito di notte nella mia stanza da persone, che certamente erano quei di casa. Quartieri smobigliati non si trovano a prendere in affitto se non ad anno. L'anno comincia sempre e finisce nel 4 di maggio, ma la disdetta si dà ai 4 di gennaio; e nei 4 mesi che corrono tra queste due epoche si cercano le case e si fanno i contratti. Ma le case sono qui una merce così estremamente ricercata, che per lo più, passato gennaio, non si trova un solo quartiere abitabile che sia sfittato. Ne segue che un infelice forestiero deve a gennaio sapere e decidersi fermamente di quello che farà a maggio: e se avendo disdetto il quartiere, ed essendo risoluto di partire, lascia avanzar la stagione senza provvedersi; sopraggiungendo poi o un impedimento estrinseco, come questo delle comunicazioni interrotte, o una malattia impreveduta, cosa tanto possibile a chi abbia una salute come la mia, o qualunque altro ostacolo all'andarsene, può star sicuro di dovere il 4 di maggio o accamparsi col suo letto e co' suoi mobili in mezzo alla strada, o andare alla locanda, dove la più fetida stanza, senza luce e senz'aria, costa al meno possibile dodici ducati al mese, senza il servizio, che è prestato dalla più infame canaglia del mondo. Io non le racconto queste cose, se non perché Ella mi compatisca un poco dell'esser capitato in un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli, perché veramente barbaro, assai più che non si può mai credere da chi non vi è stato, o da chi vi ha passato 15 giorni o un mese vedendo le rarità.
Se questa le giunge, non mi privi, la prego, delle nuove sue, e di quelle della Mamma e dei fratelli, che abbraccio con tutta l'anima, augurando loro ogni maggior consolazione nella prossima Pasqua. Ranieri (una sorella del quale ha avuto il cholèra) la riverisce distintamente.
Mi benedica e mi creda infelice ma sempre affettuosissimo suo figlio Giacomo.
129.
Napoli 27 Maggio 1837.
Mio carissimo papà.
Ella stenterà forse a crederlo, ma la sua carissima de' 21 di marzo, segnata qui con la data del primo di aprile, mi fu mandata dalla posta agli 11 di maggio insieme con altre due lettere segnate dei tre d'aprile. Ricevuta che l'ebbi, sono stato assalito per la prima volta della mia vita da un vero e legittimo asma che m'impedisce il camminare, il giacere e il dormire, e mi trovo costretto a risponderle di mano altrui a causa del mio occhio diritto minacciato di amaurosi o di cateratta. Non so veramente donde l'amico di Fucili potesse avere le buone nuove che recò di me; il quale tornato di campagna malato ai 16 di febbraio, non uscii mai di camera fino ai 15 di marzo, e da quel giorno a questo non sono arrivato ad uscire una quindicina di volte solo per passeggiare senza vedere alcuno.
Ella non creda che qui sia facile il subaffittare un quartino dopo i 4 di maggio, perché la stessa fretta che tutti hanno di provvedersi prima di quel termine, fa che, passato quello, tutti si trovano provveduti, e le case restano senza valore. I forestieri che vengono per pochi mesi non si muovono dalle locande, non potendo andare comperando e rivendendo mobili. Non subaffittando poi il quartino, più che mai difficile sarebbe, non pagando anticipatamente l'intera annata, di partire e soprattutto di estrarre i mobili e il letto, che non sono miei, perché i padroni di casa hanno il diritto non solo di ritenere il mobile, ma d'impedire il passaporto, protetti dalle leggi in ogni maniera e diffidentissimi per la grandezza della città e per la marioleria universale. Tutte queste difficoltà forse si potrebbero appianare finalmente. Ma la difficoltà principale è quella del cholèra, ricominciato qui, come si era previsto, ai 13 di aprile, e d'allora in qua cresciuto sempre, benché il governo si sforzi di tenerlo celato. Si teme qui che all'esempio di Marsiglia il secondo cholèra sia superiore al primo, il quale anche in Marsiglia cominciò in ottobre, e fatta piccola strage ritornò in aprile. Qui il secondo cholèra dovrebb'essere doppio del primo, perché la malattia avesse da Napoli il contingente proporzionato alla popolazione. Le comunicazioni furono aperte per due o tre giorni verso il 20 di aprile; ma risaputosi il ritorno del contagio, i rigori sono raddoppiati. La quarantina non si fa sulla strada di Roma, ma a Rieti, dove si va per la via degli Abruzzi ch'è piena di ladri, e chi volesse toccare Roma o sia diretto a Roma deve da Rieti tornare indietro. Il dispendio dei venti giorni sarebbe gravissimo per le tasse sulle quali nulla si può risparmiare e che sono sempre calcolate a grandi proporzioni, come accade ai poveri viaggiatori, e il pericolo non sarebbe anche piccolo di dover convivere per venti giorni con persone sospette nella camera che la discrezione degli albergatori vi assegnasse.
Finalmente il partire a cholèra avanzato si disapprova da tutti i periti, essendosi conosciuto per esperienza di tutti i paesi che il cambiamento dell'aria sviluppa la malattia negli individui, e non essendo pochi gli esempi di quelli che partiti sani da un luogo infetto sono morti di cholèra arrivando tra le braccia dei loro parenti in un luogo sano.
Se scamperò dal cholèra e subito che la mia salute lo permetterà, io farò ogni possibile per rivederla in qualunque stagione, perché ancor io mi do fretta, persuaso oramai dai fatti di quello che sempre ho preveduto che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano. I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l'età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all'eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo.
Ringrazio teneramente Lei e la Mamma del dono dei dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocché dopo ch'io gli avrò riveduti una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti.
Il suo amorosissimo figlio Giacomo.
130
Bologna 4 Aprile 1826.
Carissimo Sig. Padre.
Ricevetti la sua dei 23 Marzo molto ritardata, e con un grande odor di saccoccia. Mi consola assai di sentire che la Quaresima non le abbia recato incomodo. Anche a me la Quaresima è stata più favorevole della Pasqua, colla quale sono tornati a disturbarmi un poco i miei nervi, lo stomaco e il ventre effetti della primavera, e grazie a Dio leggieri. Ebbi dal vetturale i formaggi e i salami, di cui ringrazio novamente Lei e Mamma. I formaggi sono stati graditissimi, specialmente i freschi. I salami poi sono sembrati preziosi, e sono comparsi con onore in una delle più splendide tavole di Bologna. La prego di render grazie della memoria e di ritornare i miei distinti complimenti alla M.sa Roberti e a Mons. Mazzagalli, come anche dei miei saluti a Frontoni.
Mi confermi la sua benedizione, e mi creda con tutto il possibile amore Suo tenerissimo figlio Giacomo.
131.
Bologna 23 Agosto 1826.
Carissimo Signor Padre.
Con somma consolazione ho riveduto dopo tanti giorni i suoi caratteri. è incredibile per altro la irregolarità e lentezza della corrispondenza tra il nostro povero Recanati e il resto del mondo. L'ultima di Paolina in data dei 9 mi giunse ai 15, e la sua dei 12, mi è giunta ieri, 22, dieci giorni appunto dopo data; mentre le lettere di Roma mi vengono in due o tre giorni. Sono giustissime le sue osservazioni circa il partito di Ravenna, e massimamente quella che riguarda la dote percepita da Galamini, cosa della quale io non mi era ricordato. Sarebbe indecoroso per la casa nostra un partito di minor dote, quando non vi sia necessità o forti ragioni per accettarlo. Il partito di Faenza, scudi 17 mila è ancora in piedi, e sarebbe facile l'entrarne in discorso, ma credo che sarebbe anche altrettanto inutile, perché la madre e il fratello della ragazza non hanno volontà di sborsar la dote (così dice la sorella stessa della ragazza, maritata qui), e metteranno sempre avanti mille difficoltà e pretesti per mandare a monte i partiti, come hanno fatto finora. Ho sentito di una buona e colta signorina di Milano, che ha una sorella maritata in Romagna, e verrebbe volentieri dalle nostre parti. Ho già fatto scrivere per averne informazioni.
In breve avrò notizia dei partiti di Modena, di Reggio, di Parma, tra i quali è molto probabile che se ne trovino degli adattati al caso nostro, tanto per la quantità della dote, come per la inclinazione ad un soggiorno quieto e pacifico qual è quello di Recanati. La ragguaglierò poi di tutto. A Modena v'è un partito di 50 mila zecchini, ma non credo che Ella ami di tentar partiti così grossi. -Ella avrà veduto a quest'ora la mia dei 16 a Paolina. Da Roma non ho neppure una riga, nè un cenno, sopra la mia pretesa nomina alla Cattedra di Storia, annunziatami nella lettera che giunse costì. - Seppi a Ravenna il tumulto di Sinigaglia, e fu per questo che pregai Paolina a darmi subito notizia del ritorno dei fratelli, che ora sento da Lei, e ne ringrazio Dio. La mia salute, grazie al Signore, è buona.
Sono sempre impaziente di riabbracciarla; e pregandola dei miei tenerissimi saluti alla Mamma e ai fratelli, le bacio la mano, e mi ripeto con tutto il cuore suo affettuosissimo figlio Giacomo.
132.
Firenze 26 Febbraio 1833.
Papà mio.
La ringrazio mille volte dell'amorosissima sua 31 Gennaio. Sono stato seriamente malato degli occhi. Sto assai meglio, ma con impossibilità di leggere nè scriver nulla. Spero sempre di rivederla presto, e le bacio senza fine la mano, con tenerezza.
Cara Pilla.
Lire 26.13 sono rom. sc. 4,20. Puoi associarti p. mio mezzo direttamente. La tua 13 9bre io non l'ebbi mai.
133.
Roma 22 Febbraio 1823
Carissimo Sig. Padre
D. Pietro Cesanelli mi consegnò da sua parte il Varrone, di cui la ringrazio sommamente anche a nome di Melchiorri che n'è contentissimo, e la saluta. Il Zio Carlo mi disse e mi pregò d'avvisarla che aveva ricevuta la sua lettera, e avendole già scritto col corriere precedente, le avrebbe risposto o con questo o col venturo ordinario. Ella avrà già saputo dai fogli pubblici la morte del padre Trachini. Saprà ancora, o poco si curerà di sapere le stabilite promozioni di dieci o undici soggetti al Cardinalato, i nomi de' quali non mi ricordo, benché gli abbia sentiti almeno dieci volte. So che Dandini è destinato vescovo d'Osimo, e Falsacappa di Ancona. Il freddo è tornato in questi ultimi giorni dopo un mese e più di primavera (non asciutta), ma è sopportabile anche senza fuoco, e tutti stiamo benissimo. Io fo molto moto, e sono ordinariamente in giro per le biblioteche. Saluti cordiali di tutti.
Le bacio la mano, e domandando la sua benedizione mi ripeto suo amorosissimo figlio Giacomo.
134.
18 Giugno
Mio caro Papà.
Sto meglio, ma meglio molto, del raffreddore. I miei nuovi padroni di casa sono cordialissimi e premurosi, il quartiere assai bello, ma sbattuto dal vento, mio capitale nemico; il letto incomodo; la cucina poco buona; sette ragazzi sempre in moto; campane sul capo; la servitù, buonissima gente, ma tardissima e poco atta: ci sto poco volentieri e cerco di cambiare. Saluti infiniti a tutti di casa, e agli Antici.
Mi benedica e mi ami.
Il suo Giacomo.
Appendice
LETTERE ALLA MADRE ADELAIDE LEOPARDI
1.
Roma 23 Novembre
Carissima Signora Madre.
Siamo arrivati in questo punto sani e salvi senz'alcuna disgrazia, e troviamo similmente arrivati e sani tutti i parenti. Scrivo in fretta perché la posta è per partire, e le fo i saluti del Zio Carlo, del Zio Momo, di Donna Marianna e di tutti gli altri, i quali stanno benissimo. La prego di presentare i miei più rispettosi e affettuosi saluti al Signor Padre al quale scrissi già da Spoleto, e d'abbracciare per me i fratelli, assicurando sì l'uno come gli altri, che io scriverò loro a lungo, e darò loro conto di me quando sarò libero dalla necessità della fretta, e quando avrò trovato dove sia la mia testa. Io sto bene e gl'incomodi del viaggio, in cambio di nuocermi m'hanno notabilmente giovato. Le bacio la mano con tutto il cuore, e pieno di vivissimo affetto e desiderio di Lei, mi dichiaro Suo tenerissimo figlio Giacomo.
2.
28 Maggio
Cara Mamma.
Sono stato ammalato del reuma che ho portato meco, nè più nè meno di quel ch'io fossi costì in quei brutti assalti ch'io ne pativa. Ora sto meglio, e ieri fui a pranzo in villa dal Ministro Corsini, che manda ogni giorno a informarsi della mia salute.
Ricevo la cara loro dei 18. Godo assaissimo che le febrette del Papà siano cessate. Volesse Iddio che i miei mali fossero di sola fantasia perché la mia ciera è buona.
Pare impossibile che si accusi d'immaginaria una così terribile incapacità d'ogni minima applicazione d'occhi e di mente, una così completa infelicità di vita, come la mia.
Spero che la morte, che sempre invoco fra gli altri infiniti beni che ne aspetto, mi farà ancor questo, di convincer gli altri della verità delle mie pene. Mi raccomandi alla Madonna, e le bacio la mano con tutta l'anima.
3.
Mia cara Mamma.
Io non le scrivo mai, ed ora lo fo per disturbarla con una preghiera. Ciò è molto dispiacevole per me, ma Ella sa le cagioni del mio silenzio ordinario, e la necessità è la causa della straordinaria preghiera. è già qualche tempo ch'io scrissi al Papà ragguagliandolo delle mie circostanze; gli esposi tutti gli sforzi fatti da me finora per proccurarmi di che sussistere senza incomodar la casa; gli mostrai come e perché ciò mi sia divenuto impossibile; e finii pregandolo a volermi accordare un assegnamento mensile di 12 francesconi, coi quali avrei meschinamente proccurato di tirare avanti. Papà mi rispose di scriverne a Lei direttamente. Sono stato malato, e la convalescenza mi ha lasciato una tal debolezza d'occhi, che finora, per quanto la necessità stringesse, non ho assolutamente potuto scrivere. Oggi finalmente, non potendo anche tardar più, mi riduco a questo passo, che mi costa oltissimo, e fo a Lei la stessa preghiera che al Papà.
Creda, mia cara Mamma, che il darle questa noia è mille volte più penoso a me che a Lei. Ma d'altronde, s'io tornassi stabilmente costà, consumerei pur molto in casa, e sarei di grandissimo e continuo incomodo coi miei metodi strani di vita, e colla mia malinconia. E di più non sarei a portata di cogliere le occasioni che si presentassero di provvedermi, e di liberar la casa da questo peso, come non lascio di sperare che mi venga pur fatto una volta, vivendo in paesi dove tali occasioni si diano. Ella vede che io non dimando per viver qui, se non l'assegnamento accordato costì a Carlo. Non starò a ricordarle che io ho sempre cercato di non darle nessun disgusto, perché non credo che ciò costituisca in me nessun merito: solamente le faccio osservare, che non vorrei ora darle questo primo fastidio, se la precisa necessità non mi sforzasse.
Se otterrò da Lei, come spero, una risposta favorevole, io alla fine del mese esigerò qui da un banchiere 24 francesconi, e gliene rilascerò una cambialina pagabile dal Papà sulla fine di Decembre. L'assicuro che fin da quando scrissi al Papà, che fu ai primi di Luglio, io avrei avuto bisogno almeno del primo bimestre di Agosto e Settembre; e non sono arrivato fin qua, se non coi miei ultimissimi avanzi, ch'io avevo serbati per bisogni straordinarii, i quali non mancano mai in nessun mese. Ho detto 24 francesconi, cioè un primo bimestre di Ottobre e Novembre.
Mamà mia, mi scusi, e quando il Papà le avrà fatta leggere, come spero, la mia di Luglio, disponga Ella con lui come crede; ma sempre mi ami e mi benedica, ch'io sono e sarò eternamente
Suo amorosissimo figlio Giacomo.
LETTERE ALLO ZIO ETTORE LEOPARDI
1.
Roma 14 Decembre 1822.
Carissimo Zio.
Voi mi permetteste d'annoiarvi colle mie lettere ed io mi prevalgo di questa licenza, e vi scrivo.
Desidero grandemente di ricevere le vostre nuove, e soprattutto di riceverle da voi medesimo. Come vi tratta l'inverno di Recanati? Quello di Roma, finora, appena si è potuto chiamare inverno. Ma ieri ed oggi il vento di tramontana ha fatto sentire per la prima volta un poco di freddo, benché il tempo sia bellissimo. Nuove non vi sono, eccetto la promozione d'otto Prelati al Cardinalato, che avrete già intesa. I promossi sono Pallotta, Odescalchi, Orfini, Serlupi, Guerrieri: degli altri tre non mi ricordo.
Io sto benissimo, e mi diverto sino a un certo segno. Vorrei sentire altrettanto di voi. Caro Zio, credetemi ch'io v'amo di tutto cuore, e che le distrazioni di Roma non m'impediscono d'avervi presente alla memoria. Avrei voluto scrivervi prima, ma io posso disporre di poco tempo, perché ad ogni momento, ora questo ora quello mi viene a prendere in casa, e tutta la giornata si consuma in girare e vedere.
Abbiate cura della vostra salute, ve ne prego con tutta l'anima, e s'è possibile distraetevi, ché la distrazione è la miglior medicina per voi e per me. Vogliatemi bene, caro Zio mio, e se potessi servirvi in qualche cosa, comandatemi.
Vi bacio la mano e mi protesto vostro affettuosissimo e obbligatissimo nipote Giacomo.
2.
Carissimo Zio.
Dentro questi giorni io dovrei, se a Dio piace, partire per Milano col consenso dei miei genitori, per restarvi forse qualche mese. Verrò prima a salutarvi e a chiedervi i vostri comandi. Intanto il vostro cuore e la bontà che mi avete sempre mostrata mi danno animo di farvi una preghiera, e non arrischiandomi di farvela a voce, scrivo la presente, la quale ho pregato il Sig. Curato di presentarvi. Voi sapete lo stato della nostra famiglia, e conoscete bene la cagione per cui non ardisco d'importunare i miei genitori con certe domande. Se Voi poteste somministrarmi qualche cosa per questo viaggio, Voi mi fareste un favore del quale io vi professerei una cordialissima e tenerissima gratitudine, e che accrescerebbe i sentimenti di amore e di riconoscenza che io ho già debitamente per Voi. O piccola o grande che fosse la quantità di cui vi piacesse di favorirmi, essa mi sarebbe un pegno della vostra bontà, ed io ve ne sarei grato fino all'anima. Soprattutto vi prego a perdonare la mia libertà, e a credere che fuori di una simile circostanza, io non avrei mai avuto il coraggio d'incomodarvi. Siate persuaso, mio caro Zio, che il darvi questo fastidio mi rincresce e mi pesa indicibilmente, e che del resto io v'amo e v'amerò sempre con tutto il cuore, e che in qualunque modo Voi siate per accogliere questa mia preghiera, sarò sinceramente e perpetuamente il vostro cordialissimo e affettuosissimo nepote Giacomo.
3.
Bologna 22 Luglio 1825.
Caro Zio.
Non voglio partire da Bologna senz'avervi scritto, sapendo quanto interesse voi prendiate alle mie nuove per vostra bontà. Sono giunto qui, come forse saprete, fino da Domenica scorsa. Ho dubitato molto se dovessi continuare il viaggio fino a Milano, tanto più che il caldo fino a ieri è stato insopportabile, e che molti amici di qui mi hanno fatto premura di fermarmi in Bologna per attendere a certe imprese letterarie. Nondimeno l'impegno già contratto a Milano mi ha finalmente deciso a lasciare questa città, quantunque di mala voglia. Ieri avemmo gran pioggia e grandine, e questa mattina ancora ha piovuto, sicché il caldo è più soffribile. Io partirò, credo, Lunedì o Martedì.
Da Milano, piacendo a Dio, tornerò a scrivervi. In tanto datemi o fatemi dare le vostre nuove, che desidero e spero buone. Salutatemi tutti di casa e il Sig. Curato. Vogliatemi bene quanto io ne voglio a voi, comandatemi se posso servirvi, e credetemi pieno di amore e di riconoscenza per sempre Vostro affettuosissimo Nepote Giacomo.
LETTERE ALLO ZIO CARLO ANTICI
1.
Ho fatto subito leggere a mio padre la sua gentilissima del 29 scorso; ed egli m'impose di ringraziarla delle sue graziose espressioni e di mettere in sua libertà il mandare o no l'esemplare, ch'Ella dice, al Card. Rivarola, poiché mio padre non glie n'ha mandato.
Non per far smorfie, com'ella dice, ma per vero sentimento, dico di cuore e con piena sincerità che quanto alle opere di me divulgate non ho altro desiderio se non che la memoria se ne cancelli interamente. Son cose giovanili, ed è tanto lungi che io dica questo per affettazione di modestia che anzi io le stimo indegne del mio grado letterario attuale, e credo che oramai non mi convenga più uscir fuori se non con qualcosa che mi ponga al disopra di parecchi altri. E ultimamente essendomi chiesta licenza da Verona di ristampare la mia Batracomiomachia, ho considerato e procurato che se ne scegliesse piuttosto un'altra; e quando vogliano onninamente la mia, ho permesso, che la ristampino (non avendo facoltà di negarlo), ma con patto espresso che non si dia nessun segno al pubblico di avermene fatto consapevole. Ella sa bene che il Guidi e non pochi altri quando ebbero acquistato una certa reputazione, rifiutarono decisamente tutte le loro opere giovanili e procurarono che fossero dimenticate. Le mie poi, meglio che giovanili, si potrebber chiamare fanciullesche, avendo riguardo all'età in cui furono scritte. Escludo solamente da questo numero le Canzoni le quali però sono già bastantemente note costì, dove appunto furono stampate.
Quanto alle opere di mio padre, ne avrei mandato l'Elenco se l'avessi potuto fare senza l'aiuto suo, e se egli me l'avesse permesso. Ma anch'egli, ringraziandolo molto dell'attenzione, non ha creduto di doverne profittare in questa parte.
Fin qui non debbo che ringraziarla. Ma posso ben lamentarmi di Lei, che avendo pubblicato la sua opera, e dandole occasione di scrivermi, non ne faccia neppure un cenno, come s'Ella non conoscesse e non sapesse di certo l'interesse ch'io ne prendo. Fatto sta che prima di sapere da Lei che l'opera fosse pubblicata ho dovuto sapere da altri l'accoglienza che l'è stata fatta costì. Ho veduto l'esemplare ch'Ella ha favorito di mandare in casa, ma finora l'ho dovuto lasciare a mio padre che lo legge, e saprà valutarlo meglio di me. Attendo però con impazienza il tempo di poterlo godere. E colla medesima impazienza aspetto ch'Ella si discolpi meco a voce del suo silenzio in questo proposito. Saluti e rispetti da parte di tutti i miei. La prego di ricordare a se stesso e alla sua consorte la mia servitù affettuosa, ed augurandole un prospero e pronto viaggio, mi confermo suo obbligatissimo e amorosissimo nepote
Giacomo Leopardi.
2.
Recanati 4 Maggio 1823.
Carissimo signor Zio.
O la natura o altra circostanza mi è stata molto avara del dono della parola, e perciò io mi lusingava che per lettera avrei meglio supplito a qualche parte dell'immenso debito che ho con Lei. Ora mettendomi a scrivere, resto deluso anche di questa speranza, e conosco che se volessi ringraziarla de' favori da Lei compartitimi, non saprei nè dove cominciare, nè come degnamente continuare, nè quando finire. Mi resta una sola speranza, ed è ch'Ella conosca già così bene il mio carattere ed il mio povero cuore, per essere persuasa che se i suoi benefizi sono stati collocati in persona non degna, hanno però trovata tutta la riconoscenza di cui sono meritevoli, la quale è tanta che vince le mie facoltà d'esprimermi, e sarà così costante che non si estinguerà prima della mia vita. Io la prego ad impiegare la sua propria eloquenza e quella del proprio cuore per esprimere questi miei sentimenti a se stesso ed alla Zia, alla quale vorrei ch'Ella si compiacesse di presentare e di far gradire i miei più teneri cordiali ed affettuosi ossequi e ringraziamenti. La di Lei gentilezza ed amorevolezza, e quella della signora Zia, faranno appresso loro le scuse de' miei difetti, e dei tanti incomodi e noie di cui, sebbene involontariamente, io sarò stato cagione all'uno e all'altra durante la mia dimora in Roma.
Noi siamo arrivati iersera dopo un viaggio felicissimo, ed il Zio Momo, che la saluta, sta bene. Mio padre farà esso medesimo le sue parti con Lei per sè e per me. La Mamma m'incarica di ringraziarla quanto Ella può immaginare, e di dirle le cose più tenere e care che sia possibile. Saluti infiniti della Mamma e de' fratelli alla signora Zia, ed ai cugini. Altrettanti, e più s'è possibile, per parte mia alla Marietta, a Matteo, a Pippotto, a Clotilde, a Vincenzino che spero intieramente ristabilito, e alla Giovannina. Ho voluto nominarli tutti per mostrarle quanto mi sia dolce la memoria loro, e di tutto quello che a Lei appartiene. E abbracciandola rispettosamente e amorosamente, mi confermo con tutta l'anima per sempre suo riconoscentissimo e tenerissimo nipote.
3.
Recanati 15 Gennaio 1825.
Carissimo Signor Zio. Debbo fare avere al mio cugino Melchiorri scudi 12.50, e prima di spedirglieli per la posta, prendo la libertà d'incomodarla colla presente per sapere se Ella potrebbe senza suo disturbo farli pagare a Melchiorri costì, pagandoli io qua immediatamente a chi per Lei. Se ciò non si può fare senza suo inconveniente, Ella mi farà, spero, il favore di avvertirmene liberamente, ed io mi servirò della posta.
Ho consegnato al Zio Giuseppe l'ultimo volume delle opere del Giordani col quale resta compiuta l'edizione. Ella vi troverà il suo nome come associato, e vi potrà leggere la prosa al nuovo Vescovo Piacentino, la quale ha fruttato al suo autore il felice esilio dalla sua patria, ed il suo stabilirsi a Firenze con assicurazioni spontanee da parte del Granduca.
Immagino che a quest'ora sarà già, per lo meno, incominciata la stampa della sua nuova opera, e spero che Ella non m'invidierà il piacere di gustare i frutti dell'ingegno Bavaro, e di un migliore ingegno Italiano, appena saranno usciti dai torchi.
Io vengo presentemente ingannando il tempo e la noia con una traduzione di operette morali scelte da autori greci dei più classici, fatta in un italiano che spero non pecchi di impurità nè di oscurità. Ne ho tradotti sinora tre in pochi giorni; ma lo stomaco ridotto all'ultimo disordine, m'intima il manum de tabula. Mi lusingo che l'inverno sia tanto amico e benigno al suo stomaco quanto è fatale al mio, e che Ella abbia ricuperato quell'appetito che il caldo le aveva tolto, e che io pel freddo ho perduto.
Ella non si dimentichi del suo tenero, devoto, affettuoso, ed eternamente grato nipote.
4.
Recanati 5 Marzo 1825.
Carissimo Signor Zio.
Comincerei dal ringraziarla della sua lettera ultima, del motivo che indusse Lei a scriverla, e del contenuto della medesima, ma quanta ragione avrei di farlo, tanto impossibile mi sarebbe di trovar nuove espressioni di gratitudine da usar con Lei, e però lascio a parte questo luogo comune di tutte le lettere ch'io le scrivo.
Bensì mi corre l'obbligo di manifestare al Signor Ministro d'Olanda la mia riconoscenza alla memoria e sollecitudine che egli si compiace di mostrare verso di me, e prego Lei a volerlo fare in nome mio con quelle espressioni più significanti che le saranno somministrate dalla sua facondia.
Per ubbidirla e per soddisfare al signor Ministro, le dirò che gli opuscoli morali da me tradotti un mese addietro, sono le tre Parenesi, ossia Ragionamenti morali d'Isocrate, l'uno a Demonico, l'altro a Nicocle, il terzo intitolato il Nicocle. Mia intenzione era di tradurre in séguito il Gerone di Senofonte; il Gorgia di Platone, che mi pare uno de' Dialoghi più belli di questo scrittore, e più pieni di eloquenza morale; l'Orazione Areopagitica dello stesso Isocrate; i Caratteri di Teofrasto; e forse qualcuno de' dialoghi d'Eschine Socratico. Tutte le quali operette non hanno ancora traduzioni italiane, se non antiche, pessime di lingua e di stile, e peggiori ancora per i controsensi continui e la mala intelligenza dell'originale. Finalmente io voleva dare, o insieme con questi opuscoli, o in un tomo a parte, i Pensieri di Platone, che io avrei raccolti e scelti e tradotti, opera simile a quella dei Pensieri di Cicerone dell'Olivet, ma che avrebbe dovuto essere un poco più ampia, e contenere tutto il bello e l'eloquente di Platone, sceverato da quella sua eterna dialettica, che ai tempi nostri è insoffribile, e da' suoi sogni fisici, che riuscirebbero parimente noiosi ai più dei lettori moderni, massimamente per la loro oscurità.
Ma tutti questi lavori, dei quali io mi voleva servire per mio passatempo di questo inverno, restano e resteranno nel mio solo pensiero, perché la mia salute è ridotta in grado tale, ch'io non posso fissar la mente in una menoma applicazione, neppure per un istante, senza che lo stomaco vada sossopra immediatamente, come mi accade appunto adesso, per la sola applicazione di scrivere questa lettera. E quanto al futuro, non ardisco più formare alcun progetto, vedendomi veramente divenuto ***. e conoscendo di certo che colla vita sedentaria e solitaria che per assoluta necessità io meno in Recanati, dove la sorte mi ha senza dubbio confinato per sempre, io non posso altro che passare da cronicismo a cronicismo, come ho fatto per tutta la mia vita finora. Fuor di questo, io vivrei contentissimo, come Ella mi esorta, a Recanati, e anche nell'Isola di Pasqua in mezzo all'immenso oceano pacifico, poiché Ella sa bene che l'ambizione non è mai stato il mio vizio.
Se bene ho detto di voler lasciare a parte i ringraziamenti, non posso però mancare di ringraziarla dello sborso fatto in mio nome al cugino Melchiorri, ed anche della gentil burla fattami nella sua penultima, di mandarmi un paragrafo in lingua per me inintelligibile. Il buono è, ch'io non ho alcuno a cui ricorrere per intenderlo, ed ora appunto muore in questo spedale un tedesco senza potersi confessare, perché in tutta la nostra colta provincia non si trova un prete che sappia quella lingua.
Avrei molto caro d'intendere da Lei il giudizio che il Signor Ministro d'Olanda ha fatto delle mie Canzoni, e se questo fosse sfavorevole, tanto più volentieri l'intenderei, come sempre soglio.
Ella mi continui la sua benevolenza, e in luogo de' ringraziamenti, accetti le proteste di vero amore e vera tenerezza del suo sempre affezionatissimo Nepote.
5.
Recanati 18 Giugno 1825.
Carissimo Zio.
Mi si offre un'occasione di andare con poca spesa a Milano per qualche mese; ed io avendone pieno consenso da mio padre, e colla speranza di far qualche nuova conoscenza e di giovare sopra tutto alla mia salute, accetto questa opportunità, e mi dispongo a partire. Nel darle questa nuova, alla quale per l'affetto che Ella mi ha dimostrato con tante prove, ho creduto che Ella s'interesserebbe, sono anche ad incomodarla con una preghiera, ed è che Ella voglia farmi il favore di procurarmi il passaporto necessario da cotesto Ambasciatore Austriaco per andare, stare, e tornare. Siccome da Milano mi vien fatta premura di partir presto, perciò quanto più sollecitamente Ella potrà favorirmi, tanto il favore sarà più grande. Ella potrà, se così crede bene, mandare direttamente il passaporto in mano di mio padre con indirizzo al Gonfaloniere, o comunque le piacerà. Perdoni questa briga che io sono costretto a darle, e se non le sarà grave di scrivermi prima che io parta, mi dia nuove di Lei, delle sue occupazioni e della sua famiglia; ed ora e sempre si compiaccia di ricordarsi che io sono il suo affettuosissimo e gratissimo nepote.
P.S. Fatta la lettera, mio padre mi consegna per lei una polizzina che le accludo. Se fosse necessario specificare l'oggetto del viaggio, Ella potrà dire che io vado per assistere all'edizione di tutte le Opere di Cicerone intrapresa dal signor A.F. Stella. Avrei anche molto caro se Ella potesse fare inserire nel passaporto la clausola, col suo domestico: ma converrebbe che il domestico fosse innominato, perché io non so ancora nè chi porterò nè se porterò alcuno meco. Obbligatissimo e affezionatissimo nepote.
6.
Milano 3 Agosto 1825.
Carissimo Signor Zio.
Non potei ringraziarla nè del passaporto procuratomi costì, nè della sua graziosa e amorosa lettera, nè della commendatizia per Alborghetti, nè del suo bel libro e della gentile menzione che Ella vi ha fatta di me; non potei, dico, ringraziarla prima della mia partenza da Recanati, perché me lo impedì un'ostinata flussion d'occhi, che non è ancora sanata, benché mitigata.
Ora ricevo per mezzo di Alborghetti (col quale si è parlato molto di Lei) la sua de' 21 Luglio, alla quale rispondo subito, e con questo medesimo ordinario scrivo al signor de Bunsen nel modo da Lei suggeritomi. Quanto ai ringraziamenti da farsi a Lei, stimo bene di tralasciarli per non ripetere le cose che ho dovuto già dir mille volte. Quanto al signor de Bunsen, la prego a volergli significare Ella stessa la mia riconoscenza più lungamente di quello che io ho potuto fare nella mia lettera. Venendo poi all'offerta del Segretario di Stato, le dirò in confidenza che se il governo non mi darà o non mi assicurerà fuor di ogni dubbio un buono e durevole stabilimento prima ch'io venga a Roma, io non mi muoverò di qua, dove posso fissarmi per sempre, e vivere a spese d'altri; ovvero, se mi muoverò di qua, mi stabilirò piuttosto a Firenze, oppure a Bologna, dove mi sono fermato nove giorni e sono stato accolto con carezze ed onori ch'io era tanto lontano dall'aspettarmi, quanto sono lontano dal meritare, e dove tra i molti partiti che mi si offrono, ho quello di un giovane signore Veneziano ricchissimo e studiosissimo che mi vuole onninamente con sè per aiutarlo negli studi. Vedrò quello che ulteriormente sarà fatto dal Segretario di Stato, ed allora mi determinerò secondo i di Lei consigli, che la prego caldamente a continuarmi.
Le dirò ancora che vaca attualmente in Bologna il posto di Segretario dell'Accademia di belle arti, il quale, come tutti mi han detto, non esige cognizioni maggiori di quelle poche che io ho, e mi lascerebbe quasi tutto il tempo libero agli studi. Il soggiorno di Bologna sarebbe per me molto più grato e più profittevole che quel di Roma, perché in Roma non potrei conversare se non con letterati stranieri (giacché non vi sono letterati romani), il che è cosa molto difficile per me, che non sono esercitato nelle loro lingue: laddove Bologna è piena di letterati nazionali, e tutti di buon cuore, e prevenuti per me molto favorevolmente. Se il signor de Bunsen proponesse al Segretario di Stato di darmi il detto impiego, forse la cosa riuscirebbe, e in tal caso io potrei servire il Sovrano con quelle opere che gli piacesse, e il governo non avrebbe per mia cagione una nuova spesa, giacché non farebbe che tenermi in un impiego che in ogni modo dovrebb'essere occupato e pagato.
Ho fatto leggere a Stella il di Lei paragrafo relativo a Monsignor Invernizzi. Stella sarà infinitamente grato a Lei e a quel Signore se vorrà concedergli le sue Varianti, coll'edizione postillata ec. Le dette Varianti si pubblicheranno sotto il nome di Monsignor Invernizzi, con tutto l'onore dovutogli. Stella darà subito ordine a un suo corrispondente costì, perché ponga a disposizione di Monsignor Invernizzi un esemplare di una qualunque edizione completa delle opere di Cicerone, a scelta del medesimo Invernizzi. Se in Roma non si troverà un'edizione che gli soddisfaccia, l'Invernizzi nominerà quella che gli sarà più a grado, e questa gli sarà inviata di qua.
Ella mi perdoni il rozzo e frettoloso scrivere. Sono impaziente di leggere la sua nuova traduzione, che in Recanati non potei se non trascorrere, perché gli occhi non sopportavano la lettura.
La prego de' miei teneri saluti alla Zia ed ai cugini. Ella segua ad amarmi e mi creda costantemente suo affezionatissimo e gratissimo nepote.
P.S. Al suddetto corrispondente di Stella potrà Monsignor Invernizzi consegnare, se così gli piace, le sue varianti. Questo corrispondente sarà il libraio Paolo Olmi, che avrà cura di farle ricapitare a Milano con sicurezza.
7.
Milano 20 Agosto 1825.
Carissimo Zio.
Ricevetti ieri la sua dei 14, nella quale non trovo nulla di amaro, come Ella mi dice. Tutto è dolcissimo e amorosissimo, e di tutto io cercherò di approfittarmi con ogni mio potere. Senza farle alcun complimento circa l'operato da Lei in mio favore, mi basterà di assicurarla che il mio affetto e la mia gratitudine verso Lei è quale e quanta si richiede per corrispondere a tanto amor suo. Al cavaliere de Bunsen la prego a fare in mio nome quei complimenti e quei ringraziamenti che meritano i suoi favori. Aspetterò l'esito della trattativa, e intanto Ella non dubiti del più rigoroso segreto per mia parte.
Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, perché Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario. Partirò subito che me lo permetterà la buona creanza verso lo Stella e che sarò libero dalle faccende letterarie che ho per lui il che non sarebbe se non di qui a qualche anno, secondo l'intenzion dello Stella, ma secondo la mia, sarà dentro il mese prossimo.
Lo Stella ed io siamo tanto grati al degnissimo Monsignor Invernizzi, quanto edificati e maravigliati della sua modestia, cosa veramente rara tra letterati. Lo Stella lo prega a credere e lo assicura che di qualunque genere sieno i suoi lavori sopra Cicerone, e qualunque sia la mole de' suoi manoscritti o stampati che li contengono, non solo non si chiamerà aggravato dalla spesa del loro trasporto, ma anzi gli sarà tenutissimo se egli vorrà consegnar tutto al Signor Olmi, perché il tutto passi qui nelle mani del rispettabile letterato che attende alla nuova recensione del Cicerone, il quale avrà tutto il possibile riguardo all'onore di Monsignor Invernizzi, e lo nominerà con tutta quella lode che merita, tacendo interamente quello che non fosse trovato opportuno al nuovo lavoro. Intanto, non essendo stata mai finita l'edizione del Beck, lo Stella ordina che sia consegnato subito a Monsignore un esemplare di quella dell'Ernesti, se si trova costì; diversamente, esso medesimo gliene spedirà uno di qua, incaricandosi delle spese del trasporto.
Col signor Conte Alborghetti, uomo veramente buono ed amabile, farò le sue parti la prima volta che lo rivedrò. La prego dei miei affettuosi saluti e doveri alla sua famiglia, e persuaso che se in questa mia dimora a Milano io sarò buono a servirla in qualche cosa, Ella mi vorrà favorire dei suoi comandi, col solito affetto mi ripeto suo tenero e gratissimo nepote.
8.
Bologna 24 Ottobre 1825.
Carissimo Signor Zio.
Pochi giorni dopo giunto a Bologna le scrissi a Recanati una lettera che probabilmente la avrà trovata partita per Urbino. Spero che a quest'ora Ella l'avrà ricevuta, e già da quella conoscerà la mia situazione presente. Ora mi giunge da Milano la sua amorosissima dei 12 con l'annessa di Bunsen. Appena fui qui in Bologna cercai d'informarmi dell'effetto prodotto dalla commendatizia del Segretario di Stato in mio favore, ed ho saputo che essa fu riscontrata dietro l'informazione data da questo Segretario di Legazione, il quale essendo stretto di amicizia col signor Tognetti ora incaricato provvisoriamente del Segretariato dell'Accademia, disse che questo posto era già promesso e conferito. Ma in verità 1° non è nè promesso nè conferito, e sempre è tenuto provvisoriamente da uno che del resto ha altri impieghi; 2° il Cardinale Legato non ha nessun interesse per questo Signore provvisorio; 3° la collocazione del posto dipende intieramente, ed è stata sempre effettuata dal Segretario di Stato senza alcun intervento nè del Legato nè dell'Accademia. Però i miei amici mi hanno consigliato d'insistere presso il Segretario di Stato assicurandomi che il tutto dipende anche oggi dalla sua volontà, e questo Direttore di Polizia, uomo molto stimato dal Cardinale Legato e dai Bolognesi, mi ha promesso di operare col Legato perché io sia riproposto al Segretario di Stato per la segreteria dell'Accademia. Coll'ordinario passato scrissi tutte queste cose a Bunsen, rimettendomi nelle sue mani.
Oggi, dietro la ricevuta della sua dei 5 corrente, gli scrivo di nuovo, secondo il di Lei consiglio, una lettera confidenziale ed una ostensibile. In questa mi offro senza limiti alle disposizioni del Segretario di Stato ec. ec.; in quella faccio osservare a Bunsen, che se fosse possibile, amerei molto più il Segretariato qui, che la cattedra in Roma, perché questo soggiorno mi è più adattato che quel di Roma, sì per le ragioni che io le scrissi altra volta, e sì per conto dell'aria; poi perché le cattedre, e l'aver che fare con una scolaresca sempre impertinente, non convengono troppo nè al mio petto fisicamente parlando, nè al mio carattere morale. Del resto mi dico pronto ad accettare in ultimo quel meglio che si potrà ottenere, quando però l'emolumento di Roma corrisponda alle molte maggiori spese che si richieggono per vivere colà che in Bologna. Se Ella ha tempo e opportunità di scrivermi, mi favorisca, la prego, delle sue nuove, e di quelle della Zia e della di Lei famiglia, in particolarità dei cugini urbinati. Vedendo il Governatore Mazzanti, al quale ho scritto di qua, senza risposta, lo saluti, se le piace, in mio nome. Giordani, che sarà qui da Piacenza a momenti m'impone di riverirla da sua parte in modo particolare. Ella mi comandi, mi ami e mi creda suo affettuosissimo e gratissimo nepote.
Mi sono sempre dimenticato dirle che in Milano Compagnoni, col quale ho fatta molt'amicizia, mi dimandò di Lei e me ne parlò con molta stima.
9.
Napoli 25 Ottobre 1836.
Mio caro Zio.
Nella terribile circostanza della peste, che da otto giorni fa stragi lacrimevoli in questa città, mi sono valuto oggi sopra di lei, se pure sarà possibile di scontare la tratta, per la somma di colonnati quarantuno a vista: e do conto a mio padre di questo incomodo, che può facilmente essere l'ultimo ch'io reco alla mia famiglia. La prego a favorirmi con la solita bontà, e di tutto cuore mi ripeto suo affezionatissimo nepote.