Niccolò Machiavelli
ISTORIE
FIORENTINE
AL SANTISSIMO E BEATISSIMO PADRE SIGNORE NOSTRO CLEMENTE SETTIMO LO UMILE SERVO NICCOLÒ MACHIAVELLI.
Poi che da la Vostra Santità, Beatissimo e Santissimo Padre, sendo ancora in minore fortuna constituta, mi fu commesso che io scrivessi le cose fatte da il popolo fiorentino, io ho usata tutta quella diligenzia e arte che mi è stata dalla natura e dalla esperienzia prestata, per sodisfarLe. Ed essendo pervenuto, scrivendo, a quelli tempi i quali, per la morte del Magnifico Lorenzo de' Medici, feciono mutare forma alla Italia, e avendo le cose che di poi sono seguite, sendo più alte e maggiori, con più alto e maggiore spirito a descriversi, ho giudicato essere bene tutto quello che insino a quelli tempi ho descritto ridurlo in uno volume e alla Santissima V.B. presentarlo, acciò che Quella, in qualche parte, i frutti de' semi Suoi e delle fatiche mie cominci a gustare. Leggendo adunque quelli, la V.S. Beatitudine vedrà in prima, poi che lo imperio romano cominciò in occidente a mancare della potenzia sua, con quante rovine e con quanti principi, per più seculi, la Italia variò gli stati suoi; vedrà come il pontefice, i Viniziani, il regno di Napoli e ducato di Milano presono i primi gradi e imperii di quella provincia; vedrà come la Sua patria, levatasi per divisione dalla ubidienzia degli imperadori, infino che la si cominciò sotto l'ombra della Casa Sua a governare, si mantenne divisa. E perché dalla V.S. Beatitudine mi fu imposto particularmente e comandato che io scrivessi in modo le cose fatte dai Suoi maggiori, che si vedesse che io fusse da ogni adulazione discosto (perché quanto Vi piace di udire degli uomini le vere lode, tanto le fitte e con grazia descritte Le dispiacciono), dubito assai, nel descrivere la bontà di Giovanni, la sapienzia di Cosimo la umanità di Piero e la magnificenzia e prudenza di Lorenzo, che non paia alla V.S. che abbia trapassati i comandamenti Suoi. Di che io mi scuso a Quella e a qualunque simili descrizioni, come poco fedeli, dispiacessero; perché, trovando io delle loro lode piene le memorie di coloro che in varii tempi le hanno descritte, mi conveniva, o quali io le trovavo descriverle, o, come invido, tacerle. E se sotto a quelle loro egregie opere era nascosa una ambizione alla utilità [comune], come alcuni dicono, contraria, io che non ve la conosco non sono tenuto a scriverla; perché in tutte le mie narrazioni io non ho mai voluto una disonesta opera con una onesta cagione ricoprire, né una lodevole opera, come fatta a uno contrario fine, oscurare. Ma quanto io sia discosto dalle adulazioni si cognosce in tutte le parti della mia istoria, e massimamente nelle concioni e ne' ragionamenti privati, così retti come obliqui, i quali, con le sentenze e con l'ordine, il decoro dello umore di quella persona che parla, sanza alcuno riservo, mantengono. Fuggo bene, in tutti i luoghi, i vocaboli odiosi come alla dignità e verità della istoria poco necessari. Non puote adunque alcuno che rettamente consideri gli scritti miei come adulatore riprendermi, massimamente veggendo come della memoria del padre di V.S. io non ne ho parlato molto; di che ne fu cagione la sua breve vita, nella quale egli non si potette fare cognoscere, né io con lo scrivere l'ho potuto illustrare. Nondimeno assai grandi e magnifiche furono l'opere sue, avendo generato la S.V.; la quale opera a tutte quelle de' suoi maggiori di gran lunga contrappesa e più seculi gli aggiugnerà di fama, che la malvagia sua fortuna non gli tolse anni di vita. Io mi sono pertanto ingegnato, Santissimo e Beatissimo Padre in queste mie descrizione, non maculando la verità, di satisfare a ciascuno; e forse non arò satisfatto a persona, né quando questo fusse, me ne maraviglierei, perché io giudico che sia impossibile, sanza offendere molti, descrivere le cose de' tempi suoi. Nondimeno io vengo allegro in campo, sperando che come io sono dalla umanità di V.B. onorato e nutrito, così sarò dalle armate legioni del suo santissimo iudizio aiutato e difeso, e con quello animo e confidenzia che io ho scritto infino a ora sarò per seguitare l'impresa mia, quando da me la vita non si scompagni e la V.S. non mi abbandoni.
PROEMIO
Lo animo mio era, quando al principio deliberai scrivere le cose fatte dentro e fuora dal popolo fiorentino, cominciare la narrazione mia dagli anni della cristiana religione 1434, nel quale tempo la famiglia de' Medici, per i meriti di Cosimo e di Giovanni suo padre, prese più autorità che alcuna altra in Firenze; perché io mi pensava che messer Lionardo d'Arezzo e messer Poggio, duoi eccellentissimi istorici, avessero narrate particularmente tutte le cose che da quel tempo indrieto erano seguite. Ma avendo io di poi diligentemente letto gli scritti loro, per vedere con quali ordini e modi nello scrivere procedevano, acciò che, imitando quelli, la istoria nostra fusse meglio dai leggenti approvata ho trovato come nella descrizione delle guerre fatte dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta e quell'altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno. Il che credo facessero, o perché parvono loro quelle azioni si deboli che le giudicorono indegne di essere mandate alla memoria delle lettere, o perché temessero di non offendere i discesi di coloro i quali, per quelle narrazioni, si avessero a calunniare. Le quali due cagioni (sia detto con loro pace) mi paiono al tutto indegne di uomini grandi; perché, se niuna cosa diletta o insegna, nella istoria, è quella che particularmente si descrive; se niuna lezione è utile a cittadini che governono le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odi e delle divisioni delle città, acciò che possino con il pericolo d'altri diventati savi mantenersi uniti. E se ogni esemplo di repubblica muove, quegli che si leggono della propria muovono molto più e molto più sono utili e se di niuna repubblica furono mai le divisioni notabili di quella di Firenze sono notabilissime, perché la maggior parte delle altre repubbliche delle quali si ha qualche notizia sono state contente d'una divisione, con la quale, secondo gli accidenti, hanno ora accresciuta, ora rovinata la città loro; ma Firenze, non contenta d'una ne ha fatte molte. In Roma, come ciascuno sa, poi che i re ne furono cacciati, nacque la disunione intra i nobili e la plebe, e con quella infino alla rovina sua si mantenne; così fece Atene, così tutte le altre repubbliche che in quelli tempi fiorirono. Ma di Firenze in prima si divisono infra loro i nobili, dipoi i nobili e il popolo e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore, si divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria. E veramente, secondo il giudicio mio, mi pare che niuno altro esemplo tanto la potenza della nostra città dimostri, quanto quello che da queste divisioni depende, le quali arieno avuto forza di annullare ogni grande e potentissima città. Nondimeno la nostra pareva che sempre ne diventasse maggiore: tanta era la virtù di quelli cittadini e la potenza dello ingegno e animo loro a fare sé e la loro patria grande, che quelli tanti che rimanevono liberi da tanti mali potevano più con la virtù loro esaltarla, che non aveva potuto la malignità di quelli accidenti che gli avieno diminuiti opprimerla. E senza dubio, se Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi che la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso forma di governo che l'avesse mantenuta unita, io non so quale republica, o moderna o antica, le fusse stata superiore: di tanta virtù d'arme e di industria sarebbe stata ripiena. Perché si vede, poi che la ebbe cacciati da sé i Ghibellini in tanto numero che ne era piena la Toscana e la Lombardia, i Guelfi, con quelli che drento rimasero, nella guerra contro ad Arezzo, uno anno davanti alla giornata di Campaldino, trassono della città, di propri loro cittadini, milledugento uomini d'arme e dodicimila fanti; di poi, nella guerra che si fece contro a Filippo Visconti duca di Milano, avendo a fare esperienzia della industria e non delle armi proprie, perché le avieno in quelli tempi spente, si vide come, in cinque anni che durò quella guerra, spesono i Fiorentini tre miloni e cinquecento mila fiorini; la quale finita, non contenti alla pace, per mostrare più la potenzia della loro città, andorono a campo a Lucca. Non so io pertanto cognoscere quale cagione faccia che queste divisione non sieno degne di essere particularmente descritte. E se quelli nobilissimi scrittori furono ritenuti per non offendere la memoria di coloro di chi eglino avevono a ragionare, se ne ingannorono, e mostrorono di cognoscere poco l'ambizione degli uomini e il desiderio che gli hanno di perpetuare il nome de' loro antichi e di loro; né si ricordorono che molti, non avendo avuta occasione di acquistarsi fama con qualche opera lodevole, con cose vituperose si sono ingegnati acquistarla; né considerorono come le azioni che hanno in sé grandezza, come hanno quelle de' governi e degli stati, comunque le si trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più onore che biasimo. Le quali cose avendo io considerate, mi feciono mutare proposito, e deliberai cominciare la mia istoria dal principio della nostra città. E perché non è mia intenzione occupare i luoghi d'altri, descriverrò particularmente, insino al 1434, solo le cose seguite drento alla città, e di quelle di fuora non dirò altro che quello sarà necessario per intelligenzia di quelle di drento; di poi, passato il 1434, scriverrò particularmente l'una e l'altra parte. Oltre a questo, perché meglio e d'ogni tempo questa istoria sia intesa, innanzi che io tratti di Firenze, descriverrò per quali mezzi la Italia pervenne sotto quelli potentati che in quel tempo la governavano. Le quali cose tutte, così italiche come fiorentine, con quattro libri si termineranno: il primo narrerà brevemente tutti gli accidenti di Italia seguiti dalla declinazione dello imperio romano per infino al 1434; il secondo verrà con la sua narrazione dal principio della città di Firenze infino alla guerra che, dopo la cacciata del duca di Atene, si fece contro al pontefice; il terzo finirà nel 1414, con la morte del re Ladislao di Napoli; e con il quarto al 1434 perverremo; dal qual tempo di poi particularmente le cose seguite dentro a Firenze e fuora, infino a questi nostri presenti tempi, si descriverranno.
LIBRO PRIMO
1
I
popoli i quali nelle parti settentrionali di là dal fiume del
Reno e del Danubio abitano, sendo nati in regione generativa e
sana, in tanta moltitudine molte volte crescono, che parte di
loro sono necessitati abbandonare i terreni patrii e cercare
nuovi paesi per abitare.
L'ordine che tengono, quando una di quelle provincie si vuole
sgravare di abitatori, è dividersi in tre parti, compartendo in
modo ciascuno, che ogni parte sia di nobili e ignobili, di ricchi
e poveri ugualmente ripiena; di poi quella parte alla quale la
sorte comanda va a cercare suo fortuna, e le due parti sgravate
del terzo di loro si rimangono a godere i beni patrii. Queste
populazioni furono quelle che destrussono lo imperio romano; alle
quali ne fu data occasione dagli imperadori, i quali, avendo
abbandonata Roma, sedia antica dello Imperio, e riduttisi ad
abitare in Gonstantinopoli, avevano fatta la parte dello imperio
occidentale più debole, per essere meno osservata da loro e più
esposta alle rapine de' ministri e de' nimici di quelli.
E veramente a rovinare tanto Imperio, fondato sopra il sangue di
tanti uomini virtuosi, non conveniva che fusse meno ignavia ne'
principi, né meno infedelità ne' ministri, né meno forza o
minore ostinazione in quelli che lo assalirono; perché non una
populazione, ma molte furono quelle che nella sua rovina
congiurorono.
I primi che di quelle parti settentrionali vennono contro allo
Imperio, dopo i Cimbri, i quali furono da Mario cittadino romano
vinti, furono i Visigoti; il quale nome non altrimenti nella loro
lingua suona, che nella nostra Goti occidentali.
Questi, dopo alcune zuffe fatte a' confini dello Imperio, per
concessione delli imperadori molto tempo tennono la loro sedia
sopra il fiume del Danubio; e avvenga che, per varie cagioni e in
varii tempi, molte volte le provincie romane assalissero, sempre
nondimento furono dalla potenza delli imperadori raffrenati.
E l'ultimo che gloriosamente gli vinse fu Teodosio; talmente che,
essendo ridutti alla ubbidienzia sua, non rifeciono sopra di loro
alcuno re; ma, contenti allo stipendio concesso loro, sotto il
governo e le insegne di quello vivevano e militavano.
Ma venuto a morte Teodosio e rimasi Arcadio e Onorio suoi
figliuoli eredi dello Imperio, ma non della virtù e fortuna sua,
si mutorono, con il principe, i tempi.
Erano da Teodosio preposti alle tre parti dello Imperio tre
governatori: Ruffino alla orientale, alla occidentale Stillicone,
e Gildone alla affricana; i quali tutti, dopo la morte del
principe, pensorono, non di governare, ma come principi
possederle.
Dei quali Gildone e Ruffino ne' primi loro principii furono
oppressi; ma Stillicone, sapendo meglio celare lo animo suo,
cercò di acquistarsi fede con i nuovi imperadori, e dall'altra
parte turbare loro in modo lo stato, che gli fusse più facile di
poi lo occuparlo.
E per fare loro nimici i Visigoti, gli consigliò non dessero
più loro la consueta provisione.
Oltra di questo, non gli parendo che a turbare lo Imperio questi
nimici bastassero, ordinò che i Burgundi, Franchi, Vandali e
Alani, popoli medesimamente settentrionali, e già mossi per
cercare nuove terre, assalissero le provincie romane.
Privati adunque i Visigoti delle provisioni loro, per essere
meglio ordinati a vendicarsi della ingiuria, creorono Alarico
loro re, e assalito lo Imperio, dopo molti accidenti guastorono
la Italia, e presono e saccheggiorono Roma.
Dopo la quale vittoria morì Alarico, e successe a lui Ataulfo,
il quale tolse per moglie Placidia, sirocchia delli Imperadori e
per quel parentado convenne con loro di andare a soccorrere la
Gallia e la Spagna, le quali provincie erano da' Vandali,
Burgundioni, Alani e Franchi, mossi dalle sopra dette cagioni,
assalite.
Di che ne seguì che i Vandali, i quali avevano occupata quella
parte della Spagna detta Betica, sendo combattuti forte da i
Visigoti, e non avendo rimedio, furono da Bonifazio, il quale per
lo Imperio governava Affrica, chiamati che venissero ad occupare
quella provincia; perché, sendosi ribellato, temeva che il suo
errore non fusse dallo Imperadore ricognosciuto.
Presono i Vandali, per le cagioni dette, volentieri quella
impresa, e sotto Genserico loro re, si insignorirono d'Affrica.
Era, in questo mezzo, successo allo Imperio Teodosio figliuolo di
Arcadio, il quale, pensando poco alle cose di occidente, fece che
queste populazioni pensorono di potere possedere le cose
acquistate.
2
E così i
Vandali in Affrica, gli Alani e Visigoti in Ispagna
signoreggiavano, e i Franchi e i Burgundi, non solamente presono
la Gallia, ma quelle parti che da loro furono occupate furono da
il nome loro nominate, donde l'una parte si chiamò Francia e l'altra
Borgogna.
I felici successi di costoro destorono nuove populazioni alla
destruzione dello Imperio; ed altri populi, detti Unni,
occuporono Pannonia, provincia posta in sulla ripa di qua dal
Danubio, la quale oggi, avendo preso il nome da questi Unni, si
chiama Ungheria.
A questi disordini si aggiunse che, vedendosi lo imperadore
assalire da tante parti, per avere meno nimici, cominciò ora con
i Vandali, ora con i Franchi a fare accordi, le quali cose
accrescevano la autorità e la potenzia dei barbari e quella
dello Imperio diminuivano.
Né fu l'isola di Brettagna, la quale oggi si chiama Inghilterra,
sicura da tanta rovina; perché, temendo i Brettoni di quelli
popoli che avevano occupata la Francia, e non vedendo come lo
imperadore potesse difenderli, chiamorono in loro aiuto gli Angli,
popoli di Germania.
Presono gli Angli, sotto Vortigerio loro re, la impresa, e prima
gli difesono, di poi gli cacciorono della isola, e vi rimasono
loro ad abitare, e dal nome loro la chiamarono Anglia.
Ma gli abitatori di quella, sendo spogliati della patria loro,
diventorono per la necessità feroci, e pensorono, ancora che non
avessero potuto difendere il paese loro, di potere occupare
quello d'altri.
Passorono pertanto, colle famiglie loro il mare, e occuporono
quelli luoghi che più propinqui alla marina trovarono, e dal
nome loro chiamorono quel paese Brettagna.
3
Gli Unni,
i quali di sopra dicemmo avere occupata Pannonia, accozzatisi con
altri popoli, detti Zepidi, Eruli, Turingi e Ostrogoti (ché
così si chiamano in quella lingua i Goti orientali), si mossono
per cercare nuovi paesi; e non potendo entrare in Francia, che
era dalle forze barbare difesa, ne vennono in Italia, sotto
Attila loro re, il quale poco davanti, per essere solo nel regno,
aveva morto Bleda suo fratello; per la qual cosa diventato
potentissimo, Andarico re de' Zepidi e Velamir re degli Ostrogoti
rimasono come suoi subietti.
Venuto adunque Attila in Italia, assediò Aquileia, dove stette,
senza altro ostaculo, duoi anni; e nella obsidione di essa
guastò tutto il paese allo intorno e disperse tutti gli
abitatori di quello; il che, come nel suo luogo direno, dette
principio alla città di Vinegia.
Dopo la presa e rovina di Aquileia e di molte altre città, si
volse verso Roma, dalla rovina della quale si astenne per i
preghi del pontefice, la cui reverenzia potette tanto in Attila,
che si uscì di Italia e ritirossi in Austria, dove si morì.
Dopo la morte del quale, Velamir re degli Ostrogoti e gli altri
capi delle altre nazioni presono le armi contro ad Errico e Uric
suoi figliuoli, e l'uno ammazzorono, e l'altro constrinsono, con
gli Unni, a ripassare il Danubio e ritornarsi nella patria loro;
e gli Ostrogoti e i Zepidi si posono in Pannonia, e gli Eruli e i
Turingi sopra la ripa di là dal Danubio si rimasono.
Partito Attila di Italia, Valentiniano, imperadore occidentale,
pensò di instaurare quella; e per essere più commodo a
difenderla da' barbari, abbandonò Roma e pose la sua sedia in
Ravenna.
Queste avversità che aveva avute lo imperio occidentale erano
state cagione che lo imperadore, il quale in Gonstantinopoli
abitava, aveva concesso molte volte la possessione di quello ad
altri, come cosa piena di pericoli e di spesa; e molte volte
ancora, sanza sua permissione, i Romani, vedendosi abbandonati,
per difendersi, creavano per loro medesimi uno imperadore, o
alcuno, per sua autorità, si usurpava lo imperio: come avvenne
in questi tempi, che fu occupato da Massimo romano, dopo la morte
di Valentiniano; e costrinse Eudossa stata moglie di quello, a
prenderlo per marito.
La quale, desiderosa di vendicare tale ingiuria, non potendo,
nata di sangue imperiale, sopportare le nozze d'uno privato
cittadino, confortò secretamente Genserico, re dei Vandali e
signore di Affrica, a venire in Italia, mostrandogli la facilità
e la utilità dello acquisto.
Il quale, allettato dalla preda, subito venne; e trovata
abbandonata Roma, saccheggiò quella, dove stette quattordici
giorni; prese ancora e saccheggiò più terre in Italia; e
ripieno sé e lo esercito suo di preda, se ne tornò in Affrica.
I Romani, ritornati in Roma, sendo morto Massimo, creorono
imperadore Avito romano.
Di poi, dopo molte cose seguite in Italia e fuori, e dopo la
morte di più imperadori, pervenne lo imperio di Gostantinopoli a
Zenone e quello di Roma a Oreste e Augustulo suo figliuolo, i
quali per inganno occuporono lo imperio.
E mentre che disegnavano tenerlo per forza, gli Eruli e i Turingi,
i quali io dissi essersi posti, dopo la morte di Attila, sopra la
ripa di là dal Danubio, fatta lega insieme, sotto Odeacre loro
capitano, vennono in Italia, e ne' luoghi lasciati vacui da
quelli vi entrarono i Longobardi, popoli medesimamente
settentrionali, condotti da Godoogo loro re, i quali furono, come
nel suo luogo direno, l'ultima peste di Italia.
Venuto adunque Odeacre in Italia, vinse e ammazzò Oreste,
propinquo a Pavia, e Augustulo si fuggì.
Dopo la quale vittoria, perché Roma variasse con la potenza il
titolo si fece Odeacre, lasciando il nome dello imperio, chiamare
re di Roma.
E fu il primo che, de' capi de' popoli che scorrevono allora il
mondo, si posasse ad abitare in Italia; perché gli altri, o per
timore di non la potere tenere, per essere potuta dallo
imperadore orientale facilmente soccorrere, o per altra occulta
cagione, la avevano spogliata, e di poi cerco altri paesi per
fermare la sedia loro.
4
Era
pertanto, in questi tempi, lo imperio antico romano ridutto sotto
questi principi: Zenone, regnando in Gonstantinopoli, comandava a
tutto lo imperio orientale; gli Ostrogoti Mesia e Pannonia
signoreggiavano; i Visigoti, Suevi e Alani la Guascogna tenevano
e la Spagna; i Vandali l'Affrica, i Franchi e Burgundi la Francia,
gli Eruli e i Turingi la Italia.
Era il regno degli Ostrogoti pervenuto a Teoderico nipote di
Velamir, il quale, tenendo amicizia con Zenone imperadore
orientale, gli scrisse come a' suoi Ostrogoti pareva cosa
ingiusta, sendo superiori di virtù a tutti gli altri popoli,
essere inferiori di imperio, e come egli era impossibile poterli
tenere ristretti dentro a' termini di Pannonia, tale che,
veggendo come gli era necessario lasciare loro pigliare l'armi e
ire a cercare nuove terre, voleva prima farlo intendere a lui,
acciò che potesse provedervi, concedendo loro qualche paese,
dove con sua buona grazia potessero più onestamente e con loro
maggiore comodità vivere.
Onde che Zenone, parte per paura, parte per il desiderio aveva di
cacciare di Italia Odeacre, concesse a Teoderigo il venire contro
a quello e pigliare la possessione di Italia.
Il quale subito partì di Pannonia, dove lasciò i Zepidi, popoli
suoi amici; e venuto in Italia, ammazzò Odeacre e il figliuolo,
e con l'esemplo di quello, prese il titulo di re di Italia; e
pose la sua sedia in Ravenna, mosso da quelle cagioni che feciono
già a Valentiniano imperadore abitarvi.
Fu Teoderigo uomo nella guerra e nella pace eccellentissimo,
donde nell'una fu sempre vincitore, nell'altra benificò
grandemente le città e i popoli suoi.
Divise costui gli Ostrogoti per le terre, con i capi loro, acciò
che nella guerra gli comandassero e nella pace gli correggessero;
accrebbe Ravenna, instaurò Roma, ed eccetto che la disciplina
militare, rendé a' Romani ogni altro onore; contenne dentro ai
termini loro, e sanza alcuno tumulto di guerra, ma solo con la
sua autorità, tutti i re barbari occupatori dello Imperio;
edificò terre e fortezze intra la punta del mare Adriatico e le
Alpi, per impedire più facilmente il passo ai nuovi barbari che
volessero assalire la Italia.
E se tante virtù non fussero state bruttate, nell'ultimo della
sua vita, da alcune crudeltà causate da varii sospetti del regno
suo come la morte di Simmaco e di Boezio, uomini santissimi,
dimostrano, sarebbe al tutto la sua memoria degna da ogni parte
di qualunque onore, perché, mediante la virtù e bontà sua, non
solamente Roma e Italia, ma tutte le altre parti dello
occidentale imperio, libere dalle continue battiture che per
tanti anni, da tante inundazione di barbari avevano sopportate,
si sollevorono, e in buono ordine e assai felice stato si
ridussero.
5
E
veramente, se alcuni tempi furono mai miserabili, in Italia e in
queste provincie corse dai barbari, furono quelli che da Arcadio
e Onorio infino a lui erano corsi.
Perché, se si considererà di quanto danno sia cagione, ad una
repubblica o ad uno regno, variare principe o governo, non per
alcuna estrinseca forza, ma solamente per civile discordia (dove
si vede come le poche variazioni ogni repubblica e ogni regno,
ancora che potentissimo, rovinano), si potrà di poi facilmente
immaginare quanto in quelli tempi patisse la Italia e le altre
provincie romane; le quali, non solamente variorono il governo e
il principe, ma le leggi, i costumi, il modo del vivere, la
religione, la lingua, l'abito, i nomi.
Le quali cose ciascuna per sé, non che tutte insieme, farieno,
pensandole, non che vedendole e sopportandole, ogni fermo e
costante animo spaventare.
Da questo nacque la rovina, il nascimento e lo augumento di molte
città.
Intra quelle che rovinorono fu Aquileia, Luni, Chiusi, Populonia,
Fiesole e molte altre; intra quelle che di nuovo si edificorono
furono Vinegia, Siena, Ferrara, l'Aquila e altre assai terre e
castella che per brevità si omettono; quelle che di piccole
divennero grandi furono Firenze, Genova, Pisa, Milano, Napoli e
Bologna; alle quali tutte si aggiugne la rovina e il rifacimento
di Roma, e molte che variamente furono disfatte e rifatte.
Intra queste rovine e questi nuovi popoli sursono nuove lingue,
come apparisce nel parlare che in Francia, in Ispagna e in Italia
si costuma, il quale mescolato con la lingua patria di quelli
nuovi popoli e con la antica romana fanno un nuovo ordine di
parlare.
Hanno, oltre di questo, variato il nome, non solamente le
provincie, ma i laghi, i fiumi, i mari e gli uomini; perché la
Francia, l'Italia e la Spagna sono ripiene di nomi nuovi e al
tutto dagli antichi alieni; come si vede, lasciandone indrieto
molti altri, che il Po, Garda, l'Arcipelago sono per nomi
disformi agli antichi nominati: gli uomini ancora, di Cesari e
Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventorono.
Ma, intra tante variazioni, non fu di minore momento il variare
della religione, perché, combattendo la consuetudine della
antica fede con i miracoli della nuova, si generavono tumulti e
discordie gravissime intra gli uomini; e se pure la cristiana
religione fusse stata unita, ne sarebbe seguiti minori disordini;
ma, combattendo la chiesa greca, la romana e la ravennate insieme,
e di più le sette eretiche con le cattoliche, in molti modi
contristavano il mondo.
Di che ne è testimone l'Affrica, la quale sopportò molti più
affanni mediante la setta arriana, creduta dai Vandali, che per
alcuna loro avarizia o naturale crudeltà.
Vivendo adunque gli uomini intra tante persecuzioni, portavano
descritto negli occhi lo spavento dello animo loro, perché,
oltre alli infiniti mali che sopportavano, mancava buona parte di
loro di potere rifuggire allo aiuto di Dio, nel quale tutti i
miseri sogliono sperare; perché, sendo la maggiore parte di loro
incerti a quale Iddio dovessero ricorrere, mancando di ogni aiuto
e d'ogni speranza, miseramente morivano.
6
Meritò
pertanto Teoderigo non mediocre lode, sendo stato il primo che
facesse quietare tanti mali; talché, per trentotto anni che
regnò in Italia, la ridusse in tanta grandezza, che le antiche
battiture più in lei non si ricognoscevano.
Ma, venuto quello a morte, e rimaso nel regno Atalarico, nato di
Amalasiunta sua figliuola, in poco tempo non sendo ancora la
fortuna sfogata negli antichi suoi affanni si ritornò, perché
Atalarico, poco di poi che l'avolo morì; e rimaso il regno alla
madre, fu tradita da Teodato, il quale era stato da lei chiamato
perché l'aiutasse governare il regno.
Costui, avendola morta e fatto sé re, e per questo sendo
diventato odioso agli Ostrogoti, dette animo a Iustiniano
imperadore di credere poterlo cacciare di Italia, e deputò
Bellisario per capitano di quella impresa; il quale aveva già
vinta l'Affrica, e cacciatine i Vandali, e riduttola sotto lo
Imperio.
Occupò dunque Bellisario la Sicilia, e di quivi, passato in
Italia, occupò Napoli e Roma.
I Goti, veduta questa rovina, ammazzorono Teodato loro re, come
cagione di quella, ed elessono in suo luogo Vitigete, il quale,
dopo alcune zuffe, fu da Bellisario assediato e preso in Ravenna.
E non avendo ancora al tutto conseguito la vittoria, fu
Bellisario da Iustiniano revocato, e in suo luogo posto Giovanni
e Vitale, disformi in tutto a quello di virtù e di costumi; di
modo che i Goti ripresono animo e creorono loro re Ildovado, che
era governatore in Verona.
Dopo costui, perché fu ammazzato, pervenne il regno a Totila, il
quale ruppe le genti dello Imperadore, e recuperò la Toscana e
Napoli e ridusse i suoi capitani quasi che allo ultimo di tutti
gli stati che Bellisario avea recuperati.
Per la qual cosa parve a Iustiniano di rimandarlo in Italia.
Il quale, ritornato con poche forze, perdé più tosto la
reputazione delle cose prima fatte da lui, che di nuovo ne
riacquistasse; perché Totila trovandosi Bellisario con le genti
ad Ostia, sopra gli occhi suoi espugnò Roma; e veggendo non
potere né lasciare né tenere quella, in maggiore parte la
disfece, e caccionne il popolo, e i senatori ne menò seco, e
stimando poco Bellisario, ne andò con lo esercito in Calavria, a
rincontrare gente che, di Grecia, in aiuto di Bellisario venivano.
Veggendo per tanto Bellisario abbandonata Roma, si volse ad una
impresa onorevole, perché, entrato nelle romane rovine, con
quanta più celerità potette, rifece a quella città le mura, e
vi richiamò dentro gli abitatori.
Ma a questa sua lodevole impresa si oppose la fortuna, perché
Iustiniano fu, in quel tempo, assalito da' Parti, e richiamò
Bellisario; e quello, per ubbidire al suo signore, abbandonò la
Italia; e rimase quella provincia a discrezione di Totila, il
quale di nuovo prese Roma.
Ma non fu con quella crudeltà trattata che prima, perché,
pregato da san Benedetto, il quale in quelli tempi aveva di
santità grandissima opinione, si volse più tosto a rifarla.
Iustiniano intanto aveva fatto accordo con i Parti, e pensando di
mandare nuova gente al soccorso di Italia, fu dagli Sclavi, nuovi
popoli settentrionali, ritenuto, i quali avieno passato il
Danubio e assalito la Illiria e la Tracia; in modo che Totila
quasi tutta la occupò.
Ma, vinti che ebbe Iustiniano gli Sclavi, mandò in Italia con
gli eserciti Narsete, eunuco, uomo in guerra eccellentissimo; il
quale, arrivato in Italia ruppe e ammazzò Totila, e le reliquie
che de' Goti dopo quella rotta rimasero si ridussero in Pavia,
dove creorono Teia loro re.
Narsete dall'altra parte dopo la vittoria, prese Roma, e in
ultimo si azzuffò con Teia, presso a Nocera, e quello ammazzò e
ruppe.
Per la quale vittoria si spense al tutto il nome de' Goti in
Italia, dove settanta anni, da Teoderigo loro re a Teia, avevono
regnato.
7
Ma, come
prima fu libera l'Italia dai Goti, Iustiniano morì, e rimase suo
successore Iustino suo figliuolo, il quale, per il consiglio di
Sofia sua moglie, rivocò Narsete di Italia e gli mandò Longino
suo successore.
Seguitò Longino l'ordine degli altri, di abitare in Ravenna; e
oltre a questo dette alla Italia nuova forma, perché non
costituì governatori di provincie, come avevano fatto i Goti, ma
fece, in tutte le città e terre di qualche momento, capi i quali
chiamò duchi.
Né in tale distribuzione onorò più Roma che le altre terre;
perché, tolto via i consoli e il senato, i quali nomi insino a
quel tempo vi si erano mantenuti, la ridusse sotto un duca, il
quale ciascuno anno da Ravenna vi si mandava, e chiamavasi il
ducato romano; e a quello che per lo imperadore stava a Ravenna e
governava tutta Italia pose nome esarco.
Questa divisione fece più facile la rovina di Italia, e con più
celerità dette occasione a' Longobardi di occuparla.
8
Era
Narsete sdegnato forte contro allo Imperadore, per essergli stato
tolto il governo di quella provincia che con la sua virtù e con
il suo sangue aveva acquistata, perché a Sofia non bastò
ingiuriarlo rivocandolo, che la vi aggiunse ancora parole piene
di vituperio, dicendo che lo voleva far tornare a filare con gli
altri eunuchi, tanto che Narsete ripieno di sdegno, persuase ad
Alboino re de' Longobardi, che allora regnava in Pannonia, di
venire ad occupare la Italia.
Erano, come di sopra si mostrò entrati i Longobardi in quelli
luoghi presso al Danubio, che erano dagli Eruli e Turingi stati
abbandonati, quando da Odeacre loro re furono condotti in Italia;
dove sendo stati alcuno tempo, e pervenuto il regno loro ad
Alboino, uomo efferato e audace, passorono il Danubio e si
azzufforono con Commundo re de' Zepidi, che teneva la Pannonia, e
lo vinsono.
E trovandosi nella preda Rosmunda, figliuola di Commundo, la
prese Alboino per moglie, e si insignorì di Pannonia; e mosso
dalla sua efferata natura, fece del teschio di Commundo una tazza,
con la quale in memoria di quella vittoria beeva.
Ma, chiamato in Italia da Narsete, con il quale nella guerra de'
Goti aveva tenuto amicizia, lasciò la Pannonia agli Unni, i
quali dopo la morte di Attila dicemmo essersi nella loro patria
ritornati, e ne venne in Italia; e trovando quella in tante parti
divisa, occupò in un tratto Pavia, Milano, Verona, Vicenza,
tutta la Toscana, e la maggior parte di Flamminia, chiamata oggi
Romagna.
Talché parendogli, per tanti e sì subiti acquisti, avere già
la vittoria di Italia, celebrò in Verona uno convito; e per il
molto bere diventato allegro, sendo il teschio di Commundo pieno
di vino, lo fece presentare a Rosismunda regina, la quale allo
incontro di lui mangiava, dicendo con voce alta, in modo che
quella potette udire, che voleva che, in tanta allegrezza, la
bevesse con suo padre.
La quale voce fu come una ferita nel petto di quella donna; e
deliberata di vendicarsi, sappiendo che Elmelchilde, nobile
lombardo giovine e feroce, amava una sua ancilla, trattò con
quella che celatamente desse opera che Elmelchilde, in suo
scambio, dormisse con lei.
Ed essendo Elmelchilde, secondo l'ordine di quella, venuto a
trovarla in loco oscuro, credendosi essere con l'ancilla, iacé
con Rosismunda.
La quale, dopo il fatto, se gli scoperse, e, mòstrogli come in
suo arbitrio era o ammazzare Alboino e godersi sempre lei e il
regno, o essere morto da quello come stupratore della sua moglie,
consentì Almelchilde di ammazzare Alboino.
Ma, di poi che eglino ebbono morto quello, veggendo come non
riusciva loro di occupare il regno, anzi dubitando di non essere
morti da' Longobardi per lo amore che ad Alboino portavano, con
tutto il tesoro regio se ne fuggirono a Ravenna, a Longino, il
quale onorevolmente gli ricevette.
Era morto, in questi travagli, Iustino imperadore, e in suo luogo
rifatto Tiberio, il quale, occupato nelle guerre de' Parti, non
poteva alla Italia suvvenire; onde che a Longino parve il tempo
commodo a potere diventare, mediante Rosismunda e il suo tesoro,
re de' Longobardi e di tutta Italia; e conferì con lei questo
suo disegno e le persuase ad ammazzare Elmelchilde e pigliare lui
per marito.
Il che fu da quella accettato; e ordinò una coppa di vino
avvelenato, la quale di sua mano porse ad Elmelchilde, che
assetato usciva del bagno.
Il quale, come la ebbe beuta mezza, sentendosi commuovere le
interiori, e accorgendosi di quello che era, sforzò Rosismunda a
bere il resto; e così, in poche ore, l'uno e l'altro di loro
morirono, e Longino si privò di speranza di diventare re.
I Longobardi intanto, ragunatisi in Pavia, la quale avevano fatta
principale sedia del loro regno, feciono Clefi loro re; il quale
riedificò Imola, stata rovinata da Narsete, occupò Rimino e,
infino a Roma, quasi ogni luogo; ma nel corso delle sue vittorie
morì. Questo Clefi fu in modo crudele, non solo contro agli
esterni, ma ancora contro ai suoi Longobardi, che quegli,
sbigottiti della potestà regia, non vollono rifare più re; ma
feciono intra loro trenta duchi, che governassero gli altri.
Il quale consiglio fu cagione che i Longobardi non occupassero
mai tutta Italia, e che il regno loro non passasse Benevento, e
che Roma, Ravenna, Cremona, Mantova, Padova, Monselice, Parma,
Bologna, Faenza, Furlì, Cesena, parte si difendessero un tempo,
parte non fussero mai da loro occupate.
Perché non avere re li fece meno pronti alla guerra; e poi che
rifeciono quello, diventorono, per essere stati liberi un tempo,
meno ubbidienti e più atti alle discordie infra loro, la qual
cosa, prima ritardò la loro vittoria, di poi, in ultimo, gli
cacciò di Italia.
Stando adunque i Longobardi in questi termini, i Romani e Longino
ferno accordo con loro, che ciascuno posasse l'armi e godesse
quello che possedeva.
9
In questi
tempi cominciorono pontefici a venire in maggiore autorità che
non erano stati per lo adietro; perché i primi dopo san Piero,
per la santità della vita e per i miracoli, erano dagli uomini
reveriti; gli esempli de' quali ampliorono in modo la religione
cristiana, che i principi furono necessitati, per levare via
tanta confusione che era nel mondo, ubbidire a quella.
Sendo adunque lo imperadore diventato cristiano, e partitosi di
Roma e gitone in Gonstantinopoli, ne seguì, come nel principio
dicemmo, che lo imperio romano rovinò più presto e la chiesa
romana più presto crebbe.
Nondimeno, infino alla venuta de' Longobardi, sendo la Italia
sottoposta tutta o agli imperatori o ai re, non presono mai i
pontefici, in quelli tempi, altra autorità che quella che dava
loro la reverenza de' loro costumi e della loro dottrina: nelle
altre cose o agli imperadori o ai re ubbidivano, e qualche volta
da quelli furono morti, e come loro ministri nelle azioni loro
operati.
Ma quello che gli fece diventare di maggiore momento nelle cose
di Italia fu Teoderigo re de' Goti, quando pose la sua sedia in
Ravenna; perché, rimasa Roma sanza principe, i Romani avevono
cagione, per loro refugio, di prestare più ubbidienza al papa:
nondimeno per questo la loro autorità non crebbe molto; solo
ottenne di essere la chiesa di Roma preposta a quella di Ravenna.
Ma, venuti i Lombardi, e ridutta Italia in più parti, dettono
cagione al papa di farsi più vivo; perché, sendo quasi che capo
in Roma, lo imperadore di Gonstantinopoli e i Lombardi gli
avevono rispetto, talmente che i Romani, mediante il papa, non
come subietti, ma come compagni con i Longobardi e con Longino si
collegarono.
E così, seguitando i papi ora di essere amici de' Lombardi, ora
de' Greci, la loro dignità accrescevano.
Ma, seguita di poi la rovina dello imperio orientale (la quale
seguì in questi tempi, sotto Eracleo imperadore; perché i
popoli Sclavi, de' quali facemmo di sopra menzione, assaltorono
di nuovo la Illiria, e quella, occupata, chiamorono dal nome loro
Schiavonia; e l'altre parti di quello imperio furono prima
assaltate da' Persi, di poi dai Saracini, i quali sotto Maumetto
uscirno d'Arabia, e in ultimo da' Turchi, e toltogli la Soria, l'Affrica
e lo Egitto), non restava al papa, per la impotenza di quello
imperio, più commodità di potere rifuggire a quello nelle sue
oppressioni; e dall'altro canto, crescendo le forze de'
Longobardi, pensò che gli bisognava cercare nuovi favori, e
ricorse in Francia a quelli re.
Di modo che tutte le guerre che, dopo a questi tempi, furono da'
barbari fatte in Italia furono in maggior parte dai pontefici
causate; e tutti i barbari che quella inundorono furono il più
delle volte da quegli chiamati.
Il quale modo di procedere dura ancora in questi nostri tempi; il
che ha tenuto e tiene la Italia disunita e inferma.
Per tanto, nel descrivere le cose seguite da questi tempi ai
nostri, non si dimosterrà più la rovina dello Imperio, che è
tutto in terra, ma lo augumento de' pontefici e di quegli altri
principati che di poi la Italia, infino alla venuta di Carlo VIII,
governorono.
E vedrassi come i papi, prima con le censure, di poi con quelle e
con le armi insieme, mescolate con le indulgenzie, erano
terribili e venerandi; e come, per avere usato male l'uno e l'altro,
l'uno hanno al tutto perduto, dell'altro stanno a discrezione d'altri.
10
Ma,
ritornando all'ordine nostro, dico come al papato era pervenuto
Gregorio III e al regno de' Longobardi Aistulfo, il quale, contro
agli accordi fatti, occupò Ravenna e mosse guerra al Papa.
Per la qual cosa Gregorio, per le cagioni sopra scritte, non
confidando più nello imperadore di Gonstantinopoli per essere
debole, né volendo credere alla fede de' Lombardi, che la avieno
molte volte rotta, ricorse in Francia, a Pipino II, il quale, di
signore di Austrasia e Brabante, era diventato re di Francia, non
tanto per la virtù sua, quanto per quella di Carlo Martello suo
padre e di Pipino suo avolo.
Perché Carlo Martello, sendo governatore di quello regno, dette
quella memorabile rotta a' Saraceni presso a Torsi, in sul fiume
dell'Era, dove furono morti più che dugento milia di loro; donde
Pipino suo figliuolo, per la reputazione del padre e virtù sua,
diventò poi re di quel regno.
Al quale papa Gregorio, come è detto, mandò per aiuti contro a'
Longobardi: a cui Pipino promesse mandargli; ma che desiderava
prima vederlo e alla presenza onorarlo.
Per tanto Gregorio ne andò in Francia, e passò per le terre de'
Lombardi suoi nimici, sanza che lo impedissero: tanta era la
reverenzia che si aveva alla religione.
Andato adunque Gregorio in Francia, fu da quel Re onorato e
rimandato con i suoi eserciti in Italia; i quali assediarono i
Longobardi in Pavia.
Onde che Aistulfo, constretto da necessità, si accordò con i
Franciosi, e quelli feciono lo accordo per i prieghi del Papa, il
quale non volse la morte del suo nimico, ma che si convertisse e
vivesse: nel quale accordo Aistulfo promisse rendere alla Chiesa
tutte le terre che le aveva occupate.
Ma, ritornate le genti di Pipino in Francia, Aistulfo non
osservò lo accordo, e il Papa di nuovo ricorse a Pipino; il
quale di nuovo mandò in Italia, vinse i Longobardi e prese
Ravenna; e contro alla voglia dello imperadore greco, la dette al
Papa con tutte quelle altre terre che erano sotto il suo esarcato,
e vi aggiunse il paese di Urbino e la Marca.
Ma Aistulfo, nel consegnare queste terre, morì, e Desiderio
lombardo, che era duca di Toscana, prese le armi per occupare il
regno, e domandò aiuto al Papa, promettendogli la amicizia sua;
e quello gliene concesse, tanto che gli altri principi cederono.
E Desiderio osservò nel principio la fede, e seguì di
consegnare le terre al Pontefice, secondo le convenzioni fatte
con Pipino: né venne più esarco da Gostantinopoli in Ravenna;
ma si governava secondo la voglia del pontefice.
11
Morì di
poi Pipino, e successe nel regno Carlo suo figliuolo, il quale fu
quello che per la grandezza delle cose fatte da lui, fu nominato
Magno.
Al papato intanto era successo Teodoro I.
Costui venne in discordia con Desiderio e fu assediato in Roma da
lui; talché il Papa ricorse per aiuti a Carlo, il quale,
superate le Alpi, assediò Desiderio in Pavia, e prese lui e i
figliuoli, e li mandò prigioni in Francia; e ne andò a vicitare
il Papa a Roma, dove giudicò che il papa, vicario di Dio, non
potesse essere dagli uomini giudicato; e il Papa e il popolo
romano lo feciono imperadore.
E così Roma ricominciò ad avere lo imperadore in occidente; e
dove il papa soleva essere raffermo dagli imperadori, cominciò
lo imperadore, nella elezione, ad avere bisogno del papa, e
veniva lo Imperio a perdere i gradi suoi, e la Chiesa ad
acquistargli; e per questi mezzi sempre sopra i principi
temporali cresceva la sua autorità.
Erano stati i Longobardi dugentotrentadue anni in Italia, e di
già non ritenevano di forestieri altro che il nome: e volendo
Carlo riordinare la Italia, il che fu al tempo di papa Leone III,
fu contento abitassero in quegli luoghi dove si erano nutriti, e
si chiamasse quella provincia, dal nome loro, Lombardia.
E perché quelli avessero il nome romano in reverenzia, volle che
tutta quella parte di Italia a loro propinqua, che era sottoposta
allo esarcato di Ravenna si chiamasse Romagna.
E oltre a questo creò Pipino suo figliuolo re di Italia; la
iurisdizione del quale si estendeva infino a Benevento; e tutto
il resto possedeva lo imperadore greco, con il quale Carlo aveva
fatto accordo.
Pervenne in questi tempi al pontificato Pascale I, e i
parrocchiani delle chiese di Roma, per essere più propinqui al
papa e trovarsi alla elezione di quello, per ornare la loro
potestà con uno splendido titolo, si cominciorono a chiamare
cardinali; e si arrogorono tanta reputazione, massime poi che gli
esclusono il popolo romano dallo eleggere il pontefice, che rade
volte la elezione di quello usciva del numero loro; onde, morto
Pascale, fu creato Eugenio II, del titulo di santa Sabina.
E la Italia, poi che la fu in mano de' Franciosi, mutò in parte
forma e ordine, per avere preso il papa nel temporale più
autorità, e avendo quegli condotto in essa il nome de' conti e
de' marchesi, come prima da Longino, esarco di Ravenna, vi erano
stati posti i nomi de' duchi.
Pervenne dopo alcuno pontefice, al papato Osporco romano, il
quale, per la bruttura del nome, si fece chiamare Sergio; il che
dette principio alla mutazione de' nomi, che fanno nelle loro
elezioni i pontefici.
12
Era
intanto morto Carlo imperadore, al quale successe Lodovico suo
figliuolo; dopo la morte del quale nacquero intra i suoi
figliuoli tante differenzie che, al tempo de' nipoti suoi, fu
tolto alla casa di Francia lo imperio, e ridutto nella Magna; e
chiamossi il primo imperadore tedesco Ainulfo.
Né solamente la famiglia de' Carli, per le sue discordie, perdé
lo imperio, ma ancora il regno di Italia; perché i Lombardi
ripresono le forze, e offendevono il papa e i Romani; tanto che
il pontefice, non vedendo a chi si rifuggire, creò, per
necessità, re di Italia Berengario, duca nel Friuoli.
Questi accidenti dettono animo agli Unni, che si trovavano in
Pannonia, di assaltare la Italia; e venuti alle mani con
Berengario, furono forzati tornarsi in Pannonia, o vero in
Ungheria, ché così quella provincia, da loro, si nominava.
Romano era in questi tempi imperadore in Grecia, il quale aveva
tolto lo imperio a Gostantino, sendo prefetto della sua armata. E
perché se gli era in tale novitate, ribellata la Puglia e la
Calavria, che allo imperio suo, come di sopra dicemmo, ubbidivano,
sdegnato per tale rebellione, permesse a' Saraceni che passassero
in que' luoghi; i quali, venuti, e prese quelle provincie,
tentorono di espugnare Roma.
Ma i Romani, perché Berengario era occupato in defendersi dagli
Unni, feciono loro capitano Alberigo duca di Toscana, e mediante
la virtù di quello, salvorono Roma da' Saraceni.
I quali, partiti da quello assedio, feciono una rocca sopra il
monte Galgano, e di quivi signoreggiavano la Puglia e la Calavria,
e il resto di Italia battevono.
E così veniva la Italia, in questi tempi, ad essere
maravigliosamente afflitta, sendo combattuta di verso l'Alpi
dagli Unni e di verso Napoli da' Saraceni.
Stette la Italia in questi travagli molti anni, e sotto tre
Berengari, che successono l'uno all'altro; nel qual tempo il papa
e la Chiesa era ad ogni ora perturbata, non avendo dove ricorrere,
per la disunione de' principi occidentali e per la impotenzia
degli orientali.
La città di Genova e tutte le sue riviere furono, in questi
tempi, da' Saraceni disfatte, donde ne nacque la grandezza della
città di Pisa, nella quale assai popoli, cacciati della patria
sua, ricorsono. Le quali cose seguirono negli anni della
cristiana religione 931.
Ma, fatto imperadore Ottone, figliuolo di Errico e di Mattelda,
duca di Sassonia, uomo prudente e di grande reputazione, Agabito
papa si volse a pregarlo venisse in Italia, a trarla di sotto
alla tirannide de' Berengari.
13
Erano gli
stati di Italia, in questi tempi, così ordinati: la Lombardia
era sotto a Berengario III e Alberto suo figliuolo; la Toscana e
la Romagna per uno ministro dello imperadore occidentale era
governata; la Puglia e la Calavria parte allo imperadore greco
parte a' Saraceni ubbidiva; in Roma si creavano ciascuno anno
duoi consoli della nobilità, i quali secondo lo antico costume
la governavano; aggiugnevasi a questo uno prefetto, che rendeva
ragione al popolo; avevano un consiglio di dodici uomini, i quali
distribuivano i rettori, ciascuno anno, per le terre a loro
sottoposte.
Il papa aveva, in Roma e in tutta Italia, più o meno autorità,
secondo che erano i favori delli imperadori, o di quelli che
erano più potenti in essa.
Ottone imperadore, adunque, venne in Italia e tolse il regno a'
Berengari, che avevono regnato in quella cinquantacinque anni, e
restituì le sue dignità al pontefice.
Ebbe costui uno figliuolo e uno nipote, chiamati ancora loro
Ottone, i quali, l'uno apresso l'altro, successono dopo di lui
allo Imperio.
E al tempo di Ottone III, papa Gregorio V fu cacciato dai Romani;
donde che Ottone venne in Italia e rimisselo in Roma; e il Papa,
per vendicarsi con i Romani, tolse a quelli la autorità di
creare lo imperadore, e la dette a sei principi della Magna: tre
vescovi, Magonza, Treveri e Colonia; e tre principi, Brandiborgo,
Palatino e Sassonia: il che seguì nel 1002.
Dopo la morte di Ottone III, fu dagli Elettori creato imperadore
Errico, duca di Baviera, il quale, dopo dodici anni, fu da
Stefano VIII incoronato.
Erano Errico e Simeonda sua moglie di santissima vita; il che si
vede per molti templi dotati e edificati da loro, intra i quali
fu il tempio di San Miniato, propinquo alla città di Firenze.
Morì Errico nel 1024; al quale successe Currado di Svevia, a cui,
di poi, Errico II.
Costui venne a Roma; e perché egli era scisma nella Chiesa, di
tre papi, gli disfece tutti, e fece eleggere Chimenti II, dal
quale fu coronato imperadore.
14
Era
allora governata Italia parte dai popoli, parte dai principi,
parte dai mandati dallo imperadore, de' quali il maggiore, e a
cui gli altri riferivano si chiamava Cancellario.
Intra i principi il più potente era Gottifredi e la contessa
Mattelda sua donna, la quale era nata di Beatrice, sirocchia di
Errico II.
Costei e il marito possedevano Lucca, Parma, Reggio e Mantova,
con tutto quello che oggi si chiama il Patrimonio.
A' pontefici faceva allora assai guerra l'ambizione del popolo
romano, il quale, in prima, si era servito della autorità di
quelli per liberarsi dagli imperadori; di poi che gli ebbe preso
il dominio della città, e riformata quella secondo che a lui
parve, subito diventò nimico a' pontefici; e molte più ingiurie
riceverno quegli da quel popolo, che da alcuno altro principe
cristiano.
E ne' tempi che i papi facevono tremare con le censure tutto il
Ponente, avevono il popolo romano ribelle, né qualunque di essi
aveva altro intento che torre la reputazione e la autorità l'uno
all'altro.
Venuto, adunque, al pontificato Niccolao II, come Gregorio V
tolse ai Romani il potere creare lo imperadore, così Niccolao
gli privò di concorrere alla creazione del papa, e volle che,
solo la elezione di quello appartenessi ai cardinali.
Né fu contento a questo, ché convenuto con quelli principi che
governavano la Calavria e la Puglia, per le cagioni che poco di
poi direno, costrinse tutti gli ufficiali mandati dai Romani per
la loro iurisdizione a rendere ubidienzia al papa, e alcuni ne
privò del loro ufizio.
15
Fu, dopo
la morte di Niccolao, scisma nella Chiesa, perché il clero di
Lombardia non volle prestare ubbidienza ad Alessandro II, eletto
a Roma, e creò Cadolo da Parma antipapa.
Errico che aveva in odio la potenzia de' pontefici, fece
intendere a papa Alessandro che renunziasse al pontificato, e ai
cardinali che andassero nella Magna a creare uno nuovo pontefice.
Onde che fu il primo principe che cominciasse a sentire di quale
importanza fussero le spirituali ferite, perché il Papa fece uno
concilio a Roma, e privò Errico dello Imperio e del regno.
E alcuni popoli italiani seguirono il Papa, e alcuni Errico; il
che fu seme degli umori guelfi e ghibellini, acciò che la Italia,
mancate le inundazioni barbare, fusse dalle guerre intestine
lacerata.
Errico adunque, sendo scomunicato, fu costretto da' suoi popoli a
venire in Italia e, scalzo, inginocchiarsi al Papa e domandargli
perdono: il che seguì l'anno 1080.
Nacque nondimeno poco di poi, nuova discordia intra il Papa ed
Errico; onde che il Papa di nuovo lo scomunicò, e lo Imperadore
mandò il suo figliuolo, chiamato ancora Errico, con esercito, a
Roma, e con lo aiuto de' Romani, che avevano in odio il Papa, lo
assediò nella fortezza; onde che Ruberto Guiscardo venne di
Puglia a soccorrerlo, ed Errico non lo aspettò, ma se ne tornò
nella Magna. Solo i Romani stettono nella loro ostinazione, tale
che Roma ne fu di nuovo da Ruberto saccheggiata e riposta nelle
antiche rovine, dove da più pontefici era innanzi stata
instaurata.
E perché da questo Ruberto nacque l'ordine del regno di Napoli,
non mi pare superfluo narrare particularmente le azioni e nazione
di quello.
16
Poi che
venne disunione intra li eredi di Carlo Magno, come di sopra
abbiamo dimostro, si dette occasione a nuovi popoli
settentrionali, detti Normandi, di venire ad assalire la Francia
e occuporono quel paese il quale oggi da loro, è detto
Normandìa.
Di questi popoli una parte ne venne in Italia ne' tempi che
quella provincia da' Berengarii, da' Saraceni e dagli Unni era
infestata, e occuporono alcune terre in Romagna, dove, intra
quelle guerre, virtuosamente si mantennono.
Di Tancredi, uno di questi principi normandi, nacquono più
figliuoli, intra i quali fu Guglielmo, nominato Ferabac, e
Ruberto, detto Guiscardo.
Era pervenuto il principato a Guglielmo, e i tumulti di Italia in
qualche parte erano cessati; nondimeno i Saraceni tenevono la
Sicilia e ogni dì scorrevono i liti di Italia; per la qual cosa
Guglielmo convenne con il principe di Capua e di Salerno e con
Melorco greco, che per lo imperadore di Grecia governava la
Puglia e la Calavria, di assaltare la Sicilia, e, seguendone la
vittoria, si accordorono che qualunche di loro della preda e
dello stato dovesse per la quarta parte participare.
Fu la impresa felice; e cacciati i Saraceni, occuporono la
Sicilia.
Dopo la quale vittoria, Melorco fece venire secretamente gente di
Grecia, e prese la possessione dell'isola per lo imperadore, e
solamente divise la preda.
Di che Guglielmo fu male contento; ma si riserbò a tempo più
commodo a dimostrarlo; e si partì di Sicilia insieme con i
principi di Salerno e di Capua.
I quali come furono partiti da lui per tornarsene a casa,
Guglielmo non ritornò in Romagna, ma si volse con le sue genti
verso Puglia, e subito occupò Melfi, e quindi, in breve tempo,
contro alle forze dello imperadore greco, si insignorì quasi che
di tutta Puglia e di Calavria, nelle quali provincie
signoreggiava, al tempo di Niccolao II, Ruberto Guiscardo suo
fratello.
E perché gli aveva avute assai differenze con i suoi nipoti per
la eredità di quelli stati, usò l'autorità del Papa a comporle;
il che fu da il Papa esequito volentieri, desideroso di
guadagnarsi Ruberto, acciò che contro agli imperadori tedeschi e
contro alla insolenzia del popolo romano lo difendesse; come lo
effetto ne seguì, secondo che di sopra abbiamo dimostro, che ad
instanzia di Gregorio VII, cacciò Errico di Roma e quello popolo
domò. A Ruberto successono Ruggieri e Guglielmo, suoi figliuoli;
allo stato de' quali si aggiunse Napoli e tutte le terre che sono
da Napoli a Roma, e di poi la Sicilia; delle quali si fece
signore Ruggieri.
Ma Guglielmo, di poi, andando in Gonstantinopoli per prendere per
moglie la figliuola dello Imperadore, fu da Ruggieri assalito, e
toltogli lo stato.
E insuperbito per tale acquisto, si fece prima chiamare re di
Italia; di poi, contento del titolo di re di Puglia e di Sicilia,
fu il primo che desse nome e ordine a quel regno; il quale ancora
oggi intra gli antichi termini si mantiene, ancora che più volte
abbia variato, non solamente sangue, ma nazione; perché, venuta
meno la stirpe de' Normandi, si trasmutò quel regno ne' Tedeschi,
da quelli ne' Franciosi, da costoro negli Aragonesi, e oggi è
posseduto dai Fiamminghi.
17
Era
pervenuto al pontificato Urbano II, il quale era in Roma odiato;
e non gli parendo anche potere stare, per le disunioni, in Italia
securo, si volse ad una generosa impresa, e se ne andò in
Francia con tutto il clero, e ragunò in Auverna molti popoli, a'
quali fece una orazione contro agli infideli; per la quale
intanto accese gli animi loro, che deliberorono di fare la
impresa di Asia contro a' Saraceni; la quale impresa con tutte le
altre simili furono di poi chiamate Crociate, perché tutti
quelli che vi andorono erano segnati sopra le armi e sopra i
vestimenti di una croce rossa. I principi di questa impresa
furono Gottifredi, Eustachio e Balduino di Buglò, conti di
Bologna, e uno Pietro Eremita, per santità e prudenza celebrato;
dove molti re e molti popoli concorsono con danari, e molti
privati senza alcuna mercede militorono: tanto allora poteva
negli animi degli uomini la religione, mossi dallo esemplo di
quelli che ne erano capi.
Fu questa impresa nel principio gloriosa, perché tutta l'Asia
Minore, la Soria e parte dello Egitto venne nella potestà de'
Cristiani; mediante la quale nacque l'ordine de' cavalieri di
Ierosolima, il quale oggi ancora regna, e tiene l'isola di Rodi,
rimasa unico ostaculo alla potenzia de' Maumettisti.
Nacquene ancora l'ordine de' Templari, il quale dopo poco tempo,
per li loro cattivi costumi venne meno.
Seguirno in varii tempi varii accidenti, dove molte nazioni e
particulari uomini furono celebrati.
Passò in aiuto di quella impresa, il re di Francia, il re di
Inghilterra, e i popoli pisani, viniziani e genovesi vi
acquistorono reputazione grandissima; e con varia fortuna insino
a' tempi del Saladino saraceno combatterono, la virtù del quale
e la discordia de' Cristiani tolse alla fine loro tutta quella
gloria che si avevono nel principio acquistata, e furono dopo
novanta anni cacciati di quello luogo ch'eglino avevono con tanto
onore felicemente recuperato.
18
Dopo la
morte di Urbano, fu creato pontefice Pascale II, e allo Imperio
era pervenuto Errico IV.
Costui venne a Roma, fingendo di tenere amicizia col Papa; di poi
il Papa e tutto il clero misse in prigione; né mai lo liberò,
se prima non gli fu concesso di potere disporre delle chiese
della Magna come a lui pareva.
Morì, in questi tempi, la contessa Matelda, e lasciò erede di
tutto il suo stato la Chiesa.
Dopo la morte di Pascale e di Errico IV, seguirono più papi e
più imperadori, tanto che il papato pervenne ad Alessandro III,
e lo Imperio a Federigo Svevo, detto Barbarossa.
Avevano avuto i pontefici, in quelli tempi, con il popolo romano
e con gli imperadori molte difficultà, le quali al tempo del
Barbarossa assai crebbero.
Era Federigo uomo eccellente nella guerra, ma pieno di tanta
superbia che non poteva sopportare di avere a cedere al Pontefice;
nondimeno nella sua elezione venne a Roma per la corona, e
pacificamente si tornò nella Magna.
Ma poco stette in questa opinione, perché tornò in Italia per
domare alcune terre in Lombardia che non lo ubbidivano; nel quale
tempo occorse che il cardinale di S.
Clemente, di nazione romano, si divise da papa Alessandro, e da
alcuni cardinali fu fatto papa. Trovavasi in quel tempo Federigo
imperadore a campo a Crema; con il quale dolendosi Alessandro
dello Antipapa, gli rispose che l'uno e l'altro andasse a
trovarlo e allora giudicherebbe chi di loro fussi papa.
Dispiacque questa risposta ad Alessandro; e perché lo vedeva
inclinato a favorire l'Antipapa, lo scomunicò e se ne fuggì a
Filippo re di Francia.
Federigo intanto, seguitando la guerra in Lombardia, prese e
disfece Milano, la qual cosa fu cagione che Verona, Padova e
Vicenza si unirono contro a di lui, a difesa comune.
In questo mezzo era morto lo Antipapa, donde che Federigo creò
in suo luogo Guido da Cremona.
I Romani, in questi tempi, per la assenza del Papa e per gl'impedimenti
che lo Imperadore aveva in Lombardia, avevono ripreso in Roma
alquanto di autorità, e andavano ricognoscendo la ubbidienza
delle terre che solevono essere loro subiette.
E perché i Tusculani non vollono cedere alla loro autorità, gli
andorono popularmente a trovare; i quali furono soccorsi da
Federigo, e ruppono lo esercito de' Romani con tanta strage che
Roma non fu mai poi né populata né ricca.
Era intanto tornato papa Alessandro in Roma, parendogli potervi
stare sicuro per la inimicizia avevono i Romani con Federigo, e
per li nimici che quello aveva in Lombardia.
Ma Federigo, posposto ogni rispetto, andò a campo a Roma; dove
Alessandro non lo aspettò, ma se ne fuggì a Guglielmo re di
Puglia, rimaso erede di quel regno dopo la morte di Ruggieri.
Ma Federigo, cacciato dalla peste, lasciò la obsidione, e se ne
tornò nella Magna; e le terre di Lombardia le quali erano
congiurate contro a di lui per potere battere Pavia e Tortona,
che tenevono le parti imperiali, edificorono una città che fusse
sedia di quella guerra; la quale nominarono Alessandria in onore
di Alessandro papa e in vergogna di Federigo.
Morì ancora Guidone antipapa, e fu fatto in suo luogo Giovanni
da Fermo, il quale per i favori delle parti dello Imperadore si
stava in Montefiasconi.
19
Papa
Alessandro, in quel mezzo, se ne era ito in Tusculo, chiamato da
quel popolo, acciò che con la sua autorità lo difendesse dai
Romani; dove vennono a lui oratori mandati da Errico re di
Inghilterra a significargli che della morte del beato Tommaso,
vescovo di Conturbia, il loro re non aveva alcuna colpa, sì come
publicamente ne era stato infamato.
Per la qual cosa il Papa mandò duoi cardinali in Inghilterra a
ricercare la verità della cosa; i quali, ancora che non
trovassino il Re in manifesta colpa, nondimeno, per la infamia
del peccato e per non lo avere onorato come egli meritava, gli
dettono per penitenza che, chiamati tutti i baroni del regno, con
giuramento alla presenza loro si scusasse e inoltre mandasse
subito dugento soldati in Ierusalem, pagati per uno anno, ed esso
fussi obligato, con quello esercito che potesse ragunare maggiore,
personalmente, avanti che passassero tre anni, andarvi, e che
dovesse annullare tutte le cose fatte nel suo regno in disfavore
della libertà ecclesiastica, e dovesse acconsentire che
qualunche suo subietto potesse, volendo, appellare a Roma.
Le quali cose furono tutte da Elrico accettate; e sottomessesi a
quello iudizio un tanto re, che oggi uno uomo privato si
vergognerebbe a sottomettervisi.
Nondimeno, mentre che il Papa aveva tanta autorità ne' principi
longinqui, non poteva farsi ubbidire dai Romani; dai quali non
potette impetrare di potere stare in Roma, ancora che promettesse
d'altro che dello ecclesiastico non si travagliare: tanto le cose
che paiono sono più di scosto che da presso temute.
Era tornato, in questo tempo Federigo in Italia, e mentre che si
preparava a fare nuova guerra al Papa, tutti i suoi prelati e
baroni gli feciono intendere che lo abbandonerebbono, se non si
riconciliava con la Chiesa, di modo che fu constretto andare ad
adorarlo a Vinegia, dove si pacificarono insieme; e nello accordo
il Papa privò lo Imperadore d'ogni autorità che gli avesse
sopra Roma, e nominò Guglielmo re di Sicilia e di Puglia per suo
confederato.
E Federigo, non potendo stare senza fare guerra, ne andò alla
impresa di Asia, per sfogare la sua ambizione contro a Maumetto,
la quale contro a' vicari di Cristo sfogare non aveva potuto.
Ma arrivato sopra il fiume..., allettato dalla chiarezza delle
acque, vi si lavò dentro, per il quale disordine morì.
E così l'acque fecero più favore a' Maumettisti, che le
scomuniche a' Cristiani, perché queste frenorono l'orgoglio suo,
e quelle lo spensono.
20
Morto
Federigo, restava solo al Papa a domare la contumacia de' Romani;
e dopo molte dispute fatte sopra la creazione de' consoli,
convennono che i Romani secondo il costume loro gli eleggessero;
ma non potessero pigliare il magistrato, se prima non giuravano
di mantenere la fede alla Chiesa.
Il quale accordo fece che Giovanni antipapa se ne fuggì in Monte
Albano, dove, poco di poi, si morì. Era morto in questi tempi,
Guglielmo re di Napoli, e il Papa disegnava di occupare quel
regno, per non avere lasciati quel re altri figliuoli che
Tancredi, suo figliuolo naturale; ma i baroni non consentirono al
Papa, ma vollono che Tancredi fusse re.
Era papa, allora, Celestino III, il quale, desideroso di trarre
quel regno dalle mani di Tancredi, operò che Elrico figliuolo di
Federigo fusse fatto imperadore, e gli promisse il regno di
Napoli, con questo, che restituisse alla Chiesa le terre che a
quella appartenevano.
E per facilitare la cosa, trasse di munistero Gostanza, già
vecchia, figliuola di Guglielmo, e gliene dette per moglie.
E così passò il regno di Napoli da' Normandi, che ne erano
stati fondatori, ai Tedeschi.
Elrico imperadore, come prima ebbe composte le cose della Magna,
venne in Italia con Gostanza sua moglie e con uno suo figliuolo
di quattro anni chiamato Federigo, e sanza molta dificultà prese
il Regno, perché di già era morto Tancredi, e di lui era rimaso
un piccolo fanciullo detto Ruggieri.
Morì, dopo alcun tempo, Elrico, in Sicilia, e successe a lui nel
Regno Federigo, e allo Imperio Ottone duca di Sansogna, fatto per
i favori che gli fece papa Innocenzio III.
Ma come prima ebbe presa la corona, contro ad ogni opinione,
diventò Ottone nimico del Pontefice; occupò la Romagna, e
ordinava di assalire il Regno, per la qual cosa il Papa lo
scomunicò, in modo che fu da ciascheduno abbandonato, e gli
Elettori elessono imperadore Federigo re di Napoli.
Venne Federigo a Roma per la corona, e il Papa non volle
incoronarlo, perché temeva la sua potenza e cercava di trarlo di
Italia, come ne aveva tratto Ottone; tanto che Federigo sdegnato,
ne andò nella Magna, e fatte più guerre con Ottone, lo vinse.
In quel mezzo si morì Innocenzio, il quale, oltre alle sue
egregie opere, edificò lo spedale di Santo Spirito in Roma.
Di costui fu successore Onorio III, al tempo del quale surse l'ordine
di San Domenico e di San Francesco, nel 1218.
Coronò questo pontefice Federigo, al quale Giovanni disceso di
Balduino re di Ierusalem, che era con le reliquie de' Cristiani
in Asia e ancora teneva quel titulo, dette una sua figliuola per
moglie, e con la dota gli concesse il titulo di quel regno: di
qui nasce che qualunche re di Napoli si intitula re di Ierusalem.
21
In Italia
si viveva allora in questo modo: i Romani non facevano più
consoli, e in cambio di quelli, con la medesima autorità,
facevano quando uno quando più senatori; durava ancora la lega
che avevano fatta le città di Lombardia contro a Federigo
Barbarossa, le quali erano Milano, Brescia, Mantova, con la
maggiore parte delle città di Romagna, e di più Verona, Vicenza,
Padova e Trevigi; nelle parti dello imperadore erano Cremona,
Bergamo, Parma, Reggio, Modena e Trento; le altre città e
castella di Lombardia, di Romagna e della Marca trivigiana
favorivano, secondo la necessità, ora questa ora quella parte.
Era venuto in Italia, al tempo di Ottone III, uno Ecelino, del
quale, rimaso in Italia, nacque uno figliuolo, che generò uno
altro Ecelino.
Costui, sendo ricco e potente, si accostò a Federigo II il quale,
come si è detto, era diventato nimico del Papa; e venendo in
Italia per opera e favore di Ecelino, prese Verona e Mantova, e
disfece Vicenza occupò Padova, e ruppe lo esercito delle terre
collegate, e di poi se ne venne verso Toscana.
Ecelino, intanto, aveva sottomesso tutta la Marca trivigiana: non
potette espugnare Ferrara, perché fu difesa da Azzone da Esti e
dalle genti che il Papa aveva in Lombardia; donde che, partita la
obsidione, il Papa dette quella città in feudo ad Azzone Estense,
dal quale sono discesi quelli i quali ancora oggi la
signoreggiano.
Fermossi Federigo a Pisa, desideroso di insignorirsi di Toscana;
e nel ricognoscere gli amici e nimici di quella provincia seminò
tanta discordia che fu cagione della rovina di tutta Italia;
perché le parti guelfe e ghibelline multiplicorono, chiamandosi
Guelfi quelli che seguivono la Chiesa, e Ghibellini quelli che
seguivono gli imperadori; e a Pistoia in prima fu udito questo
nome.
Partito Federigo da Pisa, in molti modi assaltò e guastò le
terre della Chiesa, tanto che il Papa, non avendo altro rimedio,
gli bandì la crociata contro, come avevono fatto gli antecessori
suoi contro a' Saraceni.
E Federigo, per non essere abandonato dalle sue genti ad un
tratto, come erano stati Federigo Barbarossa e altri suoi
maggiori, soldò assai Saraceni; e per obligarseli, e per fare
uno ostaculo in Italia fermo contro alla Chiesa, che non temessi
le papali maledizioni, donò loro Nocera nel Regno, acciò che,
avendo uno proprio refugio, potessero con maggiore securità
servirlo.
22
Era
venuto al pontificato Innocenzio IV; il quale, temendo di
Federigo, se ne andò a Genova, e di quivi in Francia; dove
ordinò uno concilio, a Lione, al quale Federigo deliberò di
andare. Ma fu ritenuto dalla rebellione di Parma; dalla impresa
della quale sendo ributtato, se ne andò in Toscana, e di quivi
in Sicilia, dove si morì.
E lasciò in Svevia Currado suo figliuolo, e in Puglia Manfredi,
nato di concubina, il quale aveva fatto duca di Benevento.
Venne Currado per la possessione del Regno, e arrivato a Napoli
si morì; e di lui rimase Curradino piccolo, che si trovava nella
Magna.
Pertanto Manfredi, prima, come tutore di Curradino, occupò
quello stato; di poi, dando nome che Curradino era morto, si fece
re, contro alla voglia del Papa e de' Napoletani, i quali fece
acconsentire per forza.
Mentre che queste cose nel Regno si travagliavano, seguirono in
Lombardia assai movimenti intra la parte guelfa e ghibellina.
Per la guelfa era uno legato del Papa; per la ghibellina Ecelino,
il quale possedeva quasi tutta la Lombardia di là dal Po.
E perché, nel trattare la guerra, se gli ribellò Padova, fece
morire dodici mila Padovani; e lui, avanti che la guerra
terminasse, fu morto, che era di età di ottanta anni; dopo la
cui morte tutte le terre possedute da lui diventorono libere.
Seguitava Manfredi re di Napoli le inimicizie contro alla Chiesa
secondo i suoi antinati, e tenea il Papa, che si chiamava Urbano
IV, in continue angustie; tanto che il Pontefice, per domarlo,
gli convocò la crociata contro, e ne andò ad aspettare le genti
a Perugia.
E parendogli che le genti venissero poche, deboli e tarde, pensò
che a vincere Manfredi bisognassero più certi aiuti; e si volse
per i favori in Francia, e creò re di Sicilia e di Napoli Carlo
d'Angiò, fratello di Lodovico re di Francia, e lo citò a venire
in Italia a pigliare quel regno.
Ma prima che Carlo venisse a Roma, il Papa morì, e fu fatto in
suo luogo Clemente IV; al tempo del quale, Carlo, con trenta
galee, venne ad Ostia, e ordinò che l'altre sue genti venissero
per terra.
E nel dimorare che fece in Roma, i Romani, per gratificarselo, lo
feciono senatore, e il Papa lo investì del Regno, con obligo che
dovesse pagare ciascuno anno alla Chiesa cinquanta milia fiorini;
e fece uno decreto che per lo avvenire né Carlo né altri che
tenessero quel regno non potessero essere imperadori.
E andato Carlo contro a Manfredi, lo ruppe e ammazzò, propinquo
a Benevento, e s'insignorì di Sicilia e del Regno.
Ma Curradino, a cui per testamento del padre si apparteneva
quello stato, ragunata assai gente nella Magna, venne in Italia
contro a Carlo, con il quale combatté a Tagliacozzo; e fu prima
rotto, e poi, fuggendosi sconosciuto, fu preso e morto.
23
Stette la
Italia quieta, tanto che successe al pontificato Adriano V.
E stando Carlo a Roma, e quella governando per lo ufizio che gli
aveva del senatore, il Papa non poteva sopportare la sua potenza,
e se ne andò ad abitare a Viterbo, e sollecitava Ridolfo
imperadore a venire in Italia contro a Carlo.
E così i pontefici, ora per carità della religione, ora per
loro propria ambizione, non cessavano di chiamare in Italia umori
nuovi e suscitare nuove guerre; e poi ch'eglino avieno fatto
potente uno principe, se ne pentivano, e cercavano la sua rovina;
né permettevano che quella provincia la quale per loro debolezza
non potevano possedere, che altri la possedesse.
E i principi ne temevano, perché sempre, o combattendo o
fuggendo, vincevono; se con qualche inganno non erano oppressi,
come fu Bonifazio VIII e alcuni altri, i quali, sotto colore d'amicizia,
furono dagli imperadori presi.
Non venne Ridolfo in Italia, sendo ritenuto dalla guerra che
aveva con il re di Buemia. In quel mezzo morì Adriano, e fu
creato pontefice Niccolao III di casa Orsina, uomo audace e
ambizioso; il quale pensò, ad ogni modo, di diminuire la potenza
di Carlo; e ordinò che Ridolfo imperadore si dolesse che Carlo
teneva uno governatore in Toscana rispetto alla parte guelfa, che
era stata da lui, dopo la morte di Manfredi, in quella provincia
rimessa.
Cedette Carlo allo Imperadore, e ne trasse i suoi governatori; e
il Papa vi mandò un suo nipote cardinale per governatore dello
Imperio; tale che lo Imperadore, per questo onore fattogli,
restituì alla Chiesa la Romagna, stata da' suoi antecessori
tolta a quella, e il Papa fece duca di Romagna Bertoldo Orsino.
E parendogli essere diventato potente da potere mostrare il viso
a Carlo, lo privò dello ufizio del senatore, e fece uno decreto
che niuno di stirpe regia potesse essere più senatore in Roma.
Aveva in animo ancora di torre la Sicilia a Carlo, e mosse, a
questo fine, secretamente pratica con Pietro re di Ragona, la
quale poi, al tempo del suo successore, ebbe effetto.
Disegnava ancora fare di casa sua duoi re, l'uno in Lombardia, l'altro
in Toscana, la potenza de' quali defendesse la Chiesa da'
Tedeschi che volessero venire in Italia, e da i Franzesi che
erano nel Regno.
Ma con questi pensieri si morì; e fu il primo de' papi che
apertamente mostrasse la propria ambizione, e che disegnasse,
sotto colore di fare grande la Chiesa, onorare e benificare i
suoi.
E come da questi tempi indietro non si è mai fatta menzione di
nipoti o di parenti di alcuno pontefice, così per lo avvenire ne
fia piena la istoria, tanto che noi ci condurreno a' figliuoli;
né manca altro a tentare a' pontefici se non che, come eglino
hanno disegnato, infino a' tempi nostri, di lasciargli principi,
così, per lo avvenire, pensino di lasciare loro il papato
ereditario.
Bene è vero che, per infino a qui, i principati ordinati da loro
hanno avuta poca vita, perché il più delle volte i pontefici,
per vivere poco tempo, o ei non forniscono di piantare le piante
loro, o, se pure le piantano, le lasciano con sì poche e deboli
barbe, che al primo vento, quando è mancata quella virtù che le
sostiene, si fiaccano.
24
Successe
a costui Martino IV, il quale, per essere di nazione francioso,
favorì le parti di Carlo; in favore del quale, Carlo mandò in
Romagna, che se gli era ribellata, sue genti; ed essendo a campo
a Furlì, Guido Bonatto astrologo ordinò che, in un punto dato
da lui, il popolo gli assaltasse; in modo che tutti i Franciosi
vi furono presi e morti.
In questo tempo si mandò ad effetto la pratica mossa da papa
Niccolao con Pietro re di Aragona; mediante la quale i Siciliani
ammazzorono tutti i Franciosi che si trovorono in quella isola;
della quale Pietro si fece signore, dicendo appartenersegli per
avere per moglie Gostanza figliuola di Manfredi. Ma Carlo, nel
riordinare la guerra per la recuperazione di quella, si morì; e
rimase di lui Carlo II, il quale in quella guerra era rimaso
prigione in Sicilia, e per essere libero promisse di ritornare
prigione, se infra tre anni non aveva impetrato dal Papa che i
reali di Aragona fussero investiti del regno di Sicilia.
25
Ridolfo
imperadore, in cambio di venire in Italia per rendere allo
Imperio la riputazione in quella, vi mandò un suo oratore, con
autorità di potere fare libere tutte quelle città che si
ricomperassero, onde che molte città si ricomperorono, e con la
libertà mutorono modo di vivere.
Adulfo di Sassonia successe allo Imperio, e al pontificato Pietro
del Murrone, che fu nominato papa Celestino; il quale, sendo
eremita e pieno di santità, dopo sei mesi renunziò al
pontificato; e fu eletto Bonifazio VIII.
I cieli (i quali sapevono come e' doveva venire tempo che i
Franciosi e i Tedeschi si allargherebbono da Italia e che quella
provincia resterebbe in mano, al tutto, degli Italiani) acciò
che il papa, quando mancasse degli ostacoli oltramontani, non
potesse né fermare né godere la potenza sua, feciono crescere
in Roma due potentissime famiglie, Colonnesi e Orsini, acciò che,
con la potenza e propinquità loro, tenessero il pontificato
infermo.
Onde che papa Bonifazio, il quale cognosceva questo, si volse a
volere spegnere i Colonnesi, e oltre allo avergli scomunicati,
bandì loro la crociata contro.
Il che, se bene offese alquanto loro, li offese più la Chiesa;
perché quella arme la quale per carità della fede aveva
virtuosamente adoperato, come si volse, per propria ambizione, ai
cristiani, cominciò a non tagliare; e così il troppo desiderio
di sfogare il loro appetito faceva che i pontefici, a poco a poco,
si disarmavano.
Privò, oltra di questo, duoi che di quella famiglia erano
cardinali, del cardinalato.
E fuggendo Sarra, capo di quella casa, davanti a lui,
scognosciuto, fu preso da corsali catelani, e messo al remo; ma
cognosciuto di poi, a Marsilia, fu mandato al re Filippo di
Francia, il quale era stato da Bonifazio scomunicato e privo del
regno.
E considerando Filippo come nella guerra aperta contro a'
pontefici, o e' si rimaneva perdente, o e' vi si correva assai
pericoli, si volse agl'inganni; e simulato di voler fare accordo
con il Papa, mandò Sarra in Italia secretamente. Il quale,
arrivato in Alagna, dove era il Papa, convocati di notte suoi
amici, lo prese; e benché, poco di poi, da il popolo d'Alagna
fusse liberato, nondimeno, per il dolore di quella ingiuria,
rabbioso morì.
26
Fu
Bonifazio ordinatore del giubileo, nel 1300, e provide che ogni
cento anni si celebrasse.
In questi tempi seguirono molti travagli tra le parti guelfe e
ghibelline; e per essere stata abbandonata Italia dagli
imperadori, molte terre diventorono libere, e molte furono dai
tiranni occupate.
Restituì papa Benedetto a' cardinali Colonnesi il cappello, e
Filippo re di Francia ribenedisse.
A costui successe Clemente V, il quale, per essere francioso,
ridusse la corte in Francia, ne l'anno 1305.
In quel mezzo Carlo II re di Napoli morì; al quale successe
Ruberto suo figliuolo; e allo Imperio era pervenuto Arrigo di
Luzimborgo, il quale venne a Roma per coronarsi, non ostante che
il Papa non vi fusse.
Per la cui venuta seguirono assai movimenti in Lombardia; perché
rimesse nelle terre tutti i fuori usciti, o guelfi o ghibellini
che fussero; di che ne seguì che, cacciando l'uno l'altro, si
riempié quella provincia di guerra; a che lo Imperadore non
potette, con ogni suo sforzo, obviare.
Partito costui di Lombardia, per la via di Genova se ne venne a
Pisa, dove s'ingegnò di tòrre la Toscana al re Ruberto; e non
faccendo alcun profitto, se ne andò a Roma; dove stette pochi
giorni, perché dagli Orsini, con il favore del re Ruberto, ne fu
cacciato; e ritornossi a Pisa; e per fare più securamente guerra
alla Toscana, e trarla dal governo del re Ruberto, lo fece
assaltare da Federigo re di Sicilia.
Ma quando egli sperava, in un tempo, occupare la Toscana e torre
al re Ruberto lo stato, si morì.
Al quale successe nello Imperio Lodovico di Baviera.
In quel mezzo pervenne al papato Giovanni XXII; al tempo del
quale lo Imperadore non cessava di perseguitare i Guelfi e la
Chiesa, la quale in maggior parte da il re Ruberto e dai
Fiorentini era difesa.
Donde nacquero assai guerre, fatte in Lombardia dai Visconti
contro ai Guelfi, e in Toscana da Castruccio da Lucca contro ai
Fiorentini.
Ma perché la famiglia de' Visconti fu quella che dette principio
alla ducea di Milano, uno de' cinque principati che di poi
governorono la Italia, mi pare da replicare da più alto luogo la
loro condizione.
27
Poi che
seguì, in Lombardia, la lega di quelle città delle quali di
sopra facemmo menzione, per difendersi da Federigo Barbarossa,
Milano, ristorato che fu dalla rovina sua, per vendicarsi delle
ingiurie ricevute, si congiunse con quella lega, la quale
raffrenò il Barbarossa e tenne vive in Lombardia, un tempo, le
parti della Chiesa; e ne' travagli di quelle guerre che allora
seguirono, diventò in quella città potentissima la famiglia di
quelli della Torre; della quale sempre crebbe la reputazione,
mentre che gli imperadori ebbono in quella provincia poca
autorità.
Ma venendo Federigo II in Italia, e diventata la parte ghibellina,
per la opera di Ecelino, potente, nacquono in ogni città umori
ghibellini; donde che, in Milano, di quelli che tenevano la parte
ghibellina fu la famiglia de' Visconti, la quale cacciò quelli
della Torre di Milano.
Ma poco stettano fuora, ché, per accordi fatti intra lo
Imperadore e il Papa, furono restituiti nella patria loro.
Ma sendone andato il Papa con la corte in Francia, e venendo
Arrigo di Luzimborgo in Italia per andare per la corona a Roma,
fu ricevuto, in Milano, da Maffeo Visconti e Guido della Torre, i
quali allora erano i capi di quelle famiglie.
Ma disegnando Maffeo servirsi dello Imperadore per cacciare Guido,
giudicando la impresa facile per essere quello di contraria
fazione allo Imperio, prese occasione dai rammarichii che il
popolo faceva per i sinistri portamenti de' Tedeschi; e
cautamente andava dando animo a ciascuno, e gli persuadeva a
pigliare l'armi e levarsi da dosso la servitù di quegli barbari.
E quando gli parve avere disposta la materia a suo proposito,
fece, per alcuno suo fidato, nascere uno tumulto, sopra il quale
tutto il popolo prese l'armi contro al nome tedesco.
Né prima fu mosso lo scandolo che Maffeo con gli suoi figliuoli
e tutti li suoi partigiani si trovorono in arme; e corsono ad
Arrigo, significandogli come questo tumulto nasceva da quelli
della Torre, i quali, non contenti di stare in Milano
privatamente, avevono presa occasione di volerlo spogliare, per
gratificarsi i Guelfi di Italia e diventare principi di quella
città ma che stesse di buono animo, ché loro, con la loro parte
quando si volesse difendere, erano per salvarlo in ogni modo.
Credette Arrigo essere vere tutte le cose dette da Maffeo, e
ristrinse le sue forze con quelle de' Visconti, e assalì quelli
della Torre, i quali erano corsi in più parti della città per
fermare i tumulti; e quegli che poterono avere ammazzorono, e gli
altri, spogliati delle loro sustanze, mandorono in esilio.
Restato adunque Maffeo Visconti come principe in Milano, rimasono,
dopo lui, Galeazzo e Azzo; e dopo costoro, Luchino e Giovanni.
Diventò Giovanni arcivescovo in quella città; e di Luchino, il
quale morì avanti a lui, rimasero Bernabò e Galeazzo; ma
morendo ancora, poco di poi, Galeazzo, rimase di lui Giovan
Galeazzo, detto Conte di Virtù.
Costui, dopo la morte dello Arcivescovo, con inganno ammazzò
Bernabò suo zio e restò solo principe di Milano; il quale fu il
primo che avesse il titulo di duca.
Di costui rimase Filippo e Giovanmariagnolo; il quale sendo morto
da il popolo di Milano, rimase lo stato a Filippo, del quale non
rimase figliuoli maschi; donde che quello stato si transferì
dalla casa de' Visconti a quella degli Sforzeschi, nel modo e per
le ragioni che nel suo luogo si narreranno.
28
Ma
tornando donde io mi parti', Lodovico imperadore, per dare
riputazione alla parte sua e per pigliare la corona, venne in
Italia; e trovandosi in Milano, per avere cagione di trarre
danari da' Milanesi, mostrò di lasciargli liberi, e misse i
Visconti in prigione; di poi, per mezzo di Castruccio da Lucca,
gli liberò; e andato a Roma, per potere più facilmente
perturbare la Italia, fece Piero della Corvara antipapa; con la
reputazione del quale, e con la forza de' Visconti, disegnava
tenere inferme le parti contrarie di Toscana e di Lombardia.
Ma Castruccio morì; la quale morte fu cagione del principio
della sua rovina; perché Pisa e Lucca se gli ribellorono, e i
Pisani mandorono l'Antipapa prigione al Papa in Francia; in modo
che lo Imperadore, disperato delle cose di Italia, se ne tornò
nella Magna.
Né fu prima partito costui, che Giovanni re di Buemia venne in
Italia, chiamato da' Ghibellini di Brescia, e si insignorì di
quella e di Bergamo.
E perché questa venuta fu di consentimento del Papa, ancora che
fingesse il contrario, il legato di Bologna lo favoriva,
giudicando che questo fusse buono rimedio, a provedere che lo
Imperadore non tornasse in Italia.
Per il quale partito la Italia mutò condizione, perché i
Fiorentini e il re Ruberto, vedendo che il Legato favoriva le
imprese de' Ghibellini, diventorono nimici di tutti quelli di chi
il Legato e il re di Buemia era amico; e sanza avere riguardo a
parti guelfe e ghibelline, si unirono molti principi con loro,
intra i quali furono i Visconti, quegli della Scala, Filippo
Gonzaga mantovano, quegli da Carrara, quegli da Esti. Donde che
il Papa gli scomunicò tutti e il Re per timore di questa lega,
se ne andò, per ragunare più forze, a casa; e tornato di poi in
Italia con più gente, gli riuscì nondimeno la impresa difficile;
tanto che, sbigottito, con dispiacere del Legato, se ne tornò in
Buemia; e lasciò solo guardato Reggio e Modona, e a Marsilio e
Piero de' Rossi raccomandò Parma, i quali erano in quella città
potentissimi.
Partito costui, Bologna si accostò con la lega, e i collegati si
divisono infra loro le quattro città che restavano nella parte
della Chiesa; e convennono che Parma pervenisse a quelli della
Scala, Reggio a' Gonzaga, Modona a quelli da Esti, e Lucca ai
Fiorentini.
Ma nelle imprese di queste terre seguirono molte guerre, le quali
furono poi, in buona parte, dai Viniziani composte.
E' parrà forse ad alcuno cosa non conveniente che, infra tanti
accidenti seguiti in Italia, noi abbiamo differito tanto a
ragionare de' Viniziani, sendo la loro una repubblica che, per
ordine e per potenza, debbe essere sopra ogni altro principato di
Italia celebrata; ma perché tale ammirazione manchi,
intendendosene la cagione, io mi farò indietro assai tempo,
acciò che ciascuno intenda quali fussero i principii suoi, e
perché differirono tanto tempo nelle cose di Italia a
travagliarsi.
29
Campeggiando
Attila re degli Unni Aquileia, gli abitatori di quella, poi che
si furono difesi molto tempo, disperati della salute loro, come
meglio poterono, con le loro cose mobili, sopra molti scogli, i
quali erano, nella punta del mare Adriatico disabitati, si
rifuggirono.
I Padovani ancora, veggendosi il fuoco propinquo, e temendo che,
vinta Aquileia, Attila non venisse a trovargli, tutte le loro
cose mobili di più valore portorono dentro al medesimo mare, in
uno luogo detto Rivo alto; dove mandorono ancora le donne, i
fanciugli e i vecchi loro e la gioventù riserborono in Padova,
per difenderla.
Oltre a di questi, quegli di Monselice, con gli abitatori de'
colli allo intorno, spinti da il medesimo terrore, sopra scogli
del medesimo mare ne andorono.
Ma presa Aquileia, e avendo Attila guasta Padova, Monselice,
Vicenza e Verona, quelli di Padova, e i più potenti, si rimasero
ad abitare le paludi che erano intorno a Rivo alto.
Medesimamente tutti i popoli allo intorno, di quella provincia
che anticamente si chiama Vinezia, cacciati dai medesimi
accidenti, in quelle paludi si ridussero.
Così, constretti da necessità lasciorono luoghi amenissimi e
fertili, e in sterili, deformi, e privi di ogni commodità
abitorono.
E per essere assai popoli in un tratto ridotti insieme, in
brevissimo tempo feciono quelli luoghi, non solo abitabili, ma
dilettevoli; e constituite infra loro leggi e ordini, intra tante
rovine di Italia, sicuri si godevano.
E in breve tempo crebbero in riputazione e forze; perché, oltre
ai predetti abitatori, vi rifuggirono molti delle città di
Lombardia, cacciati massime dalle crudeltà di Clefi re de'
Longobardi; il che non fu di poco augumento a quella città,
tanto che a' tempi di Pipino re di Francia quando, per i prieghi
del Papa, venne a cacciare i Longobardi di Italia, nelle
convenzioni che seguirono intra lui e lo Imperadore de' Greci fu
che il duca di Benevento e i Viniziani non ubbidissino né all'uno
né all'altro, ma, di mezzo, la loro libertà si godessero.
Oltre a di questo, come la necessità gli aveva condotti ad
abitare dentro alle acque, così gli forzava a pensare, non si
valendo della terra, di potervi onestamente vivere, e andando con
i loro navigi per tutto il mondo, la città loro di varie
mercanzie riempievano; delle quali avendo bisogno gli altri
uomini, conveniva che in quel luogo frequentemente concorressero.
Né pensorono per molti anni ad altro dominio che a quello che
facesse il travagliare delle mercanzie loro più facile; e però
acquistorono assai porti in Grecia e in Sorìa, e ne' passaggi
che i Franciosi feciono in Asia, perché si servirono assai de'
loro navigi, fu consegnato loro in premio l'isola di Candia.
E mentre vissono in questa forma, il nome loro in mare era
terribile, e dentro, in Italia venerando di modo che di tutte le
controversie che nascevano il più delle volte erano arbitri;
come intervenne nelle differenze nate intra i collegati per conto
di quelle terre che tra loro si avevano divise, che, rimessa la
causa ne' Viniziani, rimase a' Visconti Bergamo e Brescia.
Ma avendo loro, con il tempo, occupata Padova, Vicenza, e Trevigi,
e di poi Verona, Bergamo e Brescia, e nel Reame e in Romagna
molte città, cacciati dalla cupidità del dominare, vennono in
tanta opinione di potenza, che, non solamente a' principi
italiani, ma ai re oltramontani erano in terrore; onde,
congiurati quelli contro a di loro, in uno giorno fu tolto loro
quello stato che si avevano in molti anni con infinito spendio
guadagnato; e benché ne abbiano, in questi nostri ultimi tempi;
riacquistato parte, non avendo riacquistata né la reputazione
né le forze, a discrezione d'altri, come tutti gli altri
principi italiani, vivono.
30
Era
pervenuto al pontificato Benedetto XII, e parendogli avere
perduto in tutto la possessione di Italia, e temendo che Lodovico
imperadore non se ne facesse signore, deliberò di farsi amici in
quella tutti coloro che avevano usurpato le terre che solevono
allo imperadore ubbidire, acciò che avessero cagione di temere
dello Imperio e di ristrignersi seco alla difesa di Italia; e
fece uno decreto che tutti i tiranni di Lombardia possedessero le
terre che si avevano usurpate, con giusto titulo.
Ma sendo in questa concessione morto il Papa e rifatto Clemente
VI, e vedendo lo Imperadore con quanta liberalità il Pontefice
aveva donate le terre dello Imperio, per non essere ancora egli
meno liberale delle cose d'altri che si fussi stato il Papa,
donò a tutti quegli che nelle terre della Chiesa erano tiranni
le terre loro, acciò che con la autorità imperiale le
possedessero.
Per la qual cosa Galeotto Malatesti e i frategli diventorono
signori di Rimino, di Pesero e di Fano, Antonio da Montefeltro
della Marca e di Urbino, Gentile da Varano di Camerino, Guido di
Polenta di Ravenna, Sinibaldo Ordelaffi di Furlì e Cesena,
Giovanni Manfredi di Faenza, Lodovico Alidosi di Imola; e oltre a
questi in molte altre terre molti altri, in modo che di tutte le
terre della Chiesa poche ne rimasono senza principe.
La qual cosa infino ad Alessandro VI tenne la Chiesa debole; il
quale, ne' nostri tempi, con la rovina de' discendenti di costoro,
le rendé l'autorità sua.
Trovavasi lo Imperadore, quando fece questa concessione, a Trento;
e dava nome di volere passare in Italia; donde seguirono guerre
assai in Lombardia, per le quali i Visconti si insignorirono di
Parma.
Nel qual tempo Ruberto re di Napoli morì, e rimasono di lui solo
due nipote, nate di Carlo suo figliuolo, il quale più tempo
innanzi era morto; e lasciò che la maggiore, chiamata Giovanna,
fusse erede del Regno, e che la prendesse per marito Andrea,
figliuolo del re di Ungheria, suo nipote.
Non stette Andrea con quella molto, che fu fatto da lei morire, e
si maritò ad uno altro suo cugino, principe di Taranto, chiamato
Lodovico.
Ma Lodovico re di Ungheria e fratello di Andrea, per vendicare la
morte di quello, venne con gente in Italia, e cacciò la reina
Giovanna e il marito del Regno.
31
In questo
tempo seguì a Roma una cosa memorabile, che uno Niccolò di
Lorenzo, cancelliere in Campidoglio, cacciò i senatori di Roma,
e si fece, sotto titulo di tribuno, capo della republica romana;
e quella nella antica forma ridusse, con tanta reputazione di
iustizia e di virtù, che non solamente le terre propinque, ma
tutta Italia gli mandò ambasciadori; di modo che le antiche
provincie, vedendo come Roma era rinata, sollevorono il capo, e
alcune mosse da la paura, alcune dalla speranza, l'onoravano.
Ma Niccolò, non ostante tanta reputazione, se medesimo ne' suoi
primi principii abbandonò; perché, invilito sotto tanto peso,
sanza essere da alcuno cacciato, celatamente si fuggì, e ne
andò a trovare Carlo re di Buemia, il quale, per ordine del Papa,
in dispregio di Lodovico di Baviera, era stato eletto imperadore.
Costui, per gratificarsi il Pontefice, gli mandò Niccolò
prigione.
Seguì di poi, dopo alcuno tempo, che, ad imitazione di costui,
uno Francesco Baroncegli occupò a Roma il tribunato, e ne
cacciò i senatori: tanto che il Papa, per il più pronto remedio
a reprimerlo, trasse di prigione Niccolò, e lo mandò a Roma, e
rendégli l'ufficio del tribuno; tanto che Niccolò riprese lo
stato e fece morire Francesco.
Ma sendogli diventati nimici i Colonnesi, fu ancora esso, non
dopo molto tempo, morto, e restituito l'ufficio ai senatori.
32
In questo
mezzo il Re di Ungheria, cacciata che gli ebbe la regina Giovanna,
se ne tornò nel suo regno; ma il Papa, che desiderava piuttosto
la Reina propinqua a Roma che quel re, operò in modo che fu
contento restituirle il Regno, pure che Lodovico suo marito,
contento del titulo di Taranto, non fusse chiamato re.
Era venuto l'anno 1350, sì che al Papa parve che il giubileo,
ordinato da papa Bonifazio VIII per ogni cento anni, si potesse a
cinquanta anni ridurre, e fattolo per decreto, i Romani, per
questo benifizio, furono contenti che mandassi a Roma quattro
cardinali a riformare lo stato della città, e fare secondo la
sua volontà i senatori.
Il Papa ancora pronunziò Lodovico di Taranto re di Napoli; donde
che la reina Giovanna, per questo benifizio, dette alla Chiesa
Avignone, che era di suo patrimonio.
Era, in questi tempi, morto Luchino Visconti, donde solo Giovanni
arcivescovo di Milano era restato signore; il quale fece molta
guerra alla Toscana e a' suoi vicini, tanto che diventò
potentissimo.
Dopo la morte del quale rimasono Bernabò e Galeazzo suoi nipoti;
ma poco di poi morì Galeazzo, e di lui rimase Giovangaleazzo, il
quale si divise con Bernabò quello stato.
Era in questi tempi, imperadore Carlo re di Buemia, e pontefice
Innocenzio VI, il quale mandò in Italia Egidio cardinale di
nazione spagnuolo, il quale con la sua virtù, non solamente in
Romagna e in Roma, ma per tutta Italia aveva renduta la
reputazione alla Chiesa: recuperò Bologna, che dallo arcivescovo
di Milano era stata occupata; constrinse i Romani ad accettare
uno senatore forestiero, il quale ciascuno anno vi dovesse dal
papa essere mandato; fece onorevoli accordi con i Visconti; roppe
e prese Giovanni Auguto inghilese, il quale con quattromila
Inghilesi in aiuto de' Ghibellini militava in Toscana.
Onde che succedendo al pontificato Urbano V, poi che gl'intese
tante vittorie, deliberò vicitare Italia e Roma, dove ancora
venne Carlo imperadore; e dopo pochi mesi Carlo si tornò nel
regno, e il Papa in Avignone.
Dopo la morte di Urbano, fu creato Gregorio XI; e perché gli era
ancora morto il cardinale Egidio, la Italia era tornata nelle sue
antiche discordie, causate dai popoli collegati contro ai
Visconti, tanto che il Papa mandò prima uno legato in Italia con
seimilia Brettoni, di poi venne egli in persona, e ridusse la
corte a Roma nel 1376, dopo settantuno anno che la era stata in
Francia.
Ma seguendo la morte di quello, fu rifatto Urbano VI, e poco di
poi, a Fondi, da dieci cardinali che dicevano Urbano non essere
bene eletto, fu creato Clemente VII.
I Genovesi, in questi tempi, i quali più anni erano vivuti sotto
il governo de' Visconti, si ribellorono; e intra loro e i
Viniziani, per Tenedo insula, nacquero guerre importantissime,
per le quali si divise tutta Italia; nella quale guerra furono
prima vedute le artiglierie, strumento nuovo trovato dai Tedeschi.
E benché i Genovesi fussero un tempo superiori, e che più mesi
tenessero assediata Vinegia, nondimeno, nel fine della guerra, i
Viniziani rimasono superiori, e per mezzo del Pontefice feciono
la pace, negli anni 1381.
33
Era nata,
come abbiamo detto, scisma nella Chiesa; onde che la reina
Giovanna favoriva il papa scismatico; per la qual cosa Urbano
fece fare contro a di lei la impresa del Regno a Carlo di Durazzo,
disceso de' reali di Napoli; il quale, venuto, le tolse lo stato
e si insignorì del Regno; ed ella se ne fuggì in Francia.
Il re di Francia, per questo sdegnato, mandò Lodovico d'Angiò
in Italia per recuperare il Regno alla Reina, e cacciare Urbano
di Roma e insignorirne l'Antipapa.
Ma Lodovico, nel mezzo di questa impresa, morì, e le sue genti,
rotte, se ne tornorono in Francia.
Il Papa, in questo mezzo, se ne andò a Napoli, dove pose in
carcere nove cardinali per avere seguitata la parte di Francia e
dello Antipapa.
Di poi si sdegnò con il Re, perché non volle fare uno suo
nipote principe di Capua; e fingendo non se ne curare, lo
richiese gli concedesse Nocera per sua abitazione; dove poi si
fece forte, e si preparava di privare il Re del Regno.
Per la qual cosa il Re vi andò a campo, e il Papa se ne fuggì a
Genova, dove fece morire quelli cardinali che aveva prigioni.
Di quivi se ne andò a Roma, e per farsi reputazione creò
ventinove cardinali.
In questo tempo Carlo re di Napoli ne andò in Ungheria, dove fu
fatto re, e poco di poi fu morto; e a Napoli lasciò la moglie
con Ladislao e Giovanna suoi figliuoli.
In questo tempo ancora Giovangaleazzo Visconti aveva morto
Bernabò suo zio e preso tutto lo stato di Milano, e non gli
bastando essere diventato duca di tutta la Lombardia, voleva
ancora occupare la Toscana; ma quando e' credeva prenderne il
dominio, e di poi coronarsi re di Italia, morì.
Ad Urbano VI era succeduto Bonifazio IX.
Morì ancora in Avignone l'antipapa Clemente VII, e fu rifatto
Benedetto XIII.
34
Erano in
Italia, in questi tempi, soldati assai, inghilesi, tedeschi e
brettoni, condotti parte da quelli principi i quali in varii
tempi erano venuti in Italia, parte stati mandati dai pontefici
quando erano in Avignone.
Con questi tutti i principi italiani feciono più tempo le loro
guerre, infino che surse Lodovico da Conio romagnolo, il quale
fece una compagnia di soldati italiani, intitolata in San Giorgio;
la virtù e la disciplina del quale in poco tempo tolse la
reputazione alle armi forestiere, e ridussela negli Italiani, de'
quali poi i principi di Italia, nelle guerre che facevano insieme,
si valevano.
Il Papa, per discordia avuta con i Romani, se ne andò a Scesi;
dove stette tanto che venne il giubileo del 1400; nel quale tempo
i Romani acciò che tornasse in Roma per utilità di quella
città, furono contenti accettare di nuovo uno senatore
forestiero mandato da lui, e gli lasciorono fortificare Castel
Santo Agnolo, e con queste condizioni ritornato, per fare più
ricca la Chiesa, ordinò che ciascuno, nelle vacanze de'
beneficii, pagasse una annata alla Camera.
Dopo la morte di Giovan Galeazzo duca di Milano, ancora che
lasciasse duoi figliuoli, Giovanmariagnolo e Filippo, quello
stato si divise in molte parti; e ne' travagli che vi seguirono,
Giovanmaria fu morto e Filippo stette un tempo rinchiuso nella
rocca di Pavia, dove, per fede e virtù di quello castellano si
salvò.
E intra gli altri che occuporono delle città possedute dal padre
loro, fu Guglielmo della Scala, il quale, fuoruscito, si trovava
nelle mani di Francesco da Carrara signore di Padova; per il
mezzo del quale riprese lo stato di Verona, dove stette poco
tempo, perché, per ordine di Francesco, fu avvelenato, e
toltogli la città. Per la qual cosa i Vicentini, che sotto le
insegne de' Visconti erano vivuti sicuri, temendo della grandezza
del signore di Padova, si dierono a' Viniziani; mediante i quali
i Viniziani presono la guerra contro a di lui, e prima gli
tolsono Verona, e di poi Padova.
35
In questo
mezzo Bonifazio papa morì, e fu eletto Innocenzio VII; al quale
il popolo di Roma supplicò che dovesse rendergli le fortezze e
restituirgli la sua libertà; a che il Papa non volle
acconsentire; donde che il popolo chiamò in suo aiuto Ladislao
re di Napoli.
Di poi, nato intra loro accordo, il Papa se ne tornò a Roma, che
per paura del popolo se ne era fuggito a Viterbo dove aveva fatto
Lodovico suo nipote conte della Marca.
Morì di poi, e fu creato Gregorio XII, con obligo che dovesse
renunziare al papato, qualunche volta ancora l'Antipapa
renunziasse.
E per conforto de' cardinali, per fare pruova se la Chiesa si
poteva riunire, Benedetto antipapa venne a Porto Venere, e
Gregorio a Lucca, dove praticorono cose assai e non ne conclusono
alcuna, di modo che i cardinali dell'uno e dell'altro papa gli
abbandonorono, e dei papi, Benedetto se ne andò in Ispagna e
Gregorio a Rimini.
I cardinali dall'altra parte, con il favore di Baldassare Cossa
cardinale e legato di Bologna, ordinorono uno concilio a Pisa
dove creorono Alessandro V, il quale, subito, scomunicò il re
Ladislao e investì di quel regno Luigi d'Angiò; e insieme con i
Fiorentini, Genovesi e Viniziani, e con Baldassare Cossa legato,
assaltorono Ladislao, e gli tolsono Roma.
Ma nello ardore di questa guerra morì Alessandro, e fu creato
papa Baldassare Cossa, che si fece chiamare Giovanni XXIII.
Costui partì da Bologna, dove fu creato, e ne andò a Roma, dove
trovò Luigi d'Angiò, che era venuto con la armata di Provenza;
e venuti alla zuffa con Ladislao, lo ruppono.
Ma per difetto de' condottieri non poterono seguire la vittoria;
in modo che il Re, dopo poco tempo, riprese le forze, e riprese
Roma; e il Papa se ne fuggì a Bologna, e Luigi in Provenza.
E pensando il Papa in che modo potesse diminuire la potenza di
Ladislao, operò che Sigismondo re di Ungheria fusse eletto
imperadore e lo confortò a venire in Italia, e con quello si
abboccò a Mantova; e convennono di fare uno concilio generale,
nel quale si riunisse la Chiesa; la quale, unita, facilmente
potrebbe opporsi alle forze de' suoi nemici.
36
Erano, in
quel tempo, tre papi, Gregorio, Benedetto e Giovanni; i quali
tenevano la Chiesa debile e sanza reputazione.
Fu eletto il luogo del concilio Gostanza, città della Magna,
fuora della intenzione di papa Giovanni; e benché fusse, per la
morte del re Ladislao, spenta la cagione che fece al Papa muovere
la pratica del concilio, nondimeno, per essersi obligato, non
potette rifiutare lo andarvi; e condotto a Gostanza, dopo non
molti mesi, cognoscendo tardi lo errore suo, tentò di fuggirsi;
per la qual cosa fu messo in carcere, e constretto rifiutare il
papato.
Gregorio, uno degli antipapi ancora, per uno suo mandato,
rinunziò; e Benedetto, l'altro antipapa, non volendo rinunziare,
fu condennato per eretico.
Alla fine, abbandonato dai suoi cardinali, fu constretto ancora
egli a rinunziare; e il Concilio creò pontefice Otto, di casa
Colonna, chiamato di poi papa Martino V.
E così la Chiesa si unì, dopo quaranta anni che l'era stata in
più pontefici divisa.
37
Trovavasi,
in questi tempi, come abbiamo detto, Filippo Visconti nella rocca
di Pavia; ma venendo a morte Fazino Cane, il quale ne' travagli
di Lombardia si era insignorito di Vercelli, Alessandria, Novara
e Tortona, e aveva ragunate assai ricchezze, non avendo figliuoli,
lasciò erede degli stati suoi Beatrice sua moglie, e ordinò con
i suoi amici operassero in modo che la si maritasse a Filippo.
Per il quale matrimonio diventato Filippo potente, riacquistò
Milano e tutto lo stato di Lombardia.
Di poi, per essere grato de' benefizi grandi, come sono quasi
sempre tutti i principi, accusò Beatrice sua moglie di stupro, e
la fece morire.
Diventato pertanto potentissimo, cominciò a pensare alle guerre
di Toscana, per seguire i disegni di Giovan Galeazzo suo padre.
38
Aveva
Ladislao re di Napoli, morendo, lasciato a Giovanna sua sirocchia,
oltre al Regno, uno grande esercito, capitanato dai principali
condottieri di Italia, intra i primi de' quali era Sforza da
Cotignuola reputato, secondo quelle armi, valoroso.
La Reina, per fuggire qualche infamia di tenersi uno Pandolfello,
il quale aveva allevato, tolse per marito Iacopo della Marcia,
francioso, di stirpe regale, con queste condizioni, che fussi
contento di essere chiamato principe di Taranto, e lasciasse a
lei il titolo e il governo del Regno.
Ma i soldati, subito che gli arrivò in Napoli, lo chiamorono re;
in modo che intra il marito e la moglie nacquono discordie grandi,
e più volte superorono l'uno l'altro; pure, in ultimo, rimase la
Reina in istato; la quale diventò poi nimica del Pontefice, onde
che Sforza, per condurla in necessità, e che l'avesse a
gittarsegli in grembo, rinunziò, fuora di sua opinione, al suo
soldo.
Per la qual cosa quella si trovò in un tratto disarmata; e non
avendo altri rimedi, ricorse per gli aiuti ad Alfonso re di
Ragona e di Sicilia, e lo adottò in figliuolo, e soldò Braccio
da Montone, il quale era quanto Sforza nelle armi reputato, e
inimico del Papa per avergli occupata Perugia e alcune altre
terre della Chiesa.
Seguì di poi la pace intra lei e il Papa, ma il re Alfonso,
perché dubitava che ella non trattasse lui come il marito,
cercava cautamente insignorirsi delle fortezze; ma quella, che
era astuta, lo prevenne, e si fece forte nella rocca di Napoli.
Crescendo adunque intra l'una e l'altro i sospetti, vennono alle
armi; e la Reina, con lo aiuto di Sforza, il quale ritornò a'
suoi soldi, superò Alfonso, e cacciollo di Napoli, e lo privò
della adozione, e adottò Lodovico d'Angiò: donde nacque di
nuovo guerra intra Braccio, che aveva seguitate le parti di
Alfonso, e Sforza, che favoriva la Reina.
Nel trattare della qual guerra, passando Sforza il fiume di
Pescara, affogò; in modo che la Reina di nuovo rimase disarmata;
e sarebbe stata cacciata del Regno, se da Filippo Visconti duca
di Milano non fusse stata aiutata; il quale constrinse Alfonso a
tornarsene in Aragona.
Ma Braccio, non sbigottito per essersi abbandonato Alfonso,
seguitò di fare la impresa contro alla Reina; e avendo assediata
l'Aquila, il Papa, non giudicando a proposito della Chiesa la
grandezza di Braccio, prese a' suoi soldi Francesco figliuolo di
Sforza; il quale andò a trovare Braccio a l'Aquila, dove lo
ammazzò e ruppe.
Rimase, della parte di Braccio, Oddo suo figliuolo; al quale fu
tolta da il Papa Perugia, e lasciato nello stato di Montone.
Ma fu, poco di poi, morto, combattendo in Romagna per i
Fiorentini; tale che, di quelli che militavono con Braccio,
Niccolò Piccino rimase di più riputazione.
39
Ma
perché noi siamo venuti, colla narrazione nostra, propinqui a
quelli tempi che io disegnai; perché quanto ne è rimaso a
trattare non importa, in maggiore parte, altro che le guerre che
ebbono i Fiorentini e i Viniziani con Filippo duca di Milano, le
quali si narreranno dove particularmente di Firenze tratteremo;
io non voglio procedere più avanti: solo ridurrò brevemente a
memoria in quali termini la Italia, e con i principi e con le
armi, in quelli tempi dove noi scrivendo siamo arrivati, si
trovava.
Degli stati principali, la reina Giovanna II teneva il regno di
Napoli; la Marca, il Patrimonio e Romagna, parte delle loro terre
ubbidivano alla Chiesa, parte erano dai loro vicari o tiranni
occupate: come Ferrara, Modona e Reggio da quelli da Esti; Faenza
da e Manfredi; Imola dagli Alidosi; Furlì dagli Ordelaffi;
Rimino e Pesero dai Malatesti, e Camerino da quelli da Varano.
Della Lombardia parte ubbidiva al duca Filippo, parte a'
Viniziani; perché tutti quelli che tenevano stati particulari in
quella erano stati spenti, eccetto che la casa di Gonzaga, la
quale signoreggiava in Mantova.
Della Toscana erano la maggiore parte signori i Fiorentini: Lucca
solo e Siena con le loro leggi vivevano; Lucca sotto i Guinigi,
Siena era libera.
I Genovesi, sendo ora liberi ora servi o de' Reali di Francia o
de' Visconti, inonorati vivevano, e intra gli minori potentati si
connumeravono.
Tutti questi principali potentati erano di proprie armi disarmati:
il duca Filippo, stando rinchiuso per le camere e non si
lasciando vedere, per i suoi commissari le sue guerre governava;
i Viniziani, come ei si volsono alla terra, si trassono di dosso
quelle armi che in mare gli avevano fatti gloriosi, e seguitando
il costume degli altri Italiani, sotto l'altrui governo
amministravano gli eserciti loro; il Papa per non gli stare bene
le armi in dosso sendo religioso, e la reina Giovanna di Napoli
per essere femina, facevono per necessità quello che gli altri
per mala elezione fatto avevano; i Fiorentini ancora alle
medesime necessità ubbidivano, perché, avendo per le spesse
divisioni spenta la nobilità, e restando quella republica nelle
mani d'uomini nutricati nella mercanzia, seguitavano gli ordini e
la fortuna degli altri.
Erano adunque le armi di Italia in mano o de' minori principi o
di uomini senza stato; perché i minori principi, non mossi da
alcuna gloria, ma per vivere o più ricchi o più sicuri, se le
vestivano; quegli altri, per essere nutricati in quelle da
piccoli, non sapendo fare altra arte, cercavono in esse, con
avere o con potenza, onorarsi.
Intra questi erano allora i più nominati: il Carmignuola,
Francesco Sforza, Niccolò Piccino allievo di Braccio, Agnolo
della Pergola, Lorenzo e Micheletto Attenduli, il Tartaglia,
Iacopaccio, Ceccolino da Perugia, Niccolò da Tolentino, Guido
Torello, Antonio dal Ponte ad Era e molti altri simili.
Con questi erano quelli signori de' quali ho di sopra parlato; ai
quali si aggiugnevano i baroni di Roma, Orsini e Colonnesi, con
altri signori e gentili uomini del Regno e di Lombardia; i quali,
stando in su la guerra, avevano fatto come una lega e
intelligenza insieme, e riduttala in arte; con la quale in modo
si temporeggiavono, che il più delle volte, di quelli che
facevano guerra, l'una parte e l'altra perdeva; e in fine la
ridussono in tanta viltà che ogni mediocre capitano, nel quale
fusse alcuna ombra della antica virtù rinata, gli arebbe, con
ammirazione di tutta Italia, la quale per sua poca prudenza gli
onorava, vituperati.
Di questi, adunque, oziosi principi e di queste vilissime armi
sarà piena la mia istoria.
Alla quale prima che io discenda, mi è necessario, secondo che
nel principio promissi, tornare a raccontare della origine di
Firenze, e fare a ciascuno largamente intendere quale era lo
stato di quella città in questi tempi, e per quali mezzi, intra
tanti travagli che per mille anni erano in Italia accaduti, vi
era pervenuta.
LIBRO SECONDO
1
Intra gli
altri grandi e maravigliosi ordini delle republiche e principati
antichi che in questi nostri tempi sono spenti era quello
mediante il quale, di nuovo e d'ogni tempo, assai terre e città
si edificavano; perché niuna cosa è tanto degna di uno ottimo
principe e di una bene ordinata republica, né più utile ad una
provincia, che lo edificare di nuovo terre dove gli uomini si
possino, per commodità della difesa o della cultura, ridurre; il
che quelli potevono facilmente fare, avendo in uso di mandare ne'
paesi o vinti o voti nuovi abitatori, i quali chiamavono colonie.
Perché, oltre allo essere cagione questo ordine che nuove terre
si edificassero, rendeva il paese vinto al vincitore più securo,
e riempieva di abitatori i luoghi voti, e nelle provincie gli
uomini bene distribuiti manteneva.
Di che ne nasceva che, abitandosi in una provincia più
commodamente, gli uomini più vi multiplicavano, ed erano nelle
offese più pronti e nelle difese più sicuri.
La quale consuetudine sendosi oggi per il malo uso delle
republiche e de' principi spenta, ne nasce la rovina e la
debolezza delle provincie; perché questo ordine solo è quello
che fa gli imperii più securi, e i paesi, come è detto,
mantiene copiosamente abitati: la securtà nasce perché quella
colonia la quale è posta da un principe in uno paese nuovamente
occupato da lui è come una rocca e una guardia a tenere gli
altri in fede; non si può, oltra di questo, una provincia
mantenere abitata tutta, né perservare in quella gli abitatori
bene distribuiti, senza questo ordine.
Perché tutti i luoghi in essa non sono o generativi o sani; onde
nasce che in questi abbondono gli uomini, negli altri mancano; e
se non vi è modo a trargli donde gli abbondono, e porgli dove e'
mancano, quella provincia in poco tempo si guasta; perché una
parte di quella diventa, per i pochi abitatori, diserta, un'altra,
per i troppi, povera.
E perché la natura non può a questo disordine supplire, è
necessario supplisca la industria: perché i paesi male sani
diventano sani per una moltitudine di uomini che ad un tratto gli
occupi; i quali con la cultura sanifichino la terra e con i
fuochi purghino l'aria, a che la natura non potrebbe mai
provedere.
Il che dimostra la città di Vinegia, posta in luogo paludoso e
infermo: nondimeno i molti abitatori che ad un tratto vi
concorsono lo renderono sano.
Pisa ancora, per la malignità dell'aria, non fu mai di abitatori
ripiena, se non quando Genova e le sue riviere furono dai
Saraceni disfatte; il che fece che quelli uomini, cacciati da'
terreni patrii, ad un tratto in tanto numero vi concorsono, che
feciono quella popolata e potente.
Sendo mancato per tanto quello ordine del mandare le colonie, i
paesi vinti si tengono con maggiore difficultà, e i paesi voti
mai non si riempiano, e quelli troppo pieni non si alleggeriscono.
Donde molte parti nel mondo, e massime in Italia, sono diventate,
rispetto agli antichi tempi, diserte: e tutto è seguito e segue
per non essere ne' principi alcuno appetito di vera gloria, e
nelle republiche alcuno ordine che meriti di essere lodato.
Nelli antichi tempi, addunque, per virtù di queste colonie, o e'
nascevano spesso città di nuovo, o le già cominciate crescevano;
delle quali fu la città di Firenze, la quale ebbe da Fiesole il
principio e da le colonie lo augumento.
2
Egli è
cosa verissima secondo che Dante e Giovanni Villani dimostrano
che la città di Fiesole, sendo posta sopra la sommità del monte,
per fare che i mercati suoi fussero più frequentati e dare più
commodità a quegli che vi volessero con le loro mercanzie venire,
aveva ordinato il luogo di quelli, non sopra il poggio, ma nel
piano, intra le radice del monte e del fiume d'Arno.
Questi mercati giudico io che fussero cagione delle prime
edificazioni che in quelli luoghi si facessero, mossi i
mercatanti da il volere avere ricetti commodi a ridurvi le
mercanzie loro i quali con il tempo ferme edificazioni
diventorono; e di poi, quando i Romani avendo vinti i Cartaginesi,
renderono dalle guerre forestiere la Italia secura, in gran
numero multiplicorono.
Perché gli uomini non si mantengono mai nelle difficultà, se da
una necessità non vi sono mantenuti; tale che, dove la paura
delle guerre costrigne quelli ad abitare volentieri ne' luoghi
forti e aspri, cessata quella, chiamati dalla commodità, più
volentieri ne' luoghi domestici e facili abitano.
La securtà adunque, la quale per la reputazione della romana
republica nacque in Italia, potette fare crescere le abitazioni
già nel modo detto incominciate, in tanto numero che in forma d'una
terra si ridussero, la quale Villa Arnina fu da principio
nominata.
Sursono di poi in Roma le guerre civili, prima intra Mario e
Silla, di poi intra Cesare e Pompeo, e apresso intra gli
ammazzatori di Cesare e quelli che volevano la sua morte
vendicare.
Da Silla adunque in prima e di poi da quelli tre cittadini romani
i quali dopo la vendetta fatta di Cesare si divisono l'imperio,
furono mandate a Fiesole colonie; delle quali o tutte o parte
posono le abitazioni loro nel piano, presso alla già cominciata
terra; tale che, per questo augumento, si ridusse quello luogo
tanto pieno di edifici e di uomini e di ogni altro ordine civile
che si poteva numerare intra le città di Italia.
Ma donde si derivasse il nome di Florenzia, ci sono varie
opinioni: alcuni vogliono si chiamasse da Florino, uno de' capi
della colonia; alcuni non Florenzia, ma Fluenzia vogliono che la
fusse nel principio detta, per essere posta propinqua al fluente
d'Arno; e ne adducono testimone Plinio, che dice: - i Fluentini
sono propinqui ad Arno fluente -.
La qual cosa potrebbe essere falsa, perché Plinio nel testo suo
dimostra dove i Fiorentini erano posti, non come si chiamavano; e
quello vocabolo "Fluentini" conviene che sia corrotto,
perché Frontino e Cornelio Tacito, che scrissono quasi che ne'
tempi di Plinio, gli chiamono Florenzia e Florentini; perché di
già ne' tempi di Tiberio secondo il costume delle altre città
di Italia si governavano, e Cornelio referisce essere venuti
oratori Florentini allo Imperadore, a pregare che l'acque delle
Chiane non fussero sopra il paese loro sboccate; né è
ragionevole che quella città, in un medesimo tempo, avesse duoi
nomi.
Credo per tanto che sempre fusse chiamata Florenzia, per
qualunque cagione così si nominasse; e così, da qualunque
cagione si avesse la origine, la nacque sotto lo Imperio romano,
e ne' tempi de' primi imperadori cominciò dagli scrittori ad
essere ricordata.
E quando quello Imperio fu da' barbari afflitto fu ancora
Florenzia da Totila re degli Ostrogoti disfatta, e dopo 250 anni,
di poi, da Carlo Magno riedificata.
Dal qual tempo infino agli anni di Cristo 1215 visse sotto quella
fortuna che vivevano quelli che comandavano ad Italia.
Ne' quali tempi prima signoreggiorono in quella i discesi di
Carlo, di poi i Berengari, e in ultimo gli imperadori tedeschi,
come nel nostro trattato universale dimostrammo.
Né poterono in questi tempi i Florentini crescere, né operare
alcuna cosa degna di memoria, per la potenza di quelli allo
imperio de' quali ubbidivano, nondimeno, nel 1010, il dì di
santo Romolo giorno solenne a' Fiesolani, presono e disfeciono
Fiesole; il che feciono, o con il consenso degli imperadori, o in
quel tempo che dalla morte dell'uno alla creazione dell'altro
ciascuno più libero rimaneva.
Ma poi che i pontefici presono più autorità in Italia, e gli
imperadori tedeschi indebolirono, tutte le terre di quella
provincia con minore reverenzia del principe si governarono;
tanto che nel 1080, al tempo di Arrigo III, si ridusse la Italia
intra quello e la Chiesa in manifesta divisione; la quale non
ostante, i Fiorentini si mantennono infino al 1215 uniti,
ubbidendo a' vincitori, né cercando altro imperio che salvarsi.
Ma come ne' corpi nostri quanto più sono tarde le infirmità
tanto più sono pericolose e mortali, così Florenzia, quanto la
fu più tarda a seguitare le sette di Italia, tanto di poi fu
più afflitta da quelle.
La cagione della prima divisione è notissima, perché è da
Dante e da molti altri scrittori celebrata; pure mi pare
brevemente da raccontarla.
3
Erano in
Florenzia, intra le altre famiglie, potentissime Buondelmonti e
Uberti; apresso a queste erano gli Amidei e i Donati.
Era nella famiglia de' Donati una donna vedova e ricca, la quale
aveva una figliuola di bellissimo aspetto.
Aveva costei infra sé disegnato a messer Buondelmonte, cavaliere
giovane e della famiglia de' Buondelmonti capo, maritarla.
Questo suo disegno, o per negligenzia, o per credere potere
essere sempre a tempo, non aveva ancora scoperto a persona;
quando il caso fece che a messer Buondelmonte si maritò una
fanciulla degli Amidei; di che quella donna fu malissimo contenta.
E sperando di potere, con la bellezza della figliuola, prima che
quelle nozze si celebrassero, perturbarle, vedendo messer
Buondelmonte, che solo veniva verso la sua casa, scese da basso,
e dietro si condusse la figliuola, e nel passare quello, se gli
fece incontra, dicendo: - Io mi rallegro veramente assai dello
avere voi preso moglie, ancora che io vi avesse serbata questa
mia figliuola, - e sospinta la porta, gliene fece vedere.
Il cavaliere, veduta la bellezza della fanciulla, la quale era
rara, e considerato il sangue e la dote non essere inferiore a
quella di colei ch'egli aveva tolta, si accese in tanto ardore di
averla, che, non pensando alla fede data, né alla ingiuria che
faceva a romperla, né ai mali che dalla rotta fede gliene
potevano incontrare, disse: - Poi che voi me la avete serbata, io
sarei uno ingrato, sendo ancora a tempo, a rifiutarla; - e senza
mettere tempo in mezzo celebrò le nozze.
Questa cosa, come fu intesa, riempié di sdegno la famiglia degli
Amidei e quella degli Uberti, i quali erano loro per parentado
congiunti; e convenuti insieme con molti altri loro parenti,
conclusono che questa ingiuria non si poteva sanza vergogna
tollerare, né con altra vendetta che con la morte di messer
Buondelmonte vendicare.
E benché alcuni discorressero i mali che da quella potessero
seguire, il Mosca Lamberti disse che chi pensava assai cose non
ne concludeva mai alcuna, dicendo quella trita e nota sentenza:
"Cosa fatta capo ha".
Dettono pertanto il carico di questo omicidio al Mosca, a Stiatta
Uberti, a Lambertuccio Amidei e a Oderigo Fifanti.
Costoro, la mattina della Pasqua di Resurressione, si rinchiusono
nelle case degli Amidei, poste intra il Ponte Vecchio e Santo
Stefano; e passando messer Buondelmonte il fiume sopra uno caval
bianco, pensando che fusse così facil cosa sdimenticare una
ingiuria come rinunziare ad uno parentado, fu da loro a piè del
ponte, sotto una statua di Marte, assaltato e morto.
Questo omicidio divise tutta la città, e una parte si accostò a'
Buondelmonti, l'altra agli Uberti; e perché queste famiglie
erano forti di case e di torri e di uomini, combatterono molti
anni insieme sanza cacciare l'una l'altra; e le inimicizie loro,
ancora che le non finissero per pace, si componevano per triegue;
e per questa via, secondo i nuovi accidenti, ora si quietavano e
ora si accendevano.
4
E stette
Florenzia in questi travagli infino al tempo di Federigo II; il
quale, per essere re di Napoli, potere contro alla Chiesa le
forze sue accrescere si persuase; e per ridurre più ferma la
potenza sua in Toscana, favorì gli Uberti e i loro seguaci; i
quali, con il suo favore, cacciorono i Buondelmonti, e così la
nostra città ancora, come tutta Italia più tempo era divisa, in
Guelfi e Ghibellini si divise.
Né mi pare superfluo fare memoria delle famiglie che l'una e l'altra
setta seguirono.
Quelli adunque che seguirono le parti guelfe furono: Buondelmonti,
Nerli, Rossi, Frescobaldi, Mozzi, Bardi, Pulci, Gherardini,
Foraboschi, Bagnesi, Guidalotti, Sacchetti, Manieri, Lucardesi,
Chiaramontesi, Compiobbesi, Cavalcanti, Giandonati, Gianfigliazzi,
Scali, Gualterotti, Importuni, Bostichi, Tornaquinci, Vecchietti,
Tosinghi, Arrigucci, Agli, Sizi, Adimari, Visdomini, Donati,
Pazzi, Della Bella, Ardinghi, Tedaldi, Cerchi.
Per la parte ghibellina furono: Uberti, Mannegli, Ubriachi,
Fifanti, Amidei, Infangati, Malespini, Scolari, Guidi, Galli,
Cappiardi, Lamberti, Soldanieri, Cipriani, Toschi, Amieri,
Palermini, Migliorelli, Pigli, Barucci, Cattani, Agolanti,
Brunelleschi, Caponsacchi, Elisei, Abati, Tedaldini, Giuochi,
Galigai.
Oltra di questo all'una e all'altra parte di queste famiglie
nobili si aggiunsono molte delle popolari; in modo che quasi
tutta la città fu da questa divisione corrotta.
I Guelfi adunque, cacciati, per le terre del Valdarno di sopra,
dove avevano gran parte delle fortezze loro, si ridussero; e in
quel modo potevano migliore contro alle forze delli nimici loro
si difendevano.
Ma venuto Federigo a morte, quegli che in Florenzia erano uomini
di mezzo e avieno più credito con il popolo, pensorono che fusse
più tosto da riunire la città, che, mantenendola divisa,
rovinarla.
Operorono adunque in modo che i Guelfi, deposte le ingiurie,
tornorono, e i Ghibellini, deposto il sospetto, gli riceverono;
ed essendo uniti, parve loro tempo da potere pigliare forma di
vivere libero e ordine da potere difendersi, prima che il nuovo
imperadore acquistasse le forze.
5
Divisono
pertanto la città in sei parti, ed elessono dodici cittadini,
duoi per sesto, che la governassero; i quali si chiamassero
Anziani e ciascuno anno si variassero.
E per levare via le cagioni delle inimicizie che dai giudicii
nascano, providdono a duoi giudici forestieri, chiamato l'uno
Capitano di popolo e l'altro Podestà, che le cause così civili
come criminali intra i cittadini occorrenti giudicassero.
E perché niuno ordine è stabile senza provedergli il difensore,
constituirono nella città venti bandiere, e settantasei nel
contado, sotto le quali scrissono tutta la gioventù e ordinorono
che ciascuno fusse presto e armato sotto la sua bandiera,
qualunque volta fusse o dal Capitano o dagli Anziani chiamato; e
variorono in quelle i segni, secondo che variavano le armi,
perché altra insegna portavano i balestrieri e altra i palvesari;
e ciascuno anno, il giorno della Pentecoste, con grande pompa
davano a nuovi uomini le insegne, e nuovi capi a tutto questo
ordine assegnavano.
E per dare maestà ai loro eserciti, e capo dove ciascuno, sendo
nella zuffa spinto, avesse a rifuggire, e rifuggito potesse di
nuovo contro al nimico far testa, uno carro grande, tirato da
duoi buoi coperti di rosso sopra il quale era una insegna bianca
e rossa, ordinorono.
E quando e' volevono trarre fuora lo esercito, in Mercato nuovo
questo carro conducevono, e con solenne pompa ai capi del popolo
lo consegnavano. Avevano ancora, per magnificenza delle loro
imprese, una campana detta Martinella, la quale uno mese
continuamente, prima che traessero fuora della città gli
eserciti, sonava, acciò che il nimico avesse tempo alle difese:
tanta virtù era allora in quegli uomini, e con tanta generosità
di animo si governavano che dove oggi lo assaltare il nimico
improvisto si reputa generoso atto e prudente, allora vituperoso
e fallace si reputava. Questa campana ancora conducevono ne' loro
eserciti, mediante la quale le guardie e l'altre fazioni della
guerra comandavano.
6
Con
questi ordini militari e civili fondorono i Fiorentini la loro
libertà.
Né si potrebbe pensare quanto di autorità e forze in poco tempo
Firenze si acquistasse; e non solamente capo di Toscana divenne,
ma intra le prime città di Italia era numerata; e sarebbe a
qualunque grandezza salita, se le spesse e nuove divisioni non la
avessero afflitta.
Vissono i Fiorentini sotto questo governo dieci anni, nel qual
tempo sforzorono i Pistolesi, Aretini e Sanesi a fare lega con
loro; e tornando con il campo da Siena, presono Volterra,
disfeciono ancora alcune castella, e gli abitanti condussono in
Firenze.
Le quali imprese tutte si feciono per il consiglio de' Guelfi, i
quali molto più che i Ghibellini potevano, sì per essere questi
odiati da il popolo per li loro superbi portamenti quando al
tempo di Federigo governorono, si per essere la parte della
Chiesa più che quella dello Imperadore amata; perché con lo
aiuto della Chiesa speravono perservare la loro libertà, e sotto
lo Imperadore temevano perderla.
I Ghibellini per tanto veggendosi mancare della loro autorità,
non potevono quietarsi, e solo aspettavano la occasione di
ripigliare lo stato.
La quale parve loro fusse venuta, quando viddono che Manfredi
figliuolo di Federigo si era del regno di Napoli insignorito e
aveva assai sbattuta la potenza della Chiesa.
Secretamente adunque praticavano con quello di ripigliare la loro
autorità; né posserono in modo governarsi, che le pratiche
tenute da loro non fussero agli Anziani scoperte.
Onde che quelli citorono gli Uberti, i quali, non solamente non
ubbidirono, ma prese le armi, si fortificorono nelle case loro;
di che il popolo sdegnato, si armò, e con lo aiuto de' Guelfi
gli sforzò ad abbandonare Firenze e andarne con tutta la parte
ghibellina a Siena.
Di quivi domandorono aiuto a Manfredi re di Napoli, e per
industria di messer Farinata degli Uberti furono i Guelfi dalle
genti di quel re, sopra il fiume della Arbia, con tanta strage
rotti, che quegli i quali di quella rotta camparono, non a
Firenze, giudicando la loro città perduta, ma a Lucca si
rifuggirono.
7
Aveva
Manfredi mandato a' Ghibellini, per capo delle sue genti, il
conte Giordano, uomo in quelli tempi nelle armi assai reputato.
Costui, dopo la vittoria, se ne andò con i Ghibellini a Firenze,
e quella città ridusse tutta alla ubbidienza di Manfredi,
annullando i magistrati e ogni altro ordine per il quale
apparisse alcuna forma della sua libertà.
La quale ingiuria, con poca prudenza fatta, fu dallo universale
con grande odio ricevuta; e di nimico ai Ghibellini diventò loro
inimicissimo; donde al tutto ne nacque, con il tempo, la rovina
loro.
E avendo, per le necessità del Regno il conte Giordano a tornare
a Napoli, lasciò in Firenze per regale vicario il conte Guido
Novello, signore di Casentino.
Fece costui uno concilio di Ghibellini ad Empoli, dove per
ciascuno si concluse che, a volere mantenere potente la parte
ghibellina in Toscana, era necessario disfare Firenze, sola atta
per avere il popolo guelfo, a fare ripigliare le forze alle parti
della Chiesa.
A questa sì crudel sentenzia, data contra ad una sì nobile
città, non fu cittadino né amico, eccetto che messer Farinata
degli Uberti, che si opponesse, il quale apertamente e senza
alcuno rispetto la difese, dicendo non avere con tanta fatica
corsi tanti pericoli, se non per potere nella sua patria abitare;
e che non era allora per non volere quello che già aveva cerco,
né per rifiutare quello che dalla fortuna gli era stato dato;
anzi per essere non minore nimico di coloro che disegnassero
altrimenti, che si fusse stato ai Guelfi; e se di loro alcuno
temeva della sua patria, la rovinasse, perché sperava, con
quella virtù che ne aveva cacciati i Guelfi, difenderla.
Era messer Farinata uomo di grande animo, eccellente nella guerra,
capo de' Ghibellini, e apresso a Manfredi assai stimato: la cui
autorità pose fine a quello ragionamento; e pensorono altri modi
a volersi lo stato perservare.
8
I Guelfi,
i quali si erano fuggiti a Lucca, licenziati dai Lucchesi per le
minacce del Conte, se ne andorono a Bologna.
Di quivi furono dai Guelfi di Parma chiamati contro ai Ghibellini;
dove, per la loro virtù superati gli avversarii, furno loro date
tutte le loro possessioni; tanto che, cresciuti in ricchezze e in
onore, sapiendo che papa Clemente aveva chiamato Carlo d'Angiò
per torre il Regno a Manfredi, mandorono al Pontefice oratori ad
offerirgli le loro forze.
Di modo che il Papa, non solamente gli ricevé per amici, ma
dette loro la sua insegna; la quale sempre di poi fu portata da'
Guelfi in guerra, ed è quella che ancora in Firenze si usa.
Fu di poi Manfredi da Carlo spogliato del Regno, e morto; dove
sendo intervenuti i Guelfi di Firenze, ne diventò la parte loro
più gagliarda, e quella de' Ghibellini più debole, donde che
quelli che insieme col conte Guido Novello governavono Firenze
giudicorono che fussi bene guadagnarsi con qualche benefizio quel
popolo che prima avevano con ogni ingiuria aggravato; e quelli
rimedi che, avendogli fatti prima che la necessità venisse,
sarebbono giovati, facendogli di poi, sanza grado, non solamente
non giovorono, ma affrettorono la rovina loro. Giudicorono per
tanto farsi amico il popolo e loro partigiano, se gli rendevono
parte di quelli onori e di quella autorità gli avevono tolta; ed
elessono trentasei cittadini popolani, i quali, insieme con duoi
cavalieri fatti venire da Bologna, riformassero lo stato della
città.
Costoro, come prima convennono, distinsono tutta la città in
Arti, e sopra ciascuna Arte ordinorono uno magistrato il quale
rendesse ragione a' sottoposti a quelle; consegnorono, oltre di
questo, a ciascuna una bandiera, acciò che sotto quella ogni
uomo convenisse armato, quando la città ne avesse di bisogno.
Furono nel principio queste Arti dodici, sette maggiori e cinque
minori; di poi crebbono le minori infino in quattordici, tanto
che tutte furono, come al presente sono, ventuna; praticando
ancora i trentasei riformatori delle altre cose a benefizio
comune.
9
Il conte
Guido, per nutrire i soldati, ordinò di porre una taglia a'
cittadini; dove trovò tanta difficultà che non ardì di fare
forza di ottenerla; e parendogli avere perduto lo stato, si
ristrinse con i capi de' Ghibellini; e deliberorono torre per
forza al popolo quello che per poca prudenza gli avevono
conceduto.
E quando parve loro essere ad ordine con le armi, sendo insieme i
trentasei, feciono levare il romore; onde che quelli, spaventati,
si ritirorono alle loro case, e subito le bandiere delle Arti
furono fuora con assai armati dietro; e intendendo come il conte
Guido con la sua parte era a San Giovanni, feciono testa a Santa
Trinita, e dierono la ubbidienza a messer Giovanni Soldanieri.
Il Conte dall'altra parte, sentendo dove il popolo era, si mosse
per ire a trovarlo; né il popolo ancora fuggì la zuffa; e
fattosi incontro al nimico, dove è oggi la loggia de'
Tornaquinci si riscontrorono.
Dove fu ributtato il Conte, con perdita e morte di più suoi,
donde che, sbigottito temeva che la notte i nimici lo assalissero,
e trovandosi i suoi battuti e inviliti, lo ammazzassero. E tanta
fu in lui potente questa immaginazione, che, senza pensare ad
altro rimedio, deliberò, più tosto fuggendo che combattendo,
salvarsi; e contro al consiglio de' Rettori e della Parte, con
tutte le genti sue ne andò a Prato.
Ma come prima per trovarsi in luogo sicuro, gli fuggì la paura,
ricognobbe lo errore suo; e volendolo correggere, la mattina,
venuto il giorno, tornò con le sue genti a Firenze, per
rientrare in quella città per forza, che egli aveva per viltà
abbandonata; ma non gli successe il disegno, perché quel popolo
che con difficultà lo arebbe potuto cacciare, facilmente lo
potette tenere fuora; tanto che, dolente e svergognato, se ne
andò in Casentino; e i Ghibellini si ritirorono alle loro ville.
Restato adunque il popolo vincitore, per conforto di coloro che
amavano il bene della republica, si deliberò di riunire la
città e richiamare tutti i cittadini, così ghibellini come
guelfi, i quali si trovassero fuora.
Tornorono adunque i Guelfi, sei anni dopo che gli erano stati
cacciati, e a' Ghibellini ancora fu perdonata la fresca ingiuria,
e riposti nella patria loro.
Non di meno da il popolo e dai Guelfi erano forte odiati, perché
questi non potevono cancellare della memoria lo esilio, e quello
si ricordava troppo della tirannide loro mentre che visse sotto
il governo di quelli; il che faceva che né l'una né l'altra
parte posava l'animo.
Mentre che in questa forma in Firenze si viveva, si sparse fama
che Curradino nipote di Manfredi, con gente, veniva della Magna
allo acquisto di Napoli; donde che i Ghibellini si riempierono di
speranza di potere ripigliare la loro autorità, e i Guelfi
pensavano come si avessero ad assicurare delli loro nimici e
chiesono al re Carlo aiuti per potere, passando Curradino,
difendersi.
Venendo per tanto le genti di Carlo, feciono diventare i Guelfi
insolenti, e in modo sbigottirono i Ghibellini, che duoi giorni
avanti allo arrivare loro, senza essere cacciati, si fuggirono.
10
Partiti i
Ghibellini, riordinorono i Fiorentini lo stato della città; ed
elessono dodici capi, i quali sedessero in magistrato duoi mesi,
i quali non chiamorono Anziani, ma Buoni uomini; apresso a questi
uno consiglio di ottanta cittadini, il quale chiamavano la
Credenza; dopo questo erano cento ottanta popolani, trenta per
sesto, i quali, con la Credenza e dodici Buoni uomini, si
chiamavano il Consiglio generale.
Ordinorono ancora un altro consiglio di cento venti cittadini,
popolani e nobili, per il quale si dava perfezione a tutte le
cose negli altri consigli deliberate; e con quello distribuivono
gli uffici della repubblica.
Fermato questo governo, fortificorono ancora la parte guelfa con
magistrati e altri ordini, acciò che con maggiori forze si
potessero dai Ghibellini difendere, i beni de' quali in tre parti
divisono, delle quali l'una publicorono, l'altra al magistrato
della Parte, chiamato i Capitani, la terza a' Guelfi, per
ricompenso de' danni ricevuti, assegnorono.
Il Papa ancora, per mantenere la Toscana guelfa, fece il re Carlo
vicario imperiale di Toscana.
Mantenendo adunque i Fiorentini, per virtù di questo nuovo
governo, dentro con le leggi e fuora con le armi, la reputazione
loro, morì il Pontefice; e dopo una lunga disputa, passati duoi
anni, fu eletto papa Gregorio X.
Il quale, per essere stato lungo tempo in Sorìa, ed esservi
ancora nel tempo della sua elezione, e discosto da gli umori
delle parti, non stimava quelle nel modo che dagli suoi
antecessori erano state stimate.
E per ciò, sendo venuto in Firenze per andare in Francia, stimò
che fusse ufficio di uno ottimo pastore riunire la città; e
operò tanto che i Fiorentini furono contenti ricevere i sindachi
de' Ghibellini in Firenze per praticare il modo del ritorno loro;
e benché lo accordo si concludesse, furono in modo i Ghibellini
spaventati, che non vollono tornare.
Di che il Papa dette la colpa alla città, e, sdegnato,
scomunicò quella; nella quale contumacia stette quanto visse il
Pontefice; ma dopo la sua morte fu da papa Innocenzio V
ribenedetta.
Era venuto il pontificato in Niccolò III, nato di casa Orsina; e
perché i pontefici temevano sempre colui la cui potenzia era
diventata grande in Italia, ancora che la fussi con i favori
della Chiesa cresciuta, e perché ei cercavano di abbassarla, ne
nascevano gli spessi tumulti e le spesse variazioni che in quella
seguivono; perché la paura di uno potente faceva crescere uno
debile; e cresciuto ch'egli era, temere, e temuto, cercare di
abbassarlo: questo fece trarre il Regno di mano a Manfredi e
concederlo a Carlo; questo fece di poi avere paura di lui, e
cercare la rovina sua.
Niccolao III per tanto, mosso da queste cagioni, operò tanto che
a Carlo, per mezzo dello Imperadore, fu tolto il governo di
Toscana, e in quella provincia mandò, sotto nome dello Imperio,
messer Latino suo legato.
11
Era
Firenze allora in assai mala condizione, perché la nobilità
guelfa era diventata insolente e non temeva i magistrati; in modo
che ciascuno dì si facevano assai omicidii e altre violenze,
sanza essere puniti quegli che le commettevano, sendo da questo e
quell'altro nobile favoriti.
Pensorono per tanto i capi del popolo, per frenare questa
insolenzia, che fusse bene rimettere i fuori usciti; il che dette
occasione al Legato di riunire la città; e i Ghibellini
tornorono.
E in luogo de' dodici governatori ne feciono quattordici, d'ogni
parte sette, che governassero uno anno e avessero ad essere
eletti dal papa.
Stette Firenze in questo governo duoi anni, infino che venne al
pontificato papa Martino, di nazione franzese, il quale restituì
al re Carlo tutta quella autorità che da Niccola gli era stata
tolta; talché subito risuscitorono in Toscana le parti, perché
i Fiorentini presono l'armi contro al governatore dello
Imperadore, e per privare del governo i Ghibellini e tenere i
potenti in freno, ordinorono nuova forma di reggimento.
Era l'anno 1282, e i corpi delle Arti, poi che fu dato loro i
magistrati e le insegne, erano assai reputati; donde che quelli
per la loro autorità ordinorono che, in luogo de' quattordici,
si creassero tre cittadini, che si chiamassero Priori, e stessero
duoi mesi al governo della republica, e potessero essere popolani
e grandi, purché fussero mercatanti o facessero arti.
Ridussongli, dopo il primo magistrato, a sei, acciò che di
qualunque sesto ne fusse uno, il quale numero si mantenne insino
al 1342, che ridussono la città a quartieri e i Priori ad otto;
non ostante che in quel mezzo di tempo alcuna volta, per qualche
accidente, ne facessero dodici.
Questo magistrato fu cagione, come con il tempo si vide, della
rovina ne' nobili, perché ne furono da il popolo per varii
accidenti esclusi, e di poi sanza alcuno rispetto battuti; a che
i nobili, nel principio, acconsentirono per non essere uniti,
perché, desiderando troppo torre lo stato l'uno a l'altro, tutti
lo perderono. Consegnorono a questo magistrato uno palagio, dove
continuamente dimorasse, sendo prima consuetudine che i
magistrati e i consigli per le chiese convenissero; e quello
ancora con sergenti e altri ministri necessari onororono; e
benché nel principio gli chiamassero solamente Priori, nondimeno
di poi, per maggiore magnificenza, il nome de' Signori gli
aggiunsero.
Stierono i Fiorentini dentro quieti alcun tempo; nel quale
feciono la guerra con gli Aretini, per avere quegli cacciati i
Guelfi, e in Campaldino felicemente gli vinsono.
E crescendo la città di uomini e di ricchezze, parve ancora di
accrescerla di mura, e le allargorono il suo cerchio in quel modo
che al presente si vede, con ciò sia che prima il suo diametro
fusse solamente quello spazio che contiene dal Ponte Vecchio
infino a San Lorenzo.
12
Le guerre
di fuora e la pace di dentro avevano come spente in Firenze le
parti ghibelline e guelfe; restavano solamente accesi quelli
umori i quali naturalmente sogliono essere in tutte le città
intra i potenti e il popolo; perché, volendo il popolo vivere
secondo le leggi, e i potenti comandare a quelle, non è
possibile cappino insieme.
Questo umore, mentre che i Ghibellini feciono loro paura, non si
scoperse; ma come prima quelli furono domi, dimostrò la potenza
sua; e ciascuno giorno qualche popolare era ingiuriato; e le
leggi e i magistrati non bastavano a vendicarlo, perché ogni
nobile, con i parenti e con gli amici, dalle forze de' Priori e
del Capitano si difendeva.
I principi per tanto delle Arti, desiderosi di rimediare a questo
inconveniente, provviddono che qualunche Signoria, nel principio
dello uficio suo, dovesse creare uno Gonfaloniere di giustizia,
uomo popolano, al quale dettono, scritti sotto venti bandiere,
mille uomini; il quale, con il suo gonfalone e con gli armati
suoi, fusse presto a favorire la giustizia, qualunque volta da
loro o da il Capitano fusse chiamato. Il primo eletto fu Ubaldo
Ruffoli.
Costui trasse fuora il gonfalone, e disfece le case de' Galletti,
per avere uno di quella famiglia morto, in Francia, un popolano.
Fu facile alle Arti fare questo ordine, per le gravi inimicizie
che intra i nobili vegghiavano; i quali non prima pensorono al
provedimento fatto contro di loro, che viddono la acerbità di
quella esecuzione; il che dette loro da prima assai terrore: non
di meno poco di poi si tornorono nella loro insolenzia; perché,
sendone sempre alcuni di loro de' Signori, avevano commodità di
impedire il Gonfaloniere, che non potesse fare l'uficio suo.
Oltra di questo, avendo bisogno lo accusatore di testimone quando
riceveva alcuna offesa, non si trovava alcuno che contro a'
nobili volesse testimoniare; talché in breve tempo si tornò
Firenze ne' medesimi disordini, e il popolo riceveva dai Grandi
le medesime ingiurie, perché i giudicii erano lenti e le
sentenzie mancavano delle esecuzioni loro.
13
E non
sapiendo i popolani che partiti si prendere, Giano della Bella di
stirpe nobilissimo, ma della libertà della città amatore, dette
animo ai capi delle Arti a riformare la città; e per suo
consiglio si ordinò che il Gonfaloniere residesse con i Priori,
e avesse quattromila uomini a sua ubbidienza; privoronsi ancora
tutti i nobili di potere sedere de' Signori; obligoronsi consorti
del reo alla medesima pena che quello; fecesi che la publica fama
bastasse a giudicare.
Per queste leggi, le quali si chiamorono gli Ordinamenti della
iustizia, acquistò il popolo assai reputazione, e Giano della
Bella assai odio; perché era in malissimo concetto de' potenti,
come di loro potenza distruttore, e i popolani ricchi gli avevano
invidia, perché pareva loro che la sua autorità fusse troppa;
il che, come prima lo permisse la occasione, si dimostrò.
Fece adunque la sorte che fu morto uno popolano in una zuffa dove
più nobili intervennono, intra i quali fu messer Corso Donati;
al quale, come più audace che gli altri, fu attribuita la colpa;
e per ciò fu da il Capitano del popolo preso; e comunque la cosa
si andasse, o che messer Corso non avesse errato, o che il
Capitano temesse di condannarlo, e' fu assoluto.
La quale assoluzione tanto al popolo dispiacque, che prese le
armi e corse a casa Giano della Bella a pregarlo dovesse essere
operatore che si osservassero quelle leggi delle quali egli era
stato inventore.
Giano, che desiderava che messer Corso fusse punito, non fece
posare l'armi, come molti giudicavano che dovesse fare, ma gli
confortò ad ire a' Signori a dolersi del caso e pregarli che
dovessero provedervi.
Il popolo per tanto, pieno di sdegno, parendogli essere offeso
dal Capitano e da Giano abandonato, non a' Signori, ma al palagio
del Capitano itosene, quello prese e saccheggiò.
Il quale atto dispiacque a tutti i cittadini; e quelli che
amavano la rovina di Giano lo accusavano, attribuendo a lui tutta
la colpa, di modo che, trovandosi intra gli Signori che di poi
seguirono alcuno suo nimico, fu accusato al Capitano come
sollevatore del popolo.
E mentre che si praticava la causa sua, il popolo si armò, e
corse alle sue case, offerendogli contro ai Signori e suoi nimici
la difesa.
Non volle Giano fare esperienza di questi populari favori, né
commettere la vita sua a' magistrati, perché temeva la
malignità di questi e la instabilità di quelli; tale che, per
torre occasione a' nimici di ingiuriare lui, e agli amici di
offendere la patria, deliberò di partirsi, e dare luogo alla
invidia, e liberare i cittadini dal timore ch'eglino avevano di
lui, e lasciare quella città la quale con suo carico e pericolo
aveva libera dalla servitù de' potenti, e si elesse voluntario
esilio.
14
Dopo la
costui partita, la nobilità salse in speranza di ricuperare la
sua dignità; e giudicando il male suo essere dalle sue divisioni
nato, si unirono i nobili insieme, e mandorono duoi di loro alla
Signoria, la quale giudicavano in loro favore, a pregarla fusse
contenta temperare in qualche parte la acerbità delle leggi
contro a di loro fatte.
La quale domanda, come fu scoperta, commosse gli animi de'
popolani, perché dubitavano che i Signori la concedessero loro;
e così, tra il desiderio de' nobili e il sospetto del popolo, si
venne alle armi.
I nobili feciono testa in tre luoghi: a San Giovanni, in Mercato
Nuovo e alla piazza de' Mozzi; e sotto tre capi: messer Forese
Adimari, messer Vanni de' Mozzi e messer Geri Spini; i popolani
in grandissimo numero sotto le loro insegne al palagio de'
Signori convennono, i quali allora propinqui a San Brocolo
abitavano.
E perché il popolo aveva quella Signoria sospetta, deputò sei
cittadini che con loro governassero.
Mentre che l'una e l'altra parte alla zuffa si preparava, alcuni,
così popolari come nobili, e con quelli certi religiosi di buona
fama, si messono di mezzo per pacificarli, ricordando ai nobili
che degli onori tolti e delle leggi contro a di loro fatte ne era
stata cagione la loro superbia e il loro cattivo governo; e che
lo avere prese ora l'armi, e rivolere con la forza quello che per
la loro disunione e loro non buoni modi si erano lasciati torre,
non era altro che volere rovinare la patria loro e le loro
condizioni raggravare; e si ricordassero che il popolo, di numero,
di ricchezze e di odio era molto a loro superiore, e che quella
nobilità mediante la quale e' pareva loro avanzare gli altri non
combatteva, e riusciva, come e' si veniva al ferro, uno nome vano,
che contro a tanti a difenderli non bastava.
Al popolo dall'altra parte ricordavano come e' non era prudenzia
volere sempre l'ultima vittoria, e come e' non fu mai savio
partito fare disperare gli uomini, perché chi non spera il bene
non teme il male; e che dovevano pensare che la nobilità era
quella la quale aveva nelle guerre quella città onorata, e però
non era bene né giusta cosa con tanto odio perseguitarla; e come
i nobili il non godere il loro supremo magistrato facilmente
sopportavano, ma non potevano già sopportare che fusse in potere
di ciascuno, mediante gli ordini fatti, cacciargli della patria
loro; e però era bene mitigare quelli, e per questo benefizio
fare posare le armi, né volessero tentare la fortuna della zuffa
confidandosi nel numero, perché molte volte si era veduto gli
assai dai pochi essere stati superati.
Erano nel popolo i pareri diversi: molti volevono che si venissi
alla zuffa, come a cosa che un giorno di necessità a venire vi
si avesse; e però era meglio farlo allora, che aspettare che i
nimici fussero più potenti; e se si credesse che rimanessero
contenti mitigando le leggi, che sarebbe bene mitigarle; ma che
la superbia loro era tanta che non poserieno mai, se non forzati.
A molti altri, più savi e di più quieto animo, pareva che il
temperare le leggi non importasse molto, e il venire alla zuffa
importasse assai; di modo che la opinione loro prevalse; e
providono che alle accuse de' nobili fussero necessari i
testimoni.
15
Posate le
armi, rimase l'una e l'altra parte piena di sospetto, e ciascuna
con torri e con armi si fortificava; e il popolo riordinò il
governo, ristringendo quello in minore numero, mosso dallo essere
stati quelli Signori favorevoli a' nobili: del quale rimaseno
principi Mancini, Magalotti, Altoviti, Peruzzi e Cerretani.
Fermato lo stato, per maggiore magnificenzia e più sicurtà de'
Signori, l'anno 1298, fondorono il palagio loro; e feciongli
piazza delle case che furono già degli Uberti.
Comincioronsi ancora in quel medesimo tempo le publiche prigioni;
i quali edifici in termine di pochi anni si fornirono.
Né mai fu la città nostra in maggiore e più felice stato che
in questi tempi, sendo di uomini, di ricchezze e di riputazione
ripiena: i cittadini atti alle armi a trentamila, e quelli del
suo contado a settantamila aggiugnevano; tutta la Toscana, parte
come subietta, parte come amica, le ubbidiva; e benché intra i
nobili e il popolo fusse alcuna indignazione e sospetto, non di
meno non facevano alcuno maligno effetto, ma unitamente e in pace
ciascuno si viveva.
La quale pace, se dalle nuove inimicizie dentro non fusse stata
turbata, di quelle di fuora non poteva dubitare; perché era la
città in termine che la non temeva più lo Imperio né i suoi
fuori usciti, e a tutti gli stati di Italia arebbe potuto con le
sue forze rispondere.
Quello male per tanto che dalle forze di fuora non gli poteva
essere fatto, quelle di dentro gli feciono.
16
Erano in
Firenze due famiglie, i Cerchi e i Donati, per ricchezza,
nobilità e uomini potentissime.
Intra loro, per essere in Firenze e nel contado vicine, era stato
qualche disparere, non però si grave che si fusse venuto alle
armi; e forse non arebbono fatti grandi effetti, se i maligni
umori non fussero stati da nuove cagioni accresciuti.
Era intra le prime famiglie di Pistoia quella de' Cancellieri.
Occorse che, giucando Lore di messer Guglielmo e Geri di messer
Bertacca, tutti di quella famiglia, e venendo a parole, fu Geri
da Lore leggermente ferito.
Il caso dispiacque a messer Guglielmo; e pensando con la umanità
di torre via lo scandolo, lo accrebbe; perché comandò al
figliuolo che andasse a casa il padre del ferito e gli domandasse
perdono.
Ubbidì Lore al padre: nondimeno questo umano atto non addolcì
in alcuna parte lo acerbo animo di messer Bertacca; e fatto
prendere Lore dai suoi servidori, per maggiore dispregio sopra
una mangiatoia gli fece tagliare la mano, dicendogli: - Torna a
tuo padre, e digli che le ferite con il ferro e non con le parole
si medicano -.
La crudeltà di questo fatto dispiacque tanto a messer Guglielmo,
che fece pigliare le armi ai suoi per vendicarlo; e messer
Bertacca ancora si armò per difendersi; e non solamente quella
famiglia, ma tutta la città di Pistoia si divise.
E perché i Cancellieri erano discesi da messer Cancelliere, che
aveva aute due mogli, delle quali l'una si chiamò Bianca, si
nominò ancora l'una delle parti, per quelli che da lei erano
discesi, "Bianca"; e l'altra, per torre nome contrario
a quella, fu nominata "Nera". Seguirono infra costoro,
in più tempo, di molte zuffe, con assai morte di uomini e rovina
di case; e non potendo infra loro unirsi, stracchi nel male, e
desiderosi o di porre fine alle discordie loro, o con la
divisione d'altri accrescerle, ne vennono a Firenze, e i Neri,
per avere famigliarità con i Donati, furono da messer Corso,
capo di quella famiglia, favoriti; donde nacque che i Bianchi,
per avere appoggio potente che contro ai Donati gli sostenesse,
ricorsono a messer Veri de' Cerchi, uomo per ciascuna qualità
non punto a messer Corso inferiore.
17
Questo
umore, da Pistoia venuto, lo antico odio intra i Cerchi e i
Donati accrebbe, ed era già tanto manifesto che i Priori e gli
altri buoni cittadini dubitavano ad ogni ora che non si venisse
infra loro alle armi, e che da quelli, di poi, tutta la città si
dividesse.
E per ciò ricorsono al Pontefice, pregandolo che a questi umori
mossi quello rimedio che per loro non vi potevono porre con la
sua autorità vi ponesse.
Mandò il Papa per messer Veri, e lo gravò a fare pace con i
Donati; di che messer Veri mostrò maravigliarsi, dicendo non
avere alcuna inimicizia con quelli; e perché la pace presuppone
la guerra, non sapeva, non essendo intra loro guerra, perché
fusse la pace necessaria.
Tornato adunque messer Veri da Roma senza altra conclusione,
crebbono in modo gli umori che ogni piccolo accidente, sì come
avvenne, gli poteva fare traboccare.
Era del mese di maggio; nel qual tempo, e ne' giorni festivi,
publicamente per Firenze si festeggia.
Alcuni giovani, per tanto, de' Donati, insieme con loro amici, a
cavallo, a vedere ballare donne presso a Santa Trinita si
fermorono; dove sopraggiunsono alcuni de' Cerchi, ancora loro da
molti nobili accompagnati; e non cognoscendo i Donati, che erano
davanti, desiderosi ancora loro di vedere, spinsono i cavagli fra
loro, e gli urtorono; donde i Donati, tenendosi offesi, strinsono
le armi; a' quali i Cerchi gagliardamente risposono; e dopo molte
ferite date e ricevute da ciascuno, si spartirono.
Questo disordine fu di molto male principio; perché tutta la
città si divise, così quelli di popolo come i Grandi; e le
parti presono il nome dai Bianchi e Neri.
Erano capi della parte bianca i Cerchi, e a loro si accostorono
gli Adimari, gli Abati, parte de' Tosinghi, de' Bardi, de' Rossi,
de' Frescobaldi, de' Nerli e de' Mannelli, tutti i Mozzi, gli
Scali, i Gherardini, i Cavalcanti, Malespini, Bostechi,
Giandonati, Vecchietti e Arrigucci; a questi si aggiunsono molte
famiglie populane, insieme con tutti i Ghibellini che erano in
Firenze; tale che, per lo gran numero che gli seguivano, avevono
quasi che tutto il governo della città.
I Donati da l'altro canto, erano capi della parte nera, e con
loro erano quella parte che delle sopranomate famiglie a' Bianchi
non si accostavano, e di più tutti i Pazzi, i Bisdomini, i
Manieri, Bagnesi, Tornaquinci, Spini, Buondelmonti, Gianfigliazzi,
Brunelleschi.
Né solamente questo umore contaminò la città, ma ancora tutto
il contado divise; donde che i Capitani di parte e qualunque era
de' Guelfi e della republica amatore temeva forte che questa
nuova divisione non facesse, con rovina della città, risuscitare
le parti ghibelline.
E mandorono di nuovo a papa Bonifazio perché pensasse al rimedio,
se non voleva che quella città, che era stata sempre scudo della
Chiesa, o rovinasse o diventasse ghibellina.
Mandò pertanto il Papa in Firenze Matteo d'Acquasparta,
cardinale Portuese, legato; e perché trovò difficultà nella
parte bianca, la quale per parergli essere più potente temeva
meno, si partì di Firenze sdegnato, e la interdisse; di modo che
la rimase in maggiore confusione che la non era avanti la venuta
sua.
18
Essendo
per tanto tutti gli animi degli uomini sollevati, occorse che ad
uno mortoro trovandosi assai de' Cerchi e de' Donati vennono
insieme a parole, e da quelle alle armi; dalle quali, per allora,
non nacque altro che tumulti.
E tornato ciascuno alle sue case, deliberorono i Cerchi di
assaltare i Donati, e con gran numero di gente gli andorono a
trovare; ma per la virtù di messer Corso furono ributtati e gran
parte di loro feriti.
Era la città tutta in arme; i Signori e le leggi erano dalla
furia de' potenti vinte; i più savi e migliori cittadini pieni
di sospetto vivevano.
I Donati e la parte loro temevono più, perché potevono meno;
donde che, per provedere alle cose loro, si ragunò messer Corso
con gli altri capi neri e i Capitani di parte; e convennono che
si domandasse al Papa uno di sangue reale, che venisse a
riformare Firenze, pensando che per questo mezzo si potesse
superare i Bianchi. Questa ragunata e deliberazione fu a' Priori
notificata, e dalla parte avversa come una congiura contro al
viver libero aggravata.
E trovandosi in arme ambedue le parti, i Signori, de' quali era
in quel tempo Dante, per il consiglio e prudenza sua presono
animo e feciono armare il popolo, al quale molti del contado
aggiunsono; e di poi forzorono i capi delle parti a posare le
armi, e confinorono messer Corso Donati con molti di parte nera;
e per mostrare di essere in questo giudizio neutrali, confinorono
ancora alcuni di parte bianca, i quali poco di poi, sotto colore
di oneste cagioni, tornorono.
19
Messer
Corso e i suoi, perché giudicavano il Papa alla loro parte
favorevole, ne andorono a Roma; e quello che già avevono scritto
al Papa alla presenza gli persuasono.
Trovavasi in corte del Pontefice Carlo di Valois, fratello del re
di Francia, il quale era stato chiamato in Italia dal re di
Napoli per passare in Sicilia. Parve per tanto al Papa, sendone
massimamente pregato dai Fiorentini fuori usciti, infino che il
tempo venisse commodo a navigare, di mandarlo a Firenze.
Venne adunque Carlo; e benché i Bianchi, i quali reggevano, lo
avessero a sospetto, nondimeno, per essere capo de' Guelfi e
mandato da il Papa, non ardirono di impedirgli la venuta; ma, per
farselo amico, gli dettono autorità che potesse secondo lo
arbitrio suo disporre della città.
Carlo, avuta questa autorità, fece armare tutti i suoi amici e
partigiani; il che dette tanto sospetto al popolo che non volesse
torgli la sua libertà, che ciascuno prese le armi e si stava
alle case sue, per essere presto se Carlo facesse alcuno moto.
Erano i Cerchi e i capi di parte bianca, per essere stati qualche
tempo capi della republica e portatisi superbamente, venuti allo
universale in odio; la qual cosa dette animo a messer Corso e
agli altri fuori usciti neri di venire a Firenze, sapiendo
massime che Carlo e i Capitani di parte erano per favorirgli.
E quando la città, per dubitare di Carlo, era in arme, messer
Corso con tutti i fuori usciti e molti altri che lo seguitavano,
senza essere da alcuno impediti, entrorono in Firenze; e benché
messer Veri de' Cerchi fusse ad andargli incontra confortato, non
lo volse fare, dicendo che voleva che il popolo di Firenze,
contro al quale veniva, lo gastigasse.
Ma ne avvenne il contrario, perché fu ricevuto, non gastigato da
quello; e a messer Veri convenne, volendo salvarsi, fuggire;
perché messer Corso, sforzata che gli ebbe la porta a Pinti,
fece testa a San Piero Maggiore, luogo propinquo alle sue case; e
ragunato assai amici e popolo, che desideroso di cose nuove vi
concorse, trasse, la prima cosa, delle carcere qualunque o per
publica o per privata cagione vi era ritenuto; sforzò i Signori
a tornarsi privati alle case loro, ed elesse i nuovi, popolani e
di parte nera; e per cinque giorni si attese a saccheggiare
quelli che erano i primi di parte bianca.
I Cerchi e gli altri principi della setta loro erano usciti della
città e ritirati ai loro luoghi forti, vedendosi Carlo contrario
e la maggiore parte del popolo nimico; e dove prima ei non
avevano mai voluto seguitare i consigli del Papa, furono forzati
a ricorrere a quello per aiuto, mostrandogli come Carlo era
venuto per disunire, non per unire Firenze.
Onde che il Papa di nuovo vi mandò suo legato messer Matteo d'Acquasparta;
il quale fece fare la pace intra i Cerchi e i Donati, e con
matrimoni e nuove nozze la fortificò, e volendo che i Bianchi
ancora degli uffizi participassino, i Neri, che tenevano lo stato,
non vi consentirono; in modo che il Legato non si partì con più
sua sodisfazione né meno irato che l'altra volta; e lasciò la
città, come disubidiente, interdetta.
20
Rimase
per tanto in Firenze l'una e l'altra parte, e ciascuna
malcontenta: i Neri, per vedersi la parte nimica appresso,
temevano che la non ripigliasse, con la loro rovina, la perduta
autorità e i Bianchi si vedevano mancare della autorità e onori
loro.
A' quali sdegni e naturali sospetti s'aggiunsono nuove ingiurie.
Andava messer Niccola de' Cerchi con più suoi amici alle sue
possessioni, e arrivato al Ponte ad Affrico, fu da Simone di
messer Corso Donati assaltato.
La zuffa fu grande, e da ogni parte ebbe lacrimoso fine, perché
messer Niccola fu morto e Simone in modo ferito che la seguente
notte morì.
Questo caso perturbò di nuovo tutta la città; e benché la
parte nera vi avesse più colpa, nondimeno era da chi governava
difesa.
E non essendo ancora datone giudizio, si scoperse una congiura
tenuta dai Bianchi con messer Piero Ferrante barone di Carlo, con
il quale praticavano di essere rimessi al governo; la qual cosa
venne a luce per lettere scritte dai Cerchi a quello, non ostante
che fusse opinione le lettere essere false e dai Donati trovate
per nascondere la infamia la quale per la morte di messer Niccola
si avevono acquistata.
Furono per tanto confinati tutti i Cerchi e i loro seguaci di
parte bianca, intra i quali fu Dante poeta, e i loro beni
publicati e le loro case disfatte.
Sparsonsi costoro, con molti Ghibellini che si erano con loro
accostati, per molti luoghi, cercando con nuovi travagli nuova
fortuna; e Carlo, avendo fatto quello per che venne a Firenze, si
parti, e ritornò al Papa per seguire la impresa sua di Sicilia:
nella quale non fu più savio né migliore che si fusse stato in
Firenze; tanto che vituperato, con perdita di molti suoi, tornò
in Francia.
21
Vivevasi
in Firenze, dopo la partita di Carlo, assai quietamente: solo
messer Corso era inquieto, perché non gli pareva tenere nella
città quel grado quale credeva convenirsegli; anzi, sendo il
governo popolare, vedeva la repubblica essere amministrata da
molti inferiori a lui.
Mosso per tanto da queste passioni, pensò di adonestare con una
onesta cagione la disonestà dello animo suo; e calunniava molti
cittadini i quali avevano amministrati danari publici, come se
gli avessero usati ne' privati commodi; e che gli era bene
ritrovargli e punirgli.
Questa sua opinione da molti, che avevano il medesimo desiderio
che quello, era seguita; a che si aggiugneva la ignoranzia di
molti altri, i quali credevano messer Corso per amore della
patria muoversi.
Dall'altra parte i cittadini calunniati, avendo favore nel popolo,
si difendevano; e tanto transcorse questo disparere, che, dopo ai
modi civili, si venne alle armi.
Dall'una parte era messer Corso e messer Lottieri vescovo di
Firenze, con molti Grandi e alcuni popolani; dall'altra erano i
Signori, con la maggiore parte del popolo: tanto che in più
parti della città si combatteva.
I Signori, veduto il pericolo grande nel quale erano, mandorono
per aiuto ai Lucchesi; e subito fu in Firenze tutto il popolo di
Lucca; per l'autorità del quale si composono per allora le cose
e si fermorono i tumulti; e rimase il popolo nello stato e
libertà sua, sanza altrimenti punire i motori dello scandolo.
Aveva il Papa inteso i tumulti di Firenze, e per fermargli vi
mandò messer Niccolao da Prato suo legato. Costui, sendo uomo,
per grado, dottrina e costumi, di grande riputazione, acquistò
subito tanta fede che si fece dare autorità di potere uno stato
a suo modo fermare; e perché era di nazione ghibellino, aveva in
animo ripatriare gli usciti; ma volse prima guadagnarsi il popolo;
e per questo rinnovò le antiche Compagnie del popolo; il quale
ordine accrebbe assai la potenza di quello, e quella de' Grandi
abbassò.
Parendo per tanto al Legato aversi obligata la moltitudine,
disegnò di fare tornare i fuori usciti, e nel tentare varie vie,
non solamente non gliene successe alcuna, ma venne in modo a
sospetto a quelli che reggevano, che fu costretto a partirsi; e
pieno di sdegno se ne tornò al Pontefice, e lasciò Firenze
piena di confusione e interdetta.
E non solo quella città da uno umore ma da molti era perturbata,
sendo in essa le inimicizie del popolo e de' Grandi, de'
Ghibellini e Guelfi, de' Bianchi e Neri.
Era adunque tutta la città in arme e piena di zuffe; perché
molti erano per la partita del Legato mal contenti, sendo
desiderosi che i fuori usciti tornassero.
E i primi di quelli che movieno lo scandolo erano i Medici e i
Giugni, i quali in favore de' ribelli si erano con il Legato
scoperti: combattevasi per tanto in più parti in Firenze.
Ai quali mali si aggiunse un fuoco, il quale si appiccò prima da
Orto San Michele, nelle case degli Abati; di quivi saltò in
quelle de' Capo in sacchi, e arse quelle con le case de' Macci,
degli Amieri, Toschi, Cipriani, Lamberti, Cavalcanti e tutto
Mercato nuovo; passò di quivi in Porta Santa Maria, e quella
arse tutta, e girando dal Ponte Vecchio, arse le case de'
Gherardini, Pulci, Amidei e Lucardesi, e con queste tante altre
che il numero di quelle a mille settecento o più aggiunse.Questo
fuoco fu opinione di molti che a caso, nello ardore della zuffa,
si appiccasse: alcuni altri affermano che da Neri Abati priore di
San Piero Scheraggio, uomo dissoluto e vago di male, fusse acceso;
il quale, veggendo il popolo occupato a combattere, pensò di
poter fare una sceleratezza alla quale gli uomini, per essere
occupati, non potessero rimediare; e perché gli riuscisse meglio,
misse fuoco in casa i suoi consorti, dove aveva più commodità
di farlo.
Era lo anno 1304 e del mese di luglio, quando Firenze dal fuoco e
da il ferro era perturbata.
Messer Corso Donati solo, intra tanti tumulti, non si armò;
perché giudicava più facilmente diventare arbitro di ambedue le
parti, quando, stracche nella zuffa, agli accordi si volgessero.
Posoronsi non di meno le armi, più per sazietà del male che per
unione che infra loro nascesse: solo ne seguì che i rebelli non
tornorono, e la parte che gli favoriva rimase inferiore.
22
Il Legato,
tornato a Roma e uditi i nuovi scandoli seguiti in Firenze,
persuase al Papa che, se voleva unire Firenze, gli era necessario
fare a sé venire dodici cittadini de' primi di quella città;
donde poi, levato che fusse il nutrimento al male, si poteva
facilmente pensare di spegnerlo.
Questo consiglio fu da il Pontefice accettato; e i cittadini
chiamati ubbidirono; intra i quali fu messer Corso Donati.
Dopo la partita de' quali, fece il Legato a' fuori usciti
intendere come allora era il tempo, che Firenze era privo de'
suoi capi, di ritornarvi: in modo che gli usciti, fatto loro
sforzo vennono a Firenze, e nella città per le mura ancora non
fornite entrarono, e infino alla piazza di San Giovanni
transcorsono. Fu cosa notabile che coloro i quali poco davanti
avevano per il ritorno loro combattuto, quando disarmati
pregavano di essere alla patria restituiti, poi che gli viddono
armati, e volere per forza occupare la città, presono l'armi
contro a di loro (tanto fu più da quelli cittadini stimata la
comune utilità che la privata amicizia) e unitisi con tutto il
popolo, a tornarsi donde erano venuti gli forzorono.
Perderono costoro la impresa per avere lasciate parte delle genti
loro alla Lastra, e per non avere aspettato messer Tolosetto
Uberti, il quale doveva venire da Pistoia con trecento cavagli;
perché stimavano che la celerità più che le forze avesse a
dare loro la vittoria: e così spesso in simili imprese
interviene che la tardità ti toglie la occasione, e la celerità
le forze.
Partiti i ribelli, si tornò Firenze nelle antiche sue divisioni;
e per torre autorità alla famiglia de' Cavalcanti, gli tolse il
popolo per forza le Stinche, castello posto in Val di Grieve e
anticamente stato di quella; e perché quelli che dentro vi
furono presi furono i primi che fussero posti nelle carcere di
nuovo edificate, si chiamò di poi quel luogo, dal castello donde
venivano, e ancora si chiama, le Stinche.
Rinnovorono ancora, quelli che erano i primi nella republica, le
Compagnie del popolo, e dettono loro le insegne, ché prima sotto
quelle delle Arti si ragunavano; e i capi Gonfalonieri delle
compagnie e Collegi de' Signori si chiamorono, e vollono che,
negli scandoli con le armi e nella pace con il consiglio, la
Signoria aiutassero; aggiunsono ai duoi rettori antichi uno
esecutore, il quale, insieme con i gonfalonieri, doveva contro
alla insolenzia de' Grandi procedere.
In questo mezzo era morto il Papa, e messer Corso e gli altri
cittadini erano tornati da Roma; e sarebbesi vivuto quietamente,
se la città dallo animo inquieto di messer Corso non fusse stata
di nuovo perturbata.
Aveva costui, per darsi reputazione, sempre opinione contraria ai
più potenti tenuta; e dove ei vedeva inclinare il popolo, quivi,
per farselo più benivolo, la sua autorità voltava, in modo che
di tutti i dispareri e novità era capo, e a lui rifuggivono
tutti quelli che alcuna cosa estraordinaria di ottenere
desideravano: tale che molti reputati cittadini lo odiavano; e
vedevasi crescere in modo questo odio, che la parte de' Neri
veniva in aperta divisione, perché messer Corso delle forze e
autorità private si valeva, e gli avversarii dello stato; ma
tanta era l'autorità che la persona sua seco portava, che
ciascuno lo temeva.
Pure nondimeno per torgli il favore popolare, il quale per questa
via si può facilmente spegnere, disseminorono che voleva
occupare la tirannide: il che era a persuadere facile, perché il
suo modo di vivere ogni civile misura trapassava.
La quale opinione assai crebbe poi che gli ebbe tolta per moglie
una figliuola di Uguccione della Faggiuola, capo di parte
ghibellina e bianca e in Toscana potentissimo.
23
Questo
parentado, come venne a notizia, dette animo ai suoi avversarii;
e presono contro a di lui le armi; e il popolo, per le medesime
cagioni, non lo difese; anzi la maggior parte di quello con gli
nimici suoi convenne.
Erano capi de suoi avversarii messer Rosso della Tosa, messer
Pazzino de' Pazzi messer Geri Spini e messer Berto Brunelleschi.
Costoro, con i loro seguaci e la maggior parte del popolo, si
raccozzorono armati a piè del palagio de' Signori, per l'ordine
de' quali si dette una accusa a messer Piero Branca capitano del
popolo contro a messer Corso, come uomo che si volesse con lo
aiuto di Uguccione fare tiranno: dopo la quale fu citato, e di
poi, per contumace, giudicato ribello: né fu più dalla accusa
alla sentenzia che uno spazio di due ore.
Dato questo giudizio, i Signori, con le Compagnie del popolo
sotto le loro insegne, andorono a trovarlo.
Messer Corso dall'altra parte, non per vedersi da molti de' suoi
abbandonato, non per la sentenzia data, non per la autorità de'
Signori né per la moltitudine de' nimici sbigottito, si fece
forte nelle sue case, sperando potere difendersi in quelle tanto
che Uguccione, per il quale aveva mandato, a soccorrerlo venisse.
Erano le sue case e le vie intorno a quelle state sbarrate da lui,
e di poi di uomini suoi partigiani affortificate; i quali in modo
le difendevano, che il popolo, ancora che fusse gran numero, non
poteva vincerle.
La zuffa per tanto fu grande, con morte e ferite d'ogni parte; e
vedendo il popolo di non potere dai luoghi aperti superarlo,
occupò le case che erano alle sue propinque; e quelle rotte, per
luoghi inaspettati gli entrò in casa.
Messer Corso per tanto veggendosi circundato da' nimici, né
confidando più negli aiuti di Uguccione, deliberò, poi che gli
era disperato della vittoria, vedere se poteva trovare rimedio
alla salute; e fatta testa egli e Gherardo Bordoni, con molti
altri de' suoi più forti e fidati amici, feciono impeto contro a'
nimici; e quelli apersono in maniera che poterono, combattendo,
passargli; e della città per la Porta alla Croce si uscirono.
Furono non di meno da molti perseguitati; e Gherardo in su l'Affrico
da Boccaccio Cavicciuli fu morto; messer Corso ancora fu a
Rovezzano da alcuni cavagli catelani soldati della Signoria
sopraggiunto e preso; ma nel venire verso Firenze, per non vedere
in viso i suoi nimici vittoriosi ed essere straziato da quelli,
si lasciò da cavallo cadere; ed essendo in terra, fu da uno di
quelli che lo menavano scannato, il corpo del quale fu dai monaci
di San Salvi ricolto, e senza alcuno onore sepulto.
Questo fine ebbe messer Corso dal quale la patria e la parte de'
Neri molti beni e molti mali ricognobbe; e se gli avessi avuto lo
animo più quieto, sarebbe più felice la memoria sua; non di
meno merita di essere numerato intra i rari cittadini che abbi
avuti la nostra città. Vero è che la sua inquietudine fece alla
patria e alla parte non si ricordare degli oblighi avieno con
quello e nella fine a sé partorì la morte, e all'una e all'altra
di quelle di molti mali.
Uguccione, venendo al soccorso del genero, quando fu a Remoli
intese come messer Corso era da il popolo combattuto; e pensando
non potere fargli alcuno favore, per non fare male a sé sanza
giovare a lui, se ne tornò adietro.
24
Morto
messer Corso, il che seguì l'anno 1308, si fermorono i tumulti;
e vissesi quietamente infino a tanto che si intese come Arrigo
imperadore con tutti i rebelli fiorentini passava in Italia, a'
quali aveva promesso di restituirgli alla patria loro.
Donde a' capi del governo parve che fusse bene, per avere meno
nimici, diminuire il numero di quelli; e per ciò deliberorono
che tutti i rebelli fussero restituiti, eccetto quelli a chi
nominatamente nella legge fusse il ritorno vietato.
Donde che restorono fuora la maggior parte de' Ghibellini e
alcuni di quelli di parte bianca, intra i quali furono Dante
Aldighieri, i figliuoli di messer Veri de' Cerchi e di Giano
della Bella.
Mandorono oltra di questo, per aiuto, a Ruberto re di Napoli; e
non lo potendo ottenere come amici, gli dierono la città per
cinque anni, acciò che come suoi uomini gli difendesse.
Lo Imperadore, nel venire, fece la via da Pisa, e per le maremme
ne andò a Roma, dove prese la corona l'anno 1312; e di poi,
deliberato di domare i Fiorentini, ne venne, per la via di
Perugia e di Arezzo, a Firenze; e si pose con lo esercito suo al
munistero di San Salvi, propinquo alla città ad un miglio, dove
cinquanta giorni stette senza alcun frutto; tanto che, disperato
di potere perturbare lo stato di quella città ne andò a Pisa,
dove convenne con Federigo re di Sicilia di fare la impresa del
Regno; e mosso con le sue genti, quando egli sperava la vittoria,
e il re Ruberto temeva la sua rovina, trovandosi a Buonconvento,
morì.
25
Occorse,
poco tempo di poi, che Uguccione della Faggiuola diventò signore
di Pisa, e poi apresso di Lucca, dove dalla parte ghibellina fu
messo; e con il favore di queste città gravissimi danni a'
vicini faceva, dai quali i Fiorentini per liberarsi domandorono
ad il re Ruberto Piero suo fratello, che i loro eserciti
governasse. Uguccione da l'altra parte di accrescere la sua
potenzia non cessava, e per forza e per inganno aveva in Val d'Arno
e in Val di Nievole molte castella occupate, ed essendo ito allo
assedio di Montecatini, giudicorono i Fiorentini che fusse
necessario soccorrerlo, non volendo che quello incendio ardesse
tutto il paese loro.
E ragunato un grande esercito, passorono in Val di Nievole, dove
vennono con Uguccione alla giornata; e dopo una gran zuffa furono
rotti, dove morì Piero fratello del Re, il corpo del quale non
si ritrovò mai, e con quello più che dumila uomini furono
ammazzati.
Né dalla parte di Uguccione fu la vittoria allegra, perché vi
morì un suo figliuolo, con molti altri capi dello esercito.
I Fiorentini, dopo questa rotta, afforzorono le loro terre allo
intorno; e il re Ruberto mandò per loro capitano il conte d'Andria,
detto il Conte Novello, per i portamenti del quale, o vero
perché sia naturale a' Fiorentini che ogni stato rincresca e
ogni accidente gli divida, la città, non ostante la guerra aveva
con Uguccione, in amici e nimici del Re si divise.
Capi degli nimici erano messer Simone della Tosa, i Magalotti,
con certi altri, popolani, i quali erano agli altri nel governo
superiori.
Costoro operorono che si mandasse in Francia, e di poi nella
Magna, per trarne capi e genti, per potere poi, allo arrivare
loro, cacciarne il Conte governatore per il Re, ma la fortuna
fece che non poterono averne alcuno.
Non di meno non abbandonorono la impresa loro; e cercando di uno
per adorarlo, non potendo di Francia né della Magna trarlo, lo
trassono di Agobio: e avendone prima cacciato il Conte, feciono
venire Lando d'Agobio per esecutore, o vero per bargello; al
quale pienissima potestà sopra i cittadini dettono.
Costui era uomo rapace e crudele, e andando con molti armati per
la terra, la vita a questo e a quell'altro, secondo la volontà
di coloro che lo avevano eletto, toglieva; e in tanta insolenzia
venne, che batté una moneta falsa del conio fiorentino, sanza
che alcuno opporsegli ardisse: a tanta grandezza lo avieno
condotto le discordie di Firenze! Grande veramente e misera
città; la quale né la memoria delle passate divisioni, né la
paura di Uguccione, né l'autorità di uno Re avevano potuto
tenere ferma, tanto che in malissimo stato si trovava, sendo
fuora da Uguccione corsa, e dentro da Lando d'Agobio saccheggiata.
Erano gli amici del Re, e contrari a Lando e suoi seguaci,
famiglie nobili e popolani grandi, e tutti Guelfi; non di meno,
per avere gli avversarii lo stato in mano, non potevono, se non
con loro grave pericolo, scoprirsi; pure, deliberati di liberarsi
da sì disonesta tirannide, scrissono secretamente al re Ruberto
che facesse suo vicario in Firenze il conte Guido da Battifolle.
Il che subito fu da il Re ordinato; e la parte nimica, ancora che
i Signori fussero contrari ad il Re, non ardì, per le buone
qualità del Conte opporsegli; non di meno non aveva molta
autorità, perché i Signori e gonfalonieri delle Compagnie Lando
e la sua parte favorivano.
E mentre che in Firenze in questi travagli si viveva, passò la
figliuola del re Alberto della Magna, la quale andava a trovare
Carlo, figliuolo del re Ruberto, suo marito.
Costei fu onorata assai dagli amici del Re, e con lei delle
condizioni della città e della tirannide di Lando e suoi
partigiani si dolfono; tanto che prima che la partisse, mediante
i favori suoi e quelli che da il Re ne furono porti, i cittadini
si unirono, e a Lando fu tolta l'autorità, e pieno di preda e di
sangue rimandato ad Agobio. Fu, nel riformare il governo la
signoria ad il Re per tre anni prorogata; e perché di già erano
eletti sette Signori di quelli della parte di Lando, se ne
elessono sei di quelli del Re; e seguirono alcuni magistrati con
tredici Signori; di poi, pure secondo lo antico uso, a sette si
ridussono.
26
Fu tolta,
in questi tempi, a Uguccione la signoria di Lucca e di Pisa, e
Castruccio Castracani, di cittadino di Lucca, ne divenne signore,
e perché era giovane, ardito e feroce, e nelle sue imprese
fortunato, in brevissimo tempo principe de' Ghibellini di Toscana
divenne.
Per la qual cosa i Fiorentini, posate le civili discordie, per
più anni pensorono, prima, che le forze di Castruccio non
crescessero, e di poi, contro alla voglia loro cresciute, come si
avessero a difendere da quelle.
E perché i Signori con migliore consiglio deliberassero, e con
maggiore autorità esequissero, creorono dodici cittadini, i
quali Buoni uomini nominorono, senza il consiglio e consenso de'
quali i Signori alcuna cosa importante operare non potessero.
Era, in questo mezzo, il fine della signoria del re Ruberto
venuto; e la città, diventata principe di se stessa, con i
consueti rettori e magistrati si riordinò; e il timore grande
che la aveva di Castruccio la teneva unita.
Il quale dopo molte cose fatte da lui contro ai signori di
Lunigiana, assaltò Prato donde i Fiorentini, deliberati a
soccorrerlo serrorono le botteghe e popolarmente vi andorono;
dove ventimila a piè e millecinquecento a cavallo convennono.
E per torre a Castruccio forze e aggiugnerle a loro, i Signori
per loro bando significorono che qualunque rebelle guelfo venisse
al soccorso di Prato sarebbe dopo la impresa, alla patria
restituito: donde più che quattromila ribelli vi concorsono.
Questo tanto esercito, con tanta prestezza a Prato condotto,
sbigottì in modo Castruccio che, sanza volere tentare la fortuna
della zuffa, verso Lucca si ridusse.
Donde nacque nel campo de' Fiorentini, intra i nobili e il popolo,
disparere: questo voleva seguitarlo e combatterlo, per spegnerlo;
quelli volevano ritornarsene, dicendo che bastava avere messo a
pericolo Firenze per liberare Prato: il che era stato bene sendo
costretti dalla necessità; ma ora che quella era mancata, non
era, potendosi acquistare poco e perdere assai, da tentare la
fortuna.
Rimessesi il giudicio, non si potendo accordare, a' Signori,
quali trovorono ne' Consigli, intra il popolo e i Grandi, i
medesimi dispareri; la qual cosa, sentita per la città, fece
ragunare in Piazza assai gente, la quale contro ai Grandi parole
piene di minacce usava: tanto che i Grandi, per timore, cederono.
Il quale partito, per essere preso tardi, e da molti mal
volentieri, dette tempo al nimico di ritirarsi salvo a Lucca.
27
Questo
disordine in modo fece contro ai Grandi il popolo indegnare, che
i Signori la fede data agli usciti per ordine e conforti loro
osservare non vollono.
Il che presentendo gli usciti, deliberorono di anticipare, e
innanzi al campo, per entrare i primi in Firenze, alle porte
della città si presentorono; la qual cosa, perché fu preveduta,
non successe loro, ma furono da quelli che in Firenze erano
rimasi ributtati.
Ma per vedere se potevono avere d'accordo quello che per forza
non avevono potuto ottenere, mandorono otto uomini, ambasciadori,
a ricordare a' Signori la fede data e i pericoli sotto quella da
loro corsi, sperandone quel premio che era stato loro promesso.
E benché i nobili, a' quali pareva essere di questo obligo
debitori, per avere particularmente promesso quello a che i
Signori si erano obligati, si affaticassero assai in benefizio
degli usciti, non di meno, per lo sdegno aveva preso la
universalità, che non si era in quel modo che si poteva contro a
Castruccio vinta la impresa, non lo ottennero: il che seguì in
carico e disonore della città.
Per la qual cosa sendo molti de' nobili sdegnati, tentorono di
ottenere per forza quello che pregando era loro negato; e
convennono con i fuori usciti venissero armati alla città, e
loro, drento, piglierebbono l'armi in loro aiuto.
Fu la cosa avanti al giorno deputato scoperta, tale che i fuori
usciti trovorono la città in arme, e ordinata a frenare quelli
di fuora e in modo quelli di drento sbigottire, che niuno ardisse
di prendere l'armi: e così, senza fare alcuno frutto, si
spiccorono dalla impresa.
Dopo la costoro partita, si desiderava punire quelli che dello
avergli fatti venire avessero colpa; e benché ciascuno sapessi
quali erano i delinquenti, niuno di nominargli, non che di
accusargli, ardiva.
Per tanto, per intenderne il vero sanza rispetto, si provide che
ne' Consigli ciascuno scrivesse i delinquenti, e gli scritti al
capitano secretamente si presentassero: donde rimasono accusati
messer Amerigo Donati, messer Teghiaio Frescobaldi e messer
Lotteringo Gherardini; i quali, avendo il giudice più favorevole
che forse i delitti loro non meritavano, furono in danari
condennati.
28
I tumulti
che in Firenze nacquono per la venuta de' ribelli alle porte
mostrorono come alle Compagnie del popolo uno capo solo non
bastava; e però vollono che per lo avvenire ciascuna tre o
quattro capi avesse; e ad ogni gonfaloniere duoi o tre, i quali
chiamorono pennonieri, aggiunsono, acciò che, nelle necessità
dove tutta la compagnia non avesse a concorrere, potesse parte di
quella sotto uno capo adoperarsi.
E come avviene in tutte le republiche, che sempre dopo uno
accidente alcune leggi vecchie si annullano e alcune altre se ne
rinnuovano, dove prima la Signoria si faceva di tempo in tempo, i
Signori e i Collegi che allora erano, perché avevano assai
potenzia, si feciono dare autorità di fare i Signori che
dovevano per i futuri quaranta mesi sedere; i nomi de' quali
missono in una borsa, e ogni duoi mesi gli traevano.
Ma prima che de' mesi quaranta il termine venisse, perché molti
cittadini di non essere stati imborsati dubitavano, si feciono
nuove imborsazioni.
Da questo principio nacque lo ordine dello imborsare per più
tempo tutti i magistrati, così d'entro come di fuora; dove prima
nel fine de' magistrati, per i Consigli i successori si
eleggevano; le quali imborsazioni si chiamorono di poi squittini.
E perché ogni tre, o al più lungo ogni cinque anni si facevano,
pareva che togliessino alla città noia, e la cagione de' tumulti
levassino i quali alla creazione di ogni magistrato, per gli
assai competitori, nascevano; e non sapiendo altrimenti
correggergli, presono questa via, e non intesono i difetti che
sotto questa poca commodità si nascondevano.
29
Era lo
anno 1325, e Castruccio, avendo occupata Pistoia, era divenuto in
modo potente che i Fiorentini, temendo la sua grandezza,
deliberorono, avanti che gli avessi preso bene il dominio di
quella, di assaltarlo, e trarla di sotto la sua ubbidienza.
E fra di loro cittadini e di amici ragunorono ventimila pedoni e
tremila cavalieri, e con questo esercito si accamporono ad
Altopascio, per occupare quello e per quella via impedirgli il
potere soccorrere Pistoia. Successe a' Fiorentini prendere quello
luogo; di poi ne andorono verso Lucca guastando il paese; ma per
la poca prudenza e meno fede del capitano, non si fece molti
progressi.
Era loro capitano messer Ramondo di Cardona: costui, veduto i
Fiorentini essere stati per lo adietro della loro libertà
liberali, e avere quella ora al Re, ora ai Legati, ora ad altri
di minore qualità uomini concessa, pensava, se conducessi quelli
in qualche necessità, che facilmente potrebbe accadere che lo
facessino principe.
Né mancava di ricordarlo spesso; e chiedeva di avere quella
autorità nella città, che gli avevano negli eserciti data,
altrimenti mostrava di non potere avere quella ubbidienza che ad
uno capitano era necessaria; e perché i Fiorentini non gliene
consentivono, egli andava perdendo tempo, e Castruccio lo
acquistava.
Perché gli vennono quelli aiuti che da' Visconti e dagli altri
tiranni di Lombardia gli erano stati promessi, ed essendo fatto
forte di genti, messer Ramondo, come prima per la poca fede non
seppe vincere, così di poi per la poca prudenza non si seppe
salvare; ma procedendo con il suo esercito lentamente, fu da
Castruccio, propinquo ad Altopascio, assaltato, e dopo una gran
zuffa rotto: dove restarono presi e morti molti cittadini, e con
loro insieme messer Ramondo, il quale della sua poca fede e de'
suoi cattivi consigli dalla fortuna quella punizione ebbe, che
gli aveva dai Fiorentini meritato.
I danni che Castruccio fece, dopo la vittoria, a' Fiorentini, di
prede, prigioni, rovine e arsioni, non si potrebbono narrare;
perché, senza avere alcuna gente allo incontro, più mesi dove e'
volle cavalcò e corse; e a' Fiorentini, dopo tanta rotta, fu
assai il salvare la città.
30
Né però
si invilirono in tanto che non facessero grandi provedimenti a
danari, soldassero gente e mandassero ai loro amici per aiuto.
Non di meno a frenare tanto nimico niuno provedimento bastava; di
modo che furono forzati eleggere per loro signore Carlo duca di
Calavria e figliuolo del re Ruberto, se vollono che venisse alla
difesa loro; perché quelli, sendo consueti a signoreggiare
Firenze, volevono più tosto la ubbidienza che l'amicizia sua.
Ma per essere Carlo implicato nelle guerre di Sicilia, e per ciò
non potendo venire a prendere la signoria, vi mandò Gualtieri di
nazione franzese e duca di Atene. Costui, come vicario del
signore, prese la possessione della città, e ordinava i
magistrati secondo lo arbitrio suo.
Furono non di meno i portamenti suoi modesti, e in modo contrari
alla natura sua, che ciascuno lo amava.
Carlo composte che furono le guerre di Sicilia, con mille
cavalieri ne venne a Firenze, dove fece la sua entrata di luglio
l'anno 1326; la cui venuta fece che Castruccio non poteva
liberamente il paese fiorentino saccheggiare.
Non di meno quella reputazione che si acquistò di fuora si
perdé dentro, e quelli danni che dai nimici non furono fatti,
dagli amici si sopportorono: perché i Signori senza il consenso
del Duca alcuna cosa non operavano, e in termine di uno anno
trasse della città quattrocentomila fiorini, non ostante che,
per le convenzioni fatte seco, non si avesse a passare
dugentomila: tanti furono i carichi con i quali ogni giorno o
egli o il padre la città aggravavano.
A questi danni si aggiunsono ancora nuovi sospetti e nuovi nimici;
perché i Ghibellini di Lombardia in modo per la venuta di Carlo
in Toscana insospettirono, che Galeazzo Visconti e gli altri
tiranni lombardi, con danari e promesse, feciono passare in
Italia Lodovico di Baviera, stato contro alla voglia del Papa
eletto imperadore.
Venne costui in Lombardia, e di quivi in Toscana; e con lo aiuto
di Castruccio si insignorì di Pisa; dove, rinfrescato di danari,
se ne andò verso Roma; il che fece che Carlo si partì di
Firenze, temendo del Regno, e per suo vicario lasciò messer
Filippo da Saggineto.
Castruccio, dopo la partita dello Imperadore, si insignorì di
Pisa; e i Fiorentini per trattato gli tolsono Pistoia; alla quale
Castruccio andò a campo; dove con tanta virtù e ostinazione
stette, che, ancora che i Fiorentini facessero più volte prova
di soccorrerla, e ora il suo esercito ora il suo paese
assalissero, mai non posserono, né con forza né con industria,
dalla impresa rimuoverlo: tanta sete aveva di gastigare i
Pistolesi e i Fiorentini sgarare! di modo che i Pistolesi furono
a riceverlo per signore constretti.
La qual cosa, ancora che seguisse con tanta sua gloria, seguì
anche con tanto suo disagio che, tornato in Lucca, si morì.
E perché gli è rade volte che la fortuna un bene o un male con
un altro bene o con un altro male non accompagni, morì ancora, a
Napoli, Carlo duca di Calavria e signore di Firenze, acciò che i
Fiorentini in poco di tempo, fuori d'ogni loro opinione, dalla
signoria dell'uno e timore dell'altro si liberassino.
I quali, rimasi liberi, riformorono la città, e annullorono
tutto l'ordine de' Consigli vecchi, e ne creorono duoi, l'uno di
trecento cittadini popolani, l'altro di ducento cinquanta grandi
e popolani; il primo dei quali Consiglio di Popolo, l'altro di
Comune chiamorono.
31
Lo
Imperadore, arrivato a Roma, creò uno antipapa, e ordinò molte
cose contro alla Chiesa, molte altre senza effetto ne tentò; in
modo che alla fine se ne partì con vergogna, e ne venne a Pisa;
dove, o per sdegno, o per non essere pagati, circa ottocento
cavagli tedeschi da lui si ribellorono, e a Montechiaro, sopra il
Ceruglio, si afforzorono.
Costoro, come lo Imperadore fu partito da Pisa per andare in
Lombardia, occuporono Lucca, e ne cacciorono Francesco Castracani,
lasciatovi dallo Imperadore, e pensando di trarre di quella preda
qualche utilità, quella città ai Fiorentini per ottanta mila
fiorini offersono; il che fu, per consiglio di messer Simone
della Tosa, rifiutato.
Il quale partito sarebbe stato alla città nostra utilissimo, se
i Fiorentini sempre in quella volontà si mantenevano; ma perché
poco di poi mutorono animo fu dannosissimo; perché, se allora
per sì poco prezzo avere pacificamente la potevono e non la
vollono, di poi, quando la vollono, non la ebbono, ancora che
molto maggiore prezzo la comperassero; il che fu cagione che più
volte Firenze il suo governo, con suo grandissimo danno, variasse.
Lucca adunque, rifiutata dai Fiorentini, fu da messer Gherardino
Spinoli genovese per fiorini trenta mila comperata.
E perché gli uomini sono più lenti a pigliare quello che
possono avere, che non sono a desiderare quello a che non possono
aggiugnere, come prima si scoperse la compera da messer
Gherardino fatta, e per quanto poco pregio la aveva avuta, si
accese il popolo di Firenze di un estremo desiderio di averla,
riprendendo se medesimo e chi ne lo aveva sconfortato; e per
averla per forza, poi che comperare non l'avevano voluta, mandò
le genti sue a predare e scorrere sopra i Lucchesi.
Erasi partito, in questo mezzo, lo imperadore di Italia; e lo
Antipapa, per ordine de' Pisani, ne era andato prigione in
Francia; e i Fiorentini, dalla morte di Castruccio, che seguì
nel 1328, infino al 1340, stettono dentro quieti, e solo alle
cose dello stato loro di fuora attesono, e in Lombardia, per la
venuta del re Giovanni di Buemia, e in Toscana, per conto di
Lucca, di molte guerre feciono.
Ornorono ancora la città di nuovi edifici; perché la torre di
Santa Reparata, secondo il consiglio di Giotto dipintore in
quelli tempi famosissimo, edificorono; e perché, nel 1333,
alzorono, per uno diluvio, le acque d'Arno in alcuno luogo in
Firenze più che dodici braccia, donde parte de' ponti e molti
edifici rovinorono, con grande sollecitudine e spendio le cose
rovinate instaurorono.
32
Ma venuto
l'anno 1340, nuove cagioni di alterazioni nacquono.
Avevano i cittadini potenti due vie ad accrescere o mantenere la
potenza loro: l'una era ristringere in modo le imborsazioni de'
magistrati, che sempre o in loro o in amici loro pervenissero, l'altra
lo essere capi della elezione de' rettori, per averli di poi ne'
loro giudicii favorevoli.
E tanto questa seconda parte stimavano, che, non bastando loro i
rettori ordinari, uno terzo alcuna volta ne conducevano: donde
che, in questi tempi, avevono condotto estraordinariamente, sotto
titolo di Capitano di guardia, messer Iacopo Gabrielli d'Agobio,
e datogli sopra i cittadini ogni autorità.
Costui, ogni giorno, a contemplazione di chi governava, assai
ingiurie faceva; e intra gli ingiuriati messer Piero de' Bardi e
messer Bardo Frescobaldi furono. Costoro, sendo nobili e
naturalmente superbi, non potevono sopportare che uno forestiere,
a torto e a contemplazione di pochi potenti, gli avesse offesi; e
per vendicarsi, contro a lui e chi governava congiurorono: nella
quale congiura molte famiglie nobili con alcune di popolo furono,
ai quali la tirannide di chi governava dispiaceva. L'ordine dato
infra loro era che ciascuno ragunasse assai gente armata in casa,
e la mattina dopo il giorno solenne di Tutti i Santi, quando
ciascuno si truova per i templi a pregare per i suoi morti,
pigliare le armi, ammazzare il Capitano e i primi di quelli che
reggevano, e di poi, con nuovi Signori e con nuovo ordine, lo
stato riformare.
Ma perché i partiti pericolosi quanto più si considerano tanto
peggio volentieri si pigliano, interviene sempre che le congiure
che danno spazio di tempo alla esecuzione si scuoprono.
Sendo intra i congiurati messer Andrea de' Bardi, poté più in
lui, nel ripensare la cosa, la paura della pena che la speranza
della vendetta, e scoperse il tutto a Iacopo Alberti suo cognato;
il che Iacopo ai Priori, e i Priori a quelli del reggimento
significorono.
E perché la cosa era presso al pericolo, sendo il giorno di
Tutti i Santi propinquo, molti cittadini in Palagio convennono, e
giudicando che fusse pericolo nel differire, volevono che i
Signori sonassero la campana, e il popolo alle armi convocassero.
Era gonfalonieri Taldo Valori, e Francesco Salviati uno de'
Signori: a costoro, per essere parenti de' Bardi, non piaceva il
sonare, allegando non essere bene per ogni leggier cosa fare
armare il popolo, perché la autorità data alla moltitudine non
temperata da alcuno freno non fece mai bene; e che gli scandoli
è muovergli facile, ma frenargli difficile; e però essere
migliore partito intendere prima la verità della cosa, e
civilmente punirla, che volere, con la rovina di Firenze,
tumultuariamente, sopra una semplice relazione, correggerla.
Le quali parole non furono in alcuna parte udite; ma con modi
ingiuriosi e parole villane furono i Signori a sonare necessitati:
al quale suono tutto il popolo alla Piazza armato corse.
Dall'altra parte, i Bardi e Frescobaldi, veggendosi scoperti, per
vincere con gloria o morire sanza vergogna, presono le armi,
sperando potere la parte della città di là dal fiume, dove
avevano le case loro, difendere; e si feciono forti ai ponti,
sperando nel soccorso che dai nobili del contado e altri loro
amici aspettavano.
Il quale disegno fu loro guasto dai popolani i quali quella parte
della città con loro abitavano, i quali presono le armi in
favore de' Signori: di modo che, trovandosi tramezzati,
abbandonorono i ponti e si ridussono nella via dove i Bardi
abitavano, come più forte che alcuna altra, e quella
virtuosamente difendevano.
Messer Iacopo d'Agobio, sappiendo come contro a lui era tutta
questa congiura, pauroso della morte, tutto stupido e spaventato,
propinquo al palagio de' Signori, in mezzo di sue genti armate si
posava; ma negli altri rettori, dove era meno colpa, era più
animo; e massime nel podestà, che messer Maffeo da Carradi si
chiamava.
Costui si presentò dove si combatteva; e senza avere paura di
alcuna cosa, passato il ponte Rubaconte, intra le spade de' Bardi
si misse, e fece segno di volere parlare loro: donde che la
reverenzia dell'uomo, i suoi costumi e le altre sue grandi
qualità feciono ad un tratto fermare le armi, e quietamente
ascoltarlo.
Costui, con parole modeste e gravi, biasimò la congiura loro;
mostrò il pericolo nel quale si trovavano, se non cedevono a
questo popolare impeto; dette loro speranza che sarebbono di poi
uditi e con misericordia giudicati; promisse di essere operatore
che alli ragionevoli sdegni loro si arebbe compassione.
Tornato di poi a' Signori, persuase loro che non volessero
vincere con il sangue de' suoi cittadini, e che non gli volessero,
non uditi, giudicare; e tanto operò, che, di consenso de'
Signori, i Bardi e i Frescobaldi, con i loro amici, abbandonarono
la città, e senza essere impediti alle castella loro si
ritornarono.
Partitisi costoro e disarmatosi il popolo, i Signori solo contro
a quelli che avevano della famiglia de' Bardi e Frescobaldi prese
le armi procederono; e per spogliarli di potenza, comperorono dai
Bardi il castello di Mangona e di Vernia, e per legge providono
che alcuno cittadino non potesse possedere castella propinque a
Firenze a venti miglia.
Pochi mesi di poi fu decapitato Stiatta Frescobaldi, e molti
altri di quella famiglia fatti ribelli. Non bastò a quelli che
governavano avere i Frescobaldi e i Bardi superati e domi; ma
come fanno quasi sempre gli uomini, che quanto più autorità
hanno peggio la usano e più insolenti diventano, dove prima era
uno capitano di guardia che affliggeva Firenze, ne elessono uno
ancora in contado, e con grandissima autorità, acciò che gli
uomini a loro sospetti non potessero né in Firenze né di fuora
abitare; e in modo si concitorono contro tutti i nobili, ch'eglino
erano apparecchiati a vendere la città e loro, per vendicarsi, e
aspettando la occasione, la venne bene, e loro la usorono meglio.
33
Era, per
i molti travagli i quali erano stati in Toscana e in Lombardia,
pervenuta la città di Lucca sotto la signoria di Mastino della
Scala, signore di Verona; il quale, ancora che per obligo la
avesse a consegnare ai Fiorentini, non la aveva consegnata,
perché, essendo signore di Parma, giudicava poterla tenere, e
della fede data non si curava.
Di che i Fiorentini per vendicarsi, si congiunsono con i
Viniziani, e gli feciono tanta guerra che fu per perderne tutto
lo stato suo.
Non di meno non ne risultò loro altra commodità che un poco di
sodisfazione d'animo d'avere battuto Mastino, perché i Viniziani,
come fanno tutti quelli che con i meno potenti si collegono, poi
che ebbono guadagnato Trevigi e Vicenza, senza avere a'
Fiorentini rispetto, si accordorono.
Ma avendo poco di poi i Visconti, signori di Milano, tolto Parma
a Mastino, e giudicando egli per questo non potere più tenere
Lucca, deliberò di venderla.
I competitori erano i Fiorentini e i Pisani; e nello strignere le
pratiche, i Pisani vedevano che i Fiorentini, come più ricchi,
erano per ottenerla, e per ciò si volsono alla forza, e con lo
aiuto de' Visconti vi andorono a campo.
I Fiorentini per questo non si ritirorono indietro dalla compera,
ma fermorono con Mastino i patti, pagorono parte de' denari e d'un'altra
parte dierono statichi, e a prendere la possessione Naddo
Rucellai, Giovanni di Bernardino de' Medici e Rosso di Ricciardo
de' Ricci vi mandorono, i quali passorono in Lucca per forza, e
dalle genti di Mastino fu quella città consegnata loro.
I Pisani non di meno seguitorono la loro impresa, e con ogni
industria di averla per forza cercavano, e i Fiorentini dallo
assedio liberare la volevono; e dopo una lunga guerra ne furono i
Fiorentini, con perdita di denari e acquisto di vergogna,
cacciati, e i Pisani ne diventorono signori.
La perdita di questa città, come in simili casi avviene sempre,
fece il popolo di Firenze contro a quelli che governavano
sdegnare; e in tutti i luoghi e per tutte le piazze publicamente
gli infamavano accusando la avarizia e i cattivi consigli loro.
Erasi, nel principio di questa guerra, data autorità a venti
cittadini di amministrarla, i quali messer Malatesta da Rimini
per capitano della impresa eletto avevano.
Costui con poco animo e meno prudenza la aveva governata; e
perché eglino avevano mandato a Ruberto re di Napoli per aiuti,
quel re aveva mandato loro Gualtieri duca di Atene, il quale,
come vollono i cieli che al male futuro le cose preparavano,
arrivò in Firenze in quel tempo appunto che la impresa di Lucca
era al tutto perduta.
Onde che quelli venti, veggendo sdegnato il popolo, pensorono,
con eleggere nuovo capitano, quello di nuova speranza riempiere,
e con tale elezione, o frenare, o torre le cagioni del
calunniargli; e perché ancora avesse cagione di temere e il duca
di Atene gli potesse con più autorità difendere, prima per
conservadore, di poi per capitano delle loro genti d'arme lo
elessono.
I Grandi, i quali, per le cagioni dette di sopra, vivevono mal
contenti, e avendo molti di loro conoscenza con Gualtieri, quando
altre volte in nome di Carlo duca di Calavria aveva governato
Firenze, pensorono che fusse venuto tempo da potere, con la
rovina della città, spegnere lo incendio loro; giudicando non
avere altro modo a domare quel popolo che gli aveva afflitti, che
ridursi sotto un principe, il quale, conosciuta la virtù dell'una
parte e la insolenzia dell'altra, frenasse l'una, e l'altra
remunerasse: a che aggiugnevono la speranza del bene che ne
porgevono i meriti loro, quando per loro opera egli acquistasse
il principato.
Furono per tanto in secreto più volte seco, e lo persuasono a
pigliare la signoria del tutto, offerendogli quelli aiuti
potevono maggiori.
Alla autorità e conforti di costoro si aggiunse quella di alcune
famiglie popolane; le quali furono Peruzzi, Acciaiuoli, Antellesi
e Buonaccorsi; i quali, gravati di debiti, non potendo del loro,
desideravano di quello d'altri ai loro debiti sodisfare, e con la
servitù della patria dalla servitù de' loro creditori liberarsi.
Queste persuasioni accesono lo ambizioso animo del Duca di
maggiore desiderio del dominare; e per darsi riputazione di
severo e di giusto, e per questa via accrescersi grazia nella
plebe, quelli che avevano amministrata la guerra di Lucca
perseguitava, e a messer Giovanni de' Medici, Naddo Rucellai e
Guglielmo Altoviti tolse la vita, e molti in esilio, e molti in
denari ne condannò.
34
Queste
esecuzioni assai i mediocri cittadini sbigottirono, solo ai
Grandi e alla plebe sodisfacevano: questa perché sua natura è
rallegrarsi del male, quelli altri per vedersi vendicare di tante
ingiurie dai popolani ricevute.
E quando e' passava per le strade, con voce alta la franchezza
del suo animo era lodata, e ciascuno publicamente a trovare le
fraude de' cittadini e gastigarle lo confortava.
Era l'uffizio de' venti venuto meno, e la reputazione del Duca
grande, e il timore grandissimo; tale che ciascuno, per
mostrarsegli amico, la sua insegna sopra la sua casa faceva
dipignere: né gli mancava ad essere principe altro che il titolo.
E parendogli potere tentare ogni cosa securamente, fece intendere
a' Signori come e' giudicava, per il bene della città,
necessario gli fusse concessa la signoria libera; e perciò
desiderava, poi che tutta la città vi consentiva, che loro
ancora vi consentissero.
I Signori, avvenga che molto innanzi avessero la rovina della
patria loro preveduto, tutti a questa domanda si perturborono, e
con tutto che ei conoscessero il loro pericolo, non di meno per
non mancare alla patria, animosamente gliene negorono.
Aveva il Duca, per dare di sé maggior segno di religione e di
umanità, eletto per sua abitazione il convento de' Fra' Minori
di Santa Croce; e desideroso di dare effetto al maligno suo
pensiero, fece per bando publicare che tutto il popolo, la
mattina seguente, fusse alla piazza di Santa Croce, davanti a lui.
Questo bando sbigottì molto più i Signori, che prima non
avevono fatto le parole; e con quelli cittadini i quali della
patria e della libertà giudicavano amatori si ristrinsono; né
pensorono, cognosciute le forze del Duca, di potervi fare altro
rimedio che pregarlo, e vedere, dove le forze non erano
suffizienti, se i preghi o a rimuoverlo dalla impresa o a fare la
sua signoria meno acerba bastavano.
Andorono per tanto parte de' Signori a trovarlo, e uno di loro
gli parlò in questa sentenza: - Noi vegniamo, o Signore, a voi,
mossi prima da le vostre domande, di poi dai comandamenti che voi
avete fatti per ragunare il popolo; perché ci pare essere certi
che voi vogliate estraordinariamente ottenere quello che per lo
ordinario noi non vi abbiamo acconsentito.
Né la nostra intenzione è con alcuna forza opporci ai disegni
vostri; ma solo per dimostrarvi quanto sia per esservi grave il
peso che voi vi arrecate adosso e pericoloso il partito che voi
pigliate; acciò che sempre vi possiate ricordare de' consigli
nostri, e di quelli di coloro i quali altrimenti, non per vostra
utilità, ma per sfogare la rabbia loro, vi consigliono.
Voi cercate fare serva una città la quale è sempre vivuta
libera; perché la signoria che noi concedemmo già ai reali di
Napoli fu compagnia e non servitù: avete voi considerato quanto,
in una città simile a questa, importi e quanto sia gagliardo il
nome della libertà, il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno
non consuma e merito alcuno non contrappesa? Pensate, Signore,
quante forze sieno necessarie a tenere serva una tanta città:
quelle che, forestiere, voi potete sempre tenere, non bastano; di
quelle di dentro voi non vi potete fidare, perché quelli che vi
sono ora amici e che a pigliare questo partito vi confortano,
come eglino aranno battuti, con la autorità vostra, i nimici
loro, cercheranno come e' possino spegnere voi e fare principi
loro; la plebe, in la quale voi confidate, per ogni accidente
benché minimo si rivolge: in modo che, in poco tempo, voi potete
temere di avere tutta questa città nimica; il che fia cagione
della rovina sua e vostra.
Né potrete a questo male trovare rimedio; perché quelli signori
possono fare la loro signoria sicura che hanno pochi nimici, i
quali o con la morte o con lo esilio e facile spegnere; ma negli
universali odi non si trova mai sicurtà alcuna, perché tu non
sai donde ha a nascere il male, e chi teme di ogni uomo non si
può assicurare di persona, e se pure tenti di farlo, ti aggravi
ne' pericoli, perché quelli che rimangono si accendono più
nello odio e sono più parati alla vendetta.
Che il tempo a consumare i desideri della libertà non basti è
certissimo: perché s'intende spesso quella essere in una città
da coloro riassunta che mai la gustorono, ma solo per la memoria
che ne avevano lasciata i padri loro la amavano, e perciò,
quella ricuperata, con ogni ostinazione e pericolo conservano; e
quando mai i padri non la avessero ricordata, i palagi publici, i
luoghi de' magistrati, le insegne de' liberi ordini la ricordano:
le quali cose conviene che sieno con massimo desiderio dai
cittadini cognosciute.
Quali opere volete voi che sieno le vostre che contrappesino alla
dolcezza del vivere libero, o che facciano mancare gli uomini del
desiderio delle presenti condizioni? Non se voi aggiugnessi a
questo imperio tutta la Toscana, e se ogni giorno tornassi in
questa città trionfante de' nimici nostri: perché tutta quella
gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i cittadini non
acquisterebbono sudditi, ma conservi, per i quali si vederebbono
nella servitù raggravare.
E quando i costumi vostri fussero santi, i modi benigni, i
giudizi retti, a farvi amare non basterebbono; e se voi credessi
che bastassero v'inganneresti, perché ad uno consueto a vivere
sciolto ogni catena pesa e ogni legame lo strigne: ancora che
trovare uno stato violento con un principe buono sia impossibile,
perché di necessità conviene o che diventino simili, o che
presto l'uno per l'altro rovini.
Voi avete adunque a credere o di avere a tenere con massima
violenza questa città (alla qual cosa le cittadelle, le guardie,
gli amici di fuora molte volte non bastano), o di essere contento
a quella autorità che noi vi abbiamo data.
A che noi vi confortiamo, ricordandovi che quello dominio è solo
durabile che è voluntario: né vogliate, accecato da un poco di
ambizione, condurvi in luogo dove non potendo stare, né più
alto salire, siate, con massimo danno vostro e nostro, di cadere
necessitato.
35
Non
mossono in alcuna parte queste parole lo indurato animo del Duca;
e disse non essere sua intenzione di torre la libertà a quella
città, ma rendergliene: perché solo le città disunite erano
serve, e le unite libere; e se Firenze, per suo ordine, di sette,
ambizione e nimicizie si privasse, se le renderebbe, non torrebbe
la libertà; e come a prendere questo carico non la ambizione sua,
ma i prieghi di molti cittadini lo conducevano; per ciò
farebbono eglino bene a contentarsi di quello che gli altri si
contentavano; e quanto a quelli pericoli in ne' quali per questo
poteva incorrere, non gli stimava, perché gli era ufizio di uomo
non buono per timore del male lasciare il bene, e di pusillanime
per un fine dubio non seguire una gloriosa impresa; e che credeva
portarsi in modo che in breve tempo avere di lui confidato poco e
temuto troppo cognoscerebbono.
Convennono adunque i Signori, vedendo di non potere fare altro
bene, che la mattina seguente il popolo si ragunasse sopra la
piazza loro; con la autorità del quale si desse per uno anno al
Duca la signoria, con quelle condizioni che già a Carlo duca di
Calavria si era data.
Era l'ottavo giorno di settembre e lo anno 1342, quando il Duca,
accompagnato da messer Giovanni della Tosa e tutti i suoi
consorti e da molti altri cittadini, venne in Piazza; e insieme
con la Signoria salì sopra la ringhiera, che così chiamano i
Fiorentini quelli gradi che sono a piè del palagio de' Signori;
dove si lessono al popolo le convenzioni fatte intra la Signoria
e lui.
E quando si venne, leggendo, a quella parte dove per uno anno se
gli dava la signoria, si gridò per il popolo: A VITA.
E levandosi messer Francesco Rustichelli, uno de' Signori, per
parlare e mitigare il tumulto, furono con le grida le parole sue
interrotte; in modo che, con il consenso del popolo, non per uno
anno, ma in perpetuo fu eletto signore, e preso e portato intra
la moltitudine, gridando per la Piazza il nome suo.
È consuetudine che quello che è preposto alla guardia del
Palagio stia, in assenzia de' Signori, serrato dentro; al quale
uffizio era allora deputato Rinieri di Giotto: costui, corrotto
dagli amici del Duca, sanza aspettare alcuna forza, lo messe
dentro, e i Signori, sbigottiti e disonorati, se ne tornorono
alle case loro, e il Palagio fu dalla famiglia del Duca
saccheggiato, il gonfalone del popolo stracciato, e le sue
insegne sopra il Palagio poste.
Il che seguiva con dolore e noia inestimabile degli uomini buoni,
e con piacere grande di quelli che, o per ignoranza o per
malignità, vi consentivano.
36
Il Duca,
acquistato che ebbe la signoria, per torre la autorità a quelli
che solevono della libertà essere defensori, proibì ai Signori
ragunarsi in Palagio, e consegnò loro una casa privata; tolse le
insegne ai gonfalonieri delle Compagnie del popolo; levò gli
ordini della giustizia contro ai Grandi; liberò i prigioni delle
carcere; fece i Bardi e i Frescobaldi dallo esilio ritornare;
vietò il portare arme a ciascuno, e per potere meglio difendersi
da quelli di dentro, si fece amico a quelli di fuora.
Benificò per tanto assai gli Aretini e tutti gli altri
sottoposti ai Fiorentini; fece pace con i Pisani, ancora che
fusse fatto principe perché facesse loro guerra; tolse gli
assegnamenti a quegli mercatanti che nella guerra di Lucca
avevano prestato alla republica denari.
Accrebbe le gabelle vecchie e creò delle nuove; tolse a' Signori
ogni autorità; e i suoi rettori erano messer Baglione da Perugia
e messer Guglielmo da Scesi, con i quali, e con messer
Cerrettieri Bisdomini, si consigliava.
Le taglie che poneva a' cittadini erano gravi, e i giudicii suoi
ingiusti; e quella severità e umanità che gli aveva finta, in
superbia e crudeltà si era convertita: donde molti cittadini
grandi e popolani nobili, o con danari o morti, o con nuovi modi
tormentati erano.
E per non si governare meglio fuora che dentro, ordinò sei
rettori per il contado, i quali battevano e spogliavano i
contadini.
Aveva i Grandi a sospetto, ancora che da loro fusse stato
benificato e che a molti di quelli avesse la patria renduta:
perché non poteva credere che i generosi animi, quali sogliono
essere nella nobilità, potessero sotto la sua ubbidienza
contentarsi; e per ciò si volse a benificare la plebe, pensando,
con i favori di quella e con le armi forestiere, potere la
tirannide conservare.
Venuto per tanto il mese di maggio, nel qual tempo i popoli
sogliono festeggiare, fece fare alla plebe e popolo minuto più
compagnie, alle quali, onorate di splendidi tituli, dette insegne
e danari; donde una parte di loro andava per la città
festeggiando, e l'altra con grandissima pompa i festeggianti
riceveva.
Come la fama si sparse della nuova signoria di costui, molti
vennono del sangue franzese a trovarlo; ed egli a tutti, come a
uomini più fidati, dava condizione; in modo che Firenze in poco
tempo divenne, non solamente suddita ai Franzesi, ma a' costumi e
agli abiti loro; perché gli uomini e le donne, sanza avere
riguardo al vivere civile, o alcuna vergogna, gli imitavano.
Ma sopra ogni cosa quello che dispiaceva era la violenza che egli
e i suoi, sanza alcuno rispetto, alle donne facevano. Vivevano
adunque i cittadini pieni di indegnazione, veggendo la maiestà
dello stato loro rovinata, gli ordini guasti, le leggi annullate,
ogni onesto vivere corrotto, ogni civile modestia spenta: perché
coloro che erano consueti a non vedere alcuna regale pompa non
potevono sanza dolore quello di armati satelliti a piè e a
cavallo circundato riscontrare.
Per che, veggendo più da presso la loro vergogna, erano colui
che massimamente odiavano di onorare necessitati: a che si
aggiugneva il timore, veggendo le spesse morti e le continue
taglie con le quali impoveriva e consumava la città.
I quali sdegni e paure erano dal Duca cognosciute e temute; non
di meno voleva mostrare a ciascuno di credere di essere amato:
onde occorse che, avendogli rivelato Matteo di Morozzo, o per
gratificarsi quello o per liberare sé dal pericolo, come la
famiglia de' Medici con alcuni altri aveva contro di lui
congiurato, il Duca, non solamente non ricercò la cosa, ma fece
il rivelatore miseramente morire: per il quale partito tolse
animo a quelli che volessero della sua salute avvertirlo, e lo
dette a quelli che cercassero la sua rovina.
Fece ancora tagliare la lingua con tanta crudeltà a Bettone Cini
che se ne morì, per aver biasimate le taglie che a' cittadini si
ponevano: la qual cosa accrebbe a' cittadini lo sdegno e al Duca
l'odio; perché quella città che a fare e parlare d'ogni cosa e
con ogni licenza era consueta, che gli fussono legate le mani e
serrata la bocca sopportare non poteva.
Crebbono adunque questi sdegni in tanto e questi odi, che, non
che i Fiorentini, i quali la libertà mantenere non sanno e la
servitù patire non possono, ma qualunque servile popolo arebbono
alla recuperazione della libertà infiammato.
Onde che molti cittadini, e di ogni qualità, di perdere la vita
o di riavere la loro libertà deliberorono; e in tre parti, di
tre sorte di cittadini, tre congiure si feciono: Grandi, popolani
e artefici; mossi, oltre alle cause universali, da parere ai
Grandi non avere riavuto lo stato, a' popolani averlo perduto, e
agli artefici de' loro guadagni mancare.
Era arcivescovo di Firenze messer Agnolo Acciaiuoli, il quale con
le prediche sue aveva già le opere del Duca magnificato e
fattogli appresso al popolo grandi favori: ma poi che lo vide
signore, e i suoi tirannici modi cognobbe, gli parve avere
ingannato la patria sua; e per emendare il fallo commesso, pensò
non avere altro rimedio se non che quella mano che aveva fatta la
ferita la sanasse; e della prima e più forte congiura si fece
capo; nella quale erano i Bardi, Rossi, Frescobaldi, Scali,
Altoviti, Magalotti, Strozzi e Mancini.
Dell'una delle due altre erano principi messer Manno e Corso
Donati; e con questi i Pazzi, Cavicciuli, Cerchi e Albizzi.
Della terza era il primo Antonio Adimari; e con lui Medici,
Bordoni, Rucellai e Aldobrandini.
Pensorono costoro di ammazzarlo in casa gli Albizzi, dove andasse
il giorno di Santo Giovanni a vedere correre i cavagli credevano;
ma non vi essendo andato, non riuscì loro. Pensorono di
assaltarlo andando per la città a spasso; ma vedevono il modo
difficile, perché bene accompagnato e armato andava, e sempre
variava le andate, in modo che non si poteva in alcuno luogo
certo aspettarlo.
Ragionorono di ucciderlo ne' Consigli: dove pareva loro rimanere,
ancora che fusse morto, a discrezione delle forze sue.
Mentre che intra i congiurati queste cose si praticavano, Antonio
Adimari con alcuni suoi amici sanesi, per avere da loro gente, si
scoperse, manifestando a quelli parte de' congiurati, affermando
tutta la città essere a liberarsi disposta: onde uno di quelli
comunicò la cosa a messer Francesco Brunelleschi, non per
scoprirla, ma per credere che ancora egli fussi de' congiurati.
Messer Francesco, o per paura di sé, o per odio aveva contro ad
altri, rivelò il tutto al Duca; onde che Pagolo del Mazzeca e
Simone da Monterappoli furono presi; i quali, rivelando la
qualità e quantità de' congiurati, sbigottirono il Duca; e fu
consigliato più tosto gli richiedesse che pigliasse, perché, se
se ne fuggivono, se ne poteva sanza scandolo, con lo esilio,
assicurare.
Fece per tanto il Duca richiedere Antonio Adimari; il quale,
confidandosi ne' compagni, subito comparse.
Fu sostenuto costui: ed era da messer Francesco Brunelleschi e
messer Uguccione Buondelmonti consigliato corresse armato la
terra, e i presi facesse morire; ma a lui non parve, parendogli
avere a tanti nimici poche forze; e però prese un altro partito,
per il quale, quando gli fusse successo, si assicurava de' nimici
e alle forze provedeva.
Era il Duca consueto richiedere i cittadini, che ne' casi
occorrenti lo consigliassero: avendo per tanto mandato fuora a
provedere di gente, fece una listra di trecento cittadini, e gli
fece da' suoi sergenti, sotto colore di volere consigliarsi con
loro, richiedere: e poi che fussero adunati, o con la morte o con
le carcere spegnerli disegnava.
La cattura di Antonio Adimari e il mandare per le genti, il che
non si potette fare secreto, aveva i cittadini, e massime i
colpevoli, sbigottito; onde che da' più arditi fu negato il
volere ubbidire.
E perché ciascuno aveva letta la listra, trovavano l'uno l'altro,
e s'inanimivano a prendere le armi, e volere più tosto morire
come uomini, con le armi in mano, che come vitelli essere alla
beccheria condotti: in modo che in poco di ora tutte a tre le
congiure l'una all'altra si scoperse, e deliberorono il dì
seguente, che era il 26 di luglio 1343, fare nascere un tumulto
in Mercato Vecchio, e dopo quello armarsi e chiamare il popolo
alla libertà.
37
Venuto
adunque l'altro giorno, al suono di nona, secondo l'ordine dato,
si prese le armi; e il popolo tutto, alla boce della libertà, si
armò; e ciascuno si fece forte nelle sue contrade, sotto insegne
con le armi del popolo, le quali dai congiurati secretamente
erano state fatte.
Tutti i capi delle famiglie, così nobili come popolane,
convennono, e la difesa loro e la morte del Duca giurorono,
eccetto che alcuni de' Buondelmonti e de' Cavalcanti e quelle
quattro famiglie di popolo che a farlo signore erano concorse, i
quali, insieme con i beccai e altri della infima plebe, armati,
in Piazza, in favore del Duca concorsono.
A questo romore armò il Duca il Palagio, e i suoi, che erano in
diverse parti alloggiati, salirono a cavallo per ire in Piazza, e
per la via furono in molti luoghi combattuti e morti; pure circa
trecento cavagli vi si condussono.
Stava il Duca dubio s'egli usciva fuori a combattere i nimici, o
se, dentro, il Palagio difendeva.
Dall'altra parte i Medici, Cavicciuli, Rucellai e altre famiglie
state più offese da quello, dubitavano che, s'egli uscisse fuora,
molti che gli avieno preso l'armi contro non se gli scoprissero
amici, e desiderosi di torgli la occasione dello uscire fuora e
dello accrescere le forze, fatto testa, assalirono la Piazza.
Alla giunta di costoro, quelle famiglie popolane che si erano per
il Duca scoperte, veggendosi francamente assalire, mutorono
sentenza, poi che al Duca era mutata fortuna, e tutte si
accostorono a' loro cittadini, salvo che messer Uguccione
Buondelmonti, che se ne andò in Palagio, e messer Giannozzo
Cavalcanti il quale, ritiratosi con parte de' suoi consorti in
Mercato Nuovo, salì alto sopra un banco, e pregava il popolo che
armato andava in Piazza, che in favore del Duca vi andasse; e per
sbigottirgli accresceva le sue forze, e gli minacciava che
sarebbono tutti morti, se, ostinati, contro al Signore seguissero
la impresa: né trovando uomo che lo seguitasse, né che della
sua insolenza lo gastigasse veggendo di affaticarsi invano, per
non tentare più la fortuna, dentro alle sue case si ridusse. La
zuffa intanto, in Piazza, intra il popolo e le genti del Duca,
era grande; e benché questa il Palagio aiutasse, furono vinte; e
parte di loro si missono nella podestà de' nimici, parte,
lasciati i cavagli, in Palagio si fuggirono.
Mentre che la Piazza si combatteva, Corso e messer Amerigo Donati,
con parte del popolo, ruppono le Stinche, le scritture del
podestà e della publica camera arsono, saccheggiorono le case de'
rettori, e tutti quelli ministri del Duca che poterono avere
ammazzorono.
Il Duca da l'altro canto, vedendosi avere perduta la Piazza, e
tutta la città nimica, e sanza speranza di alcuno aiuto, tentò
se poteva con qualche umano atto guadagnarsi il popolo; e fatto
venire a sé i prigioni, con parole amorevoli e grate gli liberò;
e Antonio Adimari, ancora che con suo dispiacere, fece cavaliere;
fece levare le insegne sue sopra il Palagio e porvi quelle del
popolo: le quali cose, fatte tardi e fuora di tempo, perché
erano forzate e senza grado, gli giovorono poco.
Stava per tanto mal contento, assediato in Palagio, e vedeva come,
per avere voluto troppo, perdeva ogni cosa; e di avere a morire
fra pochi giorni o di fame o di ferro temeva.
I cittadini, per dare forma allo stato, in Santa Reparata si
ridussono, e creorono quattordici cittadini, per metà grandi e
popolani, i quali, con il Vescovo, avessero qualunque autorità
di potere lo stato di Firenze riformare.
Elessono ancora sei, i quali l'autorità dei podestà, tanto che
quello che era eletto venisse, avessero.
Erano in Firenze, al soccorso del popolo, molte genti venute,
intra i quali erano Sanesi con sei ambasciadori, uomini assai
nella loro patria onorati.
Costoro intra il popolo e il Duca alcuna convenzione praticorono;
ma il popolo recusò ogni ragionamento d'accordo, se prima non
gli era nella sua potestà dato messer Guglielmo d'Ascesi, e il
figliuolo insieme con messer Cerrettieri Bisdomini, consegnato.
Non voleva il Duca acconsentirlo; pure, minacciato dalle genti
che erano rinchiuse con lui, si lasciò sforzare.
Appariscono senza dubbio gli sdegni maggiori, e sono le ferite
più gravi, quando si recupera una libertà che quando si difende:
furono messer Guglielmo e il figliuolo posti intra le migliaia de'
nimici loro; e il figliuolo non aveva ancora diciotto anni, non
di meno la età, la forma, la innocenza sua non lo poté dalla
furia della moltitudine salvare; e quelli che non poterono
ferirgli vivi, gli ferirono morti; né saziati di straziargli con
il ferro, con le mani e con i denti gli laceravano.
E perché tutti i sensi si sodisfacessero nella vendetta avendo
udito prima le loro querele, veduto le loro ferite, tocco le loro
carni lacere, volevono ancora che il gusto le assaporasse, acciò
che, come tutte le parti di fuora ne erano sazie, quelle di
dentro ancora se ne saziassero.
Questo rabbioso furore quanto egli offese costoro, tanto a messer
Cerrettieri fu utile; perché, stracca la moltitudine nelle
crudeltà di questi duoi, di quello non si ricordò: il quale,
non essendo altrimenti domandato, rimase in Palagio, donde fu la
notte poi, da certi suoi parenti e amici, a salvamento tratto.
Sfogata la moltitudine sopra il sangue di costoro si concluse lo
accordo: che il Duca se ne andasse, con i suoi e sue cose, salvo;
e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze renunziasse; e di poi,
fuora del dominio, nel Casentino, alla renunzia ratificasse. Dopo
questo accordo, a dì 6 di agosto, partì di Firenze da molti
cittadini accompagnato; e arrivato in Casentino, alla renunzia,
ancora che mal volentieri, ratificò; e non arebbe osservata la
fede, se dal conte Simone non fusse stato di ricondurlo in
Firenze minacciato.
Fu questo Duca, come i governi suoi dimostrorono, avaro e crudele,
nelle audienze difficile, nel rispondere superbo: voleva la
servitù, non la benivolenza degli uomini; e per questo più di
essere temuto che amato desiderava.
Né era da essere meno odiosa la sua presenza, che si fussero i
costumi; perché era piccolo, nero, aveva la barba lunga e rada:
tanto che da ogni parte di essere odiato meritava: onde che, in
termine di dieci mesi, i suoi cattivi costumi gli tolsono quella
signoria che i cattivi consigli d'altri gli avevono data.
38
Questi
accidenti seguiti nella città dettono animo a tutte le terre
sottoposte ai Fiorentini di tornare nella loro libertà; in modo
che Arezzo, Castiglione, Pistoia, Volterra, Colle, San Gimignano
si ribellorono: talché Firenze, in un tratto, del tiranno e del
suo dominio priva rimase, e nel recuperare la sua libertà
insegnò a' subietti suoi come potessero recuperare la loro.
Seguita adunque la cacciata del Duca e la perdita del dominio
loro, i quattordici cittadini e il Vescovo pensorono che fusse
più tosto da placare i sudditi loro con la pace che farsegli
inimici con la guerra, e mostrare di essere contenti della
libertà di quelli come della propria.
Mandorono per tanto oratori ad Arezzo, a renunziare allo imperio
che sopra quella città avessero e a fermare con quelli accordo,
acciò che, poi che come sudditi non potevano, come amici della
loro città si valessero.
Con l'altre terre ancora in quel modo che meglio poterono
convennono, pure che se le mantenessero amiche, acciò che loro
liberi potessero aiutare la loro libertà mantenere.
Questo partito, prudentemente preso, ebbe felicissimo fine;
perché Arezzo, non dopo molti anni, tornò sotto lo imperio de'
Fiorentini, e l'altre terre, in pochi mesi, alla pristina
ubbidienza si ridussono. E così si ottiene molte volte più
presto e con minori pericoli e spesa le cose a fuggirle, che con
ogni forza e ostinazione perseguitandole.
39
Posate le
cose di fuora, si volsono a quelle di dentro, e dopo alcuna
disputa fatta intra i Grandi e i popolani, conclusono che i
Grandi nella Signoria la terza parte e negli altri ufici la metà
avessero.
Era la città, come di sopra dimostrammo, divisa a sesti, donde
che sempre sei Signori, d'ogni sesto uno, si erano fatti; eccetto
che, per alcuni accidenti, alcuna volta dodici o tredici se ne
erano creati, ma poco di poi erano tornati a sei.
Parve per tanto da riformarla in questa parte, sì per essere i
sesti male distribuiti, sì perché, volendo dare la parte ai
Grandi, il numero de' Signori accrescere conveniva.
Divisono per tanto la città a quartieri, e di ciascuno creorono
tre Signori; lasciorono indietro il gonfalonieri della giustizia
e quelli delle Compagnie del popolo, e in cambio de' dodici buoni
uomini, otto consiglieri, quattro di ciascuna sorte, creorono.
Fermato, con questo ordine, questo governo, si sarebbe la città
posata, se i Grandi fussero stati contenti a vivere con quella
modestia che nella vita civile si richiede; ma eglino il
contrario operavano; perché, privati, non volevono compagni, e
ne' magistrati volevono essere signori; e ogni giorno nasceva
qualche esemplo della loro insolenzia e superbia: la qual cosa al
popolo dispiaceva; e si doleva che, per uno tiranno che era
spento, n'erano nati mille.
Crebbono adunque tanto da l'una parte le insolenzie e da l'altra
gli sdegni, che i capi de' popolani mostrorono al Vescovo la
disonestà de' Grandi e la non buona compagnia che al popolo
facevano, e lo persuasono volesse operare che i Grandi di avere
la parte negli altri ufici si contentassero, e al popolo il
magistrato de' Signori solamente lasciassero.
Era il Vescovo naturalmente buono, ma facile ora in questa ora in
quell'altra parte a rivoltarlo: di qui era nato che, ad instanzia
de' suoi consorti, aveva prima il Duca di Atene favorito, di poi,
per consiglio d'altri cittadini, gli aveva congiurato contro;
aveva, nella riforma dello stato, favorito i Grandi, e così ora
gli pareva di favorire il popolo, mosso da quelle ragioni gli
furono da quelli cittadini popolani riferite.
E credendo trovare in altri quella poca stabilità che era in lui,
di condurre la cosa d'accordo si persuase, e convocò i
quattordici, i quali ancora non avevono perduta l'autorità, e
con quelle parole seppe migliori gli confortò a volere cedere il
grado della Signoria al popolo, promettendone la quiete della
città, altrimenti la rovina e il disfacimento loro.
Queste parole alterorono forte l'animo de' Grandi; e messer
Ridolfo de' Bardi con parole aspre lo riprese, chiamandolo uomo
di poca fede, e rimproverandogli l'amicizia del Duca come
leggieri e la cacciata di quello come traditore; e gli concluse
che quelli onori ch'eglino avevono con loro pericolo acquistati
volevono con loro pericolo difendere.
E partitosi alterato, con gli altri, dal Vescovo, ai suoi
consorti e a tutte le famiglie nobili lo fece intendere.
I popolani ancora agli altri la mente loro significorono, e
mentre i Grandi si ordinavano, con gli aiuti, alla difesa de'
loro Signori, non parve al popolo di aspettare che fussero ad
ordine, e corse armato al Palagio, gridando che voleva che i
Grandi rinunziassero al magistrato.
Il romore e il tumulto era grande: i Signori si vedevono
abbandonati, perché i Grandi, veggendo tutto il popolo armato,
non si ardirono a pigliare le armi, e ciascuno si stette dentro
alle case sue; di modo che i Signori popolani, avendo fatto prima
forza di quietare il popolo, affermando quelli loro compagni
essere uomini modesti e buoni, e non avendo potuto per meno reo
partito alle case loro gli rimandorono, dove con fatica salvi si
condussono.
Partiti i Grandi di Palagio, fu tolto ancora l'uficio ai quattro
consiglieri grandi, e fecionne infino in dodici popolani; e gli
otto Signori che restorono feciono uno gonfaloniere di giustizia
e sedici gonfalonieri delle Compagnie del popolo, e riformorono i
Consigli in modo che tutto il governo nello arbitrio del popolo
rimase.
40
Era,
quando queste cose seguirono, carestia grande nella città; di
modo che i Grandi e il popolo minuto erano mal contenti, questo
per la fame, quelli per avere perdute le dignità loro: la qual
cosa dette animo a messer Andrea Strozzi di potere occupare la
libertà della città.
Costui vendeva il suo grano minore pregio che gli altri, e per
questo alle sue case molte genti concorrevano; tanto che prese
ardire di montare una mattina a cavallo, e con alquanti di quelli
dietro, chiamare il popolo alle armi; e in poco di ora ragunò
più di 4000 uomini insieme, con i quali se n'andò in piazza de'
Signori, e che fusse loro aperto il Palagio domandava.
Ma i Signori, con le minacce e con le armi, dalla Piazza gli
discostorono; di poi talmente con i bandi gli sbigottirono, che a
poco a poco ciascuno si tornò alle case sue, di modo che messer
Andrea, ritrovandosi solo potette con fatica, fuggendo, dalle
mani de' magistrati salvarsi.
Questo accidente, ancora che fusse temerario e che gli avesse
avuto quel fine che sogliono simili moti avere, dette speranza ai
Grandi di potere sforzare il popolo, veggendo che la plebe minuta
era in discordia con quello; e per non perdere questa occasione,
armarsi di ogni sorte aiuti conclusono, per riavere per forza
ragionevolmente quello che ingiustamente, per forza, era stato
loro tolto.
E crebbono in tanta confidenza del vincere, che palesemente si
provedevono d'armi, affortificavano le loro case, mandavano ai
loro amici, infino in Lombardia, per aiuti.
Il popolo ancora, insieme con i Signori, faceva i suoi
provedimenti, armandosi e a Perugini e a Sanesi chiedendo
soccorso.
Già erano degli aiuti e all'una e all'altra parte comparsi: la
città tutta era in arme: avevano fatto i Grandi di qua d'Arno
testa in tre parti: alle case de' Cavicciuli propinque a San
Giovanni, alle case de' Pazzi e de' Donati a San Piero Maggiore,
a quelle de' Cavalcanti in Mercato Nuovo; quegli di là d'Arno s'erano
fatti forti ai ponti e nelle strade delle case loro: i Nerli il
ponte alla Carraia, i Frescobaldi e Mannegli Santa Trinità, i
Rossi e Bardi il Ponte Vecchio e Rubaconte difendevano.
I popolani, da l'altra parte, sotto il gonfalone della giustizia
e le insegne delle Compagnie del popolo si ragunorono.
41
E stando
in questa maniera, non parve al popolo di differire più la zuffa;
e i primi che si mossono furono i Medici e i Rondinegli i quali
assalirono i Cavicciuli da quella parte che, per la piazza di San
Giovanni, entra alle case loro.
Quivi la zuffa fu grande, perché dalle torri erano percossi con
i sassi, e da basso con le balestre feriti.
Durò questa battaglia tre ore; e tuttavia il popolo cresceva,
tanto che i Cavicciuli, veggendosi dalla moltitudine sopraffare,
e mancare di aiuti, si sbigottirono e si rimissono nella podestà
del popolo; il quale salvò loro le case e le sustanze; solo
tolse loro le armi, e a quelli comandò che per le case de'
popolani loro parenti e amici, disarmati, si dividessero. Vinto
questo primo assalto, furono i Donati e i Pazzi ancora loro
facilmente vinti per essere meno potenti di quelli.
Solo restavano, di qua d'Arno, i Cavalcanti i quali di uomini e
di sito erano forti: non di meno, vedendosi tutti i gonfaloni
contro, e gli altri da tre gonfaloni soli essere stati superati,
senza fare molta difesa si arrenderono.
Erano già le tre parti della città nelle mani del popolo:
restavane una nel potere de' Grandi ma la più difficile, sì per
la potenza di quelli che la difendevano, sì per il sito, sendo
dal fiume d'Arno guardata; talmente che bisognava vincere i ponti,
i quali ne' modi di sopra dimostri erano difesi.
Fu per tanto il Ponte Vecchio il primo assaltato; il quale fu
gagliardamente difeso, perché le torri armate, le vie sbarrate e
le sbarre da ferocissimi uomini guardate erano: tanto che il
popolo fu con grave suo danno ributtato.
Conosciuto per tanto come quivi si affaticavano invano, tentorono
di passare per il ponte Rubaconte; e trovandovi le medesime
difficultà, lasciati alla guardia di questi duoi ponti quattro
gonfaloni, con gli altri il ponte alla Carraia assalirono.
E benché i Nerli virilmente si difendessero, non potettono il
furore del popolo sostenere, sì per essere il ponte (non avendo
torri che lo difendessero) più debole, sì perché i Capponi e l'altre
famiglie popolane loro vicine gli assalirono: talché, essendo da
ogni parte percossi, abbandonorono le sbarre e dettono la via al
popolo; il quale, dopo questi, i Rossi e i Frescobaldi vinse: per
che tutti i popolani di là d'Arno con i vincitori si congiunsono.
Restavano adunque solo i Bardi, i quali né la rovina degli altri,
né l'unione del popolo contro di loro, né la poca speranza
degli aiuti poté sbigottire; e vollono più tosto, combattendo,
o morire o vedere le loro case ardere e saccheggiare, che
volontariamente allo arbitrio de' loro nimici sottomettersi.
Defendevonsi per tanto in modo che il popolo tentò più volte
invano, o dal Ponte Vecchio o dal ponte Rubaconte, vincerli; e
sempre fu con la morte e ferite di molti ributtato. Erasi, per i
tempi adietro, fatto una strada per la quale si poteva dalla Via
Romana, andando intra le case de' Pitti, alle mura poste sopra il
colle di San Giorgio pervenire: per questa via il popolo mandò
sei gonfaloni, con ordine che dalla parte di dietro le case de'
Bardi assalissero.
Questo assalto fece a' Bardi mancare di animo e al popolo vincere
la impresa; perché, come quelli che guardavano le sbarre delle
strade sentirono le loro case essere combattute, abbandonorono la
zuffa e corsono alla difesa di quelle. Questo fece che la sbarra
del Ponte Vecchio fu vinta e i Bardi da ogni parte messi in fuga;
i quali da' Quaratesi, Panzanesi e Mozzi furono ricevuti.
Il popolo intanto, e di quello la parte più ignobile, assetato
di preda, spogliò e saccheggiò tutte le loro case, e i loro
palagi e torri disfece e arse con tanta rabbia che qualunque più
al nome fiorentino crudele nimico si sarebbe di tanta rovina
vergognato.
42
Vinti i
Grandi, riordinò il popolo lo stato; e perché gli era di tre
sorte popolo, potente, mediocre e basso, si ordinò che i potenti
avessero duoi Signori, tre i mediocri e tre i bassi; e il
gonfaloniere fusse ora dell'una ora dell'altra sorte.
Oltra di questo, tutti gli ordini della giustizia contro ai
Grandi si riassunsono; e per fargli più deboli, molti di loro
intra la popolare moltitudine mescolorono.
Questa rovina de' nobili fu sì grande e in modo afflisse la
parte loro, che mai poi a pigliare le armi contro al popolo si
ardirono, anzi continuamente più umani e abietti diventorono.
Il che fu cagione che Firenze, non solamente di armi, ma di ogni
generosità si spogliasse. Mantennesi la città, dopo questa
rovina, quieta infino all'anno 1353; nel corso del qual tempo
seguì quella memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio
con tanta eloquenzia celebrata, per la quale in Firenze più che
novantaseimila anime mancarono.
Feciono ancora i Fiorentini la prima guerra con i Visconti,
mediante la ambizione dello Arcivescovo, allora principe in
Milano; la quale guerra come prima fu fornita, le parti dentro
alla città cominciorono; e benché fusse la nobilità distrutta,
non di meno alla fortuna non mancorono modi a fare rinascere, per
nuove divisioni, nuovi travagli.
LIBRO TERZO
1
Le gravi
e naturali nimicizie che sono intra gli uomini popolari e i
nobili, causate da il volere questi comandare e quelli non
ubbidire, sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città;
perché da questa diversità di umori tutte le altre cose che
perturbano le republiche prendano il nutrimento loro.
Questo tenne disunita Roma; questo, se gli è lecito le cose
piccole alle grandi agguagliare, ha tenuto diviso Firenze;
avvenga che nell'una e nell'altra città diversi effetti
partorissero: perché le nimicizie che furono nel principio in
Roma intra il popolo e i nobili, disputando; quelle di Firenze
combattendo si diffinivano, quelle di Roma con una legge, quelle
di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini
terminavano; quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbono,
quelle di Firenze al tutto la spensono; quelle di Roma da una
ugualità di cittadini in una disaguaglianza grandissima quella
città condussono, quelle di Firenze da una disaguaglianza ad una
mirabile ugualità l'hanno ridutta.
La quale diversità di effetti conviene che sia dai diversi fini
che hanno avuto questi duoi popoli causata: perché il popolo di
Roma godere i supremi onori insieme con i nobili desiderava;
quello di Firenze per essere solo nel governo, sanza che i nobili
ne participassero, combatteva.
E perché il desiderio del popolo romano era più ragionevole,
venivano ad essere le offese ai nobili più sopportabili, tale
che quella nobilità facilmente e sanza venire alle armi cedeva;
di modo che, dopo alcuni dispareri, a creare una legge dove si
sodisfacesse al popolo e i nobili nelle loro dignità rimanessero
convenivano.
Da l'altro canto, il desiderio del popolo fiorentino era
ingiurioso e ingiusto, tale che la nobilità con maggiori forze
alle sue difese si preparava, e per ciò al sangue e allo esilio
si veniva de' cittadini; e quelle leggi che di poi si creavano,
non a comune utilità, ma tutte in favore del vincitore si
ordinavano.
Da questo ancora procedeva che nelle vittorie del popolo la
città di Roma più virtuosa diventava; perché, potendo i
popolani essere alla amministrazione de' magistrati, degli
eserciti e degli imperii con i nobili preposti, di quella
medesima virtù che erano quelli si riempievano, e quella città,
crescendovi la virtù, cresceva potenza; ma in Firenze, vincendo
il popolo, i nobili privi de' magistrati rimanevano; e volendo
racquistargli, era loro necessario, con i governi, con lo animo e
con il modo del vivere, simili ai popolani non solamente essere
ma parere.
Di qui nasceva le variazioni delle insegne, le mutazioni de'
tituli delle famiglie, che i nobili, per parere di popolo,
facevano; tanto che quella virtù delle armi e generosità di
animo che era nella nobilità si spegneva, e nel popolo, dove la
non era, non si poteva raccendere, tal che Firenze sempre più
umile e più abietto divenne.
E dove Roma, sendosi quella loro virtù convertita in superbia,
si ridusse in termine che sanza avere un principe non si poteva
mantenere, Firenze a quel grado è pervenuta, che facilmente da
uno savio datore di leggie potrebbe essere in qualunque forma di
governo riordinata.
Le quali cose per la lezione del precedente libro in parte si
possono chiaramente cognoscere, avendo mostro il nascimento di
Firenze e il principio della sua libertà, con le cagioni delle
divisioni di quella, e come le parti de' nobili e del popolo con
la tirannide del Duca di Atene e con la rovina della nobilità
finirono.
Restano ora a narrarsi le inimicizie intra il popolo e la plebe,
e gli accidenti varii che quelle produssono.
2
Doma che
fu la potenzia de' nobili, e finita che fu la guerra con lo
Arcivescovo di Milano, non pareva che in Firenze alcuna cagione
di scandolo fusse rimasa.
Ma la mala fortuna della nostra città e i non buoni ordini suoi
feciono intra la famiglia degli Albizzi e quella de' Ricci
nascere inimicizia; la quale divise Firenze, come prima quella de'
Buondelmonti e Uberti, e di poi de' Donati e de' Cerchi aveva
divisa.
I pontefici, i quali allora stavano in Francia, e gli imperadori,
che erano nella Magna, per mantenere la reputazione loro in
Italia in varii tempi moltitudine di soldati di varie nazioni ci
avevano mandati; tale che in questi tempi ci si trovavano
Inghilesi, Tedeschi e Brettoni.
Costoro, come, per essere finite le guerre, sanza soldo
rimanevono, dietro ad una insegna di ventura, questo e quell'altro
principe taglieggiavano.
Venne per tanto, l'anno 1353, una di queste compagnie in Toscana,
capitaneata da Monreale provenzale; la cui venuta tutte le città
di quella provincia spaventò, e i Fiorentini, non solamente
publicamente di gente si providdono, ma molti cittadini, intra'
quali furono gli Albizzi e i Ricci, per salute propria si
armorono.
Questi intra loro erano pieni di odio, e ciascuno pensava, per
ottenere il principato nella repubblica, come potesse opprimere l'altro:
non erano per ciò ancora venuti alle armi, ma solamente ne'
magistrati e ne' Consigli si urtavano.
Trovandosi adunque tutta la città armata, nacque a sorte una
quistione in Mercato Vecchio, dove assai gente secondo che in
simili accidenti si costuma, concorse.
E spargendosi il romore, fu apportato ai Ricci come gli Albizzi
gli assalivano, e agli Albizzi che i Ricci gli venivano a trovare;
per la qual cosa tutta la città si sollevò, e i magistrati con
fatica poterono l'una e l'altra famiglia frenare, acciò che in
fatto non seguisse quella zuffa che a caso, e senza colpa di
alcuno di loro, era stata diffamata.
Questo accidente, ancora che debile, fece riaccendere più gli
animi loro, e con maggiore diligenzia cercare ciascuno di
acquistarsi partigiani.
E perché già i cittadini, per la rovina de' Grandi, erano in
tanta ugualità venuti che i magistrati erano, più che per lo
adietro non solevano, reveriti, disegnavano per la via ordinaria
e sanza privata violenza prevalersi.
3
Noi
abbiamo narrato davanti come, dopo la vittoria di Carlo I, si
creò il magistrato di Parte guelfa e a quello si dette grande
autorità sopra i Ghibellini; la quale il tempo, i varii
accidenti e le nuove divisioni avevano talmente messa in
oblivione, che molti discesi di Ghibellini i primi magistrati
esercitavano.
Uguccione de' Ricci per tanto, capo di quella famiglia, operò
che si rinnovasse la legge contro a' Ghibellini; intra i quali
era opinione di molti fussero gli Albizzi, i quali, molti anni
adietro nati in Arezzo, ad abitare a Firenze erano venuti; onde
che Uguccione pensò, rinnovando questa legge, privare gli
Albizzi de' magistrati, disponendosi per quella che qualunque
disceso di Ghibellino fusse condannato se alcuno magistrato
esercitasse.
Questo disegno di Uguccione fu a Piero di Filippo degli Albizzi
scoperto; e pensò di favorirlo, giudicando che, opponendosi, per
se stesso si chiarirebbe ghibellino.
Questa legge per tanto, rinnovata per la ambizione di costoro,
non tolse, ma dette a Piero degli Albizzi riputazione, e fu di
molti mali principio: né si può fare legge per una republica
più dannosa che quella che riguarda assai tempo indietro.
Avendo adunque Piero favorita la legge, quello che da i suoi
nimici era stato trovato per suo impedimento gli fu via alla sua
grandezza; perché, fattosi principe di questo nuovo ordine,
sempre prese più autorità, sendo da questa nuova setta di
Guelfi prima che alcuno altro favorito.
E perché non si trovava magistrato che ricercasse quali fussero
i Ghibellini, e per ciò la legge fatta non era di molto valore,
provide che si desse autorità ai Capitani di chiarire i
Ghibellini, e chiariti, significare loro, e ammunirgli, che non
prendessero alcuno magistrato; alla quale ammunizione se non
ubbidissero, rimanessero condennati.
Da questo nacque che di poi tutti quelli che in Firenze sono
privi di potere esercitare i magistrati si chiamano ammuniti.
Ai Capitani adunque sendo con il tempo cresciuta la audacia,
senza alcuno rispetto, non solamente quelli che lo meritavano
ammunivano, ma qualunque pareva loro, mossi da qualsivoglia avara
o ambiziosa cagione; e da il 1357, che era cominciato questo
ordine, al '66, si trovavano di già ammuniti più che 200
cittadini.
Donde i Capitani e la setta de' Guelfi era diventata potente,
perché ciascuno, per timore di non essere ammunito, gli onorava,
e massimamente i capi di quella, i quali erano Piero degli
Albizzi, messer Lapo da Castiglionchio e Carlo Strozzi.
E avvenga che questo modo di procedere insolente dispiacesse a
molti, i Ricci infra gli altri erano peggio contenti che alcuno,
parendo loro essere stati di questo disordine cagione, per il
quale vedevono rovinare la republica e gli Albizzi, loro nimici,
essere, contro a' disegni loro, diventati potentissimi.
4
Per tanto,
trovandosi Uguccione de' Ricci de' Signori, volle por fine a quel
male di che egli e gli altri suoi erano stati principio, e con
nuova legge provide che a' sei capitani di parte tre si
aggiugnessero, de' quali ne fussero duoi de' minori artefici; e
volle che i chiariti ghibellini avessero ad essere da
ventiquattro cittadini guelfi a ciò deputati confermati.
Questo provedimento temperò per allora in buona parte la potenza
de' Capitani; di modo che lo ammunire in maggiore parte mancò, e
se pure ne ammunivano alcuni, erano pochi.
Non di meno le sette di Albizzi e Ricci vegghiavano; e leghe,
imprese, deliberazioni l'una per odio dell'altra disfavorivano.
Vissesi adunque con simili travagli da il 1366 al '71, nel qual
tempo la setta de' Guelfi riprese le forze.
Era nella famiglia de' Buondelmonti uno cavaliere chiamato messer
Benchi, il quale, per i suoi meriti in una guerra contro ai
Pisani, era stato fatto popolano, e per questo era a potere
essere de' Signori abile diventato; e quando egli aspettava di
sedere in quel magistrato, si fece una legge, che niuno Grande
fatto popolano lo potesse esercitare.
Questo fatto offese assai messer Benchi, e accozzatosi con Piero
degli Albizzi, deliberorono con lo ammunire battere i minori
popolani e rimanere soli nel governo.
E per il favore che messer Benchi aveva con la antica nobilità,
e per quello che Piero aveva con la maggiore parte de' popolani
potenti, feciono ripigliare le forze alla setta de' Guelfi, e con
nuove riforme fatte nella Parte ordinorono in modo la cosa che
potevono de' Capitani e de' ventiquattro cittadini a loro modo
disporre.
Donde che si ritornò ad ammunire con più audacia che prima; e
la casa degli Albizzi, come capo di questa setta, sempre cresceva.
Da l'altro canto, i Ricci non mancavano di impedire con gli amici,
in quanto potevano, i disegni loro; tanto che si viveva in
sospetto grandissimo, e temevasi per ciascuno ogni rovina.
5
Onde che
molti cittadini, mossi dallo amore della patria, in San Piero
Scheraggio si ragunorono, e ragionato infra loro assai di questi
disordini, ai Signori ne andorono, ai quali uno di loro, di più
autorità, parlò in questa sentenza: - Dubitavamo molti di noi,
magnifici Signori, di essere insieme, ancora che per cagione
publica, per ordine privato; giudicando potere, o come
prosuntuosi essere notati, o come ambiziosi condannati; ma
considerato poi che ogni giorno, e senza alcuno riguardo, molti
cittadini per le logge e per le case, non per alcuna publica
utilità, ma per loro propria ambizione convengano, giudicammo,
poi che quegli che per la rovina della republica si ristringono
non temano, che non avessino ancora da temere quelli che per bene
e utilità publica si ragunano; né quello che altri si giudichi
di noi ci curiamo, poi che gli altri quello che noi possiamo
giudicare di loro non stimano.
Lo amore che noi portiamo, magnifici Signori, alla patria nostra
ci ha fatti prima ristrignere e ora ci fa venire a voi per
ragionare di quel male che si vede già grande e che tuttavia
cresce in questa nostra republica, e per offerirci presti ad
aiutarvi spegnerlo.
Il che vi potrebbe, ancora che la impresa paia difficile,
riuscire, quando voi vogliate lasciare indietro i privati
rispetti e usare con le publiche forze la vostra autorità.
La comune corruzione di tutte le città di Italia, magnifici
Signori, ha corrotta e tuttavia corrompe la vostra città;
perché, da poi che questa provincia si trasse di sotto alle
forze dello Imperio, le città di quella, non avendo un freno
potente che le correggessi, hanno, non come libere, ma come
divise in sette, gli stati e governi loro ordinati.
Da questo sono nati tutti gli altri mali, tutti gli altri
disordini che in esse appariscono.
In prima non si truova intra i loro cittadini né unione né
amicizia, se non intra quelli che sono di qualche sceleratezza, o
contro alla patria o contro ai privati commessa, consapevoli.
E perché in tutti la religione e il timore di Dio è spento, il
giuramento e la fede data tanto basta quanto l'utile: di che gli
uomini si vagliano, non per osservarlo, ma perché sia mezzo a
potere più facilmente ingannare; e quanto lo inganno riesce più
facile e securo, tanta più gloria e loda se ne acquista: per
questo gli uomini nocivi sono come industriosi lodati e i buoni
come sciocchi biasimati.
E veramente in nelle città di Italia tutto quello che può
essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i
giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età
è piena di brutti costumi; a che le leggi buone, per essere da
le cattive usanze guaste, non rimediano.
Di qui nasce quella avarizia che si vede ne' cittadini, e quello
appetito, non di vera gloria, ma di vituperosi onori, dal quale
dependono gli odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; dalle
quali nasce morti, esili, afflizioni de' buoni, esaltazioni de'
tristi.
Perché i buoni, confidatisi nella innocenzia loro, non cercono,
come i cattivi, di chi estraordinariamente gli difenda e onori,
tanto che indefesi e inonorati rovinano.
Da questo esemplo nasce lo amore delle parti e la potenza di
quelle; perché i cattivi per avarizia e per ambizione, i buoni
per necessità le seguano.
E quello che è più pernizioso è vedere come i motori e
principi di esse la intenzione e fine loro con un piatoso
vocabolo adonestano, perché sempre, ancora che tutti sieno alla
libertà nimici, quella, o sotto colore di stato di ottimati o di
popolare defendendo, opprimano.
Perché il premio il quale della vittoria desiderano è, non la
gloria dello avere liberata la città, ma la sodisfazione di
avere superati gli altri e il principato di quella usurpato; dove
condotti, non è cosa sì ingiusta, sì crudele o avara, che fare
non ardischino.
Di qui gli ordini e le leggi, non per publica, ma per propria
utilità si fanno; di qui le guerre, le paci, le amicizie, non
per gloria comune, ma per sodisfazione di pochi si deliberano.
E se le altre città sono di questi disordini ripiene, la nostra
ne è più che alcuna altra macchiata; perché le leggi, gli
statuti, gli ordini civili, non secondo il vivere libero, ma
secondo la ambizione di quella parte che è rimasa superiore, si
sono in quella sempre ordinati e ordinano.
Onde nasce che sempre, cacciata una parte e spenta una divisione,
ne surge un'altra; perché quella città che con le sette più
che con le leggi si vuol mantenere, come una setta è rimasa in
essa sanza opposizione, di necessità conviene che infra se
medesima si divida; perché da quelli modi privati non si può
difendere i quali essa per sua salute prima aveva ordinati.
E che questo sia vero le antiche e moderne divisioni della nostra
città lo dimostrano.
Ciascuno credeva, destrutti che furono i Ghibellini, i Guelfi di
poi lungamente felici e onorati vivessero; non di meno, dopo poco
tempo, in Bianchi e in Neri si divisono.
Vinti di poi i Bianchi, non mai stette la città sanza parti: ora
per favorire i fuori usciti, ora per le nimicizie del popolo e de'
Grandi, sempre combattemmo; e per dare ad altri quello che d'accordo
per noi medesimi possedere o non volavamo o non potavamo, ora al
re Ruberto, ora al fratello, ora al figliuolo, e in ultimo al
Duca di Atene, la nostra libertà sottomettemmo.
Non di meno in alcuno stato mai non ci riposammo, come quelli che
non siamo mai stati d'accordo a vivere liberi e di essere servi
non ci contentiamo.
Né dubitammo (tanto sono i nostri ordini disposti alle divisioni),
vivendo ancora sotto la ubbidienza del Re, la maestà sua ad un
vilissimo uomo nato in Agobio posporre.
Del Duca di Atene non si debbe, per onore di questa città,
ricordare; il cui acerbo e tirannico animo ci doveva fare savi e
insegnare vivere: non di meno, come prima e' fu cacciato, noi
avemmo le armi in mano, e con più odio e maggiore rabbia che mai
alcuna altra volta insieme combattuto avessimo, combattemmo;
tanto che l'antica nobilità nostra rimase vinta e nello arbitrio
del popolo si rimisse.
Né si credette per molti che mai alcuna cagione di scandolo o di
parte nascesse più in Firenze sendo posto freno a quelli che per
la loro superbia e insopportabile ambizione pareva che ne fussero
cagione; ma e' si vede ora per esperienza quanto la opinione
degli uomini è fallace e il giudizio falso; perché la superbia
e ambizione de' Grandi non si spense, ma da' nostri popolani fu
loro tolta i quali ora, secondo l'uso degli uomini ambiziosi, di
ottenere il primo grado nella republica cercano; né avendo altri
modi ad occuparlo che le discordie, hanno di nuovo divisa la
città, e il nome guelfo e ghibellino, che era spento, e che era
bene non fusse mai stato in questa republica, risuscitano.
Egli è dato di sopra, acciò che nelle cose umane non sia nulla
o perpetuo o quieto, che in tutte le republiche sieno famiglie
fatali, le quali naschino per la rovina di quelle.
Di queste la republica nostra, più che alcuna altra, è stata
copiosa, perché non una, ma molte, l'hanno perturbata e afflitta,
come feciono i Buondelmonti prima e Uberti, di poi i Donati e i
Cerchi; e ora, oh cosa vergognosa e ridicula! i Ricci e gli
Albizzi la perturbono e dividono.
Noi non vi abbiamo ricordati i costumi corrotti e le antiche e
continue divisioni nostre per sbigottirvi, ma per ricordarvi le
cagioni di esse e dimostrarvi che, come voi ve ne potete
ricordare, noi ce ne ricordiamo e per dirvi che lo esemplo di
quelle non vi debbe fare diffidare di potere frenare queste.
Perché in quelle famiglie antiche era tanta grande la potenza, e
tanti grandi i favori che le avevano dai principi, che gli ordini
e modi civili a frenarle non bastavano; ma ora che lo Imperio non
ci ha forze, il papa non si teme, e che la Italia tutta e questa
città è condotta in tanta ugualità che per lei medesima si
può reggere, non ci è molta difficultà.
E questa nostra republica massimamente si può, non ostante gli
antichi esempli che ci sono in contrario, non solamente mantenere
unita, ma di buoni costumi e civili modi riformare, pure che
Vostre Signorie si disponghino a volerlo fare.
A che noi, mossi dalla carità della patria, non da alcuna
privata passione, vi confortiamo.
E benché la corruzione di essa sia grande, spegnete per ora quel
male che ci ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno
che ci uccide; e imputate i disordini antichi, non alla natura
degli uomini, ma ad i tempi; i quali sendo variati, potete
sperare alla vostra città, mediante i migliori ordini, migliore
fortuna.
La malignità della quale si può con la prudenza vincere,
ponendo freno alla ambizione di costoro, e annullando quelli
ordini che sono delle sette nutritori, e prendendo quelli che al
vero vivere libero e civile sono conformi.
E siate contenti più tosto farlo ora con la benignità delle
leggi, che, differendo, con il favore delle armi gli uomini sieno
a farlo necessitati.
6
I Signori,
mossi da quello che prima per loro medesimi cognoscevono, e di
poi dalla autorità e conforti di costoro, dettono autorità a
cinquantasei cittadini, perché alla salute della republica
provedessero.
Egli è verissimo che gli assai uomini sono più atti a
conservare uno ordine buono che a saperlo per loro medesimi
trovare.
Questi cittadini pensorono più a spegnere le presenti sette che
a torre via le cagioni delle future, tanto che né l'una cosa né
l'altra conseguirono; perché le cagioni delle nuove non levorono,
e di quelle che vegghiavano una più potente che l'altra, con
maggiore pericolo della republica, feciono. Privorono per tanto
di tutti i magistrati, eccetto che di quelli della Parte guelfa,
per tre anni, tre della famiglia degli Albizzi e tre di quella de'
Ricci, intra i quali Piero degli Albizzi e Uguccione de' Ricci
furono; proibirono a tutti i cittadini entrare in Palagio,
eccetto che ne' tempi che i magistrati sedevano; providono che
qualunque fusse battuto, o impeditagli la possessione de' suoi
beni, potesse, con una domanda, accusarlo ai Consigli e farlo
chiarire de' Grandi, e, chiarito, sottoporlo ai carichi loro.
Questa provisione tolse lo ardire alla setta de' Ricci e a quella
degli Albizzi lo accrebbe; perché, avvenga che ugualmente
fussero segnate, non di meno i Ricci assai più ne patirono;
perché, se a Piero fu chiuso il palagio de' Signori, quello de'
Guelfi, dove gli aveva grandissima autorità, gli rimase aperto;
e se prima egli e chi lo seguiva erano allo ammunire caldi,
diventorono, dopo questa ingiuria, caldissimi.
Alla quale mala volontà ancora nuove cagioni si aggiunsono.
7
Sedeva
nel pontificato papa Gregorio XI, il quale, trovandosi ad
Avignone, governava, come gli antecessori suoi avevano fatto, la
Italia per legati; i quali, pieni di avarizia e di superbia,
avevano molte città afflitte.
Uno di questi, il quale in quelli tempi si trovava a Bologna,
presa la occasione dalla carestia che lo anno era in Firenze,
pensò di insignorirsi di Toscana, e non solamente non suvvenne i
Fiorentini di vivere, ma per torre loro la speranza delle future
ricolte, come prima apparì la primavera, con grande esercito gli
assaltò, sperando, trovandogli disarmati e affamati, potergli
facilmente superare.
E forse gli succedeva, se le armi con le quali quello gli assalì
infedeli e venali state non fussero: perché i Fiorentini, non
avendo migliore rimedio, dierono centotrentamila fiorini ai suoi
soldati, e feciono loro abbandonare la impresa.
Comincionsi le guerre quando altri vuole, ma non quando altri
vuole si finiscono.
Questa guerra, per ambizione del Legato cominciata, fu dallo
sdegno de' Fiorentini seguita, e feciono lega con messer Bernabò
e con tutte le città nimiche alla Chiesa; e creorono otto
cittadini che quella amministrassero, con autorità di potere
operare sanza appello e spendere sanza darne conto.
Questa guerra mossa contro al Pontefice fece, non ostante che
Uguccione fusse morto, risurgere quelli che avieno la setta de'
Ricci seguita, i quali, contro agli Albizzi, avevono sempre
favorito messer Bernabò e disfavorita la Chiesa; e tanto più
che gli Otto erano tutti nimici alla setta de' Guelfi.
Il che fece che Piero degli Albizzi, messer Lapo da
Castiglionchio, Carlo Strozzi e gli altri più insieme si
strinsono alla offesa de' loro avversarii; e mentre che gli Otto
facevano la guerra, ed eglino ammunivano.
Durò la guerra tre anni, né prima ebbe che con la morte del
Pontefice termine; e fu con tanta virtù e tanta sodisfazione
dello universale amministrata, che agli Otto fu ogni anno
prorogato il magistrato; ed erano chiamati Santi, ancora che
eglino avessero stimate poco le censure, e le chiese de' beni
loro spogliate, e sforzato il clero a celebrare gli uffizi: tanto
quelli cittadini stimavano allora più la patria che l'anima.
E dimostrorono alla Chiesa come prima, suoi amici, la avevano
difesa, così, suoi nimici, la potevono affliggere; perché tutta
la Romagna, la Marca e Perugia le feciono ribellare.
8
Non di
meno, mentre che al Papa facevono tanta guerra, non si potevono
dai Capitani di parte e dalla loro setta difendere; perché la
invidia che i Guelfi avieno agli Otto faceva crescere loro l'audacia,
e non che agli altri nobili cittadini, ma dall'ingiuriare alcuni
degli Otto non si astenevano.
E a tanta arroganza i Capitani di parte salirono, ch'eglino erano
più che i Signori temuti, e con minore reverenza si andava a
questi che a quelli, e più si stimava il palagio della Parte che
il loro; tanto che non veniva ambasciadore a Firenze che non
avesse commissione a' Capitani.
Sendo adunque morto papa Gregorio, e rimasa la città sanza
guerra di fuora, si viveva dentro in grande confusione; perché
da l'un canto la audacia de' Guelfi era insopportabile, da l'altro
non si vedeva modo a potergli battere: pure si giudicava che di
necessità si avesse a venire alle armi, e vedere quale de' duoi
seggi dovesse prevalere.
Erano dalla parte de' Guelfi tutti gli antichi nobili, con la
maggiore parte de' più potenti popolani; dove, come dicemmo,
messer Lapo, Piero e Carlo erano principi: da l'altra erano tutti
i popolani di minore sorte, de' quali erano capi gli Otto della
guerra, messer Giorgio Scali, Tommaso Strozzi; con i quali Ricci,
Alberti e Medici convenivano: il rimanente della moltitudine,
come quasi sempre interviene, alla parte malcontenta si accostava.
Parevano ai capi della setta guelfa le forze degli avversarii
gagliarde, e il pericolo loro grande, qualunque volta una
Signoria loro nimica volesse abbassargli; e pensando che fusse
bene prevenire, si accozzorono insieme; dove le condizioni della
città e dello stato loro esaminorono.
E pareva loro che gli ammuniti, per essere cresciuti in tanto
numero, avessero dato loro tanto carico che tutta la città fusse
diventata loro nimica.
A che non vedevano altro rimedio che, dove gli avieno tolto loro
gli onori, torre loro ancora la città, occupando per forza il
palagio de' Signori e reducendo tutto lo stato nella setta loro,
ad imitazione degli antichi Guelfi, i quali non vissono per altro
nella città sicuri che per averne cacciati gli avversarii loro.
Ciascuno si accordava a questo; ma discordavano del tempo.
9
Correva
allora lo anno 1378, ed era il mese di aprile; e a messer Lapo
non pareva di differire, affermando niuna cosa nuocere tanto al
tempo quanto il tempo, e a loro massime, potendo nella seguente
Signoria essere facilmente Salvestro de' Medici gonfaloniere, il
quale alla setta loro contrario cognoscevano.
A Piero degli Albizzi, da l'altro canto, pareva da differire,
perché giudicava bisognassero forze, e quelle non essere
possibile, sanza dimostrazione, raccozzare, e quando fussero
scoperti, in manifesto pericolo incorrerebbono.
Giudicava per tanto essere necessario che il propinquo San
Giovanni si aspettasse; nel quale tempo, per essere il più
solenne giorno della città assai moltitudine in quella concorre,
intra la quale potrebbono allora quanta gente volessero
nascondere, e per rimediare a quello che di Salvestro si temeva,
si ammunisse; e quando questo non paresse da fare, si ammunisse
uno di Collegio del suo quartiere, e ritraendosi lo scambio, per
essere le borse vote, poteva facilmente la sorte fare che quello
o qualche suo consorte fusse tratto, che gli torrebbe la facultà
di potere sedere gonfaloniere.
Fermorono per tanto questa deliberazione; ancora che messer Lapo
mal volentieri vi acconsentisse, giudicando il differire nocivo,
e mai il tempo non essere al tutto commodo a fare una cosa, in
modo che chi aspetta tutte le commodità, o e' non tenta mai cosa
alcuna, o, se la tenta, la fa il più delle volte a suo
disavantaggio. Ammunirono costoro il collegio, ma non successe
loro impedir Salvestro, perché, scoperte dagli Otto le cagioni,
che lo scambio non si ritraesse operorono.
Fu tratto per tanto gonfaloniere Salvestro di messer Alamanno de'
Medici.
Costui, nato di nobilissima famiglia popolana che il popolo fussi
da pochi potenti oppresso sopportare non poteva, e avendo pensato
di porre fine a questa insolenza, vedendosi il popolo favorevole
e di molti nobili popolani compagni, comunicò i disegni suoi con
Benedetto Alberti, Tomaso Strozzi e messer Giorgio Scali, i quali
per condurgli ogni aiuto gli promissono.
Fermorono adunque secretamente una legge, la quale innovava gli
ordini della giustizia contro ai Grandi, e l'autorità de'
Capitani di parte diminuiva, e a gli ammuniti dava modo di potere
essere alle dignità rivocati.
E perché quasi in un medesimo tempo si esperimentasse e
ottenesse, avendosi prima infra i Collegi e di poi ne' Consigli a
deliberare, e trovandosi Salvestro proposto (il quale grado, quel
tempo che dura, fa uno quasi che principe della città), fece in
una medesima mattina il Collegio e il Consiglio ragunare; e a'
Collegi prima, divisi da quello, prepose la legge ordinata: la
quale, come cosa nuova, trovò, in nel numero di pochi tanto
disfavore che la non si ottenne.
Onde che, veggendo Salvestro come gli erano tagliate le prime vie
ad ottenerla, finse di partirsi del luogo per sue necessità, e
senza che altri se ne accorgesse, ne andò in Consiglio; e salito
alto, donde ciascuno lo potesse vedere e udire, disse come e'
credeva essere stato fatto gonfaloniere, non per essere giudice
di cause private, che hanno i loro giudici ordinari, ma per
vigilare lo stato, correggere la insolenza de' potenti e
temperare quelle leggi per lo uso delle quali si vedesse la
republica rovinare; e come ad ambedue queste cose aveva con
diligenzia pensato e, in quanto gli era stato possibile,
proveduto; ma la malignità degli uomini in modo alle giuste sue
imprese si opponeva, che a lui era tolta la via di potere operare
bene, e a loro, non che di poterlo deliberare, ma di udirlo.
Onde che, vedendo di non potere più in alcuna cosa alla
republica né al bene universale giovare, non sapeva per qual
cagione si aveva a tenere più il magistrato; il quale o egli non
meritava, o altri credeva che non meritasse; e per questo se ne
voleva ire a casa, acciò che quel popolo potesse porre in suo
luogo un altro, che avesse o maggiore virtù o migliore fortuna
di lui.
E dette queste parole, si partì di Consiglio per andarne a casa.
10
Quelli
che, in Consiglio, erano della cosa consapevoli, e quelli altri
che desideravano novità, levorono il romore: al quale i Signori
e i Collegi corsono; e veduto il loro Gonfaloniere partirsi, con
prieghi e con autorità lo ritennano, e lo ferono in Consiglio,
il quale era pieno di tumulto, ritornare: dove molti nobili
cittadini furono con parole ingiuriosissime minacciati, intra i
quali Carlo Strozzi fu da uno artefice preso per il petto e
voluto ammazzare, e con fatica fu da' circunstanti difeso.
Ma quello che suscitò maggiore tumulto e messe in arme la città
fu Benedetto degli Alberti; il quale, dalle finestre del Palagio,
con alta voce chiamò il popolo alle armi; e subito fu piena la
Piazza di armati; donde che i Collegi quello che prima, pregati,
non avevono voluto fare, minacciati e impauriti feciono.
I Capitani di parte, in questo medesimo tempo, avevono assai
cittadini nel loro palagio ragunati, per consigliarsi come si
avessero contro all'ordine de' Signori a difendere; ma come si
sentì levato il romore e si intese quello che per i Consigli si
era deliberato, ciascuno si rifuggì nelle case sue.
Non sia alcuno che muova una alterazione in una città, per
credere poi, o fermarla a sua posta, o regolarla a suo modo.
Fu la intenzione di Salvestro creare quella legge e posare la
città; e la cosa procedette altrimenti; perché gli umori mossi
avevono in modo alterato ciascuno, che le botteghe non si
aprivano, i cittadini si afforzavano per le case, molti il loro
mobile per i munisteri e per le chiese nascondevano, e pareva che
ciascuno temesse qualche propinquo male.
Ragunoronsi i corpi delle Arti, e ciascuna fece un sindaco; onde
i Priori chiamorono i loro collegi e quelli sindachi, e
consultorono tutto un giorno come la città con sodisfazione di
ciascuno si potesse quietare; ma per essere i pareri diversi, non
si accordorono.
L'altro giorno seguente, le Arti trassono fuora le loro bandiere:
il che sentendo i Signori, e dubitando di quello che avvenne,
chiamorono il Consiglio per porvi rimedio.
Né fu ragunato a pena, che si levò il romore e subito le
insegne delle Arti, con grande numero di armati dietro, furono in
Piazza.
Onde che il Consiglio, per dare alle Arti e al popolo di
contentargli speranza, e torre loro la occasione del male, dette
generale potestà, la quale si chiama in Firenze balia, ai
Signori, Collegi, agli Otto, a' Capitani di parte e a' sindachi
delle Arti, di potere riformare lo stato della città a comune
benifizio di quella.
E mentre che questo si ordinava, alcune insegne delle Arti, e di
quelle di minori qualità, sendo mosse da quelli che desideravono
vendicarsi delle fresche ingiurie ricevute dai Guelfi, dalle
altre si spiccorono, e la casa di messer Lapo da Castiglionchio
saccheggiorono e arsono.
Costui, come intese la Signoria avere fatto impresa contro agli
ordini de' Guelfi, e vide il popolo in arme, non avendo altro
rimedio che nascondersi o fuggire, prima in Santa Croce si
nascose, di poi, vestito da frate, in Casentino se ne fuggì;
dove più volte fu sentito dolersi di sé, per avere consentito a
Piero degli Albizzi, e di Piero per avere voluto aspettare San
Giovanni ad assicurarsi dello stato.
Ma Piero e Carlo Strozzi, ne' primi romori, si nascosono,
credendo, cessati quelli, per avere assai parenti e amici, potere
stare in Firenze securi.
Arsa che fu la casa di messer Lapo, perché i mali con
difficultà si cominciono e con facilità si accrescono, molte
altre case furono, o per odio universale o per private nimicizie,
saccheggiate e arse.
E per avere compagnia che con maggiore sete di loro a rubare i
beni d'altri gli accompagnasse, le publiche prigioni ruppono; e
di poi il munistero degli Agnoli e il convento di Santo Spirito,
dove molti cittadini avevono il loro mobile nascoso,
saccheggiorono.
Né campava la publica Camera dalle mani di questi predatori, se
dalla reverenza d'uno de' Signori non fusse stata difesa: il
quale, a cavallo, con molti armati dietro, in quel modo che
poteva alla rabbia di quella moltitudine si opponeva.
Mitigato in parte questo populare furore, sì per la autorità de'
Signori, sì per essere sopraggiunta la notte, l'altro dì poi la
Balia fece grazia agli ammuniti, con questo, che non potessero,
per tre anni, esercitare alcuno magistrato: annullorono le leggi
fatte in pregiudizio de' cittadini dai Guelfi; chiarirono ribelli
messer Lapo da Castiglionchio e i suoi consorti, e con quello
più altri dallo universale odiati.
Dopo le quali deliberazioni, i nuovi Signori si publicorono, de'
quali era gonfaloniere Luigi Guicciardini; per i quali si prese
speranza di fermare i tumulti, parendo a ciascuno che fussero
uomini pacifici e della quiete comune amatori.
11
Non di
meno non si aprivono le botteghe, e i cittadini non posavano le
armi, e guardie grandi per tutta la città si facevano; per la
qual cosa i Signori non presono il magistrato fuora del Palagio,
con la solita pompa, ma dentro, sanza osservare alcuna cerimonia.
Questi Signori giudicorono niuna cosa essere più utile da farsi,
nel principio del loro magistrato, che pacificare la città; e
però feciono posare le armi, aprire le botteghe, partire di
Firenze molti del contado stati chiamati da' cittadini in loro
favore; ordinorono in di molti luoghi della città guardie: di
modo che, se gli ammuniti si fussero potuti quietare, la città
si sarebbe quietata.
Ma eglino non erano contenti di aspettare tre anni a riavere gli
onori; tanto che, a loro sodisfazione, le Arti di nuovo si
ragunorono e ai Signori domandorono che, per bene e quiete della
città, ordinassero che qualunque cittadino, in qualunque tempo,
de' Signori, di Collegio, Capitano di parte, o Consolo di
qualunque Arte fusse stato, non potesse essere ammunito per
ghibellino; e di più, che nuove imborsazioni nella parte guelfa
si facessero, e le fatte si ardessero.
Queste domande, non solamente dai Signori, ma subito da tutti i
Consigli furono accettate; per il che parve che i tumulti, che
già di nuovo erano mossi, si fermassero.
Ma perché agli uomini non basta ricuperare il loro, che vogliono
occupare quello d'altri e vendicarsi, quelli che speravano ne'
disordini mostravano agli artefici che non sarebbono mai sicuri,
se molti loro nimici non erano cacciati e destrutti.
Le quali cose presentendo i Signori, feciono venire avanti a loro
i magistrati delle Arti insieme con i loro sindachi; ai quali
Luigi Guicciardini gonfaloniere parlò in questa forma: - Se
questi Signori, e io insieme con loro, non avessimo, buon tempo
è, cognosciuta la fortuna di questa città, la quale fa che,
fornite le guerre di fuora, quelle di dentro cominciono, noi ci
saremmo più maravigliati de' tumulti seguiti, e più ci arebbono
arrecato dispiacere.
Ma perché le cose consuete portono seco minori affanni, noi
abbiamo i passati romori con pazienza sopportati, sendo
massimamente senza nostra colpa incominciati, e sperando quelli,
secondo lo esemplo de' passati, dovere avere qualche volta fine,
avendovi di tante e sì gravi domande compiaciuti; ma presentendo
come voi non quietate, anzi volete che a' vostri cittadini nuove
ingiurie si faccino, e con nuovi esili si condannino, cresce, con
la disonestà vostra, il dispiacere nostro.
E veramente, se noi avessimo creduto che, ne' tempi del nostro
magistrato, la nostra città, o per contrapporci a voi o per
compiacervi, avesse a rovinare, noi aremmo con la fuga o con lo
esilio fuggito questi onori; ma sperando avere a convenire con
uomini che avessero in loro qualche umanità, e alla loro patria
qualche amore, prendemmo il magistrato volentieri, credendo, con
la nostra umanità, vincere in ogni modo l'ambizione vostra.
Ma noi vediamo ora per esperienza che quanto più umilmente ci
portiamo, quanto più vi concediamo, tanto più insuperbite, e
più disoneste cose comandate.
E se noi parliamo così, non facciamo per offendervi, ma per
farvi ravvedere; perché noi vogliamo che uno altro vi dica
quello che vi piace, noi vogliamo dirvi quello che vi sia utile.
Diteci, per vostra fe', qual cosa è quella che voi possiate
onestamente più desiderare da noi? Voi avete voluto torre l'autorità
a' Capitani di parte: la si è tolta; voi avete voluto che si
ardino le loro borse e faccinsi nuove riforme: noi l'abbiamo
acconsentito; voi volesti che gli ammuniti ritornassero negli
onori: e si è permesso; noi, per i prieghi vostri, a chi ha arse
le case e spogliate le chiese abbiamo perdonato, e si sono
mandati in esilio tanti onorati e potenti cittadini, per
sodisfarvi; i Grandi, a contemplazione vostra, si sono con nuovi
ordini raffrenati.
Che fine aranno queste vostre domande, o quanto tempo userete voi
male la liberalità nostra? Non vedete voi che noi sopportiamo
con più pazienza lo esser vinti, che voi la vittoria? A che
condurranno queste vostre disunioni questa vostra città? Non vi
ricordate voi, che quando l'è stata disunita, Castruccio, un
vile cittadino lucchese, l'ha battuta? un Duca di Atene, privato
condottiere vostro, l'ha subiugata? Ma quando la è stata unita,
non l'ha potuta superare uno Arcivescovo di Milano e uno Papa; i
quali, dopo tanti anni di guerra, sono rimasi con vergogna.
Perché volete voi adunque che le vostre discordie quella città,
nella pace, faccino serva, la quale tanti nimici potenti hanno,
nella guerra, lasciata libera? Che trarrete voi delle disunioni
vostre, altro che servitù? o de' beni che voi ci avete rubati o
rubasse, altro che povertà? perché sono quelli che, con le
industrie nostre, nutriscono tutta la città; de' quali sendone
spogliati, non potreno nutrirla; e quelli che gli aranno occupati,
come cosa male acquistata, non gli sapranno perservare: donde ne
seguirà la fame e la povertà della città. Io e questi Signori
vi comandiamo, e, se la onestà lo consente, vi preghiamo, che
voi fermiate, una volta, lo animo; e siate contenti stare quieti
a quelle cose che per noi si sono ordinate; e quando pure ne
volesse alcuna di nuovo, vogliate civilmente, e non con tumulto e
con le armi, domandarle, perché, quando le sieno oneste, sempre
ne sarete compiaciuti, e non darete occasione a malvagi uomini,
con vostro carico e danno, sotto le spalle vostre, di rovinare la
patria vostra -.
Queste parole, perché erano vere, commossono assai gli animi di
quelli cittadini; e umanamente ringraziorono il Gonfaloniere di
avere fatto l'ufficio con loro di buon Signore e con la città di
buono cittadino, offerendosi essere presti ad ubbidire a quanto
era stato loro commesso.
E i Signori, per darne loro cagione, deputorono duoi cittadini
per qualunque de' maggiori magistrati, i quali, insieme con i
sindachi delle Arti, praticassero se alcuna cosa fusse da
riformare a quiete comune, e ai Signori la referissero.
12
Mentre
che queste cose così procedevano, nacque un altro tumulto, il
quale assai più che il primo offese la republica.
La maggiore parte delle arsioni e ruberie seguite ne' prossimi
giorni erano state dalla infima plebe della città fatte; e
quelli che infra loro si erano mostri più audaci temevano,
quietate e composte le maggiori differenze, di essere puniti de'
falli commessi da loro, e come gli accade sempre, di essere
abbandonati da coloro che al fare male gli avevano instigati.
A che si aggiugneva uno odio che il popolo minuto aveva con i
cittadini ricchi e principi delle Arti, non parendo loro essere
sodisfatti delle loro fatiche secondo che giustamente credevano
meritare.
Perché quando, ne' tempi di Carlo primo, la città si divise in
Arti, si dette capo e governo a ciascuna, e si provide che i
sudditi di ciascuna Arte dai capi suoi nelle cose civili fussero
giudicati.
Queste Arti, come già dicemmo, furono nel principio dodici; di
poi, col tempo, tante se ne accrebbono che le aggiunsono a
ventuna; e furono di tanta potenza che le presono in pochi anni
tutto il governo della città.
E perché, intra quelle delle più e delle meno onorate si
trovavano, in maggiori e minori si divisono; e sette ne furono
chiamate maggiori e quattordici minori.
Da questa divisione, e dalle altre cagioni che di sopra aviamo
narrate, nacque l'arroganza de' Capitani di parte; perché quelli
cittadini che erano anticamente stati guelfi sotto il governo de'
quali sempre quello magistrato girava, i popolani delle maggiori
Arti favorivano e quelli delle minori con i loro defensori
perseguitavano; donde contro a di loro tanti tumulti quanti
abbiamo narrati nacquono.
Ma perché nello ordinare i corpi delle Arti molti di quelli
esercizi in ne' quali il popolo minuto e la plebe infima si
affatica sanza avere corpi di Arti proprie restorono, ma a varie
Arti, conformi alle qualità delli loro esercizi, si sottomessono,
ne nasceva che quando erano o non sodisfatti delle fatiche loro,
o in alcun modo dai loro maestri oppressati, non avevano altrove
dove rifuggire che al magistrato di quella Arte che gli governava;
dal quale non pareva loro fusse fatta quella giustizia che
giudicavano si convenisse.
E di tutte le Arti, che aveva e ha più di questi sottoposti, era
ed è quella della lana; la quale, per essere potentissima, e la
prima, per autorità, di tutte, con la industria sua la maggiore
parte della plebe e popolo minuto pasceva e pasce.
13
Gli
uomini plebei adunque, così quelli sottoposti all'Arte della
lana come alle altre, per le cagioni dette, erano pieni di sdegno:
al quale aggiugnendosi la paura per le arsioni e ruberie fatte da
loro, convennono di notte più volte insieme, discorrendo i casi
seguiti e mostrando l'uno all'altro ne' pericoli si trovavano.
Dove alcuno de' più arditi e di maggiore esperienza, per
inanimire gli altri, parlò in questa sentenza: - Se noi avessimo
a deliberare ora se si avessero a pigliare le armi, ardere e
rubare le case de' cittadini, spogliare le chiese, io sarei uno
di quelli che lo giudicherei partito da pensarlo, e forse
approverei che fusse da preporre una quieta povertà a uno
pericoloso guadagno; ma perché le armi sono prese e molti mali
sono fatti, e' mi pare che si abbia a ragionare come quelle non
si abbiano a lasciare e come de' mali commessi ci possiamo
assicurare.
Io credo certamente che, quando altri non ci insegnasse, che la
necessità ci insegni. Voi vedete tutta questa città piena di
rammarichii e di odio contro a di noi: i cittadini si ristringono,
la Signoria è sempre con i magistrati: crediate che si ordiscono
lacci per noi, e nuove forze contro alle teste nostre si
apparecchiano.
Noi dobbiamo per tanto cercare due cose e avere, nelle nostre
deliberazioni, duoi fini: l'uno di non potere essere delle cose
fatte da noi ne' prossimi giorni gastigati, l'altro di potere con
più libertà e più sodisfazione nostra che per il passato
vivere.
Convienci per tanto, secondo che a me pare, a volere che ci sieno
perdonati gli errori vecchi, farne de' nuovi, raddoppiando i mali,
e le arsioni e le ruberie multiplicando, e ingegnarsi a questo
avere di molti compagni, perché dove molti errano niuno si
gastiga, e i falli piccoli si puniscono, i grandi e gravi si
premiano; e quando molti patiscono pochi cercano di vendicarsi,
perché le ingiurie universali con più pazienza che le
particulari si sopportono. Il multiplicare adunque ne' mali ci
farà più facilmente trovare perdono, e ci darà la via ad avere
quelle cose che per la libertà nostra di avere desideriamo.
E parmi che noi andiamo a un certo acquisto, perché quelli che
ci potrebbono impedire sono disuniti e ricchi: la disunione loro
per tanto ci darà la vittoria, e le loro ricchezze, quando fieno
diventate nostre, ce la manterranno.
Né vi sbigottisca quella antichità del sangue che ei ci
rimproverano; perché tutti gli uomini, avendo avuto uno medesimo
principio, sono ugualmente antichi, e da la natura sono stati
fatti ad uno modo.
Spogliateci tutti ignudi: voi ci vedrete simili, rivestite noi
delle veste loro ed eglino delle nostre: noi senza dubio nobili
ed eglino ignobili parranno; perché solo la povertà e le
ricchezze ci disaguagliano.
Duolmi bene che io sento come molti di voi delle cose fatte, per
conscienza, si pentono, e delle nuove si vogliono astenere; e
certamente, se gli è vero, voi non siete quelli uomini che io
credevo che voi fusse; perché né conscienza né infamia vi
debba sbigottire; perché coloro che vincono, in qualunque modo
vincono, mai non ne riportono vergogna.
E della conscienza noi non dobbiamo tenere conto; perché dove è,
come è in noi, la paura della fame e delle carcere, non può né
debbe quella dello inferno capere.
Ma se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete
tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono
o con frode o con forza esservi pervenuti; e quelle cose, di poi,
ch'eglino hanno o con inganno o con violenza usurpate, per celare
la bruttezza dello acquisto, quello sotto falso titolo di
guadagno adonestano.
E quelli i quali, o per poca prudenza o per troppa sciocchezza,
fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà
affogono; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini
buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli
infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti.
Perché Iddio e la natura ha posto tutte le fortune degli uomini
loro in mezzo; le quali più alle rapine che alla industria, e
alle cattive che alle buone arti sono esposte: di qui nasce che
gli uomini mangiono l'uno l'altro, e vanne sempre col peggio chi
può meno.
Debbesi adunque usare la forza quando ce ne è data occasione.
La quale non può essere a noi offerta dalla fortuna maggiore,
sendo ancora i cittadini disuniti, la Signoria dubia, i
magistrati sbigottiti: talmente che si possono, avanti che si
unischino e fermino l'animo, facilmente opprimere: donde o noi
rimarreno al tutto principi della città, o ne areno tanta parte
che non solamente gli errori passati ci fieno perdonati, ma areno
autorità di potergli di nuove ingiurie minacciare.
Io confesso questo partito essere audace e pericoloso; ma dove la
necessità strigne è l'audacia giudicata prudenza, e del
pericolo nelle cose grandi gli uomini animosi non tennono mai
conto, perché sempre quelle imprese che con pericolo si
cominciono si finiscono con premio, e di uno pericolo mai si
uscì sanza pericolo: ancora che io creda, dove si vegga
apparecchiare le carcere, i tormenti e le morti, che sia da
temere più lo starsi che cercare di assicurarsene; perché nel
primo i mali sono certi, e nell'altro dubi.
Quante volte ho io udito dolervi della avarizia de' vostri
superiori e della ingiustizia de' vostri magistrati! Ora è tempo,
non solamente da liberarsi da loro, ma da diventare in tanto loro
superiore, ch'eglino abbiano più a dolersi e temere di voi che
voi di loro.
La opportunità che dalla occasione ci è porta vola, e invano,
quando la è fuggita, si cerca poi di ripigliarla.
Voi vedete le preparazioni de' vostri avversarii: preoccupiamo i
pensieri loro; e quale di noi prima ripiglierà l'armi, sanza
dubio sarà vincitore, con rovina del nimico ed esaltazione sua:
donde a molti di noi ne risulterà onore, e securità a tutti -.
Queste persuasioni accesono forte i già per loro medesimi
riscaldati animi al male, tanto che deliberorono prendere le armi,
poi ch'eglino avessero più compagni tirati alla voglia loro; e
con giuramento si obligorono di soccorrersi, quando accadessi che
alcuno di loro fusse dai magistrati oppresso.
14
Mentre
che costoro ad occupare la republica si preparavano, questo loro
disegno pervenne a notizia de' Signori: per la qual cosa ebbono
uno Simone dalla Piazza nelle mani, da il quale intesono tutta la
congiura, e come il giorno seguente volevono levare il romore.
Onde che, veduto il pericolo, ragunorono i Collegi e quelli
cittadini che insieme con i sindachi delle Arti l'unione della
città praticavano (e avanti che ciascuno fusse insieme era già
venuta la sera), e da quelli i Signori furono consigliati che si
facessero venire i consoli delle Arti: i quali tutti
consigliorono che tutte le genti d'arme in Firenze venire si
facessero, e i gonfalonieri del popolo fussero la mattina, con le
loro compagnie armate in Piazza.
Temperava l'oriolo di Palagio, in quel tempo che Simone si
tormentava e che i cittadini si ragunavano, uno Niccolò da San
Friano; e accortosi di quello che era, tornato a casa, riempié
di tumulto tutta la sua vicinanza; di modo che, in un subito,
alla piazza di Santo Spirito più che mille uomini armati si
ragunorono.
Questo romore pervenne agli altri congiurati; e San Piero
Maggiore e San Lorenzo, luoghi deputati da loro, di uomini armati
si riempierono.
Era già venuto il giorno, il quale era il 21 di luglio, e in
Piazza, in favore de' Signori, più che ottanta uomini d'arme
comparsi non erano; e de' gonfalonieri non ve ne venne alcuno,
perché, sentendo essere tutta la città in arme, di abbandonare
le loro case temevono.
I primi che della plebe furono in Piazza furono quelli che a San
Piero Maggiore ragunati s'erano; allo arrivare de' quali la gente
d'arme non si mosse.
Comparsono, appresso a questi, l'altra moltitudine; e non trovato
riscontro, con terribili voci i loro prigioni alla Signoria
domandavano; e per avergli per forza, poi che non erano per
minacce renduti, le case di Luigi Guicciardini arsono; di modo
che i Signori, per paura di peggio, gli consegnorono loro.
Riavuti questi, tolsono il gonfalone della giustizia allo
esecutore, e sotto quello le case di molti cittadini arsono,
perseguitando quelli i quali o per publica o per privata cagione
erano odiati.
E molti cittadini, per vendicare loro private ingiurie, alle case
de' loro nimici li condussero: perché bastava solo che una voce,
nel mezzo della moltitudine: - a casa il tale! - gridasse, o che
quello che teneva il gonfalone in mano vi si volgesse.
Tutte le scritture ancora dell'Arte della lana arsono. Fatti che
gli ebbono molti mali, per accompagnarli con qualche lodevole
opera, Salvestro de' Medici e tanti altri cittadini feciono
cavalieri, che il numero di tutti a sessantaquattro aggiunse;
intra i quali Benedetto e Antonio degli Alberti, Tommaso Strozzi
e simili loro confidenti furono; non ostante che molti
forzatamente ne facessero.
Nel quale accidente, più che alcuna altra cosa, è da notare lo
avere veduto a molti ardere le case e quelli poco di poi, in un
medesimo giorno, da quelli medesimi (tanto era propinquo il
beneficio alla ingiuria) essere stati fatti cavalieri, il che a
Luigi Guicciardini gonfaloniere di giustizia intervenne.
I Signori, intra tanti tumulti, vedendosi abbandonati da le genti
d'arme, dai capi delle Arti e dai loro gonfalonieri, erano
smarriti; perché niuno secondo l'ordine dato gli aveva soccorsi,
e di sedici gonfaloni solamente la insegna del Lione d'oro e
quella del Vaio, sotto Giovenco della Stufa e Giovanni Cambi, vi
comparsono; e questi poco tempo in Piazza dimororono, perché,
non si vedendo seguitare dagli altri, ancora eglino si partirono.
Dei cittadini dall'altra parte, vedendo il furore di questa
sciolta moltitudine, e il Palagio abbandonato, alcuni dentro alle
loro case si stavano, alcuni altri la turba degli armati
seguitavano, per potere, trovandosi infra loro, meglio le case
sue e quelle degli amici difendere: e così veniva la potenza
loro a crescere e quella de' Signori a diminuire. Durò questo
tumulto tutto il giorno; e venuta la notte, al palagio di messere
Stefano, dietro alla chiesa di San Barnaba, si fermorono.
Passava il numero loro più che seimilia, e avanti apparisse il
giorno, si feciono dalle Arti, con minacce, le loro insegne
mandare.
Venuta di poi la mattina, con il gonfalone della giustizia e con
le insegne delle Arti innanzi, al palagio del podestà ne
andorono; e ricusando il podestà di darne loro la possessione,
lo combatterono e vinsono.
15
I Signori,
volendo fare pruova di comporre con loro, poi che per forza non
vedevono modo a frenargli, chiamorono quattro de' loro Collegi e
quelli al palagio del podestà, per intendere la mente loro,
mandorono.
I quali trovorono che i capi della plebe, con i sindachi delle
Arti e alcuni cittadini, avevano quello che volevano alla
Signoria domandare deliberato.
Di modo che alla Signoria con quattro della plebe deputati e con
queste domande tornorono: che l'Arte della lana non potesse più
giudice forestiero tenere; che tre nuovi corpi d'arti si
facessero, l'uno per i cardatori e tintori, l'altro per i
barbieri, farsettai, sarti e simili arti meccaniche, il terzo per
il popolo minuto; e che di queste tre Arti nuove sempre fussero
duoi Signori, e delle quattordici Arti minori tre; che la
Signoria alle case dove queste nuove Arti potessero convenire
provedesse, che niuno a queste Arti sottoposto, infra duoi anni,
potesse essere a pagare debito che fusse di minore somma che
cinquanta ducati constretto; che il Monte fermasse gli interessi,
e solo i capitali si restituissero; che i confinati e condannati
fussero assoluti; che agli onori tutti gli ammuniti si
restituissero.
Molte altre cose, oltre a queste, in beneficio dei loro
particulari fautori domandorono, e così, per il contrario, che
molti de' loro nimici fussero confinati e ammuniti vollono.
Le quali domande, ancora che alla republica disonorevoli e gravi,
per timore di peggio, furono dai Signori, Collegi e Consiglio del
popolo subito deliberate.
Ma a volere che le avessero la loro perfezione, era necessario
ancora nel Consiglio del comune si ottenessero; il che, non si
potendo in uno giorno ragunare duoi Consigli, differire all'altro
dì convenne.
Non di meno parve che per allora le Arti contente e la plebe
sodisfatta ne rimanesse; e promissono che, data la perfezione
alla legge, ogni tumulto poserebbe.
Venuta la mattina di poi, mentre che nel Consiglio del comune si
deliberava, la moltitudine, impaziente e volubile, sotto le
solite insegne venne in Piazza, con sì alte voci e sì
spaventevoli, che tutto il Consiglio e i Signori spaventorono.
Per la qual cosa Guerriante Marignolli, uno de' Signori, mosso
più da il timore che da alcuna altra sua privata passione, scese,
sotto colore di guardare la porta, da basso e se ne fuggì a casa.
Né potette, uscendo fuora, in modo celarsi che non fusse da la
turba ricognosciuto: né gli fu fatto altra ingiuria, se non che
la moltitudine gridò, come lo vide, che tutti Signori il Palagio
abbandonassero; se non, che ammazzerebbono i loro figliuoli e le
loro case arderebbono.
Era, in quel mezzo, la legge deliberata e i Signori nelle loro
camere ridutti; e il Consiglio, sceso da basso e sanza uscire
fuora, per la loggia e per la corte, desperato della salute della
città, si stava, tanta disonestà vedendo in una moltitudine, e
tanta malignità o timore in quelli che l'arebbono possuta o
frenare o opprimere.
I Signori ancora erano confusi e della salute della patria dubi,
vedendosi da uno di loro abbandonati e da niuno cittadino, non
che di aiuto, ma di consiglio suvvenuti.
Stando adunque di quello potessero o dovessero fare incerti,
messer Tommaso Strozzi e messer Benedetto Alberti, mossi o da
propria ambizione, desiderando rimanere signori del Palagio, o
perché pure così credevono essere bene, gli persuasono a cedere
a questo impeto popolare e, privati, alle loro case tornarsene.
Questo consiglio, dato da coloro che erano stati capi del tumulto,
fece, ancora che gli altri cedessero, Alamanno Acciaiuoli e
Niccolò del Bene, duoi de' Signori, sdegnare; e tornato in loro
un poco di vigore, dissono che se gli altri se ne volevono
partire non possevono rimediarvi, ma non volevono già, prima che
il tempo lo permettesse, lasciare la loro autorità, se la vita
con quella non perdevano.
Questi dispareri raddoppiorono a' Signori la paura e al popolo lo
sdegno; tanto che il Gonfaloniere, volendo più tosto finire il
suo magistrato con vergogna che con pericolo, a messer Tommaso
Strozzi si raccomandò, il quale lo trasse di Palagio e alle sue
case lo condusse.
Gli altri Signori in simile modo l'uno dopo l'altro si partirono;
onde che Alamanno e Niccolò, per non essere tenuti più animosi
che savi, vedendosi rimasi soli, ancora eglino se ne andorono; e
il Palagio rimase nelle mani della plebe e degli Otto della
guerra, i quali ancora non avevono il magistrato deposto.
16
Aveva,
quando la plebe entrò in Palagio, la insegna del gonfaloniere di
giustizia in mano uno Michele di Lando pettinatore di lana.
Costui, scalzo e con poco indosso, con tutta la turba dietro
salì sopra la sala, e come e' fu nella audienza de' Signori, si
fermò, e voltosi alla moltitudine, disse: - Voi vedete: questo
Palagio è vostro, e questa città è nelle vostre mani.
Che vi pare che si faccia ora? - Al quale tutti, che volevono che
fusse gonfaloniere e signore e che governassi loro e la città
come a lui pareva, risposono.
Accettò Michele la signoria; e perché era uomo sagace e
prudente, e più alla natura che alla fortuna obligato, deliberò
quietare la città e fermare i tumulti.
E per tenere occupato il popolo, e dare a sé tempo a potere
ordinarsi, che si cercasse d'uno ser Nuto, stato da messer Lapo
da Castiglionchio per bargello disegnato, comandò: alla quale
commissione la maggior parte di quelli aveva d'intorno andorono.
E per cominciare quello imperio con giustizia, il quale egli
aveva con grazia acquistato, fece publicamente che niuno ardesse
o rubasse alcuna cosa comandare; e per spaventare ciascuno,
rizzò le forche in Piazza.
E per dare principio alla riforma della città, annullò i
sindachi delle Arti e ne fece de' nuovi, privò del magistrato i
Signori e i Collegi; arse le borse degli ufici. Intanto ser Nuto
fu portato dalla moltitudine in Piazza e a quelle forche per un
piede impiccato: del quale avendone qualunque era intorno
spiccato un pezzo, non rimase in un tratto di lui altro che il
piede.
Gli Otto della guerra da l'altra parte, credendosi, per la
partita de' Signori, essere rimasi principi della città, avevano
già i nuovi Signori disegnati; il che presentendo Michele,
mandò a dire loro che subito di Palagio si partissero, perché
voleva dimostrare a ciascuno come sanza il consiglio loro sapeva
Firenze governare.
Fece di poi ragunare i sindachi delle Arti, e creò la Signoria:
quattro della plebe minuta, duoi per le maggiori e duoi per le
minori Arti.
Fece, oltra di questo, nuovo squittino, e in tre parti divise lo
stato; e volle che l'una di quelle alle nuove Arti, l'altra alle
minori, la terza alle maggiori toccasse.
Dette a messer Salvestro de' Medici l'entrate delle botteghe del
Ponte Vecchio, a sé la podesteria di Empoli; e a molti altri
cittadini amici della plebe fece molti altri benefizi, non tanto
per ristorargli delle opere loro, quanto perché d'ogni tempo
contro alla invidia lo difendessero.
17
Parve
alla plebe che Michele, nel riformare lo stato, fusse stato a'
maggiori popolani troppo partigiano; né pareva avere loro tanta
parte nel governo quanta, a mantenersi in quello e potersi
difendere, fusse di avere necessario; tanto che, dalla loro
solita audacia spinti, ripresono le armi, e tumultuando, sotto le
loro insegne, in Piazza ne vennono; e che i Signori in ringhiera
per deliberare nuove cose a proposito della securtà e bene loro
scendessero domandavano.
Michele, veduta la arroganza loro, per non gli fare più sdegnare,
senza intendere altrimenti quello che volessero, biasimò il modo
che nel domandare tenevano, e gli confortò a posare le armi, e
che allora sarebbe loro conceduto quello che per forza non si
poteva con dignità della Signoria concedere.
Per la qual cosa la moltitudine, sdegnata contro al Palagio, a
Santa Maria Novella si ridusse; dove ordinorono infra loro otto
capi, con ministri e altri ordini che dettono loro e reputazione
e reverenzia: tale che la città aveva duoi seggi ed era da duoi
diversi principi governata.
Questi capi infra loro deliberorono che sempre otto, eletti dai
corpi delle loro Arti, avessero con i Signori in Palagio ad
abitare, e tutto quello che dalla Signoria si deliberasse dovesse
essere da loro confermato; tolsono a messer Salvestro de' Medici
e a Michele di Lando tutto quello che nelle altre loro
deliberazioni era stato loro concesso, assegnorono a molti di
loro ufici e suvvenzioni, per potere il loro grado con dignità
mantenere.
Ferme queste deliberazioni, per farle valide, mandorono duoi di
loro alla Signoria, a domandare che le fussero loro per i
Consigli conferme, con propositi di volerle per forza, quando d'accordo
non le potessero ottenere.
Costoro, con grande audacia e maggiore prosunzione, a' Signori la
loro commissione esposono; e al Gonfaloniere la dignità ch'eglino
gli avieno data, e l'onore fattogli, e con quanta ingratitudine e
pochi rispetti si era con loro governato, rimproverorono.
E venendo poi, nel fine, dalle parole alle minacce, non potette
sopportare Michele tanta arroganzia, e ricordandosi più del
grado che teneva che della infima condizione sua, gli parve da
frenare con estraordinario modo una estraordinaria insolenza; e
tratta l'arme che gli aveva cinta, prima gli ferì gravemente di
poi gli fece legare e rinchiudere. Questa cosa, come fu nota,
accese tutta la moltitudine d'ira; e credendo potere, armata,
conseguire quello che disarmata non aveva ottenuto, prese con
furore e tumulto le armi, e si mosse per ire a sforzare i Signori.
Michele, dall'altra parte, dubitando di quello avvenne, deliberò
di prevenire, pensando che fusse più sua gloria assalire altri
che dentro alle mura aspettare il nimico, e avere, come i suoi
antecessori, con disonore del Palagio e sua vergogna, a fuggirsi.
Ragunato adunque gran numero di cittadini, i quali già si erano
cominciati a ravvedere dello errore loro, salì a cavallo e,
seguitato da molti armati, n'andò a Santa Maria Novella per
combattergli.
La plebe, che aveva, come di sopra dicemmo, fatta la medesima
deliberazione, quasi in quel tempo che Michele si mosse partì
ancora ella per ire in Piazza; e il caso fece che ciascuno fece
diverso cammino, tale che per la via non si scontrorono.
Donde che Michele, tornato indietro, trovò che la Piazza era
presa e che il Palagio si combatteva; e appiccata con loro la
zuffa, gli vinse; e parte ne cacciò della città, parte ne
constrinse a lasciare l'armi e nascondersi.
Ottenuta la impresa, si posorono i tumulti, solo per la virtù
del Gonfaloniere.
Il quale d'animo, di prudenza e di bontà superò in quel tempo
qualunque cittadino, e merita di essere annoverato intra i pochi
che abbino benificata la patria loro: perché, se in esso fusse
stato animo o maligno o ambizioso, la republica al tutto perdeva
la sua libertà, e in maggiore tirannide che quella del Duca di
Atene perveniva; ma la bontà sua non gli lasciò mai venire
pensiero nello animo che fusse al bene universale contrario, la
prudenza sua gli fece condurre le cose in modo che molti della
parte sua gli cederono e quelli altri potette con le armi domare.
Le quali cose feciono la plebe sbigottire, e i migliori artefici
ravvedere e pensare quanta ignominia era, a coloro che avevano
doma la superbia de' Grandi, il puzzo della plebe sopportare.
18
Era già,
quando Michele ottenne contro alla plebe la vittoria, tratta la
nuova Signoria; intra la quale erano duoi di tanta vile e infame
condizione, che crebbe il desiderio agli uomini di liberarsi da
tanta infamia.
Trovandosi adunque, quando il primo giorno di settembre i Signori
nuovi presono il magistrato, la Piazza piena di armati, come
prima i Signori vecchi fuora di Palagio furono, si levò intra
gli armati, con tumulto, una voce, come e' non volevono che del
popolo minuto alcuno ne fusse de' Signori; tale che la Signoria,
per sodisfare loro, privò del magistrato quelli duoi, de' quali
l'uno il Tria e l'altro Baroccio si chiamava; in luogo de' quali
messer Giorgio Scali e Francesco di Michele elessono.
Annullorono ancora l'Arte del popolo minuto, e i subietti a
quella, eccetto che Michele di Lando e Lorenzo di Puccio e alcuni
altri di migliore qualità, degli ufici privorono; divisono gli
onori in due parti, l'una delle quali alle maggiori, l'altra alle
minori Arti consegnorono, solo de' Signori vollono che sempre ne
fusse cinque de' minori artefici e quattro de' maggiori, e il
gonfaloniere ora all'uno ora all'altro membro toccasse.
Questo stato così ordinato fece, per allora, posare la città; e
benché la republica fusse stata tratta delle mani della plebe
minuta restorono più potenti gli artefici di minore qualità che
i nobili popolani; a che questi furono di cedere necessitati, per
torre al popolo minuto i favori delle Arti, contentando quelle.
La qual cosa fu ancora favorita da coloro che desideravano che
rimanessero battuti quelli che, sotto il nome di Parte guelfa,
avevono con tanta violenza tanti cittadini offesi.
E perché infra gli altri che questa qualità di governo
favorivano furono messer Giorgio Scali, messer Benedetto Alberti,
messer Salvestro de' Medici e messer Tommaso Strozzi, quasi che
principi della città rimasono. Queste cose così procedute e
governate la già cominciata divisione tra i popolani nobili e i
minori artefici, per la ambizione de' Ricci e degli Albizzi,
confermorono: dalla quale perché seguirono in varii tempi di poi
effetti gravissimi, e molte volte se ne arà a fare menzione,
chiamereno l'una di queste parte popolare e l'altra plebea.
Durò questo stato tre anni, e di esili e di morti fu ripieno,
perché quelli che governavano, in grandissimo sospetto, per
essere dentro e di fuora molti mali contenti, vivevano: i mali
contenti di dentro o e' tentavano o e' si credevano che
tentassino ogni dì cose nuove; quelli di fuora, non avendo
rispetto che gli frenasse, ora per mezzo di quello principe, ora
di quella republica, varii scandoli, ora in questa ora in quella
parte, seminavano.
19
Trovavasi
in questi tempi a Bologna Giannozzo da Salerno, capitano di Carlo
di Durazzo, disceso de' Reali di Napoli, il quale, disegnando
fare la impresa del Regno contro alla reina Giovanna, teneva
questo suo capitano in quella città, per i favori che da papa
Urbano, nimico della Reina, gli erano fatti.
Trovavansi a Bologna ancora molti fuori usciti fiorentini, i
quali seco e con Carlo strette pratiche tenevano; il che era
cagione che in Firenze per quelli che reggevano con grandissimo
sospetto si vivesse, e che si prestasse facilmente fede alle
calunnie di quelli cittadini che erano sospetti. Fu rivelato per
tanto, in tale suspensione di animi, al magistrato, come
Giannozzo da Salerno doveva a Firenze con i fuori usciti
rappresentarsi e molti di dentro prendere l'armi e dargli la
città. Sopra questa relazione furono accusati molti; i primi de'
quali Piero degli Albizzi e Carlo Strozzi furono nominati, e
apresso a questi, Cipriano Mangioni, messer Iacopo Sacchetti,
messer Donato Barbadori, Filippo Strozzi e Giovanni Anselmi; i
quali tutti, eccetto Carlo Strozzi che si fuggì, furono presi; e
i Signori, acciò che niuno ardisse prendere l'armi in loro
favore, messer Tommaso Strozzi e messer Benedetto Alberti con
assai gente armata a guardia della città deputorono.
Questi cittadini presi furono esaminati, e secondo l'accusa e i
riscontri, alcuna colpa in loro non si trovava; di modo che, non
li volendo il Capitano condannare, gli inimici loro in tanto il
popolo sollevorono, e con tanta rabbia lo commossono loro contro,
che per forza furono giudicati a morte.
Né a Piero degli Albizzi giovò la grandezza della casa, né la
antica riputazione sua, per essere stato più tempo sopra ogni
altro cittadino onorato e temuto: donde che alcuno, o vero suo
amico, per farlo più umano in tanta sua grandezza, o vero suo
nimico, per minacciarlo con la volubilità della fortuna,
faccendo egli uno convito a molti cittadini, gli mandò uno nappo
d'ariento pieno di confetti, e tra quelli nascosto un chiodo; il
quale scoperto e veduto da tutti i convivanti, fu interpetrato
che gli era ricordato conficcasse la ruota, perché, avendolo la
Fortuna condotto nel colmo di quella, non poteva essere che, se
la seguitava di fare il cerchio suo, che la non lo traesse in
fondo: la quale interpetrazione fu, prima dalla sua rovina, di
poi dalla sua morte verificata.
Dopo questa esecuzione rimase la città piena di confusione,
perché i vinti e i vincitori temevono; ma più maligni effetti
da il timore di quelli che governavano nascevano, perché ogni
minimo accidente faceva loro fare alla Parte nuove ingiurie, o
condannando, o ammunendo, o mandando in esilio i loro cittadini;
a che si aggiugnevano nuove leggi e nuovi ordini, i quali spesso
in fortificazione dello stato si facevono.
Le quali tutte cose seguivono con ingiuria di quelli che erano
sospetti alla fazione loro; e per ciò creorono quarantasei
uomini, i quali insieme con i Signori, la republica di sospetti
allo stato purgassero. Costoro ammunirono trentanove cittadini, e
feciono assai popolani Grandi, e assai Grandi popolani; e per
potere alle forze di fuora opporsi, messer Giovanni Aguto, di
nazione inghilese e reputatissimo nelle armi, soldorono, il quale
aveva per il papa e per altri in Italia più tempo militato.
Il sospetto di fuora nasceva da intendersi come più compagnie di
gente d'arme da Carlo di Durazzo per fare l'impresa del Regno si
ordinavano, con il quale era fama essere molti fuori usciti
fiorentini.
Ai quali pericoli, oltre alle forze ordinate, con somma di danari
si provide; perché, arrivato Carlo in Arezzo, ebbe dai
Fiorentini quarantamila ducati, e promisse non molestargli;
seguì di poi la sua impresa, e felicemente occupò il regno di
Napoli, e la reina Giovanna ne mandò presa in Ungheria.
La quale vittoria di nuovo il sospetto a quelli che in Firenze
tenevono lo stato accrebbe, perché non potevono credere che i
loro danari più nello animo del Re potessero, che quella antica
amicizia la quale aveva quella casa con i Guelfi tenuta, i quali
con tanta ingiuria erano da loro oppressi.
20
Questo
sospetto adunque, crescendo, faceva crescere le ingiurie; le
quali non lo spegnevano, ma accrescevano; in modo che per la
maggiore parte degli uomini si viveva in malissima contentezza.
A che la insolenzia di messer Giorgio Scali e di messer Tommaso
Strozzi si aggiugneva; i quali con la autorità loro quella de'
magistrati superavano, temendo ciascuno di non essere da loro,
con il favore della plebe, oppresso.
E non solamente a' buoni, ma ai sediziosi pareva quel governo
tirannico e violento.
Ma perché la insolenzia di messer Giorgio qualche volta doveva
avere fine, occorse che da uno suo familiare fu Giovanni di
Cambio, per avere contro allo stato tenute pratiche, accusato; il
quale da il Capitano fu trovato innocente; tale che il giudice
voleva punire lo accusatore di quella pena che sarebbe stato
punito il reo se si trovava colpevole; e non potendo messer
Giorgio con prieghi né con alcuna sua autorità salvarlo, andò
egli e messer Tommaso Strozzi, con moltitudine di armati, e per
forza lo liberorono, e il palagio del Capitano saccheggiorono, e
quello volendo salvarsi, a nascondersi constrinsono.
Il quale atto riempié la città di tanto odio contro a di lui,
che i suoi nimici pensorono di poterlo spegnere e di trarre la
città, non solamente delle sue mani, ma di quelle della plebe,
la quale tre anni, per la arroganza sua, l'aveva soggiogata.
Di che dette ancora il Capitano grande occasione: il quale,
cessato il tumulto, se ne andò a' Signori, e disse come era
venuto volentieri a quello ufizio al quale loro Signorie lo
avevano eletto, perché pensava avere a servire uomini giusti e
che pigliassero l'armi per favorire, non per impedire, la
giustizia; ma poi che gli aveva veduti e provati i governi della
città e il modo del vivere suo, quella dignità che volentieri
aveva presa per acquistare utile e onore, volentieri la rendeva
loro per fuggire pericolo e danno.
Fu il Capitano confortato dai Signori, e messogli animo,
promettendogli de' danni passati ristoro e per lo avvenire
sicurtà; e ristrettisi parte di loro con alcuni cittadini, di
quelli che giudicavano amatori del bene commune e meno sospetti
allo stato, conclusono che fusse venuta grande occasione a trarre
la città della potestà di messer Giorgio e della plebe, sendo
lo universale per questa ultima insolenzia alienatosi da lui.
Per ciò pareva loro da usarla prima che gli animi sdegnati si
riconciliassero, perché sapevono che la grazia dello universale
per ogni piccolo accidente si guadagna e perde; e giudicorono che,
a volere condurre la cosa, fusse necessario tirare alle voglie
loro messer Benedetto Alberti, sanza il consenso del quale la
impresa pericolosa giudicavono.
Era messer Benedetto uomo ricchissimo, umano, severo, amatore
della libertà della patria sua, e a cui dispiacevono assai i
modi tirannici: tale che fu facile il quietarlo e farlo alla
rovina di messer Giorgio conscendere. Perché la cagione che a'
popolani nobili e alla setta dei Guelfi lo avevano fatto nimico e
amico alla plebe era stata la insolenza di quelli e i modi
tirannici loro, donde, veduto poi che i capi della plebe erano
diventati simili a quelli, più tempo innanzi s'era discostato da
loro, e le ingiurie le quali a molti cittadini erano state fatte
al tutto fuora del consenso suo erano seguite: tale che quelle
cagioni che gli feciono pigliare le parti della plebe, quelle
medesime gliene feciono lasciare.
Tirato adunque messer Benedetto e i capi delle Arti alla loro
volontà, e provedutosi di armi, fu preso messer Giorgio, e
messer Tommaso fuggì. E l'altro giorno poi fu messer Giorgio con
tanto terrore della parte sua decapitato, che niuno si mosse,
anzi ciascuno a gara alla sua rovina concorse.
Onde che, vedendosi quello venire a morte davanti a quel popolo
che poco tempo innanzi lo aveva adorato, si dolfe della malvagia
sorte sua e della malignità de' cittadini, i quali, per averlo
ingiuriato a torto, lo avessero a favorire e onorare una
moltitudine constretto, dove non fusse né fede né gratitudine
alcuna.
E ricognoscendo intra gli armati messer Benedetto Alberti, gli
disse: - E tu, messer Benedetto, consenti che a me sia fatta
quella ingiuria che, se io fussi costì non permetterei mai che
la fusse fatta a te? Ma io ti annunzio che questo dì è fine del
male mio e principio del tuo -.
Dolfesi di poi di se stesso, avendo confidato troppo in uno
popolo il quale ogni voce, ogni atto, ogni sospizione muove e
corrompe.
E con queste doglienze morì, in mezzo ai suoi nimici armati e
della sua morte allegri.
Furono morti, dopo quello, alcuni de' suoi più stretti amici, e
dal popolo strascinati.
21
Questa
morte di questo cittadino commosse tutta la città, perché nella
esecuzione di quella molti presono l'arme per fare alla Signoria
e al Capitano del popolo favore; molti altri ancora, o per loro
ambizione, o per propri sospetti la presono.
E perché la città era piena di diversi umori, ciascuno vario
fine aveva, e tutti, avanti che l'armi si posassero, di
conseguirli desideravano. Gli antichi nobili, chiamati Grandi, di
essere privi degli onori publici sopportare non potevono, e per
ciò di recuperare quelli con ogni studio s'ingegnavano, e per
questo che si rendesse la autorità ai Capitani di parte amavano;
ai nobili popolani e alle maggiori Arti lo avere accomunato lo
stato con le Arti minori e popolo minuto dispiaceva; da l'altra
parte le Arti minori volevono più tosto accrescere che diminuire
la loro dignità; e il popolo minuto di non perdere i collegi
delle sue Arti temeva.
I quali dispareri feciono, per spazio di uno anno, molte volte
Firenze tumultuare; e ora pigliavano l'armi i Grandi, ora le
maggiori ora le minori Arti e il popolo minuto con quelle; e più
volte ad un tratto in diverse parti della terra tutti erano
armati.
Onde ne seguì, e infra loro e con le genti del Palagio, assai
zuffe, perché la Signoria, ora cedendo, ora combattendo a tanti
inconvenienti come poteva il meglio rimediava.
Tanto che alla fine, dopo duoi parlamenti e più balie che per
riformare la città si creorono, dopo molti danni, travagli e
pericoli gravissimi, si fermò uno governo, per il quale alla
patria tutti quelli che erano stati confinati poi che messer
Salvestro de' Medici era stato gonfaloniere si restituirono;
tolsonsi preeminenzie e provisioni a tutti quelli che dalla balia
del '78 ne erano stati proveduti; renderonsi gli onori alla Parte
guelfa; privoronsi le due Arti nuove de' loro corpi e governi, e
ciascuno de' sottoposti a quelle sotto le antiche Arti loro si
rimissono; privoronsi l'Arti minori del gonfaloniere di giustizia,
e ridussonsi dalla metà alla terza parte degli onori, e di
quelli si tolsono loro quelli di maggiore qualità.
Sì che la parte de' popolani nobili e de' Guelfi riassunse lo
stato, e quella della plebe lo perdé; del quale era stata
principe dal 1378 allo '81, che seguirono queste novità.
22
Né fu
questo stato meno ingiurioso verso i suoi cittadini, né meno
grave ne' suoi principii, che si fusse stato quello della plebe;
perché molti nobili popolani che erano notati defensori di
quella furono confinati insieme con gran numero de' capi plebei,
intra i quali fu Michele di Lando; né lo salvò dalla rabbia
delle parti tanti beni de' quali era stato cagione la sua
autorità, quando la sfrenata moltitudine licenziosamente
rovinava la città.
Fugli per tanto alle sue buone operazioni la sua patria poco
grata: nel quale errore perché molte volte i principi e le
republiche caggiono, ne nasce che gli uomini, sbigottiti da
simili esempli prima che possino sentire la ingratitudine de'
principi loro, gli offendono.
Questi esili e queste morti, come sempre mai dispiacquono, a
messer Benedetto Alberti dispiacevono, e publicamente e
privatamente le biasimava; donde i principi dello stato lo
temevano, perché lo stimavano uno de' primi amici della plebe e
credevono che gli avessi consentito alla morte di messer Giorgio
Scali, non perché i modi suoi gli dispiacessero, ma per rimanere
solo nel governo.
Accrescevono di poi le sue parole e suoi modi il sospetto; il che
faceva che tutta la parte che era principe teneva gli occhi volti
verso di lui, per pigliare occasione di poterlo opprimere.
Vivendosi in questi termini, non furono le cose di fuora molto
gravi; per ciò che alcuna ne seguì fu più di spavento che di
danno.
Perché in questo tempo venne Lodovico d'Angiò in Italia, per
rendere il regno di Napoli alla reina Giovanna e cacciarne Carlo
di Durazzo.
La passata sua spaurì assai i Fiorentini; perché Carlo, secondo
il costume degli amici vecchi, chiedeva da loro aiuti, e Lodovico
domandava, come fa chi cerca le amicizie nuove, si stessero di
mezzo.
Donde i Fiorentini, per mostrare di sodisfare a Lodovico e
aiutare Carlo, rimossono dai loro soldi messer Giovanni Aguto, e
a papa Urbano, che era di Carlo amico, lo ferono condurre: il
quale inganno fu facilmente da Lodovico cognosciuto, e si tenne
assai ingiuriato da i Fiorentini.
E mentre che la guerra intra Lodovico e Carlo, in Puglia, si
travagliava, venne di Francia nuova gente in favore di Lodovico;
la quale, giunta in Toscana, fu dai fuori usciti aretini condotta
in Arezzo, e trattane la parte che per Carlo governava.
E quando disegnavano mutare lo stato di Firenze come eglino
avevono mutato quello di Arezzo, seguì la morte di Lodovico, e
le cose, in Puglia e in Toscana, variorono con la fortuna l'ordine,
perché Carlo si assicurò di quel regno che gli aveva quasi che
perduto, e i Fiorentini, che dubitavano di potere difendere
Firenze, acquistorono Arezzo, perché da quelle genti che per
Lodovico lo tenevono lo comperorono.
Carlo adunque, assicurato di Puglia, ne andò per il regno di
Ungheria, il quale per eredità gli perveniva, e lasciò la
moglie in Puglia, con Ladislao e Giovanna suoi figliuoli ancora
fanciulli, come nel suo luogo dimostrammo.
Acquistò Carlo l'Ungheria; ma poco di poi vi fu morto.
23
Fecesi di
quello acquisto, in Firenze, allegrezza solenne, quanta mai in
alcuna città per alcuna propria vittoria si facesse: dove la
publica e la privata magnificenza si cognobbe, per ciò che molte
famiglie a gara con il pubblico festeggiorono.
Ma quella che di pompa e di magnificenza superò le altre fu la
famiglia degli Alberti, perché gli apparati, l'armeggerie che da
quella furono fatte furono non d'una gente privata, ma di
qualunque principe degni.
Le quali cose accrebbono a quella assai invidia, la quale,
aggiunta al sospetto che lo stato aveva di messer Benedetto, fu
cagione della sua rovina; per ciò che quelli che governavano non
potevono di lui contentarsi, parendo loro che ad ogni ora potesse
nascere che, con il favore della Parte, egli ripigliasse la
reputazione sua e gli cacciasse della città.
E stando in questa dubitazione, occorse che, sendo egli
gonfalonieri delle Compagnie, fu tratto gonfaloniere di giustizia
messer Filippo Magalotti suo genero: la qual cosa raddoppiò il
timore a' principi dello stato, pensando che a messer Benedetto
si aggiugnevono troppe forze e allo stato troppo pericolo.
E desiderando sanza tumulto rimediarvi, dettono animo a Bese
Magalotti, suo consorte e nimico, che significasse a' Signori che
messer Filippo, mancando del tempo che si richiedeva ad
esercitare quel grado, non poteva né doveva ottenerlo.
Fu la causa intra i Signori esaminata; e parte di loro per odio,
parte per levare scandolo, giudicorono messer Filippo a quella
degnità inabile.
E fu tratto in suo luogo Bardo Mancini, uomo al tutto alla
fazione plebea contrario e a messer Benedetto nimicissimo; tanto
che, preso il magistrato, creò una balia, la quale, nel
ripigliare e riformare lo stato, confinò messer Benedetto
Alberti e il restante della famiglia ammunì, eccetto che messer
Antonio.
Chiamò messer Benedetto, avanti al suo partire, tutti i suoi
consorti, e veggendogli mesti e pieni di lacrime, disse loro: -
Voi vedete, padri e maggiori miei, come la fortuna ha rovinato me
e minacciato voi di che né io mi maraviglio, né voi vi dovete
maravigliare, perché sempre così avvenne a coloro i quali intra
molti cattivi vogliono essere buoni, e che vogliono sostenere
quello che i più cercono di rovinare.
Lo amore della mia patria mi fece accostare a messer Salvestro de'
Medici e di poi da messer Giorgio Scali discostare; quello
medesimo mi faceva i costumi di questi che ora governono odiare;
i quali, come ei non avevono chi gli gastigasse non hanno ancora
voluto chi gli riprenda.
E io sono contento, con il mio esilio, liberargli da quello
timore che loro avevono, non di me solamente, ma di qualunque
sanno che conosce i tirannici e scelerati modi loro; e per ciò
hanno, con le battiture mie, minacciato gli altri.
Di me non mi incresce, perché quelli onori che la patria libera
mi ha dati la serva non mi può torre; e sempre mi darà maggiore
piacere la memoria della passata vita mia, che non mi darà
dispiacere quella infelicità che si tirerà drieto il mio esilio.
Duolmi bene che la mia patria rimanga in preda di pochi, e alla
loro superbia e avarizia sottoposta; duolmi di voi, perché io
dubito che quelli mali che finiscono oggi in me e cominciono in
voi, con maggiori danni che non hanno perseguitato me non vi
perseguino.
Confortovi adunque a fermare l'animo contro ad ogni infortunio, e
portarvi in modo che, se cosa alcuna avversa vi avviene, che ve
ne avverranno molte, ciascuno cognosca, innocentemente e sanza
vostra colpa esservi avvenute -.
Di poi, per non dare di sé minore opinione di bontà fuora, che
si avesse data in Firenze, se ne andò al Sepulcro di Cristo, dal
quale tornando morì a Rodi.
Le ossa del quale furono condotte in Firenze, e da coloro con
grandissimo onore sepulte, che, vive, con ogni calunnia e
ingiuria avevono perseguitate.
24
Non fu,
in questi travagli della città, solamente la famiglia degli
Alberti offesa, ma con quella molti cittadini ammuniti e
confinati furono, intra i quali fu Piero Benini, Matteo Alderotti,
Giovanni e Francesco del Bene, Giovanni Benci, Andrea Adimari, e
con questi gran numero di minori artefici: intra gli ammuniti
furono i Covoni, i Benini i Rinucci, i Formiconi, i Corbizzi, i
Mannelli e gli Alderotti.
Era consuetudine creare la balia per un tempo; ma quelli
cittadini, fatto ch'eglino avevono quello per che gli erano stati
deputati, per onestà, ancora che il tempo non fusse venuto,
rinunciavano.
Parendo per tanto a quelli uomini avere sodisfatto allo stato,
volevono, secondo il costume, rinunziare.
Il che intendendo, molti corsono al Palagio armati, chiedendo che
avanti alla renunzia, molti altri confinassero e ammunissero.
Il che dispiacque assai a' Signori; e con buone promesse tanto
gli intrattennono che si feciono forti, e di poi operorono che la
paura facesse loro posare quelle armi che la rabbia aveva fatte
pigliare.
Non di meno, per sodisfare in parte a sì rabbioso umore, e per
torre agli artefici plebei più autorità, providdono che, dove
gli avevono la terza parte degli onori, ne avessero la quarta; e
acciò che sempre fussero de' Signori duoi de' più confidenti
allo stato, dierono autorità al gonfaloniere di giustizia e
quattro altri cittadini di fare una borsa di scelti de' quali in
ogni Signoria se ne traessi duoi.
25
Fermato
così lo stato, dopo sei anni, che fu nel 1381 ordinato, visse la
città dentro insino al '93 assai quieta.
Nel qual tempo Giovan Galeazzo Visconti, chiamato Conte di Virtù,
prese messer Bernabò suo zio, e per ciò diventò di tutta
Lombardia principe.
Costui credette potere divenire re di Italia con la forza, come
gli era diventato duca di Milano con lo inganno; e mosse, nel '90,
una guerra grandissima a' Fiorentini; e in modo variò quella nel
maneggiarsi, che molte volte fu il Duca più presso al pericolo
di perdere, che i Fiorentini, i quali, se non moriva, avevono
perduto.
Non di meno le difese furono animose e mirabili ad una republica,
e il fine fu assai meno malvagio che non era stata la guerra
spaventevole; perché, quando il Duca aveva preso Bologna, Pisa,
Perugia e Siena, e che gli aveva preparata la corona per
coronarsi in Firenze re di Italia, morì: la qual morte non gli
lasciò gustare le sue passate vittorie, e a' Fiorentini non
lasciò sentire le loro presenti perdite.
Mentre che questa guerra con il Duca si travagliava, fu fatto
gonfalonieri di giustizia messer Maso degli Albizzi, il quale la
morte di Piero aveva fatto nimico agli Alberti.
E perché tuttavolta vegghiavano gli umori delle parti, pensò
messer Maso, ancora che messer Benedetto fusse morto in esilio,
avanti che deponesse il magistrato, con il rimanente di quella
famiglia vendicarsi.
E prese la occasione da uno che sopra certe pratiche tenute con i
rebelli fu esaminato, il quale Alberto e Andrea degli Alberti
nominò. Furono costoro subito presi, donde tutta la città se ne
alterò, tale che i Signori, provedutisi d'arme, il popolo a
parlamento chiamorono, e feciono uomini di balia, per virtù
della quale assai cittadini confinorono e nuove imborsazioni d'uffizi
ferono.
Intra i confinati furono quasi che tutti gli Alberti; furono
ancora di molti artefici ammuniti e morti, onde che, per le tante
ingiurie, le Arti e popolo minuto si levò in arme, parendogli
che fusse tolto loro l'onore e la vita.
Una parte di costoro vennero in Piazza un'altra corse a casa
messer Veri de' Medici, il quale, dopo la morte di messer
Salvestro, era di quella famiglia rimasto capo.
A quelli che vennero in Piazza i Signori, per addormentargli,
dierono per capi, con le insegne di parte guelfa e del popolo in
mano, messer Rinaldo Gianfigliazzi e messer Donato Acciaiuoli,
come uomini, de' popolani, più alla plebe che alcuni altri
accetti. Quelli che corsono a casa messer Veri lo pregavano che
fusse contento prendere lo stato e liberargli dalla tirannide di
quelli cittadini che erano de' buoni e del bene comune
destruttori.
Accordansi tutti quelli che di questi tempi hanno lasciata alcuna
memoria che, se messer Veri fusse stato più ambizioso che buono,
poteva sanza alcuno impedimento farsi principe della città;
perché le gravi ingiurie che, a ragione e a torto, erano alle
Arti e agli amici di quelle state fatte avevano in maniera accesi
gli animi alla vendetta, che non mancava, a sodisfare ai loro
appetiti, altro che un capo che gli conducesse.
Né mancò chi ricordasse a messer Veri quello che poteva fare,
perché Antonio de' Medici, il quale aveva tenuto seco più tempo
particulare inimicizia, lo persuadeva a pigliare il dominio della
republica.
Al quale messer Veri disse: - Le tue minacce, quando tu mi eri
inimico, non mi feciono mai paura, né ora che tu mi sei amico mi
faranno male i tuoi consigli; - e rivoltosi alla moltitudine, gli
confortò a fare buono animo, per ciò che voleva essere loro
defensore, purché si lasciassero da lui consigliare.
E andatone in mezzo di loro, in Piazza, e di quivi salito in
Palagio, davanti a' Signori, disse non si poter dolere in alcun
modo di essere vivuto in maniera che il popolo di Firenze lo
amasse, ma che gli doleva bene che avesse di lui fatto quello
giudizio che la sua passata vita non meritava; per ciò che, non
avendo mai dati di sé esempli di scandoloso o di ambizioso, non
sapeva donde si fusse nato che si credesse che fusse mantenitore
degli scandoli come inquieto, o occupatore dello stato come
ambizioso.
Pregava per tanto loro Signorie che la ignoranzia della
moltitudine non fusse a suo peccato imputata, perché, quanto
apparteneva a lui, come prima aveva potuto si era rimesso nelle
forze loro.
Ricordava bene fussero contenti usare la fortuna modestamente, e
che bastasse loro più tosto godersi una mezzana vittoria con
salute della città, che, per volerla intera, rovinare quella.
Fu messer Veri lodato da' Signori, e confortato a fare posare le
armi; e che di poi non mancherebbono di fare quello che fussero
da lui e dagli altri cittadini consigliati.
Tornossi, dopo queste parole, messer Veri in Piazza, e le sue
brigate con quelle che da messer Rinaldo e messer Donato erano
guidate congiunse.
Di poi disse a tutti avere trovato ne' Signori una ottima
volontà verso di loro, e che molte cose s'erano parlate, ma, per
il tempo breve e per la assenzia de' magistrati, non si erano
concluse.
Per tanto gli pregava posassero le armi e ubbidissero ai Signori,
facendo loro fede che la umanità più che la superbia, i prieghi
più che le minacce erano per muovergli, e come e' non
mancherebbe loro grado e securtà, se e' si lasciavano governare
da lui: tanto che, sotto la sua fede, ciascuno alle sue case fece
ritornare.
26
Posate le
armi, i Signori prima armorono la Piazza; scrissono di poi dumila
cittadini confidenti allo stato, divisi ugualmente per gonfaloni,
i quali ordinorono fussero presti al soccorso loro qualunque
volta gli chiamassero; e ai non scritti lo armarsi proibirono.
Fatte queste preparazioni, confinorono e ammazzorono molti
artefici, di quelli che più feroci che gli altri si erano ne'
tumulti dimostri; e perché il gonfaloniere della giustizia
avesse più maestà e reputazione, providono che fusse, ad
esercitare quella dignità, di avere quarantacinque anni
necessario.
In fortificazione dello stato ancora molti provedimenti feciono,
i quali erano contro a quelli che si facevano insopportabili, e
ai buoni cittadini della parte propria odiosi, perché non
giudicavano uno stato buono o securo, il quale con tanta violenza
bisognasse difendere.
E non solamente a quelli degli Alberti che restavano nella città,
e ai Medici, ai quali pareva avere ingannato il popolo, ma a
molti altri tanta violenza dispiaceva.
E il primo che cercò di opporsegli fu messer Donato di Iacopo
Acciaiuoli.
Costui, ancora che fusse grande nella città, e più tosto
superiore che compagno a messer Maso degli Albizzi, il quale per
le cose fatte nel suo gonfalonierato era come capo della
republica, non poteva intra tanti mali contenti vivere bene
contento, né recarsi, come i più fanno, il comune danno a
privato commodo; e per ciò fece pensiero di fare esperienza se
poteva rendere la patria agli sbanditi, o almeno gli uffici agli
ammuniti.
E andava negli orecchi di questo e quell'altro cittadino questa
sua opinione seminando, mostrando come e' non si poteva
altrimenti quietare il popolo e gli umori delle parti fermare;
né aspettava altro che di essere de' Signori, a mandare ad
effetto questo suo desiderio.
E perché nelle azioni nostre lo indugio arreca tedio e la fretta
pericolo, si volse, per fuggire il tedio, a tentare il pericolo.
Erano de' Signori Michele Acciaiuoli suo consorte e Niccolò
Ricoveri suo amico, donde parve a messer Donato che gli fusse
data occasione da non la perdere, e gli richiese che dovessero
preporre una legge a' Consigli, nella quale si contenesse la
restituzione de' cittadini.
Costoro, persuasi da lui, ne parlorono con i compagni, i quali
risposono che non erano per tentare cose nuove, dove lo acquisto
è dubio e il pericolo certo.
Onde che messer Donato, avendo prima invano tutte le vie tentate,
mosso da ira fece intendere loro come, poi che non volevono che
la città con i partiti in mano si ordinasse la si ordinerebbe
con le armi.
Le quali parole tanto dispiacquero che, comunicata la cosa con i
principi del governo, fu messer Donato citato; e comparso, fu da
quello a chi egli aveva commessa la imbasciata convinto, tale che
fu a Barletta confinato.
Furono ancora confinati Alamanno e Antonio de' Medici, con tutti
quelli che di quella famiglia da messer Alamanno discesi erano,
insieme con molti artefici ignobili, ma di credito appresso alla
plebe.
Le quali cose seguirono duoi anni poi che da messer Maso era
stato ripreso lo stato.
27
Stando
così la città, con molti mali contenti dentro e molti sbanditi
di fuora, si trovavano intra gli sbanditi, a Bologna Picchio
Cavicciuli, Tommaso de' Ricci, Antonio de' Medici, Benedetto
degli Spini, Antonio Girolami, Cristofano di Carlone, con duoi
altri di vile condizione, ma tutti giovani, feroci e disposti,
per tornare nella patria, a tentare ogni fortuna.
A costoro fu mostro per secrete vie, da Piggiello e Baroccio
Cavicciuli, i quali, ammuniti, in Firenze vivevano, che, se
venivono nella città secretamente, gli riceverebbono in casa,
donde e' potevono poi, uscendo, ammazzare messer Maso degli
Albizzi e chiamare il popolo alle armi; il quale, sendo male
contento, facilmente si poteva sollevare massime perché
sarebbono da' Ricci, Adimari, Medici, Mannelli e da molte altre
famiglie seguitati.
Mossi per tanto costoro da queste speranze, a dì 4 di agosto nel
1397, vennono in Firenze, ed entrati secretamente dove era stato
loro ordinato, mandorono ad osservare messer Maso, volendo da la
sua morte muovere il tumulto.
Uscì messer Maso di casa, e in uno speziale, a San Piero
Maggiore propinquo, si fermò. Corse chi era ito ad osservarlo, a
significarlo a' congiurati, i quali, prese le armi e venuti al
luogo dimostro, lo trovorono partito; onde, non sbigottiti per
non essere loro questo primo disegno riuscito, si volsono verso
Mercato vecchio, dove uno della parte avversa ammazzorono; e
levato il romore, gridando: - popolo, arme, libertà - e: -
muoiano i tiranni, - volti verso Mercato nuovo, alla fine di
Calimara ne ammazzorono un altro; e seguitando con le medesime
voci il loro cammino, e niuno pigliando le armi, nella loggia
della Nighittosa si ridussono.
Quivi si missono in luogo alto, avendo grande moltitudine intorno,
la quale più per vedergli che per favorirgli era corsa, e con
voce alta gli uomini a pigliare le armi e uscire di quella
servitù che loro avevano cotanto odiata confortavano, affermando
che i rammarichii de' mali contenti della città, più che le
ingiurie proprie, gli avevano a volergli liberare mossi, e come
avevano sentito che molti pregavano Iddio che dessi loro
occasione di potersi vendicare, il che farebbono qualunque volta
avessero capo che gli movesse, e ora che la occasione era venuta,
e che gli avevano i capi che gli movevano, sguardavano l'uno l'altro,
e come stupidi aspettavano che i motori della liberazione loro
fussero morti e loro nella servitù raggravati; e che si
maravigliavano che coloro i quali per una minima ingiuria
solevono pigliare le armi, per tante non si movessero, e che
volessero sopportare che tanti loro cittadini fussero sbanditi, e
tanti ammuniti; ma che gli era posto nello arbitrio loro rendere
agli sbanditi la patria e agli ammuniti lo stato.
Le quali parole, ancora che vere, non mossono in alcuna parte la
moltitudine, o per timore, o perché la morte di quelli duoi
avesse fatti gli ucciditori odiosi.
Tale che, vedendo i motori del tumulto come né le parole né i
fatti avevono forza di muovere alcuno, tardi avvedutisi quanto
sia pericoloso volere fare libero un popolo che voglia in ogni
modo essere servo, disperatisi della impresa, nel tempio di Santa
Reparata si ritirorono, dove, non per campare la vita, ma per
differire la morte, si rinchiusono.
I Signori, al primo romore, turbati, armorono e serrorono il
Palagio; ma poi che fu inteso il caso, e saputo quali erano
quelli che movevono lo scandolo, e dove si erano rinchiusi, si
rassicurorono, e al Capitano con molti altri armati che a
prendergli andassero comandarono.
Tale che senza molta fatica le porte del tempio sforzate furono,
e parte di loro, difendendosi, morti, e parte presi.
I quali esaminati, non si trovò altri in colpa fuora di loro,
che Baroccio e Piggiello Cavicciuli, i quali insieme con quelli
furono morti.
28
Dopo
questo accidente ne nacque un altro di maggiore importanza.
Aveva la città, in questi tempi, come di sopra dicemmo, guerra
con il Duca di Milano, il quale, vedendo come ad opprimere quella
le forze aperte non bastavano, si volse alle occulte, e per mezzo
de' fuori usciti fiorentini, de' quali la Lombardia era piena,
ordinò uno trattato, del quale molti di dentro erano consapevoli,
per il quale si era concluso che, ad un certo giorno, dai luoghi
più propinqui a Firenze, gran parte de' fuori usciti atti alle
armi si partissero, e per il fiume di Arno nella città
entrassero; i quali, insieme con i loro amici di dentro, alle
case de' primi dello stato corressero, e quelli morti,
riformassero secondo la volontà loro la republica.
Intra i congiurati di dentro era uno de' Ricci, nominato
Saminiato; e come spesso nelle congiure avviene, che i pochi non
bastano e gli assai le scuoprono, mentre che Saminiato cercava di
guadagnarsi compagni, trovò lo accusatore.
Conferì costui la cosa a Salvestro Cavicciuli, il quale le
ingiurie de' suoi parenti e sue dovevono fare fedele; non di meno
egli stimò più il propinquo timore che la futura speranza, e
subito tutto il trattato aperse ai Signori; i quali, fatto
pigliare Saminiato, a manifestare tutto l'ordine della congiura
constrinsono.
Ma de' consapevoli non ne fu preso, fuora che Tommaso Davizi
alcuno, il quale, venendo da Bologna, non sapendo quello che in
Firenze era occorso, fu, prima che gli arrivasse, sostenuto: gli
altri tutti, dopo la cattura di Saminiato, spaventati, si
fuggirono.
Puniti per tanto, secondo i loro falli, Saminiato e Tommaso, si
dette balia a più cittadini, i quali con la autorità loro i
delinquenti cercassero e lo stato assicurassero.
Costoro feciono rubelli sei della famiglia de' Ricci, sei di
quella degli Alberti, duoi de' Medici, tre degli Scali, duoi
degli Strozzi, Bindo Altoviti, Bernardo Adimari, con molti
ignobili, ammunirono ancora tutta la famiglia degli Alberti,
Ricci e Medici per dieci anni, eccetto pochi di loro.
Era intra quegli degli Alberti non ammunito messer Antonio per
essere tenuto uomo quieto e pacifico.
Occorse che, non essendo ancora spento il sospetto della congiura
fu preso uno monaco stato veduto, in ne' tempi che i congiurati
praticavano, andare più volte da Bologna a Firenze: confessò
costui avere più volte portate lettere a messer Antonio, donde
che subito fu preso, e benché da principio negasse, fu dal
monaco convinto, e per ciò in danari condennato, e discosto
dalla città trecento miglia confinato.
E perché ciascuno giorno gli Alberti a pericolo lo stato non
mettessero, tutti quelli che in quella famiglia fussero maggiori
di quindici anni confinorono.
29
Questo
accidente seguì nel 1400; e duoi anni appresso morì Giovan
Galeazzo duca di Milano; la cui morte, come di sopra dicemmo, a
quella guerra che dodici anni era durata pose fine.
Nel qual tempo, avendo il governo preso più autorità, sendo
rimaso sanza nimici fuora e dentro, si fece la impresa di Pisa, e
quella gloriosamente si vinse; e si stette dentro quietamente dal
1400 al 33.
Solo nel 1412, per avere gli Alberti rotti i confini, si creò
contra di loro nuova balia, la quale con nuovi provedimenti
rafforzò lo stato, e gli Alberti con taglie perseguitò.
Nel qual tempo feciono ancora i Fiorentini guerra con Ladislao re
di Napoli, la quale per la morte del Re, nel 1414, finì.
E nel travaglio di essa, trovandosi il Re inferiore, concedé a'
Fiorentini la città di Cortona, della quale era signore; ma poco
di poi riprese le forze e rinnovò con loro la guerra, la quale
fu molto più che la prima pericolosa, e se la non finiva per la
morte sua, come già era finita quella del Duca di Milano, aveva
ancora egli, come quel Duca, Firenze in pericolo di non perdere
la sua libertà condotto.
Né questa guerra finì con minore ventura che quella, perché,
quando egli aveva preso Roma, Siena, la Marca tutta e la Romagna,
e che non gli mancava altro che Firenze ad ire con la potenza sua
in Lombardia, si morì.
E così la morte fu sempre più amica a' Fiorentini che niuno
altro amico, e più potente a salvargli che alcuna loro virtù.
Dopo la morte di questo Re stette la città quieta, fuori e
dentro, otto anni; in capo del qual tempo, insieme con le guerre
di Filippo duca di Milano, rinnovorono le parti; le quali non
posorono prima che con la rovina di quello stato il quale da il
1381 al 1434 aveva regnato, e fatto con tanta gloria tante guerre,
e acquistato allo imperio suo Arezzo, Pisa, Cortona, Livorno e
Monte Pulciano.
E maggiore cose arebbe fatte, se la città si manteneva unita, e
non si fussero riaccesi gli antichi umori in quella; come nel
seguente libro particularmente si dimosterrà.
LIBRO QUARTO
1
Le città,
e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le quali sotto
nome di republica si amministrano, variano spesso i governi e
stati loro, non mediante la libertà e la servitù, come molti
credono, ma mediante la servitù e la licenza. Perché della
libertà solamente il nome dai ministri della licenza, che sono i
popolari, e da quelli della servitù, che sono i nobili, è
celebrato, desiderando qualunque di costoro non essere né alle
leggi né agli uomini sottoposto.
Vero è che quando pure avviene (che avviene rade volte) che, per
buona fortuna della città, surga in quella un savio, buono e
potente cittadino, da il quale si ordinino leggi per le quali
questi umori de' nobili e de' popolani si quietino, o in modo si
ristringhino che male operare non possino, allora è che quella
città si può chiamare libera, e quello stato si può stabile e
fermo giudicare; perché, sendo sopra buone leggi e buoni ordini
fondato, non ha necessità della virtù d'uno uomo, come hanno
gli altri, che lo mantenga.
Di simili leggi e ordini molte republiche antiche, gli stati
delle quali ebbono lunga vita, furono dotate; di simili ordini e
leggi sono mancate e mancano tutte quelle che spesso i loro
governi da lo stato tirannico a licenzioso, e da questo a quell'altro,
hanno variato e variano.
Perché in essi, per i potenti nimici che ha ciascuno di loro,
non è né puote essere alcuna stabilità; perché l'uno non
piace agli uomini buoni, l'altro dispiace a' savi; l'uno può
fare male facilmente, l'altro può fare bene con difficultà;
nell'uno hanno troppa autorità gli uomini insolenti, nell'altro
gli sciocchi; e l'uno e l'altro di essi conviene che sia da la
virtù e fortuna d'uno uomo mantenuto, il quale, o per morte può
venire meno, o per travagli diventare inutile.
2
Dico per
tanto che lo stato il quale in Firenze da la morte di messer
Giorgio Scali ebbe, nel 1381, il principio suo fu prima dalla
virtù di messer Maso degli Albizzi, di poi da quella di Niccolò
da Uzano sostenuto.
Visse la città da il 1414 per infino al '22 quietamente sendo
morto il re Ladislao, e lo stato di Lombardia in più parti
diviso in modo che di fuora né dentro era alcuna cosa che la
facesse dubitare.
Appresso a Niccolò da Uzano, cittadini di autorità erano
Bartolomeo Valori, Nerone di Nigi, messer Rinaldo degli Albizzi,
Neri di Gino e Lapo Niccolini. Le parti che nacquono per la
discordia degli Albizzi e de' Ricci e che furono di poi da messer
Salvestro de' Medici con tanto scandolo risuscitate, mai non si
spensono e benché quella che era più favorita dallo universale
solamente tre anni regnasse e che nel 1381 la rimanesse vinta,
non di meno, comprendendo lo umore di quella la maggiore parte
della città, non si potette mai al tutto spegnere.
Vero è che gli spessi parlamenti e le continue persecuzioni
fatte contro a' capi di quella da lo '81 al 400 la redussono
quasi che a niente.
Le prime famiglie che furono come capi di essa perseguitate
furono Alberti, Ricci e Medici, le quali più volte di uomini e
di ricchezze spogliate furono; e se alcuni nella città ne
rimasono, furono loro tolti gli onori: le quali battiture
renderono quella parte umile e quasi che la consumarono. Restava
non di meno in molti uomini una memoria delle iniurie ricevute e
uno desiderio di vendicarle; il quale, per non trovare dove
appoggiarsi, occulto nel petto loro rimaneva.
Quelli nobili popolani i quali pacificamente governavano la
città, feciono duoi errori, che furono la rovina dello stato di
quelli: l'uno, che diventorono per il continuo dominio, insolenti;
l'altro, che, per la invidia ch'eglino avevono l'uno all'altro, e
per la lunga possessione nello stato, quella cura di chi gli
potesse offendere che dovevono non tennono.
3
Rinfrescando
adunque costoro con i loro sinistri modi, ogni dì, l'odio nello
universale, e non vigilando le cose nocive per non le temere, o
nutrendole per invidia l'uno dell'altro, feciono che la famiglia
de' Medici riprese autorità.
Il primo che in quella cominciò a risurgere fu Giovanni di Bicci.
Costui, sendo diventato ricchissimo, ed essendo di natura benigno
e umano, per concessione di quegli che governavano fu condotto al
supremo magistrato.
Di che per lo universale della città se ne fece tanta allegrezza,
parendo alla moltitudine aversi guadagnato uno defensore, che
meritamente ai più savi la fu sospetta, perché si vedeva tutti
gli antichi umori cominciare a risentirsi.
E Niccolò da Uzano non mancò di avvertirne gli altri cittadini,
mostrando quanto era pericoloso nutrire uno che avesse nello
universale tanta reputazione; e come era facile opporsi a'
disordini ne' principii, ma lasciandogli crescere, era difficile
il rimediarvi; e che cognosceva come in Giovanni erano molte
parti che superavano quelle di messer Salvestro. Non fu Niccolò
da' suoi uguali udito, perché avevano invidia alla reputazione
sua e desideravano avere compagni a batterlo.
Vivendosi per tanto in Firenze intra questi umori, i quali
occultamente cominciavano a ribollire, Filippo Visconti, secondo
figliuolo di Giovanni Galeazzo, sendo, per la morte del fratello,
diventato signore di tutta Lombardia, e parendogli potere
disegnare qualunque impresa, desiderava sommamente riinsignorirsi
di Genova, la quale allora, sotto il dogato di messer Tommaso da
Campo Fregoso, libera si viveva; ma si diffidava potere o quella
o altra impresa ottenere, se prima non publicava nuovo accordo co'
Fiorentini, la riputazione del quale giudicava gli bastasse a
potere a' suoi desiderii sodisfare.
Mandò per tanto suoi oratori a Firenze a domandarlo.
Molti cittadini consigliavano che non si facesse; ma che, sanza
farlo, nella pace che molti anni s'era mantenuta seco si
perseverasse, perché cognoscevono il favore che il farlo gli
arrecava e il poco utile che la città ne traeva.
A molti altri pareva da farlo, e per virtù di quello imporgli
termini, i quali trapassando, ciascuno cognoscesse il cattivo
animo suo, e si potesse, quando e' rompesse la pace, più
giustificatamente fargli la guerra.
E così, disputata la cosa assai, si fermò la pace, nella quale
Filippo promisse non si travagliare delle cose che fussero dal
fiume della Magra e del Panaro in qua.
4
Fatto
questo accordo, Filippo occupò Brescia, e poco di poi Genova,
contro alla opinione di quegli che in Firenze avevano confortata
la pace, perché credevano che Brescia fusse difesa da' Viniziani
e Genova per se medesima si defendesse.
E perché nello accordo che Filippo aveva fatto con il doge di
Genova gli aveva lasciate Serezana e altre terre poste di qua
dalla Magra, con patti che, volendo alienarle, fusse obligato
darle a' Genovesi, veniva Filippo ad avere violata la pace: aveva,
oltre di questo, fatto accordo con il legato di Bologna: le quali
cose alterorono gli animi de' nostri cittadini, e fernogli,
dubitando di nuovi mali, pensare a nuovi rimedi.
Le quali perturbazioni venendo a notizia a Filippo, o per
giustificarsi, o per tentare gli animi de' Fiorentini, o per
addormentargli, mandò a Firenze ambasciadori, mostrando
maravigliarsi de' sospetti presi e offerendo rinunziare a
qualunque cosa fusse da lui stata fatta, che potesse generare
alcuno sospetto. I quali ambasciadori non feciono altro effetto
che dividere la città, perché una parte e quelli che erano più
reputati nel governo, giudicavano che fusse bene armarsi e
prepararsi a guastare i disegni al nimico; e quando le
preparazioni fussero fatte, e Filippo stesse quieto, non era
mossa la guerra, ma data cagione alla pace: molti altri, o per
invidia di chi governava, o per timore di guerra, giudicavano che
non fusse da insospettire d'uno amico leggiermente; e che le cose
fatte da lui non erano degne di averne tanto sospetto, ma che
sapevono bene che il creare i Dieci, il soldare gente, voleva
dire guerra; la quale se si pigliava con un tanto principe, era
con una certa rovina della città, e sanza poterne sperare alcuno
utile, non potendo noi delli acquisti che si facessero, per avere
la Romagna in mezzo, diventarne signori, e non potendo alle cose
di Romagna, per la vicinità della Chiesa, pensare.
Valse non di meno più l'autorità di quelli che si volevono
preparare alla guerra, che quella di coloro che volevono
ordinarsi alla pace; e creorono i Dieci, soldorono gente e posono
nuove gravezze.
Le quali, perché le aggravavano più i minori che i maggiori
cittadini, empierono la città di rammarichii; e ciascuno dannava
l'ambizione e l'avarizia de' potenti, accusandogli che, per
sfogare gli appetiti loro e opprimere, per dominare, il popolo,
volevono muovere una guerra non necessaria.
5
Non si
era ancora venuto con il Duca a manifesta rottura; ma ogni cosa
era piena di sospetto, perché Filippo aveva, a richiesta del
legato di Bologna, il quale temeva di messer Antonio Bentivogli,
che fuori uscito si trovava a Castel Bolognese, mandate genti in
quella città; le quali, per essere propinque al dominio di
Firenze, tenevono in sospetto lo stato di quella.
Ma quello che fece più spaventare ciascuno, e dette larga
cagione di scoprire la guerra, fu la impresa, che il Duca fece,
di Furlì.
Era signore di Furlì Giorgio Ordelaffi, il quale, venendo a
morte, lasciò Tibaldo suo figliuolo sotto la tutela di Filippo;
e benché la madre, parendogli il tutore sospetto, lo mandasse a
Lodovico Alidosi suo padre, che era signore di Imola, non di meno
fu forzata dal popolo di Furlì, per la osservanza del testamento
del padre, a rimetterlo nelle mani del Duca.
Onde Filippo, per dare meno sospetto di sé, e per meglio celare
lo animo suo, ordinò che il marchese di Ferrara mandasse come
suo procuratore Guido Torello, con gente, a pigliare il governo
di Furlì.
Così venne quella terra in potestà di Filippo.
La qual cosa, come si seppe a Firenze, insieme con la nuova delle
genti venute a Bologna, fece più facile la deliberazione della
guerra non ostante che l'avesse grande contradizione e che
Giovanni de' Medici publicamente la sconfortasse, mostrando che,
quando bene si fusse certo della mala mente del Duca, era meglio
aspettare che ti assaltasse che farsegli incontro con le forze;
perché in questo caso così era giustificata la guerra nel
conspetto de' principi di Italia da la parte del Duca come da la
parte nostra, né si poteva animosamente domandare quelli aiuti
che si potrebbono scoperta che fusse l'ambizione sua, e con altro
animo e con altre forze si difenderebbero le cose sue che quelle
d'altri.
Gli altri dicevano che non era da aspettare il nimico in casa; ma
di andare a trovare lui; e che la fortuna è amica più di chi
assalta che di chi si difende; e con minori danni, quando fusse
con maggiore spesa, si fa la guerra in casa altri che in casa sua.
Tanto che questa opinione prevalse, e si deliberò che i Dieci
facessero ogni rimedio perché la città di Furlì si traesse
delle mani del Duca.
6
Filippo,
vedendo che i Fiorentini volevono occupare quelle cose che egli
aveva prese a difendere, posti da parte i rispetti, mandò Agnolo
della Pergola con gente grossa ad Imola, acciò che quel Signore,
avendo a pensare di difendere il suo, alla tutela del nipote non
pensasse.
Arrivato per tanto Agnolo propinquo ad Imola, sendo ancora le
genti de' Fiorentini a Modigliana, e sendo il freddo grande e per
quello diacciati i fossi della città, una notte, di furto, prese
la terra, e Lodovico ne mandò prigione a Milano. I Fiorentini,
veduta perduta Imola e la guerra scoperta, mandorono le loro
genti a Furlì, le quali posero l'assedio a quella città e da
ogni parte la strignevano.
E perché le genti del Duca non potessero, unite, soccorrerla,
avevono soldato il conte Alberigo il quale da Zagonara, sua terra,
scorreva ciascuno dì infino in su le porte di Imola.
Agnolo della Pergola vedeva di non potere securamente soccorrere
Furlì per il forte alloggiamento che avevano le nostre genti
preso, però pensò di andare alla espugnazione di Zagonara,
giudicando che i Fiorentini non fussero per lasciare perdere quel
luogo; e volendo soccorrere, conveniva loro abbandonare la
impresa di Furlì e venire con disavantaggio alla giornata.
Constrinsono adunque, le genti del Duca, Alberigo a domandare
patti; i quali gli furono concessi, promettendo di dare la terra
qualunque volta infra quindici giorni non fusse da i Fiorentini
soccorso.
Intesesi questo disordine nel campo de' Fiorentini e nella città,
e desiderando ciascuno che i nimici non avessero quella vittoria,
feciono che ne ebbono una maggiore, perché, partito il campo da
Furlì per soccorrere Zagonara, come venne allo scontro de'
nimici fu rotto, non tanto dalla virtù degli avversarii, quanto
dalla malignità del tempo; perché, avendo i nostri camminato
parecchi ore intra il fango altissimo e con l'acqua adosso,
trovorono i nimici freschi, i quali facilmente gli poterono
vincere.
Non di meno in una tanta rotta, celebrata per tutta Italia, non
morì altri che Lodovico degli Obizzi insieme con duoi altri suoi
i quali, cascati da cavallo, affogorono nel fango.
7
Tutta la
città di Firenze, alla nuova di questa rotta, si contristò; ma
più i cittadini grandi, che avevano consigliata la guerra,
perché vedevono il nimico gagliardo, loro disarmati, sanza amici,
e il popolo loro contro.
Il quale per tutte le piazze con parole ingiuriose gli mordeva,
dolendosi delle gravezze sopportate e della guerra mossa sanza
cagione dicendo: - Ora hanno creati costoro i Dieci per dare
terrore al nimico? ora hanno eglino soccorso Furlì e trattolo
delle mani del Duca? Ecco che si sono scoperti i consigli loro, e
a quale fine camminavano: non per difendere la libertà, la quale
è loro nimica, ma per accrescere la potenza propria; la quale
Iddio ha giustamente diminuita.
Né hanno solo con questa impresa aggravata la città, ma con
molte; perché simile a questa fu quella contro al re Ladislao.
A chi ricorreranno eglino ora per aiuto? a papa Martino, stato, a
contemplazione di Braccio, straziato da loro? alla reina Giovanna,
che, per abbandonarla, l'hanno fatta gittare in grembo al re d'Aragona?
- E oltre a di questo dicevono tutte quelle cose che suole dire
uno popolo adirato.
Per tanto parve a' Signori ragunare assai cittadini, i quali, con
buone parole, gli umori mossi dalla moltitudine quietassero.
Donde che messer Rinaldo degli Albizzi, il quale era rimaso primo
figliuolo di messer Maso e aspirava, con le virtù sua e con la
memoria del padre, al primo grado della città, parlò lungamente,
mostrando che non era prudenza giudicare le cose dagli effetti,
perché molte volte le cose bene consigliate hanno non buono fine
e le male consigliate l'hanno buono: e se si lodano i cattivi
consigli per il fine buono, non si fa altro che dare animo agli
uomini di errare; il che torna in danno grande delle republiche,
perché sempre i mali consigli non sono felici: così
medesimamente si errava a biasimare uno savio partito che abbia
fine non lieto, perché si toglieva animo ai cittadini a
consigliare la città e a dire quello che gli intendono.
Poi mostrò la necessità che era di pigliare quella guerra, e
come, se la non si fusse mossa in Romagna, la si sarebbe fatta in
Toscana.
Ma poi che Iddio aveva voluto che le genti fussero state rotte,
la perdita sarebbe più grave quanto più altri si abbandonassi;
ma se si mostrava il viso alla fortuna, e si facevano quelli
rimedi si potevano, né loro sentirebbono la perdita, né il Duca
la vittoria.
E che non doveva sbigottirgli le spese e le gravezze future;
perché queste era ragionevole mutare e quelle sarebbono molte
minori che le passate, perché minori apparati sono necessari a
chi si vuole difendere che non sono a quelli che cercano di
offendere.
Confortògli, in fine, ad imitare i padri loro, i quali, per non
avere perduto lo animo in qualunque caso avverso, s'erano sempre
contro a qualunque principe difesi.
8
Confortati
per tanto i cittadini dalla autorità sua, soldorono il conte
Oddo figliuolo di Braccio, e gli dierono per governatore Niccolò
Piccino, allievo di Braccio e più reputato che alcuno altro che
sotto le insegne di quello avesse militato; e a quello aggiunsono
altri condottieri, e degli spogliati ne rimessono alcuni a
cavallo. Creorono venti cittadini a porre nuova gravezza; i quali,
avendo preso animo per vedere i potenti cittadini sbattuti per la
passata rotta, sanza avere loro alcuno rispetto gli aggravorono.
Questa gravezza offese assai i cittadini grandi; i quali da
principio, per parere più onesti, non si dolevono della gravezza
loro, ma come ingiusta generalmente la biasimavano, e
consigliavano che si dovesse fare uno sgravo.
La qual cosa, cognosciuta da molti, fu loro ne' Consigli impedita:
donde, per fare sentire dalle opere la durezza di quella, e per
farla odiare da molti, operorono che gli esattori con ogni
acerbità la riscotessero, dando autorità loro di potere
ammazzare qualunque contro a' sergenti publici si difendesse.
Di che nacquero molti tristi accidenti, per morte e ferite di
cittadini; onde pareva che le parti venissero al sangue, e
ciascuno prudente dubitava di qualche futuro male, non potendo
gli uomini grandi, usi ad essere riguardati, sopportare di essere
manomessi, e gli altri volendo che ugualmente ciascuno fusse
aggravato.
Molti per tanto de' primi cittadini si ristrignevano insieme, e
concludevono come gli era di necessità ripigliare lo stato;
perché la poca diligenzia loro aveva dato animo agli uomini di
riprendere le azioni publiche e fatto pigliare ardire a quelli
che solieno essere capi della moltitudine.
E avendo discorso queste cose infra loro più volte, deliberorono
di rivedersi ad un tratto insieme tutti, e si ragunorono nella
chiesa di Santo Stefano più di settanta cittadini, con licenza
di messer Lorenzo Ridolfi e di Francesco Gianfigliazzi, i quali
allora sedevano de' Signori.
Con costoro non convenne Giovanni de' Medici; o che non vi fusse
chiamato come sospetto, o che non vi volesse, come contrario alla
opinione loro, intervenire.
9
Parlò a
tutti messer Rinaldo degli Albizzi.
Mostrò le condizioni della città; e come, per negligenzia loro,
ella era tornata nella potestà della plebe, donde nel 1381 era
stata da' loro padri cavata; ricordò la iniquità di quello
stato che regnò da il 78 allo '81; e come da quello a tutti
quelli che erano presenti era stato morto a chi il padre e a chi
l'avolo; e come si ritornava ne' medesimi pericoli, e la città
ne' medesimi disordini ricadeva, perché di già la moltitudine
aveva posto una gravezza a suo modo, e poco di poi, se la non era
da maggiore forza o da migliore ordine ritenuta, la creerebbe i
magistrati secondo lo arbitrio suo; il che quando seguisse,
occuperebbe i luoghi loro, e guasterebbe quello stato che
quarantadue anni con tanta gloria della città aveva retto, e
sarebbe Firenze governata, o a caso, sotto l'arbitrio della
moltitudine, dove per una parte licenziosamente e per l'altra
pericolosamente si viverebbe, o sotto lo imperio di uno che di
quella si facesse principe.
Per tanto affermava come ciascuno che amava la patria e lo onore
suo era necessitato a risentirsi e ricordarsi della virtù di
Bardo Mancini, il quale trasse la città, con la rovina degli
Alberti, di quelli pericoli ne' quali allora era; e come la
cagione di questa audacia presa dalla moltitudine nasceva da'
larghi squittini che per negligenzia loro s'erano fatti, e si era
ripieno il Palagio di uomini nuovi e vili.
Concluse per tanto che solo ci vedeva questo modo a rimediarvi:
rendere lo stato ai Grandi, e torre l'autorità alle Arti minori,
riducendole da quattordici a sette; il che farebbe che la plebe
ne' Consigli arebbe meno autorità, sì per essere diminuito il
numero loro, sì ancora per avere in quelli più autorità i
Grandi, i quali per la vecchia inimicizia gli disfavorirebbero:
affermando essere prudenza sapersi valere degli uomini secondo i
tempi; perché, se i padri loro si valsono della plebe per
spegnere la insolenza de' Grandi, ora che i Grandi erano
diventati umili e la plebe insolente era bene frenare la
insolenzia sua con lo aiuto di quelli: e come a condurre queste
cose ci era lo inganno o la forza, alla quale facilmente si
poteva ricorrere, sendo alcuni di loro del magistrato de' Dieci e
potendo condurre secretamente nella città gente. Fu lodato
messer Rinaldo, e il consiglio suo approvò ciascuno. E Niccolò
da Uzano infra gli altri, disse tutte le cose che da messer
Rinaldo erano state dette essere vere, e i rimedi buoni e certi,
quando si potessero fare sanza venire ad una manifesta divisione
della città, il che seguirebbe in ogni modo, quando non si
tirasse alla voglia loro Giovanni de' Medici: perché,
concorrendo quello, la moltitudine, priva di capo e di forze, non
potrebbe offendere; ma non concorrendo egli, non si potrebbe
sanza arme fare, e con l'arme lo giudicava pericoloso o di non
potere vincere o di non potere godersi la vittoria.
E ridusse modestamente loro a memoria i passati ricordi suoi; e
come e' non avieno voluto rimediare a queste difficultà in
quelli tempi che facilmente si poteva; ma che ora non si era più
a tempo a farlo sanza temere di maggiore danno, e non ci restare
altro rimedio che guadagnarselo.
Fu data per tanto la commissione a messer Rinaldo che fusse con
Giovanni, e vedesse di tirarlo nella sentenza loro.
10
Esequì
il Cavaliere la commissione, e con tutti quelli termini seppe
migliori lo confortò a pigliare questa impresa con loro, e non
volere, per favorire una moltitudine, farla audace con rovina
dello stato e della città.
Al quale Giovanni rispose che l'uffizio d'un savio e buono
cittadino credeva essere non alterare gli ordini consueti della
sua città, non sendo cosa che offenda tanto gli uomini, quanto
il variare quelli; perché conviene offendere molti, e dove molti
restono mal contenti si può ogni giorno temere di qualche
cattivo accidente.
E come gli pareva che questa loro deliberazione facesse due cose
perniziosissime: l'una, di dare gli onori a quelli che, per non
gli avere mai avuti, gli stimano meno e meno cagione hanno, non
gli avendo, di dolersi; l'altra, di torgli a coloro che, sendo
consueti avergli, mai quieterebbero se non gli fussero restituiti:
e così verrebbe ad essere molto maggiore la ingiuria che si
facesse ad una parte che il beneficio che si facesse a l'altra;
tale che chi ne fusse autore si acquisterebbe pochi amici e
moltissimi inimici; e questi sarebbero più feroci ad ingiuriarlo
che quelli a difenderlo, sendo gli uomini naturalmente più
pronti alla vendetta della ingiuria che alla gratitudine del
benifizio, parendo che questa ci arrechi danno, quell'altra utile
e piacere.
Di poi rivolse il parlare a messer Rinaldo, e disse: - E voi, se
vi ricordasse delle cose seguite, e con quali inganni in questa
città si cammina, saresti meno caldo in questa deliberazione;
perché chi la consiglia, tolta che gli avesse, con le forze
vostre, l'autorità al popolo, la torrebbe a voi con lo aiuto di
quello, che vi sarebbe diventato, per questa ingiuria, inimico; e
vi interverrebbe come a messer Benedetto Alberti, il quale
consentì, per le persuasioni di chi non lo amava, alla rovina di
messer Giorgio Scali e di messer Tommaso Strozzi, e poco di poi,
da quelli medesimi che lo persuasono, fu mandato in esilio -.
Confortollo per tanto a pensare più maturamente alle cose, e a
volere imitare suo padre, il quale, per avere la benivolenza
universale, scemò il pregio al sale, provide che chi avesse meno
d'uno mezzo fiorino di gravezza potesse pagarla o no, come gli
paresse, volle che il dì che si ragunavano i Consigli ciascuno
fusse sicuro da' suoi creditori.
E in fine gli concluse che era, per quanto si apparteneva a lui,
per lasciare la città negli ordini suoi.
11
Queste
cose, così praticate, s'intesono fuori, e accrebbono a Giovanni
riputazione e agli altri cittadini odio.
Dalla quale egli si discostava, per dare meno animo a coloro che
disegnassero, sotto i favori suoi, cose nuove; e in ogni suo
parlare faceva intendere a ciascuno che non era per nutrire sette,
ma per spegnerle, e, quanto a lui si aspettava, non cercava altro
che la unione della città: di che molti che seguivano le parti
sue erano mali contenti, perché arebbono voluto che si fusse
nelle cose mostro più vivo.
Intra i quali era Alamanno de' Medici, il quale, sendo di natura
feroce, non cessava di accenderlo a perseguitare i nimici e
favorire gli amici, dannando la sua freddezza e il suo modo di
procedere lento; il che diceva essere cagione che i nimici senza
rispetto gli praticavano contro; le quali pratiche arebbono un
giorno effetto con la rovina della casa e degli amici suoi.
Inanimiva ancora al medesimo Cosimo suo figliuolo.
Non di meno Giovanni, per cosa che gli fusse rivelata o
pronosticata, non si moveva di suo proposito: pure, con tutto
questo, la parte era già scoperta, e la città era in manifesta
divisione.
Erano in Palagio, al servizio de' Signori, duoi cancellieri, ser
Martino e ser Pagolo: questo favoriva la parte da Uzano, quell'altro
la Medica; e messer Rinaldo, veduto come Giovanni non aveva
voluto convenire con loro, pensò che fusse da privare dell'uffizio
suo ser Martino, giudicando di poi avere sempre il Palagio più
favorevole.
Il che presentito dagli avversarii, non solamente fu ser Martino
difeso, ma ser Pagolo privato, con dispiacere e ingiuria della
sua parte.
Il che arebbe fatto subito cattivi effetti, se non fusse la
guerra che soprastava alla città; la quale per la rotta ricevuta
a Zagonara era impaurita, perché, mentre che queste cose in
Firenze così si travagliavano, Agnolo della Pergola, con le
genti del Duca, aveva prese tutte le terre di Romagna possedute
dai Fiorentini, eccetto che Castrocaro e Modigliana, parte per
debolezza de' luoghi, parte per difetto di chi le aveva in
guardia.
Nella occupazione delle quali terre seguirono due cose per le
quali si cognobbe quanto la virtù degli uomini ancora al nimico
è accetta, e quanto la viltà e malignità dispiaccia.
12
Era
castellano nella rocca di Monte Petroso Biagio del Melano.
Costui, sendo affocato intorno dai nimici e non vedendo per la
salute della rocca alcuno scampo, gittò panni e paglia da quella
parte che ancora non ardeva, e di sopra vi gittò duoi suoi
piccoli figliuoli, dicendo a' nimici: - Togliete per voi quelli
beni che mi ha dati la fortuna e che voi mi potete torre: quelli
che io ho dello animo, dove la gloria e l'onore mio consiste, né
io vi darò, né voi mi torrete! - Corsono i nimici a salvare i
fanciulli, e a lui porgevano funi e scale perché si salvasse, ma
quello non le accettò, anzi volle più tosto morire nelle fiamme,
che vivere salvo per le mani degli avversarii della patria sua.
Esemplo veramente degno di quella lodata antichità! e tanto è
più mirabile di quelli quanto è più rado.
Furono a' figliuoli suoi da' nimici restituite quelle cose che si
poterono avere salve, e con massima cura rimandati a' parenti
loro; verso de' quali la republica non fu meno amorevole, perché
mentre vissero furono publicamente sostentati.
Al contrario di questo occorse in Galeata, dove era podestà
Zanobi del Pino; il quale, senza fare difesa alcuna, dette la
rocca al nimico, e di più confortava Agnolo a lasciare l'alpi di
Romagna e venire ne' colli di Toscana, dove poteva fare la guerra
con meno pericolo e maggiore guadagno.
Non potette Agnolo sopportare la viltà e il malvagio animo di
costui, e lo dette in preda a' suoi servidori i quali, dopo molti
scherni, gli davano solamente mangiare carte dipinte a biscie,
dicendo che di guelfo, per quel modo, lo volevono fare diventare
ghibellino; e così stentando, in brievi giorni morì.
13
Il conte
Oddo, in questo mezzo, insieme con Niccolò Piccino, era entrato
in Val di Lamona, per vedere di ridurre il signore di Faenza alla
amicizia de' Fiorentini, o almeno impedire Agnolo della Pergola,
che non scorresse più liberamente per Romagna.
Ma perché quella valle è fortissima e i valligiani armigeri, vi
fu il conte Oddo morto, e Niccolò Piccino ne andò prigione a
Faenza.
Ma la fortuna volle che i Fiorentini ottenessero quello, per
avere perduto che forse avendo vinto non arebbono ottenuto;
perché Niccolò tanto operò con il signore di Faenza e con la
madre, che gli fece amici a' Fiorentini.
Fu, in questo accordo, libero Niccolò Piccino: il quale non
tenne per sé quel consiglio che gli aveva dato ad altri, perché,
praticando con la città della sua condotta o che le condizioni
gli paressero debili, o che le trovasse migliori altrove, quasi
che ex abrupto si partì di Arezzo, dove era alle stanze, e ne
andò in Lombardia, e prese soldo da il Duca.
I Fiorentini, per questo accidente impauriti e dalle spesse
perdite sbigottiti, giudicorono non potere più, soli, sostenere
questa guerra; e mandorono oratori a' Viniziani, a pregarli che
dovessero opporsi, mentre che gli era loro facile, alla grandezza
d'uno che, se lo lasciavano crescere, era così per essere
pernizioso a loro come a' Fiorentini.
Confortavagli alla medesima impresa Francesco Carmignuola, uomo
tenuto in quelli tempi nella guerra eccellentissimo, il quale era
già stato soldato del Duca, ma di poi ribellatosi da quello.
Stavano i Viniziani dubi, per non sapere quanto si potevano
fidare del Carmignuola, dubitando che la inimicizia del Duca e
sua non fusse finta.
E stando così sospesi, nacque che il Duca, per mezzo d'uno
servidore del Carmignuola, lo fece avvelenare; il quale veleno
non fu sì potente che lo ammazzasse, ma lo ridusse allo estremo.
Scoperta la cagione del male, i Viniziani si privorono di quello
sospetto; e seguitando i Fiorentini di sollecitargli, feciono
lega con loro; e ciascuna delle parti si obligò a fare la guerra
a spese comune; e gli acquisti di Lombardia fussero de' Viniziani,
e quelli di Romagna e di Toscana de' Fiorentini; e il Carmignuola
fu capitano generale della lega.
Ridussesi per tanto la guerra mediante questo accordo, in
Lombardia dove fu governata da il Carmignuola virtuosamente, e in
pochi mesi tolse molte terre al Duca, insieme con la città di
Brescia; la quale espugnazione, in quelli tempi e secondo quelle
guerre, fu tenuta mirabile.
14
Era
durata questa guerra da il '22 al 27, ed erano stracchi i
cittadini di Firenze delle gravezze poste infino allora, in modo
che si accordorono a rinnovarle.
E perché le fussero uguali secondo le ricchezze, si provide che
le si ponessero a' beni, e che quello che aveva cento fiorini di
valsente ne avesse un mezzo di gravezza. Avendola pertanto a
distribuire la legge, e non gli uomini, venne ad aggravare assai
i cittadini potenti, e avanti che la si deliberassi era
disfavorita da loro.
Solo Giovanni de' Medici apertamente la lodava; tanto che la si
ottenne.
E perché nel distribuirla si aggregavano i beni di ciascuno, il
che i Fiorentini dicono accatastare, si chiamò questa gravezza
catasto.
Questo modo pose, in parte, regola alla tirannide de' potenti;
perché non potevano battere i minori e fargli con le minacce ne'
Consigli tacere, come potevano prima.
Era adunque questa gravezza dall'universale accettata e da'
potenti con dispiacere grandissimo ricevuta.
Ma come accade che mai gli uomini non si sodisfanno, e avuta una
cosa, non vi si contentando dentro, ne desiderano un'altra, il
popolo, non contento alla ugualità della gravezza che dalla
legge nasceva, domandava che si riandassero i tempi passati, e
che si vedesse quello che i potenti, secondo il catasto, avevano
pagato meno, e si facessero pagare tanto che gli andassero a
ragguaglio di coloro che, per pagare quello che non dovevano,
avevano vendute le loro possessioni.
Questa domanda, molto più che il catasto, spaventò gli uomini
grandi; e per difendersene non cessavano di dannarlo, affermando
quello essere ingiustissimo, per essersi posto ancora sopra i
beni mobili, i quali oggi si posseggono e domani si perdono; e
che sono, oltra di questo, molte persone che hanno danari occulti,
che il catasto non può ritrovare.
A che aggiugnevano che coloro che, per governare la republica,
lasciavano le loro faccende dovevano essere meno carichi da
quella, dovendole bastare che con la persona si affaticassero, e
che non era giusto che la città si godesse la roba e la
industria loro, e degli altri solo i danari.
Gli altri, a chi il catasto piaceva, rispondevano che, se i beni
mobili variano, e possono ancora variare le gravezze, e con il
variarle spesso si può a quello inconveniente rimediare; e di
quelli che hanno danari occulti non era necessario tenere conto,
perché quegli danari che non fruttono non è ragionevole che
paghino, e fruttando conviene che si scuoprino; e se non piaceva
loro durare fatica per la republica, lasciassilla da parte e non
se ne travagliassino, perché la troverrebbe de' cittadini
amorevoli, a' quali non parrebbe difficile aiutarla di danari e
di consiglio; e che sono tanti i commodi e gli onori che si tira
dreto il governo, che doverebbero bastare loro, sanza volere non
participare de' carichi.
Ma il male stava dove e' non dicevano; perché doleva loro non
potere più muovere una guerra sanza loro danno, avendo a
concorrere alle spese come gli altri; e se questo modo si fusse
trovato prima, non si sarebbe fatta la guerra con il re Ladislao,
né ora si farebbe questa con il duca Filippo; le quali si erano
fatte per riempiere i cittadini, e non per necessità.
Questi umori mossi erano quietati da Giovanni de' Medici,
mostrando che non era bene riandare le cose passate, ma sì bene
provedere alle future; e se le gravezze per lo adietro erano
state ingiuste, ringraziare Iddio poi che si era trovato il modo
a farle giuste e volere che questo modo servisse a riunire, non a
dividere la città, come sarebbe quando si ricercasse le imposte
passate, e farle ragguagliare con le presenti; e che chi è
contento di una mezzana vittoria sempre ne farà meglio, perché
quelli che vogliono sopravincere spesso perdono.
E con simili parole quietò questi umori, e fece che del
ragguaglio non si ragionasse.
15
Seguitando
in tanto la guerra con il Duca, si fermò una pace a Ferrara, per
il mezzo d'uno legato del Papa.
Della quale il Duca, nel principio di essa, non osservò le
condizioni, in modo che di nuovo la lega riprese le armi; e
venuto con le genti di quello alle mani, lo ruppe a Maclovio.
Dopo la quale rotta il Duca mosse nuovi ragionamenti d'accordo,
ai quali i Viniziani e i Fiorentini acconsentirono, questi per
essere insospettiti de' Viniziani, parendo loro spendere assai
per fare potenti altri, quelli per avere veduto il Carmignuola,
dopo la rotta data al Duca, andare lento, tanto che non pareva
loro da potere più confidare in quello.
Conclusesi adunque la pace nel 1428; per la quale i Fiorentini
riebbono le terre perdute in Romagna, e a' Viniziani rimase
Brescia, e di più il Duca dette loro Bergamo e il contado.
Spesono in questa guerra i Fiorentini tre milioni e 500 mila
ducati; mediante la quale accrebbero a' Viniziani stato e
grandezza, e a loro povertà e disunione.
Seguita la pace di fuora, ricominciò la guerra dentro.
Non potendo i cittadini grandi sopportare il catasto, e non
vedendo via da spegnerlo, pensorono modi a fargli più nimici,
per avere più compagni ad urtarlo.
Mostrorono adunque agli uffiziali deputati a porlo come la legge
gli costrigneva ad accatastare ancora i beni de' distrettuali,
per vedere se intra quelli vi fussero beni di Fiorentini.
Furono per tanto citati tutti i sudditi a portare, infra certo
tempo, le scritte de' beni loro.
Donde che i Volterrani mandorono alla Signoria a dolersi della
cosa, di modo che gli uffiziali, sdegnati, ne missono diciotto di
loro in prigione.
Questo fatto fece assai sdegnare i Volterrani; pure, avendo
rispetto alli loro prigioni, non si mossono.
16
In questo
tempo Giovanni de' Medici ammalò, e cognoscendo il male suo
mortale, chiamò Cosimo e Lorenzo suoi figliuoli, e disse loro: -
Io credo essere vivuto quel tempo che da Dio e dalla natura mi fu
al mio nascimento consegnato.
Muoio contento, poi che io vi lascio ricchi, sani, e di qualità
che voi potrete, quando voi seguitiate le mie pedate, vivere in
Firenze onorati e con la grazia di ciascuno.
Perché niuna cosa mi fa tanto morire contento, quanto mi
ricordare di non avere mai offeso alcuno, anzi più tosto,
secondo che io ho potuto, benificato ognuno.
Così conforto a fare voi.
Dello stato, se voi volete vivere securi, toglietene quanto ve n'è
dalle leggi e dagli uomini dato; il che non vi recherà mai né
invidia né pericolo, perché quello che l'uomo si toglie, non
quello che all'uomo è dato, ci fa odiare, e sempre ne arete
molto più di coloro che, volendo la parte d'altri, perdono la
loro, e avanti che la perdino vivono in continui affanni.
Con queste arti io ho, intra tanti nimici, intra tanti dispareri,
non solamente mantenuta, ma accresciuta la reputazione mia in
questa città.
Così, quando seguitiate le pedate mie, manterrete e accrescerete
voi.
Ma quando facesse altrimenti, pensate che il fine vostro non ha
ad essere altrimenti felice che si sia stato quello di coloro che,
nella memoria nostra, hanno rovinato sé e destrutta la casa loro
-. Morì poco di poi, e nello universale della città lasciò di
sé uno grandissimo desiderio, secondo che meritavano le sue
ottime qualità.
Fu Giovanni misericordioso; e non solamente dava lemosine a chi
le domandava, ma molte volte al bisogno de' poveri, sanza esser
domandato, soccorreva.
Amava ognuno; i buoni lodava, e de' cattivi aveva compassione.
Non domandò mai onori, ed ebbeli tutti; non andò mai in Palagio,
se non chiamato.
Amava la pace, fuggiva la guerra.
Alle avversità degli uomini suvveniva, le prosperità aiutava.
Era alieno dalle rapine publiche, e del bene commune aumentatore.
Ne' magistrati grazioso; non di molta eloquenzia, ma di prudenza
grandissima. Mostrava nella presenza melanconico; ma era poi
nella conversazione piacevole e faceto.
Morì ricchissimo di tesoro, ma più di buona fama e di
benivolenza.
La cui eredità, così de' beni della fortuna come di quelli
dello animo, fu da Cosimo non solamente mantenuta, ma accresciuta.
17
Erano i
Volterrani stracchi di stare in carcere; e per essere liberi
promissono di consentire a quello era comandato loro.
Liberati adunque, e tornati a Volterra, venne il tempo che i
nuovi loro priori prendevono il magistrato; de' quali fu tratto
uno Giusto, uomo plebeo, ma di credito nella plebe, il quale era
uno di quelli che fu imprigionato a Firenze.
Costui, acceso per se medesimo di odio, per la ingiuria publica e
per la privata, contro a' Fiorentini, fu ancora stimolato da
Giovanni di uomo nobile e che seco sedeva in magistrato, a dovere
muovere il popolo con la autorità de' priori e con la grazia sua,
e trarre la terra delle mani de' Fiorentini, e farne sé principe.
Per il consiglio del quale, Giusto prese le armi, corse la terra,
prese il capitano che vi era pe' Fiorentini, e sé fece, con il
consentimento del popolo, signore di quella.
Questa novità seguita in Volterra dispiacque assai a' Fiorentini;
pure, trovandosi avere fatto pace con il Duca, e freschi in su
gli accordi, giudicorono potere avere tempo a racquistarla; e per
non lo perdere, mandorono subito a quella impresa commissari
messer Rinaldo degli Albizzi e messer Palla Strozzi.
Giusto intanto, che pensava che i Fiorentini lo assalterebbero,
richiese i Sanesi e i Lucchesi di aiuto.
I Sanesi gliene negorono, dicendo essere in lega con i Fiorentini;
e Pagolo Guinigi, che era signore di Lucca, per racquistare la
grazia con il popolo di Firenze, la quale nella guerra del Duca
gli pareva avere perduta per essersi scoperto amico di Filippo,
non solamente negò gli aiuti a Giusto, ma ne mandò prigione a
Firenze quello che era venuto a domandarli.
I commissari intanto, per giugnere i Volterrani sproveduti,
ragunorono insieme tutte le loro genti d'arme, e levorono di
Valdarno di sotto e del contado di Pisa assai fanteria, e ne
andorono verso Volterra.
Né Giusto, per essere abbandonato da' vicini, né per lo assalto
che si vedeva fare da' Fiorentini, si abbandonava; ma rifidatosi
nella fortezza del sito e nella grassezza della terra, si
provedeva alla difesa.
Era in Volterra uno messer Arcolano, fratello di quello Giovanni
che aveva persuaso Giusto a pigliare la signoria, uomo di credito
nella nobilità.
Costui ragunò certi suoi confidenti e mostrò loro come Iddio
aveva, per questo accidente venuto, soccorso alla necessità
della città loro; perché, se gli erano contenti di pigliare le
armi, e privare Giusto della signoria, e rendere la città a'
Fiorentini, ne seguirebbe che resterebbono i primi di quella
terra, e a lei si perserverrebbono gli antichi privilegi suoi.
Rimasi adunque d'accordo della cosa, ne andorono al Palagio, dove
si posava il Signore, e fermisi parte di loro da basso, messer
Arcolano con tre di loro salì in su la sala, e trovato quello
con alcuni cittadini, lo tirò da parte, come se gli volesse
ragionare di alcuna cosa importante; e d'un ragionamento in un
altro, lo condusse in camera, dove egli e quelli che erano seco
con le spade lo assalirono.
Né furono però sì presti che non dessero commodità a Giusto
di porre mano all'arme sua; il quale, prima che lo ammazzassero,
ferì gravemente duoi di loro; ma non potendo alfine resistere a
tanti, fu morto e gittato a terra del Palazzo.
E prese le armi, quelli della parte di messer Arcolano dettono la
città ai commissari fiorentini, che con le genti vi erano
propinqui; i quali, senza fare altri patti, entrorono in quella.
Di che ne seguì che Volterra peggiorò le sue condizioni,
perché, intra le altre cose, le smembrorono la maggiore parte
del contado e ridussollo in vicariato.
18
Perduta
adunque quasi che in un tratto e racquistata Volterra, non si
vedeva cagione di nuova guerra, se l'ambizione degli uomini non
la avesse di nuovo mossa.
Aveva militato assai tempo per la città di Firenze, nelle guerre
del Duca, Niccolò Fortebraccio, nato d'una sirocchia di Braccio
da Perugia.
Costui, venuta la pace, fu da' Fiorentini licenziato, e quando e'
venne il caso di Volterra si trovava ancora alloggiato a
Fucecchio, onde che i commissari, in quella impresa, si valsono
di lui e delle sue genti.
Fu opinione, nel tempo che messer Rinaldo travagliò seco quella
guerra, lo persuadesse a volere, sotto qualche fitta querela,
assaltare i Lucchesi, mostrandogli che, se e' lo faceva,
opererebbe in modo, a Firenze, che la impresa contro a Lucca si
farebbe, ed egli ne sarebbe fatto capo.
Acquistata pertanto Volterra, e tornato Niccolò alle stanze a
Fucecchio, o per le persuasioni di messer Rinaldo, o per sua
propria volontà, di novembre, nel 1429, con trecento cavagli e
trecento fanti, occupò Ruoti e Compito, castella de' Lucchesi;
di poi, sceso nel piano, fece grandissima preda.
Publicata la nuova a Firenze di questo assalto, si fece per tutta
la città circuli di ogni sorte uomini, e la maggiore parte
voleva che si facesse la impresa di Lucca.
De' cittadini grandi, che la favorivano erano quelli della parte
de' Medici, e con loro s'era accostato messer Rinaldo, mosso, o
da giudicare che la fusse impresa utile per la republica, o da
sua propria ambizione, credendo aversi a trovare capo di quella
vittoria; quelli che la disfavorivano erano Niccolò da Uzano e
la parte sua.
E pare cosa da non la credere che sì diverso giudizio nel
muovere guerra fusse in una medesima città, perché quelli
cittadini e quel popolo che, dopo dieci anni di pace, avevono
biasimato la guerra presa contro al duca Filippo per difendere la
sua libertà, ora, dopo tante spese fatte e in tanta afflizione
della città, con ogni efficacia domandassero che si movesse la
guerra a Lucca per occupare la libertà d'altri, e dall'altro
canto quelli che vollono quella biasimavano questa: tanto variano
con il tempo i pareri, e tanto è più pronta la moltitudine ad
occupare quello d'altri che a guardare il suo, e tanto sono mossi
più gli uomini dalla speranza dello acquistare che dal timore
del perdere; perché questo non è, se non da presso, creduto,
quell'altra, ancora che discosto, si spera.
E il popolo di Firenze era ripieno di speranza dagli acquisti che
aveva fatti e faceva Niccolò Fortebraccio, e dalle lettere de'
rettori propinqui a Lucca; perché il vicario di Vico e di Pescia
scrivevono che si dessi loro licenza di ricevere quelle castella
che venivano a darsi loro, perché presto tutto il contado di
Lucca si acquisterebbe.
Aggiunsesi a questo lo ambasciadore mandato dal signore di Lucca
a Firenze, a dolersi degli assalti fatti da Niccolò e a pregare
la Signoria che non volesse muovere guerra a uno suo vicino e ad
una città che sempre gli era stata amica.
Chiamavasi lo ambasciadore messer Iacopo Viviani: costui, poco
tempo innanzi, era stato tenuto prigione da Pagolo per avere
congiuratogli contro; e benché lo avesse trovato in colpa, gli
aveva perdonata la vita, e perché credeva che messer Iacopo gli
avesse perdonata la ingiuria si fidava di lui.
Ma ricordandosi più messer Iacopo del pericolo che del benifizio,
venuto a Firenze, secretamente confortava i cittadini alla
impresa.
I quali conforti, aggiunti all'altre speranze, feciono che la
Signoria ragunò il Consiglio, dove convennono
quattrocentonovantotto cittadini, innanzi a' quali per i
principali della città fu disputata la cosa.
19
Intra i
primi che volevono la impresa, come di sopra dicemmo, era messer
Rinaldo.
Mostrava costui l'utile che si traeva dello acquisto; mostrava la
occasione della impresa, sendo loro lasciata in preda dai
Viniziani e da il Duca, né possendo essere dal Papa, implicato
nelle cose del Regno, impedita.
A questo aggiugneva la facilità dello espugnarla, sendo serva d'un
suo cittadino e avendo perduto quel naturale vigore e quello
antico studio di difendere la sua libertà; in modo che, o dal
popolo per cacciarne il tiranno, o dal tiranno per paura del
popolo, la sarà concessa.
Narrava le ingiurie del signore, fatte alla republica nostra, e
il malvagio animo suo verso di quella; e quanto era pericoloso,
se di nuovo o il Papa o il Duca alla città movesse guerra; e
concludeva che niuna impresa mai fu fatta da il popolo fiorentino
né più facile, né più utile, né più giusta. Contro a questa
opinione, Niccolò da Uzano disse che la città di Firenze non
fece mai impresa più ingiusta, né più pericolosa, né che da
quella dovessero nascere maggiori danni. E prima, che si andava a
ferire una città guelfa, stata sempre amica al popolo fiorentino,
e che nel suo grembo, con suo pericolo, aveva molte volte
ricevuti i Guelfi che non potevono stare nella patria loro.
E che nelle memorie delle cose nostre non si troverrà mai Lucca
libera avere offeso Firenze ma se chi l'aveva fatta serva, come
già Castruccio e ora costui, l'aveva offesa non si poteva
imputare la colpa a lei, ma al tiranno.
E se al tiranno si potesse fare guerra sanza farla a' cittadini,
gli dispiacerebbe meno; ma perché questo non poteva essere, non
poteva anche consentire che una cittadinanza amica fusse
spogliata de' beni suoi.
Ma poi che si viveva oggi in modo che del giusto e dello ingiusto
non si aveva a tenere molto conto, voleva lasciare questa parte
indietro, e pensare solo alla utilità della città.
Credeva per tanto quelle cose potersi chiamare utili che non
potevono arrecare facilmente danno: non sapeva adunque come
alcuno poteva chiamare utile quella impresa dove i danni erano
certi e gli utili dubbi.
I danni certi erano le spese che la si tirava dietro, le quali si
vedevano tante, che le dovevono fare paura ad una città riposata,
non che ad una stracca d'una lunga e grave guerra, come era la
loro; gli utili che se ne potevono trarre erano lo acquisto di
Lucca; i quali confessava essere grandi, ma che gli era da
considerare i dubi che ci erano dentro, i quali a lui parevono
tanti, che giudicava lo acquisto impossibile.
E che non credessero che i Viniziani e Filippo fussero contenti
di questo acquisto; perché quelli solo mostravano consentirlo
per non parere ingrati, avendo poco tempo innanzi, con i danari
de' Fiorentini, preso tanto imperio; quell'altro aveva caro che
in nuova guerra e in nuove spese si implicassero, acciò che,
attriti e stracchi da ogni parte, potesse di poi di nuovo
assaltargli; e come non gli mancherà modo, nel mezzo della
impresa e nella maggiore speranza della vittoria, di soccorrere i
Lucchesi, o copertamente, con danari, o cassare delle sue genti e
come soldati di ventura mandarli in loro aiuto.
Confortava per tanto ad astenersi dalla impresa, e vivere con il
tiranno in modo che se gli facesse, dentro, più inimici si
potesse, perché non ci era più commoda via a subiugarla, che
lasciarla vivere sotto il tiranno e da quello affliggere e
indebolire; per che, governata la cosa prudentemente, quella
città si condurrebbe in termine che il tiranno non la potendo
tenere, ed ella non sapendo né potendo per sé governarsi, di
necessità cadrebbe loro in grembo.
Ma che vedeva gli umori mossi, e le parole sua non essere udite.
Pure voleva pronosticare loro questo: che farebbono una guerra
dove spenderebbono assai, correrebbonvi dentro assai pericoli, e
in cambio di occupare Lucca, la libererebbono dal tiranno, e di
una città amica, subiugata e debole farebbono una città libera,
loro nimica, e, con il tempo, uno ostaculo alla grandezza della
republica loro.
20
Parlato
per tanto che fu per la impresa e contro alla impresa, si venne,
secondo il costume, secretamente a ricercare la volontà degli
uomini; e di tutto il numero, solo novantotto la contradissero.
Fatta per tanto la deliberazione, e creati i Dieci per trattare
la guerra, soldorono gente a piè e a cavallo; deputorono
commissari Astorre Gianni e messer Rinaldo degli Albizzi, e con
Niccolò Fortebraccio di avere da lui le terre aveva prese, e che
seguisse la impresa come soldato nostro, convennono.
I commissari, arrivati con lo esercito nel paese di Lucca,
divisono quello; e Astorre si distese per il piano, verso
Camaiore e Pietrasanta, e messer Rinaldo se ne andò verso i
monti, giudicando che, spogliata la città del suo contado, facil
cosa fusse, di poi, lo espugnarla.
Furono le imprese di costoro infelici, non perché non
acquistassero assai terre, ma per i carichi che furno, nel
maneggio della guerra, dati all'uno e all'altro di loro.
Vero è che Astorre Gianni de' carichi suoi se ne dette evidente
cagione.
È una valle propinqua a Pietrasanta, chiamata Seravezza, ricca e
piena di abitatori, i quali, sentendo la venuta del Commissario,
se gli feciono incontro, e lo pregorono gli accettasse per fedeli
servidori del popolo fiorentino.
Mostrò Astorre di accettare le offerte; di poi fece occupare
alle sue genti tutti i passi e luoghi forti della valle, e fece
ragunare gli uomini nel principale tempio loro; e di poi gli
prese tutti prigioni, e alle sue genti fe' saccheggiare e
destruggere tutto il paese, con esemplo crudele e avaro, non
perdonando a luoghi pii, né a donne, così vergini come maritate.
Queste cose, così come le erano seguite, si seppono a Firenze, e
dispiacquono non solamente a' magistrati, ma a tutta la città.
21
De'
Seravezzesi alcuni, che dalle mani del Commissario s'erano
fuggiti, corsono a Firenze, e per ogni strada e ad ogni uomo
narravano le miserie loro; di modo che, confortati da molti
desiderosi che si punisse il Commissario, o come malvagio uomo, o
come contrario alla fazione loro, ne andorono a' Dieci e
domandorono di essere uditi.
E intromessi, uno di loro parlò in questa sentenza: - Noi siamo
certi, magnifici Signori, che le nostre parole troveranno fede e
compassione appresso le Signorie vostre, quando voi saprete in
che modo occupasse il paese nostro il commissario vostro, e in
quale maniera di poi siamo stati trattati da quello.
La valle nostra, come ne possono essere piene le memorie delle
antiche cose vostre, fu sempremai guelfa, ed è stata molte volte
uno fedele ricetto a' cittadini vostri, che, perseguitati da'
Ghibellini, sono ricorsi in quella.
E sempre gli antichi nostri e noi abbiamo adorato il nome di
questa inclita republica, per essere stata capo e principe di
quella parte; e in mentre che i Lucchesi furono guelfi,
volentieri servimmo allo imperio loro; ma poi che pervennero
sotto il tiranno, il quale ha lasciati gli antichi amici e
seguite le parti ghibelline, più tosto forzati che volontari lo
abbiamo ubbidito; e Dio sa quante volte noi lo abbiamo pregato
che ci desse occasione di dimostrare l'animo nostro verso l'antica
parte.
Quanto sono gli uomini ciechi ne' desiderii loro! Quello che noi
desideravamo per nostra salute è stato la nostra rovina.
Perché, come prima noi sentimmo che le insegne vostre venivano
verso di noi, non come a nimici, ma come agli antichi signori
nostri ci facemmo incontro al commissario vostro, e mettemmo la
valle, le nostre fortune e noi nelle sue mani, e alla sua fede ci
raccomandammo, credendo che in lui fusse animo, se non di
Fiorentino, almeno d'uomo.
Le Signorie vostre ci perdoneranno, perché non potere sopportar
peggio di quello abbiamo sopportato ci dà animo a parlare.
Questo vostro commissario non ha di uomo altro che la presenzia,
né di Fiorentino altro che il nome: una peste mortifera, una
fiera crudele, uno mostro orrendo, quanto mai da alcuno scrittore
fusse figurato; perché, riduttici nel nostro tempio, sotto
colore di volerci parlare, noi fece prigioni, e la valle tutta
rovinò e arse, e gli abitatori e le robe di quella rapì,
spogliò, saccheggiò, batté, ammazzò; stuprò le donne, viziò
le vergini, e trattele delle braccia delle madri, le fece preda
de' suoi soldati. Se noi, per alcuna ingiuria fatta al popolo
fiorentino o a lui, avessimo meritato tanto male, o se armati e
difendendoci ci avessi presi, ci dorremmo meno, anzi accuseremmo
noi, i quali o con le iniurie o con la arroganzia nostra l'avessimo
meritato; ma sendo, disarmati, daticegli liberamente, che di poi
ci abbi rubati, e con tanta ingiuria e ignominia spogliati, siamo
forzati a dolerci.
E quantunque noi avessimo potuto riempiere la Lombardia di
querele, e con carico di questa città spargere per tutta Italia
la fama delle iniurie nostre, non lo aviamo voluto fare, per non
imbrattare una sì onesta e piatosa republica con la disonestà e
crudeltà d'uno suo malvagio cittadino.
Del quale se avanti alla rovina nostra avessimo conosciuto l'avarizia
ci saremmo sforzati il suo ingordo animo, ancora che non abbi né
misura ne fondo, riempiere, e aremmo per quella via, con parte
delle sustanze nostre, salvate l'altre, ma poi che non siamo più
a tempo, abbiamo voluto ricorrere a voi, e pregarvi soccorriate
alla infelicità de' vostri subietti, acciò che gli altri uomini
non si sbigottischino, per lo esemplo nostro, a venire sotto lo
imperio vostro.
E quando non vi muovino gli infiniti mali nostri, vi muova la
paura dell'ira di Dio, il quale ha veduto i suoi templi
saccheggiati e arsi, e il popolo nostro tradito nel grembo suo -.
E detto questo si gittorono in terra, gridando e pregando che
fusse loro renduto la roba e la patria; e facessero restituire (poi
che non si poteva l'onore) almeno le moglie a' mariti, e a' padri
le figliuole. L'atrocità della cosa, saputa prima, e di poi
dalle vive voci di quelli che la avevano sopportata intesa,
commosse il magistrato; e sanza differire si fece tornare Astorre,
e di poi fu condannato e ammunito.
Ricercossi de' beni de' Seravezzesi e quelli che si poterono
trovare si restituirono, degli altri furono dalla città, con il
tempo, in varii modi sodisfatti.
22
Messer
Rinaldo degli Albizzi dall'altra parte era diffamato ch'egli
faceva la guerra non per utilità del popolo fiorentino, ma sua,
e come, poi che fu commissario, gli era fuggito dell'animo la
cupidità del pigliare Lucca, perché gli bastava saccheggiare il
contado e riempire le possessioni sue di bestiame e le case sua
di preda; e come non gli bastavano le prede che da' suoi
satelliti per propria utilità si facevano, che comperava quelle
de' soldati, tale che di commissario era diventato mercatante.
Queste calunnie, pervenute agli orecchi suoi, mossono lo intero e
altiero animo suo più che ad uno grave uomo non si conveniva, e
tanto lo perturborono che, sdegnato contro al magistrato e i
cittadini, sanza aspettare o domandare licenza, se ne tornò a
Firenze.
E presentatosi davanti a' Dieci, disse che sapeva bene quanta
difficultà e pericolo era servire ad un popolo sciolto e ad una
città divisa, perché l'uno ogni romore riempie, l'altra le
cattive opere perseguita, le buone non premia e le dubie accusa;
tanto che vincendo niuno ti loda, errando ognuno ti condanna,
perdendo ognuno ti calunnia, perché la parte amica per invidia,
la nimica per odio ti perseguita; non di meno non aveva mai per
paura d'un carico vano, lasciato di non fare una opera che
facesse uno utile certo alla sua città.
Vero era che la disonestà delle presenti calunnie avevano vinta
la pazienzia sua, e fattogli mutare natura.
Per tanto pregava il magistrato che volesse per lo avvenire
essere più pronto a difendere i suoi cittadini, acciò che
quegli fussero ancora più pronti a operare bene per la patria; e
poi che in Firenze non si usava concedere loro il trionfo, almeno
si usasse dai falsi vituperii difenderli; e si ricordassero che
ancora loro erano di quella città cittadini, e come ad ogni ora
potria essere loro dato qualche carico, per il quale
intenderebbono quanta offesa agli uomini interi le false calunnie
arrechino.
I Dieci, secondo il tempo, s'ingegnorono mitigarlo; e la cura di
quella impresa a Neri di Gino e Alamanno Salviati demandarono.
I quali, lasciato da parte il correre per il contado di Lucca, s'accostorono
con il campo alla terra; e perché ancora era la stagione fredda,
si missono a Capannole; dove a' commissari pareva che si perdesse
tempo; e volendosi strignere più alla terra, i soldati, per il
tempo sinistro, non vi si accordavano, non ostante che i Dieci
sollecitassino lo accamparsi e non accettassino scusa alcuna.
23
Era, in
quelli tempi, in Firenze uno eccellentissimo architettore,
chiamato Filippo di ser Brunellesco, delle opere del quale è
piena la nostra città, tanto che meritò, dopo la morte, che la
sua immagine fusse posta, di marmo, nel principale tempio di
Firenze, con lettere a piè che ancora rendono a chi legge
testimonianza delle sue virtù.
Mostrava costui come Lucca si poteva allagare, considerato il
sito della città e il letto del fiume del Serchio; e tanto lo
persuase, che i Dieci commissono che questa esperienza si facesse.
Di che non ne nacque altro che disordine al campo nostro e
securtà a' nemici; perché i Lucchesi alzorono con uno argine il
terreno verso quella parte che faceno venire il Serchio, e di poi,
una notte, ruppono l'argine di quel fosso per il quale
conducevano le acque, tanto che quelle, trovato il riscontro alto
verso Lucca e l'argine del canale aperto, in modo per tutto il
piano si sparsono, che il campo, non che si potesse appropinquare
alla terra, si ebbe a discostare.
24
Non
riuscita adunque questa impresa, i Dieci che di nuovo presono il
magistrato mandorono commissario messer Giovanni Guicciardini.
Costui, il più presto che possé, si accampò alla terra; donde
che il Signore, vedendosi strignere, per conforto d'uno messer
Antonio del Rosso sanese, il quale in nome del comune di Siena
era apresso di lui, mandò al duca di Milano Salvestro Trenta e
Lionardo Buonvisi.
Costoro per parte del Signore gli chiesono aiuto; e trovandolo
freddo, lo pregorono secretamente che dovesse dare loro genti;
perché gli promettevano per parte del popolo dargli preso il
loro Signore, e apresso la possessione della terra, avvertendolo
che, se non pigliava presto questo partito, il Signore darebbe la
terra a' Fiorentini, i quali con molte promesse lo sollecitavano.
La paura per tanto che il Duca ebbe di questo gli fece porre da
parte i respetti, e ordinò che il conte Francesco Sforza, suo
soldato, gli domandasse publicamente licenza per andare nel Regno.
Il quale, ottenuta quella, se ne venne con la sua compagnia a
Lucca, non ostante che i Fiorentini, sapendo questa pratica e
dubitando di quello avvenne, mandassino al Conte Boccaccino
Alamanni suo amico, per sturbarla.
Venuto per tanto il Conte a Lucca, i Fiorentini si ritirarono con
il campo a Librafatta; e il Conte subito andò a campo a Pescia
dove era vicario Pagolo da Diacceto.
Il quale, consigliato più dalla paura che da alcuno altro
migliore rimedio, si fuggì a Pistoia; e se la terra non fusse
stata difesa da Giovanni Malavolti, che vi era a guardia, si
sarebbe perduta.
Il Conte per tanto, non la avendo potuta nel primo assalto
pigliare, ne andò al Borgo a Buggiano, e lo prese, e Stigliano,
castello a quello propinquo, arse.
I Fiorentini, veggendo questa rovina, ricorsono a quelli rimedi
che molte volte gli avevano salvati, sapiendo come, con i soldati
mercenari, dove le forze non bastavano giovava la corruzione, e
però profersono al Conte danari, e quello, non solamente si
partisse, ma desse loro la terra. Il Conte, parendogli non potere
trarre più danari da Lucca, facilmente si volse a trarne da
quelli che ne avevano; e convenne con i Fiorentini, non di dare
loro Lucca, che per onestà non lo volle consentire, ma di
abbandonarla, quando gli fusse dato cinquantamila ducati.
E fatta questa convenzione, acciò che il popolo di Lucca apresso
al Duca lo scusasse, tenne mano con quello che i Lucchesi
cacciassero il loro Signore.
25
Era in
Lucca, come di sopra dicemmo, messer Antonio del Rosso,
ambasciadore sanese.
Costui, con la autorità del Conte, praticò con i cittadini la
rovina di Pagolo.
Capi della congiura furono Piero Cennami e Giovanni da Chivizzano.
Trovavasi il Conte alloggiato fuora della terra, in sul Serchio,
e con lui era Lanzilao, figliuolo del Signore.
Donde i congiurati, in numero di quaranta, di notte, armati,
andorono a trovare Pagolo; al romore de' quali fattosi incontro
tutto attonito, domandò della cagione della venuta loro.
Al quale Piero Cennami disse come loro erano stati governati da
lui più tempo, e condotti, con i nimici intorno, a morire di
ferro e di fame; e però erano deliberati per lo avvenire, di
volere governare loro.
E gli domandorono le chiavi della città e il tesoro di quella.
A' quali Pagolo rispose che il tesoro era consumato, le chiavi ed
egli erano in loro podestà, e gli pregava di questo solo, che
fussero contenti, così come la sua signoria era cominciata e
vivuta sanza sangue, così sanza sangue finisse.
Fu dal conte Francesco condotto Pagolo e il figliuolo al Duca, i
quali morirono, di poi, in prigione.
La partita del Conte aveva lasciata libera Lucca dal tiranno e i
Fiorentini dal timore delle genti sue, onde che quelli si
preparorono alle difese e quelli altri ritornorono alle offese; e
avevano eletto per capitano il conte di Urbino, il quale,
strignendo forte la terra, constrinse di nuovo i Lucchesi a
ricorrere al Duca; il quale, sotto il medesimo colore aveva
mandato il Conte, mandò in loro aiuto Niccolò Piccino.
A costui, venendo per entrare in Lucca, i nostri si feciono
incontro in sul Serchio; e al passare di quello vennono alla
zuffa, e vi furono rotti; e il Commissario con poche delle nostre
genti si salvò a Pisa.
Questa rotta contristò tutta la nostra città; e perché la
impresa era stata fatta dallo universale, non sapendo i popolani
contro a chi volgersi calunniavano chi l'aveva amministrata poi
che e' non potevono calunniare chi la aveva deliberata, e
risucitorono i carichi dati a messer Rinaldo.
Ma più che alcuno era lacero messer Giovanni Guicciardini,
accusandolo che gli arebbe potuto, dopo la partita del conte
Francesco, ultimare la guerra, ma che gli era stato corrotto con
danari, e come ne aveva mandati a casa una soma, e allegavano chi
gli aveva portati e chi ricevuti.
E andorono tanto alto questi romori e queste accuse, che il
Capitano del popolo, mosso da queste publiche voci, e da quelli
della parte contraria spinto, lo citò. Comparse messer Giovanni
tutto pieno di sdegno; donde i parenti suoi, per onore loro,
operorono tanto che il Capitano abbandonò la impresa.
I Lucchesi, dopo la vittoria, non solamente riebbero le loro
terre, ma occuporono tutte quelle del contado di Pisa, eccetto
Bientina, Calcinaia, Livorno e Librafatta, e se non fusse stata
scoperta una congiura che si era fatta in Pisa, si perdeva anche
quella città.
I Fiorentini riordinorono le loro genti, e feciono loro capitano
Micheletto, allievo di Sforza.
Dall'altra parte il Duca seguitò la vittoria, e per potere con
più forze affliggere i Fiorentini, fece che i Genovesi, Sanesi e
signore di Piombino si collegassero alla difesa di Lucca, e che
soldassero Niccolò Piccino per loro capitano, la qual cosa lo
fece in tutto scoprire.
Donde che i Viniziani e i Fiorentini rinnovorono la lega e la
guerra si cominciò a fare aperta in Lombardia e in Toscana.
E nell'una e nell'altra provincia seguirono, con varia fortuna,
varie zuffe; tanto che, stracco ciascuno, si fece, di maggio, nel
1433, lo accordo infra le parti, per il quale i Fiorentini,
Lucchesi e Sanesi, che avevano nella guerra occupate più
castella l'uno all'altro, le lasciarono tutte, e ciascuno tornò
nella possessione delle sua.
26
Mentre
che questa guerra si travagliava, ribollivano tuttavia i maligni
umori delle parti di dentro; e Cosimo de' Medici, dopo la morte
di Giovanni suo padre, con maggiore animo nelle cose publiche, e
con maggiore studio e più liberalità con gli amici che non
aveva fatto il padre, si governava; in modo che quelli che per la
morte di Giovanni si erano rallegrati, vedendo quale era Cosimo
si contristavano.
Era Cosimo uomo prudentissimo, di grave e grata presenzia, tutto
liberale, tutto umano; né mai tentò alcuna cosa contro alla
Parte né contro allo stato, ma attendeva a benificare ciascuno e,
con la liberalità sua, farsi partigiani assai cittadini.
Di modo che lo esemplo suo accresceva carico a quelli che
governavano, e lui giudicava, per questa via, o vivere in Firenze
potente e securo quanto alcuno altro, o, venendosi per la
ambizione degli avversarii allo straordinario, essere e con le
armi e con i favori superiore.
Grandi strumenti ad ordire la potenza sua furono Averardo de'
Medici e Puccio Pucci: di costoro, Averardo con l'audacia, Puccio
con la prudenzia e sagacità, favori e grandezza gli
sumministravano; ed era tanto stimato il consiglio e il iudicio
di Puccio, e tanto per ciascuno cognosciuto, che la parte di
Cosimo, non da lui, ma da Puccio era nominata.
Da questa così divisa città fu fatta la impresa di Lucca, nella
quale si accesono gli umori delle parti, non che si spegnessero.
E avvenga che la parte di Cosimo fusse quella che l'avesse
favorita, non di meno ne' governi di essa erano mandati assai di
quelli della parte avversa, come uomini più reputati nello stato:
a che non potendo Averardo de' Medici e gli altri rimediare,
attendevono con ogni arte e industria a calunniarli; e se perdita
alcuna nasceva, che ne nacquero molte, era, non la fortuna o la
forza del nimico, ma la poca prudenza del commissario accusata.
Questo fece aggravare i peccati di Astorre Gianni, questo fece
sdegnare messer Rinaldo degli Albizzi e partirsi dalla sua
commissione sanza licenza, questo medesimo fece richiedere dal
Capitano del popolo messer Giovanni Guicciardini; da questo tutti
gli altri carichi che a' magistrati e a' commissari si dettero
nacquero, perché i veri si accrescevano, i non veri si fingevano,
e i veri e i non veri da quel popolo, che ordinariamente gli
odiava, erano creduti.
27
Queste
così fatte cose e modi estraordinari di procedere erano
ottimamente da Niccolò da Uzano e dagli altri capi della Parte
cognosciuti, e molte volte avevano ragionato insieme de' rimedi;
e non ce gli trovavano, perché pareva loro il lasciare crescere
la cosa pericoloso, e il volerla urtare difficile.
E Niccolò da Uzano era il primo al quale non piacevano le vie
straordinarie; onde che, vivendosi con la guerra fuora e con
questi travagli dentro, Niccolò Barbadori, volendo disporre
Niccolò da Uzano ad acconsentire alla rovina di Cosimo, lo andò
a trovare a casa, dove tutto pensoso in uno suo studio dimorava,
e lo confortò con quelle ragioni seppe addurre migliori a volere
convenire con messer Rinaldo a cacciare Cosimo.
Al quale Niccolò da Uzano rispose in questa sentenza: - E' si
farebbe per te, per la tua casa e per la nostra republica, che tu
e gli altri che ti seguono in questa opinione avessero più tosto
la barba d'ariento che d'oro, come si dice che hai tu, perché i
loro consigli, procedendo da capo canuto e pieno di esperienza,
sarebbero più savi e più utili a ciascheduno.
E' mi pare che coloro che pensono di cacciare Cosimo da Firenze
abbino, prima che ogni cosa, a misurare le forze loro e quelle di
Cosimo.
Questa nostra parte voi l'avete battezzata la Parte de' nobili, e
la contraria quella della plebe: quando la verità correspondesse
al nome, sarebbe in ogni accidente la vittoria dubia, e più
tosto doverremmo temere noi che sperare, mossi dallo esemplo
delle antiche nobilità di questa città, le quali dalla plebe
sono state spente.
Ma noi abbiamo molto più da temere, sendo la nostra parte
smembrata e quella degli avversarii intera.
La prima cosa, Neri di Gino e Nerone di Nigi, duoi de' primi
cittadini nostri, non si sono mai dichiarati in modo che si possa
dire che sieno più amici nostri che loro.
Sonci assai famiglie, anzi assai case, divise; perché molti, per
invidia de' frategli o de' congiunti, disfavoriscono noi, e
favoriscono loro. Io te ne voglio ricordare alcuno de' più
importanti: gli altri considererai tu per te medesimo.
De' figliuoli di messer Maso degli Albizzi, Luca, per invidia di
messer Rinaldo, si è gittato dalla parte loro; in casa e
Guicciardini, de' figliuoli di messer Luigi, Piero è nimico a
messer Giovanni, e favorisce gli avversarii nostri; Tommaso e
Niccolò Soderini apertamente, per lo odio portono a Francesco
loro zio, ci fanno contro.
In modo che, se si considera bene quali sono loro e quali siamo
noi, io non so perché più si merita di essere chiamata la parte
nostra nobile che la loro.
E se fusse perché loro sono seguitati da tutta la plebe, noi
siamo per questo, in peggiore condizione, e loro in migliore; e
in tanto che, se si viene alle armi o a' partiti, noi non siamo
per potere resistere.
E se noi stiamo ancora nella dignità nostra, nasce dalla
reputazione antica di questo stato, la quale si ha per cinquanta
anni conservata; ma come e' si venisse alla pruova, e che e' si
scoprisse la debolezza nostra, noi ce la perderemmo.
E se tu dicessi che la giusta cagione che ci muove accrescerebbe
a noi credito e a loro lo torrebbe, ti rispondo che questa
giustizia conviene che sia intesa e creduta da altri come da noi;
il che è tutto il contrario; perché la cagione che ci muove è
tutta fondata in sul sospetto che non si faccia principe di
questa città: se questo sospetto noi lo abbiamo, non lo hanno
gli altri; anzi, che è peggio, accusono noi di quello che noi
accusiamo lui.
L'opere di Cosimo che ce lo fanno sospetto sono: perché gli
serve de' suoi danari ciascuno, e non solamente i privati ma il
publico, e non solo i Fiorentini ma i condottieri; perché
favorisce quello e quell'altro cittadino che ha bisogno de'
magistrati; perché e' tira, con la benivolenzia che gli ha nello
universale, questo e quell'altro suo amico a maggiori gradi di
onori.
Adunque converrebbe addurre le cagioni del cacciarlo, perché gli
è piatoso, oficioso, liberale e amato da ciascuno.
Dimmi un poco: quale legge è quella che proibisca o che biasimi
e danni negli uomini la pietà, la liberalità, lo amore? E
benché sieno modi tutti che tirino gli uomini volando al
principato, non di meno e' non sono creduti così, né noi siamo
sufficienti a darli ad intendere, perché i modi nostri ci hanno
tolta la fede, e la città, che naturalmente è partigiana e, per
essere sempre vivuta in parte, corrotta, non può prestare gli
orecchi a simili accuse.
Ma poniamo che vi riuscisse il cacciarlo, che potrebbe, avendo
una Signoria propizia riuscire facilmente: come potresti voi mai,
intra tanti suoi amici che ci rimarrebbono e arderebbono del
desiderio della tornata sua, obviare che non ci ritornasse?
Questo sarebbe impossibile, perché mai, sendo tanti e avendo la
benivolenzia universale, non ve ne potresti assicurare; e quanti
più de' primi suoi scoperti amici cacciasse tanti più nimici vi
faresti in modo che dopo poco tempo e' ci ritornerebbe; e ne
aresti guadagnato questo, che voi lo aresti cacciato buono, e
tornerebbeci cattivo; perché la natura sua sarebbe corrotta da
quelli che lo revocassero, a' quali sendo obligato non si
potrebbe opporre.
E se voi disegnassi di farlo morire, non mai per via de'
magistrati vi riuscirà, perché i danari suoi, gli animi vostri
corruttibili, sempre lo salveranno. Ma poniamo che muoia, o
cacciato non torni: io non veggo che acquisto ci facci dentro la
nostra republica; perché, se la si libera da Cosimo, la si fa
serva a messer Rinaldo; e io, per me, sono uno di quelli che
desidero che niuno cittadino di potenza e di autorità superi l'altro;
ma quando alcuno di questi duoi avesse a prevalere, io non so
quale cagione mi facesse amare più messer Rinaldo che Cosimo.
Né ti voglio dire altro, se non che Dio guardi questa città che
alcuno suo cittadino ne diventi principe; ma quando pure i
peccati nostri lo meritassero, la guardi di avere ad ubbidire a
lui.
Non volere dunque consigliare che si pigli uno partito che da
ogni parte sia dannoso; né credere, accompagnato da pochi,
potere opporti alla voglia di molti: perché tutti questi
cittadini, parte per ignoranza, parte per malizia, sono a vendere
questa republica apparecchiati; ed è in tanto la fortuna loro
amica, ch'eglino hanno trovato il comperatore.
Governati per tanto per il mio consiglio: attendi a vivere
modestamente; e arai, quanto alla libertà, così a sospetto
quelli della parte nostra, come quelli della avversa, e quando
travaglio alcuno nasca, vivendo neutrale, sarai a ciascuno grato;
e così gioverai a te, e non nocerai alla tua patria.
28
Queste
parole raffrenorono alquanto lo animo del Barbadoro, in modo che
le cose stettono quiete quanto durò la guerra di Lucca; ma
seguita la pace, e con quella la morte di Niccolò da Uzano,
rimase la città sanza guerra e sanza freno.
Donde che sanza alcuno rispetto crebbono i malvagi umori; e
messer Rinaldo, parendogli essere rimaso solo principe della
Parte, non cessava di pregare e infestare tutti i cittadini i
quali credeva potessero essere gonfalonieri, che si armassero a
liberare la patria di quello uomo che di necessità, per la
malignità di pochi e per la ignoranza di molti, la conduceva in
servitù.
Questi modi tenuti da messer Rinaldo, e quelli di coloro che
favorivano la parte avversa, tenevano la città piena di sospetto;
e qualunque volta si creava uno magistrato, si diceva
publicamente quanti dell'una e quanti dell'altra parte vi
sedevano; e nella tratta de' Signori stava tutta la città
sollevata.
Ogni caso che veniva davanti a' magistrati, ancora che minimo, si
riduceva fra loro in gara; i secreti si publicavano; così il
bene come il male si favoriva e disfavoriva; i buoni come i
cattivi ugualmente erano lacerati; niuno magistrato faceva l'ufizio
suo.
Stando adunque Firenze in questa confusione, e messer Rinaldo in
quella voglia di abbassare la potenza di Cosimo, e sapendo come
Bernardo Guadagni poteva essere gonfaloniere, pagò le sue
gravezze, acciò che il debito publico non gli togliesse quel
grado.
Venutosi di poi alla tratta de' Signori, fece la fortuna, amica
alle discordie nostre, che Bernardo fu tratto gonfalonieri per
sedere il settembre e l'ottobre.
Il quale messer Rinaldo andò subito a vicitare, e gli disse
quanto la parte de' nobili e qualunque desiderava bene vivere si
era rallegrato per essere lui pervenuto a quella dignità; e che
a lui si apparteneva operare in modo che non si fussero
rallegrati invano.
Mostrogli di poi i pericoli che nella disunione si correvono, e
come non era altro rimedio alla unione, che spegnere Cosimo;
perché solo quello, per i favori che da le immoderate sue
ricchezze nascevano, gli teneva infermi; e che si era condotto
tanto alto che, se e' non vi si provedeva, ne diventerebbe
principe; e come ad uno buono cittadino s'apparteneva rimediarvi,
chiamare il popolo in Piazza, ripigliare lo stato, per rendere
alla patria la sua libertà.
Ricordogli che messer Salvestro de' Medici potette ingiustamente
frenare la grandezza de' Guelfi, a' quali, per il sangue dai loro
antichi sparso, si apparteneva il governo; e che quello ch'egli
fare contro a tanti ingiustamente potette, potrebbe bene fare
esso, giustamente, contro ad uno solo.
Confortollo a non temere, perché gli amici con le armi sarebbono
presti per aiutarlo; e della plebe che lo adorava non tenessi
conto, perché non trarrebbe Cosimo da lei altri favori che si
traessi già messer Giorgio Scali; né delle sue ricchezze
dubitasse, perché quando fia in podestà de' Signori, le saranno
loro, e conclusegli che questo fatto farebbe la republica secura
e unita, e lui glorioso.
Alle quali parole Bernardo rispose brevemente, come giudicava
cosa necessaria fare quanto egli diceva; e perché il tempo era
da spenderlo in operare, attendessi a prepararsi con le forze,
per essere presto, persuaso che gli avesse i compagni.
Preso che ebbe Bernardo il magistrato, disposti i compagni e
convenuto con messer Rinaldo, citò Cosimo, il quale, ancora che
ne fusse da molti amici sconfortato comparì, confidatosi più
nella innocenzia sua che nella misericordia de' Signori.
Come Cosimo fu in Palagio, e sostenuto, messer Rinaldo con molti
armati uscì di casa, e apresso a quello tutta la Parte, e ne
vennono in Piazza, dove i Signori feciono chiamare il popolo, e
creorono dugento uomini di balia per riformare lo stato della
città.
Nella quale balia, come prima si potette, si trattò della
riforma, e della vita e della morte di Cosimo.
Molti volevono che fusse mandato in esilio; molti morto; molti
altri tacevano, o per compassione di lui o per paura di loro.
I quali dispareri non lasciavano concludere alcuna cosa.
29
È nella
torre del Palagio uno luogo, tanto grande quanto patisce lo
spazio di quella, chiamato l'Alberghettino; nel quale fu
rinchiuso Cosimo, e dato in guardia a Federigo Malavolti.
Dal quale luogo sentendo Cosimo fare il parlamento, e il romore
delle armi che in Piazza si faceva, e il sonare spesso a balia,
stava con sospetto della sua vita; ma più ancora temeva che
estraordinariamente i particulari nimici lo facessero morire.
Per questo si asteneva dal cibo tanto che, in quattro giorni, non
aveva voluto mangiare altro che un poco di pane.
Della qual cosa accorgendosi Federigo, gli disse: - Tu dubiti,
Cosimo di non essere avvelenato; e fai te morire di fame, e poco
onore a me, credendo che io volessi tenere le mani ad una simile
scelleratezza.
Io non credo che tu abbia a perdere la vita: tanti amici hai in
Palagio e fuori; ma quando pure avessi a perderla, vivi securo
che piglieranno altri modi che usare me per ministro a tortela,
perché io non voglio bruttarmi le mani nel sangue di alcuno e
massime del tuo, che non mi offendesti mai.
Sta' per tanto di buona voglia prendi il cibo, e mantienti vivo
agli amici e alla patria.
E perché con maggiore fidanza possa farlo, io voglio delle cose
tue medesime mangiare teco -.
Queste parole tutto confortorono Cosimo; e con le lagrime agli
occhi abbracciò e baciò Federigo, e con vive ed efficaci parole
ringraziò quello di sì piatoso e amorevole officio, offerendo
essernegli gratissimo, se mai dalla fortuna gliene fusse data
occasione.
Sendo adunque Cosimo alquanto riconfortato, e disputandosi il
caso suo intra i cittadini, occorse che Federigo, per darli
piacere, condusse a cena seco uno familiare del Gonfaloniere,
chiamato il Farganaccio, uomo sollazzevole e faceto.
E avendo quasi che cenato, Cosimo, che pensò valersi della
venuta di costui, perché benissimo lo cognosceva, accennò
Federigo che si partisse.
Il quale, intendendo la cagione, finse di andare per cose che
mancassero a fornire la cena; e lasciati quelli soli, Cosimo,
dopo alquante amorevoli parole usate al Farganaccio, gli dette
uno contrasegno, e gli impose che andasse allo Spedalingo di
Santa Maria Nuova per mille cento ducati: cento ne prendesse per
sé, e mille ne portasse al Gonfaloniere; e pregasse quello che,
presa onesta occasione, gli venisse a parlare.
Accettò costui la commissione: i denari furono pagati; donde
Bernardo ne diventò più umano: e ne seguì che Cosimo fu
confinato a Padova, contro alla voglia di messer Rinaldo, che lo
voleva spegnere.
Fu ancora confinato Averardo e molti della casa de' Medici; e con
quelli, Puccio e Giovanni Pucci.
E per sbigottire quelli che erano male contenti dello esilio di
Cosimo, dettono balia agli Otto di guardia e al Capitano del
popolo.
Dopo le quali deliberazioni, Cosimo, a' dì 3 di ottobre, nel
1433, venne davanti a' Signori, da' quali gli fu denunziato il
confine, confortandolo allo ubbidire, quando e' non volesse che
più aspramente contro a' suoi beni e contro a lui si procedesse.
Accettò Cosimo con vista allegra il confine, affermando che
dovunque quella Signoria lo mandasse era per stare volentieri.
Pregava bene che, poi gli aveva conservata la vita, gliene
difendesse; perché sentiva essere in Piazza molti che
desideravano il sangue suo.
Offerse di poi, in qualunque luogo dove fusse, alla città, al
popolo e a Loro Signorie sé e le sustanze sue.
Fu da il Gonfalonieri confortato, e tanto ritenuto in Palagio che
venisse la notte.
Di poi lo condusse in casa sua, e fattolo cenare seco, da molti
armati lo fece accompagnare a' confini. Fu, dovunque passò,
ricevuto Cosimo onorevolmente, e da' Viniziani publicamente
vicitato, e non come sbandito, ma come posto in supremo grado,
onorato.
30
Rimasa
Firenze vedova d'uno tanto cittadino e tanto universalmente amato,
era ciascuno sbigottito; e parimente quelli che avevano vinto e
quelli che erano vinti temevano.
Donde che messer Rinaldo, dubitando del suo futuro male, per non
mancare a sé e alla Parte, ragunati molti cittadini amici, disse
a quelli che vedeva apparecchiata la rovina loro, per essersi
lasciati vincere da' prieghi, dalle lagrime e da' danari de' loro
nimici.
E non si accorgevono che poco di poi aranno a pregare e piagnere
eglino, e che i loro prieghi non saranno uditi, e delle loro
lagrime non troverranno chi abbia compassione: e de' danari presi
restituiranno il capitale e pagheranno l'usura con tormenti,
morte ed esili.
E che gli era molto meglio essersi stati, che avere lasciato
Cosimo in vita e gli amici suoi in Firenze; perché gli uomini
grandi o e' non si hanno a toccare o, tocchi, a spegnere.
Né ci vedeva altro rimedio che farsi forti nella città, acciò
che, risentendosi e nimici, che si risentirieno presto, si
potesse cacciarli con le armi, poi che con i modi civili non se
ne erano potuti mandare.
E che il rimedio era quello che molto tempo innanzi aveva
ricordato: di riguadagnarsi i Grandi, rendendo e concedendo loro
tutti gli onori della città, e farsi forte con questa parte, poi
che i loro avversarii si erano fatti forti con la plebe.
E come, per questo, la parte loro sarebbe più gagliarda, quanto
in quella sarebbe più vita, più virtù, più animo e più
credito; affermando che, se questo ultimo e vero rimedio non si
pigliava, non vedeva con quale altro modo si potesse conservare
uno stato infra tanti nimici, e cognosceva una propinqua rovina
della parte loro e della città.
A che Mariotto Baldovinetti, uno de' ragunati, si oppose,
mostrando la superbia de' Grandi e la natura loro insopportabile;
e che non era da ricorrere sotto una certa tirannide loro, per
fuggire i dubi pericoli della plebe.
Donde che messer Rinaldo, veduto il suo consiglio non essere
udito, si dolfe della sua sventura e di quella della sua parte,
imputando ogni cosa più a' cieli, che volevono così, che alla
ignoranza e cecità degli uomini.
Standosi la cosa adunque in questa maniera, sanza fare alcuna
necessaria provisione, fu trovata una lettera scritta da messer
Agnolo Acciaiuoli a Cosimo, la quale gli mostrava la disposizione
della città verso di lui, e lo confortava a fare che si movesse
qualche guerra, e a farsi amico Neri di Gino; perché giudicava,
come la città avesse bisogno di danari, non si troverebbe chi la
servisse, e verrebbe la memoria sua a rinfrescarsi ne' cittadini
e il desiderio di farlo ritornare, e se Neri si smembrasse da
messer Rinaldo, quella parte indebolirebbe tanto che la non
sarebbe sufficiente a defendersi.
Questa lettera, venuta nelle mani de' magistrati, fu cagione che
messer Agnolo fusse preso, collato e mandato in esilio. Né per
tale esemplo si frenò in alcuna parte l'umore che favoriva
Cosimo.
Era di già girato quasi che l'anno dal dì che Cosimo era stato
cacciato, e venendo il fine di agosto 1434, fu tratto
gonfalonieri per i duoi mesi futuri Niccolò di Cocco, e con
quello otto Signori tutti partigiani di Cosimo; di modo che tale
Signoria spaventò messer Rinaldo e tutta la sua parte.
E perché avanti che i Signori prendino il magistrato eglino
stanno tre giorni privati, messer Rinaldo fu di nuovo con i capi
della parte sua; e mostrò loro il certo e propinquo periculo e
che il rimedio era pigliare le armi e fare che Donato Velluti, il
quale allora sedeva gonfalonieri, ragunasse il popolo in Piazza,
facesse nuova balia, privasse i nuovi Signori del magistrato, e
se ne creasse de' nuovi, a proposito dello stato, e si ardessero
le borse e con nuovi squittini, si riempiessero di amici.
Questo partito da molti era giudicato sicuro e necessario, da
molti altri troppo violento e da tirarsi dreto troppo carico.
E intra quelli a chi e' dispiacque fu messer Palla Strozzi, il
quale era uomo quieto, gentile e umano, e più tosto atto agli
studi delle lettere che a frenare una parte e opporsi alle civili
discordie.
E però disse che i partiti o astuti o audaci paiono nel
principio buoni, ma riescono poi nel trattargli difficili, e nel
finirgli dannosi; e che credeva che il timore delle nuove guerre
di fuori, sendo le genti del Duca in Romagna sopra i confini
nostri, farebbe che i Signori penserebbero più a quelle che alle
discordie di dentro; pure, quando si vedesse che volessero
alterare (il che non potevono fare che non si intendesse) sempre
si sarebbe a tempo a pigliare le armi ed esequire quanto paresse
necessario per la salute comune; il che faccendosi per necessità,
seguirebbe con meno ammirazione del popolo e meno carico loro.
Fu per tanto concluso che si lasciassero entrare i nuovi Signori
e che si vigilassero i loro andamenti, e quando si sentisse cosa
alcuna contro alla Parte, ciascuno pigliasse l'armi e convenisse
alla piazza di San Pulinari luogo propinquo al Palagio, donde
potrebbero poi condursi dove paresse loro necessario.
31
Partiti
con questa conclusione, i Signori nuovi entrarono in magistrato;
e il Gonfaloniere, per darsi reputazione e per sbigottire quelli
che disegnassero opporsegli, condannò Donato Velluti suo
antecessore, alle carcere, come uomo che si fusse valuto de'
danari publici.
Dopo questo, tentò i compagni per fare ritornare Cosimo; e
trovatigli disposti, ne parlava con quelli che della parte de'
Medici giudicava capi: da' quali sendo riscaldato, citò messer
Rinaldo, Ridolfo Peruzzi e Niccolò Barbadoro, come principali
della parte avversa.
Dopo la quale citazione, pensò messer Rinaldo che non fusse da
ritardare più, e uscì fuora di casa con gran numero di armati:
con il quale si congiunse subito Ridolfo Peruzzi e Niccolò
Barbadoro.
Fra costoro erano di molti altri cittadini, e assai soldati che
in Firenze sanza soldo si trovavano, e tutti si fermorono secondo
la convenzione fatta, alla piazza di San Pulinari.
Messer Palla Strozzi ancora che gli avesse ragunate assai genti,
non uscì fuora, il simile fece messer Giovanni Guicciardini:
donde che messer Rinaldo mandò a sollecitargli, e a riprendergli
della loro tardità.
Messer Giovanni rispose che faceva assai guerra alla parte nimica,
se teneva, con lo starsi in casa, che Piero suo fratello non
uscisse fuora a soccorrere il Palagio; messer Palla, dopo molte
ambasciate fattegli, venne a San Pulinari a cavallo, con duoi a
piè, e disarmato.
Al quale messer Rinaldo si fece incontra, e forte lo riprese
della sua negligenzia; e che il non convenire con gli altri
nasceva o da poca fede o da poco animo; e l'uno e l'altro di
questi carichi doveva fuggire uno uomo che volesse essere tenuto
di quella sorte era tenuto egli.
E se credeva, per non fare suo debito contro alla Parte, che gli
nimici suoi, vincendo, gli perdonassero o la vita o lo esilio, se
ne ingannava.
E quanto si aspettava a lui, venendo alcuna cosa sinistra, ci
arebbe questo contento, di non essere mancato innanzi al pericolo
con il consiglio, e in sul pericolo con la forza; ma a lui e agli
altri si raddoppierieno i dispiaceri, pensando di avere tradita
la patria loro tre volte: l'una quando salvorono Cosimo; l'altra
quando non presono i suoi consigli; la terza allora, di non la
soccorrere con le armi.
Alle quali parole messer Palla non rispose cosa che da'
circustanti fusse intesa; ma, mormorando, volse il cavallo, e
tornossene a casa.
I Signori, sentendo messer Rinaldo e la sua parte avere prese le
armi, e vedendosi abbandonati, fatto serrare il Palagio, privi di
consiglio, non sapevano che farsi.
Ma soprastando messer Rinaldo a venire in Piazza, per aspettare
quelle forze che non vennono, tolse a sé l'occasione del vincere,
e dette animo a loro a provedersi, e a molti cittadini di andare
a quelli e confortargli a volere usare termini che si posassero
le armi.
Andorono adunque alcuni meno sospetti, da parte de' Signori, a
messer Rinaldo; e dissono che la Signoria non sapeva la cagione
perché questi moti si facessero, e che non aveva mai pensato di
offenderlo; e se si era ragionato di Cosimo, non si era pensato a
rimetterlo; e se questa era la cagione del sospetto, che gli
assicurerebbero; e che fussino contenti venire in Palagio; e che
sarebbono bene veduti e compiaciuti d'ogni loro domanda.
Queste parole non feciono mutare di proposito messer Rinaldo; ma
diceva volere assicurarsi con il fargli privati, e di poi a
benificio di ciascuno si riordinasse la città.
Ma sempre occorre che dove le autorità sono pari e i pareri
sieno diversi, vi si risolve rade volte alcuna cosa in bene.
Ridolfo Peruzzi, mosso dalle parole di quelli cittadini, disse
che per lui non si cercava altro se non che Cosimo non tornasse,
e avendo questo d'accordo, gli pareva assai vittoria; né voleva,
per averla maggiore, riempiere la sua città di sangue; e però
voleva ubbidire alla Signoria. E con le sue genti ne andò in
Palagio, dove fu lietamente ricevuto.
Il fermarsi adunque messer Rinaldo a San Pulinari, il poco animo
di messer Palla e la partita di Ridolfo avevano tolto a messer
Rinaldo la vittoria della impresa; ed erano cominciati gli animi
de' cittadini che lo seguivano a mancare di quella prima caldezza.
A che si aggiunse l'autorità del Papa.
32
Trovavasi
papa Eugenio in Firenze, stato cacciato da Roma da il popolo.
Il quale, sentendo questi tumulti, e parendogli suo uficio il
quietargli, mandò messer Giovanni Vitelleschi patriarca,
amicissimo di messer Rinaldo, a pregarlo che venisse a lui;
perché non gli mancherebbe, con la Signoria, né autorità né
fede a farlo contento e securo, sanza sangue e danno de'
cittadini. Persuaso per tanto messer Rinaldo dallo amico, con
tutti quegli che armati lo seguivano, ne andò a Santa Maria
Novella, dove il Papa dimorava.
Al quale Eugenio fece intendere la fede che i Signori gli avevano
data, e rimesso in lui ogni differenza; e che si ordinerebbono le
cose, quando e' posasse l'armi, come a quello paresse.
Messer Rinaldo, avendo veduto la freddezza di messer Palla e la
leggerezza di Ridolfo Peruzzi, scarso di migliore partito, si
rimisse nelle braccia sua, pensando pure che la autorità del
Papa lo avesse a perservare.
Onde che il Papa fece significare a Niccolò Barbadoro e agli
altri che fuori lo aspettavano, che andassero a posare l'armi,
perché messer Rinaldo rimaneva con il Pontefice per trattare lo
accordo con i Signori.
Alla quale voce ciascuno si risolvé e si disarmò.
33
I Signori,
vedendo disarmati gli avversarii loro, attesono a praticare lo
accordo per mezzo del Papa: e dall'altra parte mandorono
secretamente nella montagna di Pistoia per fanterie; e quelle,
con tutte le loro genti d'arme, feciono venire, di notte, in
Firenze; e presi i luoghi forti della città, chiamorono il
popolo in Piazza, e creorono nuova balia.
La quale, come prima si ragunò, restituì Cosimo alla patria e
gli altri che erano con quello stati confinati; e della parte
nimica confinò messer Rinaldo degli Albizzi, Ridolfo Peruzzi,
Niccolò Barbadori e messer Palla Strozzi, con molti altri
cittadini; e in tanta quantità che poche terre in Italia
rimasero, dove non ne fusse mandati in esilio, e molte fuora di
Italia ne furono ripiene, tale che Firenze, per simile accidente,
non solamente si privò di uomini da bene, ma di ricchezze e di
industria.
Il Papa, vedendo tanta rovina sopra di coloro i quali per i suoi
prieghi avieno posate l'armi, ne restò malissimo contento; e con
messer Rinaldo si dolfe della ingiuria fattagli sotto la sua fede;
e lo confortò a pazienzia, e a sperare bene per la varietà
della fortuna.
Al quale messer Rinaldo rispose: - La poca fede che coloro che mi
dovevono credere mi hanno prestata, e la troppa che io ho
prestata a Voi, ha me e la mia parte rovinata, ma io più di me
stesso che di alcuno mi dolgo, poi che io credetti che Voi, che
eri stato cacciato della patria vostra, potessi tenere me nella
mia.
De' giuochi della fortuna io ne ho assai buona esperienza; e come
io ho poco confidato nelle prosperità, così le avversità meno
mi offendono; e so che, quando le piacerà, la mi si potrà
mostrare più lieta; ma quando mai non le piaccia, io stimerò
sempre poco vivere in una città dove possino meno le leggi che
gli uomini; perché quella patria è desiderabile nella quale le
sustanze e gli amici si possono securamente godere, non quella
dove ti possino essere quelle tolte facilmente, e gli amici, per
paura di loro propri, nelle tue maggiori necessità ti
abbandonono.
E sempre agli uomini savi e buoni fu meno grave udire i mali
della patria loro, che vederli; e cosa più gloriosa reputano
essere uno onorevole ribello, che uno stiavo cittadino -.
E partito dal Papa pieno di sdegno, seco medesimo spesso i suoi
consigli e la freddezza degli amici reprendendo, se ne andò in
esilio.
Cosimo, dall'altra parte, avendo notizia della sua restituzione,
tornò in Firenze.
E rade volte occorse che uno cittadino, tornando trionfante d'una
vittoria, fusse ricevuto dalla sua patria con tanto concorso di
popolo e con tanta dimostrazione di benivolenzia, con quanta fu
ricevuto egli tornando dallo esilio.
E da ciascuno voluntariamente fu salutato benefattore del popolo
e padre della patria.
LIBRO QUINTO
1
Sogliono
le provincie, il più delle volte, nel variare che le fanno, dall'ordine
venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine all'ordine
trapassare; perché, non essendo dalla natura conceduto alle
mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima
perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino; e
similmente, scese che le sono, e per li disordini ad ultima
bassezza pervenute, di necessità, non potendo più scendere,
conviene che salghino, e così sempre da il bene si scende al
male, e da il male si sale al bene.
Perché la virtù partorisce quiete la quiete ozio, l'ozio
disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l'ordine,
dall'ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna.
Onde si è da i prudenti osservato come le lettere vengono drieto
alle armi, e che nelle provincie e nelle città prima i capitani
che i filosofi nascono.
Perché avendo le buone e ordinate armi partorito vittorie, e le
vittorie quiete, non si può la fortezza degli armati animi con
il più onesto ozio che con quello delle lettere corrompere; né
può l'ozio con il maggiore e più pericoloso inganno che con
questo nelle città bene institute entrare.
Il che fu da Catone, quando in Roma Diogene e Carneade filosofi,
mandati da Atene oratori al Senato, vennono, ottimamente
cognosciuto; il quale, veggendo come la gioventù romana
cominciava con ammirazione a seguitarli, e cognoscendo il male
che da quello onesto ozio alla sua patria ne poteva risultare,
provide che niuno filosofo potesse essere in Roma ricevuto.
Vengono per tanto le provincie per questi mezzi alla rovina; dove
pervenute, e gli uomini per le battiture diventati savi,
ritornono, come è detto, all'ordine, se già da una forza
estraordinaria non rimangono suffocati.
Queste cagioni feciono, prima mediante gli antichi Toscani, di
poi i Romani, ora felice ora misera la Italia.
E avvenga che di poi sopra le romane rovine non si sia edificato
cosa che l'abbia in modo da quelle ricomperata, che sotto uno
virtuoso principato abbia potuto gloriosamente operare, non di
meno surse tanta virtù in alcuna delle nuove città e de nuovi
imperii i quali tra le romane rovine nacquono, che, sebbene uno
non dominasse agli altri, erano non di meno in modo insieme
concordi e ordinati che da' barbari la liberorono e difesero.
Intra i quali imperii i Fiorentini, se gli erano di minore
dominio, non erano di autorità né di potenza minori; anzi, per
essere posti in mezzo alla Italia, ricchi e presti alle offese, o
eglino felicemente una guerra loro mossa sostenevono, o ei davono
la vittoria a quello con il quale e' s'accostavano.
Dalla virtù adunque di questi nuovi principati, se non nacquono
tempi che fussero per lunga pace quieti, non furono anche per la
asprezza della guerra pericolosi; perché pace non si può
affermare che sia dove spesso i principati con le armi l'uno l'altro
si assaltano; guerre ancora non si possono chiamare quelle nelle
quali gli uomini non si ammazzano, le città non si saccheggiano,
i principati non si destruggono: perché quelle guerre in tanta
debolezza vennono, che le si cominciavano sanza paura,
trattavansi sanza pericolo, e finivonsi sanza danno.
Tanto che quella virtù che per una lunga pace si soleva nelle
altre provincie spegnere fu dalla viltà di quelle in Italia
spenta, come chiaramente si potrà cognoscere per quello che da
noi sarà da il 1434 al '94 descritto dove si vedrà come alla
fine si aperse di nuovo la via a' barbari e riposesi la Italia
nella servitù di quelli.
E se le cose fatte dai principi nostri fuori e in casa, non fieno,
come quelle degli antichi, con ammirazione per la loro virtù e
grandezza lette, fieno forse per le altre loro qualità, con non
minore ammirazione considerate, vedendo come tanti nobilissimi
popoli da sì deboli e male amministrate armi fussino tenuti in
freno.
E se, nel descrivere le cose seguite in questo guasto mondo, non
si narrerà o fortezza di soldati, o virtù di capitano, o amore
verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni, con
quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i capi delle
repubbliche, per mantenersi quella reputazione che non avevono
meritata, si governavano.
Il che sarà forse non meno utile che si sieno le antiche cose a
cognoscere, perché, se quelle i liberali animi a seguitarle
accendono, queste a fuggirle e spegnerle gli accenderanno.
2
Era la
Italia da quelli che la comandavano in tale termine condotta, che,
quando per la concordia de' principi nasceva una pace, poco di
poi da quelli che tenevano le armi in mano era perturbata: e
così per la guerra non acquistavano gloria né per la pace
quiete.
Fatta per tanto la pace intra il duca di Milano e la lega, l'anno
1433, i soldati, volendo stare in su la guerra si volsono contro
alla Chiesa. Erano allora due sette di armi in Italia, Braccesca
e Sforzesca: di questa era capo il conte Francesco figliuolo di
Sforza, dell'altra era principe Niccolò Piccino e Niccolò
Fortebraccio: a queste sette quasi tutte le altre armi italiane
si accostavano.
Di queste la Sforzesca era in maggiore pregio, sì per la virtù
del Conte, sì per la promessa gli aveva il duca di Milano fatta
di madonna Bianca sua naturale figliuola; la speranza del quale
parentado reputazione grandissima gli arrecava.
Assaltorono adunque queste sette di armati, dopo la pace di
Lombardia per diverse cagioni, papa Eugenio: Niccolò
Fortebraccio era mosso dall'antica nimicizia che Braccio avea
sempre tenuta con la Chiesa; il Conte per ambizione si moveva;
tanto che Niccolò assalì Roma e il Conte si insignorì della
Marca.
Donde i Romani, per non volere la guerra, cacciorono Eugenio di
Roma.
Il quale, con pericolo e difficultà fuggendo, se ne venne a
Firenze, dove considerato il pericolo nel quale era, e vedendosi
da' principi abbandonato, i quali per cagione sua non volevono
ripigliare quelle armi ch'eglino avieno con massimo desiderio
posate, si accordò con il Conte, e gli concesse la signoria
della Marca, ancor che il Conte alla ingiuria dello averla
occupata vi avesse aggiunto il dispregio, perché, nel segnare in
luogo dove scriveva a' suoi agenti le lettere, con parole latine,
secondo il costume italiano, diceva: Ex Girfalco nostro Firmiamo,
invito Petro et Paulo.
Né fu contento alla concessione delle terre ché volle essere
creato gonfaloniere della Chiesa, e tutto gli fu acconsentito:
tanto più temé Eugenio una pericolosa guerra che una vituperosa
pace.
Diventato per tanto il Conte amico del Papa perseguitò Niccolò
Fortebraccio, e intra loro seguirono, nelle terre della Chiesa
per molti mesi, varii accidenti, i quali tutti più a danno del
Papa e de' suoi sudditi, che di chi maneggiava la guerra
seguivono; tanto che fra loro, mediante il duca di Milano, si
concluse, per via di triegua, uno accordo, dove l'uno e l'altro
di essi nelle terre della Chiesa principi rimasono.
3
Questa
guerra, spenta a Roma, fu da Batista da Canneto in Romagna
raccesa. Ammazzò costui in Bologna, alcuni della famiglia de'
Grifoni, e il governatore per il Papa con altri suoi nimici
cacciò della città; e per tenere con violenza quello stato,
ricorse per aiuti a Filippo; e il Papa, per vendicarsi della
ingiuria, gli domandò a' Viniziani e a' Fiorentini.
Furono l'uno e l'altro di costoro suvvenuti, tanto che subito si
trovorono in Romagna duoi grossi eserciti.
Di Filippo era capitano Niccolò Piccino; le genti viniziane e
fiorentine da Gattamelata e da Niccolò da Tolentino erano
governate; e propinque a Imola vennono a giornata; nella quale i
Viniziani e Fiorentini furono rotti, e Niccolò da Tolentino
mandato prigione al Duca; il quale, o per fraude di quello, o per
dolore del ricevuto danno, in pochi giorni morì. Il Duca, dopo
questa vittoria, o per essere debole per le passate guerre, o per
credere che la lega, avuta questa rotta, posasse, non seguì
altrimenti la fortuna, e dette tempo al Papa e i collegati di
nuovo ad unirsi.
I quali elessono per loro capitano il conte Francesco, e feciono
impresa di cacciare Niccolò Fortebraccio delle terre della
Chiesa, per vedere se potevono ultimare quella guerra che in
favore del Pontefice avevono cominciata.
I Romani, come e' viddono il Papa gagliardo in su e campi,
cercorono di aver seco accordo; e trovoronlo, e riceverono un suo
commissario.
Possedeva Niccolò Fortebraccio, intra le altre terre, Tiboli,
Montefiasconi, Città di Castello e Ascesi.
In questa terra, non potendo Niccolò stare in campagna, s'era
rifuggito, dove il Conte lo assediò, e andando la obsidione in
lunga, perché Niccolò virilmente si difendeva, parve al Duca
necessario o impedire alla lega quella vittoria, o ordinarsi,
dopo quella, a difendere le cose sua.
Volendo per tanto divertire il Conte dallo assedio, comandò a
Niccolò Piccino che per la via di Romagna passasse in Toscana;
in modo che la lega, giudicando essere più necessario difendere
la Toscana che occupare Ascesi, ordinò al Conte proibissi a
Niccolò il passo; il quale era di già, con lo esercito suo, a
Furlì. Il Conte dall'altra parte mosse con le sue genti e ne
venne a Cesena, avendo lasciato a Lione suo fratello la guerra
della Marca e la cura degli stati suoi.
E mentre che Piccinino cercava di passare, e il Conte di
impedirlo, Niccolò Fortebraccio assaltò Lione, e con grande sua
gloria prese quello, e le sue genti saccheggiò; e seguitando la
vittoria, occupò, con il medesimo impeto, molte terre della
Marca.
Questo fatto contristò assai il Conte, pensando essere perduti
tutti gli stati suoi, e lasciato parte dello esercito allo
incontro di Piccinino, con il restante ne andò alla volta del
Fortebraccio, e quello combatté e vinse; nella qual rotta
Fortebraccio rimase prigione e ferito; della quale ferita morì.
Questa vittoria restituì al Pontefice tutte le terre che da
Niccolò Fortebraccio gli erano state tolte, e ridusse il duca di
Milano a domandare pace, la quale per il mezzo di Niccolò da
Esti marchese di Ferrara si concluse.
Nella quale le terre occupate in Romagna dal Duca si restituirono
alla Chiesa, e le genti del Duca si ritornorono in Lombardia, e
Battista da Canneto, come interviene a tutti quelli che per forze
e virtù d'altri si mantengono in uno stato, partite che furono
le genti del Duca di Romagna, non potendo le forze e virtù sue
tenerlo in Bologna, se ne fuggì; dove messer Antonio Bentivoglio,
capo della parte avversa, ritornò.
4
Tutte
queste cose nel tempo dello esilio di Cosimo seguirono.
Dopo la cui tornata quelli che lo avevono rimesso e tanti
cittadini ingiuriati pensorono, senza alcuno rispetto, di
assicurarsi dello stato loro.
E la Signoria la quale nel magistrato il novembre e decembre
succedette, non contenta a quello che da' suoi antecessori in
favore della parte era stato fatto, prolungò e permutò i
confini a molti, e di nuovo molti altri ne confinò; e ai
cittadini non tanto l'umore delle parti noceva, ma le ricchezze,
i parenti, le nimicizie private.
E se questa proscrizione da il sangue fusse stata accompagnata,
arebbe a quella d'Ottaviano e Silla renduto similitudine; ancora
che in qualche parte nel sangue s'intignesse, perché Antonio di
Bernardo Guadagni fu decapitato, e quattro altri cittadini, intra
i quali fu Zanobi Belfrategli e Cosimo Barbadori, avendo passati
i confini, e trovandosi a Vinegia, i Viniziani, stimando più l'amicizia
di Cosimo che l'onore loro, gli mandorono prigioni, dove furono
vilmente morti.
La qual cosa dette grande reputazione alla parte e grandissimo
terrore a' nimici, considerato che sì potente republica vendesse
la libertà sua a' Fiorentini, il che si credette avesse fatto,
non tanto per benificare Cosimo, quanto per accendere più le
parti in Firenze, e fare, mediante il sangue, la divisione della
città nostra più pericolosa; perché i Viniziani non vedevano
altra opposizione alla loro grandezza, che la unione di quella.
Spogliata adunque la città de' nimici o sospetti allo stato, si
volsono a benificare nuove genti, per fare più gagliarda la
parte loro: e la famiglia degli Alberti, e qualunque altro si
trovava ribelle, alla patria restituirono; tutti i Grandi,
eccetto pochissimi, nello ordine populare ridussono; le
possessioni de' rebelli intra loro per piccolo prezzo divisono.
Apresso a questo, con leggi e nuovi ordini si affortificorono, e
feciono nuovi squittini, traendo delle borse i nimici e
riempiendole di amici loro.
E ammuniti dalla rovina degli avversarii, giudicando che non
bastassino gli squittini scelti a tenere fermo lo stato loro,
pensorono che i magistrati i quali del sangue hanno autorità
fussino sempre de' principi della setta loro; e però vollono che
gli accoppiatori preposti alla imborsazione de' nuovi squittini,
insieme con la Signoria vecchia, avessero autorità di creare la
nuova; dettono agli Otto di guardia autorità sopra il sangue;
providdono che i confinati, fornito il tempo, non potessero
tornare, se prima dei Signori e Collegi, che sono in numero
trentasette, non se ne accordava trentaquattro alla loro
restituzione; lo scrivere loro e da quelli ricevere lettere
proibirono; e ogni parola, ogni cenno, ogni usanza che a quelli
che governavano fusse in alcuna parte dispiaciuta era
gravissimamente punita.
E se in Firenze rimase alcuno sospetto, il quale da queste offese
non fusse stato aggiunto, fu dalle gravezze che di nuovo
ordinorono afflitto; e in poco tempo, avendo cacciata e
impoverita tutta la parte nimica, dello stato loro si
assicurorono.
E per non mancare di aiuti di fuori, e per torgli a quelli che
disegnassero offenderli, con il Papa, Viniziani e duca di Milano
a difensione degli stati si collegorono.
5
Stando
adunque in questa forma le cose di Firenze, morì Giovanna reina
di Napoli, e per suo testamento lasciò Rinieri d'Angiò erede
del Regno.
Trovavasi allora Alfonso re di Ragona in Sicilia, il quale, per l'amicizia
aveva con molti baroni, si preparava ad occupare quel regno.
I Napoletani e molti baroni favorivano Rinieri, il Papa dall'altra
parte non voleva né che Rinieri né che Alfonso lo occupasse, ma
desiderava che per uno suo governatore si amministrasse.
Venne per tanto Alfonso nel Regno, e fu da il duca di Sessa
ricevuto; dove condusse al suo soldo alcuni principi, con animo (avendo
Capua, la quale il principe di Taranto in nome di Alfonso
possedeva) di costrignere i Napoletani a fare la sua volontà, e
mandò l'armata sua ad assalire Gaeta, la quale per li Napoletani
si teneva; per la qual cosa i Napoletani domandorono aiuto a
Filippo.
Persuase costui i Genovesi a prendere quella impresa; i quali,
non solo per sodisfare al Duca, loro principe, ma per salvare le
loro mercanzie che in Napoli e in Gaeta avevono, armorono una
potente armata.
Alfonso dall'altra parte, sentendo questo, ringrossò la sua, e
in persona andò allo incontro de' Genovesi; e sopra l'isola di
Ponzio venuti alla zuffa, l'armata aragonese fu rotta, e Alfonso,
insieme con molti principi, preso e dato da' Genovesi nelle mani
di Filippo.
Questa vittoria sbigottì tutti i principi che in Italia temevono
la potenza di Filippo, perché giudicavano avesse grandissima
occasione di insignorirsi del tutto.
Ma egli (tanto sono diverse le opinioni degli uomini) prese
partito al tutto a questa opinione contrario.
Era Alfonso uomo prudente, e, come prima poté parlare a Filippo,
gli dimostrò quanto ei s'ingannava a favorire Rinieri e
disfavorire lui, perché Rinieri, diventato re di Napoli, aveva a
fare ogni sforzo perché Milano diventassi del re di Francia, per
avere gli aiuti propinqui e non avere a cercare ne' suoi bisogni,
che gli fusse aperta la via a suoi soccorsi; né poteva
altrimenti di questo assicurarsi, se non con la sua rovina,
facendo diventare quello stato franzese.
E che al contrario interverrebbe quando esso ne diventassi
principe; perché, non temendo altro nimico che i Franzesi, era
necessitato amare e carezzare e, non che altro, ubbidire a colui
che a suoi nimici poteva aprire la via; e per questo il titolo
del Regno verrebbe ad essere appresso ad Alfonso, ma l'autorità
e la potenza appresso di Filippo.
Sì che molto più a lui che a sé apparteneva considerare i
pericoli dell'uno partito e l'utilità dell'altro, se già e' non
volesse più tosto sodisfare ad uno suo appetito, che assicurarsi
dello stato; perché nell'uno caso e' sarebbe principe e libero,
nell'altro, sendo in mezzo di duoi potentissimi principi, o ei
perderebbe lo stato, o e' viverebbe sempre in sospetto, e come
servo arebbe ad ubbidire a quelli.
Poterono tanto queste parole nell'animo del Duca, che, mutato
proposito, liberò Alfonso, e onorevolmente lo rimandò a Genova,
e di quindi nel Regno.
Il quale si transferì in Gaeta, la quale, subito che s'intese la
sua liberazione, era stata occupata da alcuni signori suoi
partigiani.
6
I
Genovesi, veggendo come il Duca, sanza avere loro rispetto, aveva
liberato il Re, e che quello de' pericoli e delle spese loro si
era onorato, e come a lui rimaneva il grado della liberazione e a
loro la ingiuria della cattura e della rotta, tutti si sdegnorono
contro a quello.
Nella città di Genova, quando la vive nella sua libertà, si
crea per liberi suffragi uno capo, il quale chiamano Doge non
perché sia assoluto principe, né perché egli solo deliberi, ma
come capo preponga quello che dai magistrati e consigli loro si
debba deliberare.
Ha quella città molte nobili famiglie, le quali sono tanto
potenti che difficilmente allo imperio de' magistrati ubbidiscono.
Di tutte l'altre, la Fregosa e la Adorna sono potentissime: da
queste nascono le divisioni di quella città, e che gli ordini
civili si guastono; perché, combattendo intra loro, non
civilmente, ma il più delle volte con le armi, questo principato,
ne segue che sempre è una parte afflitta e l'altra regge; e
alcuna volta occorre che quelli che si truovano privi delle loro
dignità, alle armi forestiere ricorrono, e quella patria che
loro governare non possono allo imperio d'uno forestiero
sottomettono.
Di qui nasceva e nasce che quelli che in Lombardia regnono, il
più delle volte a Genova comandono, come allora, quando Alfonso
d'Aragona fu preso, interveniva.
E tra i primi Genovesi che erano stati cagione di sottometterla a
Filippo era stato Francesco Spinula; il quale, non molto poi che
gli ebbe fatta la sua patria serva, come in simili casi sempre
interviene, diventò sospetto al Duca.
Onde che egli, sdegnato, si aveva eletto quasi che uno esilio
voluntario a Gaeta; dove trovandosi quando e' seguì la zuffa
navale con Alfonso, ed essendosi portato ne' servizi di quella
impresa virtuosamente, gli parve avere di nuovo meritato tanto
con il Duca, che potessi almeno, in premio de' suoi meriti, stare
securamente a Genova.
Ma veduto che il Duca seguitava ne' sospetti suoi, perché egli
non poteva credere che quello che non aveva amato la libertà
della sua patria amasse lui, deliberò di tentare di nuovo la
fortuna, e ad uno tratto rendere la libertà alla patria, e a sé
la fama e la securtà, giudicando non avere con i suoi cittadini
altro rimedio se non fare opera che donde era nata la ferita
nascessi la medicina e la salute.
E vedendo la indegnazione universale nata contro al Duca per la
liberazione del Re, giudicò che il tempo fusse commodo a mandare
ad effetto i disegni suoi; e comunicò questo suo consiglio con
alquanti i quali sapeva erano della medesima opinione, e gli
confortò e dispose a seguirlo.
7
Era
venuto il celebre giorno di Santo Giovanni Batista, nel quale
Arismino, nuovo governatore mandato da il Duca, entrava in Genova;
ed essendo già entrato dentro, accompagnato da Opicino vecchio
governatore e da molti Genovesi, non parve a Francesco Spinola di
differire, e uscì di casa armato insieme con quelli che della
sua deliberazione erano consapevoli; e come e' fu sopra alla
piazza posta davanti alle sue case, gridò il nome della libertà.
Fu cosa mirabile a vedere con quanta prestezza quel popolo e
quelli cittadini a questo nome concorressino; tale che niuno il
quale, o per sua utilità o per qualunque altra cagione, amasse
il Duca, non solamente non ebbe spazio a pigliare le armi, ma
appena si potette consigliare della fuga.
Arismino, con alcuni Genovesi che erano seco, nella rocca, che
per il Duca si guardava, si rifuggì; Opicino, presumendo potere,
se si rifuggiva in Palagio, dove dumila armati a sua ubbidienza
aveva, o salvarsi o dare animo agli amici a defendersi, voltosi a
quello cammino, prima che in piazza arrivasse fu morto, e, in
molte parti diviso, fu per tutta Genova strascinato. E ridutta i
Genovesi la città sotto i liberi magistrati, in pochi giorni il
castello e gli altri luoghi forti posseduti da il Duca occuporono,
e al tutto da il giogo del duca Filippo si liberorono.
8
Queste
cose così governate, dove nel principio avieno sbigottiti i
principi di Italia, temendo che il Duca non diventasse troppo
potente, dettono loro vedendo il fine che ebbono, speranza di
potere tenerlo in freno, e non ostante la lega di nuovo fatta, i
Fiorentini e i Viniziani con i Genovesi si accordorono.
Onde che messer Rinaldo degli Albizzi e gli altri capi de' fuori
usciti fiorentini vedendo le cose perturbate, e il mondo avere
mutato viso, presono speranza di potere indurre il Duca ad una
manifesta guerra contro a Firenze; e andatine a Milano, messer
Rinaldo parlò al Duca in questa sentenza: - Se noi, già tuoi
nimici, vegniamo ora confidentemente a supplicare gli aiuti tuoi
per ritornare nella patria nostra, né tu né alcuno altro che
considera le umane cose come le procedono, e quanto la fortuna
sia varia, se ne debbe maravigliare; non ostante che delle
passate e delle presenti azioni nostre, e teco, per quello che
già facemmo, e con la patria, per quello che ora facciamo,
possiamo avere manifeste e ragionevoli scuse.
Niuno uomo buono riprenderà mai alcuno che cerchi di difendere
la patria sua, in qualunque modo se la difenda. Né fu mai il
fine nostro di iniuriarti, ma sì bene di guardare la patria
nostra dalle ingiurie: di che te ne può essere testimone che,
nel corso delle maggiori vittorie della lega nostra, quando noi
ti cognoscemmo volto ad una vera pace, fummo più desiderosi di
quella che tu medesimo: tanto che noi non dubitiamo di avere mai
fatto cosa da dubitare di non potere da te qualunque grazia
ottenere.
Né anche la patria nostra si può dolere che noi ti confortiamo
ora a pigliare quelle armi contro a di lei, dalle quali con tanta
ostinazione la difendemmo; perché quella patria merita di essere
da tutti i cittadini amata la quale ugualmente tutti i suoi
cittadini ama, non quella che, posposti tutti gli altri,
pochissimi ne adora.
Né sia alcuno che danni le armi in qualunque modo contro alla
patria mosse, perché le città ancora che sieno corpi misti,
hanno con i corpi semplici somiglianza, e come in questi nascono
molte volte infirmità che sanza il fuoco o il ferro non si
possono sanare, così in quelle molte volte surge tanti
inconvenienti che uno pio e buono cittadino, ancora che il ferro
vi fusse necessario, peccherebbe molto più a lasciarle incurate
che a curarle.
Quale adunque puote essere malattia maggiore ad uno corpo d'una
republica che la servitù? quale medicina è più da usare
necessaria che quella che da questa infirmità la sullevi? Sono
solamente quelle guerre giuste che sono necessarie, e quelle armi
sono pietose dove non è alcuna speranza fuora di quelle.
Io non so quale necessità sia maggiore che la nostra, o quale
pietà possa superare quella che tragga la patria sua di servitù:
è certissimo per tanto la causa nostra essere piatosa e giusta;
il che debbe essere e da noi e da te considerato.
Né per la parte tua questa giustizia manca; perché i Fiorentini
non si sono vergognati, dopo una pace con tanta solennità
celebrata, essersi con i Genovesi tuoi ribelli conlegati: tanto
che, se la causa nostra non ti muove, ti muova lo sdegno.
E tanto più veggendo la impresa facile: perché non ti debbono
sbigottire i passati esempli, dove tu hai veduto la potenza di
quel popolo e la ostinazione alla difesa; le quali due cose ti
doverrebbono ragionevolmente ancora fare temere, quando le
fussino di quella medesima virtù che allora: ma ora tutto il
contrario troverrai: perché quale potenza vuoi tu che sia in una
città che abbia da sé nuovamente scacciato la maggiore parte
delle sue ricchezze e della sua industria? quale ostinazione vuoi
tu che sia in uno popolo per sì varie e nuove nimicizie disunito?
La quale disunione è cagione che ancora quelle ricchezze che vi
sono rimase non si possono, in quel modo che allora si potevono,
spendere; perché gli uomini volentieri consumono il loro
patrimonio, quando ei veggono per la gloria, per l'onore e stato
loro proprio consumarlo, sperando quello bene racquistare nella
pace, che la guerra loro toglie, non quando ugualmente, nella
guerra e nella pace, si veggono opprimere, avendo nell'una a
sopportare la ingiuria degli nimici, nell'altra la insolenzia di
coloro che gli comandano.
E ai popoli nuoce molto più l'avarizia de' suoi cittadini che la
rapacità degli nimici; perché di questa si spera qualche volta
vedere il fine, dell'altra non mai.
Tu movevi adunque le armi, nelle passate guerre, contro a tutta
una città, ora contro ad una minima parte di essa le muovi;
venivi per torre lo stato a molti cittadini e buoni, ora vieni
per torlo a pochi e tristi; venivi per torre la libertà ad una
città, ora vieni per rendergliene.
E non è ragionevole che, in tanta disparità di cagioni, ne
seguino pari effetti; anzi è da sperarne una certa vittoria.
La quale di quanta fortezza sia allo stato tuo facilmente lo puoi
giudicare, avendo la Toscana amica e per tale e tanto obligo
obligata, della quale più nelle imprese tue ti varrai che di
Milano, e dove altra volta quello acquisto sarebbe stato
giudicato ambizioso e violento, al presente sarà giusto e
pietoso existimato.
Non lasciare per tanto passare questa occasione, e pensa che se
le altre tue imprese contro a quella città ti partorirono, con
difficultà, spesa e infamia, questa ti abbia, con facilità,
utile grandissimo e fama onestissima a parturire.
9
Non erano
necessarie molte parole a persuadere al Duca che movesse guerra a'
Fiorentini, perché era mosso da uno ereditario odio e una cieca
ambizione, la quale così gli comandava; e tanto più sendo
spinto dalle nuove ingiurie, per lo accordo fatto con i Genovesi.
Non di meno le passate spese, i corsi pericoli, con la memoria
delle fresche perdite, e le vane speranze de' fuori usciti lo
sbigottivano.
Aveva questo Duca, subito che gl'intese la ribellione di Genova,
mandato Niccolò Piccino, con tutte le sue genti d'arme e quelli
fanti che potette del paese ragunare, verso quella città, per
fare forza di recuperarla prima che i cittadini avessino fermo lo
animo e ordinato il nuovo governo, confidandosi assai nel
castello, che dentro, in Genova, per lui si guardava.
E benché Niccolò cacciassi i Genovesi d'in su e monti e
togliessi loro la valle di Pozeveri, dove si erano fatti forti, e
quegli avessi ripinti dentro alle mura della città, non di meno
trovò tanta difficultà nel passare più avanti, per gli
ostinati animi de' cittadini a difendersi, che fu constretto da
quella discostarsi.
Onde il Duca, alle persuasioni degli usciti fiorentini, gli
comandò che assalisse la Riviera di levante, e facessi,
propinquo a' confini di Pisa, quanta maggiore guerra nel paese
genovese poteva, pensando che quella impresa gli avesse a
mostrare di tempo in tempo i partiti che dovessi prendere.
Assaltò adunque Niccolò Serezana, e quella prese.
Di poi, fatti di molti danni, per fare più insospettire i
Fiorentini, se ne venne a Lucca dando voce di volere passare, per
ire nel Regno, agli aiuti del re di Raona.
Papa Eugenio, in su questi nuovi accidenti, partì di Firenze, e
ne andò a Bologna; dove trattava nuovi accordi infra il Duca e
la lega, mostrando al Duca che, quando e' non consentisse allo
accordo, sarebbe di concedere alla lega il conte Francesco
necessitato, il quale allora suo confederato, sotto gli stipendi
suoi militava.
E benché il Pontefice in questo si affaticasse assai, non di
meno invano tutte le sue fatiche riuscirono; perché il Duca
sanza Genova non voleva accordarsi, e la lega voleva che Genova
restasse libera.
E per ciò ciascheduno, diffidandosi della pace, si preparava
alla guerra.
10
Venuto
per tanto Niccolò Piccino a Lucca, i Fiorentini di nuovi
movimenti dubitorono, e feciono cavalcare con le loro genti nel
paese di Pisa Neri di Gino, e da il Pontefice impetrorono che 'l
conte Francesco si accozzasse con seco, e con lo esercito loro
feciono alto a Santa Gonda.
Piccinino, che era a Lucca, domandava il passo per ire nel Regno;
ed essendogli dinegato, minacciava di prenderlo per forza. Erano
gli eserciti e di forze e di capitani uguali, e per ciò, non
volendo alcuno di loro tentare la fortuna sendo ancora ritenuti
dalla stagione fredda, perché di dicembre era, molti giorni
sanza offendersi dimororono.
Il primo che di loro si mosse fu Niccolò Piccino, al quale fu
mostro che, se di notte assalisse Vico Pisano, facilmente lo
occuperebbe.
Fece Niccolò la impresa; e non gli riuscendo occupare Vico,
saccheggiò il paese allo intorno, e il borgo di San Giovanni
alla Vena rubò e arse.
Questa impresa, ancora che la riuscisse in buona parte vana,
dette non di meno animo a Niccolò di procedere più avanti,
avendo massimamente veduto che il Conte e Neri non si erano mossi;
e per ciò assalì Santa Maria in Castello e Filetto, e vinsegli.
Né per questo ancora le genti fiorentine si mossono; non perché
il Conte temessi, ma perché in Firenze dai magistrati non si era
ancora deliberata la guerra, per la reverenzia che si aveva al
Papa, il quale trattava la pace.
E quello che per prudenza i Fiorentini facevano credendo i nimici
che per timore lo facessino, dava loro più animo a nuove imprese;
in modo che deliberorono espugnare Barga, e con tutte le forze vi
si presentorono.
Questo nuovo assalto fece che i Fiorentini, posti da parte i
rispetti, non solamente di soccorrere Barga, ma di assalire il
paese lucchese deliberorono.
Andato per tanto il Conte a trovare Niccolò, e appiccata sotto
Barga la zuffa, lo vinse e quasi che rotto lo levò da quello
assedio.
I Viniziani, in questo mezzo, parendo loro che il Duca avesse
rotta la pace, mandorono Giovan Francesco da Gonzaga, loro
capitano, in Ghiaradadda; il quale, dannificando assai il paese
del Duca, lo constrinse a rivocare Niccolò Piccino di Toscana.
La quale rivocazione, insieme con la vittoria avuta contro a
Niccolò, dette animo a' Fiorentini di fare la impresa di Lucca e
speranza di acquistarla.
Nella quale non ebbono paura né rispetto alcuno, veggendo il
Duca, il quale solo temevono, combattuto da i Viniziani, e che i
Lucchesi, per avere ricevuto in casa i nimici loro e permesso gli
assalissino, non si potevono in alcuna parte dolere.
11
Di aprile
per tanto, nel 1437, il Conte mosse lo esercito, e prima che i
Fiorentini volessino assalire altri, vollono recuperare il loro;
e ripresono Santa Maria in Castello e ogni altro luogo occupato
da Piccinino.
Di poi, voltisi sopra il paese di Lucca, assalirono Camaiore; gli
uomini della quale, benché fedeli a' suoi signori, potendo in
loro più la paura del nimico apresso che la fede dello amico
discosto, si arrenderono.
Presonsi con la medesima reputazione Massa e Serezana.
Le quali cose fatte, circa il fine di maggio, il campo tornò
verso Lucca, e le biade tutte e i grani guastorono, arsono le
ville, tagliorono le viti e gli arbori, predorono il bestiame,
né a cosa alcuna che fare contro a nimici si suole o puote
perdonorono.
I Lucchesi dall'altra parte, veggendosi da il Duca abbandonati,
disperati di potere difendere il paese, lo avieno abbandonato; e
con ripari e ogni altro opportuno rimedio affortificorono la
città, della quale non dubitavano per averla piena di defensori
e poterla un tempo difendere, nel quale speravano, mossi dallo
esemplo delle altre imprese che i Fiorentini avevano contro a di
loro fatte.
Solo temevono i mobili animi della plebe, la quale, infastidita
dallo assedio, non stimassi più i pericoli propri che la
libertà d'altri, e gli forzasse a qualche vituperoso e dannoso
accordo.
Onde che, per accenderla alla difesa, la ragunorono in piazza, e
uno de' più antichi e de' più savi parlò in questa sentenza: -
Voi dovete sempre avere inteso che delle cose fatte per
necessità non se ne debbe né puote loda o biasimo meritare.
Per tanto, se voi ci accusassi, credendo che questa guerra che
ora vi fanno i Fiorentini noi ce la avessimo guadagnata avendo
ricevute in casa le genti del Duca e permesso che le gli
assalissero, voi di gran lunga vi inganneresti.
E' vi è nota l'antica nimicizia del popolo fiorentino verso di
voi, la quale, non le vostre ingiurie, non la paura loro ha
causata, ma sì bene la debolezza vostra e la ambizione loro;
perché l'una dà loro speranza di potervi opprimere, l'altra gli
spigne a farlo.
Né crediate che alcuno merito vostro gli possa da tale desiderio
rimuovere, né alcuna vostra offesa gli possa ad ingiuriarvi più
accendere. Eglino per tanto hanno a pensare di torvi la libertà,
voi di difenderla; e delle cose che quelli e noi a questo fine
facciamo ciascuno se ne può dolere e non maravigliare.
Doliamoci per tanto che ci assaltino che ci espugnino le terre,
che ci ardino le case e guastino il paese; ma chi è di noi sì
sciocco che se ne maravigli? perché, se noi potessimo, noi
faremmo loro il simile o peggio.
E s'eglino hanno mossa questa guerra per la venuta di Niccolò,
quando bene e' non fusse venuto, l'arebbono mossa per un'altra
cagione; e se questo male si fusse differito, e' sarebbe forse
stato maggiore.
Sì che questa venuta non si debba accusare, ma più tosto la
cattiva sorte nostra e l'ambiziosa natura loro; ancora che noi
non possavamo negare al Duca di non ricevere le sue genti e,
venute che le erano, non possavamo tenerle che le non facessino
la guerra.
Voi sapete che sanza lo aiuto di uno potente noi non ci possiamo
salvare, né ci è potenza che con più fede o con più forza ci
possa difendere che il Duca: egli ci ha renduta la libertà, egli
è ragionevole che ce la mantenga; egli a' perpetui nimici nostri
è stato sempre nimicissimo.
Se adunque, per non ingiuriare i Fiorentini, noi avessimo fatto
sdegnare il Duca, aremmo perduto lo amico e fatto il nimico più
potente e più pronto alla nostra offesa.
Sì che gli è molto meglio avere questa guerra con lo amore del
Duca, che, con l'odio, la pace; e dobbiamo sperare che ci abbi a
trarre di quelli pericoli ne' quali ci ha messo, pure che noi non
ci abbandoniamo.
Voi sapete con quanta rabbia i Fiorentini più volte ci abbino
assaltati, e con quanta gloria noi ci siamo difesi da loro: e
molte volte non abbiamo avuto altra speranza che in Dio e nel
tempo; e l'uno e l'altro ci ha conservati.
E se allora ci difendemmo, qual cagione è che ora noi non ci
dobbiamo defendere? Allora tutta Italia ci aveva loro lasciati in
preda; ora abbiamo il Duca per noi, e dobbiamo credere che i
Viniziani saranno lenti alle nostre offese, come quelli ai quali
dispiace che la potenza de' Fiorentini accresca.
L'altra volta i Fiorentini erano più sciolti, e avieno più
speranza di aiuti, e per loro medesimi erano più potenti; e noi
savamo in ogni parte più deboli, perché allora noi defendavamo
uno tiranno ora difendiamo noi; allora la gloria della difesa era
di altri, ora è nostra; allora questi ci assaltavano uniti, ora
disuniti ci assaltano, avendo piena di loro rebegli tutta Italia.
Ma quando queste speranze non ci fussino, ci debbe fare ostinati
alle difese una ultima necessità.
Ogni nimico debbe essere da voi ragionevolmente temuto, perché
tutti vorranno la gloria loro e la rovina vostra; ma sopra tutti
gli altri ci debbono i Fiorentini spaventare, perché a loro non
basterebbe la ubbidienza e i tributi nostri con lo imperio di
questa nostra città, ma vorrebbono le persone e le sustanze
nostre, per potere con il sangue la loro crudeltà, e con la roba
la loro avarizia saziare: in modo che ciascheduno, di qualunque
sorte, gli debbe temere.
E però non vi muovino vedere guastati i vostri campi, arse le
vostre ville, occupate le vostre terre; perché, se noi salviamo
questa città, quelle di necessità si salveranno; se noi la
perdiamo, quelle sanza nostra utilità si sarebbono salvate;
perché, mantenendoci liberi, le può con difficultà il nimico
nostro possedere; perdendo la libertà, noi invano le
possederemmo.
Pigliate adunque le armi, e quando voi combattete, pensate il
premio della vittoria vostra essere la salute, non solo della
patria, ma delle case e de' figliuoli vostri -.
Furono l'ultime parole di costui da quel popolo con grandissima
caldezza d'animo ricevute, e unitamente ciascuno promisse morire
prima che abbandonarsi o pensare ad accordo che in alcuna parte
maculasse la loro libertà.
E ordinorono infra loro tutte quelle cose che sono per difendere
una città necessarie.
12
Lo
esercito de' Fiorentini, in quel mezzo, non perdeva tempo, e dopo
moltissimi danni fatti per il paese, prese a patti Monte Carlo;
dopo lo acquisto del quale si andò a campo a Nozano: acciò che
i Lucchesi, stretti da ogni parte, non potessero sperare aiuti e,
per fame constretti, si arrendessero.
Era il castello assai forte e ripieno di guardia, in modo che la
espugnazione di quello non fu come le altre facile.
I Lucchesi, come era ragionevole, vedendosi strignere, ricorsono
al Duca, e a quello con ogni termine e dolce e aspro si
raccomandorono; e ora nel parlare mostravano i meriti loro, ora
le offese de' Fiorentini; e quanto animo si darebbe agli altri
amici suoi difendendogli, e quanto terrore lasciandogli indifesi,
e se e' perdevono, con la libertà, la vita, egli perdeva, con
gli amici, l'onore, e la fede con tutti quelli che mai per suo
amore si avessero ad alcuno pericolo a sottomettere, aggiugnendo
alle parole le lagrime, acciò che, se l'obligo non lo moveva, lo
movesse la compassione.
Tanto che il Duca, avendo aggiunto all'odio antico de' Fiorentini
l'obligo fresco de' Lucchesi, e sopra tutto desideroso che i
Fiorentini non crescessino in tanto acquisto, deliberò mandare
grossa gente in Toscana, o assaltare con tanta furia e Viniziani,
che i Fiorentini fussino necessitati lasciare le imprese loro per
soccorrere quelli.
13
Fatta
questa deliberazione, s'intese subito a Firenze come il Duca si
ordinava a mandare gente in Toscana, il che fece a' Fiorentini
cominciare a perdere la speranza della loro impresa, e perché il
Duca fusse occupato in Lombardia, sollecitavano i Viniziani a
strignerlo con tutte le forze loro.
Ma quelli ancora si trovavano impauriti, per averli il marchese
di Mantova abbandonati, ed essere ito a' soldi del Duca; e però,
trovandosi come disarmati, rispondevono non potere, non che
ingrossare, mantenere quella guerra, se non mandavano loro il
conte Francesco, che fusse capo del loro esercito, ma con patto
che si obligasse a passare con la persona il Po.
Né volevono stare alli antichi accordi dove quello non era
obligato a passarlo, perché senza capitano non volevono fare
guerra, né potevono sperare in altro che nel Conte; e del Conte
non si potevono valere, se non si obligava a far la guerra in
ogni loco.
A' Fiorentini pareva necessario che la guerra si facesse in
Lombardia gagliarda; dall'altro canto, rimanendo sanza il Conte,
vedevono la impresa di Lucca rovinata; e ottimamente cognoscevano
questa domanda essere fatta da' Viniziani, non tanto per
necessità avessino del Conte, quanto per sturbare loro quello
acquisto. Dall'altra parte il Conte era per andare in Lombardia
ad ogni piacere della lega; ma non voleva alterare lo obligo,
come quello che desiderava non si privare di quella speranza
quale aveva del parentado promissogli dal Duca.
Erano adunque i Fiorentini distratti da due diverse passioni, e
da la voglia di avere Lucca, e dal timore della guerra con il
Duca.
Vinse non di meno, come sempre interviene, il timore; e furono
contenti che il Conte, vinto Nozano, andasse in Lombardia.
Restavaci ancora un'altra difficultà, la quale, per non essere
in arbitrio de' Fiorentini il comporla, dette loro più passione,
e più gli fece dubitare che la prima; perché il Conte non
voleva passare il Po, e i Viniziani altrimenti non lo accettavono.
Né si trovando modo ad accordarli che liberalmente l'uno cedesse
all'altro, persuasono i Fiorentini al Conte che si obligasse a
passare quel fiume per una lettera che dovesse alla Signoria di
Firenze scrivere, mostrandogli che questa promessa privata non
rompeva i patti publici, e come e' poteva poi fare sanza passarlo;
e ne seguirebbe questo commodo, che i Viniziani, accesa la guerra,
erano necessitati seguirla; di che ne nascerebbe la diversione di
quello umore che temevano.
E a' Viniziani dall'altra parte mostrorono che questa lettera
privata bastava ad obligarlo, e per ciò fussino contenti a
quella; perché, dove ei potevono salvare il Conte per i rispetti
che gli aveva al suocero, era bene farlo; e che non era utile a
lui né a loro sanza manifesta necessità scoprirlo.
E così per questa via si deliberò la passata in Lombardia del
Conte, il quale, espugnato Nozano, e fatte alcune bastie intorno
a Lucca per tenere i Lucchesi stretti, e raccomandata quella
guerra a commissari passò l'Alpi e ne andò a Reggio, dove i
Viniziani, insospettiti de' suoi progressi, avanti ad ogni altra
cosa, per scoprire l'animo suo, lo richiesono che passasse il Po
e con le altre loro genti si congiugnessi.
Il che fu al tutto da il Conte denegato, e intra Andrea Mauroceno
mandato da' Viniziani, e lui furono ingiuriose parole, accusando
l'uno l'altro di assai superbia e poca fede, e fatti fra loro
assai protesti, l'uno di non essere obligato al servizio, l'altro
al pagamento, se ne tornò il Conte in Toscana, e quell'altro a
Vinegia.
Fu il Conte alloggiato nel paese di Pisa; e speravano potere
indurlo a rinnovare la guerra ai Lucchesi.
A che non lo trovorono disposto; perché il Duca, inteso che per
reverenza di lui non aveva voluto passare il Po pensò di potere
ancora, mediante lui, salvare i Lucchesi; e lo pregò che fusse
contento fare accordo infra i Lucchesi e i Fiorentini e
includervi ancora lui potendo, dandogli speranza di fare a sua
posta le nozze della figliuola.
Questo parentado moveva forte il Conte, perché sperava, mediante
quello, non avendo il Duca figliuoli maschi, potersi insignorire
di Milano; e per ciò sempre a' Fiorentini tagliava le pratiche
della guerra, e affermava non essere per muoversi, se i Viniziani
non gli osservavano il pagamento e la condotta; né il pagamento
solo gli bastava, perché, volendo vivere securo degli stati suoi,
gli conveniva avere altro appoggio che i Fiorentini.
Per tanto, se dai Viniziani era abbandonato, era necessitato
pensare a' suoi fatti; e destramente minacciava di accordarsi con
il Duca.
14
Queste
gavillazioni e questi inganni dispiacevano a' Fiorentini
grandemente, perché vedevano la impresa di Lucca perduta, e di
più dubitavano dello stato loro, qualunque volta il Conte e il
Duca fussino insieme.
E per ridurre i Viniziani a mantenere la condotta al Conte,
Cosimo de' Medici andò a Vinegia, credendo con la reputazione
sua muovergli.
Dove nel loro senato lungamente questa materia disputò,
mostrando in quali termini si trovava lo stato di Italia, quante
erano le forze del Duca, dove era la reputazione e la potenza
delle armi, e concluse che, se al Duca si aggiugneva il Conte,
eglino ritornerebbono in mare e loro disputerebbono della loro
libertà.
A che fu da' Viniziani risposto che cognoscevano le forze loro e
quelle degli Italiani, e credevono potere in ogni modo difendersi,
affermando non essere consueti di pagare i soldati che servissero
altri; per tanto pensassero i Fiorentini di pagare il Conte, poi
ch'eglino erano serviti da lui; e come gli era più necessario, a
volere securamente godersi gli stati loro, abbassare la superbia
del Conte che pagarlo, perché gli uomini non hanno termini nella
ambizione loro, e se ora fusse pagato sanza servire, domanderebbe
poco di poi una cosa più disonesta e più pericolosa. Per tanto
a loro pareva necessario porre qualche volta freno alla
insolenzia sua, e non la lasciare tanto crescere che la
diventasse incorrigibile; e se pure loro, o per timore o per
altra voglia, se lo volessino mantenere amico, lo pagassino.
Ritornossi adunque Cosimo sanza altra conclusione.
Non di meno i Fiorentini facevano forza al Conte perché non si
spiccasse dalla lega, il quale ancora mal volentieri se ne
partiva; ma la voglia di concludere il parentado lo teneva dubio,
tale che ogni minimo accidente, come intervenne, lo poteva fare
deliberare.
Aveva il Conte lasciato a guardia di quelle sue terre della Marca
il Frullano, uno de' suoi primi condottieri. Costui fu tanto dal
Duca instigato che rinunziò al soldo del Conte e accostossi con
lui; la qual cosa fece che il Conte, lasciato ogni rispetto, per
paura di sé, fece accordo con il Duca; e intra gli altri patti
furono che delle cose di Romagna e di Toscana non si travagliasse.
Dopo tale accordo, il Conte con instanzia persuadeva a'
Fiorentini che si accordassero con i Lucchesi; e in modo a questo
gli strinse, che, veggendo non avere altro rimedio, si
accordorono con quelli, nel mese di aprile, l'anno 1438.
Per il quale accordo a' Lucchesi rimase la loro libertà, e a'
Fiorentini Monte Carlo e alcune altre loro castella.
Di poi riempierono con lettere piene di rammarichii tutta Italia,
mostrando che, poi che Iddio e gli uomini non avieno voluto che i
Lucchesi venissero sotto lo imperio loro, avevono fatto pace con
quelli.
E rade volte occorre che alcuno abbia tanto dispiacere di avere
perdute le cose sue, quanto ebbono allora i Fiorentini per non
avere acquistato quelle d'altri.
15
In questi
tempi, benché i Fiorentini fussero in tanta impresa occupati, di
pensare a' loro vicini e di adornare la loro città non mancavano.
Era morto come aviamo detto, Niccolò Fortebraccio, a cui era una
figlia del conte di Poppi maritata. Costui, alla morte di
Niccolò, aveva il Borgo a San Sepolcro e le fortezze di quella
terra nelle mani e in nome del genero, vivente quello, le
comandava.
Di poi dopo la morte di quello, diceva per la dote della sua
figliuola possederla, e al Papa non voleva concederla; il quale
come beni occupati alla Chiesa la domandava, in tanto che mandò
il Patriarca con le genti sue allo acquisto di essa.
Il Conte, veduto non potere sostenere quello impeto, offerse
quella terra a' Fiorentini, e quelli non la vollono.
Ma, sendo il Papa ritornato in Firenze, si intromissono intra lui
e il Conte per accordargli; e trovandosi nello accordo
difficultà, il Patriarca assaltò il Casentino, e prese Prato
Vecchio e Romena, e medesimamente le offerse ai Fiorentini; i
quali ancora non le vollono accettare, se il Papa non
acconsentiva che le potessino rendere al Conte.
Di che fu il Papa, dopo molte dispute, contento; ma volle che i
Fiorentini gli promettessero di operare con il conte di Poppi che
il Borgo gli restituisse.
Fermo dunque per questa via lo animo del Papa, parve a'
Fiorentini, sendo il tempio cattedrale della loro città,
chiamato Santa Reparata (la cui edificazione molto tempo innanzi
si era cominciata) venuto a termine che vi si potevono i divini
offizi celebrare, di richiederlo che personalmente lo consecrasse.
A che il Papa volentieri acconsentì, e per maggiore magnificenza
della città e del tempio, e per più onore del Pontefice, si
fece un palco da Santa Maria Novella, dove il Papa abitava,
infino al tempio che si doveva consecrare di larghezza di quattro
e di altezza di dua braccia, coperto tutto di sopra e d'attorno
di drappi ricchissimi, per il quale solo il Pontefice con la sua
corte venne, insieme con quelli magistrati della città e
cittadini i quali ad accompagnarlo furono deputati: tutta l'altra
cittadinanza e popolo per la via, per le case e nel tempio a
veder tanto spettacolo si ridussono.
Fatte adunque tutte le cerimonie che in simile consecrazione si
sogliono fare, il Papa, per mostrare segno di maggiore amore,
onorò della cavalleria Giuliano Davanzati, allora gonfaloniere
di giustizia e di ogni tempo riputatissimo cittadino; al quale la
Signoria, per non parere meno del Papa amorevole, il capitanato
di Pisa per un anno concesse.
16
Erano, in
questi medesimi tempi, intra la Chiesa romana e la greca alcune
differenze, tanto che nel divino culto non convenivano in ogni
parte insieme; ed essendosi nell'ultimo concilio, fatto a Basilea,
parlato assai, per i prelati della Chiesa occidentale, sopra
questa materia, si deliberò che si usassi ogni diligenzia
perché lo Imperadore e i prelati greci nel concilio a Basilea
convenissero, per fare pruova se si potessino con la romana
Chiesa accordare.
E benché questa deliberazione fusse contro alla maiestà dello
imperio greco, e alla superbia de' suoi prelati il cedere al
Romano Pontefice dispiacesse, non di meno, sendo oppressi dai
Turchi, e giudicando per loro medesimi non potere defendersi, per
potere con più securtà agli altri domandare aiuti, deliberorono
cedere.
E così lo Imperadore, insieme con il Patriarca e altri prelati e
baroni greci, per essere, secondo la deliberazione del Concilio,
a Basilea, vennono a Vinegia; ma, sbigottiti dalla peste,
deliberorono che nella città di Firenze le loro differenzie si
terminassero.
Ragunati adunque, più giorni, nella chiesa cattedrale, insieme i
romani e greci prelati, dopo molte e lunghe disputazioni, i greci
cederono, e con la Chiesa e Pontefice Romano si accordorono.
17
Seguita
che fu la pace intra i Lucchesi e i Fiorentini, e intra il Duca e
il Conte, si credeva che facilmente si potessero l'armi di Italia,
e massimamente quelle che la Lombardia e la Toscana infestavano,
posare; perché quelle che nel regno di Napoli intra Rinato d'Angiò
e Alfonso d'Aragona erano mosse, conveniva che per la rovina d'uno
de' dua si posassero.
E benché il Papa restasse malcontento per avere molte delle sue
terre perdute, e che si cognoscesse quanta ambizione era nel Duca
e ne' Viniziani, non di meno si stimava che il Papa per
necessità, e gli altri per stracchezza, dovessero fermarsi.
Ma la cosa procedette altrimenti, perché né il Duca né i
Viniziani quietorono; donde ne seguì che di nuovo si ripresono
le armi, e la Lombardia e la Toscana di guerra si riempierono.
Non poteva lo altero animo del Duca che i Viniziani possedessero
Bergamo e Brescia sopportare, e tanto più veggendoli in su l'armi
e ogni giorno il suo paese in molte parti scorrere e perturbare;
e pensava potere non solamente tenergli in freno, ma riacquistare
le sue terre, qualunque volta da il Papa, dai Fiorentini e dal
Conte ei fussero abbandonati.
Per tanto egli disegnò di torre la Romagna al Pontefice
giudicando che, avuta quella, il Papa non lo potrebbe offendere,
e i Fiorentini, veggendosi il fuoco appresso, o eglino non si
moverebbono per paura di loro, o se si movessino, non potrebbono
commodamente assalirlo.
Era ancora noto al Duca lo sdegno de' Fiorentini per le cose di
Lucca, contro a' Viniziani e per questo gli giudicava meno pronti
a pigliare l'armi per loro.
Quanto al conte Francesco, credeva che la nuova amicizia, la
speranza del parentado fussero per tenerlo fermo; e per fuggire
carico e dare meno cagione a ciascuno di muoversi, massimamente
non potendo, per i capituli fatti con il Conte, la Romagna
assalire, ordinò che Niccolò Piccino, come se per sua propria
ambizione lo facesse, entrasse in quella impresa.
Trovavasi Niccolò, quando lo accordo infra il Duca e il Conte si
fece, in Romagna; e d'accordo con il Duca, mostrò di essere
sdegnato per la amiciza fatta intra lui e il Conte suo perpetuo
nimico; e con le sue genti si ridusse a Camurata, luogo intra
Furlì e Ravenna, dove si affortificò, come se lungamente, e
infino che trovasse nuovo partito, vi volessi dimorare. Ed
essendo per tutto sparta di questo suo sdegno la fama, Niccolò
fece intendere al Pontefice quanti erano i suoi meriti verso il
Duca e quale fusse la ingratitudine sua; e come egli si dava ad
intendere, per avere, sotto i duoi primi capitani, quasi tutte l'armi
di Italia di occuparla; ma se Sua Santità voleva dei duoi
capitani che quello si persuadeva avere poteva fare che l'uno gli
sarebbe nimico e l'altro inutile, perché se lo provedeva di
danari e lo manteneva in su l'armi, assalirebbe gli stati del
Conte che gli occupava alla Chiesa in modo che, avendo il Conte a
pensare a' casi propri, non potrebbe alla ambizione di Filippo
suvvenire.
Credette il Papa a queste parole, parendogli ragionevoli; e
mandò cinque mila ducati a Niccolò, e lo riempié di promesse,
offerendo stati a lui e a' figliuoli.
E benché il Papa fusse da molti avvertito dello inganno, nol
credeva, né poteva udire alcuno che dicesse il contrario.
Era la città di Ravenna da Ostasio da Polenta per la Chiesa
governata.
Niccolò, parendogli tempo da non differire più la impresa sua,
perché Francesco suo figliuolo aveva, con ignominia del Papa,
saccheggiato Spuleto, deliberò di assaltare Ravenna, o perché
giudicasse quella impresa più facile, o perché gli avessi con
Ostasio secretamente intelligenzia; e in pochi giorni, poi che l'ebbe
assalita, per accordo la prese.
Dopo il quale acquisto, Bologna, Imola e Furlì da lui furono
occupate.
E quello che fu più maraviglioso è che di venti rocche, le
quali in quelli stati per il Pontefice si guardavano, non ne
rimase alcuna che nella potestà di Niccolò non venisse.
Né gli bastò con questa ingiuria avere offeso il Pontefice, che
lo volle ancora con le parole, come egli aveva fatto con i fatti,
sbeffare; e scrisse avergli occupate le terre meritamente, poi
che non si era vergognato avere voluto dividere una amicizia
quale era stata intra il Duca e lui, e avere ripiena Italia di
lettere che significavano come egli aveva lasciato il Duca e
accostatosi a' Viniziani.
18
Occupata
Niccolò la Romagna, lasciò quella in guardia a Francesco suo
figliuolo, ed egli, con la maggiore parte delle sue genti, se ne
andò in Lombardia.
E accozzatosi con il restante delle genti duchesche, assalì il
contado di Brescia, e tutto in brieve tempo lo occupò: di poi
pose lo assedio a quella città.
Il Duca, che desiderava che i Viniziani gli fussero lasciati in
preda, con il Papa, con i Fiorentini e con il Conte si scusava,
mostrando che le cose fatte da Niccolò in Romagna, se le erano
contro a' capitoli, erano ancora contro a sua voglia; e per
secreti nunzi faceva intendere loro che di questa disubbidienza,
come il tempo e la occasione lo patisse, ne farebbe evidente
demostrazione.
I Fiorentini e il Conte non gli prestavano fede; ma credevono,
come la verità era, che queste armi fussero mosse per tenergli a
bada, tanto che potesse domare i Viniziani.
I quali, pieni di superbia, credendosi potere per loro medesimi
resistere alle forze del Duca, non si degnavono di domandare
aiuto ad alcuno, ma con Gattamelata loro capitano la guerra
facevano.
Desiderava il conte Francesco, con il favor de' Fiorentini,
andare al soccorso del re Rinato, se gli accidenti di Romagna e
di Lombardia non lo avessino ritenuto; e i Fiorentini ancora lo
arieno volentieri favorito, per l'antica amicizia tenne sempre la
loro città con la casa di Francia; ma il Duca arebbe i suoi
favori volti ad Alfonso, per la amicizia aveva contratta seco
nella presura sua.
Ma l'uno e l'altro di costoro, occupati nelle guerre propinque,
dalle imprese più longinque si astennono.
I Fiorentini adunque, veggendo la Romagna occupata dalle forze
del Duca, e battere i Viniziani, come quelli che dalla rovina d'altri
temono la loro, pregorono il Conte che venisse in Toscana, dove
si esaminerebbe quello fussi da fare per opporsi alle forze del
Duca, le quali erano maggiori che mai per lo adietro fussero
state; affermando che, se la insolenzia sua in qualche modo non
si frenava, ciascuno che teneva stati in Italia in poco tempo ne
patirebbe.
Il Conte conosceva il timore de' Fiorentini ragionevole, non di
meno la voglia aveva che il parentado fatto con il Duca seguisse
lo teneva sospeso; e quel Duca, che cognosceva questo suo
desiderio, gliene dava speranze grandissime, quando non gli
movesse l'armi contro.
E perché la fanciulla era già da potersi celebrare le nozze,
più volte condusse la cosa in termine che si feciono tutti gli
apparati convenienti a quelle: di poi, con varie gavillazioni,
ogni cosa si risolveva.
E per fare crederlo meglio al Conte, aggiunse alle promesse le
opere; e gli mandò trenta mila fiorini, i quali, secondo i patti
del parentado, gli doveva dare.
19
Non di
meno la guerra di Lombardia cresceva; e i Viniziani ogni dì
perdevano nuove terre; e tutte le armate che eglino avevano messe
per quelle fiumare erano state dalle genti ducali vinte, il paese
di Verona e di Brescia tutto occupato, e quelle due terre in modo
strette, che poco tempo potevono, secondo la comune opinione,
mantenersi; il marchese di Mantova, il quale era molti anni stato
della loro repubblica condottiere, fuora d'ogni loro credenza gli
aveva abbandonati ed erasi accostato al Duca: tanto che quello
che nel principio della guerra non lasciò loro fare la superbia,
fece loro fare, nel progresso di quella, la paura.
Perché, cognosciuto non avere altro rimedio che l'amicizia de'
Fiorentini e del Conte, cominciorono a domandarla; benché
vergognosamente e pieni di sospetto, perché temevono che i
Fiorentini non facessino a loro quella risposta che da loro
avevono nella impresa di Lucca e nelle cose del Conte ricevuta.
Ma gli trovorono più facili che non speravano e che per li
portamenti loro non avevono meritato: tanto più potette in ne'
Fiorentini l'odio dello antico nimico, che della vecchia e
consueta amicizia lo sdegno.
E avendo più tempo innanzi cognosciuto la necessità nella quale
dovevano venire i Viniziani, avevano dimostro al Conte come la
rovina di quelli sarebbe la rovina sua, e come egli s'ingannava
se credeva che il duca Filippo lo stimasse più nella buona che
nella cattiva fortuna, e come la cagione per che gli aveva
promessa la figliuola era la paura aveva di lui.
E perché quelle cose che la necessità fa promettere fa ancora
osservare, era necessario che mantenessi il Duca in quella
necessità; il che sanza la grandezza de' Viniziani non si poteva
fare.
Per tanto egli doveva pensare che, se i Viniziani fussino
constretti ad abbandonare lo stato di terra, gli mancherieno non
solamente quelli commodi che da loro egli poteva trarre ma tutti
quelli ancora che da altri, per paura di loro, egli potessi avere.
E se considerava bene gli stati di Italia, vedrebbe quale essere
povero, quale suo nimico: né i Fiorentini soli erano, come egli
più volte aveva detto, suffizienti a mantenerlo; sì che per lui
da ogni parte si vedeva farsi il mantenere potenti in terra i
Viniziani.
Queste persuasioni, aggiunto allo odio aveva concetto il Conte
con il Duca, per parergli essere stato in quel parentado sbeffato
lo feciono acconsentire allo accordo: né per ciò si volle per
allora obligare a passare il fiume del Po.
I quali accordi di febraio, nel 1438, si fermorono: dove i
Viniziani a' duo terzi, i Fiorentini al terzo della spesa
concorsono; e ciascheduno si obligò, a sue spese, gli stati che
il Conte aveva nella Marca a difendere.
Né fu la lega a queste forze contenta; perché a quelle il
signore di Faenza, i figliuoli di messer Pandolfo Malatesti da
Rimino e Pietrogiampaulo Orsino aggiunsono; e benché con
promesse grandi il marchese di Mantova tentassero, non di meno
dall'amicizia e stipendi del Duca rimuovere non lo posserono; e
il signore di Faenza, poi che la lega ebbe ferma la sua condotta,
trovando migliori patti, si rivolse al Duca; il che tolse la
speranza alla lega di potere presto espedire le cose di Romagna.
20
Era in
questi tempi la Lombardia in questi travagli, che Brescia dalle
genti del Duca era assediata in modo che si dubitava che ciascun
dì per la fame si arrendesse, e Verona ancora era in modo
stretta che se ne temeva il medesimo fine, e quando una di queste
due città si perdessero, si giudicavano vani tutti gli altri
apparati alla guerra, e le spese infino allora fatte essere
perdute.
Né vi si vedeva altro più certo rimedio che fare passare il
conte Francesco in Lombardia.
A questo erano tre difficultà: l'una disporre il Conte a passare
il Po e a fare guerra in ogni luogo; la seconda che a' Fiorentini
pareva rimanere a discrezione del Duca, mancando del Conte (perché
facilmente il Duca poteva ritirarsi ne' suoi luoghi forti e con
parte delle genti tenere a bada il Conte e con l'altre venire in
Toscana con li loro ribelli, de' quali lo stato che allora
reggeva aveva uno terrore grandissimo); la terza era qual via
dovesse con le sue genti tenere il Conte, che lo conducesse
sicuro in Padovano, dove l'altre genti viniziane erano.
Di queste tre difficultà, la seconda, che apparteneva a'
Fiorentini, era più dubia; non di meno quelli, cognosciuto il
bisogno, e stracchi da' Viniziani, i quali con ogni importunità
domandavano il Conte, mostrando che sanza quello si
abbandonerebbono, preposono la necessità d'altri a' sospetti
loro.
Restava ancora la difficultà del cammino; il quale si deliberò
che fusse assicurato da' Viniziani.
E perché a trattare questi accordi con il Conte e a disporlo a
passare si era mandato Neri di Gino Capponi, parve alla Signoria
che ancora si transferisse a Vinegia, per fare più accetto a
quella Signoria questo benefizio, e ordinare il cammino e il
passo securo al Conte.
21
Partì
adunque Neri da Cesena, e sopra una barca si condusse a Vinegia.
Né fu mai alcuno principe con tanto onore ricevuto da quella
Signoria, con quanto fu ricevuto egli; perché dalla venuta sua,
e da quello che per suo mezzo si aveva a deliberare e ordinare
giudicavano avesse a dependere la salute dello imperio loro.
Intromesso adunque Neri al Senato, parlò in questa sentenza: -
Quelli miei Signori, Serenissimo Principe, furono sempre di
opinione che la grandezza del Duca fusse la rovina di questo
stato e della loro republica; e così che la salute d'ambiduoi
questi stati fusse la grandezza vostra e nostra.
Se questo medesimo fusse stato creduto dalle Signorie Vostre, noi
ci troverremmo in migliore condizione, e lo stato vostro sarebbe
securo da quelli pericoli che ora lo minacciano.
Ma perché ne' tempi che voi dovevi non ci avete prestato né
aiuto né fede, noi non abbiamo potuto correre presto a' remedi
del male vostro; né voi potesti essere pronti al dimandargli,
come quelli che nelle prosperità e nelle avversità vostre ci
avete poco cognosciuti, e non sapete che noi siamo in modo fatti
che quello che noi amammo una volta sempre amiamo, e quello che
noi odiammo una volta sempre odiamo.
Lo amore che noi abbiamo portato a questa vostra Serenissima
Signoria voi medesimi lo sapete, che più volte avete veduto, per
soccorrervi, ripiena di nostri danari e di nostre genti la
Lombardia; l'odio che noi portiamo a Filippo, e quello che sempre
portammo alla casa sua, lo sa tutto il mondo; né è possibile
che uno amore o uno odio antico per nuovi meriti o per nuove
offese facilmente si cancelli.
Noi savamo e siamo certi che in questa guerra ci potavamo stare
di mezzo, con grado grande con il Duca e con non molto timore
nostro; perché, se bene e' fusse con la rovina vostra diventato
signore di Lombardia, ci restava in Italia tanto del vivo che noi
non avavamo a disperarci della salute; perché, accrescendo
potenza e stato, si accresce ancora nimicizie e invidia; dalle
quali cose suole di poi nascere guerra e danno.
Cognosciavamo ancora quanta spesa, fuggendo le presenti guerre,
fuggiavamo; quanti imminenti pericoli si evitavano; e come questa
guerra che ora è in Lombardia, movendoci noi, si potrebbe
ridurre in Toscana.
Non di meno tutti questi sospetti sono stati da una antica
affezione verso di questo stato cancellati; e abbiamo deliberato
con quella medesima prontezza soccorrere lo stato vostro, che noi
soccorreremmo il nostro quando fusse assalito.
Per ciò i miei Signori, giudicando che fusse necessario, prima
che ogni altra cosa, soccorrere Verona e Brescia, e giudicando
sanza il Conte non si potere fare questo, mi mandorono prima a
persuadere quello al passare in Lombardia e a fare la guerra in
ogni luogo (ché sapete che non è al passare del Po obligato):
il quale io disposi, movendolo con quelle ragioni che noi
medesimi ci moviamo.
Ed egli, come gli pare essere invincibile con le armi, non vuole
ancora essere vinto di cortesia, e quella liberalità che vede
usare a noi verso di voi egli l'ha voluta superare; perché sa
bene in quanti pericoli rimane la Toscana dopo la partita sua, e
veggendo che noi abbiamo posposto alla salute vostra i pericoli
nostri, ha voluto ancora egli posporre a quella i respetti suoi.
Io vengo adunque a offerirvi il Conte con sette mila cavagli e
dumila fanti, parato ad ire a trovare il nimico in ogni luogo.
Pregovi bene, e così i miei Signori ed egli vi pregono, che,
come il numero delle genti sue trapassa quelle con le quali per
obligo debbe servire, che voi ancora con la vostra liberalità lo
ricompensiate, acciò che quello non si penta di essere venuto a'
servizi vostri, e noi non ci pentiamo di avernelo confortato -.
Fu il parlare di Neri da quel Senato non con altra attenzione
udito che si farebbe un oracolo, e tanto si accesono gli uditori
per le sue parole, che non furono pazienti che il Principe,
secondo la consuetudine, rispondesse, ma levati in piè, con le
mani alzate, lagrimando in maggiore parte di loro, ringraziavano
i Fiorentini di sì amorevole uffizio, e lui di averlo con tanta
diligenzia e celerità esequito; e promettevano che mai per alcun
tempo, non che de' cuori loro, ma di quelli de' descendenti loro
non si cancellerebbe, e che quella patria aveva sempre ad essere
comune a' Fiorentini e a loro.
22
Ferme di
poi queste caldezze, si ragionò della via che il Conte dovessi
fare, acciò si potesse di ponti, di spianate e di ogni altra
cosa munire.
Eronci quattro vie: l'una da Ravenna, lungo la marina; questa,
per essere in maggiore parte ristretta dalla marina e da paduli,
non fu approvata: l'altra era per la via diritta, questa era
impedita da una torre chiamata l'Uccellino, la quale per il Duca
si guardava, e bisognava, a volere passare, vincerla, il che era
difficile farlo in sì breve tempo che la non togliesse la
occasione del soccorso, che celerità e prestezza richiedeva: la
terza era per la selva del Lugo, ma perché il Po era uscito de'
suoi argini, rendeva il passarvi, non che difficile, impossibile:
restava la quarta, per la campagna di Bologna, e passare al ponte
Puledrano, e a Cento, e alla Pieve, e intra il Finale e il
Bondeno condursi a Ferrara, donde poi, tra per acqua e per terra,
si potevono transferire in Padovano e congiugnersi con le genti
viniziane.
Questa via ancora che in essa fussero assai difficultà e potesse
essere in qualche luogo dal nimico combattuta, fu per meno rea
eletta.
La quale come fu significata al Conte, si partì con celerità
grandissima, e a dì 20 di giugno arrivò in Padovano.
La venuta di questo capitano in Lombardia fece Vinegia e tutto il
loro imperio riempiere di buona speranza, e dove i Viniziani
parevano prima disperati della loro salute, cominciorono a
sperare nuovi acquisti.
Il Conte, prima che ogni altra cosa, andò per soccorrere Verona;
il che per obviare, Niccolò se ne andò con lo esercito suo a
Soave castello posto intra il Vicentino e il Veronese, e con un
fosso, il quale da Soave infino a' paludi dello Adice passava, si
era cinto.
Il Conte, veggendosi impedita la via del piano, giudicò potere
andare per i monti, e per quella via accostarsi a Verona,
pensando che Niccolò, o non credessi che facessi quel cammino,
sendo aspro e alpestre, o, quando lo credesse, non fussi a tempo
ad impedirlo; e proveduta vettovaglia per otto giorni, passò con
le sue genti la montagna, e sotto Soave arrivò nel piano.
E benché da Niccolò fussero state fatte alcune bastie per
impedire ancora quella via al Conte, non di meno non furono
sufficienti a tenerlo.
Niccolò adunque, veggendo il nimico, fuora d'ogni sua credenza,
passato per non venire seco con disavvantaggio a giornata, si
ridusse di là dallo Adice; e il Conte, sanza alcuno ostaculo,
entrò in Verona.
23
Vinta per
tanto felicemente da il Conte la prima fatica, di aver libera
dallo assedio Verona, restava la seconda, di soccorrere Brescia.
È questa città in modo propinqua al lago di Garda che, benché
la fusse assediata per terra, sempre per via del lago se le
potrebbe sumministrare vettovaglie.
Questo era stato cagione che il Duca si era fatto forte in sul
lago e nel principio delle vittorie sue aveva occupate tutte
quelle terre che, mediante il lago, potevano a Brescia porgere
aiuto.
I Viniziani ancora vi avevano galee; ma a combattere con le genti
del Duca non erano bastanti.
Giudicò per tanto il Conte necessario dare favore con le genti
di terra alla armata viniziana, perché sperava che facilmente si
potessino acquistare quelle terre che tenevono affamata Brescia.
Pose il campo per tanto a Bardolino, castello posto in sul lago,
sperando, avuto quello, che gli altri si arrendessero.
Fu la fortuna al Conte in questa impresa nimica, perché delle
sue genti buona parte ammalorono, talmente che il Conte, lasciata
la impresa, ne andò a Zevio, castello veronese, luogo
abbondevole e sano.
Niccolò, veduto che il Conte si era ritirato, per non mancare
alla occasione che gli pareva avere di potersi insignorire del
lago, lasciò il campo suo a Vegasio, e con gente eletta n'andò
al lago, e con grande impeto e maggiore furia assaltò l'armata
viniziana, e quasi tutta la prese.
Per questa vittoria poche castella restorono del lago che a
Niccolò non si arrendessero.
I Viniziani, sbigottiti di questa perdita, e per questo temendo
che i Bresciani non si dessero, sollecitavano il Conte con nunzi
e con lettere al soccorso di quella.
E veduto il Conte come per il lago la speranza del soccorrerla
era mancata, e che per la campagna era impossibile per le fosse,
bastie e altri impedimenti ordinati da Niccolò, intra i quali
entrando con uno esercito nimico allo incontro si andava ad una
manifesta perdita, deliberò come la via de' monti gli aveva
fatto salvare Verona, così gli facesse soccorrere Brescia.
Fatto adunque il Conte questo disegno, partì da Zevio e per Val
d'Acri n'andò al lago di Santo Andrea, e venne a Torboli e
Peneda in sul lago di Garda.
Di quivi n'andò a Tenna, dove pose il campo, perché, a volere
passare a Brescia, era lo occupare questo castello necessario.
Niccolò, intesi i consigli del Conte, condusse lo esercito suo a
Peschiera; di poi con il marchese di Mantova e alquante delle sue
più elette genti, andò ad incontrare il Conte; e venuti alla
zuffa, Niccolò fu rotto, e le sue genti sbaragliate; delle quali
parte ne furono prese, parte allo esercito, e parte all'armata si
rifuggirono.
Niccolò si ridusse in Tenna; e venuta la notte, pensò che, se
gli aspettava in quello luogo il giorno, non poteva campare di
non venire nelle mani del nimico; e per fuggire uno certo
pericolo, ne tentò uno dubio.
Aveva Niccolò seco, di tanti suoi, uno solo servidore, di
nazione tedesco, fortissimo del corpo, e a lui sempre stato
fedelissimo.
A costui persuase Niccolò che messolo in uno sacco, se lo
ponessi in spalla e, come se portassi arnesi del suo padrone, lo
conducesse in luogo securo.
Era il campo intorno a Tenna, ma per la vittoria avuta il giorno,
sanza guardia e sanza ordine alcuno; di modo che al Tedesco fu
facile salvare il suo signore, perché, levatoselo in spalla,
vestito come saccomanno, passò per tutto il campo sanza alcuno
impedimento, tanto che salvo alle sue genti lo condusse.
24
Questa
vittoria adunque, se la fusse stata usata con quella felicità
che la si era guadagnata, arebbe a Brescia partorito maggiore
soccorso, e a' Viniziani maggiore felicità; ma lo averla male
usata fece che l'allegrezza presto mancò, e Brescia rimase nelle
medesime difficultà.
Perché, tornato Niccolò alle sue genti, pensò come gli
conveniva con qualche nuova vittoria cancellare quella perdita e
torre la commodità a' Viniziani di soccorrere Brescia.
Sapeva costui il sito della cittadella di Verona, e dai prigioni
presi in quella guerra aveva inteso come la era male guardata, e
la facilità e il modo di acquistarla.
Per tanto gli parve che la fortuna gli avesse messo innanzi
materia a riavere l'onore suo e a fare che la letizia aveva avuto
il nimico per la fresca vittoria ritornassi, per una più fresca
perdita, in dolore.
È la città di Verona posta in Lombardia, a piè de' monti che
dividono la Italia dalla Magna, in modo tale che la participa di
quelli e del piano.
Esce il fiume dello Adice della valle di Trento, e nello entrare
in Italia non si distende subito per la campagna, ma, voltosi in
su la sinistra, lungo i monti, trova quella città, e passa per
il mezzo di essa, non per ciò in modo che le parti sieno uguali,
perché molto più ne lascia verso la pianura che di verso i
monti.
Sopra i quali sono due rocche, San Piero l'una, l'altra San
Felice nominate; le quali più forti per il sito che per la
muraglia appariscono, ed essendo in luogo alto, tutta la città
signoreggiono.
Nel piano di qua dallo Adice, e adosso alle mura della terra sono
due altre fortezze, discosto l'una dall'altra mille passi, delle
quali l'una la vecchia, l'altra la cittadella nuova si nominano;
dall'una delle quali, dalla parte di dentro, si parte uno muro
che va a trovare l'altra, e fa quasi come una corda allo arco che
fanno le mura ordinarie della città, che vanno da l'una all'altra
cittadella.
Tutto questo spazio posto infra l'uno muro e l'altro è pieno di
abitatori, e chiamasi il borgo di San Zeno.
Queste cittadelle e questo borgo disegnò Niccolò Piccino di
occupare pensando che gli riuscisse facilmente, sì per le
negligenti guardie che di continuo vi si facevano, sì per
credere che per la nuova vittoria la negligenzia fusse maggiore,
e per sapere come nella guerra niuna impresa è tanto riuscibile
quanto quella che il nimico non crede che tu possa fare.
Fatto adunque una scelta di sua gente, ne andò insieme con il
marchese di Mantova, di notte, a Verona, e senza essere sentito,
scalò e prese la cittadella nuova.
Di quindi, scese le sue genti nella terra, la porta di Santo
Antonio ruppono, per la quale tutta la cavalleria intromessono.
Quelli che per i Viniziani guardavano la cittadella vecchia,
avendo prima sentito il romore quando le guardie della nuova
furono morte, di poi quando e' rompevono la porta, cognoscendo
come gli erano i nimici, a gridare e a sonare a popolo e all'arme
cominciorono.
Donde che, risentiti i cittadini, tutti confusi, quelli che
ebbono più animo presono l'armi e alla piazza de' rettori
corsono.
Le genti intanto di Niccolò avevano il borgo di San Zeno
saccheggiato, e procedendo più avanti, i cittadini, cognosciuto
come dentro erano le genti duchesche, e non veggendo modo a
difendersi, confortorono i rettori viniziani a volersi rifuggire
nelle fortezze, e salvare le persone loro e la terra; mostrando
che gli era meglio conservare loro vivi e quella città ricca ad
una migliore fortuna, che volere, per evitare la presente, morire
loro e impoverire quella.
E così i rettori e qualunque vi era del nome viniziano, nella
rocca di San Felice rifuggirono.
Dopo questo, alcuni de' primi cittadini a Niccolò e al marchese
di Mantova si feciono incontro, pregandogli che volessero più
tosto quella città ricca con loro onore, che povera con loro
vituperio, possedere; massimamente non avendo essi apresso a'
primi padroni meritato grado né odio apresso a loro per
difendersi. Furno costoro da Niccolò e dal Marchese confortati;
e quanto in quella militare licenza poterono, da il sacco la
difesono.
E perché eglino erano come certi che il Conte verrebbe alla
recuperazione di essa, con ogni industria di avere nelle mani i
luoghi forti s'ingegnorono; e quelli che non potevono avere, con
fossi, sbarrate, dalla terra separavano, acciò che al nimico
fusse difficile il passare dentro.
25
Il conte
Francesco era con le genti sue a Tenna, e sentita questa novella,
prima la giudicò vana, di poi, da più certi avvisi cognosciuta
la verità, volle con la celerità la pristina negligenzia
superare.
E benché tutti i suoi capi dello esercito lo consigliassero che,
lasciato la impresa di Verona e Brescia, se ne andasse a Vicenza,
per non essere, dimorando quivi, assediati dagli inimici, non
volle acconsentirvi, ma volle tentare la fortuna di recuperare
quella città; e voltosi, nel mezzo di queste sospensioni d'animo,
ai proveditori viniziani e a Bernardetto de' Medici, il quale per
i Fiorentini era apresso di lui commissario, promisse loro la
certa recuperazione, se una delle rocche gli aspettava.
Fatte adunque ordinare le sue genti, con massima celerità ne
andò verso Verona.
Alla vista del quale credette Niccolò ch'egli, come da' suoi era
stato consigliato, se ne andasse a Vicenza; ma veduto di poi
volgere alla terra le genti e indirizzarsi verso la rocca di San
Felice, si volle ordinare alla difesa.
Ma non fu a tempo, perché le sbarre alle rocche non erano fatte,
e i soldati, per la avarizia della preda e delle taglie, erano
divisi; né potette unirli sì tosto che potessero obviare alle
genti del Conte che le non si accostassero alla fortezza e per
quella scendessero nella città.
La quale recuperorono felicemente, con vergogna di Niccolò e
danno delle sue genti; il quale insieme con il marchese di
Mantova, prima nella cittadella, di poi, per la campagna, a
Mantova si rifuggirono.
Dove, ragunate le reliquie delle loro genti ch'erano salvate, con
l'altre che erano allo assedio di Brescia si congiunsono.
Fu per tanto Verona in quattro dì dallo esercito ducale
acquistata e perduta.
Il Conte, dopo questa vittoria, sendo già verno e il freddo
grande, poi che ebbe con molta difficultà mandato vettovaglie in
Brescia, ne andò alle stanze in Verona, e ordinò che a Torboli
si facessero, la vernata, alcune galee, per potere essere, a
primavera, in modo per terra e per acqua gagliardo, che Brescia
si potesse al tutto liberare.
26
Il Duca,
veduta la guerra per il tempo ferma, e troncagli la speranza che
gli aveva avuta di occupare Verona e Brescia, e come di tutto ne
erano cagione i danari e i consigli de' Fiorentini, e come quelli
né per ingiuria che da' Viniziani avessero ricevuta si erano
potuti dalla loro amicizia alienare, né per promesse ch'egli
avesse loro fatte, se gli era potuti guadagnare, deliberò,
acciò che quelli sentissero più da presso i frutti de' semi
loro, di assaltare la Toscana.
A che fu da' fuori usciti fiorentini e da Niccolò confortato:
questo lo moveva il desiderio aveva di acquistare gli stati di
Braccio e cacciare il Conte della Marca, quelli erano dalla
volontà di tornare nella loro patria spinti; e ciascuno aveva
mosso il Duca con ragioni opportune e conforme al desiderio suo.
Niccolò gli mostrava come e' poteva mandarlo in Toscana e tenere
assediata Brescia, per essere signore del lago e avere i luoghi
di terra forti e bene muniti, e restargli capitani e gente da
potere opporsi al Conte quando volessi fare altra impresa (ma che
non era ragionevole la facesse sanza liberare Brescia, e a
liberarla era impossibile); in modo che veniva a fare guerra in
Toscana e a non lasciare la impresa di Lombardia: mostravagli
ancora che i Fiorentini erano necessitati subito che lo vedevono
in Toscana, a richiamare il Conte o perdersi; e qualunque l'una
di queste cose seguiva, ne resultava la vittoria.
I fuori usciti affermavano essere impossibile, se Niccolò con lo
esercito si accostava a Firenze che quel popolo, stracco dalle
gravezze e dalla insolenzia de' potenti, non pigliasse le armi
contro di loro: mostravongli lo accostarsi a Firenze essere
facile, promettendogli la via del Casentino aperta, per la
amicizia che messer Rinaldo teneva con quel conte: tanto che il
Duca, per sé prima voltovi, tanto più, per le persuasioni di
questi, fu in fare questa impresa confirmato.
I Viniziani dall'altra parte, con tutto che il verno fusse aspro,
non mancavano di sollecitare il Conte a soccorrere con tutto lo
esercito Brescia, la qual cosa il Conte negava potersi in quelli
tempi fare; ma che si doveva aspettare la stagione nuova, e in
quel tanto mettere in ordine l'armata, e di poi per acqua e per
terra soccorrerla.
Donde i Viniziani stavano di mala voglia, ed erano lenti a ogni
provisione, talmente che nello esercito loro erano assai genti
mancate.
27
Di tutte
queste cose fatti certi, i Fiorentini spaventorono, veggendosi
venire la guerra adosso e in Lombardia non si essere fatto molto
profitto.
Né dava loro meno affanno i sospetti ch'eglino avieno delle
genti della Chiesa; non perché il Papa fusse loro nimico, ma
perché vedevono quelle armi più ubbidire al Patriarca, loro
inimicissimo, che al Papa.
Fu Giovanni Vitelleschi cornetano, prima notaio apostolico, di
poi vescovo di Ricanati, appresso patriarca alessandrino; ma
diventato in ultimo cardinale, fu Cardinale fiorentino nominato.
Era costui animoso e astuto; e per ciò seppe tanto operare, che
dal Papa fu grandemente amato, e da lui preposto alli eserciti
della Chiesa; e di tutte le imprese che il Papa in Toscana, in
Romagna, nel Regno e a Roma fece, ne fu capitano: onde che prese
tanta autorità nelle genti e nel Papa, che questo temeva a
comandargli, e le genti a lui solo, e non ad altri, ubbidivano.
Trovandosi per tanto questo cardinale con le genti in Roma quando
venne la fama che Niccolò voleva passare in Toscana, si
raddoppiò a' Fiorentini la paura, per essere stato quel
cardinale, poi che messer Rinaldo fu cacciato, sempre a quello
stato nimico, veggendo che gli accordi fatti in Firenze intra le
parti per suo mezzo non erano stati osservati, anzi con
pregiudizio di messer Rinaldo maneggiati, sendo stato cagione che
posasse le armi e desse commodità a' nimici di cacciarlo: tanto
che ai principi del governo pareva che il tempo fusse venuto da
ristorare messer Rinaldo de' danni, se con Niccolò, venendo
quello in Toscana si accozzava.
E tanto più ne dubitavano parendo loro la partita di Niccolò di
Lombardia importuna, lasciando una impresa quasi vinta, per
entrare in una al tutto dubia; il che non credevono sanza qualche
nuova intelligenza o nascoso inganno facesse. Di questo loro
sospetto avevano avvertito il Papa, il quale aveva già
conosciuto lo errore suo per avere dato ad altri troppa autorità.
Ma in mentre che i Fiorentini stavano così sospesi la fortuna
mostrò loro la via come si potessero del Patriarca assicurare.
Teneva quella republica in tutti i luoghi diligenti esploratori
di quelli che portavano lettere, per scoprire se alcuno contro
allo stato loro alcuna cosa ordinasse.
Occorse che a Montepulciano furono prese lettere le quali il
Patriarca scriveva, sanza consenso del Pontefice, a Niccolò
Piccino; le quali subito il magistrato preposto alla guerra
presentò al Papa.
E benché le fussero scritte con non consueti caratteri, e il
senso di loro implicato in modo che non se ne potesse trarre
alcuno specificato sentimento, non di meno questa oscurità, con
la pratica del nimico, messe tanto sospetto nel Pontefice, che
deliberò di assicurarsene, e la cura di questa impresa ad
Antonio Rido da Padova, il quale era alla guardia del castello di
Roma preposto, dette. Costui, come ebbe la commissione, parato ad
ubbidire, che venisse la occasione aspettava.
Aveva il Patriarca deliberato passare in Toscana; e volendo il
dì seguente partire di Roma significò al Castellano che la
mattina fusse sopra il ponte del castello, perché, passando, gli
voleva di alcuna cosa ragionare.
Parve ad Antonio che la occasione fusse venuta; e ordinò a' suoi
quello dovessero fare; e al tempo aspettò il Patriarca sopra il
ponte che, propinquo alla rocca, per fortezza di quella si può,
secondo la necessità, levare e porre.
E come il Patriarca fu sopra quello, avendolo prima con il
ragionamento fermo, fece cenno a' suoi che alzassero il ponte;
tanto che il Patriarca in un tratto si trovò, di comandatore di
eserciti, prigione di uno castellano. Le genti che erano seco
prima romoreggiorono; di poi, intesa la volontà del Papa, si
quietorono.
Ma il Castellano confortando con umane parole il Patriarca, e
dandogli speranza di bene, gli rispose che gli uomini grandi non
si pigliavano per lasciargli, e quelli che meritavano di essere
presi, non meritavano di essere lasciati.
E così poco di poi morì in carcere; e il Papa alle sue genti
Lodovico patriarca di Aquileia prepose.
E non avendo mai voluto per lo adietro nelle guerre della lega e
del Duca implicarsi, fu allora contento intervenirvi; e promisse
essere presto per la difesa di Toscana, con quattro mila cavagli
e dumila fanti.
28
Liberati
i Fiorentini da questa paura, restava loro il timore di Niccolò
e della confusione delle cose di Lombardia, per i dispareri erano
tra i Viniziani e il Conte; i quali per intenderli meglio,
mandorono Neri di Gino Capponi e messer Giuliano Davanzati a
Vinegia; a' quali commissono che fermassero come l'anno futuro si
avesse a maneggiare la guerra; e a Neri imposono che, intesa la
opinione de' Viniziani, se ne andassi dal Conte per intendere la
sua e per persuaderlo a quelle cose che alla salute della lega
fussero necessarie.
Non erano ancora questi ambasciadori a Ferrara, ch'eglino
intesono Niccolò Piccino con sei milia cavagli avere passato il
Po; il che fece affrettare loro il cammino; e giunti a Vinegia,
trovorono quella Signoria tutta a volere che Brescia, sanza
aspettare altro tempo, si soccorresse, perché quella città non
poteva aspettare il soccorso al tempo nuovo, né che si fusse
fabricata l'armata, ma, non veggendo altri aiuti, si arrenderebbe
al nimico, il che farebbe al tutto vittorioso il Duca, e a loro
perdere tutto lo stato di terra.
Per la qual cosa Neri andò a Verona per udire il Conte, e quello
che allo incontro allegava.
Il quale gli dimostrò con assai ragioni il cavalcare in quelli
tempi verso Brescia essere inutile per allora e dannoso per la
impresa futura; perché, rispetto al tempo e al sito, a Brescia
non si farebbe frutto alcuno, ma solo si disordinerebbono e
affaticherebbono le sue genti, in modo che, venuto il tempo nuovo
e atto alle faccende, sarebbe necessitato con lo esercito
tornarsi a Verona per provedersi delle cose consumate il verno e
necessarie per la futura state; di maniera che tutto il tempo
atto alla guerra in andare e tornare si consumerebbe.
Erano con il Conte a Verona, mandati a praticare queste cose,
messer Orsatto Iustiniani e messer Giovanni Pisani.
Con questi, dopo molte dispute, si concluse che i Viniziani, per
lo anno nuovo, dessino al Conte ottantamila ducati e all'altre
loro genti ducati quaranta per lancia, e che si sollecitasse di
uscire fuora con tutto lo esercito, e si assalisse il Duca,
acciò che, per timore delle cose sue, facesse tornare Niccolò
in Lombardia.
Dopo la quale conclusione se ne tornorono a Vinegia.
I Viniziani, perché la somma del danaio era grande, ad ogni cosa
pigramente provvedevono.
29
Niccolò
Piccino, in questo mezzo, seguitava il suo viaggio, e già era
giunto in Romagna; e aveva operato tanto con i figliuoli di
messer Pandolfo Malatesti, che, lasciati i Viniziani, si erano
accostati al Duca.
Questa cosa dispiacque a Vinegia; ma molto più a Firenze;
perché credevono, per quella via, potere fare resistenza a
Niccolò; ma veduti i Malatesti ribellati, si sbigottirono,
massimamente perché temevono che Pietrogiampaolo Orsino, loro
capitano, il quale si trovava nelle terre de' Malatesti, non
fusse svaligiato, e rimanere disarmati.
Questa novella medesimamente sbigottì il Conte, perché temeva
di non perdere la Marca, passando Niccolò in Toscana; e disposto
di andare a soccorrere la casa sua, se ne venne a Vinegia; e
intromesso al Principe, mostrò come la passata sua in Toscana
era utile alla lega, perché la guerra si aveva a fare dove era
lo esercito e il capitano del nimico, non dove erano le terre e
le guardie sue: perché, vinto l'esercito, è vinta la guerra; ma
vinte le terre, e lasciando intero lo esercito, diventa molte
volte la guerra più viva; affermando la Marca e la Toscana
essere perdute, se a Niccolò non si faceva gagliarda opposizione;
le quali perdute, non aveva rimedio la Lombardia; ma quando l'avesse
rimedio, non intendeva di abbandonare i suoi sudditi e i suoi
amici; e che era passato in Lombardia signore, e non voleva
partirsene condottiere.
A questo fu replicato da il Principe come gli era cosa manifesta
che s'egli, non solamente partisse di Lombardia, ma con lo
esercito ripassasse il Po, che tutto lo stato loro di terra si
perderebbe; e loro non erano per spendere più alcuna cosa per
difenderlo, perché non è savio colui che tenta di difendere una
cosa che si abbia a perdere in ogni modo; ed è, con minore
infamia, meno danno perdere gli stati solo, che li stati e i
danari.
E quando la perdita delle cose loro seguisse, si vedrebbe allora
quanto importa la reputazione de' Viniziani a mantenere la
Toscana e la Romagna.
E però erano al tutto contrari alla sua opinione, perché
credevono che chi vincesse in Lombardia vincerebbe in ogni altro
luogo, e il vincere era facile, rimanendo lo stato del Duca, per
la partita di Niccolò, debile in modo che prima si poteva fare
rovinare che gli avesse o potuto rivocare Niccolò, o provedutosi
di altri rimedi.
E che chi esaminasse ogni cosa saviamente, vedrebbe il Duca non
avere mandato Niccolò in Toscana per altro che per levare il
Conte da queste imprese, e la guerra che gli ha in casa farla
altrove; di modo che, andandogli dietro il Conte, se prima non si
veggia una estrema necessità, si verrà ad adempiere i disegni
suoi e farlo della sua intenzione godere, ma se si manterranno le
genti in Lombardia e in Toscana si provvegga come e' si può, e'
si avvedrà tardi del suo malvagio partito, e in tempo che gli
arà sanza rimedio perduto in Lombardia e non vinto in Toscana.
Detta adunque e replicata da ciascuno la sua opinione, si
concluse che si stesse a vedere qualche giorno per vedere questo
accordo de' Malatesti con Niccolò quello partorisse, e se di
Pietrogiampaulo i Fiorentini si potevono valere, e se il Papa
andava di buone gambe con la lega, come gli aveva promesso.
Fatta questa conclusione, pochi giorni apresso furono certificati,
i Malatesti avere fatto quello accordo più per timore che per
alcuna malvagia cagione, e Pietrogiampaulo esserne ito con le sue
genti verso Toscana, e il Papa essere di migliore voglia per
aiutare la lega che prima.
I quali avvisi feciono fermare lo animo al Conte.
E fu contento rimanere in Lombardia; e Neri Capponi tornassi a
Firenze con mille de' suoi cavagli e con cinquecento degli altri;
e se pure le cose procedessino in modo, in Toscana, che la opera
del Conte vi fusse necessaria, che si scrivesse, e che allora il
Conte, sanza alcuno rispetto, si partisse.
Arrivò pertanto Neri con queste genti in Firenze di aprile, e il
medesimo dì giunse Giampaulo.
30
Niccolò
Piccino, in questo mezzo, ferme le cose di Romagna, disegnava di
scendere in Toscana; e volendo passare per l'alpe di San
Benedetto e per la valle di Montone, trovò quelli luoghi, per la
virtù di Niccolò da Pisa, in modo guardati, che giudicò che
vano sarebbe da quella parte ogni suo sforzo.
E perché i Fiorentini in questo assalto subito erano mal
provisti e di soldati e di capi, avevano a' passi di quelle alpi
mandati più loro cittadini, con fanterie di subito fatte, a
guardarli; intra' quali fu messer Bartolommeo Orlandini cavaliere,
al quale fu in guardia il castello di Marradi e il passo di
quella alpe consegnato.
Non avendo adunque Niccolò Piccino giudicato potere superare il
passo di San Benedetto, per la virtù di chi lo guardava,
giudicò di potere vincere quello di Marradi per la viltà di chi
l'aveva a difendere.
È Marradi uno castello posto a piè delle alpi che dividono la
Toscana dalla Romagna, ma da quella parte che guarda verso
Romagna, e nel principio di Val di Lamona; e benché sia senza
mura, non di meno il fiume, i monti e gli abitatori lo fanno
forte; perché gli uomini sono armigeri e fedeli, e il fiume in
modo ha roso il terreno, e ha sì alte le grotte sue, che a
venirvi di verso la valle è impossibile, qualunque volta un
picciol ponte, che è sopra il fiume, fusse difeso; e dalla parte
de' monti sono le ripe sì aspre che rendono quel sito
sicurissimo.
Non di meno la viltà di messer Bartolomeo rendé e quelli uomini
vili e quel sito debolissimo; perché non prima e' sentì il
romore delle genti inimiche, che, lasciato ogni cosa in abbandono,
con tutti i suoi se ne fuggì; né si fermò prima che al Borgo a
San Lorenzo.
Niccolò, entrato ne' luoghi abbandonati pieno di maraviglia che
non fussero difesi e di allegrezza di avergli acquistati, scese
in Mugello; dove occupò alcune castella; e a Pulicciano fermò
il suo esercito, donde scorreva tutto il paese infino a' monti di
Fiesole.
E fu tanto audace che passò Arno, e infino a tre miglia
propinquo a Firenze predò e scorse ogni cosa.
31
I
Fiorentini, dall'altra parte, non si sbigottirono, e prima che
ogni altra cosa, attesono a tenere fermo il governo; del quale
potevono poco dubitare per la benivolenza che Cosimo aveva nel
popolo, e per avere ristretti i primi magistrati intra pochi
potenti, i quali con la severità loro tenevono fermo, se pure
alcuno vi fusse stato male contento o di nuove cose desideroso.
Sapevano ancora, per gli accordi fatti in Lombardia con quali
forze tornava Neri, e da il Papa aspettavano le genti sue: la
quale speranza infino alla tornata di Neri li tenne vivi.
Il quale, trovata la città in questi disordini e paure,
deliberò uscire in campagna, per frenare in parte Niccolò, che
liberamente non saccheggiasse il paese, e fatto testa di più
fanti, tutti del popolo, con quella cavalleria si trovavano,
uscì fuora, e riprese Remole che tenevano i nimici; dove
accampatosi proibiva a Niccolò lo scorrere e a' cittadini dava
speranza di levargli il nimico d'intorno.
Niccolò, veduto come i Fiorentini quando erano spogliati di
gente non avevono fatto alcuno movimento, e inteso con quanta
sicurtà in quella città si stava, gli pareva invano consumare
il tempo, e deliberò fare altre imprese, acciò che i Fiorentini
avessero cagione di mandargli dietro le genti, e dargli occasione
di venire alla giornata; la quale vincendo, pensava che ogni
altra cosa gli succedessi prospera.
Era nello esercito di Niccolò Francesco conte di Poppi, il quale
si era, come i nimici furono in Mugello ribellato da' Fiorentini
con i quali era in lega.
E benché prima i Fiorentini ne dubitassero, per farselo con i
benificii amico, gli accrebbono la provisione, e sopra tutte le
loro terre a lui convicine lo feciono commissario.
Non di meno (tanto può negli uomini lo amore della parte) alcuno
benifizio né alcuna paura gli poté fare sdimenticare l'affezione
portava a messer Rinaldo e agli altri che nello stato primo
governavano; tanto che, subito che gli intese Niccolò esser
propinquo, si accostò con lui; e con ogni sollecitudine lo
confortava a scostarsi dalla città e passare in Casentino,
mostrandogli la fortezza del paese, e con quale securtà poteva,
di quivi, tenere stretti i nimici.
Prese per tanto Niccolò questo consiglio;giunto in Casentino,
occupò Romena e Bibbiena; di poi pose il campo a Castel San
Niccolò.
È questo castello posto a piè delle alpi che dividono il
Casentino da il Val d'Arno; e per essere in luogo assai rilevato,
e dentrovi sufficienti guardie, fu difficile la sua espugnazione,
ancora che Niccolò con briccole e simili artiglierie
continuamente lo combattesse.
Era durato questo assedio più di venti giorni, infra il quale
tempo i Fiorentini avevano le loro genti raccozzate; e di già
avevano, sotto più condottieri, tremila cavagli a Fegghine
ragunati, governati da Pietrogiampaulo capitano e da Neri Capponi
e Bernardo de' Medici commissari.
A costoro vennono quattro, mandati da Castello San Niccolò, a
pregarli dovessero dare loro soccorso.
I commissari, esaminato il sito, vedevano non li potere
soccorrere se non per le alpi che venivano di Val d'Arno; la
sommità delle quali poteva essere occupata prima dal nimico che
da loro, per avere a fare più corto cammino, e per non potersi
la loro venuta celare; in modo che si andava a tentare una cosa
da non riuscire e poterne seguire la rovina delle genti loro.
Onde che i commissari lodorono la fede di quelli, e commissono
loro che, quando e' non potessero più difendersi si arrendessero.
Prese adunque Niccolò questo castello dopo trentadue giorni che
vi era ito con il campo, e tanto tempo perduto per sì poco
acquisto fu della rovina della sua impresa buona parte cagione;
perché, se si manteneva con le genti d'intorno a Firenze, faceva
che chi governava quella città non poteva se non con rispetto,
strignere i cittadini a fare danari; e con più difficultà
ragunavano le genti e facevono ogni altra provisione avendo il
nimico adosso, che discosto; e arebbono molti avuto animo a
muovere qualche accordo per assicurarsi di Niccolò con la pace,
veggendo che la guerra fusse per durare.
Ma la voglia che il conte di Poppi aveva di vendicarsi contro a
quelli castellani, stati lungo tempo suoi nimici, gli fece dare
quel consiglio; e Niccolò, per sodisfargli, lo prese, il che fu
la rovina dell'uno e dell'altro: e rade volte accade che le
particulari passioni non nuochino alle universali commodità.
Niccolò, seguitando la vittoria, prese Rassina e Chiusi.
In questi parti il conte di Poppi lo persuadeva a fermarsi,
mostrando come e' poteva distendere le sue genti fra Chiusi,
Caprese e la Pieve; e veniva ad essere signore delle alpi, e
potere a sua posta in Casentino, in Val d'Arno, in Val di Chiana
e in Val di Tevere scendere, ed essere presto ad ogni moto che
facessino i nimici.
Ma Niccolò, considerata la asprezza de' luoghi, gli disse che i
suoi cavagli non mangiavano sassi; e ne andò al Borgo a San
Sepolcro, dove amichevolmente fu ricevuto.
Dal quale luogo tentò gli animi di quelli di Città di Castello,
i quali, per essere amici a' Fiorentini, non lo udirono.
E desiderando egli avere i Perugini a sua devozione, con quaranta
cavagli se ne andò a Perugia, dove fu ricevuto, sendo loro
cittadino, amorevolmente.
Ma in pochi giorni vi diventò sospetto, e tentò con il Legato e
con i Perugini più cose, e non gliene successe niuna; tanto che,
ricevuto da loro ottomila ducati, se ne tornò allo esercito.
Di quivi tenne pratiche in Cortona per torla a' Fiorentini; e per
essersi scoperta la cosa prima che il tempo, diventorono i
disegni suoi vani.
Era intra i primi cittadini di quella città Bartolommeo di Senso:
costui andando la sera, per ordine del capitano, alla guardia d'una
porta, gli fu da uno del contado, suo amico, fatto intendere che
non vi andasse, se voleva non esservi morto.
Volle intendere Bartolommeo il fondamento della cosa, e trovò l'ordine
del trattato che si teneva con Niccolò.
Il che Bartolommeo, per ordine al capitano rivelò; il quale,
assicuratosi de' capi della congiura e raddoppiato le guardie
alle porte, aspettò, secondo l'ordine dato, che Niccolò venisse;
il quale venne di notte e al tempo ordinato; e trovandosi
scoperto, se ne ritornò agli alloggiamenti suoi.
32
Mentre
che queste cose in questa maniera in Toscana si travagliavano, e
con poco acquisto per la gente del Duca, in Lombardia non erano
quiete, ma con perdita e danno suo.
Perché il conte Francesco, come prima lo consentì il tempo,
uscì con lo esercito suo in campagna; e perché i Viniziani
avevano la loro armata del lago instaurata, volle il Conte, prima
che ogni cosa, insignorirsi delle acque, e cacciare il Duca del
lago, giudicando, fatto questo, che l'altre cose gli sarieno
facile.
Assaltò per tanto, con l'armata de' Viniziani, quella del Duca,
e la ruppe, e con le genti di terra le castella che al Duca
ubbidivano; tanto che l'altre genti ducali, che per terra
strignevano Brescia, intesa quella rovina, si allargorono: e
così Brescia, dopo tre anni che l'era stata assediata, dallo
assedio fu libera.
Apresso a questa vittoria, il Conte andò a trovare li nimici che
si erano ridotti a Soncino, castello posto in sul fiume dello
Ollio, e quelli diloggiò, e li fece ritirare a Cremona; dove il
Duca fece testa, e da quella parte i suoi stati difendeva.
Ma stringendolo più l'uno dì che l'altro il Conte e dubitando
non perdere o tutto o gran parte degli stati suoi, cognobbe la
malvagità del partito da lui preso, di mandare Niccolò in
Toscana; e per ricorreggere lo errore, scrisse a Niccolò in
quali termini si trovava e dove erano condotte le sue imprese:
per tanto, il più presto potesse, lasciato la Toscana, se ne
tornasse in Lombardia.
I Fiorentini, in questo mezzo, sotto i loro commissari avevono
ragunate le loro genti con quelle del Papa, e avevano fatto alto
ad Anghiari, castello posto nelle radice de' monti che dividono
Val di Tevere da Val di Chiana, discosto al Borgo a San Sepolcro
quattro miglia, via piana, e i campi atti a ricevere cavagli e
maneggiarvisi guerra.
E perché eglino avieno notizia delle vittorie del Conte e della
revocazione di Niccolò, giudicorono con la spada dentro e sanza
polvere avere vinta quella guerra; e per ciò a' commissari
scrissono che si astenessero dalla giornata, perché Niccolò non
poteva molti giorni stare in Toscana.
Questa commissione venne a notizia a Niccolò, e veggendo la
necessità del partirsi, per non lasciare cosa alcuna intentata,
deliberò fare la giornata, pensando di trovare i nimici
sproveduti e con il pensiero alieno dalla zuffa.
A che era confortato da messer Rinaldo, da il conte di Poppi e
dagli altri fuorusciti fiorentini, i quali la loro manifesta
rovina cognoscevano se Niccolò si partiva, ma venendo a giornata,
credevono o potere vincere la impresa, o perderla onorevolmente.
Fatta adunque questa deliberazione, mosse lo esercito donde era,
intra Città di Castello e il Borgo; e venuto al Borgo sanza che
i nimici se ne accorgessero, trasse di quella terra dumila uomini,
i quali confidando nella virtù del capitano e nelle promesse sue,
desiderosi di predare, lo seguirono.
33
Dirizzatosi
dunque Niccolò, con le schiere in battaglia, verso Anghiari, era
già loro propinquo a meno di dua miglia, quando da Micheletto
Attendulo fu veduto un grande polverio; e accortosi come gli
erano i nimici, gridò all'arme.
Il tumulto nel campo de' Fiorentini fu grande, perché,
campeggiando quelli eserciti per lo ordinario sanza alcuna
disciplina, vi si era aggiunta la negligenzia, per parere loro
avere il nimico discosto e più disposto alla fuga che alla zuffa;
in modo che ciascuno era disarmato, di lungi dagli alloggiamenti,
e in quel luogo dove la volontà, o per fuggire il caldo che era
grande, o per seguire alcuno suo diletto, lo aveva tirato.
Pure fu tanta la diligenza de' commissari e del capitano, che,
avanti fussero arrivati i nimici, erano a cavallo e ordinati a
potere resistere allo impeto suo.
E come Micheletto fu il primo a scoprire il nimico, così fu il
primo armato ad incontrarlo; e corse con le sue genti sopra il
ponte del fiume che attraversa la strada non molto lontano da
Anghiari.
E perché, davanti alla venuta del nimico, Pietrogiampaulo aveva
fatto spianare le fosse che circundavano la strada che è tra il
ponte e Anghiari, sendosi posto Micheletto allo incontro del
ponte, Simoncino, condottiere della Chiesa, con il Legato, si
mossono da man destra, e da sinistra i commissari fiorentini con
Pietrogiampaulo loro capitano, e le fanterie disposono da ogni
parte su per la ripa del fiume.
Non restava per tanto agli nimici altra via aperta ad andare a
trovare gli avversarii loro, che la diritta del ponte; né i
Fiorentini avevono altrove che al ponte a combattere, eccetto che
alle fanterie loro avevono ordinato che, se le fanterie nimiche
uscivano di strada per essere a' fianchi delle loro genti d'armi,
con le balestra le combattessero, acciò che quelle non potessero
ferire per fianco i loro cavalli che passassero il ponte.
Furono per tanto le prime genti che comparsono da Micheletto
gagliardamente sostenute, e non che altro, da quello ributtate;
ma sopravenendo Astor e Francesco Piccinino con gente eletta, con
tale impeto in Micheletto percossono, che gli tolsono il ponte e
lo pinsono infino al cominciare dell'erta che sale al borgo di
Anghiari; di poi furono ributtati e ripinti fuori del ponte da
quelli che dai fianchi gli assalirono.
Durò questa zuffa due ore, che ora Niccolò, ora le genti
fiorentine erano signori del ponte.
E benché la zuffa sopra il ponte fusse pari, non di meno e di
là e di qua dal ponte con disavvantaggio grande di Niccolò si
combatteva.
Perché, quando le genti di Niccolò passavano il ponte,
trovavano i nimici grossi, che, per le spianate fatte, si
potevono maneggiare, e quelli che erano stracchi potevono dai
freschi essere soccorsi; ma quando le genti fiorentine lo
passavano, non poteva commodamente Niccolò rinfrescare i suoi,
per essere angustiato dalle fosse e dagli argini che fasciavano
la strada: come intervenne, perché molte volte le genti di
Niccolò vinsono il ponte, e sempre dalle genti fresche degli
avversarii furono ripinte indietro, ma come il ponte dai
Fiorentini fu vinto, talmente che le loro genti entrorono nella
strada, non sendo a tempo Niccolò, per la furia di chi veniva e
per la incommodità del sito a rinfrescare i suoi, in modo quelli
davanti con quelli di dietro si mistorono, che l'uno disordinò l'altro,
e tutto lo esercito fu constretto mettersi in volta e ciascuno,
sanza alcuno rispetto, si rifuggì verso il Borgo.
I soldati fiorentini attesono alla preda; la quale fu, di
prigioni, di arnesi e di cavagli, grandissima, perché con
Niccolò non rifuggirono salvi mille cavalli.
I Borghigiani, i quali avevono seguitato Niccolò per predare, di
predatori divennono preda, e furono presi tutti e taglieggiati;
le insegne e i carriaggi furono tolti.
E fu la vittoria molto più utile per la Toscana, che dannosa per
il Duca; perché, se i Fiorentini perdevono la giornata, la
Toscana era sua; e perdendo quello, non perdé altro che le armi
e i cavagli del suo esercito; i quali con non molti danari si
poterono recuperare.
Né furono mai tempi che la guerra che si faceva ne' paesi d'altri
fusse meno pericolosa per chi la faceva, che in quelli.
E in tanta rotta e in sì lunga zuffa, che durò dalle venti alle
ventiquattro ore, non vi morì altri che uno uomo; il quale, non
di ferite o d'altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e
calpesto espirò: con tanta securtà allora gli uomini
combattevano, perché, sendo tutti a cavallo, e coperti d'arme, e
securi dalla morte qualunque volta e' si arrendevano, non ci era
cagione perché dovessero morire, defendendogli nel combattere le
armi, e quando e' non potevono più combattere, lo arrendersi.
34
È questa
zuffa, per le cose seguite combattendo e poi, esemplo grande
della infelicità di queste guerre; perché, vinti i nimici e
ridutto Niccolò nel Borgo, i commissari volevono seguirlo e in
quel luogo assediarlo per avere la vittoria intera; ma da alcuno
condottiere o soldato non furono voluti ubbidire, dicendo volere
riporre la preda e medicare i feriti.
E quello che è più notabile fu che l'altro dì, a mezzo giorno,
sanza licenza o rispetto di commissario o di capitano ne andorono
ad Arezzo, e quivi lasciata la preda, ad Anghiari ritornorono:
cosa tanto contro ad ogni lodevole ordine e militare disciplina,
che ogni reliquia di qualunque ordinato esercito arebbe
facilmente e meritamente potuto loro torre quella vittoria che
gli avieno immeritamente acquistata.
Oltra di questo, volendo i commissari che ritenessero gli uomini
d'arme presi, per torre occasione al nimico di rifarsi, contro
alla volontà loro li liberorono.
Cose tutte da maravigliarsi come in uno esercito così fatto
fusse tanta virtù che sapesse vincere, e come nello inimico
fusse tanta viltà che da sì disordinate genti potesse essere
vinto. Nello andare dunque e tornare che feciono le genti
fiorentine di Arezzo, Niccolò ebbe tempo a partirsi con le sue
genti dal Borgo, e ne andò verso Romagna, con il quale ancora i
rebelli fiorentini si fuggirono.
I quali, vedutosi mancata ogni speranza di tornare a Firenze, in
più parti, in Italia e fuori, secondo la commodità di ciascuno,
si divisono.
De' quali messer Rinaldo elesse la sua abitazione ad Ancona: e
per guadagnarsi la celeste patria, poi che gli aveva perduta la
terrestre, se ne andò al sepulcro di Cristo; donde tornato, nel
celebrare le nozze d'una sua figliuola sendo a mensa, di subito
morì: e fugli in questo la fortuna favorevole, che nel meno
infelice giorno del suo esilio lo fece morire.
Uomo veramente in ogni fortuna onorato: ma più ancora stato
sarebbe, se la natura lo avesse in una città unita fatto nascere;
perché molte sue qualità in una città divisa lo offesono, che
in una unita l'arebbono premiato.
I commissari adunque, tornate le genti loro da Arezzo, e partito
Niccolò, si presentorono al Borgo.
I Borghesi volevono darsi a' Fiorentini, e quelli recusavano di
pigliarli: e nel trattare questi accordi, il Legato del pontefice
insospettì de' commissari, che non volessero quella terra
occupare alla Chiesa; tanto che vennono insieme a parole
ingiuriose; e sarebbe seguito intra le genti fiorentine e le
ecclesiastiche disordine se la pratica fusse ita molto in lunga
ma perché la ebbe il fine che voleva i Legato, ogni cosa si
pacificò.
35
Mentre
che le cose del Borgo si travagliavano, si intese Niccolò
Piccino essere ito verso Roma; e altri avvisi dicevano verso la
Marca; donde parve al Legato e alle genti sforzesche di andare
verso Perugia, per suvvenire o alla Marca o a Roma, dove Niccolò
si fusse volto; e con quelle andasse Bernardo de Medici; e Neri
con le genti fiorentine ne andassi allo acquisto del Casentino.
Fatta questa deliberazione Neri ne andò a campo a Rassina, e
quella prese, e con il medesimo impeto prese Bibbiena, Prato
Vecchio e Romena, e di quivi pose il campo a Poppi, e da due
parti lo cinse: una nel piano di Certomondo, l'altra sopra il
colle che passa a Fronzoli.
Quel Conte, vedutosi abbandonato da Dio e dagli uomini, si era
rinchiuso in Poppi, non perché gli sperasse di potere avere
alcuno aiuto, ma per fare l'accordo, se poteva, meno dannoso.
Stringendolo pertanto Neri, egli adimandò patti; e trovolli tali
quali in quel tempo ei poteva sperare: di salvare sé, suoi
figliuoli e cose che ne poteva portare; e la terra e lo stato
cedere ai Fiorentini.
E quando e' capitulorono, discese sopra il ponte di Arno, che
passa a piè della terra, e tutto doloroso e afflitto disse a
Neri: - Se io avesse bene misurato la fortuna mia e la potenza
vostra, io verrei ora amico a rallegrarmi con voi della vostra
vittoria, non nimico a supplicarvi che fusse meno grave la mia
rovina.
La presente sorte, come la è a voi magnifica e lieta, così è a
me dolente e misera.
Io ebbi cavagli, arme, sudditi, stato e ricchezze: che maraviglia
è se mal volentieri le lascio? Ma se voi volete e potete
comandare a tutta la Toscana, di necessità conviene che noi
altri vi ubbidiamo; e se io non avesse fatto questo errore, la
mia fortuna non sarebbe stata cognosciuta, e la vostra
liberalità non si potrebbe conoscere; perché, se voi mi
conserverete, darete al mondo uno eterno esemplo della vostra
clemenzia.
Vinca per tanto la pietà vostra il fallo mio; lasciate almeno
questa sola casa al disceso di coloro da' quali i padri vostri
hanno innumerabili benifici ricevuti -.
il quale Neri rispose come lo avere sperato troppo in quelli che
potevono poco lo aveva fatto in modo contro alla republica di
Firenze errare, che, aggiuntovi le condizioni de' presenti tempi,
era necessario cedesse tutte le cose sue, e quelli luoghi nimico
a' Fiorentini abbandonasse, che loro amico non aveva voluti
tenere: perché gli aveva dato di sé tale esemplo che non poteva
essere nutrito dove, in ogni variazione di fortuna, e' potesse a
quella republica nuocere; perché non lui, ma gli stati suoi si
temevano; ma che se nella Magna e' potessi essere principe,
quella città lo desiderrebbe, e per amore di quelli suoi antichi
che gli allegava, lo favorirebbe.
A questo il Conte, tutto sdegnato, rispose che vorrebbe i
Fiorentini molto più discosto vedere.
E così, lasciato ogni amorevole ragionamento, il Conte, non
veggendo altro rimedio, cedé la terra e tutte le sue ragioni a'
Fiorentini; e con tutte le sue robbe, insieme con la moglie e co'
figliuoli, piangendo si partì; dolendosi di avere perduto uno
stato che i suoi padri per novecento anni avevono posseduto.
Queste vittorie tutte, come s'intesono a Firenze, furono da i
principi del governo e da quel populo con maravigliosa allegrezza
ricevute.
E perché Bernardetto de' Medici trovò essere vano che Niccolò
fusse ito verso la Marca o a Roma, se ne tornò con le genti dove
era Neri; e insieme tornati a Firenze, fu loro deliberati tutti
quelli onori e quali, secondo l'ordine della città, a loro
vittoriosi cittadini si possono deliberare maggiori; e da i
Signori e da' Capitani di parte, e di poi da tutta la città,
furono ad uso di trionfanti ricevuti.
LIBRO SESTO
1
Fu sempre,
e così è ragionevole che sia, il fine di coloro che muovono una
guerra, di arricchire sé e impoverire il nimico; né per altra
cagione si cerca la vittoria, né gli acquisti per altro si
desiderano, che per fare sé potente e debole lo avversario.
Donde ne segue che, qualunque volta o la tua vittoria ti
impoverisce o lo acquisto ti indebolisce, conviene si trapassi o
non si arrivi a quel termine per il quale le guerre si fanno.
Quel principe e quella republica è dalle vittorie nelle guerre
arricchito, che spegne i nimici ed è delle prede e delle taglie
signore; quello delle vittorie impoverisce, che i nimici, ancora
che vinca, non può spegnere, e le prede e le taglie, non a lui,
ma a i suoi soldati appartengono.
Questo tale è nelle perdite infelice e nelle vittorie
infelicissimo, perché, perdendo, quelle ingiurie sopporta che
gli fanno i nimici; vincendo, quelle che gli fanno gli amici; le
quali, per essere meno ragionevoli, sono meno sopportabili,
veggendo massime essere i suoi sudditi con taglie e nuove offese
di raggravare necessitato; e se gli ha in sé alcuna umanità,
non si può di quella vittoria interamente rallegrare, della
quale tutti i suoi sudditi si contristono.
Solevono le antiche e bene ordinate republiche, nelle vittorie
loro, riempiere d'oro e d'ariento lo erario, distribuire doni nel
popolo, rimettere a' sudditi i tributi, e con giuochi e con
solenne feste festeggiarli; ma quelle di quelli tempi che noi
descriviamo, prima votavono lo erario, di poi impoverivano il
popolo, e de' nimici tuoi non ti assicuravano.
Il che tutto nasceva da il disordine con il quale quelle guerre
si trattavano: perché, spogliandosi i nimici vinti, e non si
ritenendo né ammazzando, tanto quelli a riassalire il vincitore
differivono, quanto ei penavano da chi gli conduceva d'essere d'arme
e cavagli riforniti. Sendo ancora le taglie e la preda de'
soldati, i principi vincitori di quelle nelle nuove spese de'
nuovi soldi non si valevano, ma delle viscere de' loro popoli gli
traevono, né partoriva altro la vittoria, in benifizio de'
popoli, se non che la faceva il principe più sollecito e meno
respettivo ad aggravargli.
E a tale quelli soldati avevono la guerra condotta, che
ugualmente al vincitore e al vinto, a volere potere alle sue
genti comandare, nuovi danari bisognavano, perché l'uno aveva a
rivestirgli, l'altro a premiargli; e come quelli sanza essere
rimessi a cavallo non potevano, così quelli altri sanza nuovi
premi combattere non volevano.
Di qui nasceva che l'uno godeva poco la vittoria, l'altro poco
sentiva la perdita; perché il vinto era a tempo a rifarsi, e il
vittorioso non era a tempo a seguire la vittoria.
2
Questo
disordine e perverso modo di milizia fece che Niccolò Piccino
era prima rimontato a cavallo, che si sapesse per Italia la sua
rovina; e maggiore guerra faceva dopo la perdita al nimico, che
prima non aveva fatta.
Questo fece che, dopo la rotta di Tenna, e' potette occupare
Verona; questo fece che, spogliato delle sue genti a Verona, e'
potette venire con un grosso esercito in Toscana; questo fece che,
rotto ad Anghiari, innanzi che pervenisse in Romagna, era in su i
campi più potente che prima, e potette riempiere il Duca di
Milano di speranza di potere difendere la Lombardia, la quale per
la sua assenzia gli pareva quasi che avere perduta.
Perché, mentre che Niccolò riempiva di tumulti la Toscana, il
Duca si era ridotto in termine che dubitava dello stato suo; e
giudicando che potesse prima seguire la rovina sua, che Niccolò
Piccino il quale aveva richiamato, fusse venuto a soccorrerlo,
per frenare l'impeto del Conte e temporeggiare quella fortuna con
la industria, la quale non poteva con la forza sostenere, ricorse
a quelli remedi i quali in simili termini molte volte gli erano
giovati; e mandò Niccolò da Esti principe di Ferrara a
Peschiera, dove era il Conte.
Il quale per parte sua lo confortò alla pace, e gli mostrò come
al Conte non era quella guerra a proposito: perché, se il Duca
si indeboliva in modo che non potesse mantenere la reputazione
sua, sarebbe egli il primo che ne patirebbe, perché da'
Viniziani e Fiorentini non sarebbe più stimato.
E in fede che il Duca desiderava la pace, gli offerse la
conclusione del parentado: e manderebbe la figliuola a Ferrara;
la quale gli prometteva, seguita la pace, dargli nelle mani.
Il Conte rispose che se il Duca veramente cercassi la pace,
facilmente la troverrebbe, come cosa dai Fiorentini e Viniziani
desiderata: vero era che con difficultà se gli poteva credere
conosciuto che non abbi mai fatto pace se non per necessità, la
quale come manca, gli ritorna la voglia della guerra; ne anche al
suo parentado si poteva prestare fede, sendone stato tante volte
beffato non di meno, quando la pace si concludessi, farebbe poi
del parentado quanto dagli amici fusse consigliato.
3
I
Viniziani, i quali de' loro soldati nelle cose ancora non
ragionevoli sospettono, presono ragionevolmente di queste
pratiche sospetto grandissimo; il quale volendo il Conte
cancellare, seguiva la guerra gagliardamente.
Non di meno l'animo, a lui per ambizione e a' Viniziani per
sospetto, era in modo intepidito, che quello restante della state
si ferono poche imprese; in modo che, tornato Niccolò Piccino in
Lombardia, e di già cominciato il verno, tutti gli eserciti ne
andorono alle stanze: il Conte in Verona, in Cremona il Duca, le
genti fiorentine in Toscana, e quelle del Papa in Romagna. Le
quali, poi che ebbono vinto ad Anghiari, assaltorono Furlì e
Bologna, per trarle di mano a Francesco Piccinino, che in nome
del padre le governava; e non riuscì loro, perché furono da
Francesco gagliardamente difese.
Non di meno questa loro venuta dette tanto spavento ai Ravennati
di non tornare sotto lo imperio della Chiesa, che, d'accordo con
Ostasio di Polenta loro signore, si missero nella potestà de'
Viniziani; i quali, in guidardone della ricevuta terra, acciò
che per alcun tempo Ostasio non potesse loro per forza torre
quello che per poca prudenzia aveva loro dato, lo mandarono,
insieme con un suo figliuolo, a morire in Candia. Nelle quali
imprese, non ostante la vittoria di Anghiari, mancando al Papa
danari vendé il castello del Borgo a Santo Sipolcro
venticinquemila ducati, a' Fiorentini.
Stando per tanto le cose in questi termini, e parendo a ciascuno,
mediante la vernata, essere sicuro della guerra, non si pensava
più alla pace; e massime il Duca, per essere da Niccolò Piccino
e dalla stagione rassicurato.
E per ciò aveva rotto con il Conte ogni ragionamento d'accordo,
e con grande diligenzia rimisse Niccolò a cavallo; e faceva
qualunque altro provedimento che per una futura guerra si
richiedeva.
Della qual cosa avendo notizia il Conte, ne andò a Vinegia, per
consigliarsi con quel Senato come per lo anno futuro si avessero
a governare.
Niccolò dall'altra parte, trovandosi in ordine, e vedendo il
nimico disordinato, non aspettò che venisse la primavera; e nel
più freddo verno passò l'Adda, e entrò nel Bresciano, e tutto
quel paese, fuora che Asola e Orci, occupò; dove più che dumila
cavalli sforzeschi, i quali questo assalto non aspettavano,
svaligiò e prese.
Ma quello che più dispiacque al Conte e più sbigottì i
Viniziani fu che Ciarpellone, uno de' primi capitani del Conte,
si ribellò da lui.
Il Conte, avuto questo avviso, partì subito da Vinegia, e
arrivato a Brescia trovò Niccolò, fatto quelli danni, essersi
ritornato alle stanze; donde che al Conte non parve, poi che
trovò la guerra spenta, di raccenderla; ma volle, poi che il
tempo e il nimico gli davano commodità a riordinarsi, usarla,
per potere poi, con il nuovo tempo, vendicarsi delle vecchie
offese.
Fece adunque che i Viniziani richiamassero le genti che in
Toscana servivono a' Fiorentini, e in luogo di Gattamelata morto,
volle che Micheletto Attendulo conducessero.
4
Venuta
adunque la primavera, Niccolò Piccino fu il primo a uscire in
campagna; e campeggiò Cignano, castello lontano da Brescia
dodici miglia; al soccorso del quale venne il Conte; e tra l'uno
e l'altro di quelli capitani, secondo la loro consuetudine, si
maneggiava la guerra.
E dubitando, il Conte, di Bergamo, andò a campo a Martiningo,
castello posto in luogo da potere facilmente, espugnato quello,
soccorrere Bergamo; la qual città da Niccolò era gravemente
offesa; e perché egli aveva preveduto non potere esser impedito
dal nimico se non per la via di Martiningo, aveva quel castello
di ogni difesa fornito; tal che al Conte fu necessario andare a
quella espugnazione con tutte le forze.
Donde che Niccolò, con tutto lo esercito suo, si pose in luogo
che gli impediva le vettovaglie al Conte, e con tagliate e
bastioni in modo si era affortificato, che il Conte nol poteva,
se non con suo manifesto pericolo, assalire; e ridussesi la cosa
in termine che lo assediatore era in maggiore pericolo che quelli
di Martiningo, che erano assediati.
Donde che il Conte non poteva più per la fame campeggiare, né,
per il pericolo, poteva levarsi; e si vedeva per il Duca una
manifesta vittoria, e per i Viniziani e il Conte una espressa
rovina.
Ma la fortuna, alla quale non manca modo di aiutare gli amici e
disfavorire i nimici, fece in Niccolò Piccino, per la speranza
di questa vittoria, crescere tanta ambizione e insolenzia che,
non avendo rispetto al Duca né a sé, gli mandò a dire come,
avendo militato sotto le sue insegne gran tempo, e non avendo
ancora acquistata tanta terra che vi si potesse sotterrare dentro,
voleva intendere da lui di quali premii avesse a essere per le
sue fatiche premiato, perché in sua potestà era farlo signore
di Lombardia e porgli tutti i suoi nimici in mano; e parendogli
che d'una certa vittoria ne avesse a nascere certo premio,
desiderava gli concedesse la città di Piacenza, acciò, stanco
di sì lunga milizia, potesse qualche volta riposarsi. Né si
vergognò, in ultimo, minacciare il Duca di lasciare la impresa,
quando a questa sua domanda non acconsentisse. Questo modo di
domandare ingiurioso e insolente offese tanto il Duca e ne prese
tanto sdegno, che deliberò più tosto volere perdere la impresa
che consentirlo.
E quello che tanti pericoli e tanti minacci di nimici non avevono
fatto piegare, gli insolenti modi degli amici piegorono: e
deliberò fare lo accordo con il Conte; a cui mandò Antonio
Guidobuono da Tortona; e per quello gli offerse la figliuola e le
condizioni della pace; le quali cose furono avidamente da lui e
da tutti i collegati accettate.
E fermi i patti secretamente infra loro, mandò il Duca a
comandare a Niccolò che facesse tregua per uno anno con il Conte,
mostrando essere tanto con le spese affaticato che non poteva
lasciare una certa pace per una dubia vittoria.
Restò Niccolò ammirato di questo partito, come quello che non
poteva cognoscere qual cagione lo movesse a fuggire sì gloriosa
vittoria; e non poteva credere che, per non volere premiare gli
amici, e' volesse e suoi nimici salvare.
Per tanto, in quel modo che gli parve migliore, a questa
deliberazione si opponeva; tanto che il Duca fu constretto, a
volerlo quietare, di minacciarlo che lo darebbe, quando egli non
vi acconsentisse, a' suoi soldati e a' suoi nimici in preda.
Ubbidì adunque Niccolò, non con altro animo che si faccia colui
che per forza abbandona gli amici e la patria, dolendosi della
sua malvagia sorte; poi che ora la fortuna, ora il Duca, de' suoi
nimici gli toglievono la vittoria.
Fatta la triegua, le nozze di madonna Bianca e del Conte si
celebrorono; e per dota di quella gli consegnò la città di
Cremona.
Fatto questo, si fermò la pace, di novembre, nel 1441; dove per
i Viniziani Francesco Barbadico e Paulo Trono, e per i Fiorentini
messer Agnolo Acciaiuoli convennono, nella quale i Viniziani
Peschiera, Asola e Lonato, castella del marchese mantuano,
guadagnorono.
5
Ferma la
guerra in Lombardia, restavano le armi del Regno; le quali, non
si potendo quietare, furono cagione che di nuovo in Lombardia si
ripigliassero.
Era il re Rinato da Alfonso di Ragona stato spogliato, mentre la
guerra di Lombardia si travagliava di tutto il reame eccetto che
di Napoli, tale che Alfonso parendogli avere la vittoria in mano,
deliberò, mentre assediava Napoli, torre al Conte Benevento e
gli altri suoi stati che in quelle circunstanze possedeva;
perché giudicava questo fatto potergli sanza suo periculo
riuscire, sendo il Conte nelle guerre di Lombardia occupato.
Successe ad Alfonso per tanto facilmente questa impresa; e con
poca fatica tutte quelle terre occupò; ma venuta la nuova della
pace di Lombardia, Alfonso temé che il Conte non venisse, per le
sue terre, in favore di Rinato, e Rinato sperò per le medesime
cagioni in quello.
Mandò per tanto Rinato a sollecitare il Conte, pregandolo che
venisse a soccorrere uno amico e d'uno nimico a vendicarsi.
Dall'altra parte Alfonso pregava Filippo che dovesse, per la
amicizia aveva seco fare dare al Conte tanti affanni che,
occupato in maggiori imprese, fusse di lasciare quella
necessitato.
Accettò Filippo questo invito, sanza pensare che turbava quella
pace la quale poco davanti aveva con tanto suo disavantaggio
fatta.
Fece per tanto intendere a papa Eugenio come allora era tempo di
riavere quelle terre che il Conte, della Chiesa, ocupava; e a
questo fare gli offerse Niccolò Piccino pagato mentre che la
guerra durasse; il quale, fatta la pace, si stava con le sue
genti in Romagna.
Prese Eugenio cupidamente questo consiglio, per lo odio teneva
con il Conte e per il desiderio aveva di riavere il suo; e se
altra volta fu con questa medesima speranza da Niccolò ingannato,
credeva ora, intervenendoci il Duca, non potere dubitare di
inganno; e accozzate le genti con quelle di Niccolò, assalì la
Marca.
Il Conte, percosso da sì inopinato assalto, fatto testa delle
sue genti, andò contro al nimico.
In questo mezzo il re Alfonso occupò Napoli; donde che tutto
quel regno, eccetto Castelnuovo, venne in sua potestà.
Lasciato per tanto Rinato, in Castelnuovo, buona guardia, si
partì; e venuto a Firenze, fu onoratissimamente ricevuto; dove
stato pochi giorni, veduto non potere fare più guerra se ne
andò a Marsilia.
Alfonso, in questo mezzo, aveva preso Castelnuovo, e il Conte si
trovava, nella Marca, inferiore al Papa e a Niccolò; per ciò
ricorse a' Viniziani e Fiorentini per aiuti di gente e di danari,
mostrando che, se allora ei non pensavano di frenare il Papa e il
Re, mentre che gli era ancora vivo, ch'eglino arebbono, poco di
poi, a pensare alla salute propria, perché si accosterebbono con
Filippo, e dividerebbonsi la Italia.
Stettono i Fiorentini e i Viniziani un tempo sospesi, sì per non
giudicare se si era bene inimicarsi con il Papa e con il Re, sì
per trovarsi occupati nelle cose de' Bolognesi.
Aveva Annibale Bentivogli cacciato di quella città Francesco
Piccinino, e per potersi defendere dal Duca, che favoriva
Francesco, aveva a' Viniziani e Fiorentini domandato aiuto; e
quelli non gliene avieno negato; in modo che, essendo in queste
imprese occupati, non potevono resolversi ad aiutare il Conte.
Ma sendo seguito che Annibale aveva rotto Francesco Piccinino, e
parendo quelle cose posate, deliberorono i Fiorentini suvvenire
al Conte; ma prima, per assicurarsi del Duca, rinnovorono la lega
con quello.
Da che il Duca non si discostò, come colui che aveva consentito
si facesse guerra al Conte mentre che il re Rinato era in su l'armi,
ma vedutolo spento e privo in tutto del Regno, non gli piaceva
che il Conte fusse de' suoi stati spogliato e per ciò, non
solamente consentì agli aiuti del Conte, ma scrisse ad Alfonso
che fusse contento di tornarsi nel Regno e non gli fare più
guerra.
E benché da Alfonso questo fusse fatto mal volentieri, non di
meno, per gli oblighi aveva con il Duca, deliberò sodisfargli, e
si tirò con le genti di là dal Tronto.
6
Mentre
che in Romagna le cose secondo questo ordine si travagliavano,
non stettono i Fiorentini quieti infra loro.
Era in Firenze, intra i cittadini reputati nel governo, Neri di
Gino Capponi, della cui reputazione Cosimo de' Medici più che di
alcuno altro temeva, perché al credito grande che gli aveva
nella città, quello che gli aveva con i soldati si aggiugneva;
perché, essendo stato molte volte capo degli eserciti fiorentini,
se li aveva, con la virtù e con i meriti guadagnati.
Oltre a di questo, la memoria delle vittorie che da lui e da Gino
suo padre si ricognoscevano (avendo questo espugnata Pisa, e
quello vinto Niccolò Piccino ad Anghiari) lo faceva amare da
molti e temere da quelli che desideravono non avere nel governo
compagnia Intra molti altri capi dello esercito fiorentino era
Baldaccio di Anghiari, uomo in guerra eccellentissimo, perché in
quelli tempi non era alcuno, in Italia, che di virtù di corpo e
d'animo lo superassi; e aveva intra le fanterie, perché di
quelle sempre era stato capo, tanta reputazione che ogni uomo
existimava che con quello in ogni impresa e a ogni sua volontà
converrebbono.
Era Baldaccio amicissimo a Neri, come quello che per le sue
virtù, delle quali era sempre stato testimone, lo amava; il che
arrecava agli altri cittadini sospetto grandissimo.
E giudicando che fussi il lasciarlo pericoloso e il tenerlo
pericolosissimo, deliberorono di spegnerlo.
Al quale loro pensiero fu in questo la fortuna favorevole: era
gonfaloniere di giustizia messer Bartolomeo Orlandini: costui,
sendo mandato alla guardia di Marradi quando, come di sopra
dicemmo, Niccolò Piccino passò in Toscana, vilmente se ne era
fuggito, e aveva abbandonato quel passo che per sua natura quasi
si difendeva; dispiacque tanta viltà a Baldaccio, e con parole
ingiuriose e con lettere fece noto il poco animo di costui: di
che messer Bartolomeo ebbe vergogna e dispiacere grande; e
sommamente desiderava vendicarsene, pensando di potere, con la
morte dello accusatore, la infamia delle sue colpe cancellare.
7
Questo
desiderio di messer Bartolomeo era dagli altri cittadini
cognosciuto, tanto che, sanza molta fatica, che dovesse spegnere
quello gli persuasono e a un tratto sé della ingiuria vendicasse
e lo stato da uno uomo liberasse che bisognava o con pericolo
nutrirlo, o licenziarlo con danno.
Fatta per tanto Bartolomeo deliberazione di ammazzarlo, rinchiuse
nella camera sua molti giovani armati, ed essendo Baldaccio
venuto in Piazza, dove ciascun giorno veniva a trattare con i
magistrati della sua condotta, mandò il Gonfaloniere per lui, il
quale, sanza alcuno sospetto, ubbidì. A cui il Gonfaloniere si
fece incontro, e con seco per lo andito, lungo le camere de'
Signori, della sua condotta ragionando, dua o tre volte
passeggiò.
Di poi, quando gli parve tempo, sendo pervenuto propinquo alla
camera che gli armati nascondeva, fece loro il cenno.
I quali saltorono fuora, e quello trovato solo e disarmato
ammazzorono, e così morto per la finestra che del Palagio in
Dogana risponde, gittorono, e di quivi, portatolo in Piazza, e
tagliatogli il capo, per tutto il giorno a tutto il popolo
spettaculo ne feciono.
Rimase di costui uno solo figliuolo, che Annalena sua donna pochi
anni davanti gli aveva partorito, il quale non molto tempo visse.
E restata Annalena priva del figliuolo e del marito, non volle
più con altro uomo accompagnarsi; e fatto delle sue case uno
munistero, con molte nobili donne che con lei convennono si
rinchiuse, dove santamente morì e visse.
La cui memoria, per il munistero creato e nomato da lei, come al
presente vive, così viverà sempre.
Questo fatto abbassò, in parte, la potenza di Neri, e tolsegli
reputazione e amici.
Né bastò questo a' cittadini, dello stato, perché, sendo già
passati dieci anni dopo il principio dello stato loro, ed essendo
la autorità della balia finita, e pigliando molti con il parlare
e con le opere più animo che non si richiedeva, giudicorono i
capi dello stato che, a non volere perdere quello, fussi
necessario ripigliarlo, dando di nuovo autorità agli amici e li
nimici battendo.
E per ciò, nel 1444, creorono, per i Consigli, nuova balia; la
quale riformò gli ufici, dette autorità a pochi di potere
creare la Signoria; rinnovò la Cancelleria delle riformazioni,
privandone ser Filippo Peruzzi e a quella preponendo uno che
secondo il parere de' potenti si governassi; prolungò il tempo
de' confini a' confinati, pose Giovanni di Simone Vespucci nelle
carcere; privò degli onori gli accoppiatori dello stato nimico,
e con quelli i figliuoli di Piero Baroncelli, tutti i Serragli,
Bartolomeo Fortini, messer Francesco Castellani e molti altri.
E con questi modi a sé renderono autorità e reputazione, e a'
nimici e sospetti tolsono l'orgoglio.
8
Fermo
così e ripreso lo stato, si volsono alle cose di fuora.
Era Niccolò Piccino, come di sopra dicemmo, stato abbandonato da
il re Alfonso, e il Conte, per lo aiuto che da' Fiorentini aveva
avuto, era diventato potente; donde che quello assalì Niccolò
presso a Fermo, e quello ruppe di modo che Niccolò, privato
quasi di tutte le sue genti, con pochi si rifuggì in Montecchio;
dove si fortificò e difese tanto che in breve tempo tutte le sue
genti gli tornorono apresso, e in tanto numero che potette
facilmente difendersi dal Conte sendo massimamente di già venuto
il verno, per il quale furono quelli capitani constretti mandare
le loro genti alle stanze.
Niccolò attese tutta la vernata ad ingrossare lo esercito, e da
il Papa e da il re Alfonso fu aiutato, tanto che, venuta la
primavera, si ridussono quelli capitani alla campagna; dove,
essendo Niccolò superiore, era condotto il Conte in estrema
necessità; e sarebbe stato vinto, se da il Duca non fussino
stati a Niccolò i suoi disegni rotti.
Mandò Filippo a pregare quello che subito andassi a lui, perché
gli aveva a parlare di bocca di cose importantissime.
Donde che Niccolò, cupido di intenderle, abbandonò per uno
incerto bene una certa vittoria; e lasciato Francesco suo
figliuolo capo dello esercito, se ne andò a Milano.
Il che sentendo il Conte, non volse perdere la occasione del
combattere mentre che Niccolò era assente e venuto alla zuffa
propinquo al castello di Monte Loro, ruppe le genti di Niccolò,
e Francesco prese Niccolò, arrivato a Milano, e vedutosi
aggirato da Filippo, e intesa la rotta e la presa del figliuolo,
per dolore morì.
l'anno 1445, di età di sessantaquattro anni; stato più virtuoso
che felice capitano. E di lui restorono Francesco e Iacopo, i
quali ebbono meno virtù e più cattiva fortuna del padre; tanto
che queste armi braccesche quasi che si spensero e le sforzesche,
sempre dalla fortuna aiutate, diventorono più gloriose.
Il Papa, vedendo battuto lo esercito di Niccolò e lui morto, né
sperando molto negli aiuti di Ragona, cercò la pace con il Conte;
e per il mezzo de' Fiorentini si conchiuse.
Nella quale al Papa, delle terre della Marca, Osimo Fabriano e
Ricanati restorono: tutto il restante sotto lo imperio del Conte
rimase.
9
Seguita
la pace nella Marca, sarebbe tutta Italia pacificata, se dai
Bolognesi non fusse stata turbata.
Erano in Bologna due potentissime famiglie, Canneschi e
Bentivogli: di questi era capo Annibale, di quelli Batista.
Avevano, per meglio potersi l'uno dell'altro fidare, contratto
intra loro parentado; ma infra gli uomini che aspirano ad una
medesima grandezza si può facilmente fare parentado, ma non
amicizia.
Era Bologna in lega con i Fiorentini e Viniziani la quale,
mediante Annibale Bentivogli, dopo che ne avevono cacciato
Francesco Piccinino, era stata fatta; e sapiendo Batista quanto
il Duca desiderava avere quella città favorevole, tenne pratica
seco di ammazzare Annibale e ridurre quella città sotto le
insegne sua.
Ed essendo convenuti del modo, a dì 24 di giugno, nel 1445,
assalì Batista Annibale con i suoi e quello ammazzò; di poi,
gridando il nome del Duca, corse la terra.
Erano in Bologna i commissari viniziani e fiorentini; i quali al
primo romore si ritirorono in casa; ma veduto poi come il popolo
non favoriva gli ucciditori, anzi in gran numero, ragunati con le
armi in Piazza, della morte di Annibale si dolevono, preso animo,
e con quelle genti si trovavono, si accostorono a quelli; e fatto
testa, le genti cannesche assalirono, e quelle in poco d'ora
vinsono; delle quali parte ammazzorono, parte fuora della città
cacciorono. Batista, non essendo stato a tempo a fuggire, né i
nimici ad ammazzarlo, drento alle sue case, in una tomba fatta
per conservare frumento, si nascose; e avendone i suoi nimici
cerco tutto il giorno, e sapendo come e' non era uscito della
città, feciono tanto spavento ai suoi servidori, che da uno suo
ragazzo, per timore, fu loro mostro; e tratto di quello luogo,
ancora coperto d'armi, fu prima morto, di poi per la terra
strascinato e arso.
Così l'autorità del Duca fu sufficiente a farli fare quella
impresa, e la sua potenza non fu a tempo a soccorrerlo.
10
Posati
adunque, per la morte di Batista e fuga de' Canneschi, questi
tumulti, restorono i Bolognesi in grandissima confusione, non vi
sendo alcuno della casa de' Bentivogli atto al governo, ed
essendo rimaso di Annibale un solo figliuolo, chiamato Giovanni,
di età di sei anni, in modo che si dubitava che intra gli amici
de' Bentivogli non nascesse divisione, la quale facessi ritornare
i Canneschi, con la rovina della patria e della parte loro.
E mentre stavano in questa suspensione di animo, Francesco che
era stato conte di Poppi, trovandosi in Bologna, fece intendere a
quelli primi della città che, se volevono essere governati da
uno disceso del sangue di Annibale, lo sapeva loro insegnare.
E narrò come, sendo, circa venti anni passati, Ercule cugino di
Annibale a Poppi, sapeva come egli ebbe cognoscenza con una
giovane di quello castello, della quale ne nacque uno figliuolo
chiamato Santi, il quale Ercule gli affermò più volte essere
suo; né pareva che potesse negarlo, perché chi cognobbe Ercule
e cognosce il giovane vede infra loro una somiglianza grandissima.
Fu da quelli cittadini prestato fede alle parole di costui, né
differirono punto a mandare a Firenze loro cittadini a
ricognoscere il giovane e operare con Cosimo e con Neri che fusse
loro concesso.
Era quello che si reputava padre di Santi morto, tanto che quel
giovane sotto la custodia d'uno suo zio, chiamato Antonio da
Cascese, viveva.
Era Antonio ricco, e sanza figliuoli, e amico a Neri: per ciò
intesa che fu questa cosa, Neri giudicò che fussi né da
sprezzarla né temerariamente da accettarla, e volle che Santi,
alla presenzia di Cosimo, con quelli che da Bologna erano mandati
parlasse.
Convennono costoro insieme; e Santi fu dai Bolognesi, non
solamente onorato, ma quasi adorato: tanto poteva nelli animi di
quelli lo amore delle parti.
Né per allora si concluse alcuna cosa, se non che Cosimo chiamò
Santi in disparte, e sì gli disse: - Niuno, in questo caso, ti
può meglio consigliare che tu medesimo; perché tu hai a
pigliare quel partito a che l'animo ti inclina: perché, se tu
sarai figliuolo di Ercole Bentivogli, tu ti volgerai a quelle
imprese che di quella casa e di tuo padre fieno degne; ma se tu
sarai figliuolo di Agnolo da Cascese, ti resterai in Firenze a
consumare in una arte di lana vilmente la vita tua.
- Queste parole commossono il giovane; e dove prima egli aveva
quasi che negato di pigliare simile partito, disse che si
rimetteva in tutto a quello che Cosimo e Neri ne deliberassi;
tanto che, rimasi d'accordo con i mandati bolognesi, fu di veste,
cavagli e servitori onorato; e poco di poi, accompagnato da molti,
a Bologna condotto e al governo del figliuolo di Annibale e della
città posto.
Dove con tanta prudenzia si governò, che, dove i suoi maggiori
erano stati tutti dai loro nimici morti, egli e pacificamente
visse e onoratissimamente morì.
11
Dopo la
morte di Niccolò Piccino e la pace seguita nella Marca,
desiderava Filippo avere uno capitano il quale a' suoi eserciti
comandasse; e tenne pratiche secrete con Ciarpellone, uno de'
primi capi del conte Francesco; e fermo infra loro lo accordo,
Ciarpellone domandò licenza al Conte di andare a Milano, per
entrare in possessione di alcune castella che da Filippo gli
erano nelle passate guerre state donate.
Il Conte dubitando di quello che era, acciò che il Duca non se
ne potessi contro a' suoi disegni servire, lo fece prima
sostenere e poco di poi morire, allegando di averlo trovato in
fraude contro a di lui.
Di che Filippo prese grandissimo dispiacere e sdegno, il che
piacque a' Fiorentini e a' Viniziani, come quelli che temevano
assai se le armi del Conte e la potenza di Filippo diventavano
amiche.
Questo sdegno per tanto fu cagione di suscitare nuova guerra
nella Marca.
Era signore di Rimino Gismondo Malatesti, il quale per essere
genero del Conte, sperava la signoria di Pesero, ma il Conte,
occupata quella, ad Alessandro suo fratello la dette, di che
Gismondo sdegnò forte.
Al quale sdegno si aggiunse che Federigo di Montefeltro, suo
nimico per i favori del Conte aveva la signoria di Urbino
occupata: questo fece che Gismondo si accostò al Duca, e che
sollecitava il Papa e il Re a fare guerra al Conte.
Il quale, per fare sentire a Gismondo i primi frutti di quella
guerra che desiderava, pensò di prevenirlo, e in un tratto lo
assalì. Onde che subito si riempierono di tumulti la Romagna e
la Marca, perché Filippo, il Re e il Papa mandorono grossi aiuti
a Gismondo, e i Fiorentini e Viniziani, se non di genti, di
danari provedevono il Conte.
Né bastò a Filippo la guerra di Romagna, ché disegnò torre al
Conte Cremona e Pontremoli: ma Pontremoli da' Fiorentini, e
Cremona da' Viniziani fu difesa.
In modo che in Lombardia ancora si rinnovò la guerra: nella
quale, dopo alquanti travagli seguiti nel Cremonese, Francesco
Piccinino, capitano del Duca, fu, a Casale, da Micheletto e dalle
genti de' Viniziani rotto.
Per la quale vittoria i Viniziani sperarono di potere torre lo
stato al Duca; e mandorono uno loro commissario in Cremona, e la
Chiaradadda assalirono, e quella tutta, fuori che Crema,
occuporono; di poi, passato l'Adda, scorrevono per infino a
Milano, donde che il Duca ricorse ad Alfonso, e lo pregò volesse
soccorrerlo, mostrandogli i pericoli del Regno, quando la
Lombardia fusse in mano de' Viniziani.
Promisse Alfonso mandargli aiuti, i quali con difficultà, sanza
consentimento del Conte, potevono passare.
12
Per tanto
Filippo ricorse con i prieghi al Conte: che non volesse
abbandonare il suocero, già vecchio e cieco.
Il Conte si teneva offeso dal Duca per avergli mosso guerra; dall'altra
parte la grandezza de' Viniziani non gli piaceva, e di già i
danari gli mancavano, e la lega lo provedeva parcamente, perché
a' Fiorentini era uscita la paura del Duca, la quale faceva loro
stimare il Conte, e i Viniziani desideravano la sua rovina, come
quelli che giudicavano lo stato di Lombardia non potere essere
loro tolto se non da il Conte.
Non di meno, mentre che Filippo cercava di tirarlo a' suoi soldi,
e gli offeriva il principato di tutte le sue genti, purché
lasciasse i Viniziani e la Marca restituisse al Papa, gli
mandorono ancora loro ambasciadori, promettendogli Milano se lo
prendevano, e la perpetuità del capitaneato delle loro genti,
pure che seguisse la guerra nella Marca e impedisse che non
venissero aiuti di Alfonso in Lombardia.
Erano adunque le promesse de' Viniziani grandi, e i meriti loro
grandissimi, avendo mosso quella guerra per salvare Cremona al
Conte; e dall'altra parte le ingiurie del Duca erano fresche, e
le sue promesse infedeli e deboli.
Pure non di meno stava dubio il Conte di qual partito dovessi
prendere: perché dall'uno canto l'obligo della lega, la fede
data, i meriti freschi e le promesse delle cose future lo
movevano; dall'altro i prieghi del suocero, e sopra tutto il
veleno che dubitava che sotto le grandi promesse de' Viniziani si
nascondesse; giudicando dovere stare, e delle promesse e dello
stato, qualunque volta avessero vinto, a loro discrezione; alla
quale niuno prudente principe non mai, se non per necessità, si
rimisse.
Queste difficultà di risolversi al Conte furono dalla ambizione
de' Viniziani tolte via: i quali, avendo speranza di occupare
Cremona per alcune intelligenzie avieno in quella città, sotto
altro colore vi fecero appressare le loro genti.
Ma la cosa si scoprì da quelli che per il Conte la guardavano; e
riuscì il loro disegno vano; per che non acquistorono Cremona, e
il Conte perderono; il quale, posposti tutti i rispetti, si
accostò al Duca.
13
Era morto
papa Eugenio, e creato per suo successore Niccola V, e il Conte
aveva già tutto lo esercito a Cutignuola per passare in
Lombardia, quando gli venne avviso Filippo essere morto, che
correva l'anno 1447, all'ultimo di agosto.
Questa nuova riempié di affanni il Conte; perché non gli pareva
che le sue genti fussero ad ordine, per non avere avuto lo intero
pagamento; temeva de' Viniziani, per essere in su l'armi e suoi
nimici, avendo di fresco lasciati quelli e accostatosi al Duca;
temeva di Alfonso, suo perpetuo nimico; non sperava nel Papa né
ne' Fiorentini: in questi, per essere collegati con i Viniziani;
in quello, per essere delle terre della Chiesa possessore.
Pure deliberò di mostrare il viso alla fortuna, e secondo gli
accidenti di quella consigliarsi; perché molte volte, operando,
si scuoprono quelli consigli che, standosi, sempre si
nasconderebbono.
Davagli grande speranza il credere che, se i Milanesi dalla
ambizione de' Viniziani si volessero difendere, che non potessero
ad altre armi che alle sue rivolgersi. Onde che, fatto buono
animo, passò nel Bolognese; e passato di poi Modena e Reggio, si
fermò con le genti in su la Lenza, e a Milano mandò a offerirsi.
De i Milanesi, morto il Duca parte volevono vivere liberi, parte
sotto uno principe: di quelli che amavano il principe l'una parte
voleva il Conte l'altra il re Alfonso.
Per tanto, sendo quelli che amavano la libertà più uniti,
prevalsono agli altri, e ordinorono a loro modo una republica, la
quale da molte città del Ducato non fu ubbidita, giudicando
ancora quelle potere, come Milano, la loro libertà godere; e
quelle che a quella non aspiravano, la signoria de' Milanesi non
volevono.
Lodi adunque e Piacenza si dierono a' Viniziani, Pavia e Parma si
feciono libere.
Le quali confusioni sentendo il Conte, se ne andò a Cremona;
dove i suoi oratori insieme con oratori milanesi vennono, con la
conclusione che fusse capitano de' Milanesi con quelli capitoli
che ultimamente con il duca Filippo aveva fatti. A' quali
aggiunsono che Brescia fusse del Conte, e acquistandosi Verona,
fusse sua quella, e Brescia restituisse.
14
Avanti
che il Duca morisse, papa Niccola, dopo la sua assunzione al
pontificato, cercò di creare pace intra i principi italiani; e
per questo operò, con gli oratori che i Fiorentini gli mandorono
nella creazione sua, che si facesse una dieta a Ferrara, per
trattare o lunga triegua o ferma pace.
Convennono adunque, in quella città, il legato del Papa, gli
oratori viniziani, ducali e fiorentini; quelli del re Alfonso non
v'intervennono. Trovavasi costui a Tiboli, con assai genti a piè
e a cavallo, e di quivi favoriva il Duca; e si crede che, poi ch'eglino
ebbono tirato da il canto loro il Conte, che volessino
apertamente i Fiorentini e i Viniziani assalire, e in quel tanto
che l'indugiavano le genti del Conte ad essere in Lombardia,
intrattenere la pratica della pace a Ferrara; dove il Re non
mandò, affermando che ratificherebbe a quanto da il Duca si
concludesse.
Fu la pace molti giorni praticata; e dopo molte dispute, si
concluse o una pace per sempre o una tregua per cinque anni,
quale di queste dua al Duca piacesse; ed essendo iti gli oratori
ducali a Milano per intendere la sua volontà, lo trovorono morto.
Volevono, non ostante la sua morte, i Milanesi seguire lo accordo;
ma i Viniziani non vollono, come quelli che presono speranza
grandissima di occupar quello stato, veggendo massime che Lodi e
Piacenza, subito dopo la morte del Duca, si erano loro arrese;
tale che li speravano, o per forza o per accordo, potere in breve
tempo spogliare Milano di tutto lo stato, e quello di poi in modo
opprimere, che ancora esso si arrendesse prima che alcuno, lo
suvvenisse; e tanto più si persuasono questo, quando viddono i
Fiorentini implicarsi in guerra con il re Alfonso.
15
Era quel
re a Tiboli, e volendo seguire la impresa di Toscana, secondo che
con Filippo aveva deliberato, parendogli che la guerra che si era
già mossa in Lombardia fusse per darli tempo e commodità,
desiderava avere un piè nello stato de' Fiorentini, prima che
apertamente si movesse; e per ciò tenne trattato nella rocca di
Cennina, in Valdarno di sopra, e quella occupò.
I Fiorentini, percossi da questo inopinato accidente, e veggendo
il Re mosso per venire a' loro danni, soldorono genti, creorono i
Dieci, e secondo il loro costume si preparorono alla guerra.
Era già condotto il Re con il suo esercito sopra il Sanese, e
faceva ogni suo sforzo per tirare quella città a' suoi voleri:
non di meno stierono quelli cittadini nella amicizia de'
Fiorentini fermi, e non riceverono il Re in Siena, né in alcuna
loro terra: provedevanlo bene di viveri, di che gli scusava la
impotenza loro e la gagliardia del nimico.
Non parve al Re entrare per la via del Valdarno, come prima aveva
disegnato, sì per avere riperduta Cennina, sì perché di già i
Fiorentini erano in qualche parte forniti di gente; e si inviò
verso Volterra, e molte castella nel Volterrano occupò.
Di quindi n'andò in quello di Pisa; e per li favori che gli
feciono Arrigo e Fazio de' conti della Gherardesca, prese alcune
castella, e da quelle assalì Campiglia; la quale non possé
espugnare, perché fu da' Fiorentini e dal verno difesa.
Onde che il Re lasciò, nelle terre prese, guardie da difenderle
e da potere scorrere il paese, e con il restante dello esercito
si ritirò alle stanze in nel paese di Siena.
I Fiorentini intanto, aiutati dalla stagione, con ogni studio si
providdono di gente, capi delle quali erano Federigo signore di
Urbino e Gismondo Malatesti da Rimino; e benché fra questi fusse
discordia, non di meno, per la prudenza, di Neri di Gino e di
Bernardetto de Medici commissari, si mantennono in modo uniti che
si uscì a campo sendo ancora il verno grande, e si ripresono le
terre perdute nel Pisano e le Ripomerancie nel Volterrano; e i
soldati del Re, che prima scorrevono le maremme, si frenorono di
sorte che con fatica potevono le terre loro date a guardia
mantenere.
Ma venuta la primavera, i commissari feciono alto, con tutte le
loro genti, allo Spedaletto, in numero di cinquemila cavalli e
due mila fanti; e il Re ne venne con le sue, in numero di
quindicimila, propinquo a tre miglia a Campiglia.
E quando si stimava tornassi a campeggiare quella terra, si
gittò a Piombino, sperando di averlo facilmente, per essere
quella terra male provvista, e per giudicare quello acquisto a
sé utilissimo e ai Fiorentini pernizioso; per ché da quel luogo
poteva consumare con una lunga guerra i Fiorentini, potendo
provederlo per mare, e tutto il paese di Pisa perturbare.
Per ciò dispiacque a Fiorentini questo assalto; e consigliatisi
quello fusse da fare, giudicorono che, se si poteva stare con lo
esercito nelle macchie di Campiglia, che il Re sarebbe forzato
partirsi o rotto o vituperato.
E per questo armarono quattro galeazze avevono a Livorno, e con
quelle messono trecento fanti in Piombino, e posonsi alle Caldane,
luogo dove con difficultà potevono essere assaliti, perché
alloggiare alle macchie, nel piano, lo giudica vano pericoloso.
16
Aveva lo
esercito fiorentino le vettovaglie dalle terre circunstante, le
quali, per essere rade e poco abitate, lo prevedevono con
difficultà; tale che lo esercito ne pativa, e massimamente
mancava di vino, perché, non vi se ne ricogliendo e d'altronde
non ne potendo avere non era possibile che se ne avesse per
ciascuno.
Ma il Re, ancora che dalle genti fiorentine fusse tenuto stretto,
abbondava, da strame in fuora, d'ogni cosa, perché era per mare
di tutto proveduto.
Vollono per tanto i Fiorentini fare pruova se per mare ancora le
genti loro potessero suvvenire, e caricorono le loro galeazze di
viveri; e fattole venire, furono da sette galee del Re incontrate,
e dua ne furono prese, e dua fugate.
Questa perdita fece perdere la speranza alle genti fiorentine del
rinfrescamento; onde che dugento saccomanni o più, per
mancamento massime del vino, si fuggirono nel campo del Re; e l'altre
genti mormoreggiavano, affermando non essere per stare in luoghi
caldissimi, dove non fusse vino a l'acque fussero cattive; tanto
che i commissari deliberorono abbandonare quel luogo, e volsonsi
alla recuperazione di alcune castella che ancora restavano in
mano al Re.
Il quale dall'altra parte, ancora che non patissi di viveri e
fusse superiore di genti, si vedeva mancare, per essere il suo
esercito ripieno di malattie che in quelli tempi i luoghi
maremmani producono; e furono di tanta potenza che molti ne
morivano e quasi tutti erano infermi.
Onde che si mossono pratiche di accordo, per il quale il Re
domandava cinquanta mila fiorini, e che Piombino gli fusse
lasciato a discrezione.
La qual cosa consultata a Firenze, molti, desiderosi della pace,
l'accettavano, affermando non sapere come si potesse sperare di
vincere una guerra che a sostenerla tante spese fussero
necessarie, ma Neri Capponi, andato a Firenze, in modo con le
ragioni la sconfortò, che tutti i cittadini d'accordo a non la
accettare convennono, e il signore di Piombino per loro
raccomandato accettorono, e a tempo di pace e di guerra di
suvvenirlo promissono, purché non si abbandonasse, e si volesse,
come infino allora aveva fatto, difendere.
Intesa il Re questa deliberazione, e veduto, per lo infermo suo
esercito, di non potere acquistare la terra si levò quasi che
rotto da campo; dove lasciò più che dumila uomini morti; e con
il restante dello infermo esercito si ritirò nel paese di Siena,
e di quindi nel Regno, tutto sdegnato contro a' Fiorentini,
minacciandoli, a tempo nuovo, di nuova guerra.
17
Mentre
che queste cose in Toscana in simil modo si travagliavano, il
conte Francesco, in Lombardia, sendo diventato capitano de'
Milanesi, prima che ogni altra cosa si fece amico Francesco
Piccinino, il quale per li Milanesi militava, acciò che nelle
sue imprese lo favorisse, o con più rispetto lo ingiuriasse.
Ridussesi adunque con lo esercito suo in campagna, onde che
quelli di Pavia giudicorono non si potere dalle sue forze
difendere, e non volendo dall'altra parte ubbidire a' Milanesi,
gli offersono la terra con queste condizioni che non li mettessi
sotto lo imperio di Milano. Desiderava il Conte la possessione di
quella città, parendogli uno gagliardo principio a potere
colorire i disegni suoi, né lo riteneva il timore o la vergogna
del rompere la fede, perché gli uomini grandi chiamono vergogna
il perdere, non con inganno acquistare; ma dubitava, pigliandola,
non fare sdegnare i Milanesi in modo che si dessero a' Viniziani;
e non la pigliando, temeva del duca di Savoia, al quale molti
cittadini si volevono dare, e nell'uno caso e nell'altro gli
pareva essere privo dello imperio di Lombardia.
Pure non di meno, pensando che fusse minor pericolo nel prendere
quella città che nel lasciarla prendere ad uno altro deliberò
di accettarla, persuadendosi potere acquietare i Milanesi.
A' quali fece intendere ne' pericoli s'incorreva quando non
avessi accettata Pavia, perché quelli cittadini si sarebbono
dati o a' Viniziani o al Duca, e nell'uno e nell'altro caso lo
stato loro era perduto; e come ei dovevono più contentarsi di
avere lui per vicino amico, che uno potente, quale era qualunque
di quelli, e nimico.
I Milanesi si turborono assai del caso, parendo loro avere
scoperta l'ambizione del Conte e il fine a che egli andava; ma
giudicorono non potere scoprirsi, perché non vedevono,
partendosi dal Conte, dove si volgere altrove che a' Viniziani,
de' quali la superbia e le gravi condizioni temevano; e per ciò
deliberorono non si spiccare dal Conte, e per allora rimediare
con quello ai mali che soprastavano loro, sperando che, liberati
da quelli, si potrebbono ancora liberare da lui; perché, non
solamente da' Viniziani, ma ancora dai Genovesi e duca di Savoia,
in nome di Carlo d'Orliens, nato d'una sorella di Filippo, erano
assaliti.
Il quale assalto il Conte con poca fatica oppresse.
Solo adunque gli restorono nimici i Viniziani, i quali con uno
potente esercito volevono occupare quello stato, e tenevano Lodi
e Piacenza, alla quale il Conte pose il campo, e quella, dopo una
lunga fatica, prese e saccheggiò.
Di poi, perché ne era venuto il verno, ridusse le sue genti
nelli alloggiamenti, ed egli se ne andò a Cremona, dove tutta la
vernata con la moglie si riposò.
18
Ma venuta
la primavera, uscirono gli eserciti viniziani e milanesi alla
campagna.
Desideravano i Milanesi acquistare Lodi, e di poi fare accordo
con i Viniziani, perché le spese della guerra erano loro
rincresciute e la fede del capitano era loro sospetta; tal che
sommamente desideravano la pace, per riposarsi e per assicurarsi
del Conte.
Deliberorono per tanto che il loro esercito andassi allo acquisto
di Caravaggio, sperando che Lodi si arrendesse qualunque volta
quel castello fusse tratto delle mani del nimico.
Il Conte ubbidì a' Milanesi, ancora che l'animo suo fussi
passare l'Adda e assalire il Bresciano.
Posto dunque lo assedio a Caravaggio, con fossi e altri ripari si
affortificò, acciò che, se i Viniziani volessero levarlo da
campo, con loro disavvantaggio lo avessero ad assalire.
I Viniziani dall'altra parte vennono con il loro esercito, sotto
Micheletto loro capitano, propinqui a duoi tiri d'arco al campo
del Conte; dove più giorni dimororono, e feciono molte zuffe.
Non di meno il Conte seguiva di strignere il castello, e lo aveva
condotto in termine che conveniva si arrendesse, la quale cosa
dispiaceva ad i Viniziani, parendo loro, con la perdita di quello,
avere perduta la impresa.
Fu per tanto intra i loro capitani grandissima disputa del modo
del soccorrerlo; né si vedeva altra via che andare dentro ai
suoi ripari a trovare il nimico; dove era disavvantaggio
grandissimo; ma tanto stimorono la perdita di quel castello che
il Senato veneto, naturalmente timido e discosto da qualunque
partito dubio e pericoloso, volle più tosto, per non perdere
quello, porre in pericolo il tutto, che, con la perdita di esso,
perdere la impresa.
Feciono adunque deliberazione di assalire in qualunque modo il
Conte; e levatisi una mattina di buona ora in arme, da quella
parte che era meno guardata lo assalirono, e nel primo impeto,
come interviene nelli assalti che non si aspettono, tutto lo
esercito sforzesco perturborono.
Ma subito fu ogni disordine da il Conte in modo riparato, che i
nimici, dopo molti sforzi fatti per superare gli argini, furono,
non solamente ributtati, ma in modo fugati e rotti, che di tutto
lo esercito, dove erano meglio che dodici mila cavagli, non se ne
salvorono mille, e tutte loro robe e carriaggi furono predati;
né mai fino a quel dì fu ricevuta dai Viniziani la maggiore e
più spaventevole rovina.
E intra la preda e i presi fu trovato... proveditore viniziano,
il quale, avanti alla zuffa e nel maneggiare la guerra, aveva
parlato vituperosamente del Conte, chiamando quello bastardo e
vile, di modo che, trovandosi dopo la rotta prigione, e de' suoi
falli ricordandosi, dubitando non essere secondo i suoi meriti
premiato, arrivato avanti al Conte, tutto timido e spaventato,
secondo la natura degli uomini superbi e vili, la quale è nelle
prosperità essere insolenti e nelle avversità abietti e umili,
gittatosi lagrimando ginocchione, gli chiese delle ingiurie
contro a quello usate perdono.
Levollo il Conte; e presolo per il braccio gli fece buono animo,
e confortollo a sperare bene. Poi gli disse che si maravigliava
che uno uomo di quella prudenza e gravità che voleva essere
tenuto egli fusse caduto in tanto errore di parlare sì vilmente
di coloro che non lo meritavano; e quanto apparteneva alle cose
che quello gli aveva rimproverate, che non sapeva quello che
Sforza suo padre si avesse con madonna Lucia sua madre operato,
perché non vi era e non aveva potuto a' loro modi del
congiugnersi provedere, talmente che di quello che si facessero e'
non credeva poterne biasimo o lode riportare; ma che sapeva bene
che di quello aveva avuto ad operare egli, si era governato in
modo che niuno lo poteva riprendere; di che egli e il suo Senato
ne potevono fare fresca e vera testimonianza.
Confortollo a essere per lo avvenire più modesto nel parlare d'altrui
e più cauto nelle imprese sue.
19
Dopo
questa vittoria, il Conte, con il suo vincitore esercito, passò
nel Bresciano, e tutto quello contado occupò; e di poi pose il
campo propinquo a dua miglia a Brescia.
I Viniziani dall'altra parte, ricevuta la rotta, temendo, come
seguì, che Brescia non fusse la prima percossa, l'avevano di
quella guardia che meglio e più presto avevono potuta trovare
proveduta; e di poi con ogni diligenzia ragunorono forze, e
ridussono insieme quelle reliquie che del loro esercito posserono
avere, e a' Fiorentini per virtù della loro lega domandorono
aiuti: i quali, perché erano liberi dalla guerra del re Alfonso,
mandorono in aiuto di quelli mille fanti e dumila cavagli.
I Viniziani, con queste forze, ebbono tempo a pensare agli
accordi.
Fu, un tempo, cosa quasi che fatale alla republica viniziana
perdere nella guerra e nelli accordi vincere; e quelle cose che
nella guerra perdevano, la pace di poi molte volte duplicatamente
loro rendeva.
Sapevano i Viniziani come i Milanesi dubitavano del Conte, e come
il Conte desiderava non essere capitano, ma signore de' Milanesi,
e come in loro arbitrio era fare pace con uno de' duoi,
desiderandola l'uno per ambizione, l'altro per paura, ed elessono
di farla con il Conte, e di offerirgli aiuti a quello acquisto.
E si persuasono che, come i Milanesi si vedessino ingannati dal
Conte vorrieno, mossi dallo sdegno, sottoporsi prima a qualunque
altro che a lui; e conducendosi in termine che per loro medesimi
non si potessino difendere né più del Conte fidarsi, sarieno
forzati, non avendo dove gittarsi, di cadere loro in grembo.
Preso questo consiglio, tentorono lo animo del Conte; e lo
trovorono alla pace dispostissimo, come quello che desiderava che
la vittoria avuta a Caravaggio fusse sua e non de' Milanesi.
Fermorono per tanto uno accordo, nel quale i Viniziani si
obligorono pagare al Conte, tanto che gli differisse ad
acquistare Milano, tredici mila fiorini per ciascuno mese, e di
più, durante quella guerra, di quattromila cavagli e dumila
fanti suvvenirlo; e il Conte dall'altra parte si obligò
restituire a' Viniziani terre, prigioni e qualunque altra cosa
stata da lui in quella guerra occupata, ed essere solamente
contento a quelle terre le quali il duca Filippo alla sua morte
possedeva.
20
Questo
accordo, come fu saputo a Milano, contristò molto più quella
città che non aveva la vittoria di Caravaggio rallegrata.
Dolevonsi i principi, rammaricavansi i popolari, piangevano le
donne e i fanciulli e tutti insieme il Conte traditore e disleale
chiamavano; e benché quelli non credessino né con prieghi né
con promesse dal suo ingrato proponimento rivocarlo, gli
mandorono imbasciadori, per vedere con che viso e con quali
parole questa sua sceleratezza accompagnasse.
Venuti per tanto davanti al Conte, uno di quelli parlò in questa
sentenza: - Sogliono coloro i quali alcuna cosa da alcuno
impetrare desiderano, con i prieghi, premii o minacce assalirlo,
acciò, mosso o dalla misericordia o dall'utile o dalla paura, a
fare quanto da loro si desidera condescenda.
Ma negli uomini crudeli e avarissimi, e secondo la opinione loro
potenti, non vi avendo quelli tre modi luogo alcuno, indarno si
affaticono coloro che credono o con i prieghi umiliarli o con i
premii guadagnarli, o con le minacce sbigottirli. Noi per tanto,
conoscendo al presente, benché tardi, la crudeltà, l'ambizione
e superbia tua, veniamo a te, non per volere impetrare alcuna
cosa, né per credere di ottenerla quando bene noi la
domandassimo, ma per ricordarti i benefizi che tu hai dal popolo
milanese ricevuti, e dimostrarti con quanta ingratitudine tu li
hai ricompensati, acciò che almeno, infra tanti mali che noi
sentiamo, si gusti qualche piacere per rimproverarteli.
E' ti debbe ricordare benissimo quali erano le condizioni tue
dopo la morte del duca Filippo: tu eri del Papa e del Re inimico;
tu avevi abbandonati i Fiorentini e Viniziani, de' quali, e per
il giusto e fresco sdegno, e per non avere quelli più bisogno di
te, eri quasi che nimico divenuto; trovaviti stracco della guerra
avevi avuta con la Chiesa, con poca gente, sanza amici, sanza
danari e privo d'ogni speranza di potere mantenere gli stati tuoi
e l'antica tua riputazione.
Dalle quali cose facilmente cadevi, se non fusse stata la nostra
semplicità: perché noi soli ti ricevemmo in casa, mossi dalla
reverenzia avavamo alla felice memoria del Duca nostro; con il
quale avendo tu parentado e nuova amicizia, credavamo che ne'
suoi eredi passasse lo amore tuo e che se a' benifici suoi si
aggiugnessino i nostri, dovesse questa amicizia, non solamente
essere ferma, ma inseparabile; e per ciò alle antiche
convenzioni Verona o Brescia aggiugnemmo.
Che più potavamo noi darti e prometterti? E tu che potevi, non
dico da noi, ma in quelli tempi da ciascuno, non dico avere, ma
desiderare? Tu per tanto ricevesti da noi uno insperato bene; e
noi, per ricompenso, riceviamo da te uno insperato male.
Né hai differito infino ad ora a dimostrarci lo iniquo animo tuo;
perché non prima fusti delle nostre armi principe, che, contro
ad ogni giustizia, ricevesti Pavia; il che ne doveva ammunire
quale doveva essere il fine di questa tua amicizia.
La quale ingiuria noi sopportammo, pensando che quello acquisto
dovessi empiere con la grandezza sua l'ambizione tua. Ahimè! che
a coloro che desiderano il tutto non puote la parte sodisfare.
Tu promettesti che noi gli acquisti di poi da te fatti godessimo,
perché sapevi bene come quello che in molte volte ci davi ci
potevi in un tratto ritorre; come è stato dopo la vittoria di
Caravaggio; la quale, preparata prima con il sangue e con i
danari nostri, poi fu con la nostra rovina conseguita.
O infelice quelle città che hanno contro alla ambizione di chi
le vuole opprimere a difendere la libertà loro; ma molto più
infelice quelle che sono con le armi mercennarie e infedeli, come
le tue, necessitate a difendersi! Vaglia almeno questo nostro
esemplo a' posteri, poi che quello di Tebe e di Filippo di
Macedonia non è valuto a noi: il quale, dopo la vittoria avuta
de' nimici, prima diventò, di capitano, loro nimico, e di poi
principe.
Non possiamo per tanto essere d'altra colpa accusati, se non di
avere confidato assai in quello in cui noi dovavamo confidare
poco; perché la tua passata vita, lo animo tuo vasto, non
contento mai di alcuno grado o stato, ci doveva ammunire; né
dovavamo porre speranza in colui che aveva tradito il signore di
Lucca, taglieggiato i Fiorentini e Vinizani, stimato poco il Duca,
vilipeso un Re, e sopra tutto Iddio e la Chiesa sua con tante
ingiurie perseguitata; né dovavamo mai credere che tanti
principi fussero, nel petto di Francesco Sforza, di minore
autorità che i Milanesi, e che si avessi ad osservare quella
fede in noi, che si era negli altri più volte violata.
Non di meno questa poca prudenza che ci accusa non scusa la
perfidia tua, né purga quella infamia che le nostre giuste
querele per tutto il mondo ti partoriranno, né farà che il
giusto stimolo della tua conscienza non ti perseguiti, quando
quelle armi, state da noi preparate per offendere e sbigottire
altri, verranno a ferire e ingiuriare noi; perché tu medesimo ti
giudicherai degno di quella pena che i parricidi hanno meritata.
E quando pure l'ambizione ti accecassi, il mondo tutto, testimone
della iniquità tua, ti farà aprire gli occhi; faratteli aprire
Iddio, se i pergiurii, se la violata fede, se i tradimenti gli
dispiacciono, e se sempre, come in fino ad ora per qualche
occulto bene ha fatto, ei non vorrà essere de' malvagi uomini
amico. Non ti promettere adunque la vittoria certa, perché la ti
fia dalla giusta ira di Dio impedita; e noi siamo disposti con la
morte perdere la libertà nostra, la quale quando pure non
potessimo difendere, ad ogni altro principe, prima che a te, la
sottoporremo; e se pure i peccati nostri fussino tali che contro
ad ogni nostra voglia ti venissimo in mano, abbi ferma fede che
quel regno che sarà da te cominciato con inganno e infamia
finirà, in te o ne' tuoi figliuoli, con vituperio e danno.
21
Il Conte,
ancora che da ogni parte si sentisse da' Milanesi morso, sanza
dimostrare o con le parole o con i gesti alcuna estraordinaria
alterazione, rispose che era contento donare agli loro adirati
animi la grave ingiuria delle loro poco savie parole; alle quali
risponderebbe particularmente, se fusse davanti ad alcuno che
delle loro differenze dovesse essere giudice, perché si vedrebbe
lui non avere ingiuriati i Milanesi, ma provedutosi che non
potessero iniuriare lui.
Perché sapevono bene come dopo la vittoria di Carafaggio si
erano governati; perché, in scambio di premiarlo di Verona o
Brescia, cercavano di fare pace con i Viniziani, acciò che solo
apresso di lui restassero i carichi della inimicizia e apresso di
loro i frutti della vittoria, con il grado della pace e tutto l'utile
che si era tratto della guerra.
In modo che eglino non si potevono dolere, se li aveva fatto
quello accordo che eglino prima avevano tentato di fare; il qual
partito se alquanto differiva a prendere, arebbe al presente a
rimproverare a loro quella ingratitudine la quale ora eglino gli
rimproverano.
Il che se fusse vero o no, lo dimosterrebbe, con il fine di
quella guerra, quello Iddio ch'eglino chiamavano per vendicatore
delle loro ingiurie; mediante il quale vedranno quale di loro
sarà più suo amico, e quale con maggiore giustizia arà
combattuto. Partitisi gli ambasciadori, il Conte si ordinò a
potere assaltare i milanesi, e questi si preparorono alla difesa;
e con Francesco e Iacopo Piccinino, i quali per lo antico odio
avieno i Bracceschi con li Sforzeschi erano stati a' Milanesi
fedeli, pensorono di difendere la loro libertà infino a tanto,
almeno che potessero smembrare i Viniziani da il Conte, i quali
non credevono dovessino esserli fedeli né amici lungamente. Dall'altra
parte il Conte, che questo medesimo cognosceva, pensò che fusse
savio partito, quando giudicava che l'obligo non bastasse,
tenerli fermi con il premio.
E per ciò, nel distribuire le imprese della guerra, fu contento
che i Viniziani assalissero Crema, ed egli con l'altra gente
assalirebbe il restante di quello stato. Questo pasto messo
davanti ai Viniziani fu cagione ch'eglino durorono tanto nella
amicizia del Conte, che il Conte aveva già occupato tutto il
dominio a' Milanesi, e in modo ristrettili alla terra, che non
potevono di alcuna cosa necessaria provedersi; tanto che,
disperati d'ogni altro aiuto, mandorono oratori a Vinegia a
pregarli che avessero compassione alle cose loro; e fussino
contenti, secondo che debbe essere il costume delle republiche,
favorire la loro libertà, non uno tiranno, il quale, se gli
riesce insignorirsi di quella città, non potranno a loro posta
frenare.
Né credino che gli stia contento a' termini ne' capituli posti,
ché vorrà i termini antichi di quello stato ricognoscere.
Non si erano ancora i Viniziani insignoriti di Crema, e volendo,
prima che cambiassino volto, insignorirsene, risposono
publicamente, non potere, per lo accordo fatto con il Conte,
suvvenirli; ma in privato gli intrattennono in modo che, sperando
nello accordo, poterono a' loro Signori darne una ferma speranza.
22
Era già
il Conte con le sue genti tanto propinquo a Milano che combatteva
i borghi, quando a' Viniziani, avuta Crema non parve da differire
di fare amicizia con i Milanesi con i quali si accordorono, e
intra' primi capituli promissono al tutto la difesa alla loro
libertà.
Fatto lo accordo, commissono alle genti loro avieno presso al
Conte che partitesi de' suoi campi, nel Viniziano si ritirassero.
Significorono ancora al Conte la pace fatta co' Milanesi, e gli
dierono venti giorni di tempo ad accettarla.
Non si maravigliò il Conte del partito preso dai Viniziani,
perché molto tempo innanzi lo aveva preveduto, e temeva che ogni
giorno potesse accadere; non di meno non potette fare che, venuto
il caso, non se ne dolesse e quel dispiacere sentisse che avevano
i Milanesi, quando egli gli aveva abbandonati, sentito.
Prese tempo dagli ambasciadori, che da Vinegia erano stati
mandati a significargli lo accordo, duoi giorni a rispondere; fra
il quale tempo deliberò di intrattenere i Viniziani e non
abbandonare la impresa.
E per ciò publicamente disse di volere accettare la pace, e
mandò suoi ambasciadori a Vinegia, con amplo mandato, a
ratificarla; ma da parte commisse loro che in alcuno modo non la
ratificassero, ma con varie invenzioni e gavillazioni la
conclusione differissero.
E per fare a' Viniziani più credere che dicessi da vero fece
triegua con i Milanesi per uno mese e discostossi da Milano, e
divise le sue genti per gli alloggiamenti ne' luoghi che allo
intorno aveva occupati. Questo partito fu cagione della vittoria
sua e della rovina de' Milanesi, perché i Viniziani, confidando
nella pace, furono più lenti alle provisioni della guerra, e i
Milanesi, veggendo la tregua fatta, e il nimico discostatosi, e i
Viniziani amici crederono al tutto che il Conte fusse per
abbandonare la impresa.
La quale opinione in duoi modi li offese: l'uno ch'eglino
straccurorono gli ordini delle difese loro; l'altro, che nel
paese libero dal nimico, perché il tempo della semente era,
assai grano seminorono, donde nacque che più tosto il Conte li
potette affamare.
Al Conte dall'altra parte tutte quelle cose giovorono che i
nimici offesono; e di più quel tempo gli dette commodità a
potere respirare e provedersi di aiuti.
23
Non si
erano in questa guerra di Lombardia, i Fiorentini declarati per
alcuna delle parti, né avieno dato alcuno favore al Conte, né
quando egli difendeva i Milanesi né poi; perché il Conte non ne
avendo avuto di bisogno non ne gli aveva con instanzia ricerchi,
solamente avieno, dopo la rotta di Carafaggio, per virtù delli
obblighi della lega, mandato aiuti a' Viniziani.
Ma sendo rimaso il conte Francesco solo, non avendo dove
ricorrere, fu necessitato chiedere instantemente aiuto a'
Fiorentini, e publicamente allo stato, e privatamente agli amici,
e massimamente a Cosimo de' Medici, con il quale aveva sempre
tenuta una continua amicizia, ed era sempre stato da quello in
ogni sua impresa fedelmente consigliato e largamente suvvenuto.
Né in questa tanta necessità Cosimo lo abbandonò, ma come
privato copiosamente lo suvvenne, e gli dette animo a seguire la
impresa: desiderava ancora che la città publicamente lo aiutasse,
dove si trovava difficultà.
Era in Firenze Neri di Gino Capponi potentissimo.
A costui non pareva che fusse a benefizio della città che il
Conte occupasse Milano, e credeva che fusse più a salute della
Italia che il Conte ratificasse la pace, che egli seguisse la
guerra.
In prima egli dubitava che i Milanesi, per lo sdegno avieno
contro al Conte, non si dessino al tutto a' Viniziani; il che era
la rovina di ciascuno di poi, quando pure gli riuscisse di
occupare Milano, gli pareva che tante armi e tanto stato
congiunte insieme fussero formidabili; e s'egli era
insopportabile conte, giudicava che fussi per essere uno duca
insopportabilissimo.
Per tanto affermava che fusse meglio, e per la republica di
Firenze e per la Italia, che il Conte restasse con la sua
reputazione delle armi, e la Lombardia in due republiche si
dividessi, le quali mai si unirebbono alla offesa degli altri, e
ciascheduna per sé offendere non potrebbe.
E a fare questo non ci vedeva altro migliore rimedio che non
suvvenire il Conte e mantenere la lega vecchia con i Viniziani.
Non erano queste ragioni dagli amici di Cosimo accettate, perché
credevano Neri muoversi a questo, non perché così credessi
essere il bene della Republica, ma per non volere che il Conte,
amico di Cosimo, diventassi duca, parendogli che per questo
Cosimo ne diventassi troppo potente.
E Cosimo ancora con ragioni mostrava lo aiutare il Conte essere
alla Republica e alla Italia utilissimo; perché gli era opinione
poco savia credere che i Milanesi si potessero conservare liberi;
perché le qualità della cittadinanza, il modo del vivere loro,
le sette antiquate in quella città, erano ad ogni forma di
civile governo contrarie; talmente che gli era necessario o che
il Conte ne diventasse duca, o e Viniziani signori; e in tale
partito niuno era sì sciocco che dubitassi qual fussi meglio, o
avere uno amico potente vicino, o avervi uno nimico potentissimo.
Né credeva che fusse da dubitare che i Milanesi, per avere
guerra con il Conte, si sottomettersi a' Viniziani; perché il
Conte aveva la parte in Milano, e non quelli; talché qualunque
volta e' non potranno difendersi come liberi, sempre più tosto
al Conte che a' Viniziani si sottometteranno.
Queste diversità di opinioni tennono assai sospesa la città, e
alla fine deliberorono che si mandasse imbasciadori al Conte per
trattare il modo dello accordo; e se trovassino il Conte
gagliardo da potere sperare che e' vincesse, concluderlo, quanto
che no, gavillarlo e differirlo.
24
Erano
questi ambasciadori a Reggio, quando eglino intesono il Conte
essere diventato signore di Milano.
Perché il Conte, passato il tempo della tregua, si ristrinse con
le sue genti a quella città, sperando in brieve, a dispetto de'
Viniziani, occuparla; perché quelli non la potevano soccorrere
se non dalla parte dell'Adda, il quale passo facilmente poteva
chiudere; e non temeva, per essere la vernata, che i Viniziani
gli campeggiassino apresso; e sperava, prima che il verno
passasse, avere la vittoria, massimamente sendo morto Francesco
Piccinino, e restato solo Iacopo suo fratello capo de' Milanesi.
Avevano i Viniziani mandato uno loro oratore a Milano, a
confortare quelli cittadini, che fussino pronti a difendersi,
promettendo loro grande e presto soccorso.
Seguirono adunque, durante il verno, intra i Viniziani e il Conte,
alcune leggieri zuffe; ma fattosi il tempo più benigno, i
Viniziani, sotto Pandolfo Malatesti, si fermorono con il loro
esercito sopra l'Adda.
Dove, consigliatisi se dovevono, per soccorrere Milano, assalire
il Conte e tentare la fortuna della zuffa, Pandolfo loro capitano
giudicò che e' non fusse da farne questa esperienza, conoscendo
la virtù del Conte e del suo esercito.
E credeva che si potesse, sanza combattere, vincere al sicuro,
perché il Conte da il disagio delli strami e del frumento era
cacciato.
Consigliò per tanto che si conservasse quello alloggiamento, per
dare speranza a' Milanesi di soccorso, acciò che, disperati, non
si dessino al Conte.
Questo partito fu approvato da' Viniziani, sì per giudicarlo
sicuro, sì ancora perché avevono speranza che, tenendo i
Milanesi in quella necessità, sarebbono forzati rimettersi sotto
il loro imperio; persuadendosi che mai non fussino per darsi al
Conte, considerate le ingiurie avieno ricevute da lui. Intanto i
Milanesi erano condotti quasi che in estrema miseria; e
abbondando quella città naturalmente di poveri, si morivano per
le strade di fame; donde ne nascevano romori e pianti in diversi
luoghi della città; di che i magistrati temevano forte, e
facevano ogni diligenzia perché genti non si adunassero insieme.
Indugia assai la moltitudine tutta a disporsi al male; ma quando
vi è disposta ogni piccolo accidente la muove.
Duoi adunque, di non molta condizione, ragionando, propinqui a
Porta Nuova, della calamità della città e miseria loro, e che
modi vi fussero per la salute, si cominciò ad accostare loro
delli altri, tanto che diventorono buono numero: donde che si
sparse per Milano voce, quelli di Porta Nuova essere contro a'
magistrati in arme.
Per la qual cosa tutta la moltitudine, la quale non aspettava
altro che essere mossa, fu in arme; e feciono capo di loro
Gasparre da Vicomercato, e ne andorono al luogo dove i magistrati
erano ragunati.
Nei quali feciono tale impeto che tutti quelli che non si
poterono fuggire uccisono; intra' quali Lionardo Venero,
ambasciadore viniziano, come cagione della loro fame, e della
loro miseria allegro, ammazzorono.
E così, quasi che principi della città diventati, infra loro
preposono quello si avesse a fare, a volere uscire di tanti
affanni e qualche volta riposarsi.
E ciascuno giudicava che convenisse rifuggire, poi che la
libertà non si poteva conservare, sotto uno principe che gli
difendessi: e chi il re Alfonso, chi il duca di Savoia, chi il re
di Francia voleva per suo signore chiamare.
Del Conte non era alcuno che ragionasse: tanto erano ancora
potenti gli sdegni avevano seco.
Non di meno, non si accordando degli altri, Gasparre da
Vicomercato fu il primo che nominò il Conte; e largamente
mostrò come, volendosi levare la guerra da dosso, non ci era
altro modo che chiamare quello; perché il popolo di Milano aveva
bisogno di una certa e presente pace, non d'una speranza lunga d'uno
futuro soccorso.
Scusò con le parole le imprese del Conte; accusò i Viniziani;
accusò tutti gli altri principi di Italia, che non aveno voluto,
chi per ambizione, chi per avarizia, che vivessino liberi.
E da poi che la loro libertà si aveva a dare, si desse ad uno
che li sapesse e potesse difendere; acciò che almeno dalla
servitù nascesse la pace, e non maggiori danni e più pericolosa
guerra.
Fu costui con maravigliosa attenzione ascoltato; e tutti, finito
il suo parlare, gridorono che il Conte si chiamasse, e Gasparre
feciono ambasciadore a chiamarlo.
Il quale, per comandamento del popolo, andò a trovare il Conte,
e gli portò sì lieta e felice novella.
La quale il Conte accettò lietamente, ed entrato in Milano come
principe, a' 26 di febbraio, nel 1450, fu con somma e
maravigliosa letizia ricevuto da coloro che non molto tempo
innanzi lo avieno con tanto odio infamato.
25
Venuta la
nuova di questo acquisto a Firenze, si ordinò agli oratori
fiorentini che erano in cammino che, in cambio di andare a
trattare accordo con il Conte, si rallegrassino con il Duca della
vittoria. Furono questi oratori da il Duca ricevuti onorevolmente
e copiosamente onorati, perché sapeva bene che contro alla
potenza de' Viniziani non poteva avere in Italia più fedeli né
più gagliardi amici de' Fiorentini; i quali, avendo deposto il
timore della casa de' Visconti, si vedeva che avevono a
combattere con le forze de' Ragonesi e Viniziani; perché i
Ragonesi re di Napoli erano loro nimici per la amicizia che
sapevano che il popolo fiorentino aveva sempre con la casa di
Francia tenuta e i Viniziani cognoscevano che l'antica paura de'
Visconti era nuova di loro, e perché sapevono con quanto studio
eglino avevono i Visconti perseguitati, temendo le medesime
persecuzioni, cercavano la rovina di quelli.
Queste cose furono cagione che il nuovo Duca facilmente si
ristrignesse con i Fiorentini, e che i Viniziani e re Alfonso si
accordassero contro a' comuni nimici: e si obligorono in uno
medesimo tempo a muovere le armi; e che il Re assalisse i
Fiorentini e i Viniziani il Duca, il quale, per essere nuovo
nello stato, credevono né con le forze proprie né con gli aiuti
d'altri potesse sostenerli.
Ma perché la lega tra i Fiorentini e Viniziani durava, e il Re,
dopo la guerra di Piombino, aveva fatto pace con quelli, non
parve loro da rompere la pace, se prima con qualche colore non si
giustificasse la guerra.
E per ciò l'uno e l'altro mandò ambasciadore a Firenze; i quali
per parte de' loro signori feciono intendere la lega fatta essere,
non per offendere alcuno, ma per difendere gli stati loro.
Dolfesi di poi il Viniziano che i Fiorentini avevono dato passo
per Lunigiana ad Alessandro fratello del Duca che con genti
passasse in Lombardia e di più erano stati aiutatori e
consigliatori dello accordo fatto intra il Duca e il marchese di
Mantova.
Le quali cose tutte affermavano essere contrarie allo stato loro
e alla amicizia avieno insieme e per ciò ricordavano loro
amorevolmente che chi offende a torto dà cagione ad altri di
essere offeso a ragione, e che chi rompe la pace aspetti la
guerra.
Fu commessa dalla Signoria la risposta a Cosimo; il quale, con
lunga e savia orazione, riandò tutti i beneficii fatti dalla
città sua alla republica viniziana; mostrò quanto imperio
quella aveva, con i danari, con le genti e con il consiglio de'
Fiorentini, acquistato; e ricordò loro che, poi che da i
Fiorentini era venuta la cagione della amicizia, non mai verrebbe
la cagione della nimicizia; ed essendo stati sempre amatori della
pace, lodavano assai lo accordo fatto infra loro, quando per pace,
e non per guerra, fusse fatto. Vero era che delle querele fatte
assai si maravigliava, veggendo che di sì leggieri cosa e vana
da una tanta republica si teneva tanto conto; ma quando pure
fussero degne di essere considerate, facevono a ciascuno
intendere come e' volevono che il paese loro fusse libero e
aperto a qualunque, e che il Duca era di qualità che per fare
amicizia con Mantova non aveva né de' favori né de' consigli
loro bisogno.
E per ciò dubitava che queste querele non avessero altro veleno
nascosto che le non dimostravano, il che quando fusse, farebbono
cognoscere a ciascuno facilmente l'amicizia de' Fiorentini quanto
la è utile, tanto essere la nimicizia dannosa.
26
Passò
per allora la cosa leggiermente, e parve che gli oratori se ne
andassero assai sodisfatti.
Non di meno la lega fatta e i modi de' Viniziani e del Re
facevono più tosto temere i Fiorentini e il Duca di nuova guerra,
che sperare ferma pace.
Per tanto i Fiorentini si collegorono con il Duca; e intanto si
scoperse il malo animo de' Viniziani, perché feciono lega con i
Sanesi, e cacciorono tutti i Fiorentini e loro sudditi della
città e imperio loro. E poco appresso Alfonso fece il
simigliante, e sanza avere alla pace l'anno davanti fatta alcuno
rispetto, e sanza averne, non che giusta, ma colorita cagione.
Cercorono i Viniziani di acquistarsi i Bolognesi, e fatti forti i
fuori usciti, gli missono con assai gente, di notte, per le fogne,
in Bologna; né prima si seppe la entrata loro, che loro medesimi
levassero il romore.
Al quale Santi Bentivogli sendosi desto, intese come tutta la
città era da' ribelli occupata; e benché fusse consigliato da
molti che con la fuga salvasse la vita, poi che con lo stare non
poteva salvare lo stato, non di meno volle mostrare alla fortuna
il viso; e prese le armi, e dette animo a' suoi, e fatto testa di
alcuni amici, assalì parte de' ribelli, e quelli rotti, molti ne
ammazzò, e il restante cacciò della città.
Dove per ciascuno fu giudicato avere fatto verissima pruova di
essere della casa de' Bentivogli.
Queste opere e dimostrazioni feciono in Firenze ferma credenza
della futura guerra; e però si volsono i Fiorentini alle loro
antiche e consuete difese; e creorono il magistrato de' Dieci,
soldorono nuovi condottieri, mandorono oratori a Roma, a Napoli,
a Vinegia, a Milano e a Siena, per chiedere aiuti agli amici,
chiarire i sospetti, guadagnarsi i dubi e scoprire i consigli de'
nimici.
Dal Papa non si ritrasse altro che parole generali, buona
disposizione e conforti alla pace; dal Re vane scuse di avere
licenziati i Fiorentini, offerendosi volere dare il salvocondotto
a qualunque lo adimandasse.
E benché s'ingegnasse al tutto i consigli della nuova guerra
nascondere, non di meno gli ambasciadori cognobbono il malo animo
suo, e scopersono molte sue preparazioni per venire a' danni
della republica loro.
Col Duca di nuovo con varii oblighi si fortificò la lega; e per
suo mezzo si fece amicizia con i Genovesi, e le antiche
differenzie di rappresaglie e molte altre querele si composono,
non ostante che i Viniziani cercassero per ogni modo tale
composizione turbare.
Né mancorono di supplicare allo imperadore di Gostantinopoli che
dovesse cacciare la nazione fiorentina del paese suo: con tanto
odio presono questa guerra; e tanto poteva in loro la cupidità
del dominare, che sanza alcuno rispetto volevono distruggere
coloro che della loro grandezza erano stati cagione; ma da quello
imperadore non furono intesi.
Fu da il Senato viniziano alli oratori fiorentini proibito lo
entrare nello stato di quella republica, allegando che, sendo in
amicizia con il Re, non potevono, sanza sua participazione,
udirli.
I Sanesi con buone parole gli ambasciadori riceverono, temendo di
non essere prima disfatti che la lega li potesse difendere, e per
ciò parve loro di addormentare quelle armi che non potevono
sostenere. Vollono i Viniziani e il Re, secondo che allora si
conietturò, per giustificare la guerra, mandare oratori a
Firenze, ma quello de' Viniziani non fu voluto intromettere nel
dominio fiorentino, e non volendo quello del Re solo fare quello
uffizio, restò quella legazione imperfetta; e i Viniziani per
questo cognobbono essere stimati meno da quelli Fiorentini che
non molti mesi innanzi avevono stimati poco.
27
Nel mezzo
del timore di questi moti, Federigo III imperadore passò in
Italia per coronarsi, e a dì 30 di gennaio, nel 1451, entrò in
Firenze con mille cinquecento cavagli, e fu da quella Signoria
onoratissimamente ricevuto; e stette in quella città infino a
dì 6 di febbraio, che quello partì per ire a Roma alla sua
coronazione.
Dove solennemente coronato, e celebrate le nozze con la
imperadrice, la quale per mare era venuta a Roma, se ne ritornò
nella Magna; e di maggio passò di nuovo per Firenze, dove gli
furono fatti i medesimi onori che alla venuta sua.
E nel ritornarsene, sendo stato dal marchese di Ferrara
benificato, per ristorare quello, gli concesse Modena e Reggio.
Non mancorono i Fiorentini, in questo medesimo tempo, di
prepararsi alla imminente guerra, e per dare reputazione a loro e
terrore al nimico, feciono, eglino e il Duca, lega con il re di
Francia per difesa de' comuni stati; la quale con grande
magnificenza e letizia per tutta Italia publicorono.
Era venuto il mese di maggio dell'anno 1452, quando ai Viniziani
non parve da differire più di rompere la guerra al Duca, e con
sedici mila cavagli e sei mila fanti, dalla parte di Lodi lo
assalirono; e nel medesimo tempo il marchese di Monferrato, o per
sua propria ambizione, o spinto da' Viniziani, ancora lo assalì
dalla parte di Alessandria.
Il Duca dall'altra parte aveva messo insieme diciotto mila
cavalli e tre mila fanti, e avendo proveduto Alessandria e Lodi
di gente, e similmente muniti tutti i luoghi dove i nimici lo
potessino offendere, assalì con le sue genti il Bresciano, dove
fece a' Viniziani danni grandissimi; e da ciascuna parte si
predava il paese, e le deboli ville si saccheggiavano.
Ma sendo rotto il marchese di Monferrato ad Alessandria dalle
genti del Duca, potette quello, di poi, con maggiori forze
opporsi a' Viniziani e il paese loro assalire.
28
Travagliandosi
per tanto la guerra di Lombardia con varii ma deboli accidenti e
poco degni di memoria, in Toscana nacque medesimamente la guerra
del re Alfonso e de' Fiorentini, la quale non si maneggiò con
maggiore virtù né con maggiore pericolo che si maneggiasse
quella di Lombardia.
Venne in Toscana Ferrando, figliuolo non legittimo di Alfonso,
con dodici mila soldati, capitaneati da Federigo signore di
Urbino.
La prima loro impresa fu ch'eglino assalirono Foiano in Val di
Chiana; perché, avendo amici i Sanesi, entrorono da quella parte
nello imperio fiorentino.
Era il castello debile di mura, piccolo, e per ciò non pieno di
molti uomini; ma secondo quelli tempi, erano reputati feroci e
fedeli. Erano in quello dugento soldati mandati dalla Signoria
per guardia di esso.
A questo così munito castello Ferrando si accampò; e fu tanta,
o la gran virtù di quelli di dentro o la poca sua, che non prima
che dopo trentasei giorni se ne insignorì.
Il quale tempo dette commodità alla città di provedere gli
altri luoghi di maggiore momento, e di ragunare le loro genti, e
meglio che non erano, alle difese loro ordinarsi.
Preso i nimici questo castello, passorono nel Chianti, dove due
piccole ville possedute da privati cittadini non poterono
espugnare.
Donde che, lasciate quelle, se n'andorono a campo alla Castellina,
castello posto a' confini del Chianti, propinquo a dieci miglia a
Siena, debile per arte, e per sito debilissimo; ma non poterono
per ciò queste due debolezze superare la debolezza dello
esercito che lo assalì, perché, dopo quarantaquattro giorni che
gli stette a combatterlo, se ne partì con vergogna.
Tanto erano quelli eserciti formidabili e quelle guerre
pericolose, che quelle terre le quali oggi come luoghi
impossibili a defenderli si abbandonano, allora come cose
impossibili a pigliarsi si defendevono. E mentre che Ferrando
stette con il campo in Chianti, fece assai correrie e prede nel
Fiorentino, e corse infino propinquo a sei miglia alla città,
con paura e danno assai de' sudditi de' Fiorentini.
I quali in questi tempi, avendo condotte le loro genti, in numero
di ottomila soldati, sotto Astor da Faenza e Gismondo Malatesti,
verso il castello di Colle, le tenevano discosto al nimico,
temendo che le non fussino necessitate di venire a giornata;
perché giudicavano, non perdendo quella, non potere perdere la
guerra; perché le piccole castella, perdendole, con la pace si
recuperano, e delle terre grosse erano securi, sapiendo che il
nimico non era per assalirle.
Aveva ancora il Re una armata di circa venti legni, tra galee e
fuste, ne' mari di Pisa; e mentre che per terra la Castellina si
combatteva, pose questa armata alla rocca di Vada, e quella, per
poca diligenzia del castellano occupò, per che i nimici di poi
il paese allo intorno molestavano; la quale molestia facilmente
si levò via per alcuni soldati che i Fiorentini mandorono a
Campiglia, i quali tenevano i nimici stretti alla marina.
29
Il
Pontefice intra queste guerre non si travagliava, se non in
quanto egli credeva potere mettere accordo infra le parti; e
benché e' si astenessi dalla guerra di fuori, fu per trovarla
più pericolosa in casa.
Viveva in quelli tempi un messer Stefano Porcari, cittadino
romano, per sangue e per dottrina, ma molto più per eccellenza
di animo, nobile.
Desiderava costui, secondo il costume degli uomini che
appetiscono gloria, o fare, o tentare almeno, qualche cosa degna
di memoria; e giudicò non potere tentare altro, che vedere se
potesse trarre la patria sua delle mani de' prelati e ridurla
nello antico vivere, sperando per questo, quando gli riuscisse,
essere chiamato nuovo fondatore e secondo padre di quella città.
Facevagli sperare di questa impresa felice fine i malvagi costumi
de' prelati e la mala contentezza de' baroni e popolo romano; ma
sopra tutto gliene davano speranza quelli versi del Petrarca,
nella canzona che comincia: "Spirto gentil che quelle membra
reggi", dove dice:
Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai
Un cavalier che Italia tutta onora,
Pensoso più d'altrui che di se stesso.
Sapeva
messere Stefano i poeti molte volte essere di spirito divino e
profetico ripieni; tal che giudicava dovere ad ogni modo
intervenire quella cosa che il Petrarca in quella canzona
profetizzava, ed essere egli quello che dovesse essere di sì
gloriosa impresa esecutore; parendogli, per eloquenzia, per
dottrina, per grazia e per amici, essere superiore ad ogni altro
romano.
Caduto adunque in questo pensiero, non potette in modo cauto
governarsi, che con le parole, con le usanze e con il modo del
vivere non si scoprisse, talmente che divenne sospetto al
Pontefice, il quale, per torgli commodità a potere operare male,
lo confinò a Bologna, e al governatore di quella città commisse
che ciascuno giorno lo rassegnasse.
Non fu messer Stefano per questo primo intoppo sbigottito, anzi
con maggiore studio seguitò la impresa sua, e per quelli mezzi
poteva più cauti, teneva pratiche con gli amici; e più volte
andò e tornò da Roma con tanta celerità, che gli era a tempo a
rappresentarsi al governatore infra i termini comandati.
Ma dappoi che gli parve avere tratti assai uomini alla sua
volontà, deliberò di non differire a tentare la cosa; e
commisse agli amici i quali erano in Roma che, in un tempo
determinato, una splendida cena ordinassero, dove tutti i
congiurati fussero chiamati, con ordine che ciascheduno avesse
seco i più fidati amici, e promisse di essere con loro avanti
che la cena fusse fornita.
Fu ordinato tutto secondo lo avviso suo, e messere Stefano era
già arrivato nella casa dove si cenava, tanto che, fornita la
cena, vestito di drappo d'oro, con collane e altri ornamenti che
gli davano maestà e riputazione, comparse infra i convivanti, e
quelli abbracciati, con una lunga orazione gli confortò a
fermare l'animo e disporsi a sì gloriosa impresa.
Di poi divisò il modo; e ordinò che una parte di loro, la
mattina seguente, il palagio del Pontefice occupasse, l'altra,
per Roma, chiamasse il popolo all'arme.
Venne la cosa a notizia al Pontefice la notte: alcuni dicono che
fu per poca fede de' congiurati, altri che si seppe essere
messere Stefano in Roma.
Comunque si fusse, il Papa, la notte medesima che la cena si era
fatta, fece prendere messere Stefano con la maggior parte de'
compagni, e di poi, secondo che meritavano i falli loro, morire.
Cotal fine ebbe questo suo disegno.
E veramente puote essere da qualcuno la costui intenzione lodata,
ma da ciascuno sarà sempre il giudicio biasimato; perché simili
imprese, se le hanno in sé, nel pensarle, alcuna ombra di gloria,
hanno, nello esequirle, quasi sempre certissimo danno.
30
Era già
durata la guerra in Toscana quasi che uno anno, ed era venuto il
tempo, nel 1453, che gli eserciti si riducono alla campagna,
quando al soccorso de' Fiorentini venne il signore Alessandro
Sforza, fratello del Duca, con due mila cavagli; e per questo,
essendo lo esercito de' Fiorentini cresciuto e quello del Re
diminuito, parve a' Fiorentini di andare a recuperare le cose
perdute; e con poca fatica alcune terre recuperorono.
Di poi andorono a campo a Foiano, il quale fu per poca cura de'
commissari saccheggiato, tanto che, essendo dispersi gli
abitatori, con difficultà grande vi tornorono ad abitare, e con
esenzioni e altri premii vi si ridussono.
La rocca ancora di Vada si racquistò, perché i nimici, veggendo
di non poterla tenere, l'abbandonorono e arsono.
E mentre che queste cose dallo esercito fiorentino erano operate,
lo esercito ragonese, non avendo ardire di appressarsi a quello
de' nimici, si era ridotto propinquo a Siena, e scorreva molte
volte nel Fiorentino, dove faceva ruberie, tumulti e spaventi
grandissimi.
Né mancò quel re di vedere se poteva per altra via assalire i
nimici, e dividere le forze di quelli, e per nuovi travagli e
assalti invilirgli.
Era signore di Val di Bagno Gherardo Gambacorti, il quale, o per
amicizia o per obligo, era stato sempre, insieme con i suoi
passati, o soldato o raccomandato de' Fiorentini.
Con costui tenne pratica il re Alfonso, che gli desse quello
stato, ed egli, allo incontro, d'uno altro stato nel Regno lo
ricompensasse.
Questa pratica fu rivelata a Firenze; e per scoprire lo animo suo,
se gli mandò uno ambasciadore, il quale gli ricordassi gli
oblighi de' passati e suoi, e lo confortasse a seguire nella fede
con quella republica.
Mostrò Gherardo maravigliarsi, e con giuramenti gravi affermò
non mai sì scellerato pensiero essergli caduto nello animo; e
che verrebbe in persona a Firenze a farsi pegno della fede sua;
ma sendo indisposto, quello che non poteva fare egli farebbe fare
al figliuolo il quale come statico consegnò allo ambasciadore,
che a Firenze seco ne lo menasse.
Queste parole e questa demostrazione feciono a' Fiorentini
credere che Gherardo dicesse il vero, e lo accusatore suo essere
stato bugiardo e vano; e per ciò sopra questo pensiero si
riposorono.
Ma Gherardo con maggiore instanzia seguitò con il Re la pratica;
la quale come fu conclusa, il Re mandò in Val di Bagno frate
Puccio, cavaliere ierosolimitano, con assai gente, a prendere
delle rocche e delle terre di Gherardo la possessione.
Ma quelli popoli di Bagno, sendo alla republica fiorentina
affezionati, con dispiacere promettevano ubbidienza a' commissari
del Re.
Aveva già preso frate Puccio quasi che la possessione di tutto
quello stato: solo gli mancava di insignorirsi della rocca di
Corzano.
Era con Gherardo, mentre faceva tale consegnazione, infra i suoi
che gli erano d'intorno, Antonio Gualandi, pisano, giovane e
ardito, a cui questo tradimento di Gherardo dispiaceva; e
considerato il sito della fortezza, e gli uomini che vi erano in
guardia, e cognosciuta nel viso e ne' gesti la mala loro
contentezza, e trovandosi Gherardo alla porta per intromettere le
genti ragonesi, si girò Antonio verso il di drento della rocca,
e spinse con ambo le mani Gherardo fuora di quella, e alle
guardie comandò che sopra il volto di sì scelerato uomo quella
fortezza serrassero e alla republica fiorentina la conservassero.
Questo romore come fu udito in Bagno e negli altri luoghi vicini,
ciascuno di quelli popoli prese le armi contro a' Ragonesi, e
ritte le bandiere di Firenze, quelli ne cacciorono.
Questa cosa come fu intesa a Firenze, i Fiorentini il figliuolo
di Gherardo dato loro per statico imprigionorono, e a Bagno
mandorono genti che quel paese per la loro republica defendessero,
e quello stato che per il principe si governava in vicariato
redussono.
Ma Gherardo, traditore del suo signore e del figliuolo, con
fatica poté fuggire, e lasciò la donna e sua famiglia, con ogni
sua sustanza, nella potestà de' nimici.
Fu stimato assai, in Firenze, questo accidente, perché, se
succedeva al Re di quello paese insignorirsi, poteva con poca sua
spesa a sua posta in Val di Tevere e in Casentino correre; dove
arebbe dato tanta noia alla Republica, che non arebbono i
Fiorentini potuto le loro forze tutte allo esercito ragonese, che
a Siena si trovava, opporre.
31
Avevano i
Fiorentini, oltre agli apparati fatti in Italia per reprimere le
forze della inimica lega, mandato messer Agnolo Acciaiuoli loro
oratore al re di Francia, a trattare con quello, che dessi
facultate ad il re Rinato d'Angiò di venire in Italia in favore
del Duca e loro, acciò che venisse a defendere i suoi amici, e
potesse di poi, sendo in Italia, pensare allo acquisto del regno
di Napoli e a questo effetto, aiuto di genti e di denari gli
promettevano.
E così, mentre che in Lombardia e in Toscana la guerra secondo
abbiamo narrato, si travagliava lo ambasciadore con il re Rinato
lo accordo conchiuse: che dovesse venire per tutto giugno con
duemila quattrocento cavagli in Italia; e allo arrivare suo in
Alessandria la lega gli doveva dare trentamila fiorini, e di poi,
durante la guerra, diecimila per ciascuno mese.
Volendo adunque questo re, per virtù di questo accordo, passare
in Italia, era da il duca di Savoia e marchese di Monferrato
ritenuto, i quali, sendo amici de' Viniziani, non gli
permettevano il passo.
Onde che il Re fu dallo ambasciadore fiorentino confortato che,
per dare reputazione agli amici, se ne tornasse in Provenza, e
per mare con alquanti suoi scendesse in Italia; e dall'altra
parte facesse forza con il re di Francia, che operasse con quel
duca che le genti sue potessero per la Savoia passare.
E così come fu consigliato successe; perché Rinato, per mare,
si condusse in Italia, e le sue genti, a contemplazione del Re,
furono ricevute in Savoia.
Fu il re Rinato raccettato da il duca Francesco onoratissimamente;
e messe le genti italiane e franzese insieme, assalirono con
tanto terrore i Viniziani, che in poco tempo tutte le terre che
quelli avevano prese nel Cremonese recuperorono; né contenti a
questo, quasi che tutto il Bresciano occuporono; e l'esercito
viniziano, non si tenendo più securo in campagna, propinquo alle
mura di Brescia si era ridutto.
Ma sendo venuto il verno, parve al Duca di ritirare le sue genti
negli alloggiamenti, e al re Rinato consegnò le stanze a
Piacenza.
E così, dimorato il verno del 1453 sanza fare alcuna impresa,
quando di poi la state ne veniva, e che si stimava per il Duca
uscire alla campagna e spogliare i Viniziani dello stato loro di
terra, il re Rinato fece intendere al Duca come egli era
necessitato ritornarsene in Francia.
Fu questa deliberazione al Duca nuova e inespettata, e per ciò
ne prese dispiacere grandissimo, e benché subito andassi da
quello per dissuadergli la partita, non possé né per preghi né
per promesse rimuoverlo; ma solo promisse lasciare parte delle
sue genti e mandare Giovanni suo figliuolo, che per lui fusse a'
servizi della lega.
Non dispiacque questa partita a' Fiorentini, come quelli che,
avendo recuperate le loro castella, non temevano più il Re, e
dall'altra parte non desideravano che il Duca altro che le sue
terre in Lombardia ricuperasse.
Partissi per tanto Rinato, e mandò il suo figliuolo, come aveva
promesso, in Italia; il quale non si fermò in Lombardia, ma ne
venne a Firenze, dove onoratissimamente fu ricevuto.
32
La
partita del Re fece che il Duca volentieri si voltò alla pace; e
i Viniziani, Alfonso e i Fiorentini, per essere tutti stracchi,
la desideravano, e il Papa ancora con ogni demostrazione la aveva
desiderata e desiderava, perché questo medesimo anno Maumetto
Gran Turco aveva preso Gostantinopoli e al tutto di Grecia
insignoritosi.
Il quale acquisto sbigottì tutti i cristiani, e più che
ciascuno altro i Viniziani e il Papa, parendo a ciascuno già di
questi sentire le sue armi in Italia.
Il Papa per tanto pregò i potentati italiani gli mandassero
oratori, con autorità di fermare una universale pace.
I quali tutti ubbidirono; e venuti insieme a' meriti della cosa,
vi si trovava nel trattarla assai difficultà: voleva il Re che i
Fiorentini lo rifacessero delle spese fatte in quella guerra, e i
Fiorentini volevono esserne sodisfatti loro, i Viniziani
domandavano al Duca Cremona, il Duca a loro Bergamo, Brescia e
Crema; tal che pareva che queste difficultà fussero a risolvere
impossibile.
Non di meno, quello che a Roma fra molti pareva difficile a fare,
a Milano e a Vinegia infra duoi fu facilissimo; perché, mentre
che le pratiche a Roma della pace si tenevano, il Duca e i
Viniziani, a dì 9 di aprile, nel 1454, la conclusono.
Per virtù della quale ciascuno ritornò nelle terre possedeva
avanti la guerra, e al Duca fu concesso potere recuperare le
terre gli avieno occupate i principi di Monferrato e di Savoia; e
agli altri italiani principi fu uno mese a ratificarla concesso.
Il Papa e i Fiorentini, e con loro Sanesi e altri minori potenti,
fra il tempo la ratificorono; né contenti a questo, si fermò
fra i Fiorentini, Duca e Viniziani pace per anni venticinque.
Mostrò solamente il re Alfonso, delli principi di Italia, essere
di questa pace mal contento, parendogli fusse fatta con poca sua
reputazione, avendo, non come principale, ma come aderente ad
essere ricevuto in quella; e per ciò stette molto tempo sospeso,
sanza lasciarsi intendere.
Pure, sendogli state mandate, dal Papa e dagli altri principi
molte solenne ambascerie, si lasciò da quelli, e massime dal
Pontefice, persuadere, ed entrò in questa lega, con il figliuolo,
per anni trenta; e ferono insieme il Duca e il Re doppio
parentado e doppie nozze, dando e togliendo la figliuola l'uno
dell'altro per i loro figliuoli.
Non di meno, acciò che in Italia restassero i semi della guerra,
non consentì fare la pace, se prima dai collegati non gli fu
concessa licenzia di potere, sanza loro ingiuria, fare guerra a'
Genovesi, a Gismondo Malatesti e ad Astor principe di Faenza.
E fatto questo accordo, Ferrando suo figliuolo, il quale si
trovava a Siena, se ne tornò nel Regno, avendo fatto, per la
venuta sua in Toscana, niuno acquisto di imperio, e assai perdita
di sue genti.
33
Sendo
adunque seguita questa pace universale, si temeva solo che il re
Alfonso, per la nimicizia aveva con i Genovesi, non la turbasse,
ma il fatto andò altrimenti, perché, non da il Re apertamente,
ma, come sempre per lo addietro era intervenuto, dalla ambizione
de' soldati mercennari fu turbata.
Avevono i Viniziani, come è costume, fatta la pace, licenziato
da' loro soldi Iacopo Piccinino loro condottiere; con il quale
aggiuntosi alcuni altri condottieri sanza partito, passarono in
Romagna, e di quindi nel Sanese, dove fermatosi, Iacopo mosse
loro guerra, e occupò a' Sanesi alcune terre.
Nel principio di questi moti, e al cominciamento dello anno 1455,
morì papa Niccola, e a lui fu eletto successore Calisto III.
Questo pontefice, per reprimere la nuova e vicina guerra, subito
sotto Giovanni Ventimiglia suo capitano ragunò quanta più gente
potette, e quelle, con gente de' Fiorentini e del Duca, i quali
ancora a reprimere questi moti erano concorsi, mandò contro a
Iacopo.
E venuti alla zuffa propinqui a Bolsena, non ostante che il
Ventimiglia restasse prigione, Iacopo ne rimase perdente, e come
rotto a Castiglione della Pescaia si ridusse; e se non fusse
stato da Alfonso suvvenuto di danari, vi rimaneva al tutto
disfatto.
La qual cosa fece a ciascuno credere questo moto di Iacopo essere
per ordine di quello re seguito; in modo che, parendo ad Alfonso
di essere scoperto, per riconciliarsi i collegati con la pace,
che si aveva con questa debile guerra quasi che alienati, operò
che Iacopo restituisse a' Sanesi le terre occupate loro, e quelli
gli dessino ventimila fiorini; e fatto questo accordo, ricevé
Iacopo e le sue genti nel Regno.
In questi tempi, ancora che il Papa pensasse a frenare Iacopo
Piccinino, non di meno non mancò di ordinarsi a potere suvvenire
alla cristianità, che si vedeva che era per essere dai Turchi
oppressata; e per ciò mandò per tutte le provincie cristiane
oratori e predicatori, a persuadere ai principi e ai popoli che
si armassero in favore della loro religione e con danari e con la
persona la impresa contro al comune nimico di quella favorissero.
Tanto che in Firenze si ferono assai limosine, assai ancora si
segnorono d'una croce rossa, per essere presti con la persona a
quella guerra, fecionsi ancora solenne processioni, né si mancò,
per il publico e per il privato, di mostrare di volere essere
intra i primi cristiani, con il consiglio, con i danari e con gli
uomini, a tale impresa.
Ma questa caldezza della cruciata fu raffrenata alquanto da una
nuova che venne, come, sendo il Turco con lo esercito suo intorno
a Belgrado per espugnarlo, castello posto in Ungheria sopra il
fiume del Danubio, era stato dagli Ungheri rotto e ferito.
Talmente che, essendo nel Pontefice e ne' cristiani cessata
quella paura ch' eglino avieno per la perdita di Gostantinopoli
conceputa, si procedé nelle preparazioni che si facevano per la
guerra più tepidamente; e in Ungheria medesimamente, per la
morte di Giovanni Vaivoda, capitano di quella vittoria,
raffreddorono.
34
Ma
tornando alle cose di Italia, dico come e' correva l'anno 1456,
quando i tumulti mossi da Iacopo Piccinino finirono, donde che,
posate le armi dagli uomini, parve che Iddio le volessi prendere
egli, tanta fu grande una tempesta di venti che allora seguì, la
quale in Toscana fece inauditi per lo adietro e a chi per lo
avvenire lo intenderà maravigliosi e memorabili effetti.
Partissi a' 24 d'agosto, una ora avanti giorno, dalle parti del
mare di sopra di verso Ancona, e attraversando per la Italia,
entrò nel mare di sotto verso Pisa, un turbine d'una nugolaglia
grossa e folta, la quale quasi che due miglia di spazio per ogni
verso occupava.
Questa, spinta da superiori forze, o naturali o sopranaturali che
le fussero, in se medesimo rotta, in se medesimo combatteva, e le
spezzate nugole, ora verso il cielo salendo, ora verso la terra
scendendo, insieme si urtavano; e ora in giro con una velocità
grandissima si movevano, e davanti a loro un vento fuori d'ogni
modo impetuoso concitavano; e spessi fuochi e lucidissimi vampi
intra loro nel combattere apparivono.
Da queste così rotte e confuse nebbie, da questi così furiosi
venti e spessi splendori, nasceva uno romore non mai più da
alcuna qualità o grandezza di tremuoto o di tuono udito; dal
quale usciva tanto spavento che ciascuno che lo sentì giudicava
che il fine del mondo fusse venuto, e la terra, l'acqua e il
resto del cielo e del mondo, nello antico caos, mescolandosi
insieme, ritornassero.
Fe' questo spaventevole turbine, dovunque passò, inauditi e
maravigliosi effetti; ma più notabili che altrove intorno al
castello di San Casciano seguirono.
È questo castello posto propinquo a Firenze ad otto miglia,
sopra il colle che parte le valli di Pesa e di Grieve.
Fra detto castello, adunque, e il borgo di Santo Andrea, posto
sopra il medesimo colle, passando, questa furiosa tempesta, a
Santo Andrea non aggiunse, e San Casciano rasentò in modo che
solo alcuni merli e cammini di alcune case abbatté, ma fuori, in
quello spazio che è dall'uno de' luoghi detti all'altro, molte
case furono infino al piano della terra rovinate.
I tetti de' templi di San Martino a Bagnuolo e di Santa Maria
della Pace, interi come sopra quelli erano, furono più che un
miglio discosto portati, uno vetturale, insieme con i suoi muli,
fu, discosto dalla strada, nelle vicine convalli trovato morto,
tutte le più grosse querce, tutti i più gagliardi arbori, che a
tanto furore non volevono cedere, furono, non solo sbarbati, ma
discosto molto da dove avevano le loro radice portati; onde che,
passata la tempesta e venuto il giorno, gli uomini stupidi al
tutto erano rimasi.
Vedevasi il paese desolato e guasto; vedevasi la rovina delle
case e de' templi; sentivansi i lamenti di quelli che vedevano le
loro possessioni distrutte, e sotto le rovine avevano lasciato il
loro bestiame e i loro parenti morti: la qual cosa a chi vedeva e
udiva recava compassione e spavento grandissimo.
Volle senza dubio Iddio più tosto minacciare che gastigare la
Toscana; perché se tanta tempesta fusse entrata in una città,
infra le case e gli abitatori assai e spessi, come l'entrò fra
querce e arbori e case poche e rare, sanza dubio faceva quella
rovina e fragello che si può con la mente conietturare maggiore.
Ma Iddio volle, per allora, che bastasse questo poco di esemplo a
rinfrescare infra gli uomini la memoria della potenzia sua.
35
Era, per
tornare donde io mi partii, il re Alfonso, come di sopra dicemmo,
male contento della pace; e poi che la guerra ch'egli aveva fatta
muovere da Iacopo Piccinino a' Sanesi sanza alcuna ragionevole
cagione non aveva alcuno importante effetto partorito, volle
vedere quello che partoriva quella la quale, secondo le
convenzioni della lega, poteva muovere.
E però, l'anno 1456, mosse per mare e per terra guerra a'
Genovesi, desideroso di rendere lo stato agli Adorni e privarne i
Fregosi che allora governavano; e dall'altra parte fece passare
il Tronto a Iacopo Piccinino contro a Gismondo Malatesti.
Costui perché aveva guernite bene le sue terre stimò poco lo
assalto di Iacopo; di maniera che da questa parte la impresa del
Re non fece alcuno effetto, ma quella di Genova partorì a lui e
al suo regno più guerra che non arebbe voluto.
Era allora duce di Genova Pietro Fregoso.
Costui, dubitando non potere sostenere l'impeto del Re, deliberò
quello che non poteva tenere donarlo almeno ad alcuno che da'
nimici suoi lo defendesse e qualche volta, per tale beneficio,
gliene potesse giusto premio rendere.
Mandò per tanto oratori a Carlo VII re di Francia, e gli offerì
lo imperio di Genova.
Accettò Carlo la offerta, e a prendere la possessione di quella
città vi mandò Giovanni d'Angiò figliuolo del re Rinato, il
quale di poco tempo avanti si era partito da Firenze e ritornato
in Francia.
E si persuadeva Carlo che Giovanni, per avere presi assai costumi
italiani, potesse meglio che uno altro governare quella città; e
parte giudicava che di quindi potesse pensare alla impresa di
Napoli; del quale regno Rinato suo padre era stato da Alfonso
spogliato.
Andò per tanto Giovanni a Genova dove fu ricevuto come principe,
e datogli in sua potestate le fortezze della città e dello stato.
36
Questo
accidente dispiacque ad Alfonso, parendogli aversi tirato adosso
troppo importante nimico, non di meno, per ciò non sbigottito,
seguitò con franco animo la impresa sua e aveva già condotta l'armata
sotto Villa Marina a Portofino, quando, preso da una subita
infirmità, morì.
Restorono, per questa morte, Giovanni e i Genovesi liberi dalla
guerra; e Ferrando, il quale successe nel regno di Alfonso suo
padre, era pieno di sospetto, avendo uno nimico di tanta
reputazione in Italia, e dubitando della fede di molti suoi
baroni, i quali desiderosi di cose nuove, ai Franzesi non si
aderissino.
Temeva ancora del Papa la ambizione del quale cognosceva, che per
essere nuovo nel regno non disegnasse spogliarlo di quello.
Sperava solo nel duca di Milano, il quale non era meno ansio
delle cose del Regno che si fusse Ferrando, perché dubitava che,
quando i Franzesi se ne fussero insignoriti, non disegnassero di
occupare ancora lo stato suo, il quale sapeva come ei credevono
potere come cosa a loro appartenente domandare.
Mandò per tanto quel duca, subito dopo la morte di Alfonso,
lettere e gente a Ferrando: queste per dargli aiuto e reputazione,
quelle per confortarlo a fare buono animo, significandogli come
non era, in alcuna sua necessità, per abbandonarlo.
Il Pontefice dopo la morte di Alfonso, disegnò di dare quel
regno a Pietro Lodovico Borgia suo nipote; e per adonestare
quella impresa e avere più concorso con gli altri principi di
Italia, publicò come sotto lo imperio della Romana Chiesa voleva
quel regno ridurre; e per ciò persuadeva al Duca che non dovesse
prestare alcuno favore a Ferrando, offerendogli le terre che già
in quel regno possedeva.
Ma nel mezzo di questi pensieri e nuovi travagli Calisto morì; e
successe al pontificato Pio II, di nazione sanese, della famiglia
de' Piccoluomini, nominato Enea.
Questo pontefice, pensando solamente a benificare i cristiani e
ad onorar la Chiesa, lasciando indietro ogni sua privata passione,
per i prieghi del duca di Milano, coronò del Regno Ferrando,
giudicando poter più presto mantenendo chi possedeva posare l'armi
italiane, che se avesse, o favorito i Franzesi perché gli
occupassero quel regno, o disegnato, come Calisto, di prenderlo
per sé.
Non di meno Ferrando, per questo benifizio, fece principe di
Malfi Antonio, nipote del Papa, e con quello congiunse una sua
figliuola non legittima.
Restituì ancora Benevento e Terracina alla Chiesa.
37
Pareva
per tanto che fussero posate le armi in Italia, e il Pontefice si
ordinava a muovere la cristianità contro a' Turchi, secondo che
da Calisto era già stato principiato, quando nacque intra i
Fregosi e Giovanni signore di Genova dissensione, la quale
maggiori guerre e più importanti di quelle passate raccese.
Trovavasi Petrino Fregoso in uno suo castello in Riviera.
A costui non pareva essere stato rimunerato da Giovanni d'Angiò
secondo i suoi meriti e della sua casa, sendo loro stati cagione
di farlo in quella città principe: per tanto vennono insieme a
manifesta inimicizia.
Piacque questa cosa a Ferrando, come unico rimedio e sola via
alla sua salute; e Petrino di gente e di danari suvvenne, e per
suo mezzo giudicava potere cacciare Giovanni di quello stato.
Il che cognoscendo egli, mandò per aiuti in Francia, con i quali
si fece incontro a Petrino, il quale, per molti favori gli erano
stati mandati, era gagliardissimo; in modo che Giovanni si
ridusse a guardare la città.
Nella quale entrato una notte Petrino, prese alcuni luoghi di
quella; ma venuto il giorno, fu dalle genti di Giovanni
combattuto e morto, e tutte le sue genti o morte o prese. Questa
vittoria dette animo a Giovanni di fare la impresa del Regno; e
di ottobre, nel 1459, con una potente armata partì di Genova per
alla volta di quello; e pose a Baia, e di quivi a Sessa, dove fu
da quel duca ricevuto.
Accostoronsi a Giovanni il principe di Taranto, gli Aquilani e
molte altre città e principi; di modo che quel regno era quasi
tutto in rovina.
Veduto questo, Ferrando ricorse per aiuti al Papa e al Duca; e
per avere meno nimici, fece accordo con Gismondo Malatesti.
Per la qual cosa si turbò in modo Iacopo Piccinino, per essere
di Gismondo naturale nimico, che si parti da' soldi di Ferrando e
accostossi a Giovanni.
Mandò ancora Ferrando danari a Federigo signore di Urbino, e
quanto prima poté, ragunò, secondo quelli tempi, uno buono
esercito; e sopra il fiume di Sarni si ridusse a fronte con li
nimici, e venuti alla zuffa, fu il re Ferrando rotto, e presi
molti importanti suoi capitani.
Dopo questa rovina rimase in fede di Ferrando la città di Napoli
con alcuni pochi principi e terre: la maggiore parte a Giovanni
si dierono.
Voleva Iacopo Piccinino che Giovanni con questa vittoria andasse
a Napoli e si insignorissi del capo del Regno; ma non volse,
dicendo che prima voleva spogliarlo di tutto il dominio e poi
assalirlo, pensando che, privo delle sue terre, lo acquisto di
Napoli fusse più facile.
Il quale partito, preso al contrario, gli tolse la vittoria di
quella impresa; perché egli non cognobbe come più facilmente le
membra seguono il capo che il capo le membra.
38
Erasi
rifuggito, dopo la rotta, Ferrando in Napoli, e quivi gli
scacciati de' suoi stati riceveva; e con quelli modi più umani
poté, ragunò danari insieme, e fece un poco di testa di
esercito. Mandò di nuovo per aiuto al Papa e al Duca, e dall'uno
e dall'altro fu suvvenuto con maggiore celerità e più
copiosamente che per innanzi, perché vivevono con sospetto
grande che non perdessi quel regno.
Diventato per tanto il re Ferrando gagliardo, uscì di Napoli; e
avendo cominciato a racquistare riputazione, riacquistava delle
terre perdute.
E mentre che la guerra nel Regno si travagliava, nacque uno
accidente che al tutto tolse a Giovanni d'Angiò la reputazione e
la commodità di vincere quella impresa.
Erano i Genovesi infastiditi del governo avaro e superbo de'
Franzesi, tanto che presono le armi contro al governatore regio,
e quello constrinsono a rifuggirsi nel Castelletto; e a questa
impresa furono i Fregosi e gli Adorni concordi, e dal duca di
Milano di danari e di gente furono aiutati, così nell'acquistare
lo stato come nel conservarlo; tanto che il re Rinato, il quale
con una armata venne di poi in soccorso del figliuolo, sperando
riacquistare Genova per virtù del Castelletto, fu, nel porre
delle sue genti in terra, rotto, di sorte che fu forzato
tornarsene svergognato in Provenza.
Questa nuova, come fu intesa nel regno di Napoli, sbigottì assai
Giovanni d'Angiò; non di meno non lasciò la impresa; ma per
più tempo sostenne la guerra aiutato da quelli baroni i quali,
per la rebellione loro, non credevono apresso a Ferrando trovare
luogo alcuno.
Pure alla fine, dopo molti accidenti seguiti a giornata li duoi
regali eserciti si condussono, nella quale fu Giovanni, propinquo
a Troia, rotto, l'anno 1463.
Né tanto l'offese la rotta, quanto la partita da lui di Iacopo
Piccinino, il quale si accostò a Ferrando; sì che, spogliato di
forze, si ridusse in Istia, donde poi se ne tornò in Francia.
Durò questa guerra quattro anni e la perdé colui, per sua
negligenzia, il quale, per virtù de' suoi soldati l'ebbe più
volte vinta.
Nella quale i Fiorentini non si travagliorono in modo che
apparisse: vero è che da il re Giovanni di Aragona, nuovamente
assunto re in quel regno per la morte di Alfonso, furono, per sua
ambasciata, richiesti che dovessero soccorrere alle cose di
Ferrando suo nipote, come erano, per la lega nuovamente fatta con
Alfonso suo padre, obligati.
A cui per i Fiorentini fu risposto: non avere obligo alcuno con
quello; e che non erano per aiutare il figliuolo in quella guerra
che il padre con le armi sue aveva mossa; e come la fu cominciata
sanza loro consiglio o saputa, così sanza il loro aiuto la
tratti e finisca.
Donde che quelli oratori, per parte del loro re, protestorono la
pena dello obligo e gli interessi del danno; e sdegnati contro a
quella città si partirono.
Stettono per tanto i Fiorentini, nel tempo di questa guerra,
quanto alle cose di fuori, in pace; ma non posorono già drento,
come particularmente nel seguente libro si dimosterrà.
LIBRO SETTIMO
1
E' parrà
forse a quelli che il libro superiore aranno letto che uno
scrittore delle cose fiorentine si sia troppo disteso in narrare
quelle seguite in Lombardia e nel Regno; non di meno io non ho
fuggito né sono per lo avvenire per fuggire simili narrazioni,
perché, quantunque io non abbia mai promesso di scrivere le cose
di Italia, non mi pare per ciò da lasciare indietro di non
narrare quelle che saranno in quella provincia notabili.
Perché, non le narrando, la nostra istoria sarebbe meno intesa e
meno grata; massimamente perché dalle azioni degli altri popoli
e principi italiani nascono il più delle volte le guerre nelle
quali i Fiorentini sono di intromettersi necessitati, come dalla
guerra di Giovanni d'Angiò e del re Ferrando gli odii e le gravi
inimicizie nacquono le quali poi intra Ferrando e i Fiorentini, e
particularmente con la famiglia de' Medici seguirono.
Perché il Re si doleva, in quella guerra, non solamente non
essere stato suvvenuto, ma essere stati prestati favori al nimico
suo; il quale sdegno fu di grandissimi mali cagione, come nella
narrazione nostra si dimosterrà.
E perché io sono, scrivendo le cose di fuora, infino al 1463
transcorso, mi è necessario, a volere i travagli di dentro in
quel tempo seguiti narrare, ritornare molti anni indietro.
Ma prima voglio alquanto, secondo la consuetudine nostra
ragionando, dire come coloro che sperano che una republica possa
essere unita, assai di questa speranza s'ingannono.
Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle republiche, e
alcune giovano: quelle nuocono che sono dalle sette e da
partigiani accompagnate; quelle giovano che senza sette e senza
partigiani si mantengono.
Non potendo adunque provedere uno fondatore di una republica che
non sieno inimicizie in quella, ha a provedere almeno che non vi
sieno sette.
E però è da sapere come in due modi acquistono riputazione i
cittadini nelle città: o per vie publiche, o per modi privati.
Publicamente si acquista, vincendo una giornata, acquistando una
terra, faccendo una legazione con sollecitudine e con prudenza,
consigliando la republica saviamente e felicemente; per modi
privati si acquista, benificando questo e quell'altro cittadino,
defendendolo da' magistrati, suvvenendolo di danari, tirandolo
immeritamente agli onori, e con giochi e doni publici
gratificandosi la plebe.
Da questo modo di procedere nascono le sette e i partigiani; e
quanto questa reputazione così guadagnata offende, tanto quella
giova quando ella non è con le sette mescolata, perché la è
fondata sopra un bene comune, non sopra un bene privato.
E benché ancora tra i cittadini così fatti non si possa per
alcuno modo provedere che non vi sieno odii grandissimi non di
meno, non avendo partigiani che per utilità propria li seguitino,
non possono alla republica nuocere; anzi conviene che giovino,
perché è necessario, per vincere le loro pruove, si voltino
alla esaltazione di quella, e particularmente osservino l'uno l'altro,
acciò che i termini civili non si trapassino.
Le inimicizie di Firenze furono sempre con sette, e per ciò
furono sempre dannose; né stette mai una setta vincitrice unita,
se non tanto quanto la setta inimica era viva, ma come la vinta
era spenta, non avendo quella che regnava più paura che la
ritenesse né ordine infra sé che la frenasse, la si ridivideva.
La parte di Cosimo de' Medici rimase, nel 1434, superiore; ma per
essere la parte battuta grande e piena di potentissimi uomini, si
mantenne un tempo, per paura, unita e umana, intanto che fra loro
non feciono alcuno errore, e al popolo per alcuno loro sinistro
modo non si feciono odiare; tanto che qualunque volta quello
stato ebbe bisogno del popolo per ripigliare la sua autorità,
sempre lo trovò disposto a concedere a i capi suoi tutta quella
balia e potenza che desideravano.
E così, dal 1434 al '55, che sono anni ventuno, sei volte, e per
i Consigli ordinariamente, la autorità della balia riassunsono.
2
Erano in
Firenze, come più volte abbiamo detto, duoi cittadini
potentissimi Cosimo de' Medici e Neri Capponi; de' quali Neri era
uno di quelli che aveva acquistata la sua reputazione per vie
publiche, in modo che gli aveva assai amici e pochi partigiani;
Cosimo, dall'altra parte, avendosi alla sua potenza la publica e
la privata via aperta, aveva amici e partigiani assai.
E stando costoro uniti, mentre tutti a duoi vissero, sempre ciò
che vollono sanza alcuna difficultà dal popolo ottennono,
perché gli era mescolata con la potenza la grazia.
Ma venuto l'anno 1455, ed essendo morto Neri, e la parte nimica
spenta, trovò lo stato difficultà nel riassumere l'autorità
sua; e i propri amici di Cosimo, e nello stato potentissimi, ne
erano cagione, perché non temevano più la parte avversa, che
era spenta, e avevano caro di diminuire la potenza di quello.
Il quale umore dette principio a quelle divisioni che di poi, nel
1466 seguirono; in modo che quelli a' quali lo stato apparteneva,
ne' Consigli dove publicamente si ragionava della publica
amministrazione, consigliavano che gli era bene che la potestà
della balia non si riassumesse, e che si serrassero le borse e i
magistrati a sorte, secondo i favori de' passati squittini, si
sortissero.
Cosimo, a frenare questo umore aveva uno de' duoi rimedi: o
ripigliare lo stato per forza, con i partigiani che gli erano
rimasi, e urtare tutti gli altri, o lasciare ire la cosa e con il
tempo fare a' suoi amici cognoscere che non a lui, ma a loro
propri, lo stato e la reputazione toglievono.
De' quali duoi remedi questo ultimo elesse; perché sapeva bene
che in tale modo di governo, per essere le borse piene di suoi
amici, egli non correva alcuno pericolo, e come a sua posta
poteva il suo stato ripigliare.
Riduttasi per tanto la città a creare i magistrati a sorte,
pareva alla universalità de' cittadini avere riavuta la sua
libertà, e i magistrati, non secondo la voglia de' potenti, ma
secondo il giudicio loro proprio giudicavano; in modo che ora uno
amico d'uno potente, ora quello d'uno altro era battuto, e così
quelli che solevano vedere le case loro piene di salutatori e di
presenti, vote di sustanze e di uomini le vedevano.
Vedevonsi ancora diventati uguali a quelli che solevono avere di
lunga inferiori, e superiori vedevano quelli che solevono essere
loro eguali.
Non erano riguardati né onorati, anzi molte volte beffati e
derisi, e di loro e della republica per le vie e per le piazze
sanza alcuno riguardo si ragionava; di qualità che cognobbono
presto, non Cosimo, ma loro avere perduto lo stato.
Le quali cose Cosimo dissimulava, e come e' nasceva alcuna
deliberazione che piacessi al popolo, ed egli era il primo a
favorirla.
Ma quello che fece più spaventare i Grandi, e a Cosimo dette
maggiore occasione a farli ravvedere fu che si risuscitò il modo
del catasto del 1427, dove, non gli uomini, ma le leggi le
gravezze ponesse.
3
Questa
legge vinta, e di già fatto il magistrato che la esequisse, li
fé al tutto ristrignere insieme, e ire a Cosimo, a pregarlo che
fusse contento volere trarre loro e sé delle mani della plebe, e
rendere allo stato quella riputazione che faceva lui potente e
loro onorati.
Ai quali Cosimo rispose che era contento; ma che voleva che la
legge si facesse ordinariamente e con volontà del popolo, e non
per forza, pella quale per modo alcuno non gli ragionassero.
Tentossi ne' Consigli la legge di fare nuova balia, e non si
ottenne, onde che i cittadini grandi tornavano a Cosimo, e con
ogni termine di umilità lo pregavano volesse acconsentire al
parlamento; il che Cosimo al tutto negava come quello che voleva
ridurli in termine che appieno lo errore loro cognoscessero.
E perché Donato Cocchi trovandosi gonfalonieri di giustizia,
volle senza suo consentimento fare il parlamento, lo fece in modo
Cosimo da' Signori che con seco sedevano sbeffare, che gli
impazzò, e come stupido ne fu alle case sue rimandato.
Non di meno, perché non è bene lasciare tanto transcorrere le
cose, che le non si possino poi ritirare a sua posta, sendo
pervenuto al gonfaloniere della giustizia Luca Pitti, uomo
animoso e audace, gli parve tempo di lasciare governare la cosa a
quello, acciò, se di quella impresa s'incorreva in alcuno
biasimo, fusse a Luca, non a lui, imputato.
Luca per tanto, nel principio del suo magistrato, prepose al
popolo molte volte di rifare la balia; e non si ottenendo,
minacciò quelli che ne' Consigli sedevano con parole ingiuriose
e piene di superbia.
Alle quali poco di poi aggiunse i fatti; perché di agosto, nel
1458, la vigilia di Santo Lorenzo avendo ripieno di armati il
Palagio chiamò il popolo in Piazza, e per forza e con le armi,
gli fece acconsentire quello che prima volontariamente non aveva
acconsentito.
Riassunto per tanto lo stato, e creato la balia e di poi i primi
magistrati secondo il parere de' pochi, per dare principio a
quello governo con terrore, ch'eglino avieno cominciato con forza,
confinorono messer Girolamo Machiavelli con alcuni altri, e molti
ancora degli onori privorono. Il quale messer Girolamo, per non
avere di poi osservati i confini, fu fatto ribelle; e andando
circuendo Italia, sullevando i principi contro alla patria, fu in
Lunigiana, per poca fede d'uno di quelli signori, preso; e
condotto a Firenze, fu morto in carcere.
4
Fu questa
qualità di governo, per otto anni che durò insopportabile e
violento; perché Cosimo, già vecchio e stracco e per la mala
disposizione del corpo fatto debole, non potendo essere presente
in quel modo soleva alle cure publiche, pochi cittadini predavano
quella città.
Fu Luca Pitti, per premio della opera aveva fatta in benifizio
della republica, fatto cavaliere; ed egli, per non essere meno
grato verso di lei, che quella verso di lui fussi stata, volle
che, dove prima si chiamavano Priori dell'Arti, acciò che della
possessione perduta almeno ne riavessero il titulo, si
chiamassero Priori di Libertà: volle ancora che dove prima il
gonfaloniere sedeva sopra la destra de' rettori, in mezzo di
quelli per lo avvenire sedesse.
E perché Iddio paressi partecipe di questa impresa, feciono
publice processioni e solenni offizi per ringraziare quello de'
riassunti onori.
Fu messer Luca dalla Signoria e da Cosimo riccamente presentato,
dietro ai quali tutta la città a gara concorse; e fu opinione
che i presenti alla somma di ventimila ducati aggiugnessero.
Donde egli salì in tanta reputazione, che non Cosimo ma messer
Luca la città governava.
Da che lui venne in tanta confidenza che gli cominciò duoi
edifici, l'uno in Firenze l'altro a Ruciano, luogo propinquo uno
miglio alla città, tutti superbi e regii; ma quello della città
al tutto maggiore che alcuno altro che da privato cittadino
infino a quel giorno fusse stato edificato.
I quali per condurre a fine non perdonava ad alcuno
estraordinario modo; perché, non solo i cittadini e gli uomini
particulari lo presentavano e delle cose necessarie allo edifizio
lo suvvenivano, ma i comuni e popoli interi gli sumministravano
aiuti. Oltra di questo, tutti gli sbanditi, e qualunque altro
avesse commesso omicidio, o furto o altra cosa per che egli
temesse publica penitenzia, purché e' fusse persona a quella
edificazione utile, dentro a quelli edifizi sicuro si rifuggiva.
Gli altri cittadini, se non edificavano come quello, non erano
meno violenti, né meno rapaci di lui, in modo che, se Firenze
non aveva guerra di fuori che la distruggesse, dai suoi cittadini
era distrutta.
Seguirono, come abbiamo detto, durante questo tempo, le guerre
del Regno, e alcune che ne fece il Pontefice in Romagna contro a
quelli Malatesti; perché egli desiderava spogliarli di Rimino e
di Cesena, che loro possedevano; sì che, infra queste imprese e
i pensieri di fare la impresa del Turco, papa Pio consumò il
pontificato suo.
5
Ma
Firenze seguitò nelle disunioni e ne' travagli suoi.
Cominciò la disunione nella parte di Cosimo nel '55, per le
cagioni dette, le quali per la prudenza sua, come abbiamo narrato,
per allora si posorono.
Ma venuto l'anno '64, Cosimo riaggravò nel male, di qualità che
passò di questa vita.
Dolfonsi della morte sua gli amici e i nimici; perché quelli che
per cagione dello stato non lo amavano, veggendo quale era stata
la rapacità de' cittadini vivente lui, la cui reverenza gli
faceva meno insopportabili, dubitavano, mancato quello, non
essere al tutto rovinati e distrutti; e in Piero suo figliuolo
non confidavano molto, perché, non ostante che fusse uomo buono,
non di meno giudicavano che, per essere ancora lui infermo e
nuovo nello stato, fusse necessitato ad avere loro rispetto,
talché quelli, sanza freno in bocca, potessero essere più
strabocchevoli nelle rapacità loro.
Lasciò per tanto di sé in ciascuno grandissimo desiderio.
Fu Cosimo il più reputato e nomato cittadino, di uomo disarmato,
che avesse mai, non solamente Firenze, ma alcuna altra città di
che si abbia memoria perché, non solamente superò ogni altro de'
tempi suoi d'autorità e di ricchezze, ma ancora di liberalità e
di prudenza; perché intra tutte le altre qualità che lo feciono
principe nella sua patria fu lo essere sopra tutti gli altri
uomini liberale e magnifico.
Apparve la sua liberalità molto più dopo la sua morte, quando
Piero, suo figliuolo, volle le sue sustanze ricognoscere, perché
non era cittadino alcuno che avesse nella città alcuna qualità,
a chi Cosimo grossa somma di danari non avesse prestata, e molte
volte, sanza essere richiesto, quando intendeva la necessità d'uno
uomo nobile, lo suvveniva. Apparve la sua magnificenzia nella
copia degli edifizi da lui edificati; perché in Firenze i
conventi e i templi di San Marco e di San Lorenzo e il munistero
di Santa Verdiana, e ne' monti di Fiesole San Girolamo e la Badia,
e nel Mugello un tempio de' frati minori non solamente instaurò,
ma da e fondamenti di nuovo edificò.
Oltra di questo, in Santa Croce, ne' Servi, negli Angioli, in San
Miniato, fece fare altari e cappelle splendidissime; i quali
templi e cappelle, oltre allo edificare, riempié di paramenti e
d'ogni cosa necessaria allo ornamento del divino culto.
A questi sacri edifizi si aggiunsono le private sue case; le
quali sono, una nella città, di quello essere che a tanto
cittadino si conveniva; quattro di fuora, a Careggi, a Fiesole, a
Cafaggiuolo e al Trebbio: tutti palagi, non da privati cittadini,
ma regii.
E perché nella magnificenzia degli edifizi non gli bastava
essere cognosciuto in Italia, edificò ancora in Ierusalem un
recettaculo per i poveri e infermi peregrini; nelle quali
edificazioni uno numero grandissimo di danari consumò.
E benché queste abitazioni e tutte le altre opere e azioni sue
fussero regie, e che solo, in Firenze, fusse principe, non di
meno tanto fu temperato dalla prudenza sua, che mai la civile
modestia non trapassò: perché nelle conversazioni, ne'
servidori, nel cavalcare, in tutto il modo del vivere, e ne'
parentadi, fu sempre simile a qualunque modesto cittadino;
perché sapeva come le cose estraordinarie che a ogni ora si
veggono e appariscono recono molto più invidia agli uomini, che
quelle che sono in fatto e con onestà si ricuoprono.
Avendo per tanto a dare moglie a' suoi figliuoli, non cercò i
parentadi de' principi, ma con Giovanni la Cornelia degli
Alessandri e con Piero la Lucrezia de' Tornabuoni congiunse; e
delle nipoti nate di Piero la Bianca a Guglielmo de' Pazzi, e la
Nannina a Bernardo Rucellai sposò. Degli stati de' principi e
civili governi niuno altro al suo tempo per intelligenza lo
raggiunse: di qui nacque che in tanta varietà di fortuna, e in
sì varia città e volubile cittadinanza, tenne uno stato
trentuno anno; perché, sendo prudentissimo, cognosceva i mali
discosto e per ciò era a tempo, o a non li lasciare crescere, o
a prepararsi in modo che cresciuti, non lo offendessero: donde
non solamente vinse la domestica e civile ambizione, ma quella di
molti principi superò con tanta felicità e prudenza che
qualunque seco e colla sua patria si collegava, rimaneva o pari o
superiore al nimico, e qualunque se gli opponeva, o e' perdeva il
tempo e' denari, o lo stato.
Di che ne possono rendere buona testimonianza i Viniziani; i
quali, con quello, contro al duca Filippo sempre furono superiori,
e disiunti da lui, sempre furono, e da Filippo prima, e da
Francesco poi, vinti e battuti; e quando con Alfonso contro alla
republica di Firenze si collegorono, Cosimo con il credito suo
vacuò Napoli e Vinegia di danari in modo che furono constretti a
prendere quella pace che fu voluta concedere loro.
Delle dificultà adunque che Cosimo ebbe, dentro alla città e
fuori, fu il fine glorioso per lui e dannoso per gli inimici; e
per ciò sempre le civili discordie gli accrebbono in Firenze
stato, e le guerre di fuora potenza e reputazione: per il che
allo imperio della sua republica il Borgo a San Sipolcro,
Montedoglio, il Casentino e Val di Bagno aggiunse.
E così la virtù e fortuna sua spense tutti i suoi nimici, e gli
amici esaltò.
6
Nacque
nel 1389, il giorno di Santo Cosimo e Damiano.
Ebbe la sua prima età piena di travagli, come lo esilio, la
cattura, i pericoli di morte dimostrano; e da il concilio di
Gostanza, dove era ito con papa Giovanni, dopo la rovina di
quello, per campare la vita, gli convenne fuggire travestito.
Ma passati i quaranta anni della sua età, visse felicissimo,
tanto che, non solo quelli che si accostorono a lui nelle imprese
publiche, ma quelli ancora che i suoi tesori per tutta la Europa
amministravano della felicità sua participorono: da che molte
eccessive ricchezze in molte famiglie di Firenze nacquono, come
avvenne in quella de' Tornabuoni, de' Benci, de' Portinari e de'
Sassetti; e dopo questi, tutti quelli che da il consiglio e
fortuna sua dependevono arricchirono: talmente che, ben che negli
edifizi de' templi e nelle limosine egli spendesse continuamente,
si doleva qualche volta con gli amici che mai aveva potuto
spendere tanto in onore di Dio che lo trovassi ne' suoi libri
debitore.
Fu di comunale grandezza, di colore ulivigno e di presenza
venerabile.
Fu sanza dottrina, ma eloquentissimo e ripieno d'una naturale
prudenza; e per ciò era officioso nelli amici, misericordioso ne'
poveri, nelle conversazione utile, ne' consigli cauto, nelle
esecuzioni presto, e ne' suoi detti e risposte era arguto e grave.
Mandogli messer Rinaldo degli Albizi, ne' primi tempi del suo
esilio a dire che la gallina covava, a cui Cosimo rispose che la
poteva mal covare fuora del nidio, e ad altri ribelli, che li
feciono intendere che non dormivano disse che lo credeva, avendo
cavato loro il sonno.
Disse di papa Pio, quando e' citava i principi per la impresa
contro al Turco, che gli era vecchio e faceva una impresa da
giovani.
Agli oratori viniziani, i quali vennono a Firenze insieme con
quelli del re Alfonso a dolersi della republica, mostrò il capo
scoperto, e dimandolli di qual colore fusse; al quale risposono:
- Bianco, - ed egli allora soggiunse: - E' non passerà gran
tempo che i vostri senatori lo aranno bianco come io.
- Domandandogli la moglie, poche ore avanti la morte, perché
tenesse gli occhi chiusi, rispose: - Per avvezzargli.
- Dicendogli alcuni cittadini, dopo la sua tornata dallo esilio,
che si guastava la città e facevasi contro a Dio a cacciare di
quella tanti uomini da bene, rispose come gli era meglio città
guasta che perduta; e come due canne di panno rosato facevono uno
uomo da bene; e che gli stati non si tenevono co' paternostri in
mano: le quali voci dettono materia a' nimici di calunniarlo,
come uomo che amasse più se medesimo che la patria, e più
questo mondo che quell'altro.
Potrebbonsi riferire molti altri suoi detti, i quali, come non
necessari, si ommetteranno.
Fu ancora Cosimo degli uomini litterati amatore ed esaltatore; e
per ciò condusse in Firenze lo Argilopolo, uomo di nazione greca
e in quelli tempi litteratissimo, acciò che da quello la
gioventù fiorentina la lingua greca e l'altre sue dottrine
potesse apprendere; nutrì nelle sue case Marsilio Ficino,
secondo padre della platonica filosofia, il quale sommamente amò;
e perché potesse più commodamente seguire gli studi delle
lettere, e per poterlo con più sua commodità usare, una
possessione propinqua alla sua di Careggi gli donò.
Questa sua prudenza adunque, queste sue ricchezze, modo di vivere
e fortuna, lo feciono, a Firenze, da' cittadini temere e amare, e
dai principi, non solo di Italia, ma di tutta la Europa,
maravigliosamente stimare. Donde che lasciò tale fondamento a'
suoi posteri che poterono con la virtù pareggiarlo e con la
fortuna di gran lunga superarlo, e quella autorità che Cosimo
ebbe in Firenze, non solo in quella città, ma in tutta la
cristianità averla.
Non di meno negli ultimi tempi della sua vita sentì gravissimi
dispiaceri; perché de' duoi figliuoli che gli ebbe, Piero e
Giovanni, questo morì in nel quale egli più confidava, quell'altro
era infermo e, per la debilezza del corpo, poco atto alle
publiche e alle private faccende.
Di modo che, faccendosi portare, dopo la morte del figliuolo, per
la casa, disse sospirando: - Questa è troppa gran casa a sì
poca famiglia.
- Angustiava ancora la grandezza dello animo suo non gli parere
di avere accresciuto lo imperio fiorentino d'uno acquisto
onorevole; e tanto più se ne doleva, quanto gli pareva essere
stato da Francesco Sforza ingannato; il quale, mentre era conte,
gli aveva promesso, comunque si fusse insignorito di Milano, di
fare la impresa di Lucca per i Fiorentini.
Il che non successe, perché quel conte con la fortuna mutò
pensiero, e diventato duca, volle godersi quello stato colla pace
che si aveva acquistato con la guerra; e per ciò non volle né a
Cosimo né ad alcuno altro di alcuna impresa sodisfare; né fece,
poi che fu duca, altre guerre che quelle che fu per difendersi
necessitato.
Il che fu di noia grandissima a Cosimo cagione, parendogli avere
durato fatica e speso per fare grande uno uomo ingrato e infedele.
Parevagli, oltre a di questo, per la infirmità del corpo, non
potere nelle faccende publiche e private porre l'antica diligenza
sua; di qualità che l'una e l'altra vedeva rovinare, perché la
città era distrutta da' cittadini, e le sustanze da' ministri e
da' figliuoli.
Tutte queste cose gli feciono passare gli ultimi tempi della sua
vita inquieti.
Non di meno morì pieno di gloria, e con grandissimo nome nella
città e fuori.
Tutti i cittadini e tutti i principi cristiani si dolfono con
Piero suo figliuolo della sua morte, e fu con pompa grandissima
da tutti i cittadini alla sepultura accompagnato, e nel tempio di
San Lorenzo sepellito, e per publico decreto sopra la sepultura
sua PADRE DELLA PATRIA nominato.
Se io, scrivendo le cose fatte da Cosimo, ho imitato quelli che
scrivono le vite de' principi, non quelli che scrivono le
universali istorie, non ne prenda alcuno ammirazione, perché,
essendo stato uomo raro nella nostra città, io sono stato
necessitato con modo estraordinario lodarlo.
7
In questi
tempi, che Firenze e Italia nelle dette condizioni si trovava,
Luigi re di Francia era da gravissima guerra assalito, la quale
gli avieno i suoi baroni, con lo aiuto di Francesco duca di
Brettagna e di Carlo duca di Borgogna, mossa; la quale fu di
tanto momento che non potette pensare di favorire il duca
Giovanni d'Angiò nelle imprese di Genova e del Regno; anzi,
giudicando di avere bisogno degli aiuti di ciascuno, sendo
restata la città di Savona in potestà de' Franciosi, insignorì
di quella Francesco duca di Milano, e gli fece intendere che, se
voleva, con sua grazia poteva fare la impresa di Genova.
La qual cosa fu da Francesco accettata; e con la reputazione che
gli dette l'amicizia del Re, e con li favori che gli ferono gli
Adorni, s'insignorì di Genova; e per non mostrarsi ingrato verso
il Re de' beneficii ricevuti, mandò al soccorso suo, in Francia,
millecinquecento cavagli, capitaneati da Galeazzo suo primogenito.
Restati per tanto Ferrando di Aragona e Francesco Sforza, l'uno
duca di Lombardia e principe di Genova, l'altro re di tutto il
regno di Napoli, e avendo insieme contratto parentado, pensavano
come e' potessero in modo fermare gli stati loro, che vivendo li
potessero securamente godere e morendo agli loro eredi
liberamente lasciare.
E per ciò giudicorono che fusse necessario che il Re si
assicurasse di quelli baroni che lo aveno nella guerra di
Giovanni d'Angiò offeso, e il Duca operasse di spegnere le armi
braccesche al sangue suo naturali nimiche, le quali sotto Iacopo
Piccinino in grandissima reputazione erano salite, perché egli
era rimaso il primo capitano di Italia, e non avendo stato,
qualunque era in stato doveva temerlo, e massimamente il Duca, il
quale, mosso da lo esemplo suo, non gli pareva potere tenere
quello stato, né securo a' figliuoli lasciarlo, vivente Iacopo.
Il Re per tanto con ogni industria cercò lo accordo con i suoi
baroni, e usò ogni arte in assicurarli, il che gli succedette
felicemente, perché quelli principi, rimanendo in guerra con il
Re, vedevono la loro rovina manifesta, e facendo accordo e di lui
fidandosi, ne stavano dubi.
E perché gli uomini fuggono sempre più volentieri quel male che
è certo, ne seguita che i principi possono i minori potenti
facilmente ingannare: credettono quelli principi alla pace del Re,
veggendo i pericoli manifesti nella guerra, e rimessisi nelle
braccia di quello, furono di poi da lui in varii modi e sotto
varie cagioni spenti.
La qual cosa sbigottì Iacopo Piccinino, il quale con le sue
genti si trovava a Solmona; e per torre occasione al Re di
opprimerlo, tenne pratica con il duca Francesco, per mezzo de'
suoi amici, di riconciliarsi con quello; e avendogli il Duca
fatte quante offerte potette maggiori, deliberò Iacopo
rimettersi nelle braccia sua, e lo andò, accompagnato da cento
cavagli, a trovare a Milano.
8
Aveva
Iacopo sotto il padre e con il fratello militato gran tempo,
prima per il duca Filippo e di poi per il popolo di Milano, tanto
che, per la lunga conversazione, aveva in Milano amici assai e
universale benivolenza; la quale le presenti condizioni avevano
accresciuta perché agli Sforzeschi la prospera fortuna e la
presente potenza aveva partorito invidia, e a Iacopo le cose
avverse e la lunga assenza avevano in quel popolo generato
misericordia, e di vederlo grandissimo desiderio.
Le quali cose tutte apparsono nella venuta sua, perché pochi
rimasono della nobilità che non lo incontrassero, e le strade
donde ei passò di quelli che desideravano vederlo erano ripiene;
il nome della gente sua per tutto si gridava.
I quali onori affrettorono la sua rovina, perché al Duca crebbe,
con il sospetto, il desiderio di spegnerlo.
E per poterlo più copertamente fare, volle che celebrasse le
nozze con Drusiana sua figliuola naturale, la quale più tempo
innanzi gli aveva sposata; di poi convenne con Ferrando lo
prendesse a' suoi soldi con titulo di capitano delle sue genti e
centomila fiorini di provisione.
Dopo la quale conclusione, Iacopo, insieme con uno ambasciadore
ducale e Drusiana sua moglie, se ne andò a Napoli; dove
lietamente e onoratamente fu ricevuto e per molti giorni con ogni
qualità di festa intrattenuto.
Ma avendo domandato licenza per gire a Solmona, dove aveva le sue
genti, fu da il Re nel Castello convitato, e appresso il convito,
insieme con Francesco suo figliuolo, imprigionato, e dopo poco
tempo morto.
E così i nostri principi italiani quella virtù che non era in
loro temevano in altri, e la spegnevano: tanto che, non la avendo
alcuno, esposono questa provincia a quella rovina la quale, dopo
non molto tempo, la guastò e afflisse.
9
Papa Pio,
in questi tempi, aveva composte le cose di Romagna; e per ciò
gli parve tempo, veggendo seguita universale pace, di muovere i
Cristiani contro al Turco; e riprese tutti quelli ordini che da'
suoi antecessori erano stati fatti; e tutti i principi promissono
o danari o genti, e in particulari Mattia re d'Ungheria e Carlo
duca di Borgogna promissono essere personalmente seco, i quali
furono da il Papa fatti capitani della impresa.
E andò tanto avanti il Pontefice con la speranza, che partì da
Roma e andonne in Ancona, dove si era ordinato che tutto lo
esercito convenisse; e i Viniziani gli avieno promessi navigi per
passarlo in Stiavonia. Convenne per tanto in quella città, dopo
lo arrivare del Pontefice, tanta gente che in pochi giorni tutti
i viveri che in quella città erano e che dai luoghi vicini vi si
potevano condurre mancorono, di qualità che ciascuno era dalla
fame oppressato.
Oltra di questo non vi era danari da provederne quelli che ne
avevano di bisogno, né arme da rivestire quelli che ne mancavano;
e Mattia e Carlo non comparsono, e i Viniziani vi mandorono uno
loro capitano con alquante galee, più tosto per mostrare la
pompa loro, e di avere osservata la fede, che per potere quello
esercito passare.
Onde che il Papa, sendo vecchio e infermo, nel mezzo di questi
travagli e disordini morì.
Dopo la cui morte ciascheduno alle sue case se ne ritornò.
Morto il Papa, l'anno 1465, fu eletto al pontificato Paulo II, di
nazione viniziano. E perché quasi che tutti i principati di
Italia mutassero governo, morì ancora, l'anno seguente,
Francesco Sforza duca di Milano, dopo sedici anni ch'egli aveva
occupato quel ducato, e fu dichiarato duca Galeazzo suo figliuolo.
10
La morte
di questo principe fu cagione che le divisioni di Firenze
diventassero più gagliarde e facessero i suoi effetti più
presto.
Poi che Cosimo morì, Piero suo figliuolo, rimaso erede delle
sustanze e dello stato del padre, chiamò a sé messer Dietisalvi
Neroni, uomo di grande autorità e secondo gli altri cittadini
reputatissimo, nel quale Cosimo confidava tanto che commisse,
morendo, a Piero che delle sustanze e dello stato al tutto
secondo il consiglio di quello si governasse.
Dimostrò per tanto Piero a messer Dietisalvi la fede che Cosimo
aveva avuta in lui; e perché voleva ubbidire a suo padre dopo
morte come aveva ubbidito in vita, desiderava con quello del
patrimonio e del governo della città consigliarsi.
E per cominciare dalle sustanze proprie, farebbe venire tutti i
calculi delle sue ragioni e gliene porrebbe in mano, acciò che
potesse l'ordine e disordine di quelle cognoscere, e cognosciuto,
secondo la sua prudenza consigliarlo.
Promisse messer Dietisalvi in ogni cosa usare diligenzia e fede;
ma venuti i calculi, e quelli bene esaminati, cognobbe in ogni
parte essere assai disordini.
E come quello che più lo strigneva la propria ambizione che lo
amore di Piero o gli antichi benifizi da Cosimo ricevuti, pensò
che fusse facile torgli la reputazione e privarlo di quello stato
che il padre come ereditario gli aveva lasciato.
Venne per tanto messer Dietisalvi a Piero con uno consiglio che
pareva tutto onesto e ragionevole; ma sotto a quello era la sua
rovina nascosa.
Dimostrogli il disordine delle sue cose, e a quanti danari gli
era necessario provedere non volendo perdere, con il credito, la
reputazione delle sustanze e dello stato suo.
E perciò gli disse che e' non poteva con maggiore onestà
rimediare a' disordini suoi, che cercare di fare vivi quelli
danari che suo padre doveva avere da molti, così forestieri come
cittadini: perché Cosimo, per acquistarsi partigiani in Firenze
e amici di fuora, nel fare parte a ciascuno delle sue sustanze fu
liberalissimo, in modo che quello di che per queste cagioni era
creditore ad una somma di danari non piccola né di poca
importanza ascendeva.
Parve a Piero il consiglio buono e onesto, volendo a' disordini
suoi rimediare con il suo; ma subito che gli ordinò che questi
danari si domandassero, i cittadini, come se quello volesse torre
il loro, non domandare il suo, si risentirono; e sanza rispetto
dicevano male di lui, e come ingrato e avaro lo calunniavano.
11
Donde che,
veduta messer Dietisalvi questa comune e populare disgrazia in la
quale Piero era per i suoi consigli incorso, si ristrinse con
messer Luca Pitti, messer Agnolo Acciaiuoli e Niccolò Soderini,
e deliberorono di torre a Piero la reputazione e lo stato. Erano
mossi costoro da diverse cagioni: messer Luca desiderava
succedere nel luogo di Cosimo, perché era diventato tanto grande
che si sdegnava avere ad osservare Piero; messer Dietisalvi, il
quale conosceva messer Luca non essere atto ad essere capo del
governo, pensava che di necessità, tolto via Piero, la
reputazione del tutto, in breve tempo, dovesse cadere in lui;
Niccolò Soderini amava che la città più liberamente vivesse, e
che secondo la voglia de' magistrati si governasse.
Messer Agnolo con i Medici teneva particulari odii per tali
cagioni: aveva Raffaello suo figliuolo, più tempo innanzi, presa
per moglie la Lessandra de' Bardi con grandissima dote: costei o
per i mancamenti suoi o per i difetti d'altri, era da il suocero
e dal marito male trattata; onde che Lorenzo di Larione, suo
affine, mosso a pietà di questa fanciulla, una notte, con di
molti armati accompagnato, la trasse di casa messer Agnolo.
Dolfonsi gli Acciaiuoli di questa ingiuria fatta loro dai Bardi:
fu rimessa la causa in Cosimo; il quale giudicò che gli
Acciaiuoli dovessero alla Lessandra restituire la sua dote, e di
poi il tornare con il marito suo allo arbitrio della fanciulla si
rimettesse.
Non parve a messer Agnolo che Cosimo, in questo giudicio, lo
avesse come amico trattato; e non si essendo potuto contro a
Cosimo, deliberò contro al figliuolo vendicarsi.
Questi congiurati non di meno, in tanta diversità di umori,
publicavano una medesima cagione, affermando volere che la città
con i magistrati, e non con il consiglio di pochi, si governasse.
Accrebbono oltra di questo gli odii verso Piero e le cagioni di
morderlo molti mercatanti che in questo tempo fallirono: di che
publicamente ne fu Piero incolpato, che, volendo, fuori di ogni
espettazione, riavere i suoi danari, gli aveva fatti con
vituperio e danno della città fallire.
Aggiunsesi a questo che si praticava di dare per moglie la
Clarice degli Orsini a Lorenzo suo primogenito; il che porse a
ciascuno più larga materia di calunniarlo, dicendo come e' si
vedeva espresso, poi ch'egli voleva rifiutare per il figliuolo
uno parentado fiorentino, che la città più come cittadino non
lo capeva, e per ciò egli si preparava a occupare il principato:
perché colui che non vuole i suoi cittadini per parenti gli
vuole per servi, e per ciò è ragionevole che non gli abbia
amici.
Pareva a questi capi della sedizione avere la vittoria in mano,
perché la maggior parte de' cittadini, ingannati da quel nome
della libertà che costoro, per adonestare la loro impresa,
avevano preso per insegna, gli seguivano.
12
Ribollendo
adunque questi umori per la città, parve ad alcuno di quelli a'
quali le civili discordie dispiacevano che si vedesse se con
qualche nuova allegrezza si potessero fermare, perché il più
delle volte i popoli oziosi sono strumento a chi vuole alterare.
Per torre via adunque questo ozio, e dare che pensare agli uomini
qualche cosa, che levassero il pensiero dello stato, sendo già
passato l'anno che Cosimo era morto, presono occasione da che
fusse bene rallegrare la città, e ordinorono due feste secondo l'altre
che in quella città si fanno, solennissime: una che
rappresentava quando i tre Re vennono di Oriente dietro alla
stella che dimostrava la natività di Cristo; la quale era di
tanta pompa e sì magnifica, che in ordinarla e farla teneva più
mesi occupata tutta la città, l'altra fu uno torniamento (che
così chiamano uno spettaculo che rappresenta una zuffa di uomini
a cavallo) dove i primi giovani della città si esercitorono
insieme con i più nominati cavalieri di Italia.
E intra i giovani fiorentini il più reputato fu Lorenzo,
primogenito di Piero, il quale, non per grazia, ma per proprio
suo valore ne riportò il primo onore.
Celebrati questi spettaculi, ritornorono ne' cittadini i medesimi
pensieri, e ciascuno con più studio che mai la sua opinione
seguitava: di che dispareri e travagli grandi ne risultavano; i
quali da duoi accidenti furono grandemente accresciuti: l'uno fu
che l'autorità della balia mancò, l'altro la morte di Francesco
duca di Milano.
Donde che Galeazzo, nuovo duca, mandò a Firenze ambasciadori per
confermare i capitoli che Francesco suo padre aveva con la città;
in ne' quali, tra le altre cose, si disponeva che qualunque anno
si pagasse a quel duca certa somma di danari.
Presono per tanto i principi contrari a' Medici occasione da
questa domanda, e publicamente, ne' Consigli, a questa
deliberazione si opposono, mostrando non con Galeazzo, ma con
Francesco essere fatta l'amiciza, sì che, morto Francesco, era
morto l'obligo; né ci era cagione di risuscitarlo, perché in
Galeazzo non era quella virtù che era in Francesco, e per
consequente non se ne doveva né poteva sperare quello utile; e
se da Francesco si era avuto poco, da questo si arebbe meno; e se
alcuno cittadino lo volesse soldare per la potenza sua, era cosa
contro al vivere civile e alla libertà della città.
Piero, allo incontro, mostrava che e' non era bene una amicizia
tanto necessaria per avarizia perderla, e che niuna cosa era
tanto salutifera alla republica e a tutta Italia, quanto essere
collegati con il duca, acciò che i Viniziani, veggendo loro
uniti, non sperino, o per finta amicizia o per aperta guerra,
opprimere quel ducato; perché non prima sentiranno i Fiorentini
essere da quel duca alienati, ch'eglino aranno l'armi in mano
contro di lui, e trovandolo giovane, nuovo nello stato e sanza
amici, facilmente se lo potranno, o con inganno o con forza,
guadagnare; e nell'uno e nell'altro caso vi si vedeva la rovina
della republica.
13
Non erano
accettate queste ragioni, e le nimicizie cominciorono a mostrarsi
aperte, e ciascheduna delle parti di notte, in diverse compagnie
conveniva, perché gli amici de' Medici nella Crocetta, e gli
avversarii nella Pietà si riducevano i quali, solleciti nella
rovina di Piero, avevono fatto soscrivere come alla impresa loro
favorevoli, molti cittadini.
E trovandosi, tra le altre volte, una notte insieme, tennono
particulare consiglio del modo di procedere loro; e a ciascuno
piaceva diminuire la potenza de' Medici, ma erano differenti nel
modo.
Una parte, la quale era la più temperata e modesta, voleva che,
poi che gli era finita l'autorità della balia, che si attendessi
ad obstare che la non si riassumesse; e fatto questo, ci era la
intenzione di ciascuno, perché i Consigli e i magistrati
governerebbono la città, e in poco tempo l'autorità di Piero si
spegnerebbe; e verrebbe, con la perdita della reputazione dello
stato, a perdere il credito nelle mercatanzie, perché le
sustanze sue erano in termine che, se si teneva forte che e' non
si potessi de' danari publici valere, era a rovinare necessitato;
il che come fusse seguito, non ci era di lui più alcuno pericolo,
e venivasi ad avere, sanza esili e sanza sangue, la sua libertà
recuperata; il che ogni buono cittadino doveva desiderare.
Ma se si cercava di adoperare la forza, si potrebbe in moltissimi
pericoli incorrere; perché tale lascia cadere uno che cade da
sé, che, se gli è spinto da altri, lo sostiene.
Oltra di questo, quando non si ordinasse alcuna cosa
straordinaria contro a di lui, non arebbe cagione di armarsi o di
cercare amici; e quando e' lo facessi, sarebbe con tanto suo
carico, e genererebbe in ogni uomo tanto sospetto, che farebbe a
sé più facile la rovina e ad altri darebbe maggiore occasione
di opprimerlo.
A molti altri de' ragunati non piaceva questa lunghezza,
affermando come il tempo era per favorire lui e non loro: perché,
se si voltavano ad essere contenti alle cose ordinarie, Piero non
portava pericolo alcuno, e loro ne correvono molti, perché i
magistrati suoi nimici gli lasceranno godere la città, e gli
amici lo faranno, con la rovina loro, come intervenne nel '58,
principe.
E se il consiglio dato era da uomini buoni, questo era da uomini
savi; e per ciò, mentre che gli uomini erano infiammati contro a
di lui, conveniva spegnerlo.
Il modo era: armarsi dentro, e fuori soldare il marchese di
Ferrara, per non essere disarmato; e quando la sorte dessi di
avere una Signoria amica, essere parati ad assicurarsene.
Rimasono per tanto in questa sentenza: che si aspettasse la nuova
Signoria, e secondo quella governarsi.
Trovavasi intra questi congiurati ser Niccolò Fedini il quale
tra loro come cancelliere si esercitava.
Costui, tirato da più certa speranza, rivelò tutte le pratiche
tenute da' suoi inimici a Piero, e la listra de' congiurati e de'
soscritti gli portò. Sbigottissi Piero, vedendo il numero e la
qualità de' cittadini che gli erano contro, e consigliatosi con
gli amici, deliberò ancora egli fare degli amici suoi una
soscrizione; e dato di questa impresa la cura ad alcuno de' più
suoi fidati, trovò tanta varietà e instabilità negli animi de'
cittadini, che molti de' soscritti contro di lui ancora in favore
suo si soscrissono.
14
Mentre
che queste cose in questa maniera si travagliavano, venne il
tempo che il supremo magistrato si rinnuova; al quale per
gonfalonieri di giustizia fu Niccolò Soderini assunto.
Fu cosa maravigliosa a vedere con quanto concorso non solamente
di onorati cittadini ma di tutto il popolo, e' fusse al Palazzo
accompagnato; e per il cammino gli fu posta una grillanda di
ulivo in testa, per mostrare che da quello avesse e la salute e
la libertà di quella patria a dependere.
Vedesi, per questa e per molte altre esperienze, come non è cosa
desiderabile prendere o uno magistrato o uno principato con
estraordinaria opinione; perché, non potendosi con le opere a
quella corrispondere, desiderando più gli uomini, che non
possono conseguire, ti partorisce, con il tempo, disonore e
infamia.
Erano messer Tommaso Soderini e Niccolò fratelli: era Niccolò
più feroce e animoso; messer Tommaso più savio.
Questi, perché era a Piero amicissimo, cognosciuto l'umore del
fratello, come egli desiderava solo la libertà della città e
che sanza offesa di alcuno lo stato si fermasse, lo confortò a
fare nuovo squittino, mediante il quale le borse de' cittadini
che amassero il vivere libero si riempiessero; il che fatto, si
verrebbe a fermare e assicurare lo stato sanza tumulto e sanza
ingiuria di alcuno, secondo la volontà sua.
Credette facilmente Niccolò a' consigli del fratello, e attese
in questi vani pensieri a consumare il tempo del suo magistrato;
e dai capi de' congiurati, suoi amici, gli fu lasciato consumare,
come quelli che per invidia non volevono che lo stato con l'autorità
di Niccolò si rinnovasse, e sempre credevano con uno altro
gonfaloniere essere a tempo ad operare il medesimo.
Venne per tanto il fine del magistrato di Niccolò, e avendo
cominciate assai cose e non ne fornite alcuna, lasciò quello
assai più disonorevolmente, che onorevolemente non lo aveva
preso.
15
Questo
esemplo fece la parte di Piero più gagliarda; e gli amici suoi
più nella speranza si confermorono, e quelli che erano neutrali
a Piero si aderirono; tal che, essendo le cose pareggiate, più
mesi sanza altro tumulto si temporeggiorono.
Non di meno la parte di Piero sempre pigliava più forze; onde
che gli inimici si risentirono e si ristrinsono insieme, e quello
che non avevono saputo o voluto fare per il mezzo de' magistrati
e facilmente, pensorono di fare per forza; e conclusono di fare
ammazzare Piero, che, infermo, si trovava a Careggi; e a questo
effetto fare venire il marchese di Ferrara con le genti verso la
città; e morto Piero, venire armati in Piazza, e fare che la
Signoria fermassi uno stato secondo la volontà loro; perché,
sebbene tutta non era loro amica, speravano quella parte che
fusse contraria farla per paura cedere.
Messer Dietisalvi, per celare meglio lo animo suo, vicitava Piero
spesso, e ragionavali della unione della città, e lo consigliava.
Erano state a Piero rivelate tutte queste pratiche; e di più
messer Domenico Martelli gli fece intendere come Francesco Neroni,
fratello di messer Dietisalvi, lo aveva sollecitato a volere
essere con loro, mostrandogli la vittoria certa e il partito
vinto.
Onde che Piero deliberò di essere il primo a prender le armi; e
prese la occasione dalle pratiche tenute da' suoi avversarii con
il marchese di Ferrara.
Finse per tanto avere ricevuta una lettera da messer Giovanni
Bentivogli principe in Bologna, che gli significava come il
marchese di Ferrara si trovava sopra il fiume Albo con gente, e
che publicamente dicevono venire a Firenze.
E così, sopra questo avviso, Piero prese l'arme, e in mezzo d'una
grande moltitudine di armati ne venne a Firenze.
Dopo il quale tutti quelli che seguivono le parti sue si armorono;
e la parte avversa fece il simile; ma con migliore ordine quella
di Piero, come coloro che erano preparati, e quegli altri non
erano ancora secondo il disegno loro a ordine. Messer Dietisalvi,
per avere le sue case propinque a quelle di Piero, in esse non si
teneva securo; ma ora andava in Palazzo a confortare la Signoria
a fare che Piero posasse l'arme, ora a trovare messer Luca, per
tenerlo fermo nelle parti loro.
Ma di tutti si mostrò più vivo che alcuno Niccolò Soderini, il
quale prese l'arme, e fu seguitato quasi che da tutta la plebe
del suo quartiere, e ne andò alle case di messer Luca, e lo
pregò montasse a cavallo e venisse in Piazza a' favori della
Signoria, che era per loro; dove senza dubio s'arebbe la vittoria
certa, e non volesse, standosi in casa, essere o dagli armati
nimici vilmente oppresso, o dai disarmati vituperosamente
ingannato; e che a ora si pentirebbe non avere fatto, che non
sarebbe a tempo a fare; e che, se e' voleva con la guerra la
rovina di Piero, egli poteva facilmente averla; se voleva la pace,
era molto meglio essere in termine da dare, non ricevere, le
condizioni di quella.
Non mossono queste parole messer Luca, come quello che aveva già
posato lo animo, ed era stato da Piero, con promesse di nuovi
parentadi e nuove condizioni, svolto; perché avevano con
Giovanni Tornabuoni una sua nipote in matrimonio congiunta.
In modo che confortò Niccolò a posare l'armi e tornarsene a
casa; perché e' doveva bastargli che la città si governasse con
i magistrati; e così seguirebbe, e che le arme ogni uomo le
poserebbe, e i Signori, dove loro avevono più parte, sarebbono
giudici delle differenze loro.
Non potendo adunque Niccolò altrimenti disporlo, se ne tornò a
casa; ma prima gli disse: - Io non posso, solo, fare bene alla
mia città; ma io posso bene pronosticarle il male: questo
partito che voi pigliate farà alla patria nostra perdere la sua
libertà, a voi lo stato e le sustanze, a me e agli altri la
patria.
16
La
Signoria, in questo tumulto, aveva chiuso il Palazzo, e con i
suoi magistrati si era ristretta, non mostrando favore ad alcuna
delle parti.
I cittadini, e massimamente quegli che avevano seguite le parti
di messer Luca, veggendo Piero armato e gli avversarii disarmati,
cominciorono a pensare, non come avessino a offendere Piero, ma
come avessino a diventare suoi amici.
Donde che i primi cittadini, capi delle fazioni, convennono in
Palazzo, alla presenza della Signoria, dove molte cose dello
stato della città, molte della reconciliazione di quella
ragionorono.
E perché Piero, per la debilità del corpo, non vi poteva
intervenire, tutti d'accordo deliberorono andare alle sue case a
trovarlo, eccetto che Niccolò Soderini, il quale, avendo prima
raccomandato i suoi figliuoli e le sue cose a messer Tommaso, se
ne andò nella sua villa, per aspettare quivi il fine della cosa,
il quale reputava a sé infelice e alla patria sua dannoso.
Arrivati per tanto gli altri cittadini da Piero, uno di quelli, a
chi era stato commesso il parlare, si dolfe de' tumulti nati
nella città, mostrando come di quelli aveva maggiore colpa chi
aveva prima prese l'arme; e non sapendo quello che Piero, che era
stato il primo a pigliarle, si volesse, erano venuti per
intendere la volontà sua, e quando la fusse al bene della città
conforme, erano per seguirla. Alle quali parole Piero rispose
come, non quello che prende prima le arme è cagione degli
scandoli, ma colui che è primo a dare cagione che le si prendino;
e se pensassero più quali erano stati i modi loro verso di lui,
si maraviglierebbono meno di quello che per salvare sé avesse
fatto: perché vedrebbono che le convenzioni notturne, le
soscrizioni, le pratiche di torgli la città e la vita lo avevono
fatto armare; le quali arme non avendo mosse dalle case sue,
facevano manifesto segno dello animo suo, come per difendere sé,
non per offendere altri, le aveva prese.
Né voleva altro, né altro desiderava che la securtà o la
quiete sua; né aveva mai dato segno di sé di desiderare altro;
perché, mancata l'autorità della balia, non pensò mai alcuno
estraordinario modo per renderliene, ed era molto contento che i
magistrati governassero la città, contentandosene quelli.
E che si dovevono ricordare come Cosimo e i figliuoli sapevono
vivere in Firenze, con la balia e sanza la balia, onorati; e nel
'58, non la casa sua, ma loro la avevano riassunta; e che, se ora
non la volevono, che non la voleva ancora egli; ma che questo non
bastava loro, perché aveva veduto che non credevono potere stare
in Firenze standovi egli.
Cosa veramente che non arebbe mai, non che creduta, pensata, che
gli amici suoi e del padre non credessero potere vivere in
Firenze con lui, non avendo mai dato altro segno di sé, che di
quieto e pacifico uomo.
Poi volse il suo parlare a messer Dietisalvi e ai fratelli, che
erano presenti, e rimproverò loro, con parole gravi e piene di
sdegno, i beneficii ricevuti da Cosimo, la fede avuta in quelli e
la grande ingratitudine loro.
E furono di tanta forza le sue parole, che alcuni de' presenti in
tanto si commossono, che, se Piero non li raffrenava, gli
arebbono con l'arme manomessi.
Concluse alla fine Piero, che era per approvare tutto quello che
loro e la Signoria deliberassero, e che da lui non si domandava
altro che vivere quieto e securo.
Fu sopra questo parlato di molte cose, né per allora
deliberatone alcuna, se non generalmente che gli era necessario
riformare la città e dare nuovo ordine allo stato.
17
Sedeva in
quelli tempi gonfaloniere di giustizia Bernardo Lotti, uomo non
confidente a Piero, in modo che non gli parve, mentre che quello
era in magistrato, da tentare cosa alcuna, il che non giudicò
importante molto, sendo propinquo al fine del magistrato suo.
Ma venuta la elezione de' Signori i quali di settembre e di
ottobre seggono, l'anno 1466, fu eletto al sommo magistrato
Ruberto Lioni; il quale, subito che ebbe preso il magistrato,
sendo tutte le altre cose preparate, chiamò il popolo in Piazza,
e fece nuova balia, tutta della parte di Piero; la quale poco di
poi creò i magistrati secondo la volontà del nuovo stato.
Le quali cose spaurirono i capi della fazione nimica; e messer
Agnolo Acciaiuoli si fuggì a Napoli, messer Dietisalvi Neroni e
Niccolò Soderini a Vinegia, messer Luca Pitti si restò in
Firenze, confidandosi nelle promesse fattegli da Piero e nel
nuovo parentado. Furono quelli che si erano fuggiti declarati
rebelli, e tutta la famiglia de' Neroni fu dispersa; e messer
Giovanni di Nerone, allora arcivescovo di Firenze, per fuggire
maggiore male, si elesse voluntario esilio a Roma.
Furono molti altri cittadini, che subito si partirono, in varii
luoghi confinati.
Né bastò questo, che si ordinò una processione per ringraziare
Iddio dello stato conservato e della città riunita; nella
solennità della quale furono alcuni cittadini presi e tormentati,
e di poi parte di loro morti e parte posti in esilio.
Né in questa variazione di cose fu esemplo tanto notabile quanto
quello di messer Luca Pitti; perché subito si cognobbe la
differenza quale è dalla vittoria alla perdita, da il disonore
all'onore.
Vedevasi nelle sue case una solitudine grandissima, dove prima
erano da moltissimi cittadini frequentate; per la strada gli
amici, i parenti, non che di accompagnarlo, ma di salutarlo
temevano, perché a parte di essi erano stati tolti gli onori e a
parte la roba, e tutti parimente minacciati; i superbi edifici
che gli aveva cominciati furono dagli edificatori abbandonati; i
beneficii che gli erano per lo adietro stati fatti si
convertirono in ingiurie, gli onori in vituperii; onde che molti
di quelli che gli avieno per grazia alcuna cosa donata di grande
prezzo, come cosa prestata ridomandavano; e quelli altri che
solevono insino al cielo lodarlo, come uomo ingrato e violento lo
biasimavano.
Tal che si pentì, tardi, non avere a Niccolò Soderini creduto e
cercò più tosto di morire onorato con le armi in mano, che
vivere intra i vittoriosi suoi nimici disonorato.
18
Quelli
che si trovavano cacciati cominciorono a pensare infra loro varii
modi di racquistare quella città che non si avevano saputo
conservare.
Messer Agnolo Acciaiuoli non di meno, trovandosi a Napoli, prima
che pensasse di innovare cosa alcuna, volle tentare l'animo di
Piero, per vedere se poteva sperare di riconciliarsi seco; e
scrissegli una lettera in questa sentenza: - Io mi rido de'
giuochi della fortuna, e come a sua posta ella fa gli amici
diventare nimici, e gli nimici amici.
Tu ti puoi ricordare come, nello esilio di tuo padre, stimando
più quella ingiuria che i pericoli miei, io ne perdei la patria,
e fui per perderne la vita; né ho mai, mentre sono vivuto con
Cosimo, mancato di onorare e favorire la casa vostra né dopo la
sua morte ho avuto animo di offenderti.
Vero è che la tua mala complessione, la tenera età de' tuoi
figliuoli in modo mi sbigottivono, che io giudicai che fusse da
dare tal forma allo stato, che dopo la tua morte la patria nostra
non rovinasse.
Da questo sono nate le cose fatte, non contro a te, ma in
benifizio della patria mia; il che, se pure è stato errore,
merita e dalla mia buona mente e dalle opere mie passate essere
cancellato.
Né posso credere, avendo la casa tua trovato in me, tanto tempo,
tanta fede, non trovare ora in te misericordia, e che tanti miei
meriti da un solo fallo debbino essere destrutti.
- Piero, ricevuta questa lettera, così gli rispose: - Il ridere
tuo costì è cagione che io non pianga; perché, se tu ridessi a
Firenze, io piangerei a Napoli.
Io confesso che tu hai voluto bene a mio padre; e tu confesserai
di averne da quello ricevuto; in modo che tanto più era l'obligo
tuo che il nostro, quanto si debbono stimare più i fatti che le
parole. Sendo tu stato adunque del tuo bene ricompensato, non ti
debbi ora maravigliare se del male ne riporti giusti premii.
Né ti scusa lo amore della patria; perché non sarà mai alcuno
che creda questa città essere stata meno amata e accresciuta dai
Medici che dagli Acciaiuoli.
Vivi per tanto disonorato costì, poi che qui onorato vivere non
hai saputo.
19
Disperato
per tanto messer Agnolo di potere impetrare perdono, se ne venne
a Roma, e accozzossi con lo Arcivescovo e altri fuori usciti, e
con quelli termini potette più vivi si sforzorono di torre il
credito alla ragione de' Medici che in Roma si travagliava; a che
Piero con difficultà provide; pure, aiutato dagli amici, fallì
il disegno loro.
Messer Dietisalvi dall'altra parte e Niccolò Soderini con ogni
diligenza cercorono di muovere il Senato viniziano contra alla
patria loro, giudicando che, se i Fiorentini fussero da nuova
guerra assaliti per essere lo stato loro nuovo e odiato, che non
potrieno sostenerla.
Trovavasi in quel tempo a Ferrara Giovan Francesco, figliuolo di
messer Palla Strozzi, il quale era, nella mutazione del '34,
stato cacciato con il padre da Firenze.
Aveva costui credito grande ed era, secondo gli altri mercatanti,
estimato ricchissimo.
Mostrorono questi nuovi ribelli a Giovan Francesco la facilità
del ripatriarsi, quando e Viniziani ne facessero impresa; e
facilmente credevono la farieno, quando si potesse in qualche
parte contribuire alla spesa; dove altrimenti ne dubitavano.
Giovan Francesco, il quale desiderava vendicarsi delle ingiurie
ricevute, credette facilmente a' consigli di costoro, e promesse
essere contento concorrere a questa impresa con tutte le sue
facultà. Donde che quelli se ne andorono al Doge, e con quello
si dolfono dello esilio, il quale non per altro errore dicevano
sopportare, che per avere voluto che la patria loro con le leggi
sue vivesse e che i magistrati, e non i pochi cittadini, si
onorassero: perché Piero de' Medici con altri, suoi seguaci, i
quali erano a vivere tirannicamente consueti, avevono con inganno
prese le armi, con inganno fattole posare a loro, e con inganno
cacciatigli poi della loro patria; né furono contenti a questo,
che eglino usorono mezzano Iddio ad opprimere molti altri che
sotto la fede data erano rimasi nella città; e come nelle
publiche e sacre cerimonie e solenni supplicazioni, acciò che
Iddio de' loro tradimenti fusse partecipe, furono molti cittadini
incarcerati e morti: cosa d'uno impio e nefando esemplo.
Il che per vendicare non sapevono dove con più speranza si
potere ricorrere che a quel Senato; il quale, per essere sempre
stato libero, doverrebbe di coloro avere compassione che avessero
la sua libertà perduta.
Concitavano adunque contro a' tiranni gli uomini liberi, contro
agli impii i pietosi; e che si ricordassero come la famiglia de'
Medici aveva tolto loro lo imperio di Lombardia, quando Cosimo,
fuora della volontà degli altri cittadini, contro a quel Senato
favorì e suvvenne Francesco; tanto che, se la giusta causa loro
non li moveva, il giusto odio e giusto desiderio di vendicarsi
muovere gli doverrebbe.
20
Queste
ultime parole tutto quel Senato commossono; e deliberorono che
Bartolomeo Colione, loro capitano, assalisse il dominio
fiorentino.
E quanto si potette prima fu insieme lo esercito; con il quale si
accostò Ercule da Esti, mandato da Borso marchese di Ferrara.
Costoro, nel primo assalto, non sendo ancora i Fiorentini ad
ordine, arsono il borgo di Dovadola e feciono alcuni danni nel
paese allo intorno.
Ma i Fiorentini, cacciata che fu la parte nimica a Piero, avieno
con Galeazzo duca di Milano e con il re Ferrando fatta nuova lega,
e per loro capitano condotto Federigo conte di Urbino, in modo
che trovandosi ad ordine con gli amici, stimorono meno i nimici;
perché Ferrando mandò Alfonso suo primogenito, e Galeazzo venne
in persona, e ciascheduno con conveniente forze; e feciono tutti
testa a Castracaro, castello de' Fiorentini posto nelle radici
delle alpi che scendono dalla Toscana in Romagna.
I nimici, in quel mezzo, si erano ritirati verso Imola; e così
fra l'uno e l'altro esercito seguivano, secondo i costumi di que'
tempi, alcune leggieri zuffe; né per l'uno né per l'altro si
assalì o campeggiò terre, né si dette copia al nimico di
venire a giornata; ma standosi ciascuno nelle sue tende, ciascuno
con maravigliosa viltà si governava.
Questa cosa dispiaceva a Firenze; perché si vedeva essere
oppressa da una guerra nella quale si spendeva assai e si poteva
sperare poco; e i magistrati se ne dolfono con quelli cittadini
ch'eglino avieno a quella impresa deputati commissari.
I quali risposono essere di tutto il duca Galeazzo cagione, il
quale, per avere assai autorità e poca esperienza, non sapeva
prendere partiti utili, né prestava fede a quelli che sapevono;
e come gli era impossibile, mentre quello nello esercito dimorava,
che si potesse alcuna cosa virtuosa o utile operare.
Feciono i Fiorentini per tanto intendere a quel Duca come gli era
loro commodo e utile assai che personalmente e' fussi venuto agli
aiuti loro, perché sola tale reputazione era atta a potere
sbigottire i nimici, non di meno stimavano molto più la salute
sua e del suo stato che i commodi propri, perché, salvo quello,
ogni altra cosa speravano prospera, ma patendo quello, temevono
ogni avversità.
Non giudicavano per tanto cosa molto secura che egli molto tempo
dimorasse assente da Milano, sendo nuovo nello stato, e avendo i
vicini potenti e sospetti, talmente che chi volesse macchinare
cosa alcuna controgli, potrebbe facilmente.
Donde che lo confortavano a tornarsene nel suo stato e lasciare
parte delle genti per la difesa loro.
Piacque a Galeazzo questo consiglio e sanza altro pensare se ne
tornò a Milano.
Rimasi adunque i capitani de' Fiorentini sanza questo impedimento,
per dimostrare che fusse vera la cagione che del lento loro
procedere avevano accusata, si strinsono più al nimico, in modo
che vennono ad una ordinata zuffa, la quale durò mezzo un giorno,
sanza che niuna delle parti inclinasse.
Nondimeno non vi morì alcuno: solo vi furno alcuni cavagli
feriti, e certi prigioni da ogni parte presi.
Era già venuto il verno e il tempo che gli eserciti erano
consueti ridursi alle stanze, per tanto messer Bartolomeo si
ritirò verso Ravenna, le genti fiorentine in Toscana; quelle del
Re e del Duca ciascuna negli stati de' loro signori si ridussono.
Ma da poi che per questo assalto non si era sentito alcuno moto
in Firenze, secondo che i rebelli fiorentini avieno promesso, e
mancando il soldo alle genti condotte, si trattò l'accordo, e
dopo non molte pratiche fu concluso.
Per tanto i rebelli fiorentini, privi d'ogni speranza, in varii
luoghi si partirono: messer Dietisalvi si ridusse a Ferrara, dove
fu dal marchese Borso ricevuto e nutrito; Niccolò Soderini se ne
andò a Ravenna, dove con una piccola provisione avuta da'
Viniziani invecchiò e morì.
Fu costui tenuto uomo giusto e animoso, ma nel risolversi dubio e
lento, il che fece che, gonfaloniere di giustizia, ei perdé
quella occasione del vincere che di poi, privato, volle
racquistare e non potette.
21
Seguita
la pace, quelli cittadini che erano rimasi in Firenze superiori
non parendo loro avere vinto, se con ogni ingiuria, non solamente
i nimici, ma i sospetti alla parte loro non affliggevano,
operorono con Bardo Altoviti, che sedeva gonfaloniere di
giustizia, che di nuovo a molti cittadini togliessi gli onori, a
molti altri la città. La qual cosa crebbe a loro potenza, e agli
altri spavento; la qual potenza sanza alcuno rispetto
esercitavano, e in modo si governavano, che pareva che Iddio e la
fortuna avesse dato loro quella città in preda.
Delle quali cose Piero poche ne intendeva, e a quelle poche non
poteva, per essere dalla infirmità oppresso, rimediare; perché
era in modo contratto, che d'altro che della lingua non si poteva
valere.
Né ci poteva fare altri rimedi che ammunirli e pregarli
dovessero civilmente vivere e godersi la loro patria salva più
tosto che destrutta.
E per rallegrare la città, deliberò di celebrare magnificamente
le nozze di Lorenzo suo figliuolo, con il quale la Clarice nata
di casa Orsina aveva congiunta; le quali nozze furono fatte con
quella pompa di apparati e di ogni altra magnificenza che a tanto
uomo si richiedeva; dove più giorni in nuovi ordini di balli, di
conviti e di antiche rapresentazioni si consumorono.
Alle quali cose si aggiunse, per mostrare più la grandezza della
casa de' Medici e dello stato, duoi spettaculi militari: l'uno
fatto dagli uomini a cavallo, dove una campale zuffa si
rapresentò; l'altro una espugnazione di una terra dimostrò; le
quali cose con quello ordine furono fatte e con quella virtù
esequite, che si potette maggiore.
22
Mentre
che queste cose in questa maniera in Firenze procedevano, il
resto della Italia viveva quietamente, ma con sospetto grande
della potenza del Turco, il quale con le sue imprese seguiva di
combattere i Cristiani e aveva espugnato Negroponte, con grande
infamia e danno del nome cristiano.
Morì, in questi tempi, Borso marchese di Ferrara, e a quello
successe Ercule suo fratello.
Morì Gismondo da Rimino, perpetuo nimico alla Chiesa, ed erede
del suo stato rimase Ruberto, suo naturale figliuolo, il quale fu
poi intra i capitani di Italia nella guerra eccellentissimo.
Morì papa Paulo, e fu a lui creato successore Sisto IV, detto
prima Francesco da Savona, uomo di bassissima e vile condizione;
ma per le sue virtù era divenuto generale dell'ordine di San
Francesco, e di poi cardinale.
Fu questo pontefice il primo che cominciasse a mostrare quanto
uno pontefice poteva, e come molte cose, chiamate per lo adietro
errori, si potevono sotto la pontificale autorità nascondere.
Aveva intra la sua famiglia Pietro e Girolamo, i quali, secondo
che ciascuno credeva, erano suoi figliuoli; non di manco sotto
altri più onesti nomi gli palliava.
Piero, perché era frate, condusse alla dignità del cardinalato,
del titolo di San Sisto; a Girolamo dette la città di Furlì, e
tolsela ad Antonio Ordelaffi, i maggiori del quale erano di
quella città stati lungo tempo principi.
Questo modo di procedere ambizioso lo fece più dai principi di
Italia stimare, e ciascuno cercò di farselo amico; e perciò il
duca di Milano dette per moglie a Girolamo la Caterina, sua
figliuola naturale, e per dote di quella la città di Imola,
della quale aveva spogliato Taddeo degli Alidosi.
Intra questo duca ancora e il re Ferrando si contrasse nuovo
parentado, perché Elisabella, nata d'Alfonso primogenito del Re,
con Giovan Galeazzo, primo figliuolo del Duca, si congiunse.
23
Vivevasi
per tanto in Italia assai quietamente, e la maggior cura di
quelli principi era di osservare l'uno l'altro, e con parentadi,
nuove amicizie e leghe, l'uno dell'altro assicurarsi.
Non di meno, in tanta pace, Firenze era da' suoi cittadini
grandemente afflitta, e Piero alla ambizione loro, dalla malattia
impedito, non poteva opporsi.
Non di meno, per sgravare la sua conscienza, e per vedere se
poteva farli vergognare, gli chiamò tutti in casa, e parlò loro
in questa sentenza: - Io non arei mai creduto che potesse venire
tempo che i modi e costumi degli amici mi avessero a fare amare e
desiderare i nimici, e la vittoria la perdita; perché io mi
pensava avere in compagnia uomini che nelle cupidità loro
avessero qualche termine o misura, e che bastasse loro vivere
nella loro patria securi e onorati, e di più, de' loro nimici
vendicati.
Ma io cognosco ora come io mi sono di gran lunga ingannato, come
quello che cognosceva poco la naturale ambizione di tutti gli
uomini, e meno la vostra: perché non vi basta essere in tanta
città principi e avere voi pochi quegli onori, dignità e utili
de' quali già molti cittadini si solevono onorare; non vi basta
avere intra voi divisi i beni de' nimici vostri; non vi basta
potere tutti gli altri affliggere con i publici carichi, e voi,
liberi da quelli, avere tutte le publiche utilità; che voi con
ogni qualità di ingiuria ciascheduno affliggete.
Voi spogliate de' suoi beni il vicino, voi vendete la giustizia,
voi fuggite i giudicii civili, voi oppressate gli uomini pacifici,
e gli insolenti esaltate.
Né credo che sia in tutta Italia tanti esempli di violenza e di
avarizia, quanti sono in questa città.
Dunque questa nostra patria ci ha dato la vita perché noi la
togliamo a lei? ci ha fatti vittoriosi perché noi la
distruggiamo? ci onora perché noi la vituperiamo? Io vi prometto
per quella fede che si debbe dare e ricevere dagli uomini buoni,
che, se voi seguiterete di portarvi in modo che io mi abbi a
pentire di avere vinto, io ancora mi porterò in maniera che voi
vi pentirete di avere male usata la vittoria.
- Risposono quelli cittadini secondo il tempo e il luogo
accomodatamente; non di meno dalle loro sinistre operazioni non
si ritrassono.
Tanto che Piero fece venire celatamente messer Agnolo Acciaiuoli
in Cafaggiuolo, e con quello parlò a lungo delle condizioni
della città: né si dubita punto che, se non era dalla morte
interrotto, che gli avesse tutti i fuorusciti per frenare le
rapine di quegli di dentro alla patria restituiti.
Ma a questi suoi onestissimi pensieri si oppose la morte; perché,
aggravato dal male del corpo e dalle angustie dello animo, si
morì l'anno della età sua cinquantatreesimo.
La virtù e bontà del quale la patria sua non potette
interamente cognoscere, per essere stato da Cosimo suo padre
infino quasi che allo estremo della sua vita accompagnato, e per
avere quelli pochi anni che sopravisse nelle contenzioni civili e
nella infirmità consumati.
Fu sotterrato Piero nel tempio di San Lorenzo, propinquo al padre;
e furno le sue esequie fatte con quella pompa che tanto cittadino
meritava.
Rimasono di lui duoi figliuoli, Lorenzo e Giuliano, i quali
benché dessero a ciascheduno speranza di dovere essere uomini
alla repubblica utilissimi, non di meno la loro gioventù
sbigottiva ciascuno.
24
Era in
Firenze intra i primi cittadini del governo, e molto di lunga
agli altri superiore, messer Tommaso Soderini, la cui prudenza e
autorità, non solo in Firenze, ma appresso a tutti i principi di
Italia era nota.
Questi, dopo la morte di Piero, da tutta la città era osservato;
e molti cittadini alle sue case, come capo della città, lo
vicitorono, molti principi gli scrissono.
Ma egli, che era prudente e che ottimamente la fortuna sua e di
quella casa cognosceva, alle lettere de' principi non rispose, e
a' cittadini fece intendere come, non le sue case, ma quelle de'
Medici si avevano a vicitare.
E per mostrare con l'effetto quello che con i conforti aveva
dimostro, ragunò tutti i primi delle famiglie nobili nel
convento di Santo Antonio, dove fece ancora Lorenzo e Giuliano de'
Medici venire; e quivi disputò, con una lunga e grave orazione,
delle condizioni della città, di quelle di Italia e degli umori
de' principi d'essa, e concluse che, se volevano che in Firenze
si vivesse unito e in pace, e dalle divisioni di dentro e dalle
guerre di fuora securo, era necessario osservare quegli giovani e
a quella casa la reputazione mantenere: perché gli uomini di
fare le cose che sono fare consueti mai non si dolgono, le nuove,
come presto si pigliano, così ancora presto si lasciano, e
sempre fu più facile mantenere una potenza la quale con la
lunghezza del tempo abbia spenta la invidia, che suscitarne una
nuova la quale per moltissime cagioni si possa facilmente
spegnere.
Parlò, apresso a messer Tommaso, Lorenzo, e benché fusse
giovane, con tanta gravità e modestia, che dette a ciascheduno
speranza di essere quello che di poi divenne.
E prima partissero di quel luogo, quegli cittadini giurorono di
prendergli in figliuoli, e loro in padri.
Restati adunque in questa conclusione, erano Lorenzo e Giuliano
come principi dello stato onorati; e quelli dal consiglio di
messer Tommaso non si partivano.
25
E
vivendosi assai quietamente dentro e fuora, non sendo guerra che
la comune quiete perturbasse, nacque uno inopinato tumulto, il
quale fu come un presagio de' futuri danni.
Intra le famiglie le quali con la parte di messer Luca Pitti
rovinorono fu quella de' Nardi; perché Salvestro e i frategli,
capi di quella famiglia, furono prima mandati in esilio, e di poi,
per la guerra che mosse Bartolommeo Colioni, fatti rebelli.
Intra questi era Bernardo, fratello di Salvestro, giovane pronto
e animoso.
Costui, non potendo, per la povertà, sopportare lo esilio, né
veggendo, per la pace fatta, modo alcuno al ritorno suo,
deliberò di tentare qualche cosa da potere, mediante quella,
dare cagione ad una nuova guerra: perché molte volte un debile
principio partorisce gagliardi effetti, con ciò sia che gli
uomini sieno più pronti a seguire una cosa mossa che a muoverla.
Aveva Bernardo conoscenza grande in Prato, e nel contado di
Pistoia grandissima, e massimamente con quelli del Palandra,
famiglia, ancora che contadina, piena di uomini, e secondo gli
altri Pistolesi, nelle armi e nel sangue nutriti.
Sapeva come costoro erano mal contenti, per essere stati in
quelle loro nimicizie da' magistrati fiorentini male trattati.
Conosceva oltre a di questo gli umori de' Pratesi, e come e'
pareva loro essere superbamente e avaramente governati; e di
alcuno sapeva il male animo contro allo stato.
In modo che tutte queste cose gli davano speranza di potere
accendere un fuoco in Toscana, faccendo ribellare Prato, dove poi
concorressero tanti a nutrirlo, che quelli che lo volessero
spegnere non bastassero.
Comunicò questo suo pensiero con messer Dietisalvi; e lo
domandò, quando lo occupare Prato gli riuscisse, quali aiuti
potesse, mediante lui, dai principi sperare. Parve a messer
Dietisalvi la impresa pericolosissima e quasi impossibile a
riuscire: non di meno, veggendo di potere, con il pericolo d'altri,
di nuovo tentare la fortuna, lo confortò al fatto,
promettendogli da Bologna e da Ferrara aiuti certissimi, quando
gli operasse in modo che tenesse e difendesse Prato almeno
quindici giorni.
Ripieno adunque Bernardo, per questa promessa, d'una felice
speranza, si condusse celatamente a Prato, e comunicata la cosa
con alcuni, li trovò dispostissimi.
Il quale animo e volontà trovò ancora in quelli del Palandra, e
convenuti insieme del tempo e del modo, fece Bernardo il tutto a
messer Dietisalvi intendere.
26
Era
podestà di Prato per il popolo di Firenze Cesare Petrucci. Hanno
questi simili governatori di terre consuetudine di tenere le
chiavi delle porti appresso di loro; e qualunque volta, ne' tempi
massime non sospetti, alcuno della terra le domanda, per uscire o
entrare di notte in quella, gliene concedono.
Bernardo, che sapeva questo costume, propinquo al giorno, insieme
con quelli del Palandra e circa cento armati, alla porta che
guarda verso Pistoia si presentò; e quelli che, dentro, sapevano
il fatto ancora s'armorono; uno de' quali domandò al Podestà le
chiavi, fingendo che uno della terra per entrare le domandasse.
Il Podestà, che niente d'uno simile accidente poteva dubitare,
mandò uno suo servidore con quelle: al quale, come fu alquanto
dilungatosi dal Palagio, furono tolte da' congiurati; e aperta la
porta, fu Bernardo con i suoi armati intromesso, e convenuti
insieme, in due parti si divisono, una delle quali, guidata da
Salvestro Pratese, occupò la cittadella, l'altra, insieme con
Bernardo, prese il Palagio, e Cesare con tutta la sua famiglia
dierono in guardia ad alcuni di loro.
Di poi levorono il romore, e per la terra andavano il nome della
libertà gridando.
Era già apparito il giorno, e a quel romore molti popolani
corsono in Piazza, e intendendo come la rocca e il Palagio erano
stati occupati e il Podestà con i suoi preso, stavano ammirati
donde potesse questo accidente nascere. Gli Otto cittadini che
tengono in quella terra il supremo grado nel palagio loro
convennono, per consigliarsi di quello fussi da fare.
Ma Bernardo e i suoi, corso che gli ebbe un tempo per la terra, e
veggendo di non essere seguito da alcuno, poi che gli intese gli
Otto essere insieme, se n'andò da quelli; e narrò la cagione
della impresa sua essere volere liberare loro e la patria sua
dalla servitù; e quanta gloria sarebbe a quelli, se prendevono l'arme
e in questa gloriosa impresa lo accompagnavano, dove
acquisterieno quiete perpetua ed eterna fama.
Ricordò loro l'antica loro libertà e le presenti condizioni;
mostrò gli aiuti certi, quando e' volessero, pochissimi giorni,
a quelle tante forze che i Fiorentini potessero mettere insieme
opporsi; affermò di avere intelligenza in Firenze, la quale si
dimosterrebbe subito che si intendesse quella terra essere unita
a seguirlo.
Non si mossono gli Otto per quelle parole; e gli risposono non
sapere se Firenze si viveva libera o serva, come cosa che a loro
non si aspettava intenderla; ma che sapevano bene che per loro
non si desiderò mai altra libertà che servire a quegli
magistrati che Firenze governavano, da' quali mai non avevono
ricevuta tale ingiuria che gli avessero a prendere l'armi contro
a quelli.
Per tanto lo confortavano a lasciare il Podestà nella sua
libertà, e la terra libera dalle sue genti; e sé da quel
pericolo con prestezza traessi nel quale con poca prudenza era
entrato.
Non si sbigottì Bernardo per queste parole, ma deliberò di
vedere se la paura moveva i Pratesi, poi che i prieghi non li
movevono: e per spaventargli pensò di fare morire Cesare, e
tratto quello di prigione, comandò che fusse alle finestre del
Palagio appiccato.
Era già Cesare propinquo alle finestre, con il capestro al collo,
quando ei vide Bernardo che sollecitava la sua morte.
Al quale voltosi disse: - Bernardo, tu mi fai morire, credendo
essere di poi dai Pratesi seguitato: ed egli ti riuscirà il
contrario; perché la reverenzia che questo popolo ha agli
rettori che ci manda il popolo di Firenze è tanta che, come ei
si vedrà questa ingiuria fattami, ti conciterà tanto odio
contro, che ti partorirà la tua rovina.
Per tanto non la morte, ma la vita mia puote essere cagione della
vittoria tua: perché, se io comanderò loro quello che ti parrà,
più facilmente a me che a te ubbidiranno; e seguendo io gli
ordini tuoi, ci verrai ad avere la intenzione tua. - Parve a
Bernardo, come quello che era scarso di partiti, questo consiglio
buono; e gli comandò che, venuto sopra uno verone che risponde
in Piazza, comandasse al popolo che lo ubbidisse.
La quale cosa fatta che Cesare ebbe, fu riposto in prigione.
27
Era già
la debolezza de' congiurati scoperta; e molti Fiorentini che
abitavano la terra erano convenuti insieme, intra i quali era
messer Giorgio Ginori, cavaliere di Rodi.
Costui fu il primo che mosse le armi contro di loro; e assalì
Bernardo, il quale andava discorrendo per la Piazza, ora pregando,
ora minacciando se non era seguitato e ubbidito; e fatto impeto
contra di lui con molti che messer Giorgio seguirono, fu ferito e
preso.
Fatto questo, fu facil cosa liberare il Podestà e superare gli
altri, perché, sendo pochi e in più parti divisi, furono quasi
che tutti presi o morti.
A Firenze era venuto, in quel mezzo, la fama di questo accidente,
e di molto maggiore che non era seguito, intendendosi essere
preso Prato, il Podestà con la famiglia morto, piena di nimici
la terra; Pistoia essere in arme, e molti di quelli cittadini
essere in questa congiura: tanto che subito fu pieno il Palagio
di cittadini, e con la Signoria a consigliarsi convennono.
Era allora in Firenze Ruberto da San Severino, capitano nella
guerra reputatissimo: per tanto si deliberò di mandarlo, con
quelle genti che potette più adunare insieme, a Prato; e gli
commissono si appropinquasse alla terra, e dessi particulare
notizia della cosa, faccendovi quelli rimedi che alla prudenza
sua occorressero.
Era passato Ruberto di poco il castello di Campi quando fu da uno
mandato di Cesare incontrato, che significava Bernardo essere
preso, e i suoi compagni fugati e morti, e ogni tumulto posato.
Onde che si ritornò a Firenze: e poco di poi vi fu condotto
Bernardo, e ricerco dal magistrato del vero della impresa, e
trovatala debile, disse averla fatta perché, avendo deliberato
più tosto di morire in Firenze che vivere in esilio, volle che
la sua morte almeno fusse da qualche ricordevole fatto
accompagnata.
28
Nato
quasi che in un tratto e oppresso questo tumulto, ritornorono i
cittadini al loro consueto modo di vivere, pensando di godersi
sanza alcuno rispetto quello stato che si avevano stabilito e
fermo.
Di che ne nacquono alla città quelli mali che sogliono nella
pace il più delle volte generarsi; perché i giovani, più
sciolti che l'usitato, in vestire, in conviti, in altre simili
lascivie sopra modo spendevano, ed essendo oziosi, in giuochi e
in femmine il tempo e le sustanze consumavano e gli studi loro
erano apparire con il vestire splendidi e con il parlare sagaci e
astuti; e quello che più destramente mordeva gli altri era più
savio e da più stimato.
Questi così fatti costumi furono da' cortigiani del duca di
Milano accresciuti, il quale insieme con la sua donna e con tutta
la sua ducale corte, per sodisfare, secondo che disse, ad uno
boto, venne in Firenze; dove fu ricevuto con quella pompa che
conveniva un tanto principe e tanto amico alla città ricevere.
Dove si vide, cosa in quel tempo nella nostra città ancora non
veduta, che, sendo il tempo quadragesimale, nel quale la Chiesa
comanda che sanza mangiar carne si digiuni, quella sua corte,
sanza rispetto della Chiesa o di Dio, tutta di carne si cibava.
E perché si feciono molti spettaculi per onorarlo, intra i quali,
nel tempio di Santo Spirito, si rapresentò la concessione dello
Spirito Santo agli Apostoli, e perché, per i molti fuochi che in
simile solennità si fanno, quel tempio tutto arse, fu creduto da
molti Dio, indegnato contro di noi, avere voluto della sua ira
dimostrare quel segno.
Se adunque quel duca trovò la città di Firenze piena di
cortigiane delicatezze e costumi ad ogni bene ordinata civilità
contrari, la lasciò molto più; onde che i buoni cittadini
pensorono che fusse necessario porvi freno, e con nuova legge a'
vestiri, a' mortorii, ai conviti termine posero.
29
Nel mezzo
di tanta pace nacque uno nuovo e insperato tumulto in Toscana. Fu
trovata nel contado di Volterra da alcuni di quelli cittadini una
cava d'allumi, della quale cognoscendo quelli la utilità, per
avere chi con i danari li aiutasse e con la autorità gli
difendesse, ad alcuni cittadini fiorentini si accostorono, e
degli utili che di quella si traevano li ferono partecipi.
Fu questa cosa nel principio, come il più delle volte delle
imprese nuove interviene, dal popolo di Volterra stimata poco; ma
con il tempo, cognosciuto l'utile, volle rimediare a quello,
tardi e sanza frutto, che a buona ora facilmente arebbe rimediato.
Cominciossi ne' Consigli loro ad agitare la cosa, affermando non
essere conveniente che una industria trovata ne' terreni publici
in privata utilità si converta.
Mandorono sopra questo oratori a Firenze: fu la causa in alcuni
cittadini rimessa, i quali, o per essere corrotti dalla parte, o
perché giudicassero cosa essere bene, riferirono il popolo
volterrano non volere le cose giuste desiderando privare i suoi
cittadini delle fatiche e industrie loro, e per ciò ai privati,
non a lui, quelle lumiere appartenevano; ma essere bene
conveniente che ciascuno anno certa quantità di danari pagassero,
in segno di ricognoscerlo per superiore.
Questa risposta fece non diminuire, ma crescere i tumulti e gli
odii in Volterra; e niuna altra cosa, non solamente ne' loro
Consigli, ma fuora, per tutta la città, s'agitava; richiedendo l'universale
quello che pareva gli fusse stato tolto, e volendo i particulari
conservare quello che si avevano prima acquistato e di poi era
stato loro dalla sentenzia de' Fiorentini confermato.
Tanto che, in queste dispute, fu morto uno cittadino in quella
città reputato, chiamato il Pecorino, e dopo lui molti altri che
con quello si accostavano, e le loro case saccheggiate e arse; e
da quello impeto medesimo mossi, con fatica dalla morte de'
rettori che quivi erano per il popolo fiorentino si astennono.
30
Seguito
questo primo insulto, deliberorono, prima che ogni cosa, mandare
oratori a Firenze; i quali feciono intendere a quelli Signori che,
se volevono conservare loro i capituli antichi, che ancora eglino
la città nella antica sua servitù conserverebbono.
Fu assai disputata la risposta.
Messer Tommaso Soderini consigliava che fusse da ricevere i
Volterrani in qualunque modo e' volessero ritornare, non gli
parendo tempi da suscitare una fiamma sì propinqua, che potesse
ardere la casa nostra, perché temeva la natura del Papa, la
potenza del Re, né confidava nella amicizia de' Viniziani, né
in quella del Duca, per non sapere quanta fede si fusse nell'una
e quanta virtù nell'altra, ricordando quella trita sentenza:
essere meglio uno magro accordo che una grassa vittoria.
Dall'altra parte Lorenzo de' Medici, parendogli avere occasione
di dimostrare quanto con il consiglio e con la prudenza valesse,
sendo massime di così fare confortato da quegli che alla
autorità di messer Tommaso avevono invidia, deliberò fare la
impresa, e con l'armi punire l'arroganza de' Volterrani;
affermando che, se quelli non fussero con esemplo memorabile
corretti, gli altri sanza reverenzia o timore alcuno, di fare il
medesimo per ogni leggera cagione non dubiterebbono. Deliberata
adunque la impresa, fu risposto a' Volterrani come eglino non
potevano domandare la osservanza di quegli capitoli che loro
medesimi avevano guasti, e per ciò, o e' si rimettessero nell'arbitrio
di quella Signoria, o eglino aspettassero la guerra. Ritornati
adunque i Volterrani con questa risposta, si preparavano alle
difese, affortificando la terra e mandando a tutti i principi
italiani per convocare aiuti, e furono da pochi uditi, perché
solamente i Sanesi e il signore di Piombino dettono loro alcuna
speranza di soccorso.
I Fiorentini dall'altra parte pensando che la importanza della
vittoria loro fusse nello accelerare, messono insieme dieci mila
fanti e due mila cavagli, i quali, sotto lo imperio di Federigo
signore d'Urbino, si presentorono nel contado di Volterra, e
facilmente quello tutto occuporono.
Messono di poi il campo alla città, la quale, sendo posta in
luogo alto e quasi da ogni parte tagliato, non si poteva, se non
da quella banda dove è il tempio di Santo Alessandro, combattere.
Avevano i Volterrani per loro difesa condotti circa mille soldati;
i quali, veggendo la gagliarda espugnazione che i Fiorentini
facevono, diffidandosi di poterla difendere, erano nelle difese
lenti e nelle ingiurie che ogni dì facevono a' Volterrani
prontissimi.
Dunque quegli poveri cittadini, e fuori dai nimici erano
combattuti, e dentro dagli amici oppressi; tanto che, desperati
della salute loro, cominciorono a pensare all'accordo, e non lo
trovando migliore, nelle braccia de' commissari si rimissono.
I quali si feciono aprire le porti, e intromesso la maggior parte
dello esercito, se ne andorono al Palagio dove i Priori loro
erano; a' quali comandorono se ne tornassero alle loro case; e
nel cammino fu uno di quegli, da uno de' soldati, per dispregio,
spogliato.
Da questo principio, come gli uomini sono più pronti al male che
al bene, nacque la destruzione e il sacco di quella città; la
quale per tutto un giorno fu rubata e scorsa; né a donne né a
luoghi pii si perdonò; e i soldati, così quegli che l'avevano
male difesa, come quegli che l'avevano combattuta, delle sue
sustanze la spogliarono.
Fu la novella di questa vittoria con grandissima allegrezza da'
Fiorentini ricevuta; e perché la era stata tutta impresa di
Lorenzo, ne salì quello in reputazione grandissima.
Onde che uno dei suoi più intimi amici rimproverò a messer
Tommaso Soderini il consiglio suo, dicendogli: - Che dite voi,
ora che Volterra si è acquistata? - a cui messer Tommaso rispose:
- A me pare ella perduta: perché, se voi la ricevevi d'accordo,
voi ne traevi utile e securtà, ma avendola a tenere per forza,
ne' tempi avversi vi porterà debolezza e noia, e ne' pacifici
danno e spesa.
31
In questi
tempi il Papa, cupido di tenere le terre della Chiesa nella
obbedienza loro, aveva fatto saccheggiare Spuleto, che si era,
mediante le intrinseche fazioni, ribellato; di poi, perché
Città di Castello era nella medesima contumacia, l'aveva
obsediata.
Era in quella terra principe Niccolò Vitelli: teneva costui
grande amicizia con Lorenzo de' Medici; donde che da quello non
gli fu mancato di aiuti, i quali non furono tanti che
defendessero Niccolò, ma furono ben suffizienti a gittare i
primi semi della nimicizia intra Sisto e i Medici; i quali poco
di poi produssono malissimi frutti.
Né arebbono differito molto a dimostrarsi, se la morte di frate
Piero, cardinale di Santo Sisto, non fusse seguita; perché,
avendo questo cardinale circuito Italia, e ito a Vinegia e Milano,
sotto colore di onorare le nozze di Ercule marchese di Ferrara,
andava tentando gli animi di quelli principi, per vedere come
inverso i Fiorentini gli trovava disposti. Ma ritornato a Roma si
morì, non sanza suspizione di essere stato da' Viniziani
avvelenato, come quelli che temevano della potenza di Sisto,
quando si fusse potuto dell'animo e dell'opera di frate Piero
valere: perché, non ostante che fusse dalla natura di vile
sangue creato, e di poi intra i termini d'uno convento vilmente
nutrito, come prima al cardinalato pervenne, apparse in lui tanta
superbia e tanta ambizione che, non che il cardinalato, ma il
pontificato non lo capeva; perché non dubitò di celebrare uno
convito in Roma, che a qualunque re sarebbe stato giudicato
estraordinario; dove meglio che ventimila fiorini consumò.
Privato adunque Sisto di questo ministro, seguitò i disegni suoi
con più lentezza.
Non di meno, avendo i Fiorentini, Duca e Viniziani rinnovato la
lega, e lasciato il luogo al Papa e al Re per entrare in quella,
Sisto ancora e il Re si collegorono, lasciando luogo agli altri
principi di potervi entrare.
E già si vedeva l'Italia divisa in due fazioni, perché ciascuno
dì nascevano cose che infra queste due leghe generavono odio;
come avvenne dell'isola di Cipri, alla quale il re Ferrando
aspirava, e i Viniziani la occuporono; onde che il Papa e il Re
si venivano a ristringere più insieme.
Era in Italia allora tenuto nelle arme eccellentissimo Federigo
principe di Urbino, il quale molto tempo aveva per il popolo
fiorentino militato.
Deliberorono per tanto il Re e il Papa, acciò che la lega nimica
mancasse di questo capo, guadagnarsi Federigo; e il Papa lo
consigliò, e il Re lo pregò andasse a trovarlo a Napoli.
Ubbidì Federigo, con ammirazione e dispiacere de' Fiorentini, i
quali credevano che a lui come a Iacopo Piccinino intervenisse.
Non di meno ne avvenne il contrario: perché Federigo tornò da
Napoli e da Roma onoratissimo, e di quella loro lega capitano.
Non mancavano ancora il Re e il Papa di tentare gli animi de'
signori di Romagna e de' Sanesi per farsegli amici e per potere,
mediante quegli, più offendere i Fiorentini.
Della qual cosa accorgendosi quegli, con ogni rimedio opportuno
contro alla ambizione loro si armavano; e avendo perduto Federigo
da Urbino, soldorono Ruberto da Rimino; rinnovorono la lega con i
Perugini, e con il signore di Faenza si collegorono. Allegavano
il Papa e il Re la cagione dello odio contro a' Fiorentini essere
che desideravano da' Viniziani si scompagnassero e conlegassinsi
con loro; perché il Papa non giudicava che la Chiesa potesse
mantenere la reputazione sua, né il conte Girolamo gli stati di
Romagna, sendo i Fiorentini e Viniziani uniti. Dall'altra parte i
Fiorentini dubitavano che volessero inimicargli con i Viniziani,
non per farseli amici, ma per potere più facilmente ingiuriargli:
tanto che in questi sospetti e diversità d'umori si visse in
Italia duoi anni prima che alcuno tumulto nascesse.
Ma il primo che nacque fu, ancora che piccolo, in Toscana.
32
Di
Braccio da Perugia, uomo, come più volte abbiamo dimostro, nella
guerra reputatissimo, rimasono duoi figliuoli: Oddo e Carlo.
Questi era di tenera età, quell'altro fu dagli uomini di Val di
Lamona ammazzato, come di sopra mostrammo; ma Carlo, poi che fu
agli anni militari pervenuto, fu dai Viniziani, per la memoria
del padre e per la speranza che di lui si aveva, intra i
condottieri di quella republica ricevuto.
Era venuto, in questi tempi, il fine della sua condotta; e quello
non volle che per allora da quel senato gli fusse confermata;
anzi deliberò vedere se, con il nome suo e riputazione del padre,
ritornare negli stati suoi di Perugia poteva. A che i Viniziani
facilmente consentirono, come quelli che nelle innovazioni delle
cose sempre solevano accrescere lo imperio loro. Venne per tanto
Carlo in Toscana; e trovando le cose di Perugia difficili, per
essere in lega con i Fiorentini, e volendo che questa sua mossa
partorisse qualche cosa degna di memoria, assaltò i Sanesi,
allegando essere quelli debitori suoi per servizi avuti da suo
padre nelli affari di quella repubblica, e per ciò volerne
essere sodisfatto, e con tanta furia gli assaltò, che quasi
tutto il dominio loro mandò sottosopra.
Quegli cittadini, veggendo tale insulto, come eglino sono facili
a credere male de' Fiorentini, si persuasono tutto essere con
loro consenso esequito, e il Papa e il Re di rammarichii
riempierono.
Mandorono ancora oratori a Firenze; i quali si dolfono di tanta
ingiuria, e destramente mostrorono che, sanza essere suvvenuto,
Carlo non arebbe potuto con tanta securtà ingiuriargli.
Di che i Fiorentini si escusorono, affermando essere per fare
ogni opera che Carlo si astenesse da lo offendergli; e in quel
modo che gli oratori vollono, a Carlo comandorono che da lo
offendere i Sanesi si astenesse.
Di che Carlo si dolfe, mostrando che i Fiorentini, per non lo
suvvenire, si erano privi d'un grande acquisto e avieno privo lui
d'una gran gloria: perché, in poco tempo, prometteva loro la
possessione di quella terra: tanta viltà aveva trovata in essa,
e tanti pochi ordini alla difesa.
Partissi adunque Carlo e alli stipendi usati de' Viniziani si
ritornò, e i Sanesi, ancora che mediante i Fiorentini fussero da
tanti danni liberi rimasono non di meno pieni di sdegno contro a
quelli, perché non pareva loro avere alcuno obligo con coloro
che gli avessero d'un male di che prima fussero stati cagione
liberati.
33
Mentre
che queste cose ne' modi sopra narrati tra il Re e il Papa e in
Toscana si travagliavano, nacque in Lombardia uno accidente di
maggiore momento e che fu presagio di maggiori mali.
Insegnava in Milano la latina lingua a' primi giovani di quella
città Cola Montano, uomo litterato e ambizioso.
Questo, o che gli avesse in odio la vita e costumi del Duca, o
che pure altra cagione lo movesse, in tutti i suoi ragionamenti
il vivere sotto un principe non buono detestava, gloriosi e
felici chiamando quegli a' quali di nascere e vivere in una
republica aveva la natura e la fortuna conceduto; mostrando come
tutti gli uomini famosi si erano nelle republiche e non sotto i
principi nutriti; perché quelle nutriscono gli uomini virtuosi,
e quegli gli spengono, facendo l'una profitto dell'altrui virtù,
l'altra temendone.
I giovani con chi egli aveva più familiarità presa erano
Giovannandrea Lampognano, Carlo Visconti e Girolamo Olgiato.
Con costoro più volte della pessima natura del Principe, della
infelicità di chi era governato da quello ragionava; e in tanta
confidenza dello animo e volontà di quegli giovani venne, che
gli fece giurare che, come per la età e' potessero, la loro
patria dalla tirannide di quel principe libererebbono.
Sendo ripieni adunque questi giovani di questo desiderio, il
quale sempre con gli anni crebbe, i costumi e modi del Duca, e di
più le particulari ingiurie contro a loro fatte, di farlo
mandare ad effetto affrettorono.
Era Galeazzo libidinoso e crudele, delle quali due cose gli
spessi esempli lo avevono fatto odiosissimo; perché non solo non
gli bastava corrompere le donne nobili, che prendeva ancora
piacere di publicarle; né era contento fare morire gli uomini,
se con qualche modo crudele non gli ammazzava.
Non viveva ancora sanza infamia di avere morta la madre; perché,
non gli parendo essere principe, presente quella, con lei in modo
si governò, che le venne voglia di ritirarsi nella sua dotale
sede a Cremona, nel quale viaggio, da subita malattia presa morì:
donde molti giudicorono quella dal figliuolo essere stata fatta
morire.
Aveva questo duca, per via di donne, Carlo e Girolamo disonorati,
e a Giovannandrea non aveva voluto la possessione della badia di
Miramondo, stata ad un suo propinquo dal Pontefice resignata,
concedere.
Queste private ingiurie accrebbono la voglia a questi giovani,
con il vendicarle, liberare la loro patria da tanti mali;
sperando che, qualunque volta riuscisse loro lo ammazzarlo, di
essere, non solamente da molti de' nobili ma da tutto il popolo
seguiti.
Deliberatisi adunque a questa impresa, si trovavano spesso
insieme; di che l'antica familiarità non dava alcuna ammirazione:
ragionavano sempre di questa cosa, e per fermare più l'animo al
fatto, con le guaine di quelli ferri ch'eglino avieno a quella
opera destinati, ne' fianchi e nel petto l'uno l'altro
percotevono.
Ragionorono del tempo e del loco: in Castello non pareva loro
securo; a caccia, incerto e pericoloso; ne' tempi che quello per
la terra giva a spasso, difficile e non riuscibile; ne' conviti,
dubio.
Per tanto deliberarono in qualche pompa e publica festivitate
opprimerlo, dove fussero certi che venisse, ed eglino, sotto
varii colori, vi potessero loro amici ragunare.
Conclusono ancora che, sendo alcuno di loro per qualunque cagione
dalla corte ritenuti, gli altri dovessero, per il mezzo del ferro
e de' nimici armati, ammazzarlo.
34
Correva l'anno
1476, ed era propinqua la festività del Natale di Cristo; e
perché il Principe, il giorno di Santo Stefano, soleva con pompa
grande vicitare il tempio di quello martire, deliberorono che
quello fusse il luogo e il tempo commodo ad esequire il pensiero
loro.
Venuta adunqua la mattina di quel santo, feciono armare alcuni de'
loro più fidati amici e servidori, dicendo volere andare in
aiuto di Giovannandrea, il quale contro alla voglia di alcuni
suoi emuli voleva condurre nelle sue possessioni uno aquedutto; e
quelli così armati al tempio condussono, allegando volere,
avanti partissero, prendere licenza dal Principe. Feciono ancora
venire in quel luogo, sotto varii colori, più altri loro amici e
congiunti, sperando che, fatta la cosa, ciascheduno nel resto
della impresa loro gli seguitasse.
E lo animo loro era, morto il Principe, ridursi insieme con
quegli armati, e gire in quella parte della terra dove credessero
più facilmente sollevare la plebe, e quella contro alla Duchessa
e a' principi dello stato fare armare.
E stimavano che il popolo, per la fame dalla quale era aggravato,
dovesse facilmente seguirgli, perché disegnavano dargli la casa
di messer Cecco Simonetta, di Giovanni Botti e di Francesco
Lucani, tutti principi del governo, in preda, e per questa via
assicurare loro, e rendere la libertà al popolo.
Fatto questo disegno, e confirmato l'animo a questa esecuzione,
Giovannandrea con gli altri furno al tempio di buona ora; udirono
messa insieme; la quale udita, Giovannandrea si volse ad una
statua di Santo Ambrogio e disse: - O padrone di questa nostra
città, tu sai la intenzione nostra e il fine a che noi voliamo
metterci a tanti pericoli: sia favorevole a questa nostra impresa;
e dimostra, favorendo la giustizia, che la ingiustizia ti
dispiaccia.
- Al Duca dall'altro canto, avendo a venire al tempio,
intervennono molti segni della sua futura morte: perché, venuto
il giorno, si vestì, secondo che più volte costumava, una
corazza, la quale di poi subito si trasse, come se nella presenza
o nella persona lo offendesse, volle udire messa in Castello, e
trovò che il suo cappellano era ito a Santo Stefano con tutti i
suoi apparati di cappella; volle che, in cambio di quello, il
vescovo di Como celebrasse la messa, e quello allegò certi
impedimenti ragionevoli: tanto che, quasi per necessità,
deliberò di andare al tempio, e prima si fece venire
Giovangaleazzo ed Ermes suoi figliuoli, e quelli abbracciò e
baciò molte volte, né pareva potesse spiccarsi da quelli; pure
alla fine, deliberato allo andare, si uscì di Castello, ed
entrato in mezzo dello oratore di Ferrara e di Mantova, ne andò
al tempio.
I congiurati, in quel tanto, per dare di loro minore suspizione,
e fuggire il freddo che era grandissimo, si erano in una camera
dello arciprete della chiesa, loro amico, ritirati; e intendendo
come il Duca veniva, se ne vennono in chiesa: e Giovanni Andrea e
Girolamo si posono dalla destra parte allo entrare del tempio, e
Carlo dalla sinistra.
Entravano già nel tempio quelli che precedono al Duca; di poi
entrò egli, circundato da una moltitudine grande, come era
conveniente, in quella solennità, ad una ducale pompa.
I primi che mossano fu il Lampognano e Girolamo. Costoro,
simulando di far fare largo al Principe, se gli accostorono, e
strette le armi, che corte e acute avevono nelle maniche nascose,
lo assalirono.
Il Lampognano gli dette due ferite, l'una nel ventre, l'altra
nella gola; Girolamo ancora nella gola e nel petto lo percosse.
Carlo Visconte, perché si era posto più propinquo alla porta,
ed essendogli il Duca passato avanti, quando dai compagni fu
assalito, nol potette ferire davanti, ma con duoi colpi la
schiena e la spalla gli trafisse.
E furono queste sei ferite sì preste e sì subite, che il Duca
fu prima in terra che quasi niuno del fatto si accorgesse; né
quello potette altro fare o dire, salvo che, cadendo, una volta
sola il nome della Nostra Donna in suo aiuto chiamare.
Caduto il Duca in terra, il romore si levò grande; assai spade
si sfoderorono e, come avviene nelli casi non preveduti, chi
fuggiva del tempio e chi correva verso il tumulto sanza avere
alcuna certezza o cagione della cosa.
Non di meno quegli che erano al Duca più propinqui, e che
avevono veduto il Duca morto, e gli ucciditori cognosciuti, li
perseguitorono.
E de' congiurati, Giovannandrea volendo tirarsi fuori di chiesa,
entrò fra le donne, le quali trovando assai, e secondo il loro
costume a sedere in terra implicato e ritenuto intra le loro
veste fu da un moro, staffiero del Duca, sopraggiunto e morto.
Fu ancora da' circunstanti ammazzato Carlo.
Ma Girolamo Olgiato, uscito fra gente e gente di chiesa, vedendo
i suoi compagni morti non sapiendo dove altrove fuggirsi, se ne
andò alle sue case; dove non fu dal padre né da' frategli
ricevuto. Solamente la madre, avendo al figliuolo compassione, lo
raccomandò ad uno prete, antico amico alla famiglia loro; il
quale, messogli suoi panni indosso, alle sue case lo condusse;
dove stette duoi giorni, non sanza speranza che in Milano
nascesse qualche tumulto che lo salvasse.
Il che non succedendo, e dubitando non essere in quel loco
ritrovato, volse sconosciuto fuggirsi; ma, conosciuto, nella
podestà della giustizia pervenne, dove tutto l'ordine della
congiura aperse.
Era Girolamo di età di ventitré anni; né fu nel morire meno
animoso che nello operare si fusse stato; perché trovandosi
ignudo e con il carnefice davanti, che aveva il coltello in mano
per ferirlo, disse queste parole in lingua latina, perché
litterato era: - Mors acerba, fama perpetua, stabit vetus memoria
facti.
- Fu questa impresa di questi infelici giovani secretamente
trattata e animosamente esequita; e allora rovinorono quando
quelli ch'eglino speravano gli avessero a seguire e defendere non
gli defesono né seguirono.
Imparino per tanto i principi a vivere in maniera, e farsi in
modo reverire e amare, che niuno speri potere, ammazzandogli,
salvarsi; e gli altri cognoschino quanto quel pensiero sia vano
che ci faccia confidare troppo che una moltitudine, ancora che
mal contenta, ne' pericoli tuoi ti seguiti o ti accompagni.
Sbigottì questo accidente tutta Italia; ma molto più quegli che,
indi a breve tempo, in Firenze seguirono; i quali quella pace che
per dodici anni era stata in Italia ruppono, come nel libro
seguente sarà da noi dimostrato.
Il quale, se arà il fine suo mesto e lagrimoso, arà il
principio sanguinoso e spaventevole.
LIBRO OTTAVO
1
Sendo il
principio di questo ottavo libro posto in mezzo di due congiure,
l'una già narrata, e successa a Milano, l'altra per doversi
narrare, e seguita a Firenze, parrebbe conveniente cosa, volendo
seguitare il costume nostro, che delle qualità delle congiure e
della importanza di esse ragionassimo; il che si farebbe
volentieri quando, o in altro luogo io non ne avesse parlato, o
ella fusse materia da potere con brevità passarla.
Ma sendo cosa che desidera assai considerazione, e già in altro
luogo detta, la lasceremo indrieto; e passando ad un'altra
materia, diremo come lo stato de' Medici, avendo vinte tutte le
inimicizie le quali apertamente lo avevono urtato, a volere che
quella casa prendesse unica autorità nella città e si spiccasse
col vivere civile da le altre, era necessario che ella superasse
ancora quelle che occultamente contro gli macchinavano.
Perché, mentre che i Medici di pari di autorità e di
riputazione con alcune dell'altre famiglie combattevono, potevono
i cittadini che alla loro potenza avevono invidia apertamente a
quelli opporsi, sanza temere di essere ne' principii delle loro
nimicizie oppressi, perché, sendo diventati i magistrati liberi,
niuna delle parti, se non dopo la perdita, aveva cagione di
temere.
Ma, dopo la vittoria del '66, si ristrinse in modo lo stato tutto
a' Medici, i quali tanta autorità presono, che quelli che ne
erano mal contenti conveniva o con pazienza quel modo del vivere
comportassero, o, se pure lo volessero spegnere, per via di
congiure e secretamente di farlo tentassero: le quali perché con
difficultà succedono, partoriscono il più delle volte a chi le
muove rovina, e a colui contro al quale sono mosse grandezza.
Donde che quasi sempre uno principe d'una città, da simili
congiure assalito, se non è come il duca di Milano ammazzato, il
che rade volte interviene, saglie in maggiore potenza, e molte
volte, sendo buono, diventa cattivo; perché queste, con lo
esemplo loro, gli danno cagione di temere, il temere di
assicurarsi, l'assicurarsi di ingiuriare: donde ne nascono gli
odii, di poi, e molte volte la sua rovina.
E così queste congiure opprimono subito chi le muove, e quello
contro a chi le son mosse in ogni modo con il tempo offendono.
2
Era la
Italia, come di sopra abbiamo dimostro, divisa in due fazioni:
Papa e Re da una parte; da l'altra Viniziani, Duca e Fiorentini;
e benché ancora infra loro non fusse accesa guerra, non di meno
ciascuno giorno infra essi si dava nuove cagioni di accenderla; e
il Pontefice massime, in qualunque sua impresa, di offendere lo
stato di Firenze s'ingegnava.
Onde che, sendo morto messere Filippo de' Medici, arcivescovo di
Pisa, il Papa, contro alla volontà della signoria di Firenze,
Francesco Salviati, il quale cognosceva alla famiglia de' Medici
nimico, di quello arcivescovado investì: talché, non gli
volendo la Signoria dare la possessione, ne seguì tra il Papa e
quella, nel maneggio di questa cosa, nuove offese.
Oltra di questo, faceva in Roma alla famiglia de' Pazzi favori
grandissimi, e quella de' Medici in ogni azione disfavoriva.
Erano i Pazzi, in Firenze, per ricchezze e nobilità, allora, di
tutte l'altre famiglie fiorentine splendidissimi: capo di quelli
era messer Iacopo, fatto, per le sue ricchezze e nobilità, dal
popolo cavaliere.
Non aveva altri figliuoli che una figliuola naturale: aveva bene
molti nipoti, nati di messer Piero e Antonio suoi frategli; i
primi de' quali erano Guglielmo, Francesco, Rinato, Giovanni, e
apresso Andrea, Niccolò e Galeotto.
Aveva Cosimo de' Medici, veggendo la ricchezza e nobilità di
costoro, la Bianca sua nipote con Guglielmo congiunta, sperando
che quel parentado facesse queste famiglie più unite e levasse
via le inimicizie e gli odii che dal sospetto il più delle volte
sogliono nascere.
Non di meno, tanto sono i disegni nostri incerti e fallaci, la
cosa procedette altrimenti: perché chi consigliava Lorenzo gli
mostrava come gli era pericolosissimo, e alla sua autorità
contrario, raccozzare ne' cittadini ricchezze e stato.
Questo fece che a messer Iacopo e a' nipoti non erano conceduti
quegli gradi di onore che a loro, secondo gli altri cittadini,
pareva meritare: da qui nacque ne' Pazzi il primo sdegno e ne'
Medici il primo timore, e l'uno di questi che cresceva dava
materia all'altro di crescere; donde i Pazzi, in ogni azione dove
altri cittadini concorressero, erano da' magistrati non bene
veduti. E il magistrato degli Otto, per una leggieri cagione,
sendo Francesco de' Pazzi a Roma, sanza avere a lui quel rispetto
che a' grandi cittadini si suole avere, a venire a Firenze lo
constrinse: tanto che i Pazzi, in ogni luogo, con parole
ingiuriose e piene di sdegno si dolevano; le quali cose
accrescevono ad altri il sospetto e a sé le ingiurie.
Aveva Giovanni de' Pazzi per moglie la figliuola di Giovanni
Buonromei, uomo ricchissimo, le sustanze di cui, sendo morto,
alla sua figliuola, non avendo egli altri figliuoli, ricadevono.
Non di meno Carlo, suo nipote, occupò parte di quegli beni; e
venuta la cosa in litigio, fu fatta una legge per virtù della
quale la moglie di Giovanni de' Pazzi fu della eredità di suo
padre spogliata, e a Carlo concessa; la quale ingiuria i Pazzi al
tutto dai Medici ricognobbono.
Della qual cosa Giuliano de' Medici molte volte con Lorenzo suo
fratello si dolfe, dicendo come e' dubitava che, per volere delle
cose troppo, che le non si perdessero tutte.
3
Non di
meno Lorenzo, caldo di gioventù e di potenza, voleva ad ogni
cosa pensare, e che ciascuno da lui ogni cosa ricognoscesse.
Non potendo adunque i Pazzi, con tanta nobilità e tante
ricchezze, sopportare tante ingiurie, cominciorono a pensare come
se ne avessero a vendicare.
Il primo che mosse alcuno ragionamento contro a' Medici fu
Francesco.
Era costui più animoso e più sensitivo che alcuno degli altri;
tanto che deliberò o di acquistare quello che gli mancava, o di
perdere ciò che gli aveva.
E perché gli erano in odio i governi di Firenze, viveva quasi
sempre a Roma, dove assai tesoro, secondo il costume de'
mercatanti fiorentini, travagliava.
E perché egli era al conte Girolamo amicissimo, si dolevano
costoro spesso, l'uno con l'altro, de' Medici: tanto che, dopo
molto doglienze, e' vennono a ragionamento come gli era
necessario, a volere che l'uno vivesse ne' suoi stati e l'altro
nella sua città securo, mutare lo stato di Firenze: il che sanza
la morte di Giuliano e di Lorenzo pensavano non si potessi fare.
Giudicorono che il Papa e il Re facilmente vi acconsentirebbono
purché all'uno e all'altro si mostrasse la facilità della cosa.
Sendo adunque caduti in questo pensiero, comunicorono il tutto
con Francesco Salviati arcivescovo di Pisa, il quale, per essere
ambizioso e di poco tempo avanti stato offeso da' Medici,
volentieri vi concorse.
Ed esaminando infra loro quello fusse da fare, deliberorono,
perché la cosa più facilmente succedessi, di tirare nella loro
volontà messer Iacopo de' Pazzi, sanza il quale non credevano
potere cosa alcuna operare.
Parve adunque che Francesco de' Pazzi, a questo effetto, andasse
a Firenze, e l'Arcivescovo e il Conte a Roma rimanessero, per
essere con il Papa quando e' paresse tempo da comunicargliene.
Trovò Francesco messer Iacopo più respettivo e più duro non
arebbe voluto; e fattolo intendere a Roma, si pensò che
bisognasse maggiore autorità a disporlo: onde che l'Arcivescovo
e il Conte ogni cosa a Giovan Batista da Montesecco, condottieri
del Papa, comunicorono.
Questo era stimato assai nella guerra, e al Conte e al Papa
obligato: non di meno mostrò la cosa essere difficile e
pericolosa; i quali periculi e difficultà l'Arcivescovo s'ingegnava
spegnere, mostrando gli aiuti che il Papa e il Re farebbono alla
impresa, e di più gli odii che i cittadini di Firenze portavano
a' Medici, i parenti che i Salviati e i Pazzi si tiravano dietro,
la facilità dello ammazzargli, per andare per la città sanza
compagnia e sanza sospetto, e di poi, morti che fussero, la
facilità del mutare lo stato.
Le quali cose Giovan Batista interamente non credeva, come quello
che da molti altri Fiorentini aveva udito altrimenti parlare.
4
Mentre
che si stava in questi ragionamenti e pensieri, occorse che il
signor Carlo di Faenza ammalò, tale che si dubitava della morte.
Parve per tanto allo Arcivescovo e al Conte di avere occasione di
mandare Giovan Batista a Firenze, e di quivi in Romagna, sotto
colore di riavere certe terre che il signore di Faenza gli
occupava. Commisse per tanto il Conte a Giovan Batista parlasse
con Lorenzo, e da sua parte gli domandasse consiglio, come nelle
cose di Romagna si avesse a governare; di poi parlasse con
Francesco de' Pazzi, e vedessero, insieme, di disporre messer
Iacopo de' Pazzi a seguitare la loro volontà.
E perché lo potesse con la autorità del Papa muovere, vollono,
avanti alla partita, parlasse al Pontefice; il quale fece tutte
quelle offerte possette maggiori in benifizio della impresa.
Arrivato per tanto Giovan Batista a Firenze, parlò con Lorenzo,
dal quale fu umanissimamente ricevuto e ne' consigli domandati
saviamente e amorevolmente consigliato; tanto che Giovan Batista
ne prese ammirazione, parendogli avere trovato altro uomo che non
gli era stato mostro, e giudicollo tutto umano, tutto savio, e al
Conte amicissimo.
Non di meno volle parlare con Francesco, e non ve lo trovando,
perché era ito a Lucca, parlò con messer Iacopo, e trovollo nel
principio molto alieno dalla cosa: non di meno, avanti partisse,
l'autorità del Papa lo mosse alquanto, e per ciò disse a Giovan
Batista che andasse in Romagna e tornasse, e che intanto
Francesco sarebbe in Firenze, e allora più particularmente della
cosa ragionerebbono.
Andò e tornò Giovan Batista, e con Lorenzo de' Medici seguitò
il simulato ragionamento delle cose del Conte; di poi con messer
Iacopo e Francesco de' Pazzi si ristrinse; e tanto operorono, che
messer Iacopo acconsentì alla impresa.
Ragionorono del modo.
A messer Iacopo non pareva che fusse riuscibile sendo ambedui i
frategli in Firenze; e per ciò si aspettasse che Lorenzo andasse
a Roma, come era fama che voleva andare, e allora si esequisse la
cosa.
A Francesco piaceva che Lorenzo fusse a Roma; non di meno, quando
bene non vi andasse, affermava che o a nozze, o a giuoco, o in
chiesa, ambiduoi i frategli si potevono opprimere.
E circa gli aiuti forestieri, gli pareva che il Papa potesse
mettere gente insieme per la impresa del castello di Montone,
avendo giusta cagione di spogliarne il conte Carlo, per avere
fatti i tumulti già detti nel Sanese e nel Perugino.
Non di meno non si fece altra conclusione, se non che Francesco
de' Pazzi e Giovan Batista ne andassero a Roma, e quivi con il
Conte e con il Papa ogni cosa concludessero.
Praticossi di nuovo a Roma questa materia; e in fine si concluse,
sendo la impresa di Montone resoluta, che Giovanfrancesco da
Tolentino, soldato del Papa, ne andasse in Romagna, e messer
Lorenzo da Castello nel paese suo, e ciascheduno di questi, con
le genti del paese, tenessero le loro compagnie ad ordine per
fare quanto da l'Arcivescovo de' Salviati e Francesco de' Pazzi
fusse loro ordinato, i quali con Giovan Batista da Montesecco se
ne venissero a Firenze dove provedessero a quanto fusse
necessario per la esecuzione della impresa; alla quale il re
Ferrando, mediante il suo oratore, prometteva qualunque aiuto.
Venuti pertanto l'Arcivescovo e Francesco de' Pazzi a Firenze
tirorono nella sentenza loro Iacopo di messer Poggio, giovane
litterato, ma ambizioso e di cose nuove desiderosissimo,
tiroronvi duoi Iacopi Salviati l'uno fratello, l'altro affine
dello Arcivescovo; condussonvi Bernardo Bandini e Napoleone
Franzesi, giovani arditi e alla famiglia de' Pazzi obligatissimi.
De' forestieri, oltre a' prenominati, messer Antonio da Volterra
e uno Stefano sacerdote, il quale nelle case di messer Iacopo
alla sua figliuola la lingua latina insegnava, v'intervennono.
Rinato de' Pazzi, uomo prudente e grave, e che ottimamente
cognosceva il male che da simili imprese nascono, alla congiura
non acconsentì; anzi la detestò, e con quel modo che
onestamente potette adoperare la interruppe.
5
Aveva il
Papa tenuto nello Studio pisano a imparar lettere pontificie
Raffaello de' Riario, nipote del conte Girolamo; nel quale luogo
ancora essendo, fu dal Papa alla dignità del cardinalato
promosso.
Parve per tanto a' congiurati di condurre questo cardinale a
Firenze, acciò che la sua venuta e la congiura ricoprisse,
possendosi infra la sua famiglia quelli congiurati de' quali
avevono bisogno nascondere, e da quello prendere cagione di
esequirla.
Venne adunque il Cardinale, e fu da messere Iacopo de' Pazzi a
Montughi, sua villa propinqua a Firenze, ricevuto.
Desideravano i congiurati di accozzare insieme, mediante costui,
Lorenzo e Giuliano; e come prima questo occorresse, ammazzargli.
Ordinorono per tanto convitassero il Cardinale nella villa loro
di Fiesole, dove Giuliano, o a caso o a studio, non convenne;
tanto che, tornato il disegno vano, giudicorono, che, se lo
convitassero a Firenze, di necessità ambiduoi vi avessero ad
intervenire.
E così dato l'ordine, la domenica de' dì 26 d'aprile, correndo
l'anno 1478, a questo convito deputorono.
Pensando adunque i congiurati di potergli nel mezzo del convito
ammazzare, furono il sabato notte insieme, dove tutto quello che
la mattina seguente si avesse ad esequire disposono. Venuto di
poi il giorno, fu notificato a Francesco come Giuliano ad il
convito non interveniva.
Per tanto di nuovo i capi della congiura si ragunorono, e
conclusono che non fusse da differire il mandarla ad effetto;
perché gli era impossibile, sendo nota a tanti, che la non si
scoprisse.
E per ciò deliberorono nella chiesa cattedrale di Santa Reparata
ammazzargli, dove sendo il Cardinale, i duoi frategli, secondo la
consuetudine, converrebbono.
Volevano che Giovan Batista prendesse la cura di ammazzare
Lorenzo, e Francesco de' Pazzi e Bernardo Bandini, Giuliano.
Recusò Giovan Batista il volerlo fare: o che la familiarità
aveva tenuta con Lorenzo gli avesse adolcito lo animo, o che pure
altra cagione lo movesse: disse che non gli basterebbe mai l'animo
commettere tanto eccesso in chiesa e accompagnare il tradimento
con il sacrilegio.
Il che fu il principio della rovina della impresa loro: perché,
strignendoli il tempo, furono necessitati dare questa cura a
messer Antonio da Volterra e a Stefano sacerdote, duoi che, per
pratica e per natura, erano a tanta impresa inettissimi: perché,
se mai in alcuna faccenda si ricerca l'animo grande e fermo, e
nella vita e nella morte per molte esperienze risoluto, è
necessario averlo in questa, dove si è assai volte veduto agli
uomini nelle arme esperti e nel sangue intrisi lo animo mancare.
Fatto adunque questa deliberazione, vollono che il segno dello
operare fusse quando si comunicava il sacerdote che nel tempio la
principale messa celebrava; e che, in quel mezzo, lo arcivescovo
de' Salviati, insieme con i suoi e con Iacopo di messer Poggio,
il palagio publico occupassero, acciò che la Signoria, o
voluntaria o forzata, seguita che fusse de' duoi giovani la morte,
fusse loro favorevole.
6
Fatta
questa deliberazione se n'andorono nel tempio, nel quale già il
Cardinale insieme con Lorenzo de' Medici era venuto.
La chiesa era piena di popolo e lo oficio divino cominciato,
quando ancora Giuliano de' Medici non era in chiesa; onde che
Francesco de' Pazzi insieme con Bernardo, alla sua morte
destinati, andorono alle sue case a trovarlo, e con prieghi e con
arte nella chiesa lo condussono.
È cosa veramente degna di memoria che tanto odio, tanto pensiero
di tanto eccesso si potesse con tanto cuore e tanta ostinazione d'animo
da Francesco e da Bernardo ricoprire: perché, conduttolo nel
tempio, e per la via e nella chiesa con motteggi e giovinili
ragionamenti lo intrattennero; né mancò Francesco, sotto colore
di carezzarlo, con le mani e con le braccia strignerlo, per
vedere se lo trovava o di corazza o d'altra simile difesa munito.
Sapevano Giuliano e Lorenzo lo acerbo animo de' Pazzi contra di
loro, e come eglino desideravano di torre loro l'autorità dello
stato, ma non temevono già della vita, come quelli che credevano
che, quando pure eglino avessero a tentare cosa alcuna,
civilmente e non con tanta violenza lo avessero a fare; e per
ciò anche loro, non avendo cura alla propria salute, di essere
loro amici simulavano.
Sendo adunque preparati gli ucciditori, quegli a canto a Lorenzo,
dove, per la moltitudine che nel tempio era, facilmente e sanza
sospetto potevono stare, e quegli altri insieme con Giuliano,
venne l'ora destinata; e Bernardo Bandini, con una arme corta a
quello effetto apparecchiata, passò il petto a Giuliano, il
quale dopo pochi passi cadde in terra; sopra il quale Francesco
de' Pazzi gittatosi, lo empié di ferite; e con tanto studio lo
percosse, che, accecato da quel furore che lo portava, se
medesimo in una gamba gravemente offese.
Messer Antonio e Stefano, dall'altra parte, assalirono Lorenzo, e
menatogli più colpi, di una leggieri ferita nella gola lo
percossono; perché, o la loro negligenzia, o lo animo di Lorenzo,
che, vedutosi assalire, con l'arme sua si difese, o lo aiuto di
chi era seco, fece vano ogni sforzo di costoro.
Tale che quegli, sbigottiti, si fuggirono e si nascosono; ma di
poi ritrovati, furono vituperosamente morti e per tutta la città
strascinati.
Lorenzo dall'altra parte, ristrettosi con quegli amici che gli
aveva intorno, nel sacrario del tempio si rinchiuse.
Bernardo Bandini, morto che vide Giuliano, ammazzò ancora
Francesco Nori, a' Medici amicissimo, o perché lo odiasse per
antico, o perché Francesco di aiutare Giuliano s'ingegnasse; e
non contento a questi duoi omicidii corse per trovare Lorenzo e
supplire con lo animo e prestezza sua a quello che gli altri per
la tardità e debilezza loro avevono mancato, ma trovatolo nel
sacrario rifuggito, non potette farlo.
Nel mezzo di questi gravi e tumultuosi accidenti i quali furono
tanti terribili che pareva che il tempio rovinasse, il Cardinale
si ristrinse allo altare, dove con fatica fu dai sacerdoti tanto
salvato che la Signoria, cessato il romore, potette nel suo
palagio condurlo; dove con grandissimo sospetto infino alla
liberazione sua dimorò.
7
Trovavansi
in Firenze in questi tempi alcuni Perugini, cacciati, per le
parti, di casa loro, i quali i Pazzi, promettendo di rendere loro
la patria, avevano tirati nella voglia loro; donde che l'arcivescovo
de' Salviati, il quale era ito per occupare il Palagio insieme
con Iacopo di messer Poggio e i suoi Salviati e amici, gli avea
condotti seco.
E arrivato al Palagio, lasciò parte de' suoi da basso, con
ordine che, come eglino sentissero il romore, occupassero la
porta; ed egli, con la maggior parte de' Perugini, salì da alto;
e trovato che la Signoria desinava, perché era l'ora tarda, fu,
dopo non molto, da Cesare Petrucci gonfaloniere di giustizia
intromesso.
Onde che, entrato con pochi de' suoi, lasciò gli altri fuora; la
maggiore parte de' quali nella cancelleria per se medesimi si
rinchiusono, perché in modo era la porta di quella congegnata,
che, serrandosi, non si poteva se non con lo aiuto della chiave,
così di dentro come di fuora, aprire.
L'Arcivescovo intanto, entrato dal Gonfaloniere, sotto colore di
volergli alcune cose per parte del Papa riferire, gli cominciò a
parlare con parole spezzate e dubie; in modo che l'alterazione
che dal viso e dalle parole mostrava generorono nel Gonfaloniere
tanto sospetto che a un tratto, gridando, si pinse fuora di
camera, e trovato Iacopo di messer Poggio, lo prese per i capegli
e nelle mani de' suoi sergenti lo misse.
E levato il romore tra i Signori, con quelle armi che il caso
sumministrava loro, tutti quegli che con l'Arcivescovo erano
saliti da alto, sendone parte rinchiusi e parte inviliti, o
subito furono morti, o così vivi, fuori delle finestre del
Palagio gittati; intra i quali l'Arcivescovo, i duoi Iacopi
Salviati e Iacopo di messer Poggio appiccati furono.
Quegli che da basso in Palagio erano rimasi avevano sforzata la
guardia, e la porta e le parti basse tutte occupate, in modo che
i cittadini che in questo romore al Palagio corsono, né armati
aiuto, né disarmati consiglio alla Signoria potevano porgere.
8
Francesco
de' Pazzi intanto e Bernardo Bandini, veggendo Lorenzo campato, e
uno di loro, in chi tutta la speranza della impresa era posta,
gravemente ferito, si erono sbigottiti donde che Bernardo,
pensando con quella franchezza d'animo alla sua salute, che gli
aveva allo ingiuriare i Medici pensato, veduta la cosa perduta,
salvo se ne fuggì. Francesco, tornatosene a casa ferito, provò
se poteva reggersi a cavallo; perché l'ordine era di circuire
con armati la terra e chiamare il popolo alla libertà e all'arme;
e non potette: tanta era profonda la ferita, e tanto sangue aveva
per quella perduto; onde che, spogliatosi, si gittò sopra il suo
letto ignudo, e pregò messer Iacopo che quello da lui non si
poteva fare facesse egli.
Messer Iacopo, ancora che vecchio e in simili tumulti non pratico,
per fare questa ultima esperienza della fortuna loro, salì a
cavallo, con forse cento armati, suti prima per simile impresa
preparati, e se n'andò alla piazza del Palagio, chiamando in suo
aiuto il popolo e la libertà.
Ma perché l'uno era dalla fortuna e liberalità de' Medici fatto
sordo, l'altra in Firenze non era cognosciuta, non gli fu
risposto da alcuno.
Solo i Signori, che la parte superiore del Palagio
signoreggiavano, con i sassi lo salutorono, e con le minacce in
quanto poterono lo sbigottirono.
E stando messer Iacopo dubio, fu da Giovanni Serristori, suo
cognato, incontrato; il quale prima lo riprese degli scandoli
mossi da loro, di poi lo confortò a tornarsene a casa,
affermandogli che il popolo e la libertà era a cuore agli altri
cittadini come a lui.
Privato adunque messer Iacopo d'ogni speranza, veggendosi il
Palagio nimico, Lorenzo vivo, Francesco ferito, e da niuno
seguitato, non sapiendo altro che farsi, deliberò di salvare, se
poteva, con la fuga, la vita; e con quella compagnia che gli
aveva seco in Piazza, si uscì di Firenze per andarne in Romagna.
9
In questo
mezzo tutta la città era in arme, e Lorenzo de' Medici da molti
armati accompagnato, s'era nelle sue case ridutto: il Palagio dal
popolo era stato ricuperato, e gli occupatori di quello tutti fra
presi e morti.
Già per tutta la città si gridava il nome de' Medici, e le
membra de' morti, o sopra le punte delle armi fitte, o per la
città strascinate si vedevano; e ciascheduno, con parole piene d'ira
e con fatti pieni di crudeltà, i Pazzi perseguitava.
Già erano le loro case dal popolo occupate; e Francesco, così
ignudo, fu di casa tratto, e al Palagio condotto, fu a canto all'Arcivescovo
e agli altri appiccato. Né fu possibile, per ingiuria che per il
cammino o poi gli fusse fatta o detta, farli parlare alcuna cosa;
ma guardando altrui fiso, sanza dolersi altrimenti, tacito
sospirava.
Guglielmo de' Pazzi, di Lorenzo cognato, nelle case di quello, e
per la innocenza sua e per lo aiuto della Bianca sua moglie, si
salvò.
Non fu cittadino che, armato o disarmato, non andasse alle case
di Lorenzo in quella necessità; e ciascheduno sé e le sustanze
sue gli offeriva: tanta era la fortuna e la grazia che quella
casa, per la sua prudenza e liberalità, si aveva acquistata.
Rinato de' Pazzi s'era, quando il caso seguì nella sua villa
ritirato, donde, intendendo la cosa, si volle, travestito,
fuggire: non di meno fu per il cammino cognosciuto, e preso, e a
Firenze condotto.
Fu ancora preso messer Iacopo nel passare l'alpi, perché, inteso
da quegli alpigiani il caso seguito a Firenze e veduta la fuga di
quello, fu da loro assalito e a Firenze menato: né potette
ancora che più volte ne gli pregasse impetrare di essere da loro
per il cammino ammazzato.
Furono messer Iacopo e Rinato giudicati a morte, dopo quattro
giorni che il caso era seguito, e infra tante morti che in quelli
giorni erano state fatte, che avevono piene di membra di uomini
le vie, non ne fu con misericordia altra che questa di Rinato
riguardata, per essere tenuto uomo savio e buono, né di quella
superbia notato, che gli altri di quella famiglia accusati erano.
E perché questo caso non mancasse di alcuno estraordinario
esemplo, fu messer Iacopo prima nella sepultura de' suoi maggiori
sepulto; di poi, di quivi, come scomunicato, tratto, fu lungo le
mura della città sotterrato; e di quindi ancora cavato, per il
capresto con il quale era stato morto, fu per tutta la città
ignudo strascinato; e da poi che in terra non aveva trovato luogo
alla sepultura sua, fu da quegli medesimi che strascinato l'avevono,
nel fiume d'Arno, che allora aveva le sue acque altissime gittato.
Esemplo veramente grandissimo di fortuna, vedere uno uomo da
tante ricchezze e da sì felicissimo stato, in tanta infelicità,
con tanta rovina e con tale vilipendio cadere! Narronsi de' suoi
alcuni vizi, intra i quali erano giuochi e bestemmie più che a
qualunche perduto uomo non si converrebbe; quali vizi con le
molte elimosine ricompensava, perché a molti bisognosi e luoghi
pii largamente suvveniva.
Puossi ancora, di quello, dire questo bene, che il sabato davanti
a quella domenica deputata a tanto omicidio, per non fare
partecipe dell'avversa sua fortuna alcuno altro, tutti i suoi
debiti pagò, e tutte le mercatanzie che gli aveva in dogana e in
casa, le quali ad alcuni appartenessero, con maravigliosa
sollecitudine a' padroni di quelle consegnò.
Fu a Giovan Batista da Montesecco, dopo una lunga esamine fatta
di lui, tagliata la testa; Napoleone Franzesi con la fuga fuggì
il supplizio; Guglielmo de' Pazzi fu confinato, e i suoi cugini
che erano rimasi vivi, nel fondo della rocca di Volterra in
carcere posti.
Fermi tutti i tumulti, e puniti i congiurati, si celebrorono le
esequie di Giuliano; il quale fu con le lagrime da tutti i
cittadini accompagnato, perché in quello era tanta liberalità e
umanità quanta in alcuno altro in tale fortuna nato si potesse
desiderare.
Rimase di lui uno figliuolo naturale, il quale dopo a pochi mesi
che fu morto nacque, e fu chiamato Giulio; il quale fu di quella
virtù e fortuna ripieno, che in questi presenti tempi tutto il
mondo cognosce, e che da noi, quando alle presenti cose
perverremo, concedendone Iddio vita, sarà largamente dimostro.
Le genti che sotto messer Lorenzo da Castello in Val di Tevere, e
quelle che sotto Giovan Francesco da Talentino in Romagna erano,
insieme, per dare favore a' Pazzi s'erano mosse per venire a
Firenze; ma poi ch'eglino intesero la rovina della impresa, si
tornorono indietro.
10
Ma non
essendo seguita in Firenze la mutazione dello stato, come il Papa
e il Re desideravano, deliberarono quello che non avevono potuto
fare per congiure farlo per guerra; e l'uno e l'altro, con
grandissima celerità, messe le sue genti insieme per assalire lo
stato di Firenze, publicando non volere altro da quella città,
se non che la rimovesse da sé Lorenzo de' Medici, il quale solo
di tutti i Fiorentini avieno per nimico.
Avevano già le genti del Re passato il Tronto, e quelle del Papa
erano nel Perugino; e perché, oltre alle temporali i Fiorentini
ancora le spirituali ferite sentissero, gli scomunicò e
maladisse.
Onde che i Fiorentini, veggendosi venire contro tanti eserciti,
si preparorono con ogni sollecitudine alle difese.
E Lorenzo de' Medici, innanzi ad ogni altra cosa, volle, poi che
la guerra per fama era fatta a lui, ragunare in Palagio, con i
Signori, tutti i qualificati cittadini, in numero di più di
trecento; a' quali parlò in questa sentenza: - Io non so,
eccelsi Signori, e voi, magnifici cittadini, se io mi dolgo con
voi delle seguite cose, o se io me ne rallegro.
E veramente quando io penso con quanta fraude, con quanto odio io
sia stato assalito e il mio fratello morto, io non posso fare non
me ne contristi e con tutto il cuore e con tutta l'anima non me
ne dolga. Quando io considero di poi con che prontezza, con che
studio, con quale amore, con quanto unito consenso di tutta la
città il mio fratello sia stato vendicato e io difeso, conviene,
non solamente me ne rallegri, ma in tutto me stesso esalti e
glorii.
E veramente, se la esperienza mi ha fatto conoscere come io aveva
in questa città più nimici che io non pensava, m'ha ancora
dimostro come io ci aveva più ferventi e caldi amici che io non
credeva.
Son forzato, adunque, a dolermi con voi per le ingiurie d'altri,
e rallegrarmi per i meriti vostri; ma son bene constretto a
dolermi tanto più delle ingiurie, quanto le sono più rare, più
senza esemplo e meno da noi meritate.
Considerate, magnifici cittadini, dove la cattiva fortuna aveva
condotta la casa nostra, che fra gli amici, fra i parenti, nella
chiesa non era secura.
Sogliono quelli che dubitano della morte ricorrere agli amici per
aiuti, sogliono ricorrere a' parenti; e noi gli trovavamo armati
per la distruzione nostra: sogliono rifuggire nelle chiese tutti
quegli che, per publica o per privata cagione, sono perseguitati.
Adunque, da chi gli altri sono difesi, noi siamo morti; dove i
parricidi, gli assassini sono sicuri, i Medici trovorono gli
ucciditori loro.
Ma Iddio, che mai per lo addietro non ha abbandonata la casa
nostra, ha salvato ancora noi, e ha presa la defensione della
giusta causa nostra.
Perché quale ingiuria abbiamo noi fatta ad alcuno, che se ne
meritasse tanto desiderio di vendetta? E veramente questi che ci
si sono dimostri tanto nimici, mai privatamente non gli
offendemmo; perché, se noi gli avessimo offesi, e' non arebbono
avuto commodità di offendere noi.
S'eglino attribuiscono a noi le publiche ingiurie, quando alcuna
ne fusse stata loro fatta, che non lo so, eglino offendono più
voi che noi, più questo Palagio e la maestà di questo governo
che la casa nostra, dimostrando che per nostra cagione voi
ingiuriate immeritamente i cittadini vostri.
Il che è discosto al tutto da ogni verità; perché noi quando
avessimo potuto, e voi quando noi avessimo voluto, non lo aremmo
fatto: perché chi ricercherà bene il vero troverrà la casa
nostra non per altra cagione con tanto consenso essere stata
sempre esaltata da voi, se non perché la si è sforzata, con la
umanità, liberalità, con i beneficii, vincere ciascuno.
Se noi abbiamo adunque onorati gli strani, come aremmo noi
ingiuriati i parenti? Se si sono mossi a questo per desiderio di
dominare, come dimostra lo occupare il Palagio, venire con gli
armati in Piazza, quanto questa cagione sia brutta, ambiziosa e
dannabile, da se stessa si scuopre e si condanna; se lo hanno
fatto per odio e invidia avevano alla autorità nostra, eglino
offendono voi, non noi, avendocela voi data.
E veramente quelle autoritadi meritono di essere odiate che gli
uomini si usurpano, non quelle che gli uomini per liberalità,
umanità e munificenza si guadagnano.
E voi sapete che mai la casa nostra salse a grado alcuno di
grandezza, che da questo Palagio e dallo unito consenso vostro
non vi fusse spinta: non tornò Cosimo mio avolo dallo esilio con
le armi e per violenza, ma con il consenso e unione vostra, mio
padre, vecchio e infermo, non difese già lui contro a tanti
nimici lo stato, ma voi con l'autorità e benivolenza vostra lo
difendesti; non arei io, dopo la morte di mio padre, sendo ancora,
si può dire, un fanciullo, mantenuto il grado della casa mia, se
non fussero stati i consigli e favori vostri; non arebbe potuto
né potrebbe reggere la mia casa questa republica, se voi,
insieme con lei, non l'avessi retta e reggesse.
Non so io adunque qual cagione di odio si possa essere il loro
contro di noi, o quale giusta cagione di invidia: portino odio
agli loro antenati, i quali, con la superbia e con la avarizia,
si hanno tolta quella reputazione che i nostri si hanno saputa,
con studi a quegli contrari, guadagnare.
Ma concediamo che le ingiurie fatte a loro da noi sieno grandi, e
che meritamente eglino desiderassero la rovina nostra: perché
venire ad offendere questo Palagio? perché fare lega con il Papa
e con il Re contro alla libertà di questa republica? perché
rompere la lunga pace di Italia? A questo non hanno eglino scusa
alcuna; perché dovevono offendere chi offendeva loro, e non
confundere le inimicizie private con le ingiurie publiche; il che
fa che, spenti loro, il male nostro è più vivo, venendoci, alle
loro cagioni, il Papa e il Re a trovare con le armi: la qual
guerra affermano fare a me e alla casa mia.
Il che Dio volessi che fusse il vero, perché i rimedi sarebbono
presti e certi, né io sarei sì cattivo cittadino che io
stimasse più la salute mia che i pericoli vostri; anzi
volentieri spegnerei lo incendio vostro con la rovina mia.
Ma perché sempre le ingiurie che i potenti fanno con qualche
meno disonesto colore le ricuoprono, eglino hanno preso questo
modo a ricoprire questa disonesta ingiuria loro.
Pure non di meno, quando voi credessi altrimenti, io sono nelle
braccia vostre: voi mi avete a reggere o lasciare; voi miei padri,
voi miei defensori; e quanto da voi mi sarà commesso che io
faccia, sempre farò volentieri; né ricuserò mai, quando così
a voi paia, questa guerra con il sangue del mio fratello
cominciata, di finirla col mio.
- Non potevono i cittadini, mentre che Lorenzo parlava, tenere le
lagrime; e con quella pietà che fu udito, gli fu da uno di
quegli, a chi gli altri commissono, risposto; dicendogli che
quella città ricognosceva tanti meriti da lui e dai suoi, che
gli stesse di buono animo, ché con quella prontezza ch'eglino
avevono vendicata del fratello la morte, e di lui conservata la
vita, gli conserverebbono la reputazione e lo stato; né prima
perderebbe quello, che loro la patria perdessero.
E perché le opere corrispondessero alle parole, alla custodia
del corpo suo di certo numero di armati publicamente providono,
acciò che dalle domestiche insidie lo defendessero.
11
Di poi si
prese modo alla guerra, mettendo insieme genti e danari in quella
somma poterono maggiore.
Mandorono per aiuti, per virtù della lega, al duca di Milano e a'
Viniziani; e poi che il Papa si era dimostro lupo e non pastore,
per non essere come colpevoli devorati, con tutti quelli modi
potevono la causa loro giustificavano, e tutta la Italia del
tradimento fatto contro allo stato loro riempierono, mostrando la
impietà del Pontefice e la ingiustizia sua; e come quello
pontificato che gli aveva male occupato, male esercitava; poi che
gli aveva mandato quelli che alle prime prelature aveva tratti,
in compagnia di traditori e parricidi, a commettere tanto
tradimento in nel tempio, nel mezzo del divino officio, nella
celebrazione del Sacramento; e da poi, perché non gli era
successo ammazzare i cittadini, mutare lo stato della loro città
e quella a suo modo saccheggiare, la interdiceva e con le
pontificali maledizioni la minacciava e offendeva.
Ma se Dio era giusto, se a Lui le violenzie dispiacevono, gli
dovevono quelle di questo suo vicario dispiacere; ed essere
contento che gli uomini offesi, non trovando presso a quello
luogo, ricorressero a Lui.
Per tanto, non che i Fiorentini ricevessero lo interdetto e a
quello ubbidissero, ma sforzorono i sacerdoti a celebrare il
divino oficio, feciono un concilio, in Firenze, di tutti i
prelati toscani che allo imperio loro ubbidivono, nel quale
appellorono delle ingiurie del Pontefice al futuro Concilio.
Non mancavano ancora al Papa ragioni da giustificare la causa sua;
e per ciò allegava appartenersi ad uno pontefice spegnere le
tirannide, opprimere i cattivi, esaltare i buoni; le quali cose
ei debbe con ogni opportuno rimedio fare; ma che non è già l'uficio
de' principi seculari detinere i cardinali, impiccare i vescovi,
ammazzare, smembrare e strascinare i sacerdoti, gli innocenti e i
nocenti sanza alcuna differenzia uccidere.
12
Non di
meno, intra tante querele e accuse, i Fiorentini il Cardinale, ch'eglino
avieno in mano, al Pontefice restituirono; il che fece che il
Papa, sanza rispetto, con tutte le forze sue e del Re gli assalì.
Ed entrati gli duoi eserciti, sotto Alfonso primogenito di
Ferrando e duca di Calavria, e al governo di Federigo conte di
Urbino, nel Chianti per la via de' Sanesi, i quali dalle parti
inimiche erano, occuporono Radda e più altre castella, e tutto
il paese predorono; di poi andorono con il campo alla Castellina.
I Fiorentini, veduti questi assalti, erano in grande timore, per
essere sanza gente e vedere gli aiuti degli amici lenti; perché,
non ostante che il Duca mandasse soccorso, i Viniziani avevono
negato essere obligati aiutare i Fiorentini nelle cause private,
perché, sendo la guerra fatta a privati, non erano obligati in
quella a suvvenirli, perché le inimicizie particulari non si
avevono publicamente a defendere.
Di modo che i Fiorentini, per disporre i Viniziani a più sana
opinione, mandorono oratore a quel senato messer Tommaso Soderini;
e in quel mentre soldorono gente, e feciono capitano de' loro
eserciti Ercule marchese di Ferrara.
Mentre che queste preparazioni si facevano, lo esercito nimico
strinse in modo la Castellina, che quegli terrieri, desperati del
soccorso, si dierono, dopo quaranta giorni che eglino avieno
sopportata la obsidione.
Di quivi si volsono i nimici verso Arezzo, e campeggiorono il
Monte a San Sovino.
Era di già l'esercito fiorentino ad ordine, e andato alla volta
de' nimici, s'era posto propinquo a quelli a tre miglia, e dava
loro tanta incommodità che Federigo d'Urbino domandò per alcuni
giorni tregua.
La quale gli fu conceduta con tanto disavvantaggio de' Fiorentini,
che quegli che la dimandavono di averla impetrata si
maravigliorono; perché, non la ottenendo, erano necessitati
partirsi con vergogna; ma avuti quelli giorni di commodità a
riordinarsi, passato il tempo della tregua, sopra la fronte delle
genti nostre quel castello occuporono.
Ma essendo già venuto il verno, i nimici, per ridursi a vernare
in luoghi commodi, dentro nel Sanese si ritirorono. Ridussonsi
ancora le genti fiorentine nelli alloggiamenti più commodi; e il
marchese di Ferrara, avendo fatto poco profitto a sé e meno ad
altri, se ne tornò nel suo stato.
13
In questi
tempi Genova si ribellò dallo stato di Milano per queste cagioni:
poi che fu morto Galeazzo, e restato Giovan Galeazzo suo
figliuolo, di età inabile al governo, nacque dissensione intra
Sforza, Lodovico e Ottaviano e Ascanio suoi zii, e madonna Bona
sua madre, perché ciascuno di essi voleva prendere la cura del
piccolo Duca.
Nella quale contenzione madonna Bona, vecchia duchessa, per il
consiglio di messer Tommaso Soderini, allora per i Fiorentini in
quello stato oratore, e di messer Cecco Simonetta, stato
secretario di Galeazzo, restò superiore.
Donde che, fuggendosi gli Sforzeschi di Milano, Ottaviano nel
passare l'Adda affogò, e gli altri furono in varii luoghi
confinati insieme con il signore Ruberto da San Severino, il
quale in quegli travagli aveva lasciata la Duchessa e accostatosi
a loro.
Sendo di poi seguiti i tumulti di Toscana, quegli principi,
sperando per gli nuovi accidenti potere trovare nuova fortuna,
ruppono i confini, e ciascuno di loro tentava cose nuove per
ritornare nello stato suo.
Il re Ferrando, che vedeva che i Fiorentini solamente, nelle loro
necessità, erano stati dallo stato di Milano soccorsi, per torre
loro ancora quegli aiuti, ordinò di dare tanto che pensare alla
Duchessa nello stato suo, che agli aiuti de' Fiorentini provedere
non potesse, e per il mezzo di Prospero Adorno e del signore
Ruberto e rebelli sforzeschi, fece ribellare Genova dal Duca.
Restava solo nella potestà sua il Castelletto, sotto la speranza
del quale la Duchessa mandò assai genti per recuperare la città,
e vi furono rotte, tal che, veduto il pericolo che poteva
soprastare allo stato del figliuolo e a lei, se quella guerra
durava, sendo la Toscana sottosopra e i Fiorentini, in chi ella
solo sperava, afflitti, deliberò, poi che la non poteva avere
Genova come subietta, averla come amica; e convenne con Batistino
Fregoso, nimico di Prospero Adorno, di dargli il Castelletto e
farlo in Genova principe, pure che ne cacciasse Prospero e a'
ribelli sforzeschi non facesse favore.
Dopo la quale conclusione, Batistino, con lo aiuto del castello e
della parte, s'insignorì di Genova, e se ne fece, secondo il
costume loro, doge; tanto che gli Sforzeschi e il signore Ruberto,
cacciati del Genovese, con quelle genti che li seguirono ne
vennono in Lunigiana.
Donde che il Papa e il Re, veduto come e travagli di Lombardia
erano posati, presono occasione da questi cacciati da Genova a
turbare la Toscana di verso Pisa, acciò che i Fiorentini,
dividendo le loro forze, indebolissero; e per ciò operorono,
sendo già passato il verno, che il signore Ruberto si partisse
con le sue genti di Lunigiana, e il paese pisano assalisse.
Mosse adunque il signor Ruberto uno tumulto grandissimo, e molte
castella del Pisano saccheggiò e prese, e infino alla città di
Pisa predando corse.
14
Vennono,
in questi tempi, a Firenze oratori dello Imperadore e del re di
Francia e del re d'Ungheria, i quali dai loro principi erano
mandati al Pontefice, i quali persuasono a' Fiorentini mandassero
oratori al Papa, promettendo fare ogni opera con quello, che con
una ottima pace si ponesse fine a questa guerra.
Non recusorono i Fiorentini di fare questa esperienza, per essere
apresso qualunque escusati, come per la parte loro amavano la
pace.
Andati adunque gli oratori, sanza alcuna conclusione tornorono.
Onde che i Fiorentini, per onorarsi della reputazione del re di
Francia poi che dagli Italiani erano parte offesi parte
abbandonati, mandorono oratore a quel re Donato Acciaiuoli, uomo
delle greche e latine lettere studiosissimo, di cui sempre gli
antenati hanno tenuti gradi grandi nella città.
Ma nel cammino, sendo arrivato a Milano, morì; onde che la
patria, per remunerare chi era rimaso di lui e per onorare la sua
memoria, con publiche spese onoratissimamente lo seppellì, e a'
figliuoli esenzione, e alle figliuole dote conveniente a
maritarle concesse; e in suo luogo, per oratore al Re, messer
Guid'Antonio Vespucci, uomo delle imperiali e pontificie lettere
peritissimo, mandò.
Lo assalto fatto dal signore Ruberto nel paese di Pisa turbò
assai, come fanno le cose inaspettate, i Fiorentini; perché,
avendo da la parte di Siena una gravissima guerra, non vedevano
come si potere a' luoghi di verso Pisa provedere; pure, con
comandati e altre simili provisioni, alla città di Pisa
soccorsono.
E per tenere i Lucchesi in fede, acciò che o danari o viveri al
nimico non sumministrassero, Piero di Gino di Neri Capponi
ambasciadore vi mandorono; il quale fu da loro con tanto sospetto
ricevuto, per l'odio che quella città tiene con il popolo di
Firenze, nato da le antiche ingiurie e dal continuo timore, che
portò molte volte pericolo di non vi essere popolarmente morto:
tanto che questa sua andata dette cagione a nuovi sdegni, più
tosto che a nuova unione.
Rivocorono i Fiorentini il marchese di Ferrara, soldorono il
marchese di Mantova, e con instanzia grande richiesono a'
Viniziani il conte Carlo, figliuolo di Braccio, e Deifebo,
figliuolo del conte Iacopo, i quali furono alla fine, dopo molte
gavillazioni, da' Viniziani conceduti; perché, avendo fatto
tregua con il Turco, e per ciò non avendo scusa che gli
ricoprissi, a non osservare la fede della lega si vergognorono.
Vennono per tanto il conte Carlo e Deifebo con buono numero di
genti d'arme; e messe insieme, con quelle, tutte le genti d'arme
che poterono spiccare dallo esercito che sotto il marchese di
Ferrara alle genti del duca di Calavria era opposto, se ne
andorono inverso Pisa per trovare il signore Ruberto, il quale
con le sue genti si trovava propinquo al fiume del Serchio.
E benché gli avesse fatto sembiante di volere aspettare le genti
nostre, non di meno non le aspettò, ma ritirossi in Lunigiana,
in quelli alloggiamenti donde si era, quando entrò nel paese di
Pisa, partito.
Dopo la cui partita furono dal conte Carlo tutte quelle terre
recuperate che dai nimici nel paese di Pisa erano state prese.
15
Liberati
i Fiorentini dagli assalti di verso Pisa, feciono tutte le genti
loro infra Colle e San Gimignano ridurre.
Ma sendo in quello esercito, per la venuta del conte Carlo,
Sforzeschi e Bracceschi, subito si risentirono le antiche
nimicizie loro; e si credeva, quando avessero ad essere
lungamente insieme, che fussero venuti alle armi.
Tanto che, per minore male, si deliberò di dividere le genti, e
una parte di quelle, sotto il conte Carlo, mandare nel Perugino,
un'altra parte fermare a Poggibonzi, dove facessero uno
alloggiamento forte, da potere tenere i nimici, che non
entrassero nel Fiorentino. Stimorono, per questo partito,
constrignere ancora i nimici a dividere le genti; perché
credevono, o che il conte Carlo occuperebbe Perugia, dove
pensavano avesse assai partigiani, o che il Papa fusse
necessitato mandarvi grossa gente per difenderla. Ordinorono
oltra di questo, per condurre il Papa in maggiore necessità, che
messer Niccolò Vitelli, uscito di Città di Castello, dove era
capo messer Lorenzo suo nimico, con gente si appressasse alla
terra, per fare forza di cacciarne lo avversario e levarla dalla
ubbidienza del Papa.
Parve, in questi principii, che la fortuna volesse favorire le
cose fiorentine; perché e' si vedeva il conte Carlo fare nel
Perugino progressi grandi; messer Niccolò Vitelli, ancora che
non gli fusse riuscito entrare in Castello, era con le sue genti
superiore in campagna, e d'intorno alla città sanza opposizione
alcuna predava; così ancora le genti che erano restate a
Poggibonzi ogni dì correvano alle mura di Siena: non di meno,
alla fine, tutte queste speranze tornorono vane.
In prima morì il conte Carlo, nel mezzo della speranza delle sue
vittorie.
La cui morte ancora migliorò le condizioni de' Fiorentini, se la
vittoria che da quella nacque si fusse saputa usare, perché,
intesasi la morte del Conte, subito le genti della Chiesa, che
erano di già tutte insieme a Perugia, presono speranza di potere
opprimere le genti fiorentine; e uscite in campagna, posono il
loro alloggiamento sopra il Lago propinquo a' nimici a tre miglia.
Dall'altra parte Iacopo Guicciardini, il quale si trovava di
quello esercito commissario, con il consiglio del magnifico
Ruberto da Rimine, il quale, morto il conte Carlo, era rimaso il
primo e più reputato di quello esercito, cognosciuta la cagione
dell'orgoglio de' nimici, deliberorono aspettargli, tal che,
venuti alle mani accanto al Lago, dove già Annibale cartaginese
dette quella memorabile rotta a' Romani, furono le genti della
Chiesa rotte.
La quale vittoria fu ricevuta in Firenze con laude de' capi e
piacere di ciascuno, e sarebbe stata con onore e utile di quella
impresa, se i disordini che nacquono nello esercito che si
trovava a Poggibonzi non avessero ogni cosa perturbato.
E così il bene che fece l'uno esercito fu dall'altro interamente
destrutto: perché, avendo quelle genti fatto preda sopra il
Sanese, venne, nella divisione di essa, differenza intra il
marchese di Ferrara e quello di Mantova; tal che, venuti alle
armi, con ogni qualità di offesa si assalirono; e fu tale che,
giudicando i Fiorentini non si potere più d'ambeduoi valere, si
consentì che il marchese di Ferrara con le sue genti se ne
tornasse a casa.
16
Indebolito
adunque quello esercito, e rimaso sanza capo, e governandosi in
ogni parte disordinatamente, il duca di Calavria, che si trovava
con lo esercito suo propinquo a Siena, prese animo di venirli a
trovare, e così fatto come pensato, le genti fiorentine,
veggendosi assalire, non nelle armi, non nella moltitudine, che
erano al nimico superiori non nel sito dove erano, che era
fortissimo, confidarono, ma sanza aspettare non che altro di
vedere il nimico, alla vista della polvere si fuggirono, e a'
nimici le munizioni, i carriaggi e l'artiglierie lasciorono: di
tanta poltroneria e disordine erano allora quelli eserciti
ripieni, che nel voltare uno cavallo o la testa o la groppa dava
la perdita o la vittoria d'una impresa. Riempié questa rotta i
soldati del Re di preda, e i Fiorentini di spavento; perché, non
solo la città loro si trovava dalla guerra, ma ancora da una
pestilenza gravissima afflitta; la quale aveva in modo occupata
la città, che tutti i cittadini, per fuggire la morte, per le
loro ville si erano ritirati.
Questo fece ancora questa rotta più spaventevole; perché quelli
cittadini che per la Val di Pesa e per la Val d'Elsa avevono le
loro possessioni, sendosi ridutti in quelle, seguita la rotta,
subito, come meglio poterono, non solamente con i figliuoli e
robe loro, ma con i loro lavoratori, a Firenze corsono: tal che
pareva che si dubitasse che ad ogni ora il nimico alla città si
potesse presentare.
Quegli che alla cura della guerra erano preposti, veggendo questo
disordine, comandorono alle genti che erano state nel Perugino
vittoriose che, lasciata la impresa contro a' Perugini, venissero
in Val d'Elsa per opporsi al nimico, il quale, dopo la vittoria,
sanza alcuno contrasto scorreva il paese.
E benché quelle avessero stretta in modo la città di Perugia,
che ad ogni ora se ne aspettasse la vittoria, non di meno vollono
i Fiorentini prima difendere il loro, che cercare di occupare
quello d'altri: tanto che quello esercito, levato dai suoi felici
successi, fu condotto a San Casciano, castello propinquo a
Firenze a otto miglia, giudicando non si potere altrove fare
testa, infino a tanto che le reliquie dello esercito rotto
fussero insieme.
I nimici dall'altra parte, quegli che erano a Perugia, liberi per
la partita delle genti fiorentine, divenuti audaci, grandi prede
nello Aretino e nel Cortonese ciascuno giorno facevano; e quegli
altri, che sotto Alfonso duca di Calavria avevano a Poggibonzi
vinto, si erano di Poggibonzi prima, e di Vico di poi insignoriti,
e Certaldo messo a sacco; e fatte queste espugnazioni e prede,
andorono con il campo al castello di Colle, il quale in quegli
tempi era stimato fortissimo, e avendo gli uomini allo stato di
Firenze fedeli, potette tenere tanto a bada il nimico, che si
fussero ridutte le genti insieme.
Avendo adunque i Fiorentini raccozzate le genti tutte a San
Casciano, ed espugnando i nimici con ogni forza Colle,
deliberorono di appressarsi a quelli, e dare animo a' Colligiani
a defendersi.
E perché i nimici avessero più respetto ad offendergli, avendo
gli avversarii propinqui, fatta questa deliberazione, levorono il
campo da San Casciano e posonlo a San Gimignano, propinquo a
cinque miglia a Colle, donde con i cavalli leggieri e con altri
più espediti soldati ciascuno dì il campo del Duca molestavano.
Non di meno a' Colligiani non era sufficiente questo soccorso,
per che, mancando delle loro cose necessarie, a dì 13 di
novembre si dierono, con dispiacere de' Fiorentini e con massima
letizia de' nimici, e massimamente de' Sanesi, i quali oltre al
comune odio che portono alla città di Firenze, lo avevano con i
Colligiani particulare.
17
Era di
già il verno grande, e i tempi sinistri alla guerra, tanto che
il Papa e il Re, mossi, o da volere dare speranza di pace, o da
volere godersi le vittorie avute più pacificamente, offersono
tregua a' Fiorentini per tre mesi, e dierono dieci giorni tempo
alla risposta; la quale fu accettata subito.
Ma come avviene a ciascuno, che più le ferite, raffreddi che
sono i sangui, si sentono, che quando le si ricevono, questo
breve riposo fece cognoscere più a' Fiorentini i sostenuti
affanni.
E i cittadini, liberamente e sanza rispetto, accusavano l'uno l'altro,
e manifestavano gli errori nella guerra commessi: mostravano le
spese invano fatte, le gravezze ingiustamente poste; le quali
cose, non solamente ne' circuli, intra i privati, ma ne' consigli
publici animosamente parlavano.
E prese tanto ardire alcuno, che, voltosi a Lorenzo de' Medici,
gli disse: - Questa città è stracca, e non vuole più guerra; -
e per ciò era necessario che pensasse alla pace.
Onde che Lorenzo, cognosciuta questa necessità, si ristrinse con
quegli amici che pensava più fedeli e più savi, e prima
conclusono, veggendo i Viniziani freddi e poco fedeli, il Duca
pupillo e nelle civili discordie implicato, che fusse da cercare
con nuovi amici nuova fortuna; ma stavano dubi nelle cui braccia
fusse da rimettersi, o del Papa o del Re.
Ed esaminato tutto, approvorono l'amicizia del Re, come più
stabile e più secura: perché la brevità della vita de' papi,
la variazione della successione, il poco timore che la Chiesa ha
de' principi, i pochi rispetti che la ha nel prendere i partiti,
fa che uno principe seculare non può in uno pontefice
interamente confidare, né può securamente accomunare la fortuna
sua con quello; perché chi è, nelle guerre e pericoli, del papa
amico, sarà nelle vittorie accompagnato e nelle rovine solo,
sendo il pontefice dalla spirituale potenza e reputazione
sostenuto e difeso.
Deliberato adunque che fusse a maggiore profitto guadagnarsi il
Re, giudicorono non si potere fare meglio né con più certezza
che con la presenza di Lorenzo; perché, quanto più con quello
re si usasse liberalità, tanto più credevano potere trovare
remedi alle nimicizie passate.
Avendo per tanto Lorenzo fermo lo animo a questa andata,
raccomandò la città e lo stato a messer Tommaso Soderini, che
era in quel tempo gonfaloniere di giustizia, e al principio di
decembre partì di Firenze, e arrivato a Pisa, scrisse alla
Signoria la cagione della sua partita. E quelli signori, per
onorarlo, e perché e' potesse trattare con più reputazione la
pace con il Re, lo feciono oratore per il popolo fiorentino, e
gli dettono autorità di collegarsi con quello, come a lui
paresse meglio per la sua republica.
18
In questi
medesimi tempi il signore Ruberto da San Severino, insieme con
Lodovico e Ascanio, perché Sforza loro fratello era morto,
riassalirono di nuovo lo stato di Milano per tornare nel governo
di quello; e avendo occupata Tortona, ed essendo Milano e tutto
quello stato in arme, la duchessa Bona fu consigliata ripatriasse
gli Sforzeschi, e per levare via queste civili contese, gli
ricevesse in stato.
Il principe di questo consiglio fu Antonio Tassino ferrarese, il
quale, nato di vile condizione, venuto a Milano, pervenne alle
mani del duca Galeazzo, e alla duchessa sua donna per cameriere
lo concesse.
Questi, o per essere bello di corpo, o per altra sua segreta
virtù, dopo la morte del Duca salì in tanta reputazione apresso
alla Duchessa, che quasi lo stato governava; il che dispiaceva
assai a messer Cecco, uomo per prudenza e per lunga pratica
eccellentissimo; tanto che, in quelle cose poteva, e con la
Duchessa e con gli altri del governo, di diminuire l'autorità
del Tassino s'ingegnava.
Di che accorgendosi quello, per vendicarsi delle ingiurie, e per
avere apresso chi da messer Cecco lo defendesse, confortò la
Duchessa a ripatriare gli Sforzeschi; la quale, seguitando i suoi
consigli, sanza conferirne cosa alcuna con messer Cecco, gli
ripatriò: donde che quello le disse: - Tu hai preso uno partito
il quale torrà a me la vita e a te lo stato.
- Le quali cose poco di poi intervennono, perché messer Cecco fu
da il signore Lodovico fatto morire, ed essendo, dopo alcun tempo,
stato cacciato del ducato il Tassino, la Duchessa ne prese tanto
sdegno, che la si partì di Milano e renunziò nelle mani di
Lodovico il governo del figliuolo.
Restato adunque Lodovico solo governatore del ducato di Milano,
fu, come si dimosterrà, cagione della rovina di Italia.
Era partito Lorenzo de' Medici per a Napoli, e la tregua intra le
parti vegghiava, quando, fuora di ogni espettazione, Lodovico
Fregoso, avuta certa intelligenza con alcuno Serezanese, di furto
entrò con armati in Serezana, e quella terra occupò, e quello
che vi era per il popolo fiorentino prese prigione.
Questo accidente dette grande dispiacere a' principi dello stato
di Firenze, perché si persuadevano che tutto fusse seguito con
ordine del re Ferrando.
E si dolfono con il duca di Calavria, che era con lo esercito a
Siena, di essere, durante la tregua, con nuova guerra assaliti;
il quale fece ogni demostrazione, e con lettere e con ambasciate,
che tale cosa fusse nata sanza consentimento del padre o suo.
Pareva non di meno a' Fiorentini essere in pessime condizioni,
vedendosi voti di danari, il capo della republica nelle mani del
Re, e avere una guerra antica con il Re e con il Papa e una nuova
con i Genovesi, ed essere sanza amici; perché ne' Viniziani non
speravano, e del governo di Milano più tosto temevano, per
essere vario e instabile. Solo restava a' Fiorentini una speranza,
di quello che avesse Lorenzo de' Medici a trattare con il Re.
19
Era
Lorenzo, per mare, arrivato a Napoli; dove, non solamente da il
Re, ma da tutta quella città fu ricevuto onoratamente e con
grande espettazione, perché essendo nata tanta guerra solo per
opprimerlo, la grandezza degli inimici che gli aveva avuti lo
aveva fatto grandissimo.
Ma arrivato alla presenza del Re, e' disputò in modo delle
condizioni di Italia, degli umori de' principi e popoli di quella,
e quello che si poteva sperare nella pace e temere nella guerra,
che quel re si maravigliò più, poi che l'ebbe udito, della
grandezza dello animo suo e della destrezza dello ingegno e
gravità del iudizio, che non si era prima dello avere egli solo
potuto sostenere tanta guerra maravigliato; tanto che gli
raddoppiò gli onori, e cominciò a pensare come più tosto e' lo
avesse a lasciare amico che a tenerlo nimico.
Non di meno, con varie cagioni, dal dicembre al marzo lo
intrattenne, per fare non solamente di lui duplicata sperienza,
ma della città: perché non mancavano a Lorenzo, in Firenze,
nimici che arebbono avuto desiderio che il Re lo avesse ritenuto
e come Iacopo Piccinino trattato; e sotto ombra di dolersene, per
tutta la città ne parlavano, e nelle deliberazioni publiche a
quello che fusse in favore di Lorenzo si opponevano.
E avevano con questi loro modi sparta fama che, se il Re lo
avesse molto tempo tenuto a Napoli, che in Firenze si muterebbe
governo.
Il che fece che il Re soprasedé lo espedirlo quel tempo, per
vedere se in Firenze nasceva tumulto alcuno.
Ma veduto come le cose passavano quiete, a dì 6 di marzo, nel
1479, lo licenziò; e prima con ogni generazione di beneficio e
dimostrazione di amore se lo guadagnò; e infra loro nacque
accordi perpetui a conservazione de' comuni stati.
Tornò per tanto Lorenzo in Firenze grandissimo, s'egli se n'era
partito grande; e fu con quella allegrezza da la città ricevuto,
che le sue grandi qualità e i freschi meriti meritavano, avendo
esposto la propria vita per rendere alla patria sua la pace.
Perché, duoi giorni dopo l'arrivata sua, si publicò lo accordo
fatto infra la republica di Firenze e il Re: per il quale si
obligavano ciascuno alla conservazione de' comuni stati; e delle
terre tolte nella guerra a' Fiorentini fusse in arbitrio del Re
il restituirle; e che i Pazzi posti nella torre di Volterra si
liberassero; e al Duca di Calavria, per certo tempo, certe
quantità di danari si pagassero.
Questa pace, subito che fu publicata, riempié di sdegno il Papa
e i Viniziani: perché al Papa pareva essere stato poco stimato
da il Re, e i Viniziani da' Fiorentini; ché, sendo stati l'uno e
l'altro compagni nella guerra, si dolevano non avere parte nella
pace.
Questa indegnazione, intesa e creduta a Firenze, subito dette a
ciascheduno sospetto che da questa pace fatta non nascesse
maggiore guerra: in modo che i principi dello stato deliberorono
di ristrignere il governo, e che le deliberazioni importanti si
riducessero in minore numero; e feciono un consiglio di settanta
cittadini, con quella autorità gli poterono dare maggiore nelle
azioni principali.
Questo nuovo ordine fece fermare l'animo a quelli che volessero
cercare nuove cose.
E per darsi reputazione, prima che ogni cosa, accettorono la pace
fatta da Lorenzo con il Re, destinorono oratori al Papa e a
quello messer Antonio Ridolfi e Piero Nasi.
Non di meno non ostante questa pace, Alfonso duca di Calavria non
si partiva con lo esercito da Siena, mostrando essere ritenuto
dalle discordie di quegli cittadini; le quali furono tante che,
dove gli era alloggiato fuora della città, lo ridussero in
quella e lo ferono arbitro delle differenze loro.
Il Duca, presa questa occasione molti di quegli cittadini punì
in danari, molti ne giudicò alle carcere, molti allo esilio, e
alcuni alla morte: tanto che, con questi modi, egli diventò
sospetto, non solamente a' Sanesi, ma a' Fiorentini, che non si
volesse di quella città fare principe.
Né vi si cognosceva alcuno rimedio, trovandosi la città in
nuova amicizia con il Re, e al Papa e a' Viniziani nimica.
La qual suspizione, non solamente nel popolo universale di
Firenze, sottile interpetre di tutte le cose, ma in ne' principi
dello stato appariva; e afferma ciascuno la città nostra non
essere mai stata in tanto pericolo di perdere la libertà.
Ma Iddio, che sempre in simili estremità ha di quella avuta
particulare cura, fece nascere uno accidente insperato, il quale
dette al Re, al Papa e a' Viniziani maggiori pensieri che quelli
di Toscana.
20
Era
Maumetto gran Turco andato con un grandissimo esercito a campo a
Rodi, e quello aveva per molti mesi combattuto; non di meno,
ancora che le forze sue fussero grandi, e la ostinazione nella
espugnazione di quella terra grandissima, la trovò maggiore
nelli assediati; i quali con tanta virtù da tanto impeto si
defesono, che Maumetto fu forzato da quello assedio partirsi con
vergogna.
Partito per tanto da Rodi, parte della sua armata, sotto
Iacometto bascià, se ne venne verso la Velona; e o che quello
vedesse la facilità della impresa, o che pure il signore gliele
comandasse, nel costeggiare la Italia pose, in un tratto, quattro
mila soldati in terra; e assaltata la città di Otranto, subito
la prese e saccheggiò; e tutti gli abitatori di quella ammazzò.
Di poi, con quelli modi gli occorsono migliori, e dentro in
quella e nel porto si affortificò; e riduttovi buona cavalleria,
il paese circunstante correva e predava. Veduto il Re questo
assalto, e conosciuto di quanto principe ella fusse impresa,
mandò per tutto nunzi a significarlo, e a domandare contro al
comune nimico aiuti e con grande instanzia revocò il duca di
Calavria e le sue genti che erano a Siena.
21
Questo
assalto, quanto egli perturbò il Duca e il resto di Italia,
tanto rallegrò Firenze e Siena, parendo a questa di avere
riavuta la sua libertà, e a quella di essere uscita di quelli
pericoli che gli facieno temere di perderla.
La quale opinione accrebbono le doglienze che il Duca fece nel
partire da Siena, accusando la fortuna, che, con uno insperato e
non ragionevole accidente, gli aveva tolto lo imperio di Toscana.
Questo medesimo caso fece al Papa mutare consiglio; e dove prima
non aveva mai voluto ascoltare alcuno oratore fiorentino,
diventò in tanto più mite che gli udiva qualunque della
universale pace gli ragionava: tanto che i Fiorentini furono
certificati che, quando s'inclinassero a domandare perdono al
Papa, che lo troverebbono.
Non parve adunque di lasciare passare questa occasione; e
mandorono al Pontefice dodici ambasciadori; i quali, poi che
furono arrivati a Roma, il Papa, con diverse pratiche, prima che
desse loro audienza gli intrattenne. Pure, alla fine, si fermò
intra le parti come per lo avvenire si avesse a vivere, e quanto
nella pace e quanto nella guerra per ciascuna di esse a
contribuire.
Vennono di poi gli ambasciadori a' piedi del Pontefice, il quale,
in mezzo dei suoi cardinali, con eccessiva pompa gli aspettava.
Escusorono costoro le cose seguite, ora accusandone la necessità,
ora la malignità d'altri, ora il furore popolare e la giusta ira
sua; e come quelli sono infelici, che sono forzati o combattere o
morire.
E perché ogni cosa si doveva sopportare per fuggire la morte,
avevono sopportato la guerra, gli interdetti, e le altre
incommodità che si erano tirate dietro le passate cose, perché
la loro republica fuggisse la servitù, la quale, suole essere la
morte delle città libere.
Non di meno, se, ancora che forzati, avessero commesso alcuno
fallo, erano per tornare a menda; e confidavano nella clemenza
sua, la quale, ad esemplo del Sommo Redentore, sarà per
riceverli nelle sue pietosissime braccia. Alle quali scuse il
Papa rispose con parole piene di superbia e di ira, rimproverando
loro tutto quello che ne' passati tempi avevono contro alla
Chiesa commesso: non di meno, per conservare i precetti di Dio,
era contento concedere loro quel perdono che domandavano; ma che
faceva loro intendere come eglino avieno ad ubbidire; e quando
eglino rompessero l'ubbidienza, quella libertà che sono stati
per perdere ora, e' perderebbono poi, e giustamente; perché
coloro sono meritamente liberi, che nelle buone, non nelle
cattive opere si esercitano; perché la libertà male usata
offende se stessa e altri; e potere stimare poco Iddio e meno la
Chiesa non è oficio di uomo libero, ma di sciolto e più al male
che al bene inclinato; la cui correzione non solo a' principi, ma
a qualunque cristiano appartiene.
Tale che delle cose passate si avevono a dolere di loro, che
avevono con le cattive opere dato cagione alla guerra, e con le
pessime nutritola, la quale si era spenta più per la benignità
d'altri che per i meriti loro.
Lessesi poi la formula dello accordo e della benedizione; alla
quale il Papa aggiunse, fuori delle cose praticate e ferme che,
se i Fiorentini volevono godere il frutto della benedizione,
tenessero armate, di loro danari, quindici galee tutto quel tempo
che il Turco combattesse il Regno.
Dolfonsi assai gli oratori di questo peso, posto sopra allo
accordo fatto; né poterono in alcuna parte, per alcuno mezzo o
favore, e per alcuna doglienza, alleggerirlo.
Ma tornati a Firenze, la Signoria, per fermare questa pace,
mandò oratore al Papa messer Guidantonio Vespucci, che di poco
tempo innanzi era tornato di Francia.
Questi, per la sua prudenza, ridusse ogni cosa a termini
sopportabili, e dal Pontefice molte grazie ottenne; il che fu
segno di maggiore riconciliazione.
22
Avendo
per tanto i Fiorentini ferme le loro cose con il Papa, ed essendo
libera Siena e loro dalla paura del Re per la partita di Toscana
del duca di Calavria, e seguendo la guerra de' Turchi, strinsono
il Re, per ogni verso, alla restituzione delle loro castella le
quali il duca di Calavria, partendosi, aveva lasciate nelle mani
de' Sanesi. Donde che quel re dubitava che i Fiorentini, in tanta
sua necessità, non si spiccassero da lui, e con il muovere
guerra a' Sanesi gli impedissero gli aiuti che dal Papa e dagli
altri Italiani sperava.
E per ciò fu contento che le si restituissero, e con nuovi
oblighi di nuovo i Fiorentini si obligò: e così la forza e la
necessità, non le scritture e gli oblighi, fa osservare a'
principi la fede.
Ricevute adunque le castella, e ferma questa nuova confederazione,
Lorenzo de' Medici riacquistò quella riputazione che prima la
guerra e di poi la pace, quando del Re si dubitava, gli aveva
tolta: e non mancava, in quelli tempi, chi lo calunniasse
apertamente, dicendo che per salvare sé, egli aveva venduta la
sua patria; e come nella guerra si erano perdute le terre, e
nella pace si perderebbe la libertà.
Ma riavute le terre, e fermo con il Re onorevole accordo, e
ritornata la città nella antica riputazione sua, in Firenze,
città di parlare avida e che le cose dai successi e non dai
consigli giudica, si mutò ragionamento: e celebravasi Lorenzo
infino al cielo; dicendo che la sua prudenza aveva saputo
guadagnarsi nella pace quello che la cattiva fortuna gli aveva
tolto nella guerra; e come gli aveva potuto più il consiglio e
iudizio suo che l'armi e le forze del nimico.
Avevono gli assalti del Turco differita quella guerra la quale,
per lo sdegno che il Papa e i Viniziani avevono preso per la pace
fatta, era per nascere; ma come il principio di quello assalto fu
insperato e cagione di molto bene, così il fine fu inaspettato e
cagione di assai male: perché Maumetto, gran Turco, morì, fuori
di ogni opinione, e venuta intra i figliuoli discordia, quegli
che si trovavano in Puglia, dal loro signore abbandonati,
concessono, d'accordo, Otranto al Re.
Tolta via adunque questa paura, che teneva gli animi del Papa e
de' Viniziani fermi, ciascuno temeva di nuovi tumulti.
Dall'una parte erano in lega Papa e Viniziani; con questi erano
Genovesi, Sanesi e altri minori potenti dall'altra erano
Fiorentini, Re e Duca a' quali si accostavano Bolognesi e molti
altri signori.
Desideravano i Viniziani di insignorirsi di Ferrara; e pareva
loro avere cagione ragionevole alla impresa e speranza certa di
conseguirla.
La cagione era perché il Marchese affermava non essere più
tenuto a ricevere il Visdomine e il sale da loro, sendo, per
convenzione fatta, che, dopo settanta anni dell'uno e dell'altro
carico quella città fusse libera.
Rispondevano dall'altro canto i Viniziani che quanto tempo
riteneva il Pulesine, tanto doveva ricevere il Visdomine e il
sale.
E non ci volendo il Marchese acconsentire, parve a' Viniziani di
avere giusta presa di prendere l'armi, e commodo tempo a farlo,
veggendo il Papa contro a' Fiorentini e il Re pieno di sdegno.
E per guadagnarselo più, sendo ito il conte Girolamo a Vinegia,
fu da loro onoratissimamente ricevuto, e donatogli la città e la
gentiligia loro, segno sempre di onore grandissimo a qualunque la
donano.
Avevano, per essere presti a quella guerra, posti nuovi dazi, e
fatto capitano de' loro eserciti il signor Ruberto da San
Severino, il quale, sdegnato con il signore Lodovico, governatore
di Milano, s'era fuggito a Tortona, e, quivi fatti alcuni tumulti,
andatone a Genova; dove sendo, fu chiamato da' Viniziani e fatto
delle loro armi principe.
23
Queste
preparazioni a nuovi moti, cognosciute dalla lega avversa,
feciono che quella ancora si preparasse alla guerra: e il duca di
Milano per suo capitano elesse Federigo signore di Urbino, i
Fiorentini il signore Gostanzo di Pesero.
E per tentare l'animo del Papa, e chiarirsi se i Viniziani con
suo consentimento movieno guerra a Ferrara, il re Ferrando mandò
Alfonso duca di Calavria con il suo esercito sopra il Tronto, e
domandò passo al Papa, per andare in Lombardia al soccorso del
Marchese; il che gli fu dal Papa al tutto negato.
Tanto che, parendo al Re e a' Fiorentini essere certificati dello
animo suo, deliberorono strignerlo con le forze, acciò che per
necessità egli diventasse loro amico, o almeno darli tanti
impedimenti, che non potesse a' Viniziani porgere aiuti.
Perché già quegli erano in campagna, e avevano mosso guerra al
Marchese, e scorso prima il paese suo, e poi posto lo assedio a
Ficheruolo, castello assai importante allo stato di quel signore.
Avendo per tanto il Re e i Fiorentini deliberato di assalire il
Pontefice Alfonso duca di Calavria scorse verso Roma, e con lo
aiuto de' Colonnesi, che si erano congiunti seco perché gli
Orsini si erano accostati al Papa, faceva assai danni nel paese;
e dall'altra parte le genti fiorentine assalirono, con messer
Niccolò Vitelli, Città di Castello, e quella città occuporono,
e ne cacciorono messer Lorenzo, che per il Papa la teneva, e di
quella feciono come principe messer Niccolò.
Trovavasi per tanto il Papa in massime angustie, perché Roma
drento dalla parte era perturbata, e fuora il paese da' nimici
corso.
Non di meno, come uomo animoso, e che voleva vincere e non cedere
al nimico, condusse per capitano il magnifico Ruberto da Rimine;
e fattolo venire in Roma, dove tutte le sue genti d'arme aveva
ragunate, gli mostrò quanto onore gli sarebbe se, contro alle
forze d'uno Re, egli liberasse la Chiesa da quelli affanni in ne'
quali si trovava, e quanto obligo, non solo egli, ma tutti i suoi
successori arebbono seco; e come, non solo gli uomini, ma Iddio
sarebbe per ricognoscerlo.
Il magnifico Ruberto, considerate prima le genti d'arme del Papa
e tutti gli apparati suoi, lo confortò a fare quanta più
fanteria e' poteva; il che con ogni studio e celerità si misse
ad effetto.
Era il duca di Calavria propinquo a Roma, in modo che ogni giorno
correva e predava infino alle porte della città; la qual cosa
fece in modo indegnare il popolo romano, che molti
voluntariamente s'offersono ad essere con il magnifico Ruberto
alla liberazione di Roma; i quali furono tutti da quello signore
ringraziati e ricevuti.
Il Duca, sentendo questi apparati, si discostò alquanto dalla
città, pensando che, trovandosi discosto, il magnifico Ruberto
non avesse animo ad andarlo a trovare; e parte aspettava Federigo
suo fratello, il quale con nuova gente gli era mandato dal padre.
Il magnifico Ruberto, vedendosi quasi al Duca di gente d'arme
uguale, e di fanterie superiore, uscì instierato di Roma, e pose
uno alloggiamento propinquo a due miglia al nimico.
Il Duca, veggendosi gli avversarii addosso fuori d'ogni sua
opinione, giudicò convenirgli o combattere, o come rotto
fuggirsi; onde che, quasi constretto, per non fare cosa indegna d'un
figliuolo d'un re, deliberò combattere; e volto il viso al
nimico, ciascuno ordinò le sue genti in quel modo che allora
ordinavono, e si condussono alla zuffa, la quale durò infino a
mezzogiorno.
E fu questa giornata combattuta con più virtù che alcuna altra
che fusse stata fatta in cinquanta anni in Italia, perché vi
morì, tra l'una parte e l'altra, più che mille uomini, e il
fine di essa fu per la Chiesa glorioso, perché la moltitudine
delle sue fanterie offesono in modo le cavallerie ducali, che
quello fu constretto a dare la volta, e sarebbe il Duca rimaso
prigione, se da molti Turchi, di quelli che erano stati ad
Otranto e allora militavano seco, non fusse stato salvato.
Avuta il magnifico Ruberto questa vittoria, tornò come
trionfante in Roma.
La quale egli potette godere poco, perché, avendo, per lo
affanno del giorno, bevuta assai acqua, se gli mosse un flusso
che in pochi giorni lo ammazzò.
Il corpo del quale fu da il Papa con ogni qualità di onore
onorato.
Avuta il Pontefice questa vittoria, mandò subito il Conte verso
Città di Castello, per vedere di restituire a messer Lorenzo
quella terra, e parte tentare la città di Rimine; perché, sendo,
dopo la morte del magnifico Ruberto, rimaso di lui, in guardia
della donna, un suo piccolo figliuolo, pensava che gli fusse
facile occupare quella città.
Il che gli sarebbe felicemente succeduto, se quella donna da'
Fiorentini non fusse stata difesa; i quali se gli opposono in
modo con le forze, che non potette né contro a Castello, né
contro a Rimine fare alcuno effetto.
24
Mentre
che queste cose in Romagna e a Roma si travagliavano, i Viniziani
avevano occupato Ficheruolo, e con le genti loro passato il Po, e
il campo del duca di Milano e del Marchese era in disordine,
perché Federigo conte di Urbino si era ammalato, e fattosi
portare per curarsi a Bologna si morì, tale che le cose del
Marchese andavano declinando, e a' Viniziani cresceva ciascun dì
la speranza di occupare Ferrara.
Dall'altra parte, il Re e i Fiorentini facevano ogni opera per
ridurre il Papa alla voglia loro, e non essendo succeduto di
farlo cedere alle armi, lo minacciavano del concilio, il quale
già dallo Imperadore era stato pronunziato per a Basilea; onde
che, per mezzo degli oratori di quello, che si trovavano a Roma,
e de' primi cardinali, i quali la pace desideravano, fu persuaso
e stretto il Papa a pensare alla pace e alla unione di Italia.
Onde che il Pontefice, per timore, e anche per vedere come la
grandezza de' Viniziani era la rovina della Chiesa e di Italia,
si volse allo accordarsi con la lega; e mandò suoi nunzi a
Napoli, dove per cinque anni feciono lega Papa, Re duca di Milano
e Fiorentini, riserbando il luogo a' Viniziani ad accettarla. Il
che seguito fece il Papa intendere a' Viniziani che si
astenessero dalla guerra di Ferrara.
A che i Viniziani non vollono acconsentire; anzi con maggiori
forze si prepararono alla guerra, e avendo rotte le genti del
Duca e del Marchese ad Argenta, si erano in modo appressati a
Ferrara, ch'eglino avieno posti nel parco del Marchese gli
alloggiamenti loro.
25
Onde che
alla lega non parve da differire più di porgere gagliardi aiuti
a quel signore, e feciono passare a Ferrara il duca di Calavria
con le genti sue e con quelle del Papa; e similmente i Fiorentini
tutte le loro genti vi mandorono.
E per meglio dispensare l'ordine della guerra, fece la lega una
dieta a Cremona, dove convenne il legato del Papa con il conte
Girolamo, il duca di Calavria, il signore Lodovico e Lorenzo de'
Medici con molti altri principi italiani; nella quale intra
questi principi si divisorono tutti i modi della futura guerra.
E perché eglino giudicavano che Ferrara non si potesse meglio
soccorrere che con il fare una diversione gagliarda, volevano che
il signore Lodovico acconsentisse a rompere guerra a' Viniziani
per lo stato del duca di Milano; a che quel signore non voleva
acconsentire, dubitando di non si tirare una guerra addosso da
non la potere spegnere a sua posta.
E per ciò si deliberò di fare alto con tutte le genti a Ferrara;
e messo insieme quattro mila uomini d'arme e otto mila fanti,
andorono a trovare i Viniziani, i quali avieno dumiladugento
uomini d'arme e sei mila fanti.
Alla lega parve, la prima cosa, di assalire l'armata che i
Viniziani avieno nel Po; e quella assalita, appresso al Bondeno,
ruppono con perdita di più che dugento legni; dove rimase
prigioniero messer Antonio Iustiniano, provveditore dell'armata.
I Viniziani poi che viddono Italia tutta unita loro contro, per
darsi più reputazione, avieno condotto il duca dello Reno con
dugento uomini d'arme, onde che, avendo ricevuto questo danno
della armata, mandorono quello, con parte del loro esercito, a
tenere a bada il nimico, e il signore Ruberto da San Severino
feciono passare l'Adda con il restante dello esercito loro e
accostarsi a Milano, gridando il nome del Duca e di madonna Bona
sua madre; perché credettono, per questa via, fare novità in
Milano, stimando il signore Lodovico e il governo suo fusse in
quella città odiato.
Questo assalto portò seco, nel principio, assai terrore, e messe
in arme quella città; non di meno partorì fine contrario al
disegno de' Viniziani, perché quello che il signore Lodovico non
aveva voluto acconsentire, questa ingiuria fu cagione che gli
acconsentisse.
E per ciò, lasciato il marchese di Ferrara alla difesa delle
cose sue con quattro mila cavagli e due mila fanti, il duca di
Calavria con dodici mila cavagli e cinque mila fanti entrò nel
Bergamasco, e di quivi nel Bresciano, e di poi nel Veronese; e
quelle tre città, sanza che i Viniziani vi potessero fare alcuno
rimedio, quasi che di tutti i loro contadi spogliò; perché il
signore Ruberto con le sue genti con fatica poteva salvare quelle
città.
Dall'altra banda ancora il marchese di Ferrara aveva ricuperate
gran parte delle cose sue, però che il duca dello Reno, che gli
era allo incontro, non poteva opposergli, non avendo più che due
mila cavagli e mille fanti. E così tutta quella state dell'anno
1483 si combatté felicemente per la lega.
26
Venuta
poi la primavera del seguente anno, perché la vernata era
quietamente trapassata, si ridussono gli eserciti in campagna; e
la lega, per potere con più prestezza opprimere i Viniziani,
aveva messo tutto lo esercito suo insieme.
E facilmente, se la guerra si fusse come l'anno passato mantenuta,
si toglieva a' Viniziani tutto lo stato tenevano in Lombardia;
perché si erano ridutti con sei mila cavagli e cinque mila fanti
e aveno allo incontro tredici mila cavagli e sei mila fanti;
perché il duca dello Reno, fornito l'anno della sua condotta, se
ne era ito a casa.
Ma come avviene spesso dove molti di uguale autorità concorrono,
il più delle volte la disunione loro dà la vittoria al nimico.
Sendo morto Federigo Gonzaga, marchese di Mantova, il quale con
la sua autorità teneva in fede il duca di Calavria e il signore
Lodovico, cominciò fra quegli a nascere dispareri, e da'
dispareri gelosia: perché Giangaleazzo duca di Milano era già
in età da potere prendere il governo del suo stato, e avendo per
moglie la figliuola del duca di Calavria, desiderava quello, che
non Lodovico, ma il genero lo stato governasse. Conoscendo per
tanto Lodovico questo desiderio del Duca, deliberò di torgli la
commodità di esequirlo.
Questo sospetto di Lodovico, cognosciuto dai Viniziani, fu preso
da loro per occasione; e giudicorono potere, come sempre avevono
fatto, vincere con la pace, poi che con la guerra avevono perduto;
e praticato segretamente infra loro e il signore Lodovico lo
accordo, lo agosto del 1484 lo conclusono.
Il quale, come venne a notizia degli altri confederati,
dispiacque assai, massimamente poi che e' viddono come a'
Viniziani si avevono a restituire le terre tolte, e lasciare loro
Rovigo e il Pulesine, ch'eglino avevono al marchese di Ferrara
occupato, e appresso riavere tutte quelle preminenze che sopra
quella città per antico avevono avute.
E pareva a ciascuno di avere fatto una guerra dove si era speso
assai e acquistato nel trattarla onore e nel finirla vergogna,
poi che le terre prese si erano rendute, e non ricuperate le
perdute.
Ma furono constretti i collegati ad accettarla, per essere per le
spese stracchi, e per non volere fare pruova più, per i difetti
e ambizione d'altri, della fortuna loro.
27
Mentre
che in Lombardia le cose in tal forma si governavano, il Papa,
mediante messer Lorenzo, strigneva Città di Castello per
cacciarne Niccolò Vitelli, il quale dalla lega, per tirare il
Papa alla voglia sua, era stato abbandonato; e nello strignere la
terra, quelli che di dentro erano partigiani di Niccolò uscirono
fuora, e venuti alle mani con li inimici li ruppono.
Onde che il Papa rivocò il conte Girolamo di Lombardia, e fecelo
venire a Roma, per instaurare le forze sue e ritornare a quella
impresa; ma giudicando di poi che fusse meglio guadagnarsi messer
Niccolò con la pace, che di nuovo assalirlo con la guerra, si
accordò seco; e con messer Lorenzo suo avversario, in quel modo
potette migliore, lo riconciliò.
A che lo constrinse più un sospetto di nuovi tumulti che lo
amore della pace, perché vedeva intra Colonnesi e Orsini
destarsi maligni umori.
Fu tolto dal re di Napoli agli Orsini, nella guerra fra lui e il
Papa, il contado di Tagliacozzo, e dato a' Colonnesi, che
seguitavano le parti sue: fatta di poi la pace tra il Re e il
Papa, gli Orsini, per virtù delle convenzioni, lo domandavano.
Fu molte volte dal Papa a' Colonnesi significato che lo
restituissero; ma quelli, né per preghi delli Orsini, né per
minacci del Papa, alla restituzione non condescesono anzi di
nuovo gli Orsini con prede e altre simili ingiurie offesono.
Donde, non potendo il Pontefice comportarle, mosse tutte le sue
forze insieme, e quelle degli Orsini, contro a di loro, e a
quelli le case avieno in Roma saccheggiò, e chi quelle volle
difendere ammazzò e prese e della maggiore parte de' loro
castelli li spogliò: tanto che quelli tumulti, non per pace ma
per afflizione d'una parte, posorono.
28
Non
furono ancora a Genova e in Toscana le cose quiete: perché i
Fiorentini tenevano il conte Antonio da Marciano con gente alle
frontiere di Serezana, e mentre che la guerra durò in Lombardia,
con scorrerie e simili leggieri zuffe i Serezanesi molestavano, e
in Genova Batistino Fregoso, doge di quella città, fidandosi di
Pagolo Fregoso arcivescovo, fu preso con la moglie e con i
figliuoli da lui; e ne fece sé principe.
L'armata ancora viniziana aveva assalito il Regno, e occupato
Galipoli, e gli altri luoghi allo intorno infestava.
Ma seguita la pace in Lombardia, tutti i tumulti posorono,
eccetto che in Toscana e a Roma; perché il Papa, pronunziata la
pace, dopo cinque giorni morì, o perché fusse il termine di sua
vita venuto, o perché il dolore della pace fatta, come nimico a
quella, lo ammazzasse.
Lasciò per tanto questo pontefice quella Italia in pace la quale,
vivendo, aveva sempre tenuta in guerra.
Per la costui morte fu subito Roma in arme: il conte Girolamo si
ritirò con le sue genti a canto al Castello; gli Orsini temevano
che i Colonnesi non volessero vendicare le fresche ingiurie, i
Colonnesi ridomandavano le case e castelli loro: onde seguirono,
in pochi giorni, uccisioni, ruberie e incendii in molti luoghi di
quella città.
Ma avendo i cardinali persuaso al Conte che facesse restituire il
Castello nelle mani del Collegio, e che se ne andasse ne' suoi
stati e liberasse Roma dalle sue armi, quello, desiderando di
farsi benivolo il futuro pontefice, ubbidì, e restituito il
Castello al Collegio, se ne andò ad Imola.
Donde che, liberati i cardinali da questa paura, e i baroni da
quello sussidio che nelle loro differenze dal Conte speravano, si
venne alla creazione del nuovo pontefice; e dopo alcuno disparere,
fu eletto Giovanbatista Cibo, cardinale di Malfetta, genovese, e
si chiamò Innocenzio VIII; il quale, per la sua facile natura,
ché umano e quieto uomo era, fece posare le armi, e Roma per
allora pacificò.
29
I
Fiorentini, dopo la pace di Lombardia, non potevano quietare,
parendo loro cosa vergognosa e brutta che un privato gentile uomo
gli avesse del castello di Serezana spogliati.
E perché ne' capituli della pace era che, non solamente si
potesse ridomandare le cose perdute, ma fare guerra a qualunque
lo acquisto di quelle impedisse, si ordinorono subito con danari
e con genti a fare quella impresa. Onde che Agostino Fregoso, il
quale aveva Serezana occupata, non gli parendo potere con le sue
private forze sostenere tanta guerra, donò quella terra a San
Giorgio.
Ma poi che di San Giorgio e de' Genovesi si ha più volte a fare
menzione, non mi pare inconveniente gli ordini e modi di quella
città, sendo una delle principali di Italia, dimostrare.
Poi che i Genovesi ebbono fatta pace con i Viniziani, dopo quella
importantissima guerra che molti anni adietro era seguita infra
loro, non potendo sodisfare quella loro repubblica a quelli
cittadini che gran somma di danari avevono prestati, concesse
loro l'entrate della dogana, e volle che, secondo i crediti,
ciascuno, per i meriti della principale somma, di quelle entrate
participasse infino a tanto che dal Comune fussero interamente
sodisfatti; e perché potessero convenire insieme, il palagio il
quale è sopra la dogana loro consegnorono.
Questi creditori adunque ordinorono fra loro uno modo di governo,
faccendo uno consiglio di cento di loro, che le cose publiche
deliberasse, e uno magistrato di otto cittadini, il quale, come
capo di tutti, le esequisse, e i crediti loro divisono in parti,
le quali chiamorono Luoghi, e tutto il corpo loro in San Giorgio
intitulorono. Distribuito così questo loro governo, occorse al
comune della città nuovi bisogni, onde ricorse a San Giorgio per
nuovi aiuti; il quale, trovandosi ricco e bene amministrato, lo
poté servire; e il Comune allo incontro, come prima gli aveva la
dogana conceduta, gli cominciò, per pegno de' danari aveva, a
concedere delle sue terre.
E in tanto è proceduta la cosa, nata dai bisogni del Comune e i
servigi di San Giorgio, che quello si ha posto sotto la sua
amministrazione la maggiore parte delle terre e città sottoposte
allo imperio genovese; le quali e' governa e difende, e ciascuno
anno, per publici suffragi, vi manda suoi rettori, sanza che il
Comune in alcuna parte se ne travagli.
Da questo è nato che quelli cittadini hanno levato lo amore dal
Comune, come cosa tiranneggiava, e postolo a San Giorgio, come
parte bene e ugualmente amministrata: onde ne nasce le facili e
spesse mutazioni dello stato, e che ora ad un loro cittadino, ora
ad uno forestiero ubbidiscono, perché non San Giorgio, ma il
Comune varia governo.
Tale che, quando infra i Fregosi e gli Adorni si è combattuto
del principato, perché si combatte lo stato del Comune, la
maggior parte de' cittadini si tira da parte e lascia quello in
preda al vincitore; né fa altro l'ufficio di San Giorgio, se non,
quando uno ha preso lo stato, che fare giurargli la osservanzia
delle leggi sue; le quali infino a questi tempi non sono state
alterate, perché, avendo arme, e danari, e governo, non si può,
sanza pericolo di una certa e pericolosa rebellione, alteralle.
Esemplo veramente raro e da i filosofi in tante loro imaginate e
vedute repubbliche mai non trovato, vedere dentro ad uno medesimo
cerchio infra i medesimi cittadini, la libertà e la tirannide,
la vita civile e la corrotta la giustizia e la licenza: perché
quello ordine solo mantiene quella città piena di costumi
antichi e venerabili; e se gli avvenisse, che con il tempo in
ogni modo avverrà, che San Giorgio tutta quella città occupasse,
sarebbe quella una republica più che la viniziana memorabile.
30
A questo
San Giorgio adunque Agostino Fregoso concesse Serezana.
Il quale la ricevé volentieri, e prese la difesa di quella; e
subito misse un'armata in mare, e mandò gente a Pietrasanta,
perché impedissero qualunque al campo de' Fiorentini, che già
si trovava propinquo a Serezana, andasse.
I Fiorentini, dall'altra parte, desideravano occupar Pietrasanta,
come terra che, non l'avendo, faceva lo acquisto di Serezana meno
utile, sendo quella terra posta infra quella e Pisa; ma non
potevano ragionevolmente campeggiarla, se già dai Pietrasantesi,
o da chi vi fusse dentro, non fussero nello acquisto di Serezana
impediti.
E perché questo seguisse, mandorono da Pisa al campo grande
somma di munizioni e vettovaglie, e con quelle una debile scorta,
acciò che chi era in Pietrasanta, per la poca guardia temesse
meno, e per la assai preda desiderassi più lo assalirli.
Successe per tanto secondo il disegno la cosa: perché quelli che
erano in Pietrasanta, veggendosi innanzi agli occhi tanta preda,
la tolsono; il che dette legittima cagione a' Fiorentini di fare
la impresa, e così, lasciata da canto Serezana, si accamporono a
Pietrasanta, la quale era piena di defensori che gagliardamente
la defendevano.
I Fiorentini, poste nel piano le loro artiglierie, feciono una
bastia sopra il monte, per poterla ancora da quella parte
strignere.
Era dello esercito commissario Iacopo Guicciardini; e mentre che
a Pietrasanta si combatteva, l'armata genovese prese e arse la
rocca di Vada, e le sue genti, poste in terra, il paese allo
intorno correvano e predavano.
Allo incontro delle quali si mandò, con fanti e cavagli messer
Bongianni Gianfigliazzi; il quale in parte raffrenò l'orgoglio
loro, tale che con tanta licenza non scorrevano.
Ma l'armata, seguitando di molestare i Fiorentini, andò a
Livorno, e con puntoni e altre sue preparazioni, si accostò alla
torre nuova e quella più giorni con l'artiglierie combatté, ma
veduto di non fare alcuno profitto, se ne tornò indietro con
vergogna.
31
In quel
mezzo a Pietrasanta si combatteva pigramente; onde che i nimici,
preso animo, assalirono la bastia e quella occuporono; il che
seguì con tanta reputazione loro e timore dello esercito
fiorentino, che fu per rompersi da se stesso; tale che si
discostò quattro miglia dalla terra; e quelli capi giudicavano
che, sendo già il mese d'ottobre, che fusse da ridursi alle
stanze e riserbarsi a tempo nuovo a quella espugnazione.
Questo disordine, come si intese a Firenze, riempié di sdegno i
principi dello stato, e subito, per ristorare il campo di
reputazione e di forze, elessono per nuovi commissari Antonio
Pucci e Bernardo del Nero.
I quali con gran somma di danari andorono in campo, e a quelli
capitani mostrorono la indegnazione della Signoria, dello stato e
di tutta la città, quando non si ritornasse con lo esercito alle
mura, e quale infamia sarebbe la loro, che tanti capitani, con
tanto esercito, sanza avere allo incontro altri che una piccola
guardia, non potessero sì vile e sì debile terra espugnare.
Mostrorono l'utile presente e quello che in futuro di tale
acquisto potevano sperare; talmente che gli animi di tutti si
raccesono a tornare alle mura; e prima che ogni altra cosa
deliberorono di acquistare la bastia.
Nello acquisto della quale si cognobbe quanto l'umanità, l'affabilità,
le grate accoglienze e parole negli animi de' soldati possono;
perché Antonio Pucci, quello soldato confortando, a quell'altro
promettendo, all'uno porgendo la mano, l'altro abbracciando, gli
fece ire a quello assalto con tanto impeto ch'eglino acquistorono
quella bastia in uno momento, ne fu lo acquisto sanza danno,
imperciò che il conte Antonio da Marciano da una artiglieria fu
morto.
Questa vittoria dette tanto terrore a quelli della terra, che
cominciorono a ragionare di arrendersi: onde, acciò che le cose
con più reputazione si concludessero, parve a Lorenzo de' Medici
condursi in campo; e arrivato quello, non dopo molti giorni si
ottenne il castello.
Era già venuto il verno, e per ciò non parve a quelli capitani
da procedere più avanti con la impresa, ma di aspettare il tempo
nuovo, massime perché quello autunno, mediante la trista aria,
aveva infermato quello esercito, e molti de' capi erano
gravemente malati; intra' quali Antonio Pucci e messer Bongianni
Gianfigliazzi, non solamente ammalorono, ma morirono, con
dispiacere di ciascuno, tanta fu la grazia che Antonio nelle cose
fatte da lui a Pietrasanta si aveva acquistata.
I Lucchesi, poi che i Fiorentini ebbono acquistata Pietrasanta,
mandorono oratori a Firenze a domandare quella, come terra stata
già della loro republica, perché allegavano intra gli oblighi
essere che si dovesse restituire al primo signore tutte quelle
terre che l'uno dell'altro recuperasse.
Non negorono i Fiorentini le convenzioni; ma risposono non sapere
se, nella pace che si trattava fra loro e i Genovesi, si avieno a
restituire quella; e per ciò non potevano prima che a quel tempo
deliberarne; e quando bene non avessero a restituirla, era
necessario che i Lucchesi pensassero a sodisfarli della spesa
fatta e del danno ricevuto per la morte di tanti loro cittadini;
e quando questo facessero, potevano facilmente sperare di
riaverla.
Consumossi adunque tutto quel verno nelle pratiche della pace
intra i Genovesi e i Fiorentini, la quale a Roma, mediante il
Pontefice, si praticava. Ma non si essendo conclusa, arebbono i
Fiorentini, venuta la primavera, assalita Serezana, se non
fussero stati da la malattia di Lorenzo de' Medici e da la guerra
che nacque intra il Papa e il re Ferrando, impediti: perché
Lorenzo, non solamente da le gotte, le quali come ereditarie del
padre lo affliggevano, ma da gravissimi dolori di stomaco fu
assalito, in modo che fu necessitato andare a' bagni per curarsi.
32
Ma più
importante cagione fu la guerra; della quale fu questa la origine.
Era la città della Aquila in modo sottoposta al regno di Napoli,
che quasi libera viveva.
Aveva in essa assai riputazione il conte di Montorio.
Trovavasi propinquo al Tronto, con le sue genti d'arme, il duca
di Calavria, sotto colore di volere posare certi tumulti che in
quelle parti intra i paesani erano nati; e disegnando ridurre l'Aquila
interamente alla ubbidienza del Re, mandò per il conte di
Montorio, come se se ne volesse servire in quelle cose che allora
praticava.
Ubbidì il Conte, sanza alcuno sospetto; e arrivato dal Duca, fu
fatto prigione da quello e mandato a Napoli. Questa cosa, come fu
nota all'Aquila, alterò tutta quella città; e prese
popularmente l'arme, fu morto Antonio Concinello, commissario del
Re, e con quello alcuni cittadini i quali erano cognosciuti a
quella maestà partigiani.
E per avere gli Aquilani chi nella rebellione gli difendesse,
rizzorono le bandiere della Chiesa, e mandorono oratori al Papa,
a dare la città e loro, pregando quello che, come cosa sua,
contra alla regia tirannide gli aiutasse.
Prese il Pontefice animosamente la loro difesa, come quello che
per cagioni private e publiche odiava il Re; e trovandosi il
signore Ruberto da San Severino nimico dello stato di Milano e
senza soldo, lo prese per suo capitano, e lo fece con massima
celerità venire a Roma.
Sollecitò, oltre di questo, tutti gli amici e parenti del conte
di Montorio, che contro al Re si ribellassero: tale che il
principe d'Altemura, di Salerno e di Bisignano presono l'armi
contro a quello.
Il Re, veggendosi da sì subita guerra assalire, ricorse a'
Fiorentini e al duca di Milano per aiuti.
Stettero i Fiorentini dubi di quello dovessero fare; perché e'
pareva loro difficile il lasciare, per le altrui, le imprese loro;
e pigliare di nuovo l'arme contro alla Chiesa pareva loro
pericoloso. Non di meno, sendo in lega, preposono la fede alle
commodità e pericoli loro, e soldorono gli Orsini; e di più
mandorono tutte le loro genti, sotto il conte di Pitigliano,
verso Roma, al soccorso del Re.
Fece per tanto quel Re duoi campi: l'uno, sotto il duca di
Calavria, mandò verso Roma, il quale, insieme con le genti
fiorentine, allo esercito della Chiesa si opponesse; con l'altro,
sotto il suo governo, si oppose a' Baroni; e nell'una e nell'altra
parte fu travagliata questa guerra con varia fortuna.
Alla fine, restando il Re in ogni luogo superiore, d'agosto, nel
1486, per il mezzo degli oratori del re di Spagna, si concluse la
pace, alla quale il Papa, per essere battuto dalla fortuna, né
volere più tentare quella, acconsentì: dove tutti i potentati
di Italia si unirono, lasciando solo i Genovesi da parte, come
dello stato di Milano rebelli e delle terre de' Fiorentini
occupatori.
Il signore Ruberto da San Severino, fatta la pace, sendo stato,
nella guerra, al Papa poco fedele amico e agli altri poco
formidabile nimico, come cacciato dal Papa si partì di Roma; e
seguitato dalle genti del Duca e de' Fiorentini, quando egli fu
passato Cesena, veggendosi sopraggiungere, si misse in fuga, e
con meno di cento cavagli si condusse a Ravenna; e dell'altre sue
genti, parte furono ricevute da il Duca, parte da' paesani
disfatte.
Il Re, fatta la pace, e riconciliatosi con i Baroni, fece morire
Iacopo Coppola e Antonello d'Anversa con i figliuoli, come quegli
che, nella guerra, avevono rivelati i suoi segreti al Pontefice.
33
Aveva il
Papa, per lo esemplo di questa guerra, cognosciuto con quanta
prontezza e studio i Fiorentini conservono le loro amicizie;
tanto che, dove prima, e per amore de' Genovesi e per gli aiuti
avieno fatti al Re, quello gli odiava, cominciò ad amarli e a
fare maggiori favori che l'usato a' loro oratori.
La quale inclinazione, cognosciuta da Lorenzo de' Medici, fu con
ogni industria aiutata; perché giudicava essergli di grande
reputazione quando alla amicizia teneva con il Re e' potesse
aggiungnere quella del Papa. Aveva il Pontefice uno figliuolo
chiamato Francesco, e desiderando di onorarlo di stati, e di
amici perché potesse dopo la sua morte mantenergli, non cognobbe
in Italia con chi lo potesse più securamente congiugnere che con
Lorenzo; e per ciò operò in modo che Lorenzo gli dette per
donna una sua figliuola.
Fatto questo parentado, il Papa desiderava che i Genovesi, d'accordo,
cedessero Serezana a' Fiorentini, mostrando loro come e' non
potevano tenere quello che Agostino aveva venduto, né Agostino
poteva a San Giorgio donare quello che non era suo.
Non di meno non potette mai fare alcuno profitto; anzi i Genovesi,
mentre che queste cose a Roma si praticavano, armorono molti loro
legni, e sanza che a Firenze se ne intendesse cosa alcuna, posono
tremila fanti in terra e assalirono la rocca di Serezanello,
posta sopra Serezana e posseduta da i Fiorentini; e il borgo
quale è a canto a quella predorono e arsono; e apresso, poste l'artiglierie
alla rocca, quella con ogni sollecitudine combattevano.
Fu questo assalto nuovo e insperato a' Fiorentini; onde che
subito le loro genti, sotto Virginio Orsino, a Pisa ragunorono; e
si dolfono col Papa, che, mentre quello trattava della pace, i
Genovesi avieno mosso loro la guerra.
Mandorono di poi Piero Corsini a Lucca, per tenere in fede quella
città; mandorono Pagolantonio Soderini a Vinegia, per tentare
gli animi di quella republica, domandorono aiuti al Re e al
signore Lodovico, né da alcuno gli ebbono, perché il Re disse
dubitare della armata del Turco, e Lodovico, sotto altre
gavillazioni, differì il mandarli.
E così i Fiorentini nelle guerre loro quasi sempre sono soli,
né truovono chi con quello animo li suvvenga, che loro altri
aiutano.
Né questa volta, per essere dai confederati abbandonati, non
sendo loro nuovo, si sbigottirono; e fatto un grande esercito,
sotto Iacopo Guicciardini e Piero Vettori contro al nimico lo
mandorono, i quali feciono uno alloggiamento sopra il fiume della
Magra.
In quel mezzo Serezanello era stretto forte da' nimici, i quali
con cave e ogni altra forza lo espugnavano: tale che i commessari
deliberorono soccorrerlo, né i nimici recusorono la zuffa; e
venuti alle mani, furono i Genovesi rotti; dove rimase prigione
messer Luigi dal Fiesco, con molti altri capi del nimico esercito.
Questa vittoria non sbigottì in modo i Serezanesi che e' si
volessero arrendere; anzi ostinatamente si preparorono alla
difesa, e i commissari fiorentini alla offesa: tanto che la fu
gagliardamente combattuta e difesa.
E andando questa espugnazione in lungo, parve a Lorenzo de'
Medici di andare in campo. Dove arrivato, presono i nostri
soldati animo, e Serezanesi lo perderono; perché, veduta la
ostinazione de' Fiorentini ad offenderli e la freddezza de'
Genovesi a soccorrergli, liberamente, e sanza altre condizioni,
nelle braccia di Lorenzo si rimissono; e venuti nella potestà de'
Fiorentini, furono, eccetto pochi della ribellione autori,
umanamente trattati.
Il signore Lodovico, durante quella espugnazione, aveva mandate
le sue genti d'arme a Pontremoli, per mostrare di venire a'
favori nostri; ma avendo intelligenza in Genova, si levò la
parte contro a quelli che reggevano, e con lo aiuto di quelle
genti, si dierono al duca di Milano.
34
In questi
tempi i Tedeschi avevono mosso guerra a' Viniziani; e Boccolino
da Osimo nella Marca aveva fatto ribellare Osimo al Papa, e
presone la tirannide.
Costui, dopo molti accidenti, fu contento, persuaso da Lorenzo de'
Medici, di rendere quella città al Pontefice; e ne venne a
Firenze, dove, sotto la fede di Lorenzo, più tempo
onoratissimamente visse, di poi andandone a Milano; dove, non
trovando la medesima fede, fu da il signore Lodovico fatto morire.
I Viniziani, assaliti da' Tedeschi, furono, propinqui alla città
di Trento, rotti, e il signore Ruberto da San Severino, loro
capitano, morto.
Dopo la quale perdita, i Viniziani, secondo l'ordine della
fortuna loro, feciono uno accordo con i Tedeschi, non come
perdenti, ma come vincitori: tanto fu per la loro republica
onorevole.
Nacquono ancora, in questi tempi, tumulti in Romagna,
importantissimi.
Francesco d'Orso, furlivese, era uomo di grande autorità in
quella città: questi venne in sospetto al conte Girolamo, tal
che più volte da il Conte fu minacciato, donde che, vivendo
Francesco con timore grande, fu confortato da' suoi amici e
parenti di prevenire; e poi che temeva di essere morto da lui,
ammazzasse prima quello, e fuggisse, con la morte d'altri, i
pericoli suoi.
Fatta adunque questa deliberazione, e fermo l'animo a questa
impresa, elessono il tempo, il giorno del mercato di Furlì,
perché, venendo in quel giorno in quella città assai del
contado loro amici, pensorono sanza avergli a fare venire, potere
della opera loro valersi.
Era del mese di maggio, e la maggiore parte delli Italiani hanno
per consuetudine di cenare di giorno.
Pensorono i congiurati che l'ora commoda fusse, ad ammazzarlo,
dopo la sua cena, nel qual tempo, cenando la sua famiglia, egli
quasi restava in camera solo.
Fatto questo pensiero, a quella ora deputata Francesco ne andò
alle case del Conte, e lasciati i compagni nelle prime stanze,
arrivato alla camera dove il Conte era, disse ad un suo cameriere
che gli facesse intendere come gli voleva parlare.
Fu Francesco intromesso, e trovato quello solo, dopo poche parole
d'uno simulato ragionamento lo ammazzò; e chiamati i compagni,
ancora il cameriere ammazzorono.
Veniva a sorte il capitano della terra a parlare al Conte, e
arrivato in sala con pochi dei suoi, fu ancora egli dagli
ucciditori del Conte morto.
Fatti questi omicidii, levato il romore grande, fu il capo del
Conte fuori delle finestre gittato; e gridando Chiesa e Libertà,
feciono armare tutto il popolo, il quale aveva in odio l'avarizia
e crudeltà del Conte; e saccheggiate le sue case, la contessa
Caterina e tutti i suoi figliuoli presono.
Restava solo la fortezza a pigliarsi, volendo che questa loro
impresa avesse felice fine.
A che non volendo il castellano condescendere, pregorono la
Contessa fusse contenta disporlo a darla.
Il che ella promesse fare, quando eglino la lasciassero entrare
in quella; e per pegno della fede ritenessero i suoi figliuoli.
Credettono i congiurati alle sue parole, e permissonle l'entrarvi.
La quale, come fu dentro, gli minacciò di morte e d'ogni
qualità di supplizio in vendetta del marito; e minacciando
quegli di ammazzargli i figliuoli, rispose come ella aveva seco
il modo a rifarne degli altri.
Sbigottiti per tanto i congiurati, veggendo come dal Papa non
erano suvvenuti, e sentendo come il signore Lodovico, zio alla
Contessa, mandava gente in suo aiuto, tolte delle sustanzie loro
quello poterono portare, se ne andorono a Città di Castello.
Onde che la Contessa, ripreso lo stato, la morte del marito con
ogni generazione di crudeltà vendicò.
I Fiorentini, intesa la morte del Conte, presono occasione di
recuperare la rocca di Piancaldoli, stata loro dal Conte per lo
adietro occupata.
Dove mandate loro genti, quella con la morte del Cecca,
architettore famosissimo, recuperorono.
35
A questo
tumulto di Romagna un altro in quella provincia, non di minore
momento, se ne aggiunse.
Aveva Galeotto, signore di Faenza, per moglie la figliuola di
messer Giovanni Bentivogli, principe in Bologna.
Costei, o per gelosia, o per essere male dal marito trattata, o
per sua cattiva natura, aveva in odio il suo marito; e in tanto
procedé con lo odiarlo, che la deliberò di torgli lo stato e la
vita.
E simulata certa sua infirmità, si pose nel letto; dove ordinò
che, venendo Galeotto a vicitarla, fusse da certi suoi confidenti
i quali a quello effetto aveva in camera nascosti, morto.
Aveva costei di questo suo pensiero fatto partecipe il padre, il
quale sperava, dopo che fusse morto il genero, divenire signore
di Faenza.
Venuto per tanto il tempo destinato a questo omicidio, entrò
Galeotto in camera della moglie, secondo la sua consuetudine, e
stato seco alquanto a ragionare, uscirono de' luoghi segreti
della camera gli ucciditori suoi, i quali, sanza che vi potesse
fare rimedio, lo ammazzorono.
Fu, dopo la costui morte, il romore grande: la moglie, con uno
suo piccolo figliuolo detto Astorre, si fuggì nella rocca; il
popolo prese le armi; messer Giovanni Bentivogli, insieme con uno
Bergamino, condottieri del duca di Milano, prima preparatosi con
assai armati, entrorono in Faenza, dove ancora era Antonio
Boscoli, commissario fiorentino.
E congregati in tale tumulto tutti quelli capi insieme, e
parlando del governo della terra, gli uomini di Val di Lamona,
che erano a quello romore popularmente corsi, mossono l'armi
contro a messer Giovanni e a Bergamino, e questo ammazzorono, e
quello presono prigione; e gridando il nome di Astorre e de'
Fiorentini, la città ad il loro commissario raccomandorono.
Questo caso, inteso a Firenze, dispiacque assai a ciascuno, non
di meno feciono messer Giovanni e la figliuola liberare, e la
cura della città e di Astorre con volontà di tutto il popolo,
presono.
Seguirono ancora, oltre a questi, poi che le guerre principali
intra i maggiori principi si composono, per molti anni, assai
tumulti, in Romagna, nella Marca, e a Siena; i quali, per essere
stati di poco momento, giudico essere superfluo il raccontargli.
Vero è che quelli di Siena poi che il duca di Calavria dopo la
guerra del '78 se ne partì, furono più spessi; e dopo molte
variazioni, che ora dominava la plebe, ora i nobili, restorono i
nobili superiori: intra i quali presono più autorità che gli
altri Pandolfo e Iacobo Petrucci; i quali, l'uno per prudenza, l'altro
per animo, diventorono come principi di quella città.
36
Ma i
Fiorentini, finita la guerra di Serezana, vissono infino al 1492
che Lorenzo de' Medici morì, in una felicità grandissima:
perché Lorenzo, posate l'armi d'Italia, le quali per il senno e
autorità sua si erano ferme, volse l'animo a fare grande sé e
la sua città, e a Piero, suo primogenito, l'Alfonsina, figliuola
del cavaliere Orsino, congiunse; di poi Giovanni, suo secondo
figliuolo, alla dignità del cardinalato trasse.
Il che tanto fu più notabile, quanto, fuora d'ogni passato
esemplo, non avendo ancora quattordici anni, fu a tanto grado
condotto; il che fu una scala da potere fare salire la sua casa
in cielo, come poi ne' seguenti tempi, intervenne.
A Giuliano, terzo suo figliuolo, per la poca età sua e per il
poco tempo che Lorenzo visse, non potette di estraordinaria
fortuna provedere.
Delle figliuole, l'una a Iacopo Salviati, l'altra a Francesco
Cibo, la terza a Piero Ridolfi congiunse; la quarta, la quale
egli, per tenere la sua casa unita, aveva maritata a Giovanni de'
Medici, si morì.
Nelle altre sue private cose fu, quanto alla mercanzia,
infelicissimo; perché per il disordine de' suoi ministri, i
quali, non come privati, ma come principi le sue cose
amministravano, in molte parti molto suo mobile fu spento; in
modo che convenne che la sua patria di gran somma di danari lo
suvvenisse.
Onde che quello, per non tentare più simile fortuna, lasciate da
parte le mercatantili industrie, alle possessioni, come più
stabili e più ferme ricchezze, si volse; e nel Pratese, nel
Pisano e in Val di Pesa fece possessioni, e per utile e per
qualità di edifizi e di magnificenza, non da privato cittadino,
ma regie.
Volsesi, dopo questo, a fare più bella e maggiore la sua città;
e per ciò, sendo in quella molti spazi sanza abitazioni, in essi
nuove strade, da empiersi di nuovi edifizi, ordinò, onde che
quella città ne divenne più bella e maggiore.
E perché in nel suo stato più quieta e secura vivesse, e
potesse i suoi nimici, discosto da sé, combattere o sostenere,
verso Bologna, nel mezzo delle alpi, il castello di Fiorenzuola
affortificò; verso Siena dette principio ad instaurare il Poggio
Imperiale e farlo fortissimo; verso Genova, con lo acquisto di
Pietrasanta e di Serezana, quella via al nimico chiuse.
Di poi, con stipendi e provisioni, manteneva suoi amici i
Baglioni in Perugia, i Vitelli in Città di Castello; e di Faenza
il governo particulare aveva: le quali tutte cose erano come
fermi propugnacoli alla sua città. Tenne ancora, in questi tempi
pacifici, sempre la patria sua in festa; dove spesso giostre e
rappresentazioni di fatti e trionfi antichi si vedevano; e il
fine suo era tenere la città abbondante, unito il popolo, e la
nobiltà onorata.
Amava maravigliosamente qualunque era in una arte eccellente;
favoriva i litterati, di che messer Agnolo da Montepulciano,
messer Cristofano Landini e messer Demetrio greco ne possono
rendere ferma testimonianza, onde che il conte Giovanni della
Mirandola, uomo quasi che divino, lasciate tutte l'altre parti di
Europa che egli aveva peragrate, mosso dalla munificenzia di
Lorenzo, pose la sua abitazione in Firenze.
Della architettura, della musica e della poesia maravigliosamente
si dilettava; e molte composizioni poetiche, non solo composte,
ma comentate ancora da lui appariscono.
E perché la gioventù fiorentina potesse negli studi delle
lettere esercitarsi, aperse nella città di Pisa uno studio, dove
i più eccellenti uomini che allora in Italia fussero condusse.
A fra' Mariano da Ghinazzano, dell'ordine di Santo Agostino,
perché era predicatore eccellentissimo, uno munistero propinquo
a Firenze edificò.
Fu dalla fortuna e da Dio sommamente amato, per il che tutte le
sue imprese ebbono felice fine e tutti i suoi nimici infelice:
perché oltre ai Pazzi, fu ancora voluto, nel Carmine da Batista
Frescobaldi, e nella sua villa da Baldinotto da Pistoia,
ammazzare; e ciascuno d'essi, insieme con i consci de' loro
segreti, dei malvagi pensieri loro patirono giustissime pene.
Questo suo modo di vivere, questa sua prudenza e fortuna, fu dai
principi, non solo di Italia, ma longinqui da quella, con
ammirazione cognosciuta e stimata: fece Mattia re d'Ungheria
molti segni dell'amore gli portava, il Soldano con i suoi oratori
e suoi doni lo vicitò e presentò; il gran Turco gli pose nelle
mani Bernardo Bandini, del suo fratello ucciditore.
Le quali cose lo facevano tenere in Italia mirabile.
La quale reputazione ciascuno giorno, per la prudenzia sua
cresceva; perché era, nel discorrere le cose eloquente e arguto,
nel risolverle savio, nello esequirle presto e animoso.
Né di quello si possono addurre vizi che maculassero tante sue
virtù, ancora che fusse nelle cose veneree maravigliosamente
involto, e che si dilettasse di uomini faceti e mordaci, e di
giuochi puerili, più che a tanto uomo non pareva si convenisse,
in modo che molte volte fu visto, intra i suoi figliuoli e
figliuole intra i loro trastulli mescolarsi.
Tanto che, a considerare in quello e la vita leggieri, voluttuosa
e la grave, si vedeva in lui essere due persone diverse, quasi
con impossibile coniunzione congiunte.
Visse, negli ultimi tempi, pieno di affanni, causati dalla
malattia che lo teneva maravigliosamente afflitto, perché era da
intollerabili doglie di stomaco oppresso; le quali tanto lo
strinsono che di aprile, nel 1492, morì, l'anno quarantaquattro
della sua età.
Né morì mai alcuno, non solamente in Firenze, ma in Italia, con
tanta fama di prudenza, né che tanto alla sua patria dolesse.
E come dalla sua morte ne dovesse nascere grandissime rovine ne
mostrò il cielo molti evidentissimi segni: intra i quali, l'altissima
sommità del tempio di Santa Reparata fu da uno fulmine con tanta
furia percossa, che gran parte di quel pinnacolo rovinò, con
stupore e maraviglia di ciascuno.
Dolfonsi adunque della sua morte tutti i suoi cittadini e tutti i
principi di Italia: di che ne feciono manifesti segni, perché
non ne rimase alcuno che a Firenze, per suoi oratori, il dolore
preso di tanto caso non significasse.
Ma se quelli avessero cagione giusta di dolersi, lo dimostrò
poco di poi lo effetto; perché, restata Italia priva del
consiglio suo, non si trovò modo, per quegli che rimasono, né
di empiere né di frenare l'ambizione di Lodovico Sforza,
governatore del duca di Milano.
Per la quale, subito morto Lorenzo cominciorono a nascere quegli
cattivi semi i quali, non dopo molto tempo, non sendo vivo chi
gli sapesse spegnere, rovinorono, e ancora rovinano, la Italia.