Niccolò Machiavelli
DISCORSI
SOPRA LA PRIMA DECADE
DI TITO LIVIO
LIBRO PRIMO
DEDICA
Niccolò Machiavelli a Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai salute.
Io vi mando uno presente, il quale, se non corrisponde agli obblighi che io ho con voi, è tale, sanza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perché in quello io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo. E non potendo né voi né altri desiderare da me più, non vi potete dolere se io non vi ho donato più. Bene vi può increscere della povertà dello ingegno mio, quando siano queste mie narrazioni povere; e della fallacia del giudicio, quando io in molte parte, discorrendo, m'inganni. Il che essendo, non so quale di noi si abbia ad essere meno obligato all'altro: o io a voi, che mi avete forzato a scrivere quello che io mai per me medesimo non arei scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi sodisfatto. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli amici; dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molte sue circunstanzie, in questa sola so ch'io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi: sì perché, faccendo questo, mi pare avere mostro qualche gratitudine de' beneficii ricevuti: sì perché e' mi pare essere uscito fuora dell'uso comune di coloro che scrivono, i quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare; e, accecati dall'ambizione e dall'avarizia, laudano quello di tutte le virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole parte doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo. Perché gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che sono, non quelli che possono essere liberali, e così quelli che sanno, non quelli che, sanza sapere, possono governare uno regno. E gli scrittori laudano più Ierone Siracusano quando egli era privato, che Perse Macedone quando egli era re: perché a Ierone ad essere principe non mancava altro che il principato; quell'altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno. Godetevi, pertanto, quel bene o quel male che voi medesimi avete voluto: e se voi starete in questo errore, che queste mie opinioni Vi siano grate, non mancherò di seguire il resto della istoria, secondo che nel principio vi promissi. Valete.
Ancora
che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non
altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse
cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a
biasimare che a laudare le azioni d'altri; nondimanco, spinto da
quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza
alcuno respetto, quelle cose che io creda rechino comune
benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale,
non essendo suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà
fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio,
mediante quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine
considerassino. E se lo ingegno povero, la poca esperienzia delle
cose presenti e la debole notizia delle antique faranno questo
mio conato difettivo e di non molta utilità; daranno almeno la
via ad alcuno che, con più virtù, più discorso e iudizio,
potrà a questa mia intenzione satisfare: il che, se non mi
arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo.
Considerando adunque quanto onore si
attribuisca all'antiquità, e come molte volte, lasciando andare
infiniti altri esempli, un frammento d'una antiqua statua sia
suto comperato gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne
la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si
dilettono; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in
tutte le loro opere rappresentarlo; e veggiendo, da l'altro canto,
le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono
state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani,
cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro
patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi,
in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella
antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che
insieme non me ne maravigli e dolga. E tanto più, quanto io
veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano, o
nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre
ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi
sono stati iudicati o ordinati: perché le leggi civili non sono
altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali,
ridutte in ordine, a' presenti nostri iureconsulti iudicare
insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte
dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e' medici presenti e'
loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le republiche, nel
mantenere li stati, nel governare e' regni, nello ordinare la
milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e' sudditi, nello
accrescere l'imperio, non si truova principe né republica che
agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non
tanto da la debolezza nella quale la presente religione ha
condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte provincie
e città cristiane uno ambizioso ozio, quanto dal non avere vera
cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso
né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce
che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella
varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare
altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo
difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi,
li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da
quello che gli erono antiquamente. Volendo, pertanto, trarre li
uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra
tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de' tempi
non ci sono stati intercetti, quello che io, secondo le
cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere
necessario per maggiore intelligenzia di essi, a ciò che coloro
che leggeranno queste mia declarazioni, possino più facilmente
trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la
cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile,
nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad entrare sotto
questo peso, confortato, credo portarlo in modo, che ad un altro
resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.
Cap.
1
Quali siano stati universalmente i
principii di qualunque città, e quale fusse quello di Roma.
Coloro
che leggeranno quale principio fusse quello della città di Roma,
e da quali latori di leggi e come ordinato, non si
maraviglieranno che tanta virtù si sia per più secoli mantenuta
in quella città; e che dipoi ne sia nato quello imperio al quale
quella republica aggiunse. E volendo discorrere prima il
nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono edificate o dagli
uomini natii del luogo dove le si edificano o dai forestieri. Il
primo caso occorre quando agli abitatori dispersi in molte e
piccole parti non pare vivere securi, non potendo ciascuna per
sé, e per il sito e per il piccolo numero, resistere all'impeto
di chi le assaltasse; e ad unirsi per loro difensione, venendo il
nimico, non sono a tempo; o quando fussono, converrebbe loro
lasciare abbandonati molti de' loro ridotti; e così verrebbero
ad essere subita preda dei loro inimici: talmente che, per
fuggire questi pericoli, mossi o da loro medesimi, o da alcuno
che sia infra loro di maggiore autorità, si ristringono ad
abitare insieme in luogo eletto da loro, più commodo a vivere e
più facile a difendere.
Di queste, infra molte altre, sono state
Atene e Vinegia. La prima, sotto l'autorità di Teseo, fu per
simili cagioni dagli abitatori dispersi edificata; l'altra,
sendosi molti popoli ridotti in certe isolette che erano nella
punta del mare Adriatico, per fuggire quelle guerre che ogni dì,
per lo avvenimento di nuovi barbari, dopo la declinazione dello
Imperio romano, nascevano in Italia, cominciarono infra loro,
sanza altro principe particulare che gli ordinasse, a vivere
sotto quelle leggi che parevono loro più atte a mantenerli. Il
che successe loro felicemente per il lungo ozio che il sito dette
loro, non avendo quel mare uscita, e non avendo quelli popoli,
che affliggevano Italia, navigli da poterli infestare: talché
ogni piccolo principio li poté fare venire a quella grandezza
nella quale sono.
Il secondo caso, quando da genti
forestiere è edificata una città, nasce o da uomini liberi o
che dependono da altri: come sono le colonie mandate o da una
republica o da uno principe per isgravare le loro terre d'abitatori,
o per difesa di quel paese che, di nuovo acquistato, vogliono
sicuramente e sanza ispesa mantenersi; delle quali città il
Popolo romano ne edificò assai, e per tutto l'imperio suo:
ovvero le sono edificate da uno principe, non per abitarvi, ma
per sua gloria; come la città di Alessandria, da Alessandro. E
per non avere queste cittadi la loro origine libera, rade volte
occorre che le facciano processi grandi, e possinsi intra i capi
dei regni numerare. Simile a queste fu l'edificazione di Firenze,
perché (o edificata da' soldati di Silla, o, a caso, dagli
abitatori dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella
lunga pace che sotto Ottaviano nacque nel mondo, si ridussero ad
abitare nel piano sopra Arno) si edificò sotto l'imperio romano:
né poté, ne' principii suoi, fare altri augumenti che quelli
che per cortesia del principe gli erano concessi.
Sono liberi gli edificatori delle cittadi,
quando alcuni popoli, o sotto uno principe o da per sé, sono
constretti, o per morbo o per fame o per guerra, a abbandonare il
paese patrio, e crearsi nuova sede: questi tali, o egli abitano
le cittadi che e' truovono ne' paesi ch'egli acquistano, come fe'
Moises; o e' ne edificano di nuovo, come fe' Enea. In questo caso
è dove si conosce la virtù dello edificatore, e la fortuna
dello edificato: la quale è più o meno maravigliosa, secondo
che più o meno è virtuoso colui che ne è stato principio. La
virtù del quale si conosce in duo modi: il primo è nella
elezione del sito; l'altro nella ordinazione delle leggi. E
perché gli uomini operono o per necessità o per elezione; e
perché si vede quivi essere maggior virtù dove la elezione ha
meno autorità; è da considerare se sarebbe meglio eleggere, per
la edificazione delle cittadi, luoghi sterili, acciocché gli
uomini, constretti a industriarsi, meno occupati dall'ozio,
vivessono più uniti avendo, per la povertà del sito, minore
cagione di discordie; come interviene in Raugia, e in molte altre
cittadi in simili luoghi edificate: la quale elezione sarebbe
sanza dubbio più savia e più utile, quando gli uomini fossero
contenti a vivere del loro, e non volessono cercare di comandare
altrui. Pertanto, non potendo gli uomini assicurarsi se non con
la potenza, è necessario fuggire questa sterilità del paese, e
porsi in luoghi fertilissimi; dove, potendo per la ubertà del
sito ampliare, possa e difendersi da chi l'assaltasse e opprimere
qualunque alla grandezza sua si opponesse. E quanto a quell'ozio
che le arrecasse il sito, si debbe ordinare che a quelle
necessità le leggi la costringhino, che il sito non la
costrignesse, ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno
abitato in paesi amenissimi e fertilissimi, e atti a produrre
uomini oziosi ed inabili a ogni virtuoso esercizio, che, per
ovviare a quelli danni i quali l'amenità del paese, mediante l'ozio,
arebbe causati, hanno posto una necessità di esercizio a quelli
che avevano a essere soldati; di qualità che, per tale ordine,
vi sono diventati migliori soldati che in quelli paesi i quali
naturalmente sono stati aspri e sterili. Intra i quali fu il
regno degli Egizi, che, non ostante che il paese sia amenissimo,
tanto potette quella necessità, ordinata dalle leggi, che ne
nacque uomini eccellentissimi; e se li nomi loro non fussono
dalla antichità spenti, si vedrebbe come ei meriterebbero più
laude che Alessandro Magno, e molti altri de' quali ancora è la
memoria fresca. E chi avesse considerato il regno del Soldano, e
l'ordine de' Mammalucchi e di quella loro milizia, avanti che da
Salì, Gran Turco, fusse stata spenta, arebbe veduto in quello
molti esercizi circa i soldati, ed averebbe, in fatto, conosciuto
quanto essi temevano quell'ozio a che la benignità del paese li
poteva condurre, se non vi avessono con leggi fortissime ovviato.
Dico, adunque, essere più prudente
elezione porsi in luogo fertile, quando quella fertilità con le
leggi infra i debiti termini si ristringa. Ad Alessandro Magno,
volendo edificare una città per sua gloria, venne Dinocrate
architetto, e gli mostrò come e' la poteva edificare sopra il
monte Atho, il quale luogo, oltre allo essere forte, potrebbe
ridursi in modo che a quella città si darebbe forma umana; il
che sarebbe cosa maravigliosa e rara, e degna della sua grandezza.
E domandandolo Alessandro di quello che quelli abitatori
viverebbero, rispose non ci avere pensato: di che quello si rise,
e, lasciato stare quel monte, edificò Alessandria, dove gli
abitatori avessero a stare volentieri per la grassezza del paese,
e per la commodità del mare e del Nilo. Chi esaminerà, adunque,
la edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo primo
progenitore, sarà di quelle cittadi edificate da' forestieri; se
Romolo di quelle edificate dagli uomini natii del luogo; ed in
qualunque modo, la vedrà avere principio libero, sanza dependere
da alcuno: vedrà ancora, come di sotto si dirà, a quante
necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa, e gli altri, la
costringessono; talmente che la fertilità del sito, la
commodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza dello
imperio, non la potero per molti secoli corrompere, e la
mantennero piena di tanta virtù, di quanta mai fusse alcun'altra
città o republica ornata.
E perché le cose operate da lei, e che
sono da Tito Livio celebrate, sono seguite o per publico o per
privato consiglio, o dentro o fuori della cittade; io comincerò
a discorrere sopra quelle cose occorse dentro e per consiglio
publico, le quali degne di maggiore annotazione giudicherò,
aggiungendovi tutto quello che da loro dependessi; con i quali
Discorsi questo primo libro, ovvero questa prima parte, si
terminerà.
Cap.
2
Di quante spezie sono le republiche,
e di quale fu la republica romana.
Io
voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno
avuto il loro principio sottoposto a altrui; e parlerò di quelle
che hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma
si sono subito governate per loro arbitrio, o come republiche o
come principato: le quali hanno avuto, come diversi principii,
diverse leggi ed ordini. Perché ad alcune, o nel principio d'esse,
o dopo non molto tempo, sono state date da uno solo le leggi, e
ad un tratto; come quelle che furono date da Licurgo agli
Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in più volte e
secondo li accidenti, come ebbe Roma. Talché, felice si può
chiamare quella republica, la quale sortisce uno uomo sì
prudente, che gli dia leggi ordinate in modo che, sanza avere
bisogno di ricorreggerle, possa vivere sicuramente sotto quelle.
E si vede che Sparta le osservò più che ottocento anni sanza
corromperle, o sanza alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario,
tiene qualche grado d'infelicità quella città, che, non si
sendo abbattuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da sé
medesima riordinarsi. E di queste ancora è più infelice quella
che è più discosto dall'ordine; e quella ne è più discosto
che co' suoi ordini è al tutto fuori del diritto cammino, che la
possa condurre al perfetto e vero fine. Perché quelle che sono
in questo grado, è quasi impossibile che per qualunque accidente
si rassettino: quelle altre che, se le non hanno l'ordine
perfetto, hanno preso il principio buono, e atto a diventare
migliore, possono per la occorrenzia degli accidenti diventare
perfette. Ma fia bene vero questo, che mai si ordineranno sanza
pericolo; perché gli assai uomini non si accordano mai ad una
legge nuova che riguardi uno nuovo ordine nella città se non è
mostro loro da una necessità che bisogni farlo; e non potendo
venire questa necessità sanza pericolo, è facil cosa che quella
republica rovini, avanti che la si sia condotta a una perfezione
d'ordine. Di che ne fa fede appieno la republica di Firenze, la
quale fu dallo accidente d'Arezzo, nel dua, riordinata; e da quel
di Prato, nel dodici, disordinata.
Volendo, adunque, discorrere quali furono
li ordini della città di Roma, e quali accidenti alla sua
perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto
delle republiche dicono essere in quelle uno de' tre stati,
chiamati da loro Principato, Ottimati, e Popolare, e come coloro
che ordinano una città, debbono volgersi ad uno di questi,
secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e, secondo la
opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei
ragioni governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri siano
buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengono
ancora essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e'
soprascritti tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da
questi tre dipendano; e ciascuno d'essi è in modo simile a
quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno all'altro:
perché il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati
con facilità diventano stato di pochi; il Popolare sanza
difficultà in licenzioso si converte. Talmente che, se uno
ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre
stati, ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio può
farvi, a fare che non sdruccioli nel suo contrario, per la
similitudine che ha in questo caso la virtute ed il vizio.
Nacquono queste variazioni de' governi a
caso intra gli uomini: perché nel principio del mondo, sendo gli
abitatori radi, vissono un tempo dispersi a similitudine delle
bestie; dipoi, moltiplicando la generazione, si ragunarono
insieme, e, per potersi meglio difendere, cominciarono a
riguardare infra loro quello che fusse più robusto e di maggiore
cuore, e fecionlo come capo, e lo ubedivano. Da questo nacque la
cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose
e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo benificatore,
ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl'ingrati
ed onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che
quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a loro; per
fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della
giustizia. La quale cosa faceva che, avendo dipoi a eleggere uno
principe, non andavano dietro al più gagliardo, ma a quello che
fusse più prudente e più giusto. Ma come dipoi si cominciò a
fare il principe per successione, e non per elezione, subito
cominciarono li eredi a degenerare dai loro antichi; e, lasciando
l'opere virtuose, pensavano che i principi non avessero a fare
altro che superare gli altri di sontuosità e di lascivia e d'ogni
altra qualità di licenza: in modo che, cominciando il principe a
essere odiato, e per tale odio a temere, e passando tosto dal
timore all'offese, ne nasceva presto una tirannide. Da questo
nacquero, appresso, i principii delle rovine, e delle
conspirazioni e congiure contro a' principi; non fatte da coloro
che fussono o timidi o deboli, ma da coloro che, per generosità,
grandezza d'animo, ricchezza e nobilità, avanzavano gli altri; i
quali non potevano sopportare la inonesta vita di quel principe.
La moltitudine, adunque, seguendo l'autorità di questi potenti,
s'armava contro al principe, e, quello spento, ubbidiva loro come
a suoi liberatori. E quelli, avendo in odio il nome d'uno solo
capo, constituivano di loro medesimi uno governo; e, nel
principio, avendo rispetto alla passata tirannide, si governavono
secondo le leggi ordinate da loro, posponendo ogni loro commodo
alla commune utilità; e le cose private e le publiche con somma
diligenzia governavano e conservavano. Venuta dipoi questa
amministrazione ai loro figliuoli, i quali non conoscendo la
variazione della fortuna, non avendo mai provato il male, e non
volendo stare contenti alla civile equalità, ma rivoltisi alla
avarizia, alla ambizione, alla usurpazione delle donne, feciono
che d'uno governo d'ottimati diventassi uno governo di pochi,
sanza avere rispetto ad alcuna civilità, talché, in breve tempo,
intervenne loro come al tiranno; perché, infastidita da' loro
governi, la moltitudine si fe' ministra di qualunque disegnassi
in alcun modo offendere quelli governatori; e così si levò
presto alcuno che, con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed
essendo ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie
ricevute da quello, avendo disfatto lo stato de' pochi e non
volendo rifare quel del principe, si volsero allo stato popolare;
e quello ordinarono in modo, che né i pochi potenti, né uno
principe, vi avesse autorità alcuna. E perché tutti gli stati
nel principio hanno qualche riverenzia, si mantenne questo stato
popolare un poco, ma non molto, massime spenta che fu quella
generazione che l'aveva ordinato; perché subito si venne alla
licenza, dove non si temevano né gli uomini privati né i
publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si
facevano ogni dì mille ingiurie: talché, costretti per
necessità, o per suggestione d'alcuno buono uomo, o per fuggire
tale licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da quello, di
grado in grado, si riviene verso la licenza, ne' modi e per le
cagioni dette.
E questo è il cerchio nel quale girando
tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade
volte ritornano ne' governi medesimi; perché quasi nessuna
republica può essere di tanta vita, che possa passare molte
volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene
interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre
consiglio e forze, diventa suddita d'uno stato propinquo, che sia
meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe
atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi.
Dico, adunque, che tutti i detti modi
sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne' tre buoni,
e per la malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo quelli
che prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto,
fuggendo ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno
che participasse di tutti, giudicandolo più fermo e più stabile;
perché l'uno guarda l'altro, sendo in una medesima città il
Principato, gli Ottimati, e il Governo Popolare.
Intra quelli che hanno per simili
constituzioni meritato più laude, è Licurgo; il quale ordinò
in modo le sue leggi in Sparta, che, dando le parti sue ai Re,
agli Ottimati e al Popolo, fece uno stato che durò, più che
ottocento anni, con somma laude sua e quiete di quella città. Al
contrario intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene;
che, per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve
vita, che, avanti morisse, vi vide nata la tirannide di
Pisistrato; e benché, dipoi anni quaranta, ne fussero gli eredi
suoi cacciati, e ritornasse Atene in libertà, perché la riprese
lo stato popolare, secondo gli ordini di Solone, non lo tenne
più che cento anni, ancora che per mantenerlo facessi molte
constituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de' grandi
e la licenza dell'universale, le quali non furono da Solone
considerate: nientedimeno, perché la non le mescolò con la
potenza del Principato e con quella degli Ottimati, visse Atene,
a rispetto di Sparta, brevissimo tempo.
Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante
che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, nel
principio, che la potesse vivere lungo tempo libera, nondimeno
furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione
che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva
fatto uno ordinatore, lo fece il caso. Perché, se Roma non
sortì la prima fortuna, sortì la seconda; perché i primi
ordini suoi, se furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla
diritta via che li potesse condurre alla perfezione. Perché
Romolo e tutti gli altri re fecero molte e buone leggi, conformi
ancora al vivere libero: ma perché il fine loro fu fondare un
regno e non una republica, quando quella città rimase libera, vi
mancavano molte cose che era necessario ordinare in favore della
libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E
avvengaché quelli suoi re perdessono l'imperio, per le cagioni e
modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi
subito due Consoli che stessono nel luogo de' Re, vennero a
cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché,
essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a
essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di
Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo
popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per
le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di
quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere
al Popolo la sua parte e, dall'altra parte, il Senato e i Consoli
restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella
republica il grado loro. E così nacque la creazione de' Tribuni
della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più
stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre
qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la
fortuna, che, benché si passasse dal governo de' Re e delli
Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle
medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si
tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l'autorità
alle qualità regie; ne si diminuì l'autorità in tutto agli
Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una
republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione
della Plebe e del Senato, come nei dua prossimi seguenti capitoli
largamente si dimosterrà.
Cap.
3
Quali
accidenti facessono creare in roma i tribuni della plebe, il che
fece la republica più perfetta.
Come
dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come
ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi dispone
una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli
uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello
animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione; e quando
alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una occulta
cagione, che, per non si essere veduta esperienza del contrario,
non si conosce; ma la fa poi scoprire il tempo, il quale dicono
essere padre d'ogni verità.
Pareva che fusse in Roma intra la Plebe
ed il Senato, cacciati i Tarquini, una unione grandissima; e che
i Nobili avessono diposto quella loro superbia, e fossero
diventati d'animo popolare, e sopportabili da qualunque ancora
che infimo. Stette nascoso questo inganno, né se ne vide la
cagione, infino che i Tarquinii vissero; dei quali temendo la
Nobilità, ed avendo paura che la Plebe male trattata non si
accostasse loro, si portava umanamente con quella: ma, come prima
ei furono morti i Tarquinii, e che ai Nobili fu la paura fuggita,
cominciarono a sputare contro alla Plebe quel veleno che si
avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la
offendevano. La quale cosa fa testimonianza a quello che di sopra
ho detto che gli uomini non operono mai nulla bene, se non per
necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si può usare
licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine.
Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi,
e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per sé medesima
sanza la legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando
quella buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria.
Però mancati i Tarquinii, che con la paura di loro tenevano la
Nobilità a freno, convenne pensare a uno nuovo ordine che
facesse quel medesimo effetto che facevano i Tarquinii quando
erano vivi. E però, dopo molte confusioni, romori e pericoli di
scandoli, che nacquero intra la Plebe e la Nobilità, si venne,
per sicurtà della Plebe, alla creazione de' Tribuni; e quelli
ordinarono con tante preminenzie e tanta riputazione, che
poterono essere sempre di poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e
ovviare alla insolenzia de' Nobili.
Cap.
4
Che
la disunione della plebe e del senato romano fece libera e
potente quella republica.
Io non
voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in
Roma dalla morte de' Tarquinii alla creazione de' Tribuni; e di
poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma
essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta
confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non
avesse sopperito a' loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni
altra republica. Io non posso negare che la fortuna e la milizia
non fossero cagioni dell'imperio romano; ma e' mi pare bene, che
costoro non si avegghino, che, dove è buona milizia, conviene
che sia buono ordine, e rade volte anco occorre che non vi sia
buona fortuna. Ma vegnamo agli altri particulari di quella città.
Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la
Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa
del tenere libera Roma; e che considerino più a' romori ed alle
grida che di tali tumulti nascevano, che a' buoni effetti che
quelli partorivano; e che e' non considerino come e' sono in ogni
republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de'
grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della
libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può
vedere essere seguito in Roma; perché da' Tarquinii ai Gracchi,
che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte
partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per tanto,
giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in
tanto tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più che
otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti
ancora ne condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo
con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di
virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione,
la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da
quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi
esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli abbiano
partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene,
ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. E se
alcuno dicessi: i modi erano straordinarii, e quasi efferati,
vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato
contro al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare
le botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte
spaventano, non che altro, chi le legge; dico come ogni città
debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l'ambizione
sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si
vogliono valere del popolo: intra le quali, la città di Roma
aveva questo modo, che, quando il popolo voleva ottenere una
legge, o e' faceva alcuna delle predette cose, o e' non voleva
dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo
bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de' popoli
liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e'
nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere
oppressi. E quando queste opinioni fossero false e' vi è il
rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che,
orando, dimostri loro come ei s'ingannano: e li popoli, come dice
Tullio, benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e
facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro il
vero.
Debbesi, adunque, più parcamente
biasimare il governo romano; e considerare che tanti buoni
effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati
se non da ottime cagioni. E se i tumulti furano cagione della
creazione de' Tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al
dare la parte sua all'amministrazione popolare, furano
constituiti per guardia della libertà romana, come nel seguente
capitolo si mosterrà.
Cap. 5
Dove
più sicuramente si ponga la guardia della libertà, o nel popolo
o ne' grandi; e quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi
vuole acquistare o chi vuole mantenere.
Quelli
che prudentemente hanno constituita una republica, in tra le più
necessarie cose ordinate da loro è stato constituire una guardia
alla libertà: e, secondo che questa è bene collocata, dura più
o meno quel vivere libero. E perché in ogni republica sono
uomini grandi e popolari, si è dubitato nelle mani di quali sia
meglio collocata detta guardia. Ed appresso a' Lacedemonii, e, ne'
nostri tempi, appresso de' Viniziani, la è stata messa nelle
mani de' Nobili; ma appresso de' Romani fu messa nelle mani della
Plebe.
Pertanto, è necessario esaminare quale
di queste republiche avesse migliore elezione. E se si andasse
dietro alle ragioni ci è che dire da ogni parte; ma se si
esaminasse il fine loro, si piglierebbe la parte de' Nobili, per
avere avuta la libertà di Sparta e di Vinegia più lunga vita
che quella di Roma. E venendo alle ragioni, dico, pigliando prima
la parte de' Romani, come e' si debbe mettere in guardia coloro d'una
cosa, che hanno meno appetito di usurparla. E sanza dubbio, se si
considerrà il fine de' nobili e degli ignobili, si vedrà in
quelli desiderio grande di dominare, ed in questi solo desiderio
di non essere dominati; e, per conseguente, maggiore volontà di
vivere liberi, potendo meno sperare di usurparla che non possono
i grandi: talché essendo i popolari preposti a guardia d'una
libertà, è ragionevole ne abbiano più cura; e non la potendo
occupare loro, non permettino che altri la occupi. Dall'altra
parte, chi difende l'ordine spartano e veneto, dice che coloro
che mettono la guardia in mano di potenti fanno due opere buone:
l'una, che ei satisfanno più all'ambizione loro, ed avendo più
parte nella republica, per avere questo bastone in mano, hanno
cagione di contentarsi più; l'altra, che lievono una qualità di
autorità dagli animi inquieti della plebe, che è cagione d'infinite
dissensioni e scandoli in una republica, e atta a ridurre la
Nobilità a qualche disperazione, che col tempo faccia cattivi
effetti. E ne dànno per esemplo la medesima Roma, che, per avere
i Tribuni della plebe questa autorità nelle mani, non bastò
loro avere un Consolo plebeio, che gli vollono avere ambedue. Da
questo, ei vollono la Censura, il Pretore, e tutti gli altri
gradi dell'imperio della città: né bastò loro questo, ché,
menati dal medesimo furore, cominciorono poi, col tempo, a
adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobilità;
donde nacque la potenza di Mario, e la rovina di Roma. E
veramente, chi discorressi bene l'una cosa e l'altra, potrebbe
stare dubbio, quale da lui fusse eletto per guardia di tale
libertà, non sappiendo quale umore di uomini sia più nocivo in
una republica, o quello che desidera mantenere l'onore già
acquistato o quel che desidera acquistare quello che non ha.
Ed in fine, chi sottilmente esaminerà
tutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni d'una republica
che voglia fare uno imperio, come Roma; o d'una che le basti
mantenersi. Nel primo caso, gli è necessario fare ogni cosa come
Roma; nel secondo, può imitare Vinegia e Sparta, per quelle
cagioni e come nel seguente capitolo si dirà.
Ma, per tornare a discorrere quali uomini
siano in una republica più nocivi, o quelli che desiderano d'acquistare,
o quelli che temono di non perdere l'acquistato; dico che, sendo
creato Marco Menenio Dittatore, e Marco Fulvio Maestro de'
cavagli, tutti a due plebei, per ricercare certe congiure che si
erano fatte in Capova contro a Roma, fu data ancora loro
autorità dal popolo di potere ricercare chi in Roma, per
ambizione e modi straordinari, s'ingegnasse di venire al
consolato, ed agli altri onori della città. E parendo alla
Nobilità, che tale autorità fusse data al Dittatore contro a
lei, sparsono per Roma, che non i nobili erano quelli che
cercavano gli onori per ambizione e modi straordinari ma gl'ignobili,
i quali, non confidatisi nel sangue e nella virtù loro,
cercavano, per vie straordinarie, venire a quelli gradi, e
particularmente accusavano il Dittatore. E tanto fu potente
questa accusa che Menenio, fatta una concione e dolutosi delle
calunnie dategli da' Nobili, depose la dittatura, e sottomessesi
al giudizio che di lui fusse fatto dal Popolo, e dipoi, agitata
la causa sua, ne fu assoluto: dove si disputò assai, quale sia
più ambizioso o quel che vuole mantenere o quel che vuole
acquistare; perché facilmente l'uno e l'altro appetito può
essere cagione di tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il più
delle volte sono causati da chi possiede, perché la paura del
perdere genera in loro le medesime voglie che sono in quelli che
desiderano acquistare; perché non pare agli uomini possedere
sicuramente quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo
dell'altro. E di più vi è, che, possedendo molto, possono con
maggiore potenza e maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi
è di più, che gli loro scorretti e ambiziosi portamenti
accendano, ne' petti di chi non possiede, voglia di possedere, o
per vendicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora
loro entrare in quelle ricchezze e in quelli onori che veggono
essere male usati dagli altri.
Cap. 6
Se
in Roma si poteva ordinare uno stato che togliesse via le
inimicizie intra il popolo ed il Senato.
Noi
abbiamo discorso, di sopra, gli effetti che facevano le
controversie intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle
seguitate infino al tempo de' Gracchi, dove furono cagione della
rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma
avesse fatti gli effetti grandi che la fece, sanza che in quella
fussono tali inimicizie. Però mi è parso cosa degna di
considerazione, vedere se in Roma si poteva ordinare uno stato
che togliesse via dette controversie. Ed a volere esaminare
questo, è necessario ricorrere a quelle republiche le quali
sanza tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere, e
vedere quale stato era in loro, e se si poteva introdurre in Roma.
In esemplo tra gli antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia,
state da me di sopra nominate. Sparta fece uno Re, con uno
piccolo Senato, che la governasse; Vinegia non ha diviso il
governo con i nomi, ma, sotto una appellagione, tutti quelli che
possono avere amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale
modo lo dette il caso, più che la prudenza di chi dette loro le
leggi: perché, sendosi ridotti in su quegli scogli dove è ora
quella città, per le cagioni dette di sopra, molti abitatori,
come furano cresciuti in tanto numero, che, a volere vivere
insieme, bisognasse loro far leggi, ordinarono una forma di
governo; e convenendo spesso insieme ne' consigli, a diliberare
della città, quando parve loro essere tanti che fossero a
sufficienza a uno vivere politico, chiusero la via a tutti quelli
altri che vi venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire
ne' loro governi; e, col tempo, trovandosi in quello luogo assai
abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che
governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani.
Potette questo modo nascere e mantenersi senza tumulto, perché,
quando e' nacque, qualunque allora abitava in Vinegia fu fatto
del governo, di modo che nessuno si poteva dolere; quelli che
dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo stato fermo e terminato,
non avevano cagione né commodità di fare tumulto. La cagione
non vi era, perché non era stato loro tolto cosa alcuna; la
commodità non vi era, perché chi reggeva li teneva in freno, e
non gli adoperava in cose dove e' potessono pigliare autorità.
Oltre a di questo, quelli che dipoi vennono ad abitare Vinegia
non sono stati molti, e di tanto numero che vi sia disproporzione
da chi gli governa a loro che sono governati, perché il numero
de' Gentiluomini o egli è equale al loro, o egli è superiore:
sicché, per queste cagione, Vinegia potette ordinare quello
stato, e mantenerlo unito.
Sparta, come ho detto, era governata da
uno Re e da uno stretto Senato. Potette mantenersi così lungo
tempo, perché, essendo in Sparta pochi abitatori, ed avendo
tolta la via a chi vi venisse ad abitare, ed avendo preso le
leggi di Licurgo con riputazione (le quali osservando, levavano
via tutte le cagioni de' tumulti) poterono vivere uniti lungo
tempo. Perché Licurgo con le sue leggi fece in Sparta più
equalità di sustanze, e meno equalità di grado; perché quivi
era una equale povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi,
perché i gradi della città si distendevano in pochi cittadini
ed erano tenuti discosto dalla plebe, né gli nobili col
trattargli male dettono mai loro desiderio di avergli. Questo
nacque dai Re spartani, i quali, essendo collocati in quel
principato e posti in mezzo di quella Nobilità, non avevano il
maggiore rimedio a tenere ferma la loro dignità, che tenere la
Plebe difesa da ogni ingiuria: il che faceva che la Plebe non
temeva e non desiderava imperio; e non avendo imperio né temendo,
era levata via la gara che la potesse avere con la Nobilità, e
la cagione de' tumulti; e poterono vivere uniti lungo tempo. Ma
due cose principali causarono questa unione: l'una essere pochi
gli abitatori di Sparta, e per questo poterono essere governati
da pochi; l'altra, che, non accettando forestieri nella loro
republica, non avevano occasione né di corrompersi né di
crescere in tanto che la fusse insopportabile a quelli pochi che
la governavano.
Considerando adunque tutte queste cose,
si vede come a' legislatori di Roma era necessario fare una delle
due cose a volere che Roma stesse quieta come le sopradette
republiche: o non adoperare la plebe in guerra, come i Viniziani;
o non aprire la via a' forestieri, ccme gli Spartani. E loro
feciono l'una e l'altra; il che dette alla plebe forze ed
augumento, ed infinite occasioni di tumultuare. Ma venendo lo
stato romano a essere più quieto, ne seguiva questo
inconveniente, ch'egli era anche più debile, perché e' gli si
troncava la via di potere venire a quella grandezza dove ei
pervenne: in modo che, volendo Roma levare le cagioni de' tumulti,
levava ancora le cagioni dello ampliare. Ed in tutte le cose
umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può mai
cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Per
tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter
fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi
maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato
per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere,
o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E
però, in ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove
sono meno inconvenienti, e pigliare quello per migliore partito:
perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai.
Poteva dunque Roma, a similitudine di Sparta, fare un principe a
vita, fare uno Senato piccolo; ma non poteva, come lei, non
crescere il numero de' cittadini suoi, volendo fare un grande
imperio: il che faceva che il Re a vita ed il piccolo numero del
Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco.
Se alcuno volesse, per tanto, ordinare
una republica di nuovo, arebbe a esaminare se volesse che
ampliasse, come Roma, di dominio e di potenza, ovvero che la
stesse dentro a brevi termini. Nel primo caso, è necessario
ordinarla come Roma, e dare luogo a' tumulti e alle dissensioni
universali, il meglio che si può; perché, sanza gran numero di
uomini, e bene armati, mai una republica potrà crescere, o, se
la crescerà, mantenersi. Nel secondo caso, la puoi ordinare come
Sparta e come Vinegia: ma perché l'ampliare è il veleno di
simili republiche, debbe, in tutti quelli modi che si può, chi
le ordina proibire loro lo acquistare, perché tali acquisti
fondati sopra una republica debole, sono al tutto la rovina sua.
Come intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la prima,
avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno
minimo accidente il debile fondamento suo; perché, seguita la
ribellione di Tebe, causata da Pelopida, ribellandosi l'altre
cittadi, rovinò al tutto quella republica. Similmente Vinegia,
avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggiore parte non con
guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare pruova
delle forze sue, perdette in una giornata ogni cosa. Crederrei
bene, che a fare una republica che durasse lungo tempo, fusse il
modo, ordinarla dentro come Sparta o come Vinegia; porla in luogo
forte, e di tale potenza che nessuno credesse poterla subito
opprimere; e, dall'altra parte, non fusse sì grande, che la
fusse formidabile a' vicini: e così potrebbe lungamente godersi
il suo stato. Perché, per due cagioni si fa guerra a una
republica: l'una, per diventarne signore; l'altra, per paura ch'ella
non ti occupi. Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi in
tutto toglie via; perché, se la è difficile a espugnarsi, come
io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa, rade volte
accaderà, o non mai, che uno possa fare disegno di acquistarla.
Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi, per esperienza,
che in lei non sia ambizione, non occorrerà mai che uno per
paura di sé le faccia guerra: e tanto più sarebbe questo, se e'
fussi in lei constituzione o legge che le proibisse l'ampliare. E
sanza dubbio credo, che, potendosi tenere la cosa bilanciata in
questo modo, che e' sarebbe il vero vivere politico e la vera
quiete d'una città. Ma sendo tutte le cose degli uomini in moto,
e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le
scendino; e a molte cose che la ragione non t'induce, t'induce la
necessità: talmente che, avendo ordinata una republica atta a
mantenersi, non ampliando, e la necessità la conducesse ad
ampliare, si verrebbe a tor via i fondamenti suoi, ed a farla
rovinare più tosto. Così, dall'altra parte, quando il Cielo le
fusse sì benigno che la non avesse a fare guerra, ne nascerebbe
che l'ozio la farebbe o effeminata o divisa; le quali due cose
insieme, o ciascuna per sé, sarebbono cagione della sua rovina.
Pertanto, non si potendo, come io credo, bilanciare questa cosa,
né mantenere questa via del mezzo a punto; bisogna, nello
ordinare la republica, pensare alle parte più onorevole; ed
ordinarle in modo, che, quando pure la necessità le inducesse ad
ampliare, elle potessono, quello ch'elle avessono occupato,
conservare. E, per tornare al primo ragionamento, credo ch'e' sia
necessario seguire l'ordine romano, e non quello dell'altre
republiche; perché trovare un modo, mezzo infra l'uno e l'altro,
non credo si possa, e quelle inimicizie che intra il popolo ed il
senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente
necessario a pervenire alla romana grandezza. Perché, oltre all'altre
ragioni allegate, dove si dimostra l'autorità tribunizia essere
stata necessaria per la guardia della libertà, si può
facilmente considerare il beneficio che fa nelle republiche l'autorità
dello accusare, la quale era, intra gli altri, commessa a'
Tribuni; come nel seguente capitolo si discorrerà.
Cap. 7
Quanto
siano in una republica necessarie le accuse a mantenerla in
libertade.
A
coloro che in una città sono preposti per guardia della sua
libertà, non si può dare autorità più utile e necessaria,
quanto è quella di potere accusare i cittadini al popolo, o a
qualunque magistrato o consiglio, quando peccassono in alcuna
cosa contro allo stato libero. Questo ordine fa dua effetti
utilissimi a una republica. Il primo è che i cittadini, per
paura di non essere accusati, non tentano cose contro allo stato;
e tentandole, sono, incontinente e sanza rispetto, oppressi. L'altro
è che si dà onde sfogare a quegli omori che crescono nelle
cittadi, in qualunque modo, contro a qualunque cittadino: e
quando questi omori non hanno onde sfogarsi ordinariamente,
ricorrono a' modi straordinari, che fanno rovinare tutta una
republica. E però non è cosa che faccia tanto stabile e ferma
una republica, quanto ordinare quella in modo che l'alterazione
di quegli omori che l'agitano, abbia una via da sfogarsi ordinata
dalle leggi. Il che si può per molti esempli dimostrare, e
massime per quello che adduce Tito Livio, di Coriolano, dove dice,
che, essendo irritata contro alla Plebe la Nobilità romana, per
parerle che la Plebe avessi troppa autorità, mediante la
creazione de' Tribuni che la difendevano; ed essendo Roma, come
avviene, venuta in penuria grande di vettovaglie, ed avendo il
Senato mandato per grani in Sicilia; Coriolano, inimico alla
fazione popolare, consigliò come egli era venuto il tempo da
potere gastigare la Plebe, e torle quella autorità che ella si
aveva in pregiudicio della Nobilità presa; tenendola affamata, e
non gli distribuendo il frumento: la quale sentenzia sendo venuta
agli orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione contro a
Coriolano, che allo uscire del Senato lo arebbero
tumultuariamente morto, se gli Tribuni non lo avessero citato a
comparire, a difendere la causa sua. Sopra il quale accidente, si
nota quello che di sopra si è detto, quanto sia utile e
necessario che le republiche con le leggi loro, diano onde
sfogarsi all'ira che concepe la universalità contro a uno
cittadino: perché quando questi modi ordinari non vi siano, si
ricorre agli straordinari; e sanza dubbio questi fanno molto
peggiori effetti che non fanno quelli.
Perché, se ordinariamente uno cittadino
è oppresso, ancora che li fusse fatto torto, ne séguita o poco
o nessuno disordine in la republica; perché la esecuzione si fa
sanza forze private, e sanza forze forestieri, che sono quelle
che rovinano il vivere libero; ma si fa con forze ed ordini
pubblici, che hanno i termini loro particulari, né trascendono a
cosa che rovini la republica. E quanto a corroborare questa
opinione con gli esempli, voglio che degli antiqui mi basti
questo di Coriolano; sopra il quale ciascuno consideri, quanto
male saria risultato alla republica romana, se tumultuariamente
ei fusse stato morto: perché ne nasceva offesa da privati a
privati, la quale offesa genera paura; la paura cerca difesa; per
la difesa si procacciano partigiani; da' partigiani nascono le
parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle. Ma sendosi
governata la cosa mediante chi ne aveva autorità si vennero a
tor via tutti quelli mali che ne potevano nascere governandola
con autorità privata.
Noi avemo visto ne' nostri tempi quale
novità ha fatto alla republica di Firenze non potere la
moltitudine sfogare l'animo suo ordinariamente contro a un suo
cittadino, come accadde ne' tempi che Francesco Valori era come
principe della città; il quale sendo giudicato ambizioso da
molti, e uomo che volesse con la sua audacia e animosità
transcendere il vivere civile; e non essendo nella republica via
a potergli resistere se non con una setta contraria alla sua; ne
nacque che, non avendo paura quello se non di modi straordinari,
si cominciò a fare fautori che lo difendessono; dall'altra parte,
quelli che lo oppugnavano non avendo via ordinaria a reprimerlo,
pensarono alle vie straordinarie: intanto che si venne alle armi.
E dove, quando per l'ordinario si fusse potuto opporsegli,
sarebbe la sua autorità spenta con suo danno solo; avendosi a
spegnere per lo straordinario, seguì con danno non solamente suo,
ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi ancora allegare,
in sostentamento della soprascritta conclusione, l'accidente
seguito pur in Firenze sopra Piero Soderini, il quale al tutto
seguì per non essere in quella republica alcuno modo di accuse
contro alla ambizione de' potenti cittadini. Perché lo accusare
uno potente a otto giudici in una republica, non basta: bisogna
che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de'
pochi. Tanto che, se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo
arebbero accusato, vivendo lui male; e per tale mezzo, sanza far
venire l'esercito spagnuolo, arebbono sfogato l'animo loro; o,
non vivendo male, non arebbono avuto ardire operargli contro, per
paura di non essere accusati essi: e così sarebbe da ogni parte
cessato quello appetito che fu cagione di scandolo.
Tanto che si può conchiudere questo, che,
qualunque volta si vede che le forze estranee siano chiamate da
una parte di uomini che vivono in una città, si può credere
nasca da' cattivi ordini di quella, per non essere, dentro a quel
cerchio, ordine da potere, sanza modi istraordinari, sfogare i
maligni omori che nascono negli uomini: a che si provede al tutto
con ordinarvi le accuse agli assai giudici, e dare riputazione a
quelle. I quali modi furono in Roma sì bene ordinati, che, in
tante dissensioni della Plebe e del Senato, mai o il Senato o la
Plebe o alcuno particulare cittadino disegnò valersi di forze
esterne; perché, avendo il rimedio in casa, non erano
necessitati andare per quello fuori. E benché gli esempli
soprascritti siano assai sufficienti a provarlo, nondimeno ne
voglio addurre un altro, recitato da Tito Livio nella sua istoria:
il quale riferisce come, sendo stato in Chiusi, città in quelli
tempi nobilissima in Toscana, da uno Lucumone violata una sorella
di Arunte, e non potendo Arunte vendicarsi per la potenza del
violatore, se n'andò a trovare i Franciosi, che allora regnavano
in quello luogo che oggi si chiama Lombardia; e quelli confortò
a venire con armata mano a Chiusi, mostrando loro come con loro
utile lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta: che se
Arunte avesse veduto potersi vendicare con i modi della città,
non arebbe cerco le forze barbare. Ma come queste accuse sono
utili in una republica, così sono inutili e dannose le calunnie,
come nel capitolo seguente discorreremo.
Cap. 8
Quanto le accuse sono utili alle republiche, tanto sono
perniziose le calunnie.
Non
ostante che la virtù di Furio Cammillo, poi ch'egli ebbe libera
Roma dalla oppressione de' Franciosi, avesse fatto che tutti i
cittadini romani, sanza parere loro torsi riputazione o grado,
cedevano a quello; nondimanco Manlio Capitolino non poteva
sopportare che gli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria;
parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il
Campidoglio, avere meritato quanto Cammillo; e, quanto all'altre
belliche laude, non essere inferiore a lui. Di modo che, carico d'invidia,
non potendo quietarsi per la gloria di quello, e veggendo non
potere seminare discordia infra i Padri, si volse alla Plebe,
seminando varie opinioni sinistre intra quella. E intra le altre
cose che diceva, era come il tesoro il quale si era adunato
insieme per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stato
usurpato da privati cittadini; e, quando si riavesse, si poteva
convertirlo in publica utilità, alleggerendo la Plebe da'
tributi, o da qualche privato debito. Queste parole poterono
assai nella Plebe; talché cominciò a avere concorso, ed a fare
a sua posta dimolti tumulti nella città: la quale cosa
dispiacendo al Senato, e parendogli di momento e pericolosa,
creò uno Dittatore, perché ci riconoscesse questo caso, e
frenasse lo empito di Manlio. Onde è che subito il Dittatore lo
fece citare, e condussonsi in publico all'incontro l'uno dell'altro;
il Dittatore in mezzo de' Nobili, e Manlio nel mezzo della Plebe.
Fu domandato Manlio che dovesse dire, appresso a chi fusse questo
tesoro ch'e' diceva, perché n'era così desideroso il Senato, d'intenderlo,
come la Plebe: a che Manlio non rispondeva particularmente; ma,
andando sfuggendo, diceva come non era necessario dire loro
quello che si sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere in
carcere.
È da notare, per questo testo, quanto
siano nelle città libere, ed in ogni altro modo di vivere,
detestabili le calunnie; e come, per reprimerle, si debba non
perdonare a ordine alcuno che vi faccia a proposito. Né può
essere migliore ordine, a torle via, che aprire assai luoghi alle
accuse; perché, quanto le accuse giovano alle republiche, tanto
le calunnie nuocono: e dall'una all'altra parte è questa
differenza, che le calunnie non hanno bisogno né di testimone
né di alcuno altro particulare riscontro a provarle, in modo che
ciascuno e da ciascuno può essere calunniato; ma non può già
essere accusato, avendo le accuse bisogno di riscontri veri e di
circunstanze che mostrino la verità dell'accusa. Accusansi gli
uomini a' magistrati, a' popoli, a' consigli; calunnionsi per le
piazze e per le logge. Usasi più questa calunnia dove si usa
meno l'accusa, e dove le città sono meno ordinate a riceverle.
Però, un ordinatore d'una republica debbe ordinare che si possa
in quella accusare ogni cittadino, sanza alcuna paura o sanza
alcuno rispetto; e fatto questo, e bene osservato, debbe punire
acremente i calunniatori: i quali non si possono dolere quando
siano puniti, avendo i luoghi aperti a udire le accuse di colui
che gli avesse per le logge calunniato. E dove non è bene
ordinata questa parte, seguitano sempre disordini grandi: perché
le calunnie irritano, e non castigano i cittadini; e gli irritati
pensano di valersi, odiando più presto, che temendo, le cose che
si dicano contro a loro. Questa parte, come è detto, era bene
ordinata in Roma; ed è stata sempre male ordinata nella nostra
città di Firenze. E come a Roma questo ordine fece molto bene, a
Firenze questo disordine fece molto male. E chi legge le istorie
di questa città, vedrà quante calunnie sono state in ogni tempo
date a' suoi cittadini, che si sono adoperati nelle cose
importanti di quella. Dell'uno dicevano, ch'egli aveva rubato i
danari al Comune; dell'altro, che non aveva vinta una impresa per
essere stato corrotto; e che quell'altro per sua ambizione aveva
fatto il tale ed il tale inconveniente. Di che ne nasceva che da
ogni parte ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione, dalla
divisione alle sètte, dalle sètte alla rovina. Che se fusse
stato in Firenze ordine d'accusare i cittadini, e punire i
calunniatori, non seguivano infiniti scandoli che sono seguiti;
perché quelli cittadini, o condannati o assoluti che fussono,
non arebbono potuto nuocere alla città, e sarebbeno stati
accusati meno assai che non ne erano calunniati, non si potendo,
come ho detto, accusare come calunniare ciascuno. Ed intra l'altre
cose di che si è valuto alcun cittadino per venire alla
grandezza sua, sono state queste calunnie: le quali venendo
contro a cittadini potenti che all'appetito suo si opponevano,
facevono assai per quello; perché, pigliando la parte del Popolo,
e confermandolo nella mala opinione ch'egli aveva di loro, se lo
fece amico. E benché se ne potessi addurre assai esempli, voglio
essere contento solo d'uno. Era lo esercito fiorentino a campo a
Lucca, comandato da messer Giovanni Guicciardini, commessario di
quello. Vollono o i cattivi suoi governi o la cattiva sua fortuna
che la espugnazione di quella città non seguisse: pure, comunque
il caso stesse, ne fu incolpato messer Giovanni, dicendo com'egli
era stato corrotto da' Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita
dagl'inimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in ultima
disperazione. E benché, per giustificarsi, e' si volessi mettere
nelle mani del Capitano; nondimeno non si potette mai
giustificare, per non essere modi in quella republica da poterlo
fare. Di che ne nacque assai sdegni intra gli amici di messer
Giovanni, che erano la maggior parte degli uomini grandi ed infra
coloro che desideravano fare novità in Firenze. La quale cosa, e
per questa e per altre simili cagioni, tanto crebbe che ne seguì
la rovina di quella republica.
Era adunque Manlio Capitolino
calunniatore, e non accusatore; ed i Romani mostrarono, in questo
caso appunto, come i calunniatori si debbono punire. Perché si
debbe farli diventare accusatori; e quando l'accusa si riscontri
vera, o premiarli o non punirli: ma quando la non si riscontri
vera, punirli, come fu punito Manlio.
Cap. 9
Come
egli è necessario essere solo a volere ordinare una repubblica
di nuovo, o al tutto fuor degli antichi suoi ordini riformarla.
Ei
parrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro nella
istoria romana, non avendo fatto alcuna menzione ancora degli
ordinatori di quella republica, né di quelli ordini che alla
religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo
tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questa parte
volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura
giudicheranno di cattivo esemplo, che uno fondatore d'un vivere
civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi
consentito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui
compagno nel regno; giudicando, per questo, che gli suoi
cittadini potessono con l'autorità del loro principe, per
ambizione e desiderio di comandare, offendere quelli che alla
loro autorità si opponessero. La quale opinione sarebbe vera,
quando non si considerasse che fine lo avesse indotto a fare tal
omicidio.
E debbesi pigliare questo per una regola
generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia,
da principio, ordinato bene, o al tutto di nuovo, fuora degli
ordini vecchi, riformato, se non è ordinato da uno; anzi è
necessario che uno solo sia quello che dia il modo, e dalla cui
mente dependa qualunque simile ordinazione. Però, uno prudente
ordinatore d'una republica, e che abbia questo animo, di volere
giovare non a sé ma al bene comune, non alla sua propria
successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l'autorità,
solo; né mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna
azione straordinaria, che, per ordinare un regno o constituire
una republica, usasse. Conviene bene, che, accusandolo il fatto,
lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo,
sempre lo scuserà: perché colui che è violento per guastare,
non quello che è per racconciare, si debbe riprendere. Debbi
bene in tanto essere prudente e virtuoso, che quella autorità
che si ha presa non la lasci ereditaria a un altro: perché,
sendo gli uomini più proni al male che al bene, potrebbe il suo
successore usare ambiziosamente quello che virtuosamente da lui
fusse stato usato. Oltre a di questo, se uno è atto a ordinare,
non è la cosa ordinata per durare molto, quando la rimanga sopra
le spalle d'uno; ma sì bene, quando la rimane alla cura di molti
e che a molti stia il mantenerla. Perché, così come molti non
sono atti a ordinare una cosa, per non conoscere il bene di
quella, causato dalle diverse opinioni che sono fra loro; così,
conosciuto che lo hanno, non si accordano a lasciarlo. E che
Romolo fusse di quelli che nella morte del fratello e del
compagno meritasse scusa, e che quello che fece, fusse per il
bene comune, e non per ambizione propria, lo dimostra lo avere
quello, subito ordinato uno Senato, con il quale si consigliasse,
e secondo la opinione del quale deliberasse. E chi considerrà
bene l'autorità che Romolo si riserbò, vedrà non se ne essere
riserbata alcun'altra che comandare agli eserciti quando si era
deliberata la guerra e di ragunare il Senato. Il che si vide poi,
quando Roma divenne libera per la cacciata de' Tarquini, dove da'
Romani non fu innovato alcun ordine dello antico, se non che, in
luogo d'uno Re perpetuo, fossero due Consoli annuali; il che
testifica, tutti gli ordini primi di quella città essere stati
più conformi a uno vivere civile e libero, che a uno assoluto e
tirannico.
Potrebbesi dare in sostentamento delle
cose soprascritte infiniti esempli; come Moises, Licurgo, Solone,
ed altri fondatori di regni e di republiche, e' quali poterono,
per aversi attribuito un'autorità, formare leggi a proposito del
bene comune: ma li voglio lasciare indietro, come cosa nota.
Addurronne solamente uno, non sì celebre, ma da considerarsi per
coloro che desiderassono essere di buone leggi ordinatori: il
quale è, che, desiderando Agide re di Sparta ridurre gli
Spartani intra quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano
rinchiusi, parendogli che, per esserne in parte deviati, la sua
città avesse perduto assai di quella antica virtù, e, per
consequente, di forze e d'imperio, fu, ne' suoi primi principii,
ammazzato dagli Efori spartani, come uomo che volesse occupare la
tirannide. Ma succedendo dopo di lui nel regno Cleomene, e
nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti ch'egli
aveva trovati d'Agide, dove si vedeva quale era la mente ed
intenzione sua, conobbe non potere fare questo bene alla sua
patria se non diventava solo di autorità; parendogli, per l'ambizione
degli uomini, non potere fare utile a molti contro alla voglia di
pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti gli
Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi rinnovò
in tutto le leggi di Licurgo. La quale diliberazione era atta a
fare risuscitare Sparta, e dare a Cleomene quella riputazione che
ebbe Licurgo, se non fusse stata la potenza de' Macedoni, e la
debolezza delle altre republiche greche. Perché, essendo, dopo
tale ordine, assaltato da' Macedoni, e trovandosi per sé stesso
inferiore di forze, e non avendo a chi rifuggire, fu vinto; e
restò quel suo disegno, quantunque giusto e laudabile,
imperfetto.
Considerato adunque tutte queste cose,
conchiudo, come a ordinare una republica è necessario essere
solo; e Romolo, per la morte di Remo e di Tito Tazio, meritare
iscusa e non biasimo.
Cap.
10
Quanto
sono laudabili i fondatori d'una republica o d'uno regno, tanto
quelli d'una tirannide sono vituperabili.
Intra
tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono
stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso, dipoi, quelli
che hanno fondato o republiche o regni. Dopo a costoro, sono
celebri quelli che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il
regno loro o quello della patria. A questi si aggiungono gli
uomini litterati. E perché questi sono di più ragioni, sono
celebrati, ciascuno d'essi, secondo il grado suo. A qualunque
altro uomo, il numero de' quali è infinito, si attribuisce
qualche parte di laude, la quale gli arreca l'arte e lo esercizio
suo. Sono pel contrario, infami e detestabili gli uomini
distruttori delle religioni, dissipatori de' regni e delle
republiche, inimici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra
arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione; come
sono gl'impii, i violenti, gl'ignoranti, i dappochi, gli oziosi,
i vili. E nessuno sarà mai sì pazzo o sì savio, sì tristo o
sì buono, che, prepostagli la elezione delle due qualità d'uomini,
non laudi quella che è da laudare, e biasimi quella che è da
biasimare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti, ingannati da uno
falso bene e da una falsa gloria, si lasciono andare, o
voluntariamente o ignorantemente, nei gradi di coloro che
meritano più biasimo che laude; e potendo fare, con perpetuo
loro onore, o una republica o uno regno, si volgono alla
tirannide: né si avveggono per questo partito quanta fama,
quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con sodisfazione d'animo,
ei fuggono; e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e
inquietudine, incorrono.
Ed è impossibile che quelli che in stato
privato vivono in una republica, o che per fortuna o per virtù
ne diventono principi, se leggessono le istorie, e delle memorie
delle antiche cose facessono capitale, che non volessero quelli
tali privati vivere nella loro patria più tosto Scipioni che
Cesari; e quelli che sono principi, più tosto Agesilai,
Timoleoni, Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisii: perché
vedrebbono questi essere sommamente vituperati, e quelli
eccessivamente laudati. Vedrebbero ancora come Timoleone e gli
altri non ebbono nella patria loro meno autorità che si avessono
Dionisio e Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuta più
sicurtà.
Né sia alcuno che s'inganni, per la
gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori:
perché quegli che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e
spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi
sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassono
liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli
scrittori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di
Catilina. E tanto è più biasimevole Cesare, quanto più è da
biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un
male. Vegga ancora con quante laude ei celebrano Bruto; talché,
non potendo biasimare quello, per la sua potenza, ei celebravano
il nimico suo.
Consideri ancora quello che è diventato
principe in una republica, quanta laude, poiché Roma fu
diventata Imperio, meritarono più quelli imperadori che vissero
sotto le leggi e come principi buoni, che quelli che vissero al
contrario: e vedrà come a Tito Nerva, Traiano, Adriano, Antonino
e Marco, non erano necessari i soldati pretoriani né la
moltitudine delle legioni a difenderli, perché i costumi loro,
la benivolenza del Popolo, l'amore del Senato, gli difendeva.
Vedrà ancora come a Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti altri
scelerati imperadori, non bastarono gli eserciti orientali ed
occidentali a salvarli contro a quelli inimici che li loro rei
costumi, la loro malvagia vita, aveva loro generati. E se la
istoria di costoro fusse bene considerata, sarebbe assai
ammaestramento a qualunque principe, a mostrargli la via della
gloria o del biasimo, e della sicurtà o del timore suo. Perché,
di ventisei imperadori che furono da Cesare a Massimino, sedici
ne furono ammazzati, dieci morirono ordinariamente e se di quelli
che furono morti ne fu alcun buono come Galba e Pertinace, fu
morto da quella corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata
nei soldati. E se tra quelli che morirono ordinariamente ve ne fu
alcuno scelerato, come Severo, nacque da una sua grandissima
fortuna e virtù; le quali due cose pochi uomini accompagnano.
Vedrà ancora, per la lezione di questa istoria, come si può
ordinare un regno buono: perché tutti gl'imperadori che
succederono all'imperio per eredità, eccetto Tito, furono
cattivi, quelli che per adozione, furono tutti buoni come furono
quei cinque da Nerva a Marco: e come l'imperio cadde negli eredi,
e' ritornò nella sua rovina.
Pongasi, adunque, innanzi un principe i
tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con quelli che erano
stati prima e che furono poi; e dipoi elegga in quali volesse
essere nato, o a quali volesse essere preposto. Perché, in
quelli governati da' buoni, vedrà un principe sicuro in mezzo de'
suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo;
vedrà il Senato con la sua autorità, i magistrati co' suoi
onori; godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze, la nobilità
e la virtù esaltata; vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dall'altra
parte, ogni rancore, ogni licenza, corruzione e ambizione spenta;
vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e difendere
quella opinione che vuole. Vedrà, in fine, trionfare il mondo;
pieno di riverenza e di gloria il principe, d'amore e sicurtà i
popoli. Se considererà, dipoi, tritamente i tempi degli altri
imperadori, gli vedrà atroci per le guerre, discordi per le
sedizioni, nella pace e nella guerra crudeli: tanti principi
morti col ferro, tante guerre civili, tante esterne; l'Italia
afflitta, e piena di nuovi infortunii; rovinate e saccheggiate le
cittadi di quella. Vedrà Roma arsa, il Campidoglio da' suoi
cittadini disfatto, desolati gli antichi templi, corrotte le
cerimonie, ripiene le città di adulterii: vedrà il mare pieno
di esilii, gli scogli pieni di sangue. Vedrà in Roma seguire
innumerabili crudeltadi e la nobilità, le ricchezze, i passati
onori, e sopra tutto la virtù, essere imputate a peccato
capitale. Vedrà premiare gli calunniatori, essere corrotti i
servi contro al signore, i liberti contro al padrone; e quelli a
chi fussero mancati inimici, essere oppressi dagli amici. E
conoscerà allora benissimo quanti oblighi Roma, l'Italia, e il
mondo, abbia con Cesare.
E sanza dubbio, se e' sarà nato d'uomo,
si sbigottirà da ogni imitazione de' tempi cattivi, ed
accenderassi d'uno immenso desiderio di seguire i buoni. E
veramente, cercando un principe la gloria del mondo, doverrebbe
desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in
tutto come Cesare, ma per riordinarla come Romolo. E veramente i
cieli non possono dare agli uomini maggiore occasione di gloria,
né gli uomini la possono maggiore desiderare. E se, a volere
ordinare bene una città, si avesse di necessità a diporre il
principato, meriterebbe, quello che non la ordinasse per non
cadere di quel grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il
principato ed ordinarla, non si merita scusa alcuna. E, in somma,
considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come ei
sono loro preposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo
la morte li rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continove
angustie, e, dopo la morte, lasciare di sé una sempiterna
infamia.
Cap. 11
Della religione de' Romani.
Avvenga
che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello
abbi a riconoscere, come figliuola, il nascimento e la educazione
sua, nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di Romolo non
bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato
romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo,
acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate indietro,
fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo
ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le
arti della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto
necessaria a volere mantenere una civiltà; e la constituì in
modo, che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto
in quella republica; il che facilitò qualunque impresa che il
Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E chi
discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme,
e di molti de' Romani di per sé, vedrà come quelli cittadini
temevono più assai rompere il giuramento che le leggi; come
coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella degli
uomini: come si vede manifestamente per gli esempli di Scipione e
di Manlio Torquato. Perché, dopo la rotta che Annibale aveva
dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme,
e, sbigottiti della patria, si erano convenuti abbandonare la
Italia, e girsene in Sicilia; il che sentendo Scipione, gli andò
a trovare, e col ferro ignudo in mano li costrinse a giurare di
non abbandonare la patria. Lucio Manlio, padre di Tito Manlio,
che fu dipoi chiamato Torquato, era stato accusato da Marco
Pomponio, Tribuno della plebe, ed innanzi che venisse il dì del
giudizio, Tito andò a trovare Marco, e, minacciando di
ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo
costrinse al giuramento; e quello, per timore avendo giurato, gli
levò l'accusa. E così quelli cittadini i quali lo amore della
patria, le leggi di quella, non ritenevano in Italia, vi furono
ritenuti da un giuramento che furano forzati a pigliare; e quel
Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col padre, la
ingiuria che gli avea fatto il figliuolo, e l'onore suo, per
ubbidire al giuramento preso: il che non nacque da altro, che da
quella religione che Numa aveva introdotta in quella città.
E vedesi, chi considera bene le istorie
romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, a
animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare
i rei. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma
fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa
otterrebbe il primo grado: perché, dove è religione, facilmente
si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione,
con difficultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo,
per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari,
non gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene
necessario a Numa, il quale simulò di avere domestichezza con
una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch'egli avesse a
consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere
ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua
autorità non bastasse.
E veramente, mai fu alcuno ordinatore di
leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio;
perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i
beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni
evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi,
che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così
fece Licurgo, così Solone, così molti altri che hanno avuto il
medesimo fine di loro. Maravigliando, adunque, il Popolo romano
la bontà e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua diliberazione.
Ben è vero che l'essere quelli tempi pieni di religione, e
quegli uomini, con i quali egli aveva a travagliare, grossi, gli
dettono facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo
imprimere in loro facilmente qualunque nuova forma. E sanza
dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una republica più
facilità troverrebbe negli uomini montanari, dove non è alcuna
civilità, che in quelli che sono usi a vivere nelle cittadi,
dove la civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà più
facilmente una bella statua d'un marmo rozzo, che d'uno male
abbozzato da altrui.
Considerato adunque tutto, conchiudo che
la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della
felicità di quella città: perché quella causò buoni ordini; i
buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona fortuna nacquero
i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto
divino è cagione della grandezza delle republiche, così il
dispregio di quello è cagione della rovina d'esse. Perché, dove
manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che
sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti
della religione. E perché i principi sono di corta vita,
conviene che quel regno manchi presto, secondo che manca la
virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i quali dipendono solo
dalla virtù d'uno uomo, sono poco durabili, perché quella
virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia
rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li rami
l'umana probitate; e questo vuole
quel che la da', perche' da lui si chiami.
Non è, adunque, la salute di una republica o d'uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuada uno ordine o una opinione nuova, non è però per questo impossibile persuaderla ancora agli uomini civili e che presumono non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza: ma io dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa nessuna straordinaria, da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina e il suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia, pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo ordine.
Cap.
12
Di quanta importanza sia tenere conto
della religione, e come la Italia, per esserne mancata mediante
la chiesa romana, è rovinata.
Quelli
principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere
incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le
cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro
venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere
della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto
divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su
che sia fondata la religione dove l'uomo è nato; perché ogni
religione ha il fondamento della vita sua in su qualche
principale ordine suo. La vita della religione Gentile era
fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la setta degli
indovini e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie
sacrifici e riti, dependevano da queste perché loro facilmente
credevono che quello Iddio che ti poteva predire il tuo futuro
bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui
nascevano i templi, di qui i sacrifici, di qui le supplicazioni,
ed ogni altra cerimonia in venerarli: perché l'oracolo di Delo,
il tempio di Giove Ammone, ed altri celebri oracoli, i quali
riempivano il mondo di ammirazione e divozione. Come costoro
cominciarono dipoi a parlare a modo de' potenti, e che questa
falsità si fu scoperta ne' popoli, diventarono gli uomini
increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono,
adunque i principi d'una republica o d'uno regno, i fondamenti
della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto questo
sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa, e,
per conseguente buona e unita. E debbono, tutte le cose che
nascano in favore di quella come che le giudicassono false,
favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto più
prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali. E
perché questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è
nato l'opinione dei miracoli, che si celebrano nelle religioni
eziandio false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque
principio e' si nascano; e l'autorità loro dà poi a quelli fede
appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai;
intra i quali fu, che, saccheggiando i soldati romani la città
de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed
accostandosi alla imagine di quella, e dicendole: "Vis
venire Romam?" parve a alcuno vedere che la accennasse a
alcuno altro che la dicesse di sì. Perché sendo quegli uomini
ripieni di religione (il che dimostra Tito Livio, perché, nello
entrare nel tempio, vi entrarono sanza tumulto, tutti devoti e
pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta che alla
domanda loro per avventura si avevano presupposta: la quale
opinione e credulità da Cammillo a dagli altri principi della
città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se
ne' principi della republica cristiana si fusse mantenuta,
secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati
e le republiche cristiane più unite, più felici assai, che le
non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura della
declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono
più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra
hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e
vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe
essere propinquo, sanza dubbio, o la rovina o il fragello.
E perché molti sono d'opinione, che il
bene essere delle città d'Italia nasca dalla Chiesa romana,
voglio, contro a essa, discorrere quelle ragioni che mi occorrono:
e ne allegherò due potentissime ragioni le quali, secondo me,
non hanno repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di
quella corte, questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni
religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e
infiniti disordini; perché, così come dove è religione si
presuppone ogni bene, così, dove quella manca, si presuppone il
contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi
Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione
e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la
seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha
tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente, alcuna
provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla
ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come è avvenuto
alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia
in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o una republica o
uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché,
avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata
sì potente né di tanta virtù che l'abbia potuto occupare la
tirannide d'Italia e farsene principe; e non è stata, dall'altra
parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle
sue cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che
la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo
potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze,
quando, mediante Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano
già quasi re di tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella
tolse la potenza a' Viniziani con l'aiuto di Francia; di poi ne
cacciò i Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo,
adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia,
né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che
la non è potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto più
principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta
debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non
solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che
noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri.
E chi ne volesse per esperienza certa vedere più pronta la
verità, bisognerebbe che fusse di tanta potenza che mandasse ad
abitare la corte romana, con l'autorità che l'ha in Italia, in
le terre de' Svizzeri; i quali oggi sono, solo, popoli che vivono,
e quanto alla religione e quanto agli ordini militari, secondo
gli antichi: e vedrebbe che in poco tempo farebbero più
disordine in quella provincia i rei costumi di quella corte, che
qualunque altro accidente che in qualunque tempo vi potesse
surgere.
Cap.
13
Come i Romani si servivono della
religione per riordinare la città e seguire le loro imprese e
fermare i tumulti.
Ei
non mi pare fuora di proposito addurre alcuno esemplo dove i
Romani si servivono della religione per riordinare la città, e
per seguire le imprese loro; e quantunque in Tito Livio ne siano
molti, nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato
il Popolo romano i Tribuni di potestà consolare, e, fuora che
uno, tutti plebei; ed essendo occorso, quello anno, peste e fame,
e venuto certi prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella
nuova creazione de' Tribuni, dicendo che gl'Iddii erano adirati
per avere Roma male usato la maiestà del suo imperio, e che non
era altro rimedio a placare gl'Iddii che ridurre la elezione de'
Tribuni nel luogo suo: di che nacque che la plebe, sbigottita da
questa religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora,
nella espugnazione della città de' Veienti, come i capitani
degli eserciti si valevano della religione per tenergli disposti
a una impresa; che, essendo il lago Albano, quello anno,
cresciuto mirabilmente, ed essendo i soldati romani infastiditi
per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a Roma, trovarono i
Romani come Apollo e certi altri risponsi dicevano che quello
anno si espugnerebbe la città de' Veienti, che si derivassi il
lago Albano: la quale cosa fece ai soldati sopportare i fastidi
della ossidione, presi da questa speranza di espugnare la terra:
e stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo
fatto Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni che la era
stata assediata. E così la religione, usata bene, giovò e per
la espugnazione di quella città, e per la restituzione del
Tribunato nella Nobilità che, sanza detto mezzo, difficilmente
si sarebbe condotto e l'uno e l'altro.
Non voglio mancare di addurre a questo
proposito un altro esemplo. Erano nati in Roma assai tumulti per
cagione di Terentillo tribuno, volendo lui proporre certa legge,
per le cagioni che di sotto, nel suo luogo, si diranno; e tra i
primi rimedi che vi usò la Nobilità, fu la religione, della
quale si servirono in due modi. Nel primo, fecero vedere i libri
Sibillini, e rispondere come alla città, mediante la civile
sedizione, soprastavano quello anno pericoli di non perdere la
libertà: la quale cosa, ancora che fusse scoperta da' tribuni,
nondimeno messe tanto terrore ne' petti della plebe, che la
raffreddò nel seguirli. L'altro modo fu che, avendo un Appio
Erdonio, con una moltitudine di sbanditi e di servi, in numero di
quattromila uomini, occupato di notte il Campidoglio, in tanto
che si poteva temere che, se gli Equi e i Volsci, perpetui
inimici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono
espugnata; e non cessando i tribuni, per questo, continovare
nella pertinacia loro, di proporre la legge Terentilla, dicendo
che quello insulto era simulato e non vero; uscì fuori del
Senato un Publio Ruberio, cittadino grave e di autorità, con
parole, parte amorevoli, parte minaccianti, mostrandogli i
pericoli della città, e la intempestiva domanda loro; tanto ch'ei
costrinse la plebe a giurare di non si partire dalla voglia del
consolo: tanto che la plebe, ubbidiente, per forza ricuperò il
Campidoglio. Ma essendo in tale espugnazione morto Publio Valerio
consolo, subito fu rifatto consolo Tito Quinzio, il quale, per
non lasciare riposare la plebe, né darle spazio a pensare alla
legge Terentilla, le comandò s'uscisse di Roma per andare contro
ai Volsci, dicendo che per quel giuramento aveva fatto di non
abbandonare il consolo, era obligata a seguirlo: a che i tribuni
si opponevano, dicendo come quel giuramento s'era dato al consolo
morto, e non a lui. Nondimeno Tito Livio mostra come la Plebe,
per paura della religione, volle più tosto ubbidire al consolo,
che credere a' tribuni, dicendo in favore della antica religione
queste parole: "Nondum haec, quae nunc tenet saeculum,
negligentia Deum venerat, nec interpretando sibi quisque
jusjurandum et leges aptas faciebat". Per la quale cosa
dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor dignità,
si accordarono col consolo di stare alla ubbidienza di quello; e
che per uno anno non si ragionasse della legge Terentilla, ed i
Consoli per uno anno non potessero trarre fuori la plebe alla
guerra. E così la religione fece al Senato vincere quelle
difficultà, che, sanza essa, mai averebbe vinte.
Cap.
14
I Romani interpetravano gli auspizi
secondo la necessità, e con la prudenza mostravano di osservare
la religione, quando forzati non la osservavano; e se alcuno
temerariamente la dispregiava, punivano.
Non
solamente gli augurii, come di sopra si è discorso, erano il
fondamento, in buona parte, dell'antica religione de' Gentili, ma
ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della
Republica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di
alcuno altro ordine di quella; ed usavongli ne' comizi consolari,
nel principiare le imprese, nel trar fuora gli eserciti, nel fare
le giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o
militare; né mai sarebbono iti ad una espedizione, che non
avessono persuaso ai soldati che gli Dei promettevano loro la
vittoria. Ed in fra gli altri auspicii, avevano negli eserciti
certi ordini di aruspici, ch'e' chiamavano pullarii: e qualunque
volta eglino ordinavano di fare la giornata con il nimico, ei
volevano che i pullarii facessono i loro auspicii; e, beccando i
polli, combattevono con buono augurio, non beccando, si
astenevano dalla zuffa. Nondimeno, quando la ragione mostrava
loro una cosa doversi fare, non ostante che gli auspicii fossero
avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e
modi tanto attamente, che non paresse che la facessino con
dispregio della religione.
Il quale termine fu usato da Papirio
consolo in una zuffa che ei fece importantissima coi Sanniti,
dopo la quale restarono in tutto deboli ed afflitti. Perché,
sendo Papirio in su' campi rincontro ai Sanniti, e parendogli
avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo per questo fare la
giornata, comandò ai pullarii che facessono i loro auspicii; ma
non beccando i polli, e veggendo il principe de' pullarii la gran
disposizione dello esercito di combattere, e la opinione che era
nel capitano ed in tutti i soldati di vincere, per non tôrre
occasione di bene operare a quello esercito, riferì al consolo
come gli auspicii procedevono bene: talché Papirio, ordinando le
squadre, ed essendo da alcuni de' pullarii detto a certi soldati,
i polli non avere beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio
nepote del consolo; e quello riferendolo al consolo, rispose
subito, ch'egli attendessi a fare l'ufficio suo bene; che, quanto
a lui ed allo esercito, gli auspicii erano buoni; e se il
pullario aveva detto le bugie, le tornerebbono in pregiudizio suo.
E perché lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò ai
legati che constituissono i pullarii nella prima fronte della
zuffa. Onde nacque che, andando contro a' nimici, sendo da un
soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò il principe de'
pullarii: la quale cosa udita, il consolo disse come ogni cosa
procedeva bene, e col favore degli Dei; perché lo esercito con
la morte di quel bugiardo s'era purgato da ogni colpa e da ogni
ira che quelli avessono presa contro a di lui. E così, col
sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese
partito di azzuffarsi, sanza che quello esercito si avvedesse che
in alcuna parte quello avesse negletti gli ordini della loro
religione.
Al contrario fece Appio Pulcro in Sicilia,
nella prima guerra punica: che, volendo azzuffarsi con l'esercito
cartaginese, fece fare gli auspicii a' pullarii; e riferendogli
quelli, come i polli non beccavano, disse: - Veggiamo se
volessero bere! - e gli fece gittare in mare. Donde che
azzuffandosi, perdé la giornata: di che egli fu a Roma
condannato, e Papirio onorato, non tanto per avere l'uno vinto, e
l'altro perduto, quanto per avere l'uno fatto contro agli
auspicii prudentemente, e l'altro temerariamente. Né ad altro
fine tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati
confidentemente ire alla zuffa; dalla quale confidenza quasi
sempre nasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente usata dai
Romani, ma dagli esterni: di che mi pare da addurne uno esemplo
nel seguente capitolo.
Cap.
15
I Sanniti, per estremo rimedio alle
cose loro afflitte, ricorsero alla religione.
Avendo i Sanniti avute più rotte da' Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro capitani; ed essendo stati vinti i loro compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; "nec suis nec externis viribus jam stare poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne infeliciter quidem defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam, malebant". Onde deliberarono fare l'ultima prova: e perché ei sapevano che, a volere vincere, era necessario indurre ostinazione negli animi de' soldati, e che a indurvela non era migliore mezzo che la religione; pensarono di ripetere uno antico loro sacrificio, mediante Ovio Paccio, loro sacerdote. Il quale ordinarono in questa forma: che, fatto il sacrificio solenne e fatto, intra le vittime morte e gli altari accesi, giurare tutti i capi dell'esercito di non abbandonare mai la zuffa, citorono i soldati ad uno ad uno: ed intra quegli altari, nel mezzo di più centurioni con le spade nude in mano gli facevano prima giurare che non ridirebbono cosa che vedessono o sentissono; dipoi, con parole esecrabili e versi pieni di spavento, gli facevano promettere agli Dei, d'essere presti dove gl'imperadori gli mandassono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, e d'ammazzare qualunque ei vedessono che si fuggisse: la quale cosa non osservata, tornassi sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da' loro centurioni erano morti, talché gli altri che succedevono poi, impauriti dalla ferocità dello spettacolo, giurarono tutti. E per fare questo loro assembramento più magnifico, sendo quarantamila uomini, ne vestirono la metà di panni bianchi, con creste e pennacchi sopra le celate; e così ordinati si posero presso ad Aquilonia. Contro a costoro venne Papirio; il quale, nel confortare i suoi soldati, disse: "non enim cristas vulnera facere, et picta atque aurata scuta transire romanum pilum". E per debilitare la opinione che avevono i suoi soldati de' nimici per il giuramento preso, disse che quello era a timore non a fortezza loro; perché in quel medesimo tempo gli avevano avere paura de' cittadini, degl'Iddii, e de' nimici. E venuti al conflitto, furono superati i Sanniti; perché la virtù romana, e il timore conceputo per le passate rotte, superò qualunque ostinazione ei potessero avere presa per virtù della religione e per il giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non parve potere avere altro rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testifica appieno, quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E benché questa parte più tosto, per avventura, si richiederebbe essere posta intra le cose estrinseche; nondimeno, dependendo da uno ordine de' più importanti della Republica di Roma, mi è parso da connetterlo in questo luogo, per non dividere questa materia e averci a ritornare più volte.
Cap.
16
Uno popolo, uso a vivere sotto uno
principe, se per qualche accidente diventa libero, con
difficultà mantiene la libertà.
Quanta
difficultà sia a uno popolo, uso a vivere sotto uno principe,
perservare dipoi la libertà, se per alcuno accidente l'acquista,
come l'acquistò Roma dopo la cacciata de' Tarquinii, lo
dimostrono infiniti esempli che si leggono nelle memorie delle
antiche istorie. E tale difficultà è ragionevole; perché quel
popolo è non altrimenti che un animale bruto, il quale, ancora
che di natura feroce e silvestre, sia stato nutrito sempre in
carcere ed in servitù; che dipoi lasciato a sorte in una
campagna libero, non essendo uso a pascersi, né sappiendo i
luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda del primo che
cerca rincatenarlo.
Questo medesimo interviene a uno popolo,
il quale, sendo uso a vivere sotto i governi d'altri, non
sappiendo ragionare né delle difese o offese pubbliche, non
conoscendo i principi né essendo conosciuto da loro, ritorna
presto sotto uno giogo, il quale il più delle volte è più
grave che quello che, poco inanzi, si aveva levato d'in sul collo:
e trovasi in queste difficultà, quantunque che la materia non
sia corrotta. Perché un popolo dove in tutto è entrata la
corruzione, non può, non che piccol tempo, ma punto vivere
libero come di sotto si discorrerà: e però i ragionamenti
nostri sono di quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata
assai, e dove sia più del buono che del guasto.
Aggiungesi alla soprascritta un'altra
difficultà, la quale è, che lo stato che diventa libero si fa
partigiani inimici, e non partigiani amici. Partigiani inimici
gli diventono tutti coloro che dello stato tirannico si
prevalevono, pascendosi delle ricchezze del principe; a' quali
sendo tolta la facultà del valersi, non possono vivere contenti,
e sono forzati ciascuno di tentare di ripigliare la tirannide,
per ritornare nell'autorità loro. Non si acquista, come ho detto,
partigiani amici; perché il vivere libero prepone onori e premii,
mediante alcune oneste e determinate cagioni, e fuora di quelle
non premia né onora alcuno, e quando uno ha quegli onori e
quegli utili che gli pare meritare, non confessa avere obligo con
coloro che lo rimunerano. Oltre a di questo, quella comune
utilità che del vivere libero si trae, non è da alcuno, mentre
che ella si possiede conosciuta: la quale è di potere godere
liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non dubitare dell'onore
delle donne, di quel de' figliuoli, non temere di sé; perché
nessuno confesserà mai avere obligo con uno che non l'offenda.
Però, come di sopra si dice, viene ad
avere, lo stato libero e che di nuovo surge, partigiani inimici,
e non partigiani amici. E volendo rimediare a questi
inconvenienti, e a quegli disordini che le soprascritte
difficultà arrecherebbono seco, non ci è più potente rimedio,
né più valido né più sicuro né più necessario, che
ammazzare i figliuoli di Bruto: i quali, come la istoria mostra,
non furono indotti, insieme con altri giovani romani, a
congiurare contro alla patria per altro, se non perché non si
potevono valere straordinariamente sotto i consoli come sotto i
re; in modo che la libertà di quel popolo pareva che fosse
diventata la loro servitù. E chi prende a governare una
moltitudine, o per via di libertà o per via di principato, e non
si assicura di coloro che a quell'ordine nuovo sono inimici, fa
uno stato di poca vita. Vero è che io giudico infelici quelli
principi che, per assicurare lo stato loro hanno a tenere vie
straordinarie, avendo per nimici la moltitudine: perché quello
che ha per nimici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli, si
assicura, ma chi ha per nimico l'universale non si assicura mai,
e quanta più crudeltà usa tanto più debole diventa il suo
principato. Talché il maggiore rimedio che ci abbia, è cercare
di farsi il popolo amico.
E benché questo discorso sia disforme
dal soprascritto, parlando qui d'uno principe e quivi d'una
republica; nondimeno, per non avere a tornare più in su questa
materia, ne voglio parlare brevemente. Volendo, pertanto, uno
principe guadagnarsi uno popolo che gli fosse inimico, parlando
di quelli principi che sono diventati della loro patria tiranni,
dico ch'ei debbe esaminare prima quello che il popolo desidera, e
troverrà sempre che desidera due cose: l'una, vendicarsi contro
a coloro che sono cagione che sia servo; l'altra, di riavere la
sua libertà. Al primo desiderio il principe può sodisfare in
tutto, al secondo in parte. Quanto al primo, ce n'è lo esemplo
appunto. Clearco, tiranno di Eraclea, sendo in esilio, occorse
che, per controversia venuta intra il popolo e gli ottimati di
Eraclea, che, veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a
favorire Clearco e congiuratisi seco lo missono, contro alla
disposizione popolare, in Eraclea e tolsono la libertà al popolo.
In modo che, trovandosi Clearco intra la insolenzia degli
ottimati, i quali non poteva in alcuno modo né contentare né
correggere, e la rabbia de' popolari, che non potevano sopportare
lo avere perduta la libertà, diliberò a un tratto liberarsi dal
fastidio de' grandi, e guadagnarsi il popolo. E presa, sopr'a
questo, conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimati,
con una estrema sodisfazione de' popolari. E così egli per
questa via sodisfece a una delle voglie che hanno i popoli, cioè
di vendicarsi. Ma quanto all'altro popolare desiderio, di riavere
la sua libertà, non potendo il principe sodisfargli, debbe
esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno desiderare d'essere
liberi; e troverrà che una piccola parte di loro desidera di
essere libera per comandare; ma tutti gli altri, che sono
infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri. Perché in
tutte le republiche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del
comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini: e
perché questo è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o
con levargli via, o con fare loro parte di tanti onori, che,
secondo le condizioni loro, e' si abbino in buona parte a
contentare. Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si
sodisfanno facilmente, faccendo ordini e leggi, dove insieme con
la potenza sua si comprenda la sicurtà universale. E quando uno
principe faccia questo, e che il popolo vegga che, per accidente
nessuno, ei non rompa tali leggi, comincerà in breve tempo a
vivere sicuro e contento. In esemplo ci è il regno di Francia,
il quale non vive sicuro per altro che per essersi quelli re
obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà
di tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello stato, volle che
quelli re, dell'armi e del danaio facessero a loro modo, ma che d'ogni
altra cosa non ne potessono altrimenti disporre che le leggi si
ordinassero. Quello principe, adunque, o quella republica che non
si assicura nel principio dello stato suo, conviene che si
assicuri nella prima occasione, come fecero i Romani. Chi lascia
passare quella, si pente tardi di non avere fatto quello che
doveva fare.
Sendo, pertanto, il popolo romano ancora
non corrotto quando ei ricuperò la libertà, potette mantenerla,
morti i figliuoli di Bruto e spenti i Tarquinii, con tutti quelli
modi ed ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fusse
stato quel popolo corrotto, né in Roma né altrove si truova
rimedi validi a mantenerla; come nel seguente capitolo mosterreno.
Cap.
17
Uno popolo corrotto, venuto in
libertà, si può con difficultà grandissima mantenere libero.
Io
giudico ch'egli era necessario, o che i re si estinguessono in
Roma, o che Roma in brevissimo tempo divenisse debole e di
nessuno valore; perché, considerando a quanta corruzione erano
venuti quelli re, se fossero seguitati così due o tre
successioni, e che quella corruzione, che era in loro, si fosse
cominciata ad istendere per le membra, come le membra fossero
state corrotte, era impossibile mai più riformarla. Ma perdendo
il capo quando il busto era intero, poterono facilmente ridursi a
vivere liberi ed ordinati. E debbesi presupporre per cosa
verissima, che una città corrotta che viva sotto uno principe,
come che quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non
si può ridurre libera, anzi conviene che l'un principe spenga l'altro:
e sanza creazione d'uno nuovo signore non si posa mai, se già la
bontà d'uno, insieme con la virtù, non la tenesse libera; ma
durerà tanto quella libertà, quanto durerà la vita di quello:
come intervenne, a Siracusa, di Dione e di Timoleone: la virtù
de' quali in diversi tempi, mentre vissono, tenne libera quella
città; morti che furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma
non si vede il più forte esemplo che quello di Roma; la quale,
cacciati i Tarquinii, poté subito prendere e mantenere quella
libertà; ma, morto Cesare, morto Caio Caligola, morto Nerone,
spenta tutta la stirpe cesarea, non poté mai, non solamente
mantenere, ma pure dar principio alla libertà. Né tanta
diversità di evento in una medesima città nacque da altro, se
non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il popolo romano ancora
corrotto, ed in questi ultimi tempi essere corrottissimo. Perché
allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i re, bastò solo
farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma alcuno
regnasse; e negli altri tempi non bastò l'autorità e severità
di Bruto, con tutte le legioni orientali, a tenerlo disposto a
volere mantenersi quella libertà che esso, a similitudine del
primo Bruto, gli aveva renduta. Il che nacque da quella
corruzione che le parti mariane avevano messa nel popolo; delle
quali sendo capo Cesare, potette accecare quella moltitudine, ch'ella
non conobbe il giogo che da sé medesima si metteva in sul collo.
E benché questo esemplo di Roma sia da
preporre a qualunque altro esemplo, nondimeno voglio a questo
proposito addurre innanzi popoli conosciuti ne' nostri tempi.
Pertanto dico, che nessuno accidente, benché grave e violento,
potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle
membra tutte corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo
Visconti; che, volendosi ridurre Milano alla libertà, non
potette e non seppe mantenerla. Però, fu felicità grande quella
di Roma, che questi rediventassero corrotti presto, acciò ne
fussono cacciati, ed innanzi che la loro corruzione fusse passata
nelle viscere di quella città: la quale incorruzione fu cagione
che gl'infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il
fine buono, non nocerono, anzi giovorono, alla Republica.
E si può fare questa conclusione, che,
dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non
nuocono: dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano,
se già le non sono mosse da uno che con una estrema forza le
faccia osservare, tanto che la materia diventi buona. Il che non
so se si è mai intervenuto o se fusse possibile ch'egli
intervenisse: perché e' si vede, come poco di sopra dissi, che
una città venuta in declinazione per corruzione di materia, se
mai occorre che la si rilievi, occorre per la virtù d'uno uomo
che è vivo allora, non per la virtù dello universale che
sostenga gli ordini buoni; e subito che quel tale è morto, la si
ritorna nel suo pristino abito: come intervenne a Tebe, la quale,
per la virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere
forma di republica e di imperio; ma, morto quello, la si ritornò
ne' primi disordini suoi. La cagione è, che non può essere uno
uomo di tanta vita, che 'l tempo basti ad avvezzare bene una
città lungo tempo male avvezza. E se uno d'una lunghissima vita,
o due successione virtuose continue, non la dispongano; come la
manca di loro, come di sopra è detto, rovina, se già con
dimolti pericoli e dimolto sangue e' non la facesse rinascere.
Perché tale corruzione e poca attitudine alla vita libera, nasce
da una inequalità che è in quella città: e volendola ridurre
equale, è necessario usare grandissimi straordinari, i quali
pochi sanno o vogliono usare; come in altro luogo più
particularmente si dirà.
Cap.
18
In che modo nelle città corrotte si
potesse mantenere uno stato libero, essendovi; o, non vi essendo,
ordinarvelo.
Io
credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal
soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta si
può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e' non vi fusse,
se vi si può ordinare. Sopra la quale cosa, dico, come gli è
molto difficile fare o l'uno o l'altro: e benché sia quasi
impossibile darne regola, perché sarebbe necessario procedere
secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene
ragionare d'ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E
presupporrò una città corrottissima, donde verrò ad accrescere
più tale difficultà; perché non si truovano né leggi né
ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Perché,
così come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle
leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de' buoni
costumi. Oltre a di questo, gli ordini e le leggi fatte in una
republica nel nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non
sono dipoi più a proposito, divenuti che ei sono rei. E se le
leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano
mai, o rade volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi
non bastano, perché gli ordini, che stanno saldi, le corrompono.
E per dare ad intendere meglio questa
parte, dico come in Roma era l'ordine del governo, o vero dello
stato; e le leggi dipoi, che con i magistrati frenavano i
cittadini. L'ordine dello stato era l'autorità del Popolo, del
Senato, de' Tribuni, de' Consoli, il modo di chiedere e del
creare i magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini
poco o nulla variarono negli accidenti. Variarono le leggi che
frenavano i cittadini; come fu la legge degli adulterii, la
suntuaria, quella della ambizione, e molte altre; secondo che di
mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi
gli ordini dello stato, che nella corruzione non erano più buoni,
quelle legge, che si rinnovavano, non bastavano a mantenere gli
uomini buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione
delle leggi si fussero rimutati gli ordini.
E che sia il vero, che tali ordini nella
città corrotta non fussero buoni, si vede espresso in doi capi
principali, quanto al creare i magistrati e le leggi. Non dava il
popolo romano il consolato, e gli altri primi gradi della città,
se non a quelli che lo domandavano. Questo ordine fu, nel
principio, buono, perché e' non gli domandavano se non quelli
cittadini che se ne giudicavano degni ed averne la repulsa era
ignominioso sì che, per esserne giudicati degni, ciascuno
operava bene. Diventò questo modo, poi, nella città corrotta,
perniziosissimo; perché non quelli che avevano più virtù, ma
quelli che avevano più potenza domandavano i magistrati; e gl'impotenti,
comecché virtuosi, se ne astenevano di domandarli, per paura.
Vennesi a questo inconveniente, non a un tratto, ma per i mezzi,
come si cade in tutti gli altri inconvenienti: perché avendo i
Romani domata l'Africa e l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia
a sua ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, né
pareva loro avere più nimici che dovessono fare loro paura.
Questa sicurtà e questa debolezza de' nimici fece che il popolo
romano, nel dare il consolato, non riguardava più la virtù, ma
la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio sapevano
intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i
nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, ei discesono a
darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni, per
difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno
tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre al Popolo una
legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore
o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine
buono, quando i cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che
ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa preporre;
ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l'opinione sua,
acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il
meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine
pessimo; perché solo i potenti proponevono leggi, non per la
comune libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle non
poteva parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo
veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina.
Era necessario, pertanto, a volere che
Roma nella corruzione si mantenesse libera, che, così come aveva
nel processo del vivere suo fatto nuove leggi, l'avesse fatto
nuovi ordini: perché altri ordini e modi di vivere si debbe
ordinare in uno suggetto cattivo, che in uno buono; né può
essere la forma simile in una materia al tutto contraria. Ma
perché questi ordini, o e' si hanno a rinnovare tutti a un
tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o a poco a poco,
in prima che si conoschino per ciascuno; dico che l'una e l'altra
di queste due cose è quasi impossibile. Perché, a volergli
rinnovare a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente,
che vegga questo inconveniente assai discosto, e quando e' nasce.
Di questi tali è facilissima cosa che in una città non ne surga
mai nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe
persuadere mai a altrui quello che egli proprio intendesse;
perché gli uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono
variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo a
essere loro mostro per coniettura. Quanto all'innovare questi
ordini a un tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni,
dico che questa inutilità, che facilmente si conosce, è
difficile a ricorreggerla; perché, a fare questo, non basta
usare termini ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è
necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed
all'armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella
città, e poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare
una città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il
diventare per violenza principe di una republica presuppone uno
uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte
accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo
fusse buono, voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto
principe, voglia operare bene, e che gli caggia mai nello animo
usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce la
difficultà, o impossibilità, che è nelle città corrotte, a
mantenervi una republica, o a crearvela di nuovo. E quando pure
la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario
ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare;
acciocché quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro
insolenzia, non possono essere corretti, fussero da una podestà
quasi regia in qualche modo frenati. E a volergli fare per altre
vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa o al tutto
impossibile; come io dissi, di sopra, che fece Cleomene: il quale
se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se Romolo, per le
medesime cagioni, ammazzò il fratello e Tito Tazio Sabino, e
dipoi usarono bene quella loro autorità; nondimeno si debbe
avvertire che l'uno e l'altro di costoro non aveano il suggetto
di quella corruzione macchiato, della quale in questo capitolo
ragioniamo, e però poterono volere, e, volendo, colorire il
disegno loro.
Cap.
19
Dopo uno eccellente principe si può
mantenere uno principe debole; ma, dopo uno debole, non si può
con un altro debole mantenere alcuno regno.
Considerato
la virtù ed il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo, i
primi tre re romani, si vede come Roma sortì una fortuna
grandissima, avendo il primo re ferocissimo e bellicoso, l'altro
quieto e religioso, il terzo simile di ferocità a Romolo, e più
amatore della guerra che della pace. Perché in Roma era
necessario che surgesse ne' primi principii suoi un ordinatore
del vivere civile, ma era bene poi necessario che gli altri re
ripigliassero la virtù di Romolo; altrimenti quella città
sarebbe diventata effeminata, e preda de' suoi vicini. Donde si
può notare che uno successore, non di tanta virtù quanto il
primo, può mantenere uno stato per la virtù di colui che lo ha
retto innanzi, e si può godere le sue fatiche: ma s'egli avviene
o che sia di lunga vita, o che dopo lui non surga un altro che
ripigli la virtù di quel primo, è necessitato quel regno a
rovinare. Così, per il contrario, se dua, l'uno dopo l'altro,
sono di gran virtù, si vede spesso che fanno cose grandissime, e
che ne vanno con la fama in fino al cielo.
Davit, sanza dubbio, fu un uomo, per arme,
per dottrina, per giudizio, eccellentissimo; e fu tanta la sua
virtù, che, avendo vinti e battuti tutti i suoi vicini, lasciò
a Salomone suo figliuolo uno regno pacifico: quale egli si
potette con l'arte della pace, e non con la guerra, conservare; e
si potette godere felicemente la virtù di suo padre. Ma non
potette già lasciarlo a Roboam suo figliuolo; il quale, non
essendo per virtù simile allo avolo, né per fortuna simile al
padre, rimase con fatica erede della sesta parte del regno.
Baisit, sultan de' Turchi, come che fussi più amatore della pace
che della guerra, potette godersi le fatiche di Maumetto suo
padre; il quale avendo, come Davit, battuto i suoi vicini, gli
lasciò un regno fermo, e da poterlo con l'arte della pace
facilmente conservare. Ma se il figliuolo suo Salì, presente
signore, fusse stato simile al padre, e non all'avolo, quel regno
rovinava; ma e' si vede costui essere per superare la gloria dell'avolo.
Dico pertanto con questi esempli, che, dopo uno eccellente
principe, si può mantenere uno principe debole; ma, dopo un
debole, non si può, con un altro debole, mantenere alcun regno,
se già e' non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi
antichi lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non
stanno in su la guerra.
Conchiudo pertanto, con questo discorso,
che la virtù di Romolo fu tanta, che la potette dare spazio a
Numa Pompilio di potere molti anni con l'arte della pace reggere
Roma: ma dopo lui successe Tullo, il quale per la sua ferocità
riprese la riputazione di Romolo: dopo il quale venne Anco, in
modo dalla natura dotato, che poteva usare la pace e sopportare
la guerra. E prima si dirizzò a volere tenere la via della pace,
ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato, lo
stimavano poco: talmente che pensò che, a volere mantenere Roma,
bisognava volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa.
Da questo piglino esemplo tutti i
principi che tengono stato; che chi somiglierà Numa, lo terrà o
non terrà, secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto;
ma chi somiglierà Romolo, e fia come esso armato di prudenza e d'armi,
lo terrà in ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non
gli è tolto. E certamente si può stimare che, se Roma sortiva
per terzo suo re un uomo che non sapesse con le armi renderle la
sua riputazione non arebbe mai poi, o con grandissima difficultà,
potuto pigliare piede, né fare quegli effetti ch'ella fece. E
così, in mentre che la visse sotto i re la portò questi
pericoli di rovinare sotto uno re o debole o malvagio.
Cap.
20
Dua continove successioni di principi
virtuosi fanno grandi effetti; e come le republiche bene ordinate
hanno di necessità virtuose successioni, e però gli acquisti ed
augumenti loro sono grandi.
Poiché Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli, i quali di sopra sono detti che la portava succedendo in lei uno re o debole o cattivo. Perché la somma dello imperio si ridusse ne' consoli, i quali, non per eredità o per inganni o per ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed erono sempre uomini eccellentissimi: de' quali godendosi Roma la virtù, e la fortuna di tempo in tempo, poté venire a quella sua ultima grandezza in altrettanti anni che la era stata sotto i re. Perché si vede, come due continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad acquistare il mondo: come furano Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno. Il che tanto più debba fare una republica, avendo per il modo dello eleggere non solamente due successioni ma infiniti principi virtuosissimi che sono l'uno dell'altro successori: la quale virtuosa successione fia sempre in ogni republica bene ordinata.
Cap.
21
Quanto
biasimo meriti quel principe e quella republica che manca d'armi
proprie.
Debbono
i presenti principi e le moderne republiche, le quali circa le
difese ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro
medesime; e pensare con lo esemplo di Tullo, tale difetto essere,
non per mancamento di uomini atti alla milizia, ma per colpa sua,
che non han saputo fare i suoi uomini militari. Perché Tullo,
sendo stata Roma in pace quarant'anni, non trovò, succedendo
egli nel regno, uomo che fusse stato mai in guerra: nondimeno,
disegnando esso fare guerra, non pensò valersi né de' Sanniti,
né de' Toscani, né di altri che fussero consueti stare nell'armi,
ma diliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de' suoi. E fu
tanta la sua virtù, che in un tratto, sotto il suo governo gli
poté fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna
altra verità, che, se dove è uomini non è soldati, nasce per
difetto del principe, e non per altro difetto o di sito o di
natura. Di che ce n'è un esemplo freschissimo. Perché ognuno sa,
come ne' prossimi tempi il re d'Inghilterra assaltò il regno di
Francia, né prese altri soldati che popoli suoi; e, per essere
stato quel regno più che trenta anni sanza fare guerra, non
aveva né soldati né capitano che avesse mai militato: nondimeno,
non dubitò con quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di
buoni eserciti, i quali erano stati continovamente sotto l'armi
nelle guerre d'Italia. Tutto nacque da essere quel re prudente
uomo, e quel regno bene ordinato; il quale nel tempo della pace
non intermette gli ordini della guerra.
Pelopida ed Epaminonda tebani, poiché
gli ebbero libera Tebe, e trattala della servitù dello imperio
spartano, trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo di
popoli effeminati; non dubitarono, tanta era la virtù loro, di
ridurgli sotto l'armi, e con quelli andare a trovare alla
campagna gli eserciti spartani, e vincergli: e chi ne scrive,
dice come questi duoi in brieve tempo mostrarono che non
solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini da guerra, ma in
ogni altra parte dove nascessi uomini, pure che si trovasse chi
li sapesse indirizzare alla milizia, come si vede che Tullo seppe
indirizzare i Romani. E Virgilio non potrebbe meglio esprimere
questa opinione, né con altre parole mostrare di accostarsi a
quella, dove dice:
desidesque movebit
Tullus in arma viros.
Cap. 22
Quello che sia da notare nel caso de' tre Orazii romani e tre Curiazii albani.
Tullo re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quello popolo fusse signore dell'altro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero. Furono morti tutti i Curiazii albani, restò vivo uno degli Orazii romani: e per questo restò Mezio re albano, con il suo popolo suggetto a' Romani. E tornando quello Orazio vincitore in Roma, scontrando una sua sorella, che era a uno de' tre Curiazii morti maritata, che piangeva la morte del marito, l'ammazzò. Donde quello Orazio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molte dispute fu libero, più per li prieghi del padre, che per li suoi meriti. Dove sono da notare tre cose: l'una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare tutta la sua fortuna; l'altra, che non mai in una città bene ordinata le colpe con gli meriti si ricompensano; la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si debba o possa dubitare della inosservanza. Perché, gl'importa tanto a una città lo essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli re o di quelli popoli stessero contenti che tre loro cittadini gli avessero sottomessi: come si vide che volle fare Mezio, il quale, benché subito dopo la vittoria de' Romani si confessassi vinto, e promettessi la ubbidienza a Tullo, nondimeno nella prima espedizione che gli ebbero a convenire contro a' Veienti, si vide come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi si era avveduto della temerità del partito preso da lui. E perché di questo terzo notabile se n'è parlato assai, parlereno solo degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.
Cap.
23
Che non si debbe mettere a pericolo
tutta la fortuna e non tutte le forze; e, per questo, spesso il
guardare i passi è dannoso.
Non
fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la
fortuna tua e non tutte le forze. Questo si fa in più modi. L'uno
è faccendo come Tullo e Mezio, quando e' commissono la fortuna
tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini quanti aveva
l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi alla virtù e
fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva a essere una minima
parte delle forze di ciascuno di loro. Né si avvidono, come per
questo partito tutta la fatica che avevano durata i loro
antecessori nell'ordinare la republica, per farla vivere
lungamente libera e per fare i suoi cittadini difensori della
loro libertà, era quasi che stata vana, stando nella potenza di
sì pochi a perderla. La quale cosa da quelli re non poté essere
peggio considerata.
Cadesi ancora in questo inconveniente
quasi sempre per coloro, che, venendo il nimico, disegnano di
tenere i luoghi difficili, e guardare i passi: perché quasi
sempre questa diliberazione sarà dannosa, se già in quello
luogo difficile commodamente tu non potesse tenere tutte le forze
tue. In questo caso, tale partito è da prendere; ma sendo il
luogo aspro, e non vi potendo tenere tutte le forze, il partito
è dannoso. Questo mi fa giudicare così lo esemplo di coloro,
che, essendo assaltati da un inimico potente, ed essendo il paese
loro circundato da' monti e luoghi alpestri, non hanno mai
tentato di combattere il nimico in su' passi ed in su' monti, ma
sono iti a rincontrarlo di là da essi; o, quando non hanno
voluto fare questo, lo hanno aspettato dentro a essi monti, in
luoghi benigni e non alpestri. E la cagione ne è stata la
preallegata: perché, non si potendo condurre alla guardia de'
luoghi alpestri molti uomini, sì per non vi potere vivere lungo
tempo, sì per essere i luoghi stretti e capaci di pochi, non è
possibile sostenere uno inimico che venga grosso a urtarti: ed al
nimico è facile il venire grosso perché la intenzione sua è
passare, e non fermarsi, ed a chi l'aspetta è impossibile
aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più tempo, non
sappiendo quando il nimico voglia passare in luoghi, come io ho
detto, stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel passo che tu ti
avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli e lo esercito
tuo confidava, entra il più delle volte ne' popoli e nel residuo
delle genti tua tanto terrore, che, sanza potere esperimentare la
virtù d'esse, rimani perdente; e così vieni a avere perduta
tutta la tua fortuna con parte delle tue forze.
Ciascuno sa con quanta difficultà
Annibale passasse l'alpe che dividono la Lombardia dalla Francia,
e con quanta difficultà passasse quelle che dividono la
Lombardia dalla Toscana: nondimeno i Romani l'aspettarono prima
in sul Tesino, e dipoi nel piano d'Arezzo: e vollon, più tosto,
che il loro esercito fusse consumato da il nimico nelli luoghi
dove poteva vincere, che condurlo su per l'alpe a essere
distrutto dalla malignità del sito.
E chi leggerà sensatamente tutte le
istorie, troverrà pochissimi virtuosi capitani avere tentato di
tenere simili passi, e per le ragioni dette, e perché e' non si
possono chiudere tutti, sendo i monti come campagne, ed avendo
non solamente le vie consuete e frequentate, ma molte altre le
quali, se non sono note a' forestieri, sono note a paesani; con l'aiuto
de' quali sempre sarai condotto in qualunque luogo, contro alla
voglia di chi ti si oppone. Di che se ne può addurre uno
freschissimo esemplo, nel 1515. Quando Francesco re di Francia
disegnava passare in Italia per la recuperazione dello stato di
Lombardia, il maggior fondamento che facevono coloro ch'erano
alla sua impresa contrari, era che gli Svizzeri lo terrebbono a'
passi in su' monti. E, come per esperienza poi si vidde, quel
loro fondamento restò vano: perché, lasciato quel Re da parte
dua o tre luoghi guardati da loro, se ne venne per un'altra via
incognita; e fu prima in Italia, e loro apresso, che lo avessono
presentito. Talché loro sbigottiti si ritirarono in Milano, e
tutti i popoli di Lombardia si accostarono alle genti franciose;
sendo mancati di quella opinione avevano, che i Franciosi
devessono essere ritenuti in su' monti.
Cap.
24
Le republiche bene ordinate
costituiscono premii e pene a' loro cittadini, né compensono mai
l'uno con l'altro.
Erano
stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua virtù
vinti i Curiazii: era stato il fallo suo atroce, avendo morto la
sorella: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio a' Romani, che
lo condussono a disputare della vita, non ostante che gli meriti
suoi fossero tanto grandi e sì freschi. La quale cosa, a chi
superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo d'ingratitudine
popolare: nondimeno, chi la esamina meglio e con migliore
considerazione ricerca quali debbono essere gli ordini delle
republiche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo assoluto
che per averlo voluto condannare. E la ragione è questa, che
nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i demeriti con
gli meriti de' suoi cittadini; ma avendo ordinati i premii a una
buona opera e le pene a una cattiva ed avendo premiato uno per
avere bene operato, se quel medesimo opera dipoi male, lo gastiga,
sanza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi
ordini sono bene osservati, una città vive libera molto tempo:
altrimenti sempre rovinerà tosto. Perché, se a un cittadino che
abbia fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne,
oltre alla riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e
confidenza di poter, senza temere pena, fare qualche opera non
buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si
risolverà ogni civilità.
È bene necessario, volendo che sia
tenuta la pena per le malvagie opere, osservare i premii per le
buone, come si vide che fece Roma. E benché una republica sia
povera, e possa dare poco, debbe da quel poco non astenersi,
perché sempre ogni piccol dono, dato ad alcuno per ricompenso di
bene ancora che grande, sarà stimato, da chi lo riceve,
onorevole e grandissimo. È notissima la istoria di Orazio Cocle,
e quella di Muzio Scevola: come l'uno sostenne i nimici sopra un
ponte, tanto che si tagliasse; l'altro si arse la mano, che aveva
errato, volendo ammazzare Porsenna, re degli Toscani. A costoro
per queste due opere tanto egregie fu donato dal pubblico due
staiora di terra per ciascuno. È nota ancora la istoria di
Manlio Capitolino. A costui, per avere salvato il Campidoglio da'
Franciosi che vi erano a campo, fu dato, da quelli che insieme
con lui vi erano assediati dentro, una piccola misura di farina.
Il quale premio, secondo la fortuna che allora correva in Roma fu
grande; e di qualità che, mosso poi Manlio o da invidia o dalla
sua cattiva natura, a fare nascere sedizione in Roma e cercando
guadagnarsi il popolo, fu, sanza rispetto alcuno de' suoi meriti,
gittato precipite da quello Campidoglio che esso prima, con tanta
sua gloria, avea salvo.
Cap.
25
Chi vuole riformare uno stato
anticato in una città libera, ritenga almeno l'ombra de' modi
antichi.
Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d'una città, a volere che sia accetto, e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l'ombra almanco de' modi antichi, acciò che a' popoli non paia avere mutato ordine, ancorché, in fatto, gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai passati; perché lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare come di quello che è: anzi, molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono. Per questa cagione i Romani, conoscendo nel principio del loro vivere libero questa necessità, avendo in cambio d'uno re creati duoi consoli, non vollono ch'egli avessono più che dodici littori, per non passare il numero di quelli che ministravano ai re. Oltre a di questo, faccendosi in Roma uno sacrificio anniversario, il quale non poteva essere fatto se non dalla persona del re, e volendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia degli re alcuna cosa delle antiche; crearono uno capo di detto sacrificio, il quale loro chiamarono Re Sacrificulo, e sottomessonlo al sommo Sacerdote: talmente che quel popolo per questa via venne a sodisfarsi di quel sacrificio, e non avere mai cagione, per mancamento di esso, di disiderare la ritornata de' re. E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare un antico vivere in una città, e ridurla a uno vivere nuovo e libero: perché, alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle alterazioni ritenghino più dello antico sia possibile; e se i magistrati variano, e di numero e d'autorità e di tempo, degli antichi, che almeno ritenghino il nome. E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole ordinare uno vivere politico, o per via di republica o di regno: ma quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente capitolo si dirà.
Cap.
26
Uno principe nuovo, in una città o
provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova.
Qualunque diventa principe o d'una città o d'uno stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fussono deboli e non si volga o per via di regno o di republica alla vita civile, il megliore rimedio che egli abbia, a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa, in quello stato, di nuovo: come è, nelle città, fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i ricchi poveri, i poveri ricchi come fece Davit quando ei diventò re: "qui esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes"; edificare, oltra di questo, nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta in quella provincia e che non vi sia né grado, né ordine né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale, con questi modi, di piccol re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come e' mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi, e nimici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliono certe vie del mezzo, che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti cattivi né tutti buoni: come nel seguente capitolo, per esemplo, si mosterrà.
Cap.
27
Sanno rarissime volte gli uomini
essere al tutto cattivi o al tutto buoni.
Papa
Iulio secondo, andando nel 1505 a Bologna, per cacciare di quello
stato la casa de' Bentivogli, la quale aveva tenuto il principato
di quella città cento anni, voleva ancora trarre Giovampagolo
Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che
aveva congiurato contro a tutti i tiranni che occupavano le terre
della Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e
deliberazione, nota a ciascuno, non aspettò di entrare in quella
città con lo esercito suo, che lo guardasse, ma vi entrò
disarmato, non ostante vi fusse drento Giovampagolo con gente
assai, quale per difesa di sé aveva ragunata. Sì che, portato
da quel furore con il quale governava tutte le cose, con la
semplice sua guardia si rimisse nelle mani del nimico; il quale
dipoi ne menò seco, lasciando un governatore in quella città,
che rendesse ragione per la Chiesa. Fu notata, dagli uomini
prudenti che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di
Giovampagolo; né potevono estimare donde si venisse che quello
non avesse, con sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il
nimico suo, e sé arricchito di preda, sendo col papa tutti li
cardinali, con tutte le loro delizie. Né si poteva credere si
fusse astenuto o per bontà o per conscienza che lo ritenesse;
perché in uno petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la
sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non
poteva scendere alcun pietoso rispetto: ma si conchiuse, nascesse
che gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi, o
perfettamente buoni, e, come una malizia ha in sé grandezza, o
è in alcuna parte generosa, e' non vi sanno entrare.
Così Giovampagolo, il quale non stimava
essere incesto e publico parricida, non seppe, o, a dir meglio,
non ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove
ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato
memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro a' prelati,
quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro ed avessi
fatto una cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia,
ogni pericolo, che da quella potesse dependere.
Cap.
28
Per quale cagione i Romani furono
meno ingrati contro agli loro cittadini che gli Ateniesi.
Qualunque legge le cose fatte dalle republiche, troverrà in tutte qualche spezie d'ingratitudine contro a' suoi cittadini: ma ne troverrà meno in Roma che in Atene, e per avventura in qualunque altra republica. E ricercando la cagione di questo, parlando di Roma e d'Atene credo accadessi perché i Romani avevano meno cagione di sospettare de' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perché a Roma, ragionando di lei dalla cacciata de' Re infino a Silla e Mario, non fu mai tolta la libertà da alcuno suo cittadino in modo che in lei non era grande cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario; perché, sendogli tolta La libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo, e sotto uno inganno di bontà; come prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie ricevute e della passata servitù, diventò prontissima vendicatrice, non solamente degli errori, ma della ombra degli errori de' suoi cittadini. Quinci nacque lo esilio e la morte di tanti eccellenti uomini, quinci l'ordine dell'ostracismo, ed ogni altra violenza che contro a' suoi ottimati in varii tempi da quella città fu fatta. Ed è verissimo quello che dicono questi scrittori della civilità: che i popoli mordono più fieramente poi ch'egli hanno recuperata la libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi considererà, adunque, quanto è detto, non biasimerà in questo Atene, né lauderà Roma; ma ne accuserà solo la necessità, per la diversità degli accidenti che in queste città nacquero. Perché si vedrà, chi considererà le cose sottilmente che, se a Roma fusse stata tolta la libertà come a Atene, non sarebbe stata Roma più pia verso i suoi cittadini, che si fusse quella. Di che si può fare verissima coniettura per quello che occorse, dopo la cacciata de' re, contro a Collatino ed a Publio Valerio: de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberare Roma, fu mandato in esilio non per altra cagione che per tenere il nome de' Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sé sospetto per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per esser fatto esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che l'arebbe usata la ingratitudine come Atene, se da' suoi cittadini come quella, ne' primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fusse stata ingiuriata. E per non avere a tornare più sopra questa materia della ingratitudine, ne dirò, quello ne occorrerà, nel seguente capitolo.
Cap.
29
Quale sia più ingrato, o uno popolo
o uno principe.
Egli mi pare, a proposito della soprascritta materia, da
discorrere quale usi con maggiori esempli questa ingratitudine, o
uno popolo o uno principe. E per disputare meglio questa parte,
dico, come questo vizio della ingratitudine nasce o dall'avarizia
o da il sospetto. Perché, quando o uno popolo o uno principe ha
mandato fuori uno suo capitano in una espedizione importante,
dove quel capitano, vincendola, ne abbi acquistata assai gloria,
quel principe o quel popolo è tenuto allo incontro a premiarlo:
e se, in cambio di premio, o e' lo disonora o e' l'offende, mosso
dall'avarizia, non volendo, ritenuto da questa cupidità,
satisfarli; fa uno errore che non ha scusa, anzi si tira dietro
una infamia eterna. Pure si truova molti principi che ci peccono.
E Cornelio Tacito dice, con questa sentenzia, la cagione: "Proclivius
est iniuriae, quam beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri,
ultio in questu habetur". Ma quando ei non lo premia, o, a
dir meglio, l'offende, non mosso da avarizia ma da sospetto,
allora merita, e il popolo e il principe, qualche scusa. E di
queste ingratitudini, usate per tale cagione, se ne legge assai:
perché quello capitano il quale virtuosamente ha acquistato uno
imperio al suo signore, superando i nimici, e riempiendo sé di
gloria e gli suoi soldati di ricchezze, di necessità, e con i
soldati suoi, e con i nimici, e con i sudditi propri di quel
principe, acquista tanta riputazione, che quella vittoria non
può sapere di buono a quel signore che lo ha mandato. E perché
la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre
modo a nessuna sua fortuna, è impossibile che quel sospetto che
subito nasce nel principe dopo la vittoria di quel suo capitano,
non sia da quel medesimo accresciuto per qualche suo modo o
termine usato insolentemente. Talché il principe non può
pensare a altro che assicurarsene: e, per fare questo, ei pensa o
di farlo morire o di torgli la riputazione, che si ha guadagnata
nel suo esercito o ne' suoi popoli; e con ogni industria mostrare
che quella vittoria è nata non per la virtù di quello ma per
fortuna, o per viltà de' nimici, o per prudenza degli altri capi
che sono stati seco in tale fazione.
Poiché Vespasiano, sendo in Giudea fu
dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio Primo, che si
trovava con un altro esercito in Illiria, prese le parti sue, e
vennene in Italia contro a Vitellio, quale regnava a Roma, e
virtuosissimamente ruppe dua eserciti Vitelliani, e occupò Roma,
talché Muziano, mandato da Vespasiano, trovò, per la virtù d'Antonio,
acquistato il tutto, e vinta ogni difficultà. Il premio che
Antonio ne riportò, fu che Muziano gli tolse subito la
ubbidienza dello esercito, e a poco a poco lo ridusse in Roma
sanza alcuna autorità: talché Antonio ne andò a trovare
Vespasiano, quale era ancora in Asia, dal quale fu in modo
ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in nessuno grado, quasi
disperato morì. E di questi esempli ne sono piene le istorie. Ne'
nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con quanta
industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel regno di
Napoli contro a' Franciosi, per Ferrando re di Ragona,
conquistassi e vincessi quel regno; e come, per premio di
vittoria, ne riportò che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto
a Napoli, in prima gli levò la ubbidienza delle genti d'armi,
dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco in Spagna;
dove, poco tempo poi, inonorato, morì. È tanto, dunque,
naturale questo sospetto ne' principi, che non se ne possono
difendere; ed è impossibile ch'egli usino gratitudine a quelli
che con vittoria hanno fatto, sotto le insegne loro, grandi
acquisti.
E da quello che non si difende un
principe, non è miracolo, né cosa degna di maggior memoria, se
uno popolo non se ne difende. Perché, avendo una città che vive
libera, duoi fini, l'uno lo acquistare, l'altro il mantenersi
libera; conviene che nell'una cosa e nell'altra per troppo amore
erri. Quanto agli errori nello acquistare, se ne dirà nel luogo
suo. Quanto agli errori per mantenersi libera, sono, intra gli
altri, questi: di offendere quegli cittadini che la doverrebbe
premiare; avere sospetto di quegli in cui la si doverrebbe
confidare. E benché questi modi in una republica venuta alla
corruzione sieno cagione di gran mali, e che molte volte
piuttosto la viene alla tirannide, come intervenne a Roma di
Cesare, che per forza si tolse quello che la ingratitudine gli
negava; nondimeno in una republica non corrotta sono cagione di
gran beni, e fanno che la ne vive libera; più mantenendosi, per
paura di punizione, gli uomini migliori e meno ambiziosi. Vero è
che infra tutti i popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni
di sopra discorse, Roma fu la meno ingrata: perché della sua
ingratitudine si può dire che non ci sia altro esemplo che
quello di Scipione; perché Coriolano e Cammillo furono fatti
esuli per ingiuria che l'uno e l'altro avea fatto alla plebe. Ma
all'uno non fu perdonato, per aversi sempre riserbato contro al
popolo l'animo inimico; l'altro, non solamente fu richiamato, ma
per tutti i tempi della sua vita adorato come principe. Ma la
ingratitudine usata a Scipione nacque da uno sospetto che i
cittadini cominciarono avere di lui, che degli altri non si era
avuto: il quale nacque dalla grandezza del nimico che Scipione
aveva vinto, dalla riputazione che gli aveva data la vittoria di
sì lunga e pericolosa guerra, dalla celerità di essa, dai
favori che la gioventù, la prudenza, e le altre sue memorabili
virtudi gli acquistavano. Le quali cose furono tante, che, non
che altro, i magistrati di Roma temevano della sua autorità: la
quale cosa dispiaceva agli uomini savi, come cosa inusitata in
Roma. E parve tanto straordinario il vivere suo, che Catone
Prisco, riputato santo, fu il primo a fargli contro; e a dire che
una città non si poteva chiamare libera, dove era uno cittadino
che fusse temuto dai magistrati. Talché se il popolo di Roma
seguì in questo caso la opinione di Catone, merita quella scusa
che di sopra ho detto meritare quegli popoli e quegli principi
che per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo
discorso, dico che, usandosi questo vizio della ingratitudine o
per avarizia o per sospetto, si vedrà come i popoli non mai per
avarizia la usarono, e per sospetto assai manco che i principi,
avendo meno cagione di sospettare: come di sotto si dirà.
Cap.
30
Quali modi debbe usare uno principe o
una republica per fuggire questo vizio della ingratitudine; e
quali quel capitano o quel cittadino per non essere oppresso da
quella.
Uno
principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con
sospetto, o essere ingrato, debbe personalmente andare nelle
espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori romani,
come fa ne' tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno
quegli che sono virtuosi. Perché, vincendo, la gloria e lo
acquisto è tutto loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria
d'altrui, non par loro potere usare quello acquisto, se non
spengano in altrui quella gloria che loro non hanno saputo
guadagnarsi; e diventono ingrati ed ingiusti: e sanza dubbio è
maggiore la loro perdita che il guadagno. Ma quando, o per
negligenza o per poca prudenza, e' si rimangono a casa oziosi, e
mandano uno capitano; io non ho che precetto dare loro, altro che
quello che per loro medesimi si sanno. Ma dico bene a quel
capitano, giudicando io che non possa fuggire i morsi della
ingratitudine, che facci una delle due cose: o subito dopo la
vittoria lasci lo esercito, e rimettasi nelle mani del suo
principe, guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso,
acciocché quello, spogliato d'ogni sospetto, abbia cagione o di
premiarlo o di non lo offendere; o, quando questo non gli paia di
fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti
quelli modi per li quali creda che quello acquisto sia suo
proprio e non del principe suo, faccendosi benivoli i soldati ed
i sudditi; e facci nuove amicizie co' vicini, occupi con li suoi
uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e di
quelli che non può corrompere si assicuri; e per questi modi
cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che esso
gli userebbe. Altre vie non ci sono: ma, come di sopra si disse,
gli uomini non sanno essere né al tutto tristi, né al tutto
buoni; e sempre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare
lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non possono,
usare termini violenti e che abbiano in sé l'onorevole non sanno;
talché, stando ambigui, intra quella loro dimora ed ambiguità,
sono oppressi.
Quanto a una republica, volendo fuggire
questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo rimedio
che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle espedizioni
sue, sendo necessitata a mandare uno suo cittadino. Conviene,
pertanto, che per rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi
che tenne la Republica romana a essere meno ingrata che l'altre.
Il che nacque dai modi del suo governo. Perché, adoperandosi
tutta la città, e gli nobili e gli ignobili, nella guerra,
surgeva sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed
ornati di varie vittorie, che il popolo non aveva cagione di
dubitare d'alcuno di loro, sendo assai, e guardando l'uno l'altro.
E in tanto si mantenevano interi e respettivi di non dare ombra
di alcuna ambizione né cagione al popolo, come ambiziosi, l'offendergli,
che, venendo alla dittatura quello maggiore gloria ne riportava
che più tosto la diponeva. E così, non potendo simili modi
generare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo che, una
republica che non voglia avere cagione d'essere ingrata, si debba
governare come Roma, e uno cittadino che voglia fuggire quelli
suoi morsi, debbe osservare i termini osservati da' cittadini
romani.
Cap.
31
Che
i capitani romani per errore commesso non furano mai
istraordinariamente puniti; né furano mai ancora puniti quando
per la ignoranza loro o tristi partiti presi da loro ne fusse
seguiti danni alla republica.
I
Romani non solamente, come di sopra avemo discorso, furano manco
ingrati che l'altre republiche, ma ancora furano più pii e più
rispettivi nella punizione de' loro capitani degli eserciti che
alcuna altra. Perché se il loro errore fusse stato per malizia,
e' lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza, non che
lo punissono, e' lo premiavano ed onoravano. Questo modo del
procedere era bene considerato da loro: perché e' giudicavano
che fusse di tanta importanza, a quelli che governavano gli
eserciti loro, lo avere l'animo libero ed espedito, e sanza altri
estrinseci rispetti nel pigliare i partiti, che non volevono
aggiugnere, a una cosa per sé stessa difficile e pericolosa,
nuove difficultà e pericoli; pensando che, aggiugnendoveli,
nessuno potessi essere che operassi mai virtuosamente.
Verbigrazia, e' mandavano uno esercito in Grecia contro a Filippo
di Macedonia, o in Italia contro a Annibale, o contro a quelli
popoli che vinsono prima. Era, questo capitano che era preposto a
tale espedizione, angustiato da tutte quelle cure che si
arrecavano dietro quelle faccende, le quali sono gravi e
importantissime. Ora, se a tali cure si fussi aggiunto più
esempli de' Romani ch'eglino avessono crucifissi o altrimenti
morti quelli che avessono perdute le giornate, egli era
inpossibile che quello capitano intra tanti sospetti potessi
deliberare strenuamente. Però, giudicando essi che a questi tali
fusse assai pena la ignominia dello avere perduto, non li vollono
con altra maggiore pena sbigottire.
Uno esemplo ci è, quanto allo errore
commesso non per ignoranza. Erano Sergio e Virginio a campo a
Veio, ciascuno preposto a una parte dello esercito; de' quali
Sergio era all'incontro donde potevono venire i Toscani, e
Virginio dall'altra parte. Occorse che, sendo assaltato Sergio da'
Falisci e da altri popoli, sopportò di essere rotto e fugato
prima che mandare per aiuto a Virginio. E dall'altra parte
Virginio, aspettando che si umiliasse, volle più tosto vedere il
disonore della patria sua e la rovina di quello esercito, che
soccorrerlo. Caso veramente malvagio e degno d'essere notato, e
da fare non buona coniettura della Republica romana, se l'uno o l'altro
non fussono stati gastigati. Vero è che, dove un'altra republica
gli averebbe puniti di pena capitale, quella gli punì in denari.
Il che nacque non perché i peccati loro non meritassono maggiore
punizione, ma perché gli Romani vollono in questo caso, per le
ragioni già dette, mantenere gli antichi costumi loro. E quando
agli errori per ignoranza, non ci è il più bello esemplo che
quello di Varrone: per la temerità del quale sendo rotti i
Romani a Canne da Annibale, dove quella Republica portò pericolo
della sua libertà; nondimeno, perché vi fu ignoranza e non
malizia, non solamente non lo gastigarono ma lo onorarono; e gli
andò incontro, nella tornata sua in Roma, tutto l'ordine
senatorio: e non lo potendo ringraziare della zuffa, lo
ringraziarono ch'egli era tornato in Roma, e non si era disperato
delle cose romane. Quando Papirio Cursore voleva fare morire
Fabio, per avere, contro al suo comandamento, combattuto co'
Sanniti; intra le altre ragioni che dal padre di Fabio erano
assegnate contro alla ostinazione del dittatore, era che il
popolo romano in alcuna perdita de' suoi capitani non aveva fatto
mai quello che Papirio nelle vittorie voleva fare.
Cap.
32
Una republica o uno principe non
debbe differire a beneficare gli uomini nelle sue necessitadi.
Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere liberali al popolo, sopravvenendo il pericolo, quando Porsenna venne a assaltare Roma per rimettere i Tarquinii; dove il Senato, dubitando della plebe, che la non volesse più tosto accettare i re che sostenere la guerra, per assicurarsene la sgravò delle gabelle del sale, e d'ogni gravezza, dicendo come i poveri assai operavano in beneficio publico se ei nutrivono i loro figliuoli; e che per questo beneficio quel popolo si esponessi a sopportare ossidione, fame e guerra; non sia alcuno che, confidatosi in questo esemplo, differisca ne' tempi de' pericoli a guadagnarsi il popolo; però che mai gli riuscirà quello che riuscì ai Romani. Perché l'universale giudicherà non avere quel bene da te, ma dagli avversari tuoi, e dovendo temere che, passata la necessità, tu ritolga loro quello che hai forzatamente loro dato, non arà teco obligo alcuno. E la cagione perché a' Romani tornò bene questo partito, fu perché lo stato era nuovo, e non per ancora fermo; e aveva veduto quel popolo, come innanzi si erano fatte leggi in beneficio suo, come quella dell'appellagione alla plebe; in modo che ei potette persuadersi che quel bene gli era fatto, non era tanto causato dalla venuta dei nimici, quanto dalla disposizione del Senato in beneficarli. Oltre a questo, la memoria dei re era fresca, dai quali erano stati in molti modi vilipesi e ingiuriati. E perché simili cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora rade volte che simili rimedi giovino. Però, debbe qualunque tiene stato, così republica come principe, considerare innanzi, quali tempi gli possono venire addosso contrari, e di quali uomini ne' tempi avversi si può avere di bisogno; e dipoi vivere con loro in quello modo che giudica, sopravvegnente qualunque caso, essere necessitato vivere. E quello che altrimenti si governa, o principe o republica, e massime un principe, e poi in sul fatto crede, quando il pericolo sopravviene, con i beneficii riguadagnarsi gli uomini, se ne inganna: perché, non solamente non se ne assicura, ma accelera la sua rovina.
Cap.
33
Quando uno inconveniente è cresciuto
o in uno stato o contro a uno stato, è più salutifero partito
temporeggiarlo che urtarlo.
Crescendo
la Republica romana in riputazione, forze ed imperio, i vicini, i
quali prima non avevano pensato quanto quella nuova republica
potesse arrecare loro di danno, cominciarono, ma tardi, a
conoscere lo errore loro; e volendo rimediare a quello che prima
non aveano rimediato, congiurarono bene quaranta popoli contro a
Roma: donde i Romani intra gli altri rimedii soliti farsi da loro
negli urgenti pericoli, si volsono a creare il Dittatore, cioè
dare potestà a uno uomo che sanza alcuna consulta potesse
diliberare, e sanza alcuna appellagione potesse esequire le sue
diliberazioni. Il quale rimedio, come allora fu utile, e fu
cagione che vincessero i soprastanti pericoli, così fu sempre
utilissimo in tutti quegli accidenti che, nello augumento dello
imperio, in qualunque tempo surgessono contro alla Republica.
Sopra il quale accidente è da discorrere
prima, come, quando uno inconveniente, che surga o in una
republica o contro a una republica, causato da cagione intrinseca
o estrinseca, è diventato tanto grande che e' cominci a fare
paura a ciascuno, è molto più sicuro partito temporeggiarsi con
quello, che tentare di estinguerlo. Perché, quasi sempre, coloro
che tentano di ammorzarlo fanno le sue forze maggiori, e fanno
accelerare quel male che da quello si sospettava. E di questi
simili accidenti ne nasce nella republica più spesso per cagione
intrinseca che estrinseca: dove molte volte, o e' si lascia
pigliare ad uno cittadino più forze che non è ragionevole, o e'
si comincia a corrompere una legge, la quale è il nervo e la
vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere questo errore in
tanto, che gli è più dannoso partito il volere rimediare che
lasciarlo seguire. E tanto è più difficile il conoscere questi
inconvenienti quando e' nascono, quanto e' pare più naturale
agli uomini favorire sempre i principii delle cose: e tali favori
possano, più che in alcuna altra cosa, nelle opere che paiano
che abbiano in sé qualche virtù e siano operate da' giovani.
Perché se in una republica si vede surgere uno giovane nobile,
quale abbia in sé virtù istraordinaria, tutti gli occhi de'
cittadini si cominciono a voltare verso lui e concorrere,sanza
alcuno rispetto, a onorarlo; in modo che, se in quello è punto d'ambizione,
accozzati i favori che gli dà la natura e questo accidente,
viene subito in luogo che, quando i cittadini si avveggono dello
errore loro, hanno pochi rimedi ad ovviarvi e volendo quegli
tanti ch'egli hanno, operarli, non fanno altro che accelerare la
potenza sua.
Di questo se ne potrebbe addurre assai
esempli, ma io ne voglio solamente dare uno della città nostra.
Cosimo de' Medici, dal quale la casa de' Medici in la nostra
città ebbe il principio della sua grandezza, venne in tanta
riputazione col favore che gli dette la sua prudenza e la
ignoranza degli altri cittadini, che ei cominciò a fare paura
allo stato, in modo che gli altri cittadini giudicavano l'offenderlo
pericoloso ed il lasciarlo stare così, pericolosissimo. Ma
vivendo in quei tempi Niccolò da Uzzano, il quale nelle cose
civili era tenuto uomo espertissimo, ed avendo fatto il primo
errore di non conoscere i pericoli che dalla riputazione di
Cosimo potevano nascere; mentre che visse, non permesse mai che
si facesse il secondo, cioè che si tentasse di volerlo spegnere;
giudicando tale tentazione essere al tutto la rovina dello stato
loro; come si vide in fatto, che fu, dopo la sua morte: perché,
non osservando quegli cittadini che rimasono, questo suo
consiglio, si feciono forti contro a Cosimo, e lo cacciorono da
Firenze. Donde ne nacque che la sua parte, per questa ingiuria
risentitasi, poco di poi lo richiamò, e lo fece principe della
republica: a il quale grado sanza quella manifesta opposizione
non sarebbe mai potuto salire.
Questo medesimo intervenne a Roma con
Cesare, che, favorita da Pompeio e dagli altri quella sua virtù,
si convertì poco dipoi quel favore in paura: di che fa testimone
Cicerone, dicendo che Pompeio aveva tardi cominciato a temere
Cesare. La quale paura fece che pensarono ai rimedi; e gli rimedi
che fecero, accelerarono la rovina della loro Republica.
Dico, adunque, che poi che gli è
difficile conoscere questi mali quando ei surgano, causata questa
difficultà da uno inganno che ti fanno le cose in principio, è
più savio partito il temporeggiarle poi che le si conoscono, che
l'oppugnarle: perché, temporeggiandole, o per loro medesime si
spengono, o almeno il male si differisce in più lungo tempo. E
in tutte le cose debbono aprire gli occhi i principi che
disegnano cancellarle o alle forze ed impeto loro opporsi; di non
dare loro, in cambio di detrimento, augumento; e, credendo
sospingere una cosa, tirarsela dietro, ovvero suffocare una
pianta a annaffiarla. Ma si debbano considerare bene le forze del
malore, e quando ti vedi sufficiente a sanare quello, metterviti
sanza rispetto; altrimenti lasciarlo stare, né in alcun modo
tentarlo. Perché interverrebbe, come di sopra si discorre, come
intervenne a' vicini di Roma: ai quali, poiché Roma era
cresciuta in tanta potenza, era più salutifero con gli modi
della pace cercare di placarla e ritenerla addietro, che coi modi
della guerra farle pensare ai nuovi ordini e alle nuove difese.
Perché quella loro congiura non fece altro che farli più uniti,
più gagliardi, e pensare a modi nuovi, mediante i quali in più
breve tempo ampliarono la potenza loro. Intra i quali fu la
creazione del Dittatore; per lo quale nuovo ordine, non solamente
superarono i soprastanti pericoli ma fu cagione di ovviare a
infiniti mali, ne' quali sanza quello rimedio quella republica
sarebbe incorsa.
Cap. 34
L'autorità
dittatoria fece bene, e non danno, alla republica romana: e come
le autorità che i cittadini si tolgono, non quelle che sono loro
dai suffragi liberi date, sono alla vita civile perniziose.
E'
sono stati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che
trovarono in quella città modo di creare il Dittatore, come cosa
che fosse cagione, col tempo, della tirannide di Roma; allegando,
come il primo tiranno che fosse in quella città la comandò
sotto questo titolo dittatorio; dicendo che, se non vi fusse
stato questo Cesare non arebbe potuto sotto alcuno titolo publico
adonestare la sua tirannide. La quale cosa non fu bene, da colui
che tiene questa opinione, esaminata, e fu fuori d'ogni ragione
creduta. Perché, e' non fu il nome né il grado del Dittatore
che facesse serva Roma, ma fu l'autorità presa dai cittadini per
la lunghezza dello imperio: e se in Roma fusse mancato il nome
dittatorio, ne arebbono preso un altro; perché e' sono le forze
che facilmente si acquistano i nomi, non i nomi le forze. E si
vede che 'l Dittatore, mentre fu dato secondo gli ordini publici,
e non per autorità propria, fece sempre bene alla città.
Perché e' nuocono alle republiche i magistrati che si fanno e l'autoritadi
che si dànno per vie istraordinarie, non quelle che vengono per
vie ordinarie: come si vede che seguì in Roma, in tanto processo
di tempo, che mai alcuno Dittatore fece se non bene alla
Republica.
Di che ce ne sono ragioni evidentissime.
Prima, perché a volere che un cittadino possa offendere, e
pigliarsi autorità istraordinaria, conviene ch'egli abbia molte
qualità, le quali in una republica non corrotta non può mai
avere: perché gli bisogna essere ricchissimo, ed avere assai
aderenti e partigiani, i quali non può avere dove le leggi si
osservano; e quando pure ve gli avessi, simili uominl sono in
modo formidabili, che i suffragi liberi non concorrano in quelli.
Oltra di questo, il Dittatore era fatto a tempo, e non in
perpetuo, e per ovviare solamente a quella cagione mediante la
quale era creato; e la sua autorità si estendeva in potere
diliberare per sé stesso circa i rimedi di quello urgente
pericolo, e fare ogni cosa sanza consulta, e punire ciascuno
sanza appellagione: ma non poteva fare cosa che fussi in
diminuzione dello stato; come sarebbe stato tôrre autorità al
Senato o al Popolo, disfare, gli ordini vecchi della città, e
farne de' nuovi. In modo che, raccozzato il breve tempo della sua
dittatura, e le autorità limitate che egli aveva, ed il popolo
romano non corrotto; era impossibile ch'egli uscisse de' termini
suoi, e nocessi alla città: e per esperienza si vede che sempre
mai giovò.
E veramente, infra gli altri ordini
romani, questo è uno che merita essere considerato e numerato
infra quegli che furono cagione della grandezza di tanto imperio;
perché sanza uno simile ordine le cittadi con difficultà
usciranno degli accidenti istraordinari. Perché gli ordini
consueti nelle republiche hanno il moto tardo (non potendo alcuno
consiglio né alcuno magistrato per sé stesso operare ogni cosa,
ma avendo in molte cose bisogno l'uno dell'altro, e perché nel
raccozzare insieme questi voleri va tempo) sono i rimedi loro
pericolosissimi, quando egli hanno a rimediare a una cosa che non
aspetti tempo. E però le republiche debbano intra loro ordini
avere uno simile modo: e la Republica viniziana, la quale intra
le moderne republiche è eccellente, ha riservato autorità a
pochi cittadini, che ne' bisogni urgenti, sanza maggiore consulta,
tutti d'accordo possino deliberare. Perché, quando in una
republica manca uno simile modo, è necessario, o, servando gli
ordini, rovinare, o, per non ruinare, rompergli. Ed in una
republica non vorrebbe mai accadere cosa che con modi
straordinari si avesse a governare. Perché, ancora che il modo
straordinario per allora facesse bene, nondimeno lo esemplo fa
male; perché si mette una usanza di rompere gli ordini per bene,
che poi, sotto quel colore, si rompono per male. Talché mai fia
perfetta una republica, se con le leggi sue non ha provisto a
tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio, e dato il modo a
governarlo. E però, conchiudendo, dico che quelle republiche, le
quali negli urgenti pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a
simili autoritadi, sempre ne' gravi accidenti rovineranno. È da
notare in questo nuovo ordine il modo dello eleggerlo, quanto dai
Romani fu saviamente provisto. Perché, sendo la creazione del
Dittatore con qualche vergogna dei Consoli, avendo, di capi della
città, a divenire sotto una ubbidienza come gli altri; e
presupponendo che di questo avessi a nascere isdegno fra'
cittadini; vollono che l'autorità dello eleggerlo fosse nei
Consoli: pensando che, quando l'accidente venisse che Roma avesse
bisogno di questa regia potestà, ei lo avessono a fare
volentieri e facendolo loro, che dolesse loro meno. Perché le
ferite ed ogni altro male che l'uomo si fa da sé spontaneamente
e per elezione, dolgano di gran lunga meno, che quelle che ti
sono fatte da altrui. Ancora che poi negli ultimi tempi i Romani
usassono, in cambio del Dittatore, di dare tale autorità al
Console, con queste parole: "Videat Consul, ne Respublica
quid detrimenti capiat". E per tornare alla materia nostra,
conchiudo, come i vicini di Roma, cercando opprimergli, gli
fecerono ordinare, non solamente a potersi difendere, ma a potere,
con più forza, più consiglio e più autorità, offendere loro.
Cap.
35
La cagione perché la creazione in
roma del decemvirato fu nociva alla libertà di quella republica,
non ostante che fusse creato per suffragi publici e liberi.
E' pare contrario a quel che di sopra è discorso, che quella autorità che si occupa con violenza, non quella ch'è data con gli suffragi, nuoce alle republiche, la elezione dei dieci cittadini creati dal Popolo romano per fare le leggi in Roma: i quali ne diventarono con il tempo tiranni, e sanza alcuno rispetto occuparono la libertà di quella. Dove si debbe considerare i modi del dare l'autorità e il tempo per che la si dà. E quando e' si dia autorità libera, col tempo lungo, chiamando il tempo lungo uno anno o più, sempre fia pericolosa, e farà gli effetti o buoni o rei, secondo che siano rei o buoni coloro a chi la sarà data. E se si considerrà l'autorità che ebbero i Dieci, e quella che avevano i Dittatori, si vedrà, sanza comparazione, quella de' Dieci maggiore. Perché, creato il Dittatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il Senato, con la loro autorità; né il Dittatore la poteva tôrre loro: e s'egli avessi potuto privare, uno del Consolato, uno del Senato, ei non poteva annullare l'ordine senatorio, e fare nuove leggi. In modo che il Senato, i Consoli, i Tribuni, restando con l'autorità loro, venivano a essere come sua guardia, a farlo non uscire della via diritta. Ma nella creazione de' Dieci occorse tutto il contrario: perché gli annullorono i Consoli ed i Tribuni; dettero loro autorità di fare legge, ed ogni altra cosa, come il Popolo romano. Talché, trovandosi soli, sanza Consoli, sanza Tribuni, sanza appellagione al Popolo; e per questo non venendo ad avere chi gli osservasse ei poterono, il secondo anno, mossi dall'ambizione di Appio, diventare insolenti. E per questo si debbe notare, che, quando e' si e detto che una autorità, data da' suffragi liberi, non offese mai alcuna republica, si presuppone che un popolo non si conduca mai a darla, se non con le debite circunstanze e ne' debiti tempi: ma quando, o per essere ingannato, o per qualche altra cagione che lo accecasse, e' si conducesse a darla imprudentemente, e nel modo che il Popolo romano la dette a' Dieci gl'interverrà sempre come a quello. Questo si prova facilmente, considerando quali cagioni mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero i Dieci cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto quelle republiche che sono state tenute bene ordinate, nel dare l'autorità per lungo tempo, come davano gli Spartani agli loro Re, e come dànno i Viniziani ai loro Duci: perché si vedrà, all'uno ed all'altro modo di costoro essere poste guardie, che facevano che ei non potevano usare male quella autorità. Né giova, in questo caso, che la materia non sia corrotta; perché una autorità assoluta in brevissimo tempo corrompe la materia e si fa amici e partigiani. Né gli nuoce, o essere povero, o non avere parenti; perché le ricchezze ed ogni altro favore subito gli corre dietro: come particularmente nella creazione de' detti Dieci discorrereno.
Cap.
36
Non debbano i cittadini, che hanno
avuti i maggiori onori, sdegnarsi de' minori.
Avevano i Romani fatto Marco Fabio e G. Manilio consoli, e vinta una gloriosissima giornata contro a' Veienti e gli Etruschi; nella quale fu morto Quinto Fabio, fratello del consolo, quale lo anno davanti era stato consolo. Dove si debbe considerare quanto gli ordini di quella città erano atti a farla grande; e quanto le altre republiche, che si discostono da' modi suoi, s'ingannino. Perché, ancora che i Romani fossono amatori grandi della gloria, nondimeno non stimavano così disonorevole ubbidire ora a chi altra volta essi avevano comandato, e trovarsi a servire in quello esercito del quale erano stati principi. Il quale costume è contrario alla opinione, ordini e modi de' cittadini de' tempi nostri: ed in Vinegia è ancora questo errore, che uno cittadino, avendo avuto un grado grande, si vergogni di accettarne uno minore; e la città gli consenta che se ne possa discostare. La quale cosa, quando fusse onorevole per il privato, è al tutto inutile per il publico. Perché più speranza debbe avere una republica, e più confidare in uno cittadino che da uno grado grande scenda a governare uno minore che in quello che da uno minore salga a governare uno maggiore. Perché a costui non può ragionevolmente credere, se non gli vede uomini intorno, i quali siano di tanta riverenza o di tanta virtù che la novità di colui possa essere, con il consiglio ed autorità loro, moderata. E quando in Roma fosse stata la consuetudine quale è a Vinegia e nell'altre republiche e regni moderni, che chi era stato una volta Consolo non volesse mai più andare negli eserciti se non Consolo, ne sarebbero nate infinite cose in disfavore del vivere libero; e per gli errori che arebbon fatti gli uomini nuovi, e per l'ambizione che loro arebbono potuta usare meglio, non avendo uomini intorno, nel cospetto de' quali ei temessono errare; e così sarebbero venuti a essere più sciolti: il che sarebbe tornato tutto in detrimento publico.
Cap.
37
Quali scandoli partorì in Roma la
legge agraria: e come fare una legge in una republica, che
riguardi assai indietro, e sia contro a una consuetudine antica
della città, è scandolosissimo.
Egli
è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono
affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come dall'una e dall'altra
di queste due passioni nascano i medesimi effetti. Perché,
qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità,
combattono per ambizione; la quale è tanto potente ne' petti
umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La
cagione è, perché la natura ha creati gli uomini in modo che
possono desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa:
talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza
dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si
possiede, e la poca sodisfazione d'esso. Da questo nasce il
variare della fortuna loro: perché, disiderando gli uomini,
parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato,
si viene alle inimicizie ed alla guerra; dalla quale nasce la
rovina di quella provincia e la esaltazione di quell'altra.
Questo discorso ho fatto, perché alla Plebe romana non bastò
assicurarsi de' nobili per la creazione de' Tribuni, al quale
desiderio fu costretta per necessità; che lei, subito, ottenuto
quello, cominciò a combattere per ambizione, e volere con la
Nobiltà dividere gli onori e le sustanze, come cosa stimata più
dagli uomini. Da questo nacque il morbo che partorì la
contenzione della legge agraria, che infine fu causa della
distruzione della Republica. E perché le republiche bene
ordinate hanno a tenere ricco il publico e gli loro cittadini,
poveri, convenne che fusse nella città di Roma difetto in questa
legge: la quale o non fusse fatta nel principio in modo che la
non si avesse ogni dì a ritrattare, o che si differisse tanto in
farla, che fosse scandoloso il riguardarsi indietro o, sendo
ordinata bene da prima, era stata poi dall'uso corrotta, talché
in qualunque modo si fusse, mai non si parlò di questa legge in
Roma, che quella città non andasse sottosopra.
Aveva questa legge due capi principali.
Per l'uno si disponeva che non si potesse possedere per alcuno
cittadino più che tanti iugeri di terra; per l'altro, che i
campi di che si privavano i nimici, si dividessono intra il
popolo romano. Veniva pertanto a fare di dua sorte offese ai
nobili: perché quegli che possedevano più beni non permetteva
la legge (quali erano la maggiore parte de' nobili), ne avevano a
essere privi, e dividendosi intra la plebe i beni de' nimici, si
toglieva a quegli la via dello arricchire. Sicché, venendo a
essere queste offese contro a uomini potenti, e, che pareva loro,
contrastandola, difendere il publico, qualunque volta, come è
detto, si ricordava, andava sottosopra tutta quella città: e i
nobili con pazienza ed industria la temporeggiavano o con trarre
fuora uno esercito o che a quel Tribuno che la proponeva si
opponesse un altro Tribuno, o talvolta cederne parte, ovvero
mandare una colonia in quel luogo che si avesse a distribuire:
come intervenne del contado di Anzio, per il quale surgendo
questa disputa della legge, si mandò in quel luogo una colonia,
tratta di Roma, alla quale si consegnasse detto contado. Dove
Tito Livio usa un termine notabile, dicendo che con difficultà
si trovò in Roma chi desse il nome per ire in detta colonia:
tanto era quella plebe più pronta a volere desiderare le cose in
Roma, che a possederle in Anzio. Andò questo omore di questa
legge, così, travagliandosi un tempo, tanto che gli Romani
cominciarono a condurre le loro armi nelle estreme parti di
Italia, o fuori di Italia; dopo al quale tempo parve che la
cessassi. Il che nacque perché i campi che possedevano i nimici
di Roma essendo discosti agli occhi della plebe, ed in luogo dove
non gli era facile il cultivargli, veniva a essere meno
desiderosa di quegli: e ancora i Romani erano meno punitori de'
loro nimici in simil modo; e quando pure spogliavano alcuna terra
del suo contado, vi distribuivano colonie. Tanto che, per tali
cagioni, questa legge stette come addormentata infino ai Gracchi;
da' quali essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà
romana; perché la trovò raddoppiata la potenza de' suoi
avversari, e si accese, per questo, tanto odio intra la Plebe ed
il Senato, che si venne nelle armi ed al sangue, fuori d'ogni
modo e costume civile. Talché, non potendo i publici magistrati
rimediarvi, né sperando più alcuna delle fazioni in quegli, si
ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di farsi
uno capo che la difendesse. Prevenne in questo scandolo e
disordine la plebe, e volse la sua riputazione a Mario tanto che
la lo fece quattro volte consule; ed in tanto continovò con
pochi intervalli il suo consolato, che si potette per sé stesso
far consulo tre altre volte. Contro alla quale peste non avendo
la Nobilità alcuno rimedio, si volse a favorire Silla; e fatto,
quello, capo della parte sua, vennero alle guerre civili; e, dopo
molto sangue e variare di fortuna, rimase superiore la Nobilità.
Risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e di Pompeio;
perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario, e Pompeio di
quella di Silla, venendo alle mani, rimase superiore Cesare: il
quale fu primo tiranno in Roma; talché mai fu poi libera quella
città.
Tale, adunque, principio e fine ebbe la
legge agraria. E benché noi mostrassimo altrove, come le
inimicizie di Roma intra il Senato e la Plebe mantenessero libera
Roma, per nascerne, da quelle, leggi in favore della libertà, e
per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa
legge agraria; dico come, per questo, io non mi rimuovo da tale
opinione: perché gli è tanta l'ambizione de' grandi, che, se
per varie vie ed in vari modi ella non è in una città sbattuta,
tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la
contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma
serva, si sarebbe condotta, per avventura, molto più tosto in
servitù quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi
appetiti, non avesse sempre frenato l'ambizione de' nobili.
Vedesi per questo ancora, quanto gli uomini stimano più la roba
che gli onori. Perché la Nobilità romana sempre negli onori
cede sanza scandoli straordinari alla plebe; ma come si venne
alla roba fu tanta la ostinazione sua nel difenderla, che la
plebe ricorse, per isfogare l'appetito suo, a quegli straordinari
che di sopra si discorrono. Del quale disordine furono motori i
Gracchi, de' quali si debbe laudare più la intenzione che la
prudenzia. Perché, a volere levar via uno disordine cresciuto in
una republica, e per questo fare una legge che riguardi assai
indietro, è partito male considerato; e, come di sopra
largamente si discorse, non si fa altro che accelerare quel male,
a che quel disordine ti conduce: ma, temporeggiandolo, o il male
viene più tardo, o per sé medesimo col tempo avanti che venga
al fine suo, si spegne.
Cap.
38
Le republiche deboli sono male
risolute e non si sanno diliberare; e se le pigliano mai alcun
partito, nasce più da necessità che da elezione.
Essendo
in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli
Volsci ed agli Equi che fusse venuto il tempo di potere
oppressare Roma, fatto questi due popoli uno grossissimo esercito,
assaltarono i Latini e gli Ernici; e guastando il loro paese,
furono costretti i Latini e gli Ernici farlo intendere a Roma, e
pregare che fossero difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani
gravati dal morbo, risposero che pigliassero partito di
difendersi da loro medesimi e con le loro armi, perché essi non
gli potevano difendere. Dove si conosce la generosità e prudenza
di quel Senato, e come sempre in ogni fortuna volle essere quello
che fusse principe delle diliberazioni che avessero a pigliare i
suoi; né si vergognò mai diliberare una cosa che fusse
contraria al suo modo di vivere o ad altre diliberazioni fatte da
lui, quando la necessità gliene comandava.
Questo dico, perché altre volte il
medesimo Senato aveva vietato ai detti popoli l'armarsi e
difendersi; talché a uno Senato meno prudente di questo sarebbe
paruto cadere del grado suo a concedere loro tale difensione. Ma
quello sempre giudicò le cose come si debbano giudicare, e
sempre prese il meno reo partito per migliore: perché male gli
sapeva non potere difendere i suoi sudditi, male gli sapeva che
si armassero sanza loro, per le ragioni dette e per molte altre
che s'intendano: nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati,
per necessità, a ogni modo, avendo il nimico addosso; prese la
parte onorevole, e volle che quello che gli aveano a fare, lo
facessero con licenza sua, acciocché, avendo disubbidito per
necessità, non si avvezzassero a disubbidire per elezione. E
benché questo paia partito che da ciascuna republica dovesse
essere preso, nientedimeno le republiche deboli e male
consigliate non gli sanno pigliare, né si sanno onorare di
simili necessità. Aveva il duca Valentino presa Faenza, e fatto
calare Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendo tornarsene a
Roma per la Toscana, mandò in Firenze uno suo uomo a domandare
il passo per sé e per lo esercito suo. Consultossi in Firenze
come si avesse a governare questa cosa, né fu mai consigliato
per alcuno di concedergliene. In che non si seguì il modo romano:
perché, sendo il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in modo
disarmati che non gli potevan vietare il passare, era molto più
onore loro, che paresse che passasse con volontà di quegli, che
a forza; perché, dove vi fu al tutto il loro vituperio, sarebbe
stato in parte minore quando l'avessero governata altrimenti. Ma
la più cattiva parte che abbiano le republiche deboli, è essere
inresolute; in modo che tutti i partiti che le pigliono, gli
pigliono per forza; e se vien loro fatto alcun bene, lo fanno
forzate, e non per prudenza loro.
Io voglio dare di questo due altri
esempli, occorsi ne' tempi nostri, nello stato della nostra
città.
Nel 1500, ripreso che il re Luigi XII di
Francia ebbe Milano, desideroso di rendervi Pisa, per avere
cinquantamila ducati che gli erano stati promessi da' Fiorentini
dopo tale restituzione, mandò gli suoi eserciti verso Pisa,
capitanati da monsignore di Beumonte; benché francese,
nondimanco uomo in cui i Fiorentini assai confidavano. Condussesi
questo esercito e questo capitano intra Cascina e Pisa, per
andare a combattere le mura; dove dimorando alcuno giorno per
ordinarsi alla espugnazione, vennono oratori Pisani a Beumonte, e
gli offerirono di dare la città allo esercito francese con
questi patti: che, sotto la fede del re, promettesse non la
mettere in mano de' Fiorentini, prima che dopo quattro mesi. Il
quale partito fu da' Fiorentini al tutto rifiutato, in modo che
si seguì nello andarvi a campo e partirsene con vergogna. Né fu
rifiutato il partito per altra cagione che per diffidare della
fede del re; come quegli che per debolezza di consiglio si erano
per forza messi nelle mani sue, e, dall'altra parte, non se ne
fidavano, ne vedevano quanto era meglio che il re potesse rendere
loro Pisa sendovi dentro, e, non la rendendo, scoprire l'animo
suo, che, non la avendo, poterla loro promettere, e loro essere
forzati comperare quelle promesse. Talché, molto più utilmente
arebbono fatto a acconsentire che Beumonte l'avessi, sotto
qualunque promessa, presa: come se ne vide la esperienza dipoi
nel 1502, che, essendosi ribellato Arezzo, venne ai soccorsi de'
Fiorentini mandato da il re di Francia monsignor Imbalt con gente
francese; il quale, giunto propinquo ad Arezzo, dopo poco tempo
cominciò a praticare accordo con gli Aretini, i quali sotto
certa fede volevon dare la terra, a similitudine de' Pisani. Fu
rifiutato in Firenze tale partito; il che veggendo monsignor
Imbalt, e parendogli come i Fiorentini se ne intendessero poco,
cominciò a tenere le pratiche dello accordo da sé, sanza
partecipazione de' Commessari: tanto che ei lo conchiuse a suo
modo, e, sotto quello, con le sue genti se n'entrò in Arezzo,
faccendo intendere ai Fiorentini come egli erano matti, e non s'intendevano
delle cose del mondo: che, se volevano Arezzo, lo facessero
intendere a il re, il quale lo poteva dare loro molto meglio,
avendo le sua gente in quella città, che fuori. Non si restava
in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt; né si restò
mai infino a tanto che si conobbe che, se Beumonte fosse stato
simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come Arezzo.
E così, per tornare a proposito, le
republiche inresolute non pigliono mai partiti buoni, se non per
forza, perché la debolezza loro non le lascia mai deliberare
dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una
violenza che le sospinga, stanno sempre mai sospese.
Cap.
39
In diversi popoli si veggano spesso i
medesimi accidenti.
E'
si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le
antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli
medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono
sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con
diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future,
e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non
ne trovando degli usati, pensarne de' nuovi, per la similitudine
degli accidenti. Ma perché queste considerazioni sono neglette,
o non intese da chi legge, o, se le sono intese, non sono
conosciute da chi governa; ne seguita che sempre sono i medesimi
scandoli in ogni tempo.
Avendo la città di Firenze, dopo il 94,
perso parte dello imperio suo, come Pisa ed altre terre, fu
necessitata fare guerra a coloro che le occupavano. E perché chi
le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella
guerra, sanza alcun frutto; dallo spendere assai, ne risultava
assai gravezze; dalle gravezze, infinite querele del popolo: e
perché questa guerra era amministrata da uno magistrato di dieci
cittadini che si chiamavano i Dieci della guerra, l'universale
cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione
e della guerra e delle spese d'essa; e cominciò a persuadersi
che, tolto via detto magistrato, fusse tolto via la guerra, tanto
che, avendosi a rifare, non se gli fecero gli scambi; e
lasciatosi spirare, si mandarono le azioni sue alla Signoria. La
quale diliberazione fu tanto perniziosa, che, non solamente non
levò la guerra, come lo universale si persuadeva, ma, tolto via
quegli uomini che con prudenza l'amministravano, ne seguì tanto
disordine, che, oltre a Pisa, si perdé Arezzo e molti altri
luoghi: in modo che, ravvedutosi il popolo dello errore suo, e
come la cagione del male era la febbre e non il medico, rifece il
magistrato de' Dieci. Questo medesimo omore si levò in Roma
contro al nome de' Consoli: perché veggendo quello popolo
nascere l'una guerra dall'altra, e non poter mai riposarsi; dove
e' dovevano pensare che la nascessi dall'ambizione de' vicini che
gli volevano opprimere, pensavano nascessi dall'ambizione de'
nobili, che, non potendo dentro in Roma gastigare la Plebe difesa
dalla potestà tribunizia, la volevon condurre fuora di Roma
sotto i Consoli, per oppressarla dove la non aveva aiuto alcuno.
E pensarono, per questo, che fusse necessario o levar via i
Consoli, o regolare in modo la loro potestà, che e' non avessono
autorità sopra il popolo né fuori né in casa. Il primo che
tentò questa legge, fu uno Terentillo tribuno; il quale
proponeva che si dovessero creare cinque uomini che dovessero
considerare la potenza de' Consoli, e limitarla. Il che alterò
assai la Nobilità, parendogli che la maiestà dello imperio
fusse al tutto declinata, talché alla Nobilità non restasse
più alcun grado in quella Republica. Fu nondimeno tanta l'ostinazione
de' Tribuni, che 'l nome consolare si spense; e furono in fine
contenti, dopo qualche altro ordine, più tosto creare Tribuni
con potestà consolare, che Consoli: tanto avevano più in odio
il nome che l'autorità loro. E così seguitarono lungo tempo,
infine che, conosciuto l'errore loro, come i Fiorentini
ritornarono a' Dieci, così loro ricreorno i Consoli.
Cap.
40
La
creazione del decemvirato in Roma, e quello che in essa è da
notare: dove si considera, intra molte altre cose, come si può o
salvare, per simile accidente, o oppressare una republica.
Volendo
discorrere particularmente sopra gli accidenti che nacquero in
Roma per la creazione del Decemvirato, non mi pare soperchio
narrare, prima, tutto quello che seguì per simile creazione, e
dopo disputare quelle parti che sono, in esse azioni, notabili:
le quali sono molte e di grande considerazione, così per coloro
che vogliono mantenere una republica libera, come per quelli che
disegnassono sottometterla. Perché in tale discorso si vedrà,
molti errori fatti dal Senato e dalla plebe in disfavore della
libertà; e molti errori fatti da Appio, capo del Decemvirato, in
disfavore di quella tirannide che egli si aveva presupposto
stabilire in Roma. Dopo molte disputazioni e contenzioni seguite
intra il Popolo e la Nobilità per fermare nuove leggi in Roma,
per le quali si stabilisse più la libertà di quello stato,
mandarono, d'accordo, Spurio Pestumio, con duoi altri Cittadini,
a Atene, per gli esempli di quelle leggi che Solone dette a
quella città, acciocché sopra quelle potessono fondare le leggi
romane. Andati e tornati costoro, si venne alla creazione degli
uomini che avessero ad esaminare e fermare dette leggi; e
crearono dieci cittadini per uno anno, intra i quali fu creato
Appio Claudio, uomo sagace ed inquieto. E perché e' potessono,
sanza alcun rispetto, creare tali leggi, si levarono di Roma
tutti gli altri magistrati, ed in particulare i Tribuni ed i
Consoli, e levossi lo appello al Popolo; in modo che tale
magistrato veniva a essere al tutto principe di Roma. Appresso ad
Appio si ridusse tutta l'autorità degli altri suoi compagni, per
i favori che gli faceva la Plebe; perché egli s'era fatto in
modo popolare con le dimostrazioni, che pareva maraviglia ch'egli
avesse preso sì presto una nuova natura e uno nuovo ingegno,
essendo stato tenuto, innanzi a questo tempo, uno crudele
perseguitatore della plebe.
Governaronsi questi Dieci assai
civilmente, non tenendo più che dodici littori, i quali andavano
davanti a quello ch'era infra loro proposto. E benché gli
avessono l'autorità assoluta, nondimeno, avendosi a punire uno
cittadino romano per omicida, lo citorno nel cospetto del popolo,
e da quello lo fecero giudicare. Scrissero le loro leggi in dieci
tavole; ed avanti che le confermassero, le messono in publico,
acciocché ciascuno le potesse leggere e disputarle; acciocché
si conoscesse se vi era alcun difetto, per poterle innanzi alla
confermazione loro emendare. Fece, in su questo, Appio nascere un
romore per Roma, che, se a queste dieci tavole se ne aggiugnesse
due altre, si darebbe a quelle la loro perfezione; talché questa
opinione dette occasione al popolo di rifare i Dieci per un altro
anno: a che il popolo s'accordò volentieri, sì perché i
Consoli non si rifacessono, sì perché e' pareva loro potere
stare sanza Tribuni, sendo loro giudici delle cause, come disopra
si disse. Preso, dunque, partito di rifarli, tutta la Nobilità
si mosse a cercare questi onori; ed intra i primi era Appio; ed
usava tanta umanità verso la plebe nel domandarlo, che la
cominciò a essere sospetta a' suoi compagni: "credebant
enim haud gratuitam in tanta superbia comitatem fore". E
dubitando di opporsegli apertamente, deliberarono farlo con arte,
e benché e' fusse minore di tempo di tutti dettono a lui
autorità di proporre i futuri Dieci al popolo, credendo ch'egli
osservassi i termini degli altri di non proporre sé medesimo,
sendo cosa inusitata e ignominiosa in Roma. "Ille vero
impedimentum pro occasione arripuit" e nominò sé intra i
primi, con maraviglia e dispiacere di tutti i nobili; nominò
dipoi nove altri, a suo proposito. La quale nuova creazione,
fatta per uno altro anno, cominciò a mostrare al Popolo ed alla
Nobilità lo errore suo. Perché subito "Appius finem fecit
ferendae alienae personae"; e cominciò a mostrare la innata
sua superbia, ed in pochi dì riempié de' suoi costumi i suoi
compagni. E per isbigottire il popolo ed il Senato in cambio di
dodici littori, ne feciono cento venti.
Stette la paura equale qualche giorno; ma
cominciarono poi a intrattenere il Senato, e batter la plebe: e
se alcuno battuto dall'uno, appellava all'altro, era peggio
trattato nell'appellagione che nella prima sentenzia. In modo che
la Plebe, conosciuto lo errore suo, cominciò piena di afflizione
a riguardare in viso i nobili, "et inde libertatis captare
auram, unde servitutem timendo, in eum statum rempublicam
adduxerunt". E alla Nobilità era grata questa loro
afflizione, "ut ipsi, taedio praesentium, Consules
desiderarent". Vennono i dì che terminavano l'anno: le due
tavole delle leggi erano fatte, ma non publicate. Da questo i
Dieci presono occasione di continovare nel magistrato; e
cominciarono a tenere con violenza lo stato, e farsi satelliti
della gioventù nobile, alla quale davono i beni di quegli che
loro condennavano. "Quibus donis juventus corrumpebatur et
malebat licentiam suam, quam omnium libertatem". Nacque in
questo tempo, che i Sabini ed i Volsci mossero guerra a' Romani;
in su la quale paura cominciarono i Dieci a vedere la debolezza
dello stato loro, perché sanza il Senato non potevono ordinare
la guerra, e, ragunando il Senato, pareva loro perdere lo stato.
Pure, necessitati, presono questo ultimo partito; e ragunati i
senatori insieme, molti de' senatori parlarono contro alla
superbia de' Dieci, e in particulare Valerio ed Orazio: e l'autorità
loro si sarebbe al tutto spenta, se non che il Senato, per
invidia della Plebe, non volle mostrare l'autorità sua pensando
che, se i Dieci deponevano il magistrato voluntari, che potesse
essere che i Tribuni della plebe non si rifacessero. Deliberossi
dunque la guerra uscissi fuori con dua eserciti guidati da parte
di detti Dieci; Appio rimase a governare la città. Donde nacque
che si innamorò di Virginia, e che, volendola tôrre per forza,
il padre Virginio, per liberarla, l'ammazzò: donde seguirono i
tumulti di Roma e degli eserciti: i quali riduttisi insieme con
il rimanente della plebe romana, se ne andarono nel Monte Sacro,
dove stettero tanto che i Dieci deposono il magistrato, e che
furono creati i Tribuni ed i Consoli, e ridotta Roma nella forma
della sua antica libertà.
Notasi adunque, per questo testo, in
prima, essere nato in Roma questo inconveniente di creare questa
tirannide per quelle medesime cagioni che nascano la maggior
parte delle tirannidi nelle città: e questo è da troppo
desiderio del popolo, d'essere libero, e da troppo desiderio de'
nobili, di comandare. E quando e' non convengano a fare una legge
in favore della libertà, ma gettasi qualcuna delle parti a
favorire uno, allora è che subito la tirannide surge. Convennono
il popolo ed i nobili di Roma a creare i Dieci, e crearli con
tanta autorità, per il desiderio che ciascuna delle parti aveva,
l'una di spegnere il nome consolare, l'altra il tribunizio.
Creati che furono, parendo alla plebe che Appio fusse diventato
popolare e battessi la Nobilità, si volse il popolo a favorirlo.
E quando uno popolo si conduce a fare questo errore, di dare
riputazione a uno, perché batta quelli che egli ha in odio, e
che quello uno sia savio, sempre interverrà ch'e' diventerà
tiranno di quella città. Perché egli attenderà, insieme col
favore del popolo, a spegnere la Nobilità; e non si volterà mai
alla oppressione del popolo, se non quando e' l'arà spenta; nel
quale tempo, conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove
rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti coloro che hanno
fondato tirannide in le republiche. E se questo modo avesse
tenuto Appio, quella sua tirannide arebbe presa più vita, e non
sarebbe mancata sì presto: ma e' fece tutto il contrario, né si
potette governare più imprudentemente; che, per tenere la
tirannide, e' si fece inimico di coloro che gliele avevano data e
che gliele potevano mantenere, ed inimico di quelli che non erano
concorsi a dargliene e che non gliene arebbono potuta mantenere;
e perdessi coloro che gli erano amici, e cercò di avere amici
quegli che non gli potevano essere amici. Perché, ancora che i
nobili desiderino tiranneggiare, quella parte della Nobilità che
si truova fuori della tirannide, è sempre inimica al tiranno;
né quello se la può guadagnare mai tutta, per l'ambizione
grande e grande avarizia che è in lei non potendo il tiranno
avere né tante ricchezze né tanti onori che a tutta satisfaccia.
E così Appio, lasciando il popolo ed accostandosi a' nobili,
fece uno errore evidentissimo, e per le ragioni dette di sopra, e
perché, a volere con violenza tenere una cosa, bisogna che sia
più potente chi sforza che chi è sforzato.
Donde nasce che quegli tiranni che hanno
amico l'universale ed inimici i grandi, sono più sicuri, per
essere la loro violenza sostenuta da maggiori forze, che quella
di coloro che hanno per inimico il popolo e amica la Nobilità.
Perché con quello favore bastono a conservarsi le forze
intrinseche: come bastarono a Nabide, tiranno di Sparta, quando
tutta Grecia e il Popolo romano lo assaltò: il quale,
assicuratosi di pochi nobili, avendo amico il Popolo, con quello
si difese; il che non arebbe potuto fare avendolo inimico. In
quello altro grado per avere pochi amici dentro, non bastono le
forze intrinseche, ma gli conviene cercare di fuora. Ed hanno a
essere di tre sorte: l'una satelliti forestieri, che ti guardino
la persona, l'altra armare il contado, che faccia quello ufficio
che arebbe a fare la plebe, la terza accostarsi con vicini
potenti che ti difendino. Chi tiene questi modi e gli osserva
bene, ancora ch'egli avesse per inimico il popolo, potrebbe in
qualche modo salvarsi. Ma Appio non poteva fare questo, di
guadagnarsi il contado, sendo una medesima cosa il contado e Roma:
e quel che poteva fare, non seppe: talmente che rovinò ne' primi
principii suoi. Fecero il Senato ed il Popolo in questa creazione
del Decemvirato errori grandissimi: perché, avvenga che di sopra
si dica, in quel discorso che si fa del Dittatore, che quegli
magistrati che si fanno da per loro, non quelli che fa il popolo,
sono nocivi alla libertà; nondimeno il popolo debbe, quando egli
ordina i magistrati, fargli in modo che gli abbino avere qualche
rispetto a diventare scelerati. E dove e' si debbe preporre loro
guardia per mantenergli buoni, i Romani la levarono, faccendolo
solo magistrato in Roma, ed annullando tutti gli altri, per la
eccessiva voglia (come di sopra dicemo) che il Senato aveva di
spegnere i Tribuni, e la plebe di spegnere i Consoli; la quale
gli accecò in modo, che concorsono in tale disordine. Perché
gli uomini, come diceva il re Ferrando, spesso fanno come certi
minori uccelli di rapina; ne' quali è tanto desiderio di
conseguire la loro preda, a che la natura gl'incita, che non
sentono uno altro maggiore uccello che sia loro sopra per
ammazzarli. Conoscesi, adunque, per questo discorso, come nel
principio preposi, lo errore del popolo romano, volendo salvare
la libertà, e gli errori di Appio, volendo occupare la tirannide.
Cap.
41
Saltare
dalla umiltà alla superbia, dalla piatà alla crudeltà, sanza i
debiti mezzi, è cosa imprudente e inutile.
Oltre agli altri termini male usati da Appio per mantenere la tirannide, non fu di poco momento saltare troppo presto da una qualità a un'altra. Perché l'astuzia sua nello ingannare la plebe simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata; furono ancora bene usati i termini che tenne perché i Dieci si avessono a rifare; fu ancora bene usata quella audacia di creare sé stesso contro alla opinione della Nobilità; fu bene usato creare compagni a suo proposito: ma non fu già bene usato, come egli ebbe fatto questo, secondo che disopra dico, mutare, in uno subito, natura; e, di amico, mostrarsi inimico alla plebe; di umano, superbo; di facile, difficile; e farlo tanto presto, che, sanza scusa niuna, ogni uomo avesse a conoscere la fallacia dello animo suo. Perché chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar cattivo, lo debbe fare per i debiti mezzi; ed in modo condurvisi con le occasioni, che, innanzi che la diversa natura ti tolga de' favori vecchi, la te ne abbia dati tanti de' nuovi, che tu non venga a diminuire la tua autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e sanza amici, rovini.
Cap.
42
Quanto gli uomini facilmente si
possono corrompere.
Notasi ancora, in questa materia del Decemvirato, quanto facilmente gli uomini si corrompono, e fannosi diventare di contraria natura, quantunque buoni e bene ammaestrati; considerando quanto quella gioventù che Appio si aveva eletta intorno, cominciò a essere amica della tirannide per uno poco di utilità che gliene conseguiva; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi Dieci, sendo uomo ottimo, accecato da uno poco d'ambizione, e persuaso dalla malignità di Appio, mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto più pronti i latori di leggi delle republiche o de' regni a frenare gli appetiti umani, e tôrre loro ogni speranza di potere impune errare.
Cap.
43
Quegli che combattono per la gloria
propria, sono buoni e fedeli soldati.
Considerasi ancora, per il soprascritto trattato, quanta differenzia è da uno esercito contento e che combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte per l'ambizione d'altrui. Perché, dove gli eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre perderono. Da questo esemplo si può conoscere, in parte, delle cagioni della inutilità de' soldati mercenari; i quali non hanno altra cagione che gli tenga fermi, che un poco di stipendio che tu dai loro. La qual cagione non è né può essere bastante a fargli fedeli, né tanto tuoi amici, che voglino morire per te. Perché in quegli eserciti che non è un'affezione verso di quello per chi e' combattono, che gli faccia diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere a uno nimico un poco virtuoso. E perché questo amore non può nascere, né questa gara, da altro che da' sudditi tuoi; è necessario, a volere tenere uno stato, a volere mantenere una republica o uno regno, armarsi de' sudditi suoi: come si vede che hanno fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno fatto grandi profitti. Avevano gli eserciti romani sotto i Dieci quella medesima virtù; ma perché in loro non era quella medesima disposizione, non facevono gli usitati loro effetti. Ma come prima il magistrato de' Dieci fu spento, e che loro come liberi cominciorono a militare, ritornò in loro il medesimo animo; e per consequente, le loro imprese avevono il loro fine felice, secondo l'antica consuetudine loro.
Cap.
44
Una moltitudine sanza capo è inutile:
e come è non si debbe minacciare prima, e poi chiedere l'autorità.
Era la plebe romana, per lo accidente di Virginia, ridotta armata nel Monte Sacro. Mandò il Senato suoi ambasciadori a dimandare con quale autorità gli avevano abbandonati i loro capitani, e ridottosi nel Monte. E tanto era stimata l'autorità del Senato, che, non avendo la plebe intra loro capi, niuno si ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non mancava loro materia a rispondere, ma mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimostra appunto la inutilità d'una moltitudine sanza capo. Il quale disordine fu conosciuto da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni militari, che fossero loro capi, a rispondere e convenire col Senato. Ed avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro direbbono la voglia loro, non vi vollono andare se prima i Dieci non deponevano il magistrato: e arrivati sopra il Monte dove era la Plebe, fu domandato loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni della Plebe, e che si avesse a appellare al Popolo da ogni magistrato, e che si dessono loro tutti i Dieci che gli volevono ardere vivi. Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro domande; biasimarono l'ultima come impia, dicendo: "Crudelitatem damnatis, in crudelitatem ruitis"; e consigliarongli che dovessono lasciare il fare menzione de' Dieci, e ch'egli attendessero a ripigliare l'autorità e potestà loro: dipoi non mancherebbe loro modo a sodisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia e poca prudenza è domandare una cosa, e dire prima: io voglio fare il tale male con essa; perché non si debbe mostrare l'animo suo, ma vuolsi cercare di ottenere quel suo desiderio in ogni modo. Perché e' basta a domandare a uno l'arme, sanza dire: io ti voglio ammazzare con esse; potendo, poi che tu hai l'arme in mano, soddisfare allo appetito tuo.
Cap.
45
È cosa di malo esemplo non osservare
una legge fatta, e massime dallo autore d'essa; e rinfrescare
ogni di' nuove ingiurie in una città, è, a chi la governa,
dannosissimo.
Seguito
lo accordo, e ridotta Roma in l'antica sua forma, Virginio citò
Appio innanzi al Popolo, a difendere la sua causa. Quello
comparse accompagnato da molti nobili: Virginio comandò che
fusse messo in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare
al Popolo. Virginio diceva che non era degno di avere quella
appellagione che egli aveva distrutta, ed avere per difensore
quel Popolo che egli aveva offeso: Appio replicava, come e' non
avevano a violare quella appellagione che gli aveva con tanto
desiderio ordinata. Pertanto egli fu incarcerato, ed avanti al
dì del giudizio ammazzò se stesso. E benché la scelerata vita
di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile
violare le leggi, e tanto più quella che era fatta allora.
Perché io non credo che sia cosa di più cattivo esemplo in una
republica, che fare una legge e non la osservare; e tanto più,
quanto la non è osservata da chi l'ha fatta. Essendo Firenze,
dopo al 94, stata riordinata nello stato suo con lo aiuto di
frate Girolamo Savonerola, gli scritti del quale mostrono la
dottrina, la prudenza, e la virtù dello animo suo; ed avendo,
intra le altre costituzioni per assicurare i cittadini, fatto
fare una legge, che si potesse appellare al Popolo dalle
sentenzie che, per casi di stato, gli Otto e la Signoria dessono;
la quale legge persuase più tempo, e con difficultà grandissima
ottenne; occorse che, poco dopo la confermazione d'essa, furono
condannati a morte dalla Signoria, per conto di stato, cinque
cittadini; e volendo quegli appellare, non furono lasciati, e non
fu osservata la legge. Il che tolse più riputazione a quel frate,
che alcuno altro accidente: perché, se quella appellagione era
utile, e' doveva farla osservare, se la non era utile, non doveva
farla vincere. E tanto più fu notato questo accidente, quanto
che il frate, in tante predicazioni che fece poi che fu rotta
questa legge, non mai o dannò chi l'aveva rotta, o lo scusò;
come quello che dannare non la voleva come cosa che gli tornava a
proposito, e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l'animo
suo ambizioso e partigiano, gli tolse riputazione, e dettegli
assai carico.
Offende ancora uno stato assai,
rinfrescare ogni dì nello animo de' tuoi cittadini nuovi umori
per nuove ingiurie che a questo e quello si facciano: come
intervenne a Roma dopo il Decemvirato. Perché tutti i Dieci, ed
altri cittadini in diversi tempi, furono accusati e condennati;
in modo che gli era uno spavento grandissimo in tutta la
Nobilità, giudicando che e' non si avesse mai a porre fine a
simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobilità non
fusse distrutta. Ed arebbe generato, in quella città, grande
inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato
proveduto; il quale fece uno editto, che per uno anno non fusse
lecito a alcuno citare o accusare alcuno cittadino romano: il che
rassicurò tutta la Nobilità. Dove si vede quanto sia dannoso a
una republica o a un principe, tenere con le continove pene ed
offese sospesi e paurosi gli animi de' sudditi. E sanza dubbio
non si può tenere il più pernizioso ordine: perché gli uomini
che cominciono a dubitare di avere a capitare male, in ogni modo
si assicurano ne' pericoli, e diventono più audaci, e meno
respettivi a tentare cose nuove. Però è necessario o non
offendere mai alcuno, o fare le offese a un tratto: e dipoi
rassicurare gli uomini, e dare loro cagione di quietare e fermare
l'animo.
Cap.
46
Li uomini salgono da una ambizione a
un'altra; e prima si cerca non essere offeso, dipoi si offende
altrui.
Avendo il Popolo romano recuperata la libertà e ritornato nel suo pristino grado ed in tanto maggiore quanto si erano fatte di molte leggi nuove in confermazione della sua potenza; pareva ragionevole che Roma qualche volta quietassi. Nondimeno, per esperienza si vide in contrario; perché ogni dì vi surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E perché Tito Livio prudentissimamente rende la ragione donde questo nasceva, non mi pare se non a proposito referire appunto le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobilità insuperbiva, quando l'altro si umiliava; e stando la plebe quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili a ingiuriarla; ed i Tribuni vi potevon fare pochi rimedi, perché, loro anche, erano violati. La Nobilità, dall'altra parte, ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo feroce, nonpertanto aveva a caro che, avendosi a trapassare il modo, lo trapassassono i suoi, e non la plebe. E così il disiderio di difendere la libertà faceva che ciascuno tanto si prevaleva ch'egli oppressava l'altro. E l'ordine di questi accidenti è che, mentre che gli uomini cercono di non temere, cominciono a fare temere altrui; e quella ingiuria che gli scacciano da loro, la pongono sopra un altro; come se fusse necessario offendere o essere offeso. Vedesi, per questo, in quale modo, fra gli altri, le republiche si risolvono, ed in che modo gli uomini salgono da un'ambizione a un'altra, e come quella sentenza sallustiana, posta in bocca di Cesare, e verissima: "quod omnia mala exempla bonis initiis orta sunt". Cercono, come di sopra è detto, quegli cittadini che ambiziosamente vivono in una republica, la prima cosa, di non potere essere offesi, non solamente dai privati, ma etiam da' magistrati: cercono, per poter fare questo, amicizie; e quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o con difenderli da' potenti: e perché questo pare virtuoso, inganna facilmente ciascuno, e per questo non vi si pone rimedi; in tanto che lui, sanza ostaculo perseverando, diventa di qualità che i privati cittadini ne hanno paura, ed i magistrati gli hanno rispetto. E quando egli è salito a questo grado, e non si sia prima ovviato alla sua grandezza, viene a essere in termine, che volerlo urtare è pericolosissimo, per le ragioni che io dissi, di sopra, del pericolo ch'è nello urtare un inconveniente che abbi di già fatto assai augumento in una città: tanto che la cosa si riduce in termine che bisogna, o cercare di spegnerlo con pericolo d'una subita rovina, o, lasciandolo fare, entrare in una servitù manifesta, se morte o qualche accidente non te ne libera. Perché, venuto a' soprascritti termini, che i cittadini e magistrati abbino paura a offendere lui e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare che giudichino ed offendino a suo modo. Donde una republica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare che i suoi cittadini, sotto ombra di bene non possino fare male; e ch'egli abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca, alla libertà, come nel suo luogo da noi sarà disputato.
Cap.
47
Gli uomini, come che s'ingannino ne'
generali, ne' particulari non s'ingannono.
Essendosi
il Popolo romano, come di sopra si disse, recato a noia il nome
consolare, e volendo che potessono essere fatti Consoli uomini
plebei, o che fusse diminuita la loro autorità; la Nobilità,
per non maculare l'autorità consolare né con l'una né con l'altra
cosa, prese una via di mezzo, e fu contenta che si creassi
quattro Tribuni con potestà consolare, i quali potessono essere
così plebei come nobili. Fu contenta a questo la plebe,
parendole spegnere il Consolato, ed avere in questo sommo grado
la parte sua. Nacquene di questo uno caso notabile: che,
venendosi alla creazione di questi Tribuni, e potendosi creare
tutti plebei, furono dal Popolo romano creati tutti nobili. Onde
Tito Livio dice queste parole: "Quorum comitiorum eventus
docuit, alios animos in contentione libertatis et honoris, alios
secundum deposita certamina in incorrupto iudicio esse". Ed
esaminando donde possa procedere questo, credo proceda che gli
uomini nelle cose generali s'ingannono assai, nelle particulari
non tanto. Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il
Consolato, per avere più parte in la città, per portare più
pericolo nelle guerre, per essere quella che con le braccia sue
manteneva Roma libera, e la faceva potente. E parendogli, come è
detto, questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere questa
autorità in ogni modo. Ma come la ebbe a fare giudicio degli
uomini suoi particularmente, conobbe la debolezza di quegli, e
giudicò che nessuno di loro meritasse quello che tutta insieme
gli pareva meritare. Talché, vergognatasi di loro, ricorse a
quegli che lo meritavano. Della quale diliberazione
maravigliandosi meritamente Tito Livio, dice queste parole:
"Hanc modestiam aequitatemque et altitudinem animi, ubi nunc
in uno inveneris, quae tunc populi universi fuit?".
In confirmazione di questo, se ne può
addurre un altro notabile esemplo, seguito in Capova da poi che
Annibale ebbe rotti i Romani a Canne. Per la quale rotta sendo
tutta sollevata Italia, Capova ancora stava per tumultuare, per l'odio
che era intra 'l popolo ed il Senato: e trovandosi in quel tempo
nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e conoscendo il pericolo
che portava quella città di tumultuare, disegnò con suo grado
riconciliare la Plebe con la Nobilità; e fatto questo pensiero,
fece ragunare il Senato, e narrò loro l'odio che il popolo aveva
contro di loro, ed i pericoli che portavano di essere ammazzati
da quello, e data la città a Annibale, sendo le cose de' Romani
afflitte: dipoi soggiunse che, se volevano lasciare governare
questa cosa a lui, farebbe in modo che si unirebbono insieme; ma
gli voleva serrare dentro al palagio, e, col fare potestà al
popolo di potergli gastigare, salvargli. Cederono a questa sua
opinione i Senatori; e quello chiamò il popolo a concione,
avendo rinchiuso in palagio il Senato; e disse com'egli era
venuto il tempo che potevano domare la superbia della Nobilità,
e vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella, avendogli
rinchiusi tutti sotto la sua custodia: ma perché credeva che
loro non volessono che la loro città rimanessi sanza governo,
era necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi, crearne de'
nuovi: e per tanto aveva messo tutti i nomi de' Senatori in una
borsa, e comincerebbe a tragli in loro presenza; e gli farebbe, i
tratti, di mano in mano morire, come prima loro avessono trovato
il successore. E cominciato a trarne uno, fu al nome di quello
levato uno romore grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele
ed arrogante: e chiedendo Pacuvio che facessono lo scambio, si
racchetò tutta la concione; e dopo alquanto spazio, fu nominato
uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi
a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in uno altro. E
così seguitando di mano in mano, tutti quegli che furono
nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. Di modo
che Pacuvio, preso sopra questo occasione, disse: Poiché voi
giudicate che questa città stia male sanza il Senato, e, a fare
gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia
bene che voi vi riconciliate insieme; perché questa paura in la
quale i Senatori sono stati, gli arà fatti in modo raumiliare
che quella umanità che voi cercavi altrove, troverrete in loro.
Ed accordatisi a questo, ne seguì la unione di questo ordine; e
quello inganno in che egli erano si scoperse, come e' furno
costretti venire a' particulari. Ingannonsi, oltra di questo, i
popoli generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti di esse;
le quali, dipoi si conoscono particularmente, mancano di tale
inganno.
Dopo il 1494, sendo stati i principi
della città cacciati da Firenze, e non vi essendo alcuno governo
ordinato, ma più tosto una certa licenza ambiziosa, ed andando
le cose publiche di male in peggio; molti popolari, veggendo la
rovina della città, e non ne intendendo altra cagione, ne
accusavano la ambizione di qualche potente che nutrisse i
disordini, per potere fare uno stato a suo proposito, e tôrre
loro la libertà; e stavano questi tali per le logge e per le
piazze, dicendo male di molti cittadini, minacciandogli che, se
mai si trovassino de' Signori, scoprirebbero questo loro inganno,
e gli gastigarebbero. Occorreva spesso che di simili ne ascendeva
al supremo magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e
che vedeva le cose più da presso, conosceva i disordini donde
nascevano, ed i pericoli che soprastavano, e la difficultà del
rimediarvi. E veduto come i tempi, e non gli uomini, causavano il
disordine, diventava subito d'un altro animo, e d'un'altra fatta;
perché la cognizione delle cose particulari gli toglieva via
quello inganno che nel considerarle generalmente si aveva
presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima, quando era
privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato
stare quieto, credevono che nascessi, non per più vera
cognizione delle cose, ma perché fusse stato aggirato e corrotto
dai grandi. Ed accadendo questo a molti uomini, e molte volte, ne
nacque tra loro uno proverbio che diceva: Costoro hanno uno animo
in piazza, ed uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto quello
si è discorso, si vede come e' si può fare tosto aprire gli
occhi a' popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl'inganna,
ch'egli abbino a discendere a' particulari; come fece Pacuvio in
Capova, ed il Senato in Roma. Credo ancora, che si possa
conchiudere, che mai un uomo prudente non debba fuggire il
giudicio populare nelle cose particulari, circa le distribuzioni
de' gradi e delle dignità: perché solo in questo il popolo non
s'inganna; e se s'inganna qualche volta, fia sì rado, che s'inganneranno
più volte i pochi uomini che avessono a fare simili
distribuzioni. Né mi pare superfluo mostrare, nel seguente
capitolo, l'ordine che teneva il Senato per ingannare il popolo
nelle distribuzioni sue.
Cap.
48
Chi
vuole che uno magistrato non sia dato a uno vile o a uno cattivo,
lo facci domandare o a uno troppo vile e troppo cattivo o a uno
troppo nobile e troppo buono.
Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare non fussero fatti d'uomini plebei, teneva uno de' due modi: o egli faceva domandare ai più riputati uomini di Roma; o veramente, per i debiti mezzi, corrompeva qualche plebeio vile ed ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di migliore qualità, per l'ordinario se lo domandavano, anche loro lo domandassono. Questo ultimo modo faceva che la plebe si vergognava a darlo; quel primo faceva che la si vergognava a torlo. Il che tutto torna a proposito del precedente discorso, dove si mostra che il popolo, se s'inganna de' generali, de' particulari non s'inganna.
Cap.
49
Se quelle cittadi che hanno avuto il
principio libero, come roma, hanno difficultà a trovare legge
che le mantenghino: quelle che lo hanno immediate servo, ne hanno
quasi una impossibilità.
Quanto sia difficile, nello ordinare una republica, provedere a tutte quelle leggi che la mantengono libera, lo dimostra assai bene il processo della Republica romana: dove, non ostante che fussono ordinate di molte leggi da Romolo prima, dipoi da Numa, da Tullo Ostilio e Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini creati a simile opera; nondimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivono nuove necessità, ed era necessario creare nuovi ordini: come intervenne quando crearono i Censori i quali furono uno di quegli provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse in libertà. Perché, diventati arbitri de' costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani differissono più a corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione di tale magistrato uno errore, creando quello per cinque anni; ma, dipoi non molto tempo, fu corretto dalla prudenza di Mamerco dittatore, il quale per nuova legge ridusse detto magistrato a diciotto mesi. Il che i Censori, che vegghiavano ebbero tanto per male, che privarono Mamerco del Senato: la quale cosa e dalla Plebe e dai Padri fu assai biasimata. E perché la istoria non mostra che Mamerco se ne potessi difendere, conviene o che lo istorico sia difettivo, o gli ordini di Roma in questa parte non buoni: perché e' non è bene che una republica sia in modo ordinata, che uno cittadino per promulgare una legge conforme al vivere libero, ne possa essere, sanza alcuno rimedio, offeso. Ma tornando al principio di questo discorso, dico che si debbe, per la creazione di questo nuovo magistrato, considerare che, se quelle città che hanno avuto il principio loro libero, e che per sé medesimo si è retto, come Roma, hanno difficultà grande a trovare leggi buone per mantenerle libere; non è maraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediate servo, abbino, non che difficultà, ma impossibilità a ordinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente e quietamente. Come si vede che è intervenuto alla città di Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto allo Imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto il governo d'altrui, stette un tempo abietta, e sanza pensare a sé medesima: dipoi, venuta la occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi, che erano cattivi, non poterono essere buoni: e così è ita maneggiandosi, per dugento anni che si ha di vera memoria, sanza avere mai avuto stato, per il quale la possa veramente essere chiamata republica. E queste difficultà, che sono state in lei, sono state sempre in tutte quelle città che hanno avuto i principii simili a lei. E, benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi, si sia data ampla autorità a pochi cittadini di potere riformarla; non pertanto non mai l'hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte loro: il che ha fatto, non ordine, ma maggiore disordine in quella città. E per venire a qualche esemplo particulare, dico come, intra le altre cose che si hanno a considerare da uno ordinatore d'una republica è esaminare nelle mani di quali uomini ei ponga l'autorità del sangue contro de' suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma, perché e' si poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se pure fosse occorso cosa importante, dove il differire la esecuzione mediante l'appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al quale rimedio non refuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e le altre città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano questa autorità collocata in uno forestiero, il quale, mandato dal principe, faceva tale ufficio. Quando dipoi vennono in libertà, mantennono questa autorità in uno forestiero, il quale chiamavono capitano: il che, per potere essere facilmente corrotto da' cittadini potenti, era cosa perniziosissima. Ma dipoi, mutandosi per la mutazione degli stati questo ordine, crearono otto cittadini che facessino l'uffizio di quel capitano. El quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le ragioni che altre volte sono dette; che i pochi furono sempre ministri de' pochi, e de' più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia; la quale ha dieci cittadini, che, sanza appello, possono punire ogni cittadino. E perché e' non basterebbono a punire i potenti, ancora che ne avessino autorità, vi hanno constituito la Quarantia: e di più, hanno voluto che il Consiglio de' Pregai, che è il Consiglio maggiore, possa gastigargli; in modo che, non vi mancando lo accusatore, non vi manca il giudice a tenere gli uomini potenti a freno. Non è adunque maraviglia, veggendo come in Roma, ordinata da sé medesima e da tanti uomini prudenti, surgevano ogni dì nuove cagioni per le quali si aveva a fare nuovi ordini in favore del viver libero; se nell'altre città, che hanno più disordinato principio, vi surgano tante difficultà, che le non si possino riordinarsi mai.
Cap.
50
Non debba uno consiglio o uno
magistrato potere fermare le azioni delle città.
Erano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato e Gneo Giulio Mento, i quali, sendo disuniti, avevono ferme tutte le azioni di quella Republica. Il che veggendo il Senato, gli confortava a creare il Dittatore, per fare quello che per le discordie loro non potevon fare. Ma i Consoli, discordando in ogni altra cosa, solo in questo erano d'accordo, di non volere creare il Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de' Tribuni; i quali, con l'autorità del Senato, sforzarono i Consoli a ubbidire. Dove si ha a notare, in prima, la utilità del Tribunato; il quale non era solo utile a frenare l'ambizione che i potenti usavano contro alla Plebe, ma quella ancora ch'egli usavano infra loro: l'altra, che mai si debbe ordinare in una città, che i pochi possino tenere alcuna diliberazione di quelle che ordinariamente sono necessarie a mantenere la republica. Verbigrazia, se tu dài una autorità a uno consiglio di fare una distribuzione di onori e d'utile, o ad uno magistrato di amministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità perché ci l'abbia a fare in ogni modo, o ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e debba fare uno altro: altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quegli Consoli non si poteva opporre l'autorità de' Tribuni. Nella Republica viniziana il Consiglio grande distribuisce gli onori e gli utili: occorreva alle volte che l'universalità, per isdegno o per qualche falsa persuasione, non creava i successori a' magistrati della città, ed a quelli che fuori amministravano lo imperio loro. Il che era disordine grandissimo: perché in un tratto, e le terre suddite e la città propria mancavano de' suoi legittimi giudici, né si poteva ottenere cosa alcuna, se quella universalità di quel Consiglio o non si soddisfaceva o non si sgannava. Ed avrebbe ridotta questo inconveniente quella città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si fusse proveduto: i quali, presa occasione conveniente, fecero una legge, che tutti i magistrati che sono o fusseno dentro e fuori della città, mai vacassero, se non quando fussono fatti gli scambi e i successori loro. E così si tolse la commodità a quel Consiglio di potere, con pericolo della republica, fermare le azioni publiche.
Cap.
51
Una
republica o uno principe debbe mostrare di fare per liberalità
quello a che la necessità lo constringe.
Gli uomini prudenti si fanno grado delle cose sempre e in ogni loro azione, ancora che la necessità gli constringesse a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal Senato romano, quando ei diliberò, che si desse il soldo del publico agli uomini che militavano, essendo consueti militare del loro proprio. Ma veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e per questo non potendo né assediare terre né condurre gli eserciti discosto; e giudicando essere necessario potere fare l'uno e l'altro, deliberò che si dessono detti stipendi: ma lo feciono in modo che si fecero grado di quello a che la necessità gli constringeva. E fu tanto accetto alla plebe questo presente, che Roma andò sottosopra per l'allegrezza, parendole uno beneficio grande, quale mai speravono di avere, e quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s'ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando come ella era cosa che aggravava, non alleggeriva, la plebe, sendo necessario porre i tributi per pagare questo soldo: nientedimeno non potevano fare tanto che la plebe non lo avesse accetto: il che fu ancora augumentato dal Senato per il modo che distribuivano i tributi, perché i più gravi e i maggiori furono quelli ch'ei posano alla Nobilità, e gli primi che furono pagati.
Cap.
52
A reprimere la insolenzia d'uno che
surga in una republica potente, non vi e più sicuro e meno
scandoloso modo, che preoccuparli quelle vie per le quali viene a
quella potenza.
Vedesi,
per il soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la
Nobilità con la plebe, per le dimostrazioni lette in beneficio
suo, sì del soldo ordinato, sì ancora del modo del porre i
tributi. Nel quale ordine se la Nobilità si fosse mantenuta, si
sarebbe levato via ogni tumulto in quella città, e sarebbesi
tolto ai Tribuni quel credito che gli avevano con la plebe, e,
per consequente, quella autorità. E veramente, non si può in
una republica, e massime in quelle che sono corrotte, con miglior
modo, meno scandoloso e più facile, opporsi all'ambizione di
alcuno cittadino, che preoccupandogli quelle vie, per le quali si
vede che esso cammina per arrivare al grado che disegna. Il quale
modo se fusse stato usato contro a Cosimo de' Medici, sarebbe
stato miglior partito assai per gli suoi avversari, che cacciarlo
da Firenze: perché, se quegli cittadini che gareggiavano seco
avessero preso lo stile suo, di favorire il popolo, gli venivano,
sanza tumulto e sanza violenza, a trarre di mano quelle armi di
che egli si valeva più. Piero Soderini si aveva fatto
riputazione nella città di Firenze con questo solo, di favorire
l'universale; il che nello universale gli dava riputazione, come
amatore della libertà della città. E veramente, a quegli
cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era molto
più facile, ed era cosa molto più onesta, meno pericolosa, e
meno dannosa per la republica, preoccupargli quelle vie con le
quali si faceva grande, che volere contrapporsegli, acciocché
con la rovina sua rovinassi tutto il restante della republica.
Perché, se gli avessero levato di mano quelle armi con le quali
si faceva gagliardo (il che potevono fare facilmente), arebbono
potuto in tutti i consigli e in tutte le diliberazioni publiche
opporsegli sanza sospetto e sanza rispetto alcuno. E se alcuno
replicasse che, se i cittadini che odiavano Piero, feciono errore
a non gli preoccupare le vie con le quali ei si guadagnava
riputazione nel popolo, Piero ancora venne a fare errore, a non
preoccupare quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo
facevono temere. Di che Piero merita scusa, si perché gli era
difficile il farlo, si perché le non erano oneste a lui;
imperocché le vie con le quali era offeso, erano il favorire i
Medici; con li quali favori essi lo battevano, ed alla fine lo
rovinarono. Non poteva, pertanto, Piero onestamente pigliare
questa parte, per non potere distruggere con buona fama quella
libertà, alla quale egli era stato preposto guardia: dipoi, non
potendo questi favori farsi segreti e a un tratto, erano per
Piero pericolosissimi; perché comunche ei si fusse scoperto
amico ai Medici, sarebbe diventato sospetto ed odioso al popolo:
donde ai nimici suoi nasceva molto più commodità di opprimerlo,
che non avevano prima.
Debbono, pertanto, gli uomini in ogni
partito considerare i difetti ed i pericoli di quello, e non gli
prendere, quando vi sia più del pericoloso che dell'utile;
nonostante che ne fussi stata data sentenzia conforme alla
diliberazione loro. Perché, faccendo altrimenti, in questo caso
interverrebbe a quelli come intervenne a Tullio; il quale,
volendo tôrre i favori a Marc'Antonio, gliene accrebbe. Perché,
sendo Marc'Antonio stato giudicato inimico del Senato, ed avendo
quello grande esercito insieme adunato, in buona parte, de'
soldati che avevano seguitato le parte di Cesare; Tullio, per
torgli questi soldati, confortò il Senato a dare riputazione ad
Ottaviano, e mandarlo con Irzio e Pansa consoli contro a Marc'Antonio:
allegando, che, subito che i soldati che seguivano Marc'Antonio,
sentissero il nome di Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva
chiamare Cesare, lascerebbono quello, e si accosterebbono a
costui; e così restato Marc'Antonio ignudo di favori, sarebbe
facile lo opprimerlo. La quale cosa riuscì tutta al contrario;
perché Marc'Antonio si guadagnò Ottaviano; e, lasciato Tullio e
il Senato, si accostò a lui. La quale cosa fu al tutto la
distruzione della parte degli ottimati. Il che era facile a
conietturare: né si doveva credere quel che si persuase Tullio,
ma tener sempre conto di quel nome che con tanta gloria aveva
spenti i nimici suoi, ed acquistatosi il principato in Roma; né
si doveva credere mai potere, o da suoi eredi o da suoi fautori,
avere cosa che fosse conforme al nome libero.
Cap.
53
Il popolo molte volte disidera la
rovina sua, ingannato da una falsa spezie di beni: e come le
grandi speranze e gagliarde promesse facilmente lo muovono.
Espugnata
che fu la città de' Veienti, entrò nel popolo romano un'opinione,
che fosse cosa utile per la città di Roma, che la metà de'
Romani andasse ad abitare a Veio; argomentando che, per essere
quella città ricca di contado, piena di edificii e propinqua a
Roma, si poteva arricchire la metà de' cittadini romani, e non
turbare per la propinquità del sito nessuna azione civile. La
quale cosa parve al Senato ed a' più savi Romani tanto inutile e
tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere più tosto per
patire la morte che consentire a una tale diliberazione. In modo
che, venendo questa cosa in disputa, si accese tanto la plebe
contro al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al sangue,
se il Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi ed
estimati cittadini, la riverenza de' quali frenò la plebe, che
la non procedé più avanti con la sua insolenzia. Qui si hanno a
notare due cose. La prima che il popolo molte volte, ingannato da
una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua; e se non gli
è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, da
alcuno in chi esso abbia fede, si porta in le republiche infiniti
pericoli e danni. E quando la sorte fa che il popolo non abbi
fede in alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato ingannato
per lo addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina,
di necessità. E Dante dice a questo proposito, nel discorso suo
che fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida Viva la sua
morte! e Muoia la sua vita! Da questa incredulità nasce che
qualche volta in le republiche i buoni partiti non si pigliono:
come di sopra si disse de' Viniziani, quando, assaltati da tanti
inimici, non poterono prendere partito di guadagnarsene alcuno
con la restituzione delle cose tolte ad altri (per le quali era
mosso loro la guerra, e fatta la congiura de' principi loro
contro), avanti che la rovina venisse.
Pertanto, considerando quello che è
facile o quello che è difficile persuadere a uno popolo, si può
fare questa distinzione: o quel che tu hai a persuadere
rappresenta in prima fronte guadagno, o perdita; o veramente ci
pare partito animoso, o vile. E quando nelle cose che si mettono
innanzi al popolo, si vede guadagno, ancora che vi sia nascosto
sotto perdita; e quando e' pare animoso, ancora che vi sia
nascosto sotto la rovina della republica, sempre sarà facile
persuaderlo alla moltitudine: e così fia sempre difficile
persuadere quegli partiti dove apparisse o viltà o perdita,
ancora che vi fusse nascosto sotto salute e guadagno. Questo che
io ho detto, si conferma con infiniti esempli, romani e
forestieri, moderni ed antichi. Perché da questo nacque la
malvagia opinione che surse, in Roma, di Fabio Massimo, il quale
non poteva persuadere al Popolo romano, che fusse utile a quella
Republica procedere lentamente in quella guerra, e sostenere
sanza azzuffarsi l'impeto d'Annibale; perché quel popolo
giudicava questo partito vile, e non vi vedeva dentro quella
utilità vi era; né Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla
loro: e tanto sono i popoli accecati in queste opinioni gagliarde,
che, benché il Popolo romano avesse fatto quello errore di dare
autorità al Maestro de' cavagli di Fabio, di potersi azzuffare,
ancora che Fabio non volesse; e che per tale autorità il campo
romano fusse per essere rotto, se Fabio con la sua prudenza non
vi rimediava, non gli bastò questa isperienza, che fece di poi
consule Varrone, non per altri suoi meriti che per avere, per
tutte le piazze e tutti i luoghi publici di Roma, promesso di
rompere Annibale, qualunque volta gliene fusse data autorità. Di
che ne nacque la zuffa e la rotta di Canne, e presso che la
rovina di Roma. Io voglio addurre, a questo proposito, ancora uno
altro esemplo romano. Era stato Annibale in Italia otto o dieci
anni, aveva ripieno di occisione de' Romani tutta questa
provincia, quando venne in Senato Marco Centenio Penula, uomo
vilissimo ( nondimanco aveva avuto qualche grado nella milizia),
ed offersesi, che, se gli davano autorità di potere fare
esercito d'uomini volontari in qualunque luogo volesse in Italia,
ei darebbe loro, in brevissimo tempo, preso o morto Annibale. Al
Senato parve la domanda di costui temeraria; nondimeno, ei,
pensando, che s' ella se gli negasse e nel popolo si fusse dipoi
saputa la sua chiesta, che non ne nascesse qualche tumulto,
invidia e mal grado contro all'ordine senatorio, gliene
concessono: volendo più tosto mettere a pericolo tutti coloro
che lo seguitassono, che fare surgere nuovi sdegni nel popolo;
sapendo quanto simile partito fusse per essere accetto, e quanto
fusse difficile il dissuaderlo. Andò, adunque, costui con una
moltitudine inordinata ed inconposta a trovare Annibale; e non
gli fu prima giunto all'incontro, che fu, con tutti quegli che lo
seguitarono, rotto e morto.
In Grecia, nella città di Atene, non
potette mai Nicia, uomo gravissimo e prudentissimo, persuadere a
quel Popolo che non fusse bene andare a assaltare Sicilia;
talché, presa quella diliberazione contro alla voglia de' savi,
ne seguì al tutto la rovina di Atene. Scipione, quando fu fatto
consolo, e che desiderava la provincia di Africa, promettendo al
tutto la rovina di Cartagine, a che non si accordando il Senato
per la sentenzia di Fabio Massimo, minacciò di proporla nel
Popolo, come quello che conosceva benissimo quanto simili
diliberazioni piaccino a' popoli.
Potrebbesi a questo proposito dare
esempli della nostra città; come fu quando messere Ercole
Bentivogli governatore delle genti fiorentine, insieme con
Antonio Giacomini, poiché ebbono rotto Bartolommeo d'Alviano a
San Vincenti andarono a campo a Pisa la quale impresa fu
diliberata dal popolo in su le promesse gagliarde di messere
Ercole, ancora che molti savi cittadini la biasimassero:
nondimeno non vi ebbono rimedio, spinti da quella universale
volontà, la quale era fondata in su le promesse gagliarde del
governatore. Dico, adunque, come e' non è la più facile via a
fare rovinare una republica dove il popolo abbia autorità, che
metterla in imprese gagliarde; perché, dove il popolo sia di
alcuno momento, sempre fiano accettate, né vi arà, chi sarà d'altra
opinione, alcuno rimedio. Ma se di questo nasce la rovina della
città, ne nasce ancora, e più spesso, la rovina particulare de'
cittadini che sono preposti a simili imprese: perché, avendosi
il popolo presupposto la vittoria, come ei viene la perdita, non
ne accusa né la fortuna né la impotenzia di chi ha governato,
ma la malvagità e ignoranza sua; e quello, il più delle volte,
o ammazza o imprigiona o confina: come intervenne a infiniti
capitani Cartaginesi ed a molti Ateniesi. Né giova loro alcuna
vittoria che per lo addietro avessero avuta, perché tutto la
presente perdita cancella: come intervenne ad Antonio Giacomini
nostro, il quale, non avendo espugnata Pisa, come il popolo si
aveva presupposto ed egli promesso, venne in tanta disgrazia
popolare, che, non ostante infinite sue buone opere passate,
visse più per umanità di coloro che ne avevano autorità, che
per alcuna altra cagione che nel popolo lo difendesse.
Cap.
54
Quanta autorità abbi uno uomo grave
a frenare una moltitudine concitata.
Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato, è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una moltitudine concitata, quanto è la riverenzia di qualche uomo grave e di autorità, che se le faccia incontro; né sanza cagione dice Virgilio:
tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem
conspexere, silent, arrectisque auribus adstant.
Per tanto, quello che è preposto a uno esercito, o quello che si trova in una città, dove nascesse tumulto debba rappresentarsi in su quello con maggiore grazia e più onorevolmente che può, mettendosi intorno le insegne di quello grado che tiene, per farsi più riverendo. Era, pochi anni sono, Firenze divisa in due fazioni, Fratesca ed Arrabbiata, che così si chiamavano; e venendo all'armi, ed essendo superati i Frateschi, intra i quali era Pagolantonio Soderini, assai in quegli tempi riputato cittadino, ed andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla; messere Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si trovava a sorte in casa; il quale, subito sentito il romore e veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e di sopra il roccetto episcopale, si fece incontro a quegli armati, e con la presenzia e con le parole gli fermò; la quale cosa fu per tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque, come e' non è il più fermo né il più necessario rimedio a frenare una moltitudine concitata, che la presenzia d'uno uomo che per presenzia paia e sia riverendo. Vedesi, adunque, per tornare al preallegato testo, con quanta ostinazione la plebe romana accettava quel partito d'andare a Veio, perché lo giudicava utile, né vi conosceva, sotto, il danno vi era; e come, nascendone assai tumulti, ne sarebbe nati scandoli, se il Senato con uomini gravi e pieni di riverenza non avesse frenato il loro furore.
Cap.
55
Quanto facilmente si conduchino le
cose in quella città dove la moltitudine non è corrotta: e che,
dove è equalità, non si può fare principato; e dove la non è,
non si può fare republica.
Ancora
che di sopra si sia discorso assai quello è da temere o sperare
delle cittadi corrotte, nondimeno non mi pare fuori di proposito
considerare una diliberazione del Senato circa il voto che
Cammillo aveva fatto di dare la decima parte a Apolline della
preda de' Veienti: la quale preda sendo venuta nelle mani della
Plebe romana, né se ne potendo altrimenti rivedere conto, fece
il Senato uno editto, che ciascuno dovessi rappresentare in
publico la decima parte di quello ch'egli aveva predato. E
benché tale diliberazione non avesse luogo, avendo dipoi il
Senato preso altro modo, e per altra via sodisfatto a Apolline,
in sodisfazione della plebe; nondimeno si vede per tale
diliberazione quanto quel Senato confidava nella bontà di quella,
e come ei giudicava che nessuno fusse per non rappresentare
appunto tutto quello che per tale editto gli era comandato. E
dall'altra parte si vede come la plebe non pensò di fraudare in
alcuna parte lo editto con il dare meno che non doveva, ma di
liberarsi di quello con il mostrarne aperte indegnazioni. Questo
esemplo, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano
quanta bontà e quanta religione fusse in quel popolo, e quanto
bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa
bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può
sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte:
come è la Italia sopra tutte l'altre, ed ancora la Francia e la
Spagna di tale corrozione ritengono parte. E se in quelle
provincie non si vede tanti disordini quanti nascono in Italia
ogni dì, diriva non tanto dalla bontà de' popoli, la quale in
buona parte è mancata, quanto dallo avere uno re che gli
mantiene uniti, non solamente per la virtù sua, ma per l'ordine
di quegli regni, che ancora non sono guasti. Vedesi bene, nella
provincia della Magna, questa bontà e questa religione ancora in
quelli popoli essere grande; la quale fa che molte republiche vi
vivono libere, ed in modo osservono le loro leggi che nessuno di
fuori né di dentro ardisce occuparle. E che e' sia vero che, in
loro, regni buona parte di quella antica bontà, io ne voglio
dare uno esemplo simile a questo, detto di sopra, del Senato e
della plebe romana. Usono quelle republiche, quando gli occorre
loro bisogno di avere a spendere alcuna quantità di danari per
conto publico, che quegli magistrati o consigli che ne hanno
autorità, ponghino a tutti gli abitanti della città uno per
cento, o due, di quello che ciascuno ha di valsente. E fatta tale
diliberazione, secondo l'ordine della terra si rappresenta
ciascuno dinanzi agli riscotitori di tale imposta; e, preso prima
il giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa
a ciò diputata quello che secondo la conscienza sua gli pare
dovere pagare: del quale pagamento non è testimone alcuno, se
non quello che paga. Donde si può conietturare quanta bontà e
quanta religione sia ancora in quegli uomini. E debbesi stimare
che ciascuno paghi la vera somma: perché, quando la non si
pagasse, non gitterebbe quella imposizione quella quantità che
loro disegnassero secondo le antiche che fossino usitate
riscuotersi, e non gittando, si conoscerebbe la fraude: e
conoscendo si arebbe preso altro modo che questo. La quale bontà
è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto ella è più
rada: anzi si vede essere rimasa solo in quella provincia.
Il che nasce da dua cose: l'una, non
avere avute conversazioni grandi con i vicini; perché né quelli
sono iti a casa loro, né essi sono iti a casa altrui, perché
sono stati contenti di quelli beni, vivere di quelli cibi,
vestire di quelle lane, che dà il paese; d'onde è stata tolta
via la cagione d'ogni conversazione, ed il principio d'ogni
corruttela; perché non hanno possuto pigliare i costumi, né
franciosi, né spagnuoli, né italiani; le quali nazioni tutte
insieme sono la corruttela del mondo. L'altra cagione è, che
quelle republiche dove si è mantenuto il vivere politico ed
incorrotto, non sopportono che alcuno loro cittadino né sia né
viva a uso di gentiluomo: anzi mantengono intra loro una pari
equalità, ed a quelli signori e gentiluomini, che sono in quella
provincia, sono inimicissimi; e se per caso alcuni pervengono
loro nelle mani, come principii di corruttele e cagione d'ogni
scandolo, gli ammazzono. E per chiarire questo nome di
gentiluomini quale e' sia, dico che gentiluomini sono chiamati
quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni
abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di
altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniziosi in
ogni republica ed in ogni provincia, ma più perniziosi sono
quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella, ed
hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due spezie di
uomini ne sono pieni il regno di Napoli, Terra di Roma, la
Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non
è mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico; perché
tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d'ogni civilità.
Ed a volere in provincie fatte in simil modo introdurre una
republica, non sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se
alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi uno regno.
La ragione è questa che, dove è tanto la materia corrotta che
le leggi non bastano a frenarla, vi bisogna ordinare insieme con
quelle maggior forza; la quale è una mano regia, che con la
potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla eccessiva
ambizione e corruttela de' potenti. Verificasi questa ragione con
lo esemplo di Toscana: dove si vede in poco spazio di terreno
state lungamente tre republiche, Firenze, Siena e Lucca; e le
altre città di quella provincia essere in modo serve, che, con
lo animo e con l'ordine, si vede o che le mantengono o che le
vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per non
essere in quella provincia alcuno signore di castella, e nessuno
o pochissimi gentiluomini; ma esservi tanta equalità, che
facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civilità
avesse cognizione, vi s'introdurrebbe uno vivere civile. Ma lo
infortunio suo è stato tanto grande, che infino a questi tempi
non si è abattuta a alcuno uomo che lo abbia possuto o saputo
fare.
Trassi adunque di questo discorso questa
conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai
gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli
spegne tutti: e che colui che, dov'è assai equalità, vuole fare
uno regno o uno principato, non lo potrà mai fare se non trae di
quella equalità molti d'animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non in nome, donando loro castella e
possessioni, e dando loro favore di sustanze e di uomini;
acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quegli mantenga la
sua potenza; ed essi, mediante quello, la loro ambizione; e gli
altri siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e
non altro mai, può fare sopportare loro. Ed essendo per questa
via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli
uomini ciascuno negli ordini loro. E perché il fare d'una
provincia atta a essere regno una republica, e d'una atta a
essere republica farne uno regno, è materia da uno uomo che per
cervello e per autorità sia raro: sono stati molti che lo hanno
voluto fare e pochi che lo abbino saputo condurre. Perché la
grandezza della cosa, parte sbigottisce gli uomini, parte in modo
gl'impedisce, che ne' principii primi mancano.
Credo che a questa mia opinione, che dove
sono gentiluomini non si possa ordinare republica, parrà
contraria la esperienza della Republica viniziana, nella quale
non possono avere alcuno grado se non coloro che sono
gentiluomini. A che si risponde, come questo esemplo non ci fa
alcuna oppugnazione, perché i gentiluomini in quella Republica
sono più in nome che in fatto; perché loro non hanno grandi
entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi fondate in
sulla mercanzia e cose mobili, e di più, nessuno di loro tiene
castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini: ma quel nome
di gentiluomo in loro è nome di degnità e di riputazione, sanza
essere fondato sopra alcuna di quelle cose che fa che nell'altre
città si chiamano i gentiluomini. E come le altre republiche
hanno tutte le loro divisioni sotto vari nomi, così Vinegia si
divide in gentiluomini e popolari: e vogliono che quegli abbino,
ovvero possino avere, tutti gli onori; quelli altri ne siano al
tutto esclusi. Il che non fa disordine in quella terra, per le
ragioni altra volta dette. Constituisca, adunque, una republica
colui dove è, o è fatta, una grande equalità; ed all'incontro
ordini un principato dove è grande inequalità: altrimenti farà
cosa sanza proporzione e poco durabile.
Cap.
56
Innanzi che seguino i grandi
accidenti in una città o in una provincia, vengono segni che gli
pronosticono, o uomini che gli predicano.
Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli, che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia, che non sia stato, o da indovini o da rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti, predetto. E per non mi discostare da casa nel provare questo, sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta del re Carlo VIII di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per tutta Toscana si disse essere sentite in aria e vedute genti d'armi, sopra Arezzo, che si azzuffavano insieme. Sa ciascuno, oltre a questo, come, avanti alla morte di Lorenzo de' Medici vecchio, fu percosso il duomo nella sua più alta parte con una saetta celeste, con rovina grandissima di quello edifizio. Sa ciascuno ancora, come, poco innanzi che Piero Soderini, quale era stato fatto gonfalonieri a vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente da uno fulgure percosso. Potrebbonsi, oltre a di questo, addurre più esempli i quali, per fuggire il tedio, lascerò. Narrerò solo quello che Tito Livio dice, innanzi alla venuta de' Franciosi a Roma: cioè, come uno Marco Cedicio plebeio riferì al Senato avere udito di mezza notte, passando per la Via nuova, una voce, maggiore che umana, la quale lo ammuniva che riferissi a' magistrati come e' Franciosi venivano a Roma. La cagione di questo credo sia da essere discorsa e interpretata da uomo che abbi notizia delle cose naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno di intelligenze, le quali per naturali virtù preveggendo le cose future, ed avendo compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle difese, gli avvertiscono con simili segni. Pure, comunque e' si sia, si vede così essere la verità; e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose istraordinarie e nuove alle provincie.
Cap.
57
La plebe insieme è gagliarda, di per
sé è debole.
Erano molti Romani, sendo seguita per la passata dei Franciosi la rovina della loro patria, andati ad abitare a Veio, contro la constituzione ed ordine del Senato: il quale, per rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti publici che ciascuno, infra certo tempo, e sotto certe pene, tornasse a abitare a Roma. De' quali editti, da prima per coloro contro a chi e' venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole "Ex ferocibus universis singuli metu suo obedientes fuere". E veramente, non si può mostrare meglio la natura d'una moltitudine in questa parte, che si dimostri in questo testo. Perché la moltitudine è audace nel parlare, molte volte contro alle diliberazioni del loro principe; dipoi, come ei veggono la pena in viso, non si fidando l'uno dell'altro, corrono ad ubbidire. Talché si vede certo che, di quel che si dica uno popolo circa la buona o mala disposizione sua, si debba tenere non gran conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo mantenere, s'egli è bene disposto; s'egli è male disposto, da potere provedere che non ti offenda. Questo s'intende per quelle male disposizioni che hanno i popoli, nate da qualunque altra cagione che o per avere perduto la libertà o il loro principe stato amato da loro e che ancora sia vivo: imperocché le male disposizioni che nascono da queste cagioni sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno bisogno di grandi rimedi a frenarle: l'altre sue indisposizioni fiano facili, quando e' non abbia capi a chi rifuggire. Perché non ci è cosa, dall'un canto, più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo; e, dall'altra parte, non è cosa più debole: perché, quantunque ella abbia l'armi in mano, fia facile ridurla, purché tu abbi ridotto da poter fuggire il primo empito; perché quando gli animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi, e pensare alla salute loro o col fuggirsi o con l'accordarsi. Però una moltitudine così concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra sé medesima uno capo che la corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fece la plebe romana, quando, dopo la morte di Virginia, si partì da Roma, e per salvarsi feciono infra loro venti Tribuni: e non faccendo questo, interviene loro sempre quel che dice Tito Livio nelle soprascritte parole che tutti insieme sono gagliardi, e, quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole.
Cap.
58
La moltitudine è più savia e più
costante che uno principe.
Nessuna
cosa essere più vana e più incostante che la moltitudine, così
Tito Livio nostro, come tutti gli altri istorici, affermano.
Perché spesso occorre, nel narrare le azioni degli uomini,
vedere la moltitudine avere condannato alcuno a morte, e quel
medesimo dipoi pianto e sommamente desiderato: come si vede aver
fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il quale avendo
condannato a morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le
parole dello autore sono queste: "Populum brevi, posteaquam
ab eo periculum nullum erat, desiderium eius tenuit". Ed
altrove, quando mostra gli accidenti che nacquono in Siracusa
dopo la morte di Girolamo nipote di Ierone, dice: "Haec
natura multitudinis est: aut humiliter servit, aut superbe
dominatur". Io non so se io mi prenderò una provincia dura
e piena di tanta difficultà, che mi convenga o abbandonarla con
vergogna, o seguirla con carico; volendo difendere una cosa, la
quale, come ho detto, da tutti gli scrittori è accusata. Ma,
comunque si sia, io non giudico né giudicherò mai essere
difetto difendere alcuna opinione con le ragioni, sanza volervi
usare o l'autorità o la forza. Dico, adunque, come di quello
difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine, se ne
possono accusare tutti gli uomini particularmente, e massime i
principi; perché ciascuno, che non sia regolato dalle leggi,
farebbe quelli medesimi errori che la moltitudine sciolta. E
questo si può conoscere facilmente, perché ei sono e sono stati
assai principi, e de' buoni e de' savi ne sono stati pochi: io
dico de' principi che hanno potuto rompere quel freno che gli
può correggere; intra i quali non sono quegli re che nascevano
in Egitto, quando, in quella antichissima antichità, si
governava quella provincia con le leggi; né quegli che nascevano
in Sparta; né quegli che a' nostri tempi nascano in Francia; il
quale regno è moderato più dalle leggi che alcuno altro regno
di che ne' nostri tempi si abbia notizia. E questi re che nascono
sotto tali constituzioni non sono da mettere in quel numero,
donde si abbia a considerare la natura di ciascuno uomo per sé,
e vedere s'egli è simile alla moltitudine; perché a rincontro
si debbe porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi
come sono loro; e si troverrà in lei essere quella medesima
bontà che noi vediamo essere in quelli, e vedrassi quella né
superbamente dominare né umilmente servire: come era il popolo
romano, il quale, mentre durò la Republica incorrotta, non
servì mai umilmente né mai dominò superbamente; anzi con li
suoi ordini e magistrati tenne il suo grado onorevolmente. E
quando era necessario commuoversi contro a un potente, lo faceva;
come si vide in Manlio, ne' Dieci ed in altri che cercorono
opprimerla: e quando era necessario ubbidire a' Dittatori ed a'
Consoli per la salute publica, lo faceva. E se il popolo romano
desiderava Manlio Capitolino morto, non è maraviglia, perché ei
desiderava le sue virtù, le quali erano state tali, che la
memoria di esse recava compassione a ciascuno, ed arebbono avuto
forza di fare quel medesimo effetto in un principe, perché la è
sentenzia di tutti gli scrittori, come la virtù si lauda e si
ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, intra tanto
desiderio, fusse risuscitato, il popolo di Roma arebbe dato di
lui il medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di
prigione, che poco di poi lo condannò a morte; nonostante che si
vegga de' principi, tenuti savi, i quali hanno fatto morire
qualche persona, e poi sommamente desideratola: come Alessandro,
Clito ed altri suoi amici; ed Erode, Marianne. Ma quello che lo
istorico nostro dice della natura della moltitudine, non dice di
quella che è regolata dalle leggi, come era la romana; ma della
sciolta, come era la siragusana: la quale fece quegli errori che
fanno gli uomini infuriati e sciolti, come fece Alessandro Magno,
ed Erode, ne' casi detti. Però non è più da incolpare la
natura della moltitudine che de' principi, perché tutti
equalmente errano, quando tutti sanza rispetto possono errare. Di
che, oltre a quel che ho detto, ci sono assai esempli, ed intra
gl'imperadori romani, ed intra gli altri tiranni e principi; dove
si vede tanta incostanzia e tanta variazione di vita, quanta mai
non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo adunque, contro alla commune
opinione; la quale dice come i popoli, quando sono principi, sono
varii, mutabili ed ingrati; affermando che in loro non sono
altrimenti questi peccati che siano ne' principi particulari. Ed
accusando alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il
vero; ma traendone i principi, s'inganna: perché un popolo che
comandi e sia bene ordinato, sarà stabile, prudente e grato non
altrimenti che un principe, o meglio che un principe, eziandio
stimato savio: e dall'altra parte, un principe, sciolto dalle
leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente più che un popolo. E
che la variazione del procedere loro nasce non dalla natura
diversa, perché in tutti è a un modo, e, se vi è vantaggio di
bene, è nel popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle
leggi, dentro alle quali l'uno e l'altro vive. E chi considererà
il popolo romano, lo vedrà essere stato per quattrocento anni
inimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene
commune della sua patria; vedrà tanti esempli usati da lui, che
testimoniano l'una cosa e l'altra. E se alcuno mi allegasse la
ingratitudine ch'egli usò contra a Scipione, rispondo quello che
di sopra lungamente si discorse in questa materia, dove si
mostrò i popoli essere meno ingrati de' principi. Ma quanto alla
prudenzia ed alla stabilità, dico, come un popolo è più
prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe. E
non sanza cagione si assomiglia la voce d'un popolo a quella di
Dio: perché si vede una opinione universale fare effetti
maravigliosi ne' pronostichi suoi; talché pare che per occulta
virtù ei prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al
giudicare le cose, si vede radissime volte, quando egli ode duo
concionanti che tendino in diverse parti, quando ei sono di
equale virtù, che non pigli la opinione migliore, e che non sia
capace di quella verità che egli ode. E se nelle cose gagliarde,
o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra; molte volte
erra ancora un principe nelle sue proprie passioni, le quali sono
molte più che quelle de' popoli. Vedesi ancora, nelle sue
elezioni ai magistrati, fare, di lunga, migliore elezione che un
principe, né mai si persuaderà a un popolo, che sia bene tirare
alle degnità uno uomo infame e di corrotti costumi: il che
facilmente e per mille vie si persuade a un principe. Vedesi uno
popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli
stare in quella opinione: il che non si vede in un principe. E
dell'una e dell'altra di queste due cose voglio mi basti per
testimone il popolo romano: il quale in tante centinaia d'anni,
in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece quattro
elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho
detto, tanto in odio il nome regio, che nessuno obligo di alcuno
suo cittadino, che tentasse quel nome, poté fargli fuggire le
debite pene. Vedesi, oltra di questo, le città, dove i popoli
sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e
molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto uno
principe: come fece Roma dopo la cacciata de' re, ed Atene da poi
che la si liberò da Pisistrato. Il che non può nascere da altro,
se non che sono migliori governi quegli de' popoli che quegli de'
principi. Né voglio che si opponga a questa mia opinione tutto
quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo, ed
in qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti i
disordini de' popoli, tutti i disordini de' principi, tutte le
glorie de' popoli e tutte quelle de' principi, si vedrà il
popolo di bontà e di gloria essere, di lunga, superiore. E se i
principi sono superiori a' popoli nello ordinare leggi, formare
vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono
tanto superiori nel mantenere le cose ordinate, ch'egli
aggiungono sanza dubbio alla gloria di coloro che l'ordinano.
Ed insomma, per conchiudere questa
materia, dico come hanno durato assai gli stati de' principi,
hanno durato assai gli stati delle republiche, e l'uno e l'altro
ha avuto bisogno d'essere regolato dalle leggi: perché un
principe che può fare ciò ch'ei vuole, è pazzo; un popolo che
può fare cio che vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà
d'un principe obligato alle leggi, e d'un popolo incatenato da
quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si
ragionerà dell'uno e dell'altro sciolto, si vedrà meno errori
nel popolo che nel principe e quelli minori, ed aranno maggiori
rimedi. Però che a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può
da un uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto
nella via buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa
parlare né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può fare
coniettura della importanza della malattia dell'uno e dell'altro:
ché se a curare la malattia del popolo bastan le parole, ed a
quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che
non giudichi, che, dove bisogna maggior cura, siano maggiori
errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie
che quello fa, né si ha paura del male presente, ma di quel che
ne può nascere, potendo nascere, infra tanta confusione, uno
tiranno. Ma ne' principi cattivi interviene il contrario: che si
teme il male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi gli
uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una libertà.
Sì che vedete la differenza dell'uno e dell'altro, la quale è
quanto, dalle cose che sono, a quelle che hanno a essere. Le
crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che
occupi il bene commune: quelle d'un principe sono contro a chi ei
temano che occupi il bene proprio. Ma la opinione contro ai
popoli nasce perché de' popoli ciascuno dice male sanza paura e
liberamente, ancora mentre che regnano: de' principi si parla
sempre con mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di
proposito, poiché questa materia mi vi tira, disputare, nel
seguente capitolo, di quali confederazioni altri si possa più
fidare; o di quelle fatte con una republica, o di quelle fatte
con uno principe.
Cap.
59
Di quale confederazione o lega altri
si può più fidare; o di quella fatta con una republica, o di
quella fatta con uno principe.
Perché, ciascuno dì, occorre che l'uno principe con l'altro, o l'una republica con l'altra, fanno lega ed amicizia insieme: ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo intra una republica ed uno principe: mi pare da esaminare qual fede è più stabile, e di quale si debba tenere più conto, o di quella d'una republica, o di quella d'uno principe. Io, esaminando tutto, credo che in molti casi ei sieno simili ed in alcuni vi sia qualche disformità. Credo, per tanto, che gli accordi fatti per forza non ti saranno né da uno principe né da una republica osservati; credo che, quando la paura dello stato venga, l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà ingratitudine. Demetrio, quel che fu chiamato espugnatore delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti beneficii: occorse dipoi, che, sendo rotto da' suoi inimici, e rifuggendosi in Atene come in città amica ed a lui obligata, non fu ricevuto da quella: il che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita delle genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo adietro da lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali cose si vede che ebbero le medesime cagioni: nondimeno fu più umanità usata e meno ingiuria dalla republica, che dal principe. Dove è, pertanto, la paura, si troverrà in fatto la medesima fede. E se si troverrà o una republica o uno principe, che, per osservarti la fede, aspetti di rovinare, può nascere questo ancora da simili cagioni. E quanto al principe, può molto bene occorrere che egli sia amico d'uno principe potente, che, se bene non ha occasione allora di difenderlo, ei può sperare che col tempo ei lo ristituisca nel principato suo; o veramente che, avendolo seguito come partigiano, ei non creda trovare né fede né accordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quegli principi del reame di Napoli, che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle republiche, fu di questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina per seguire le parti romane; e di questa Firenze, per seguire nel 1512 le parti franciose. E credo, computato ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si troverrà qualche stabilità più nelle republiche, che ne' principi. Perché, sebbene le republiche avessero quel medesimo animo e quella medesima voglia che uno principe, lo avere il moto loro tardo, farà che le perranno sempre più a risolversi che il principe, e per questo perranno più a rompere la fede di lui. Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le republiche sono, di lunga, più osservanti degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre esempli, dove uno minimo utile ha fatto rompere la fede a uno principe, e dove una grande utilità non ha fatto rompere la fede a una republica: come fu quello partito che propose Temistocle agli Ateniesi, a' quali nella concione disse che aveva uno consiglio da fare alla loro patria grande utilità, ma non lo poteva dire per non lo scoprire, perché, scoprendolo, si toglieva la occasione del farlo. Onde il popolo di Atene elesse Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse a lui se ne diliberasse: al quale Temistocle mostrò come l'armata di tutta Grecia, ancora che la stesse sotto la fede loro, era in lato che facilmente si poteva guadagnare o distruggere; il che faceva gli Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia. Donde Aristide riferì al popolo, il partito di Temistocle essere utilissimo ma disonestissimo: per la quale cosa il popolo al tutto lo ricusò. Il che non arebbe fatto Filippo Macedone, e gli altri principi che più utile hanno cerco e guadagnato con il rompere la fede, che con alcuno altro modo. Quanto a rompere i patti per qualche cagione di inosservanzia, di questo io non parlo, come di cosa ordinaria; ma parlo di quelli che si rompono per cagioni istraordinarie: dove io credo, per le cose dette, che il popolo facci minori errori che il principe, e per questo si possa fidar più di lui che del principe.
Cap.
60
Come il consolato e qualunque altro
magistrato in Roma si dava sanza rispetto di età.
Ei si vede per l'ordine della istoria, come la Republica romana, poiché il Consolato venne nella Plebe, concesse quello ai suoi cittadini sanza rispetto di età o di sangue; ancora che il rispetto della età mai non fusse in Roma, ma sempre si andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che la fusse. Il che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo in ventitré anni: e Valerio detto, parlando ai suoi soldati, disse come il Consolato era "praemium virtutis, non sanguinis". La quale cosa se fu bene considerata o no, sarebbe da disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso questo per necessità; e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in ogni città che volesse fare gli effetti che fece Roma, come altra volta si è detto: perché e' non si può dare agli uomini disagio sanza premio, né si può tôrre loro la speranza di conseguire il premio sanza pericolo. E però a buona ora convenne che la Plebe avessi speranza di avere il Consolato: e di questa speranza si nutrì un pezzo sanza averlo; dipoi non bastò la speranza, che e' convenne che si venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe a alcuna cosa gloriosa, la può trattare a suo modo come altrove si disputò: ma quella che vuol fare quel che fe' Roma, non ha a fare questa distinzione. E dato che così sia, quella del tempo non ha replica anzi è necessaria: perché nello eleggere uno giovane in un grado che abbi bisogno d'una prudenza di vecchio, conviene, avendovelo a eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire qualche sua notabilissima azione. E quando uno giovane è di tanta virtù, che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere; sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere allora, e che l'avesse a aspettare che fosse invecchiato con lui quel vigore dell'animo e quella prontezza, della quale in quella età la patria sua si poteva valere: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione e di Pompeio, e di molti altri, che trionfarono giovanissimi.
Libro II
Laudano
sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli antichi
tempi, e gli presenti accusano: ed in modo sono delle cose
passate partigiani, che non solamente celebrano quelle etadi che
da loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli
scrittori, conosciute; ma quelle ancora che, sendo già vecchi,
si ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa
loro opinione sia falsa, come il più delle volte è, mi persuado
varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducono. E la
prima credo sia, che delle cose antiche non s'intenda al tutto la
verità; e che di quelle il più delle volte si nasconda quelle
cose che recherebbono a quelli tempi infamia; e quelle altre che
possano partorire loro gloria, si rendino magnifiche ed
amplissime. Perché il più degli scrittori in modo alla fortuna
de' vincitori ubbidiscano, che, per fare le loro vittorie
gloriose, non solamente accrescano quello che da loro è
virtuosamente operato, ma ancora le azioni de' nimici in modo
illustrano, che, qualunque nasce dipoi in qualunque delle due
provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di
maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi, ed è forzato
sommamente laudarli ed amarli. Oltra di questo, odiando gli
uomini le cose o per timore o per invidia, vengono ad essere
spente due potentissime cagioni dell'odio nelle cose passate, non
ti potendo quelle offendere, e non ti dando cagione d'invidiarle.
Ma al contrario interviene di quelle cose che si maneggiano e
veggono; le quali, per la intera cognizione di esse, non ti
essendo in alcuna parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme
con il bene molte altre cose che ti dispiacciono, sei forzato
giudicarle alle antiche molto inferiori, ancora che, in verità,
le presenti molto più di quelle di gloria e di fama meritassoro:
ragionando, non delle cose pertinenti alle arti, le quali hanno
tanta chiarezza in sé, che i tempi possono tôrre o dare loro
poco più gloria che per loro medesime si meritino; ma parlando
di quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini, delle
quali non se ne veggono sì chiari testimoni.
Replico, pertanto, essere vera quella
consuetudine del laudare e biasimare soprascritta: ma non essere
già sempre vero che si erri nel farlo. Perché qualche volta è
necessario che giudichino la verità; perché, essendo le cose
umane sempre in moto, o le salgano, o le scendano. E vedesi una
città o una provincia essere ordinata al vivere politico da
qualche uomo eccellente, ed, un tempo, per la virtù di quello
ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio. Chi nasce
allora in tale stato, ed ei laudi più gli antichi tempi che i
moderni, s'inganna; ed è causato il suo inganno da quelle cose
che di sopra si sono dette. Ma coloro che nascano dipoi, in
quella città o provincia, che gli è venuto il tempo che la
scende verso la parte più ria, allora non s'ingannano. E
pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre
essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato
tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e
questo buono, di provincia in provincia: come si vede per quello
si ha notizia di quegli regni antichi, che variavano dall'uno all'altro
per la variazione de' costumi; ma il mondo restava quel medesimo.
Solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima
allogata la sua virtù in Assiria, la collocò in Media, dipoi in
Persia, tanto che la ne venne in Italia ed a Roma; e se dopo lo
Imperio romano non è seguito Imperio che sia durato, né dove il
mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme, si vede nondimeno
essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente;
come era il regno de' Franchi, il regno de' Turchi, quel del
Soldano; ed oggi i popoli della Magna; e prima quella setta
Saracina che fece tante gran cose, ed occupò tanto mondo,
poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste
provincie, adunque, poiché i Romani rovinorno, ed in tutte
queste sètte è stata quella virtù, ed è ancora in alcuna
parte di esse, che si disidera, e che con vera laude si lauda. E
chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati più che i presenti,
si potrebbe ingannare; ma chi nasce in Italia ed in Grecia, e non
sia diventato o in Italia oltramontano o in Grecia turco, ha
ragione di biasimare i tempi suoi, e laudare gli altri: perché
in quelli vi sono assai cose che gli fanno maravigliosi; in
questi non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema
miseria, infamia e vituperio: dove non è osservanza di religione,
non di leggi, non di milizia; ma sono maculati d'ogni ragione
bruttura. E tanto sono questi vizi più detestabili, quanto ei
sono più in coloro che seggono pro tribunali, comandano a
ciascuno, e vogliono essere adorati.
Ma tornando al ragionamento nostro, dico
che se il giudicio degli uomini è corrotto in giudicare quale
sia migliore, o il secolo presente o l'antico, in quelle cose
dove per l'antichità e' non ne ha possuto avere perfetta
cognizione come egli ha de' suoi tempi; non doverebbe corrompersi
ne' vecchi nel giudicare i tempi della gioventù e vecchiezza
loro avendo quelli e questi equalmente conosciuti e visti. La
quale cosa sarebbe vera, se gli uomini per tutti i tempi della
lor vita fossero di quel medesimo giudizio, ed avessono quegli
medesimi appetiti: ma variando quegli ancora che i tempi non
variino, non possono parere agli uomini quelli medesimi, avendo
altri appetiti, altri diletti, altre considerazioni nella
vecchiezza, che nella gioventù. Perché, mancando gli uomini,
quando gl'invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio e di
prudenza, è necessario che quelle cose che in gioventù parevano
loro sopportabili e buone, rieschino poi, invecchiando,
insopportabili e cattive; e dove quegli ne doverrebbono accusare
il giudizio loro, ne accusano i tempi. Sendo, oltra di questo,
gli appetiti umani insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di
potere e volere desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere
conseguitarne poche; ne risulta continuamente una mala
contentezza nelle menti umane, ed uno fastidio delle cose che si
posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i
passati, e desiderare i futuri; ancora che a fare questo non
fussono mossi da alcuna ragionevole cagione. Non so, adunque, se
io meriterò d'essere numerato tra quelli che si ingannano, se in
questi mia discorsi io lauderò troppo i tempi degli antichi
Romani, e biasimerò i nostri. E veramente, se la virtù che
allora regnava, ed il vizio che ora regna, non fussino più
chiari che il sole andrei col parlare più rattenuto, dubitando
non incorrere in questo inganno di che io accuso alcuni. Ma
essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso
in dire manifestamente quello che io intenderò di quelli e di
questi tempi; acciocché gli animi de' giovani che questi mia
scritti leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad
imitar quegli, qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione.
Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la
malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare,
insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di
quelli, più amato dal Cielo, possa operarlo. Ed avendo ne'
discorsi del superior libro, parlato delle diliberazioni fatte da'
Romani, pertinenti al di dentro della città, in questo parleremo
di quelle, che 'l Popolo romano fece pertinenti allo augumento
dello imperio suo.
Cap. 1
Quale
fu più cagione dello imperio che acquistarono i Romani, o la
virtù, o la fortuna.
Molti
hanno avuta opinione, ed in tra' quali Plutarco, gravissimo
scrittore, che 'l popolo romano nello acquistare lo imperio fosse
più favorito dalla fortuna che dalla virtù. Ed intra le altre
ragioni che ne adduce, dice che per confessione di quel popolo si
dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le sue
vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna che ad
alcuno altro iddio. E pare che a questa opinione si accosti Livio;
perché rade volte è che facci parlare ad alcuno Romano, dove ei
racconti della virtù, che non vi aggiunga la fortuna. La qual
cosa io non voglio confessare in alcuno modo, né credo ancora si
possa sostenere. Perché, se non si è trovata mai republica che
abbi fatti i profitti che Roma, è nato che non si è trovata mai
republica che sia stata ordinata a potere acquistare come Roma.
Perché la virtù degli eserciti gli fecero acquistare lo imperio;
e l'ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovato dal
suo primo latore delle leggi gli fece mantenere lo acquistato:
come di sotto largamente in più discorsi si narrerà. Dicono
costoro, che non avere mai accozzate due potentissime guerre in
uno medesimo tempo, fu fortuna e non virtù del Popolo romano;
perché e' non ebbero guerra con i Latini, se non quando egli
ebbero, non tanto battuti i Sanniti, quanto che la guerra fu
fatta da' Romani in defensione di quelli; non combatterono con i
Toscani, se prima non ebbero soggiogati i Latini, ed enervati con
le spesse rotte quasi in tutto i Sanniti: che se due di queste
potenze intere si fossero, quando erano fresche, accozzate
insieme, senza dubbio si può facilmente conietturare che ne
sarebbe seguito la rovina della romana Republica. Ma, comunque
questa cosa nascesse, mai non intervenne che eglino avessero due
potentissime guerre in uno medesimo tempo: anzi parve sempre che,
o, nel nascere dell'una, l'altra si spegnesse, o nello spegnersi
dell'una, l'altra nascesse. Il che si può facilmente vedere per
l'ordine delle guerre fatte da loro: perché, lasciando stare
quelle che fecero prima che Roma fosse presa dai Franciosi, si
vede che, mentre che combatterno con gli Equi e con i Volsci, mai,
mentre che questi popoli furono potenti, non scesero contro di
loro altre genti. Domi costoro, nacque la guerra contro a'
Sanniti; e benché, innanzi che finisse tale guerra, i popoli
latini si ribellassero da' Romani; nondimeno, quando tale
ribellione seguì, i Sanniti erano in lega con Roma, e con i loro
eserciti aiutarono i Romani domare la insolenzia latina. I quali
domi, risurse la guerra di Sannio. Battute per molte rotte date a'
Sanniti le loro forze, nacque la guerra de' Toscani; la quale
composta, si rilevarono di nuovo i Sanniti per la passata di
Pirro in Italia. Il quale come fu ributtato, e rimandato in
Grecia, appiccarono la prima guerra con i Cartaginesi: né prima
fu tale guerra finita, che tutti i Franciosi, e di là e di qua
dall'Alpi, congiurarono contro ai Romani; tanto che intra
Populonia e Pisa, dove è oggi la torre a San Vincenti, furono
con massima strage superati. Finita questa guerra, per spazio di
venti anni ebbero guerre di non molta importanza; perché non
combatterono con altri che con Liguri, e con quel rimanente de'
Franciosi che era in Lombardia. E così stettero tanto che nacque
la seconda guerra cartaginese, la quale per sedici anni tenne
occupata Italia. Finita questa con massima gloria, nacque la
guerra macedonica; la quale finita, venne quella d'Antioco e d'Asia.
Dopo la quale vittoria, non restò in tutto il mondo né principe
né republica che, di per sé, o tutti insieme, che si potessero
opporre alle forze romane.
Ma innanzi a quella ultima vittoria chi
considererà bene l'ordine di queste guerre, ed il modo del
procedere loro, vi vedrà dentro mescolate con la fortuna una
virtù e prudenza grandissima. Talché, chi esaminassi la cagione
di tale fortuna, la ritroverebbe facilmente: perché gli è cosa
certissima, che come uno principe e uno popolo viene in tanta
riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per
sé paura ad assaltarlo e ne tema, sempre interverrà che
ciascuno d'essi mai lo assalterà, se non necessitato; in modo
che e' sarà quasi come nella elezione di quel potente, fare
guerra con quale di quei sua vicini gli parrà, e gli altri con
la sua industria quietare. E' quali, parte rispetto alla potenza
sua, parte ingannati da que' modi ch'egli terrà per
adormentargli, si quietano facilmente; quegli altri potenti, che
sono discosto e che non hanno commerzio seco, curano la cosa come
cosa longinqua, e che non appartenga a loro. Nel quale errore
stanno tanto che questo incendio venga loro presso: il quale
venuto, non hanno rimedio a spegnerlo se non con le forze proprie
le quali dipoi non bastono, sendo colui diventato potentissimo.
Io voglio lasciare andare come i Sanniti stettero a vedere
vincere dal Popolo romano i Volsci e gli Equi; e per non essere
troppo prolisso, mi farò da' Cartaginesi: i quali erano di gran
potenza e di grande estimazione, quando i Romani combattevano co'
Sanniti e con i Toscani; perché di già tenevano tutta l'Africa,
tenevano la Sardigna e la Sicilia, avevano dominio in parte della
Spagna. La quale potenza loro, insieme con lo essere discosto ne'
confini dal popolo romano, fece che non pensarono mai di
assaltare quello, né di soccorrere i Sanniti ed i Toscani: anzi
fecero come si fa nelle cose che crescano più tosto in loro
favore, collegandosi con quegli e cercando l'amicizia loro. Né
si avviddono prima dello errore fatto, che i Romani, domi tutti i
popoli mezzi in fra loro ed i Cartaginesi, cominciarono a
combattere insieme dello imperio di Sicilia e di Spagna.
Intervenne questo medesimo a' Franciosi che a' Cartaginesi, e
così a Filippo re de' Macedoni, e a Antioco; e ciascuno di loro
credea, mentre che il Popolo romano era occupato con l'altro, che
quello altro lo superasse, ed essere a tempo, o con pace o con
guerra, difendersi da lui. In modo che io credo che la fortuna
che ebbero in questa parte i Romani, l'arebbono tutti quegli
principi che procedessono come i Romani, e fossero della medesima
virtù che loro.
Sarebbeci da mostrare a questo proposito
il modo tenuto dal Popolo romano nello entrare nelle provincie d'altrui,
se nel nostro trattato de' Principati non ne avessimo parlato a
lungo: perché, in quello, questa materia è diffusamente
disputata. Dirò solo questo lievemente, come sempre s'ingegnarono
avere nelle provincie nuove qualche amico che fussi scala o porta
a salirvi o entrarvi, o mezzo a tenerla: come si vede che per il
mezzo de' Capuani entrarono in Sannio, de' Camertini in Toscana,
de' Mamertini in Sicilia, de' Saguntini in Spagna, di Massinissa
in Africa, degli Etoli in Grecia, di Eumene ed altri principi in
Asia, de' Massiliensi e delli Edui in Francia. E così non
mancorono mai di simili appoggi, per potere facilitare le imprese
loro, e nello acquistare le provincie e nel tenerle. Il che
quegli popoli che osserveranno, vedranno avere meno bisogno della
fortuna, che quelli che ne saranno non buoni osservatori. E
perché ciascuno possa meglio conoscere, quanto possa più la
virtù che la fortuna loro ad acquistare quello imperio, noi
discorrereno, nel seguente capitolo, di che qualità furono
quelli popoli con e' quali egli ebbero a combattere, e quanto
erano ostinati a difendere la loro libertà.
Cap. 2
Con quali popoli i Romani ebbero a
combattere, e come ostinatamente quegli difendevono la loro
libertà.
Nessuna
cosa fe' più faticoso a' Romani superare i popoli d'intorno e
parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in quelli
tempi molti popoli avevano alla libertà, la quale tanto
ostinatamente difendevano, che mai se non da una eccessiva virtù
sarebbono stati soggiogati. Perché, per molti esempli si conosce
a quali pericoli si mettessono per mantenere o ricuperare quella;
quali vendette ei facessono contro a coloro che l'avessero loro
occupata. Conoscesi ancora nella lezione delle istorie, quali
danni i popoli e le città ricevino per la servitù. E dove in
questi tempi ci è solo una provincia, la quale si possa dire che
abbi in sé città libere, ne' tempi antichi in tutte le
provincie erano assai popoli liberissimi. Vedesi come in quelli
tempi de' quali noi parliamo al presente, in Italia, dall'Alpi
che dividono ora la Toscana da Lombardia, infino alla punta d'Italia,
erano tutti popoli liberi; come erano i Toscani, i Romani, i
Sanniti, e molti altri popoli che in quel resto d'Italia
abitavano. Né si ragiona mai che vi fusse alcuno re, fuora di
quegli che regnorono in Roma, e Porsenna re di Toscana; la stirpe
del quale come si estinguesse, non ne parla la istoria. Ma si
vede bene, come in quegli tempi che i Romani andarono a campo a
Veio, la Toscana era libera: e tanto si godeva della sua libertà,
e tanto odiava il nome del principe, che, avendo fatto i Veienti
per loro difensione uno re in Veio, e domandando aiuto a' Toscani
contro a' Romani, quegli, dopo molte consulte fatte, deliberarono
di non dare aiuto a' Veienti, infino a tanto che vivessono sotto
il re; giudicando non essere bene difendere la patria di coloro
che l'avevano di già sottomessa a altrui. E facil cosa è
conoscere donde nasca ne' popoli questa affezione del vivere
libero; perché si vede per esperienza, le cittadi non avere mai
ampliato nè di dominio né di ricchezza, se non mentre sono
state in libertà. E veramente maravigliosa cosa è a considerare,
a quanta grandezza venne Atene per spazio di cento anni, poiché
la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto
maravigliosissima è a considerare a quanta grandezza venne Roma,
poiché la si liberò da' suoi Re. La ragione è facile a
intendere; perché non il bene particulare, ma il bene comune è
quello che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene
comune non è osservato se non nelle republiche; perché tutto
quello che fa a proposito suo, si esequisce; e quantunque e'
torni in danno di questo o di quello privato, e' sono tanti
quegli per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi
contro alla disposizione di quegli pochi che ne fussono oppressi.
Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove il più
delle volte quello che fa per lui, offende la città; e quello
che fa per la città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce
una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne
resulti a quelle città è non andare più innanzi, né crescere
più in potenza o in ricchezze; ma il più delle volte, anzi
sempre, interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte
facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso il quale per animo e
per virtù d'arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe
alcuna utilità a quella republica, ma a lui proprio: perché e'
non può onorare nessuno di quegli cittadini che siano valenti e
buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere ad avere sospetto
di loro. Non può ancora le città che esso acquista,
sottometterle o farle tributarie a quella città di che egli è
tiranno: perché il farla potente non fa per lui; ma per lui fa
tenere lo stato disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna
provincia riconosca lui. Talché, de' suoi acquisti, solo egli ne
profitta, e non la sua patria. E chi volessi confermare questa
opinione con infinite altre ragioni, legga Senofonte nel suo
trattato che fa De tyrannide. Non è maraviglia, adunque,
che gli antichi popoli con tanto odio perseguitassono i tiranni
ed amassino il vivere libero, e che il nome della libertà fusse
tanto stimato da loro: come intervenne quando Girolamo, nipote di
Ierone siracusano, fu morto in Siracusa, che, venendo le novelle
della sua morte in nel suo esercito, che non era molto lontano da
Siracusa, cominciò prima a tumultuare, e pigliare l'armi contro
agli ucciditori di quello; ma come ei sentì che in Siracusa si
gridava libertà, allettato da quel nome, si quietò tutto, pose
giù l'ira, contro a' tirannicidi, e pensò come in quella città
si potessi ordinare uno vivere libero. Non è maraviglia ancora,
che e' popoli faccino vendette istraordinarie contro a quegli che
gli hanno occupata la libertà. Di che ci sono stati assai
esempli, de' quali ne intendo referire solo uno, seguito in
Corcira, città di Grecia, ne' tempi della guerra peloponnesiaca;
dove, sendo divisa quella provincia in due parti, delle quali l'una
seguitava gli Ateniesi l'altra gli Spartani, ne nasceva che di
molte città, che erano infra loro divise, l'una parte seguiva l'amicizia
di Sparta, l'altra di Atene: ed essendo occorso che nella detta
città prevalessono i nobili, e togliessono la libertà al popolo,
i popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze, e, posto
le mani addosso a tutta la Nobilità, gli rinchiusero in una
prigione capace di tutti loro; donde gli traevono a otto o dieci
per volta, sotto titolo di mandargli in esilio in diverse parti,
e quegli con molti crudeli esempli facevano morire. Di che
sendosi, quelli che restavano, accorti, deliberarono in quanto
era a loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa: ed
armatisi di quello potevano, combattendo con quelli che vi
volevano entrare, la entrata della prigione difendevano; di modo
che il popolo, a questo romore fatto uno concorso, scoperse la
parte superiore di quel luogo, e quegli con quelle rovine
suffocò. Seguirono ancora in detta provincia molti altri simili
casi orrendi e notabili; talché si vede essere vero che con
maggiore impeto si vendica una libertà che ti è suta tolta, che
quella che ti è voluta tôrre.
Pensando dunque donde possa nascere, che,
in quegli tempi antichi, i popoli fossero più amatori della
libertà che in questi; credo nasca da quella medesima cagione
che fa ora gli uomini manco forti: la quale credo sia la
diversità della educazione nostra dall'antica. Perché, avendoci
la nostra religione mostro la verità e la vera via, ci fa
stimare meno l'onore del mondo: onde i Gentili, stimandolo assai,
ed avendo posto in quello il sommo bene, erano nelle azioni loro
più feroci. Il che si può considerare da molte loro
constituzioni, cominciandosi dalla magnificenza de' sacrifizi
loro, alla umiltà de' nostri; dove è qualche pompa più
delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui
non mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma vi
si aggiugneva l'azione del sacrificio pieno di sangue e di
ferocità, ammazzandovisi moltitudine d'animali; il quale aspetto,
sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La religione
antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di
mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di
republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini
umili e contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo
bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane:
quell'altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza
del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini
fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te
fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa
forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il
mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali
sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l'università
degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare le
sue battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia
effeminato il mondo, e disarmato il Cielo, nasce più sanza
dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la
nostra religione secondo l'ozio, e non secondo la virtù. Perché,
se considerassono come la ci permette la esaltazione e la difesa
della patria, vedrebbono come la vuole che noi l'amiamo ed
onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo
difendere. Fanno adunque queste educazioni, e sì false
interpretazioni, che nel mondo non si vede tante republiche
quante si vedeva anticamente; né, per consequente, si vede ne'
popoli tanto amore alla libertà quanto allora: ancora che io
creda più tosto essere cagione di questo, che lo Imperio romano
con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e
tutti e' viveri civili. E benché poi tale Imperio si sia
risoluto, non si sono potute le città ancora rimettere insieme
né riordinare alla vita civile, se non in pochissimi luoghi di
quello Imperio. Pure, comunque si fusse, i Romani in ogni minima
parte del mondo trovarono una congiura di republiche armatissime
ed ostinatissime alla difesa della libertà loro. Il che mostra
che il popolo romano sanza una rara ed estrema virtù mai non le
arebbe potute superare.
E per darne esemplo di qualche membro,
voglio mi basti lo esemplo de' Sanniti: i quali pare cosa
mirabile, e Tito Livio lo confessa, che fussero sì potenti, e l'arme
loro sì valide, che potessono infino al tempo di Papirio Cursore
consolo, figliuolo del primo Papirio, resistere a' Romani (che fu
uno spazio di quarantasei anni), dopo tante rotte, rovine di
terre, e tante strage ricevute nel paese loro; massime veduto ora
quel paese, dove erano tante cittadi e tanti uomini, essere quasi
che disabitato; ed allora vi era tanto ordine e tanta forza, che
gli era insuperabile, se da una virtù romana non fosse stato
assaltato. E facil cosa è considerare donde nasceva quello
ordine, e donde proceda questo disordine; perché tutto viene dal
vivere libero allora, ed ora dal vivere servo. Perché tutte le
terre e le provincie che vivono libere in ogni parte, come di
sopra dissi, fanno profitti grandissimi. Perché quivi si vede
maggiori popoli, per essere e' connubi più liberi, più
desiderabili dagli uomini: perché ciascuno procrea volentieri
quegli figliuoli che crede potere nutrire, non dubitando che il
patrimonio gli sia tolto; e ch'ei conosce non solamente che
nascono liberi e non schiavi, ma ch'ei possono mediante la virtù
loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in
maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che
vengono dalle arti. Perché ciascuno volentieri multiplica in
quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede,
acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara
pensono a' privati e publici commodi; e l'uno e l'altro viene
maravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose
segue in quegli paesi che vivono servi; e tanto più scemono dal
consueto bene, quanto più è dura la servitù. E di tutte le
servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a una
republica: l'una, perché la è più durabile, e manco si può
sperare d'uscirne; l'altra, perché il fine della republica è
enervare ed indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli
altri corpi. Il che non fa uno principe che ti sottometta, quando
quel principe non sia qualche principe barbaro, destruttore de'
paesi e dissipatore di tutte le civiltà degli uomini, come sono
i principi orientali. Ma s'egli ha in sé ordini umani ed
ordinari, il più delle volte ama le città sue suggette
equalmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi tutti gli
ordini antichi. Talché, se le non possono crescere come libere,
elle non rovinano anche come schiave; intendendosi della servitù
in quale vengono le città servendo a un forestiero, perché di
quelle d'uno loro cittadino ne parlai di sopra. Chi considererà,
adunque, tutto quello che si è detto, non si maraviglierà della
potenza che i Sanniti avevano, sendo liberi, e della debolezza in
che e' vennono poi, servendo: e Tito Livio ne fa fede in più
luoghi, e massime nella guerra di Annibale, dove e' mostra che,
sendo i Sanniti oppressi da una legione di uomini che era in Nola,
mandarono oratori ad Annibale, a pregarlo che gli soccorressi; i
quali, nel parlare loro, dissono, che avevano per cento anni
combattuto con i Romani con i propri loro soldati e propri loro
capitani, e molte volte aveano sostenuto dua eserciti consolari e
dua consoli, e che allora a tanta bassezza erano venuti, che non
si potevano a pena difendere da una piccola legione romana che
era in Nola.
Cap. 3
Roma divenne gran città rovinando le
città circunvicine, e ricevendo i forestieri facilmente a' suoi
onori.
"Crescit interea Roma Albae ruinis". Quegli che disegnono che una città faccia grande imperio, si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori; perché, sanza questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare grande una città. Questo si fa in due modi: per amore e per forza. Per amore, tenendo le vie aperte e sicure a' forestieri che disegnassono venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città. Il che fu in tanto osservato da Roma, che, nel tempo del sesto re, in Roma abitavano ottantamila uomini da portare arme. Perché i Romani vollono fare ad uso del buono cultivatore; il quale, perché una pianta ingrossi, e possa produrre e maturare i frutti suoi, gli taglia i primi rami che la mette, acciocché, rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possano col tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E che questo modo, tenuto per ampliare e fare imperio, fusse necessario e buono lo dimostra lo esemplo di Sparta e di Atene: le quali essendo dua republiche armatissime, ed ordinate di ottime leggi, nondimeno non si condussono alla grandezza dello Imperio romano; e Roma pareva più tumultuaria, e non tanto bene ordinata come quelle. Di che non se ne può addurre altra cagione, che la preallegata: perché Roma, per avere ingrossato per quelle due vie il corpo della sua città, potette di già mettere in arme dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non passarono mai ventimila per ciascuna. Il che nacque, non da essere il sito di Roma più benigno che quello di coloro, ma solamente da diverso modo di procedere. Perché Licurgo, fondatore della republica spartana, considerando nessuna cosa potere più facilmente risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece ogni cosa perché i forestieri non avessono a conversarvi: ed oltre a non gli ricevere ne' matrimoni, alla civilità, ed alle altre conversazioni che fanno convenire gli uomini insieme, ordinò che in quella sua republica si spendesse monete di cuoio, per tor via a ciascuno il disiderio di venirvi per portarvi mercanzie, o portarvi alcuna arte; di qualità che quella città non potette mai ingrossare di abitatori. E perché tutte le azioni nostre imitano la natura, non è possibile né naturale che uno pedale sottile sostenga uno ramo grosso. Però una republica piccola non può occupare città né regni che sieno più validi né più grossi di lei; e, se pure gli occupa, gl'interviene come a quello albero che avesse più grosso il ramo che il piede, che, sostenendolo con fatica, ogni piccol vento lo fiacca: come si vide che intervenne a Sparta; la quale avendo occupate tutte le città di Grecia, non prima se gli ribellò Tebe, che tutte le altre città se gli ribellarono, e rimase il pedale solo sanza rami. Il che non potette intervenire a Roma, avendo il piè sì grosso, che qualunque ramo poteva facilmente sostenere. Questo modo adunque di procedere, insieme con gli altri che di sotto si diranno, fece Roma grande e potentissima. Il che dimostra Tito Livio in due parole, quando disse: "Crescit interea Roma Albae ruinis".
Cap. 4
Le republiche hanno tenuti tre modi
circa lo ampliare.
Chi
ha osservato le antiche istorie, trova come le republiche hanno
tenuti tre modi circa lo ampliare. L'uno è stato quello che
osservarono i Toscani antichi, di essere una lega di più
republiche insieme, dove non sia alcuna che avanzi l'altra né di
autorità né di grado; e, nello acquistare, farsi l'altre città
compagne, in simil modo come in questo tempo fanno i Svizzeri, e
come ne' tempi antichi fecero in Grecia gli Achei e gli Etoli. E
perché i Romani feciono assai guerra co' Toscani, per mostrare
meglio le qualità di questo primo modo, mi distenderò in dare
notizia di loro particularmente. In Italia, innanzi allo Imperio
romano, furono i Toscani per mare e per terra potentissimi: e
benché delle cose loro non ce ne sia particulare istoria, pure c'è
qualche poco di memoria, e qualche segno della grandezza loro; e
si sa come e' mandarono una colonia in su 'l mare di sopra, la
quale chiamarono Adria, che fu sì nobile, che la dette nome a
quel mare che ancora i Latini chiamono Adriatico. Intendesi
ancora, come le loro armi furono ubbidite dal Tevere per infino a
piè delle Alpi che ora cingono il grosso di Italia; non ostante
che, dugento anni innanzi che i Romani crescessono in molte forze,
detti Toscani perderono lo imperio di quel paese che oggi si
chiama la Lombardia; la quale provincia fu occupata da' Franciosi:
i quali, mossi o da necessità o dalla dolcezza dei frutti, e
massime del vino vennono in Italia sotto Belloveso loro duca; e
rotti e cacciati i provinciali, si posono in quello luogo, dove
edificarono di molte cittadi, e quella provincia chiamarono
Gallia, dal nome che tenevano allora; la quale tennono fino che
da' Romani fussero domi. Vivevono, adunque, i Toscani con quella
equalità, e procedevano nello ampliare in quel primo modo che di
sopra si dice: e furono dodici città, tra le quali era Chiusi,
Veio, Arezzo, Fiesole, Volterra, e simili: i quali per via di
lega governavano lo Imperio loro; né poterono uscire d'Italia
con gli acquisti; e di quella ancora rimase intatta gran parte,
per le cagioni che di sotto si diranno. L'altro modo è farsi
compagni: non tanto però che non ti rimanga il grado del
comandare, la sedia dello Imperio, ed il titolo delle imprese: il
quale modo fu osservato da' Romani. Il terzo modo è farsi
immediate sudditi, e non compagni; come fecero gli Spartani e gli
Ateniesi. De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto inutile;
come si vide ch'ei fu nelle soprascritte due republiche: le quali
non rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel
dominio che le non potevano tenere. Perché, pigliare cura di
avere a governare città con violenza, massime quelle che fussono
consuete a vivere libere, è una cosa difficile e faticosa. E se
tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi né comandare né
reggere. Ed a volere essere così fatto, è necessario farsi
compagni che ti aiutino, e ingrossare la tua città di popolo. E
perché queste due città non fecero né l'uno né l'altro, il
modo di procedere loro fu inutile. E perché Roma, la quale è
nello esemplo del secondo modo, fece l'uno e l'altro, però salse
a tanta eccessiva potenza. E perché la è stata sola a vivere
così, è stata ancora sola a diventare tanto potente: perché,
avendosi lei fatti di molti compagni per tutta Italia, i quali in
di molte cose con equali leggi vivevano seco; e, dall'altro canto,
come di sopra è detto, sendosi riserbata sempre la sedia dello
Imperio ed il titolo del comandare, questi suoi compagni venivano,
che non se ne avvedevano, con le fatiche e con il sangue loro a
soggiogare sé stessi. Perché, come ei cominciarono a uscire con
gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi
suggetti coloro che, per essere consueti a vivere sotto i re, non
si curavano di essere suggetti, ed avendo governatori romani, ed
essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano, non
riconoscevano per superiore altro che Roma. Di modo che quegli
compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto
cinti da' sudditi romani, ed oppressi da una grossissima città
come era Roma; e quando ei s'avviddono dello inganno sotto il
quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi; tanta
autorità aveva presa Roma con le provincie esterne, e tanta
forza si trovava in seno, avendo la sua città grossissima ed
armatissima. E benché quelli suoi compagni, per vendicarsi delle
ingiurie, le congiurassero contro, furono in poco tempo perditori
della guerra, peggiorando le loro condizioni; perché, di
compagni, diventarono ancora loro sudditi. Questo modo di
procedere, come è detto, è stato solo osservato da' Romani: né
può tenere altro modo una republica che voglia ampliare; perché
la esperienza non ce ne ha mostro nessuno più certo o più vero.
Il modo preallegato delle leghe, come
viverono i Toscani, gli Achei e gli Etoli e come oggi vivono i
Svizzeri è, dopo a quello de' Romani, il migliore modo; perché,
non si potendo con quello ampliare assai, ne séguita due beni; l'uno,
che facilmente non ti tiri guerra a dosso; l'altro, che quel
tanto che tu pigli, lo tieni facilmente. La cagione del non
potere ampliare è lo essere una republica disgiunta e posta in
varie sedie: il che fa che difficilmente possono consultare e
diliberare. Fa, ancora, che non sono desiderosi di dominare:
perché, essendo molte comunità a participare di quel dominio,
non stimano tanto tale acquisto quanto fa una republica sola, che
spera di goderselo tutto. Governonsi, oltra di questo, per
concilio, e conviene che sieno più tardi ad ogni diliberazione,
che quelli che abitono drento a uno medesimo cerchio. Vedesi
ancora per sperienza, che simile modo di procedere ha un termine
fisso, il quale non ci è esemplo che mostri che si sia
trapassato: e questo è di aggiugnere a dodici o quattordici
comunità; dipoi, non cercare di andare più avanti: perché,
sendo giunti a grado che pare loro potersi difendere da ciascuno,
non cercono maggiore dominio; sì perché la necessità non gli
stringe di avere più potenza; sì per non conoscere utile negli
acquisti, per le cagioni dette di sopra. Perché gli arebbono a
fare una delle due cose; o a seguitare di farsi compagni, e
questa moltitudine farebbe confusione; o egli arebbono a farsi
sudditi, e perché e' veggono in questo difficultà, e non molto
utile nel tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando e' sono
venuti a tanto numero che paia loro vivere sicuri, si voltono a
due cose: l'una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni; e
per questi mezzi trarre da ogni parte danari, i quali facilmente
infra loro si possono distribuire: l'altra è militare per altrui,
e pigliare soldo da questo e da quel principe che per sue imprese
gli solda; come si vede che fanno oggi i Svizzeri, e come si
legge che facevano i preallegati. Di che n'è testimone Tito
Livio, dove dice che, venendo a parlamento Filippo re di
Macedonia con Tito Quinzio Flaminio, e ragionando d'accordo alla
presenza d'uno pretore degli Etoli, e venendo a parole detto
pretore con Filippo, gli fu da quello rimproverato la avarizia e
la infidelità dicendo che gli Etoli non si vergognavano militare
con uno, e poi mandare loro uomini ancora a servigio del nimico;
talché molte volte intra due contrari eserciti si vedevano le
insegne di Etolia. Conoscesi, pertanto, come questo modo di
procedere per leghe, è stato sempre simile, ed ha fatto simili
effetti. Vedesi ancora, che quel modo di fare sudditi è stato
sempre debole, ed avere fatto piccoli profitti; e quando pure
egli hanno passato il modo, essere rovinati tosto. E se questo
modo di fare sudditi è inutile nelle republiche armate, in
quelle che sono disarmate è inutilissimo: come sono state ne'
nostri tempi le republiche d'Italia. Conoscesi, pertanto, essere
vero modo quello che tennono i Romani, il quale è tanto più
mirabile, quanto e' non ce n'era innanzi a Roma esemplo, e dopo
Roma non è stato alcuno che gli abbi imitati. E quanto alle
leghe, si trovano solo i Svizzeri e la lega di Svezia che gli
imita. E, come nel fine di questa materia si dirà, tanti ordini
osservati da Roma, così pertinenti alle cose di dentro come a
quelle di fuora, non sono ne' presenti nostri tempi non solamente
imitati, ma non n'è tenuto alcuno conto: giudicandoli alcuni non
veri, alcuni impossibili, alcuni non a proposito ed inutili;
tanto che, standoci con questa ignoranzia, siamo preda di
qualunque ha voluto correre questa provincia. E quando la
imitazione de' Romani paresse difficile, non doverrebbe parere
così quella degli antichi Toscani, massime a' presenti Toscani.
Perché, se quelli non poterono, per le cagioni dette, fare uno
Imperio simile a quel di Roma, poterono acquistare in Italia
quella potenza che quel modo del procedere concesse loro. Il che
fu, per un gran tempo, sicuro, con somma gloria d'imperio e d'arme,
e massime laude di costumi e di religione. La quale potenza e
gloria fu prima diminuita da' Franciosi, dipoi spenta da' Romani:
e fu tanto spenta, che, ancora che, dumila anni fa, la potenza de'
Toscani fusse grande, al presente non ce n'è quasi memoria. La
quale cosa mi ha fatto pensare donde nasca questa oblivione delle
cose: come nel seguente capitolo si discorrerà.
Cap. 5
Che la variazione delle sette e delle
lingue, insieme con l'accidente de' diluvii o della peste, spegne
le memorie delle cose.
A
quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno,
credo che si potesse replicare che, se tanta antichità fusse
vera, e' sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che
cinquemila anni; quando e' non si vedesse come queste memorie de'
tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali, parte vengono
dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini
sono le variazioni delle sètte e delle lingue. Perché, quando e'
surge una setta nuova, cioè una religione nuova, il primo studio
suo è, per darsi riputazione, estinguere la vecchia; e, quando
gli occorre che gli ordinatori della nuova setta siano di lingua
diversa, la spengono facilmente. La quale cosa si conosce
considerando e' modi che ha tenuti la setta Cristiana contro alla
Gentile; la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le
cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica
teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in tutto la
notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella: il
che è nato per avere quella mantenuta la lingua latina; il che
feciono forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con
essa. Perché, se l'avessono potuta scrivere con nuova lingua,
considerato le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe
ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge i modi tenuti da
San Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana,
vedrà con quanta ostinazione e' perseguitarono tutte le memorie
antiche, ardendo le opere de' poeti e degli istorici, ruinando le
imagini e guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno
della antichità. Talché, se a questa persecuzione egli avessono
aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo tempo
ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto, che quello che ha
voluto fare la setta Cristiana contro alla setta Gentile, la
Gentile abbia fatto contro a quella che era innanzi a lei. E
perché queste sètte in cinque o in seimila anni variano due o
tre volte, si perde la memoria delle cose fatte innanzi a quel
tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera come cosa
favolosa, e non è prestato loro fede: come interviene alla
istoria di Diodoro Siculo, che, benché e' renda ragione di
quaranta o cinquantamila anni, nondimeno è riputato, come io
credo, che sia cosa mendace.
Quanto alle cause che vengono dal cielo,
sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi
gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o
per fame o per una inondazione d'acque: e la più importante è
questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché
quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i
quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non la possono
lasciare a' posteri. E se infra loro si salvasse alcuno che ne
avessi notizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e la
perverte a suo modo; talché ne resta solo a' successori quanto
ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste inondazioni,
peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne
sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo effetto
della oblivione delle cose, sì perché e' pare ragionevole ch'e'
sia: perché la natura, come ne' corpi semplici, quando e' vi è
ragunato assai materia superflua, muove per sé medesima molte
volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo;
così interviene in questo corpo misto della umana generazione,
che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo
che non possono vivervi, né possono andare altrove, per essere
occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e la
malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di
necessità che il mondo si purghi per uno de' tre modi;
acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino
più comodamente, e diventino migliori. Era dunque, come di sopra
è detto, già la Toscana potente, piena di religione e di virtù,
aveva i suoi costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto
spento dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei ne
rimane solo la memoria del nome.
Cap. 6
Come i Romani procedevano nel fare la
guerra.
Avendo discorso come i Romani procedevano nello ampliare, discorrereno ora come e' procedevano nel fare la guerra; ed in ogni loro azione si vedrà con quanta prudenzia ei deviarono dal modo universale degli altri, per facilitarsi la via a venire a una suprema grandezza. La intenzione di chi fa guerra per elezione, o vero per ambizione, è acquistare e mantenere lo acquistato; e procedere in modo con essa, che l'arricchisca e non impoverisca il paese e la patria sua. È necessario dunque, e nello acquistare e nel mantenere, pensare di non spendere; anzi fare ogni cosa con utilità del publico suo. Chi vuole fare tutte queste cose, conviene che tenga lo stile e modo romano: il quale fu in prima di fare le guerre, come dicano i Franciosi, corte e grosse; perché, venendo in campagna con eserciti grossi, tutte le guerre che gli ebbono con i Latini, Sanniti e Toscani, le spedirano in brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono dal principio di Roma infino alla ossidione de' Veienti, tutte si vedranno ispedite, quale in sei, quale in dieci, quale in venti dì. Perché l'uso loro era questo: subito che era scoperta la guerra, egli uscivano fuora con gli eserciti allo incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta, i nimici, perché non fosse guasto loro il contado affatto venivano alle condizioni ed i Romani gli condannavano in terreni: i quali terreni gli convertivano in privati commodi o gli consegnavano ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro veniva ad essere guardia de' confini romani, con utile di essi coloni, che avevano quegli campi, e con utile del publico di Roma, che sanza spesa teneva quella guardia. Né poteva questo modo essere più sicuro, o più forte, o più utile: perché mentre che i nimici non erano in su i campi, quella guardia bastava: come e' fossono usciti fuori grossi per opprimere quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano a giornata con quegli, e fatta e vinta la giornata, imponendo loro più grave condizione, si tornavano in casa. Così venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di loro, e forze in sé medesimi. E questo modo vennono tenendo infino che mutarono modo di procedere in guerra: il che fu dopo la ossidione de' Veienti; dove, per potere fare guerra lungamente, gli ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non essere necessario, essendo le guerre brevi, non gli pagavano. E benché i Romani dessino il soldo, e che per virtù di questo ei potessono fare le guerre più lunghe, e per farle più discosto la necessità gli tenesse più in su' campi; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di finirle presto, secondo il luogo ed il tempo; né variarono mai dal mandare le colonie. Perché nel primo ordine gli tenne, circa il fare le guerre brevi oltra a il loro naturale uso, l'ambizione de' Consoli; i quali avendo a stare uno anno e di quello anno sei mesi alle stanze, volevano finire la guerra per trionfare. Nel mandare le colonie gli tenne l'utile e la commodità grande che ne risultava. Variarono bene alquanto circa le prede, delle quali non erano così liberali come erano stati prima; sì perché e' non pareva loro tanto necessario, avendo i soldati lo stipendio; sì perché, essendo le prede maggiori, disegnavano d'ingrassare di quelle in modo il publico che non fussono constretti a fare le imprese con tributi della città. Il quale ordine in poco tempo fece il loro erario ricchissimo. Questi dua modi, adunque, e circa il distribuire la preda, e circa il mandare le colonie, feciono che Roma arricchiva della guerra; dove gli altri principi e republiche non savie ne impoveriscono. E si ridusse la cosa in termine, che a uno Consolo non pareva potere trionfare, se non portava col suo trionfo assai oro ed argento, e d'ogni altra sorta preda, nello erario. Così i Romani, con i soprascritti termini, e con il finire le guerre presto, sendo valenti con lunghezza straccare i nimici, e con le rotte e con le scorrerie e con accordi a loro vantaggi, diventarono sempre più ricchi e più potenti.
Cap. 7
Quanto terreno i Romani davano per colono.
Quanto terreno i Romani distribuissono per colono, credo sia difficile trovarne la verità. Perché io credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove e' mandavano le colonie. Giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la distribuzione fussi parca: prima, per potere mandare più uomini, sendo quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi perché, vivendo loro poveri a casa, non era ragionevole che volessono che i loro uomini abbondassino troppo fuora. E Tito Livio dice come, preso Veio, e' vi mandarono una colonia, e distribuirono a ciascuno tre iugeri e sètte once di terra; che sono, al modo nostro.... Perché, oltre alle cose soprascritte, e'giudicavano che non lo assai terreno, ma il bene cultivato, bastasse. È necessario bene, che tutta la colonia abbi campi publici dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove prendere del legname per ardere; sanza le quali cose non può una colonia ordinarsi.
Cap. 8
La cagione perchè i popoli si
partono da' luoghi patrii, ed inondano il paese altrui.
Poiché
di sopra si è ragionato del modo nel procedere nella guerra
osservato da' Romani, e come i Toscani furono assaltati da'
Franciosi, non mi pare alieno dalla materia discorrere, come le
si fanno di dua generazioni guerre. L'una è fatta per ambizione
de' principi o delle republiche, che cercano di propagare lo
imperio; come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e
quelle che fecero i Romani, e quelle che fanno, ciascuno dì, l'una
potenza con l'altra. Le quali guerre sono pericolose, ma non
cacciano al tutto gli abitatori d'una provincia; perché e' basta,
al vincitore, solo la ubbidienza de' popoli, e il più delle
volte gli lascia vivere con le loro leggi, e sempre con le loro
case, e ne' loro beni. L'altra generazione di guerra è quando
uno popolo intero con tutte le sue famiglie si lieva d'uno luogo,
necessitato o dalla fame o dalla guerra, e va a cercare nuova
sede e nuova provincia; non per comandarla, come quegli di sopra,
ma per possederla tutta particularmente, e cacciarne o ammazzare
gli abitatori antichi di quella. Questa guerra è crudelissima e
paventosissima. E di queste guerre ragiona Sallustio nel fine
dell'Iugurtino, quando dice che, vinto Iugurta, si sentì il moto
de' Franciosi che venivano in Italia: dove ei dice che il Popolo
romano con tutte le altre genti combatté solamente per chi
dovesse comandare, ma con i Franciosi combatté sempre per la
salute di ciascuno. Perché a un principe o a una republica, che
assalta una provincia, basta spegnere solo coloro che comandano;
ma a queste populazioni conviene spegnere ciascuno, perché
vogliono vivere di quello che altri viveva. I Romani ebbero tre
di queste guerre pericolosissime. La prima fu quella quando Roma
fu presa, la quale fu occupata da quei Franciosi che avevano
tolto, come di sopra si disse, la Lombardia a' Toscani, e fattone
loro sedia; della quale Tito Livio ne allega due cagioni: la
prima, come di sopra si disse, che furono allettati dalla
dolcezza delle frutte e del vino d'Italia, delle quali mancavano
in Francia; la seconda che, essendo quel regno francioso
multiplicato in tanto di uomini, che non vi si potevono più
nutrire, giudicarono i principi di quelli luoghi, che e' fusse
necessario che una parte di loro andasse a cercare nuova terra, e,
fatta tale deliberazione, elessono, per capitani di quegli che si
avevano a partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de' Franciosi:
de' quali Belloveso venne in Italia, e Sicoveso passò in Ispagna.
Dalla passata del quale Belloveso nacque la occupazione di
Lombardia, e di quindi la guerra che prima i Franciosi fecero a
Roma. Dopo questa, fu quella che fecero dopo la prima guerra
cartaginese, quando intra Piombino e Pisa ammazzarono più che
dugentomila Franciosi. La terza, fu quando i Tedeschi e' Cimbri
vennero in Italia: i quali, avendo vinti più eserciti romani,
furono vinti da Mario. Vinsero adunque i Romani queste tre guerre
pericolosissime. Né era necessario minore virtù a vincerle,
perché si vide poi, come la virtù romana mancò e che quelle
armi perderono il loro antico valore, fu quello imperio destrutto
da simili popoli: i quali furono Gotti, Vandali, e simili, che
occuparono tutto lo Imperio occidentale.
Escono tali popoli de' paesi loro, come
di sopra si disse, cacciati dalla necessità: e la necessità
nasce o dalla fame, o da una guerra ed oppressione che ne' paesi
propri è loro fatta: talché e' son constretti cercare nuove
terre. E questi tali, o e' sono gran numero; ed allora con
violenza entrano ne' paesi d'altrui, ammazzano gli abitatori,
posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno, mutano il nome
della provincia: come fece Moisè, e quelli popoli che occuparono
lo Imperio romano. Perché questi nomi nuovi che sono nella
Italia e nelle altre provincie, non nascono da altro che da
essere state nomate così da nuovi occupatori: come è la
Lombardia, che si chiamava Gallia Cisalpina: la Francia si
chiamava Gallia Transalpina, ed ora è nominata da' Franchi, che
così si chiamavono quelli popoli che la occuparono: la
Schiavonia si chiamava Illiria; l'Ungheria, Pannonia; l'Inghilterra,
Britannia; e molte altre provincie che hanno mutato nome, le
quali sarebbe tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò Giudea
quella parte di Soria occupata da lui. E perché io ho detto, di
sopra, che qualche volta tali popoli sono cacciati dalla propria
sede per guerra, donde sono constretti cercare nuove terre; ne
voglio addurre lo esemplo de' Maurusii, popoli anticamente in
Soria: i quali, sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando
non potere loro resistere, pensarono essere meglio salvare loro
medesimi, e lasciare il paese proprio, che, per volere salvare
quello, perdere ancora loro; e levatisi con loro famiglie, se ne
andarono in Africa, dove posero la loro sedia, cacciando via
quelli abitatori che in quegli luoghi trovarono. E così quegli
che non avevano potuto difendere il loro paese, potettono
occupare quello d'altrui. E Procopio, che scrive la guerra che
fece Belisario coi Vandali, occupatori della Africa, riferisce
avere letto lettere scritte in certe colonne, ne' luoghi dove
questi Maurusii abitavano, le quali dicevano: "Nos Maurusii,
qui fugimus a facie Jesu latronis filii Navae". Dove
apparisce la cagione della partita loro di Soria. Sono, pertanto,
questi popoli formidolosissimi, sendo cacciati da una ultima
necessità; e se e' non riscontrano buone armi, non mai saranno
sostenuti. Ma quando quegli che sono costretti abbandonare la
loro patria non sono molti, non sono sì pericolosi come quelli
popoli di chi si è ragionato; perché non possono usare tanta
violenza, ma conviene loro con arte occupare qualche luogo, e,
occupatolo, mantenervisi per via d'amici e di confederati: come
si vede che fece Enea Didone, i Massiliesi e simili; i quali
tutti, per consentimento de' vicini, dov'e' posono, poterono
mantenervisi. Escono i popoli grossi, e sono usciti quasi tutti,
de' paesi di Scizia; luoghi freddi e poveri: dove, per essere
assai uomini, ed il paese di qualità da non gli potere nutrire,
sono forzati uscirne, avendo molte cose che gli cacciono, e
nessuna che gli ritenga. E se, da cinquecento anni in qua, non è
occorso che alcuni di questi popoli abbiano inondato alcuno paese,
è nato per più cagioni. La prima, la grande evacuazione che
fece quel paese nella declinazione dello Imperio, donde uscirono
più di trenta popoli. La seconda è che la Magna e l'Ungheria,
donde ancora uscivano di queste genti hanno ora il loro paese
bonificato in modo che vi possono vivere agiatamente; talché non
sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra parte, sendo loro
uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a tenere che gli
Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di potere
vincergli o passarli. E spesse volte occorrono movimenti
grandissimi de' Tartari che sono dipoi dagli Ungheri e da quelli
di Polonia sostenuti; e spesso si gloriano, che, se non fussono l'armi
loro, la Italia e la Chiesa arebbe molte volte sentito il peso
degli eserciti tartari. E questo voglio basti quanto ai prefati
popoli.
Cap. 9
Quali
cagioni comunemente faccino nascere le guerre intra i potenti.
La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti, che erano stati in lega gran tempo, è una cagione comune che nasce infra tutti i principati potenti. La quale cagione o la viene a caso o la è fatta nascere da colui che disidera muovere la guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti fu a caso; perché la intenzione de' Sanniti non fu, movendo guerra a' Sidicini, e dipoi ai Campani, muoverla ai Romani. Ma, sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a Roma fuora della opinione de' Romani e de' Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai Romani, come cosa loro defendergli, e pigliare quella guerra che a loro parve non potere con loro onore fuggire. Perché e' pareva bene ai Romani ragionevole non potere difendere i Campani come amici, contro a' Sanniti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli difendere come sudditi ovvero raccomandati; giudicando, quando e' non avessino presa tale difesa, tôrre la via a tutti quegli che disegnassino venire sotto la potestà loro. Perché, avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete, non poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione dette principio alla prima guerra contro ai Cartaginesi, per la defensione che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a caso. Ma non fu già a caso, dipoi, la seconda guerra che nacque infra loro; perché Annibale capitano cartaginese assaltò i Saguntini amici de' Romani in Ispagna, non per offendere quelli, ma per muovere l'armi romane, ed avere occasione di combatterli, e passare in Italia. Questo modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e che si hanno, e della fede e d'altro, qualche rispetto. Perché, se io voglio fare guerra con uno principe, ed infra noi siano fermi capitoli per un gran tempo osservati, con altra giustificazione e con altro colore assalterò io uno suo amico che lui proprio; sappiendo, massime, che, nello assaltare lo amico, o ei si risentirà, ed io arò lo intento mio di farli guerra, o, non si risentendo, si scoprirà la debolezza o la infidelità sua, di non difendere uno suo raccomandato. E l'una e l'altra di queste due cose e per torli riputazione, e per fare più facili i disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per la dedizione de' Campani, circa al muovere guerra, quanto di sopra si è detto; e di più, quale rimedio abbia una città che non si possa per sé stessa difendere, e vogliasi difendere in ogni modo da quello che l'assalta: il quale è darsi liberamente a quello che tu disegni che ti difenda, come feciono i Capovani a' Romani, e i Fiorentini a il re Ruberto di Napoli: il quale non gli volendo difendere come amici, gli difese poi come sudditi contro alle forze di Castruccio da Lucca, che gli opprimeva.
Cap.
10
I danari non sono il nervo della
guerra, secondo che è la comune opinione.
Perché
ciascuno può cominciare una guerra a sua posta, ma non finirla,
debbe uno principe, avanti che prenda una impresa, misurare le
forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma debbe avere tanta
prudenza, che delle sue forze ei non s'inganni; ed ogni volta s'ingannerà,
quando le misuri o dai danari, o dal sito, o dalla benivolenza
degli uomini, mancando, dall'altra parte, d'armi proprie. Perché
le cose predette ti accrescono bene le forze, ma ben non te le
danno; e per sé medesime sono nulla; e non giovono alcuna cosa
sanza l'armi fedeli. Perché i danari assai non ti bastano sanza
quelle; non ti giova la fortezza del paese e la fede e
benivolenza degli uomini non dura, perché questi non ti possono
essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni monte, ogni lago,
ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti difensori
mancano. I danari ancora, non solo non ti difendono, ma ti fanno
predare più presto. Né può essere più falsa quella comune
opinione che dice, che i danari sono il nervo della guerra. La
quale sentenza è detta da Quinto Curzio nella guerra che fu
intra Antipatro macedone e il re spartano: dove narra, che, per
difetto di danari, il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi, e
fu rotto; ché se ei differiva la zuffa pochi giorni, veniva la
nuova in Grecia della morte di Alessandro, donde ei sarebbe
rimaso vincitore sanza combattere: ma, mancandogli i danari, e
dubitando che lo esercito suo per difetto di quegli non lo
abbandonasse, fu constretto tentare la fortuna della zuffa:
talché Quinto Curzio per questa cagione afferma, i danari essere
il nervo della guerra. La quale sentenza è allegata ogni giorno,
e da' principi, non tanto prudenti che basti, seguitata. Perché,
fondatisi sopra quella, credono che basti loro, a difendersi,
avere tesoro assai, e non pensano che se il tesoro bastasse a
vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro; i Greci arebbono
vinto i Romani; ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti i
Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed i Fiorentini insieme
non arebbono avuta difficultà in vincere Francesco Maria, nipote
di papa Iulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i
soprannominati furono vinti da coloro che non il danaio ma i
buoni soldati stimano essere il nervo della guerra. Intra le
altre cose che Creso re de' Lidii mostrò a Solone ateniese, fu
uno tesoro innumerabile, e domandando quel che gli pareva della
potenza sua, gli rispose Solone, che per quello e' non lo
giudicava più potente; perché la guerra si faceva con il ferro
e non con l'oro, e che poteva venire uno che avessi più ferro di
lui, e torgliene. Oltre a di questo, quando, dopo la morte di
Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò in Grecia,
e poi in Asia, e, mandando i Franciosi oratori a il re di
Macedonia per trattare certo accordo; quel re, per mostrare la
potenza sua e per sbigottirli, mostrò loro oro ed ariento assai:
donde quelli Franciosi, che di già avevano come ferma la pace,
la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di torgli quell'oro: e
così fu quel re spogliato per quella cosa che egli aveva per sua
difesa accumulata. I Viniziani, pochi anni sono, avendo ancora lo
erario loro pieno di tesoro, perderno tutto lo stato, sanza
potere essere difesi da quello.
Dico pertanto, non l'oro, come grida la
comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati:
perché l'oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i
buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l'oro. Ai Romani, s'eglino
avessoro voluto fare la guerra più con i danari che con il ferro,
non sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato
le grandi imprese che feciono, e le difficultà che vi ebbono
dentro. Ma, faccendo le loro guerre con il ferro, non patirono
mai carestia dell'oro, perché da quegli che gli temevano era
portato loro infino ne' campi. E se quel re spartano per carestia
di danari ebbe a tentare la fortuna della zuffa, intervenne a lui
quello, per conto de' danari, che molte volte è intervenuto per
altre cagioni: perché si è veduto che, mancando a uno esercito
le vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame o
azzuffarsi, si piglia il partito sempre di azzuffarsi, per essere
più onorevole, e dove la fortuna ti può in qualche modo
favorire. Ancora è intervenuto molte volte, che, veggendo uno
capitano al suo esercito inimico venire soccorso, gli conviene o
azzuffarsi con quello e tentare la fortuna della zuffa; o,
aspettando ch'egli ingrossi, avere a combattere in ogni modo, con
mille suoi disavvantaggi. Ancora si è visto (come intervenne a
Asdrubale, quando nella Marca fu assaltato da Claudio Nerone,
insieme con l'altro console romano) che un capitano, necessitato
o a fuggirsi o a combattere, come sempre elegge il combattere;
parendogli in questo partito, ancora che dubbiosissimo, potere
vincere; ed in quello altro avere a perdere in ogni modo. Sono,
adunque, molte necessitadi che fanno a un capitano fuor della sua
intenzione pigliare partito di azzuffarsi, intra le quali qualche
volta può essere la carestia de' danari; né per questo si
debbono i danari giudicare essere il nervo della guerra, più che
le altre cose che inducano gli uomini a simile necessità. Non è,
adunque, replicandolo di nuovo, l'oro il nervo della guerra, ma i
buoni soldati. Son bene necessari i danari in secondo luogo, ma
è una necessità che i soldati buoni per sé medesimi la vincono;
perché è impossibile che ai buoni soldati manchino i danari,
come che i danari per loro medesimi trovino i buoni soldati.
Mostra, questo che noi diciamo essere vero, ogni istoria in mille
luoghi; non ostante che Pericle consigliasse gli Ateniesi a fare
guerra con tutto il Peloponnesso, mostrando ch'e' potevano
vincere quella guerra con la industria e con la forza del danaio.
E benché in tale guerra gli Ateniesi prosperassino qualche volta,
in ultimo la perderono; e valson più il consiglio e li buoni
soldati di Sparta, che la industria ed il danaio di Atene. Ma
Tito Livio è di questa opinione più vero testimone che alcuno
altro, dove, discorrendo se Alessandro Magno fussi venuto in
Italia, s'egli avesse vinto i Romani, mostra essere tre cose
necessarie nella guerra; assai soldati e buoni, capitani prudenti,
e buona fortuna: dove, esaminando quali o i Romani o Alessandro
prevalessero in queste cose, fa dipoi la sua conclusione sanza
ricordare mai i danari. Doverono i Capovani, quando furono
richiesti da' Sidicini che prendessono l'armi per loro contro ai
Sanniti, misurare la potenza loro dai danari, e non da' soldati:
perché, preso ch'egli ebbero partito di aiutargli, dopo due
rotte furono constretti farsi tributari de' Romani, se si vollono
salvare.
Cap.
11
Non è partito prudente fare amicizia
con uno principe che abbia più opinione che forze.
Volendo
Tito Livio mostrare lo errore de' Sidicini a fidarsi dello aiuto
de' Campani, e lo errore de' Campani a credere potergli difendere,
non lo potrebbe dire con più vive parole, dicendo: "Campani
magis nomen in auxilium Sidicinorum, quam vires ad praesidium
attulerunt". Dove si debbe notare che le leghe che si fanno
coi principi, che non abbino o commodità di aiutarti per la
distanza del sito, o forze da farlo per suo disordine o altra sua
cagione, arrecono più fama che aiuto a coloro che se ne fidano:
come intervenne, ne' dì nostri, ai Fiorentini, quando, nel 1479,
il Papa ed il re di Napoli gli assaltarono: ché, essendo amici
del re di Francia, trassono di quella amicizia "magis nomen,
quam praesidium", come interverrebbe ancora a quel principe,
che, confidatosi di Massimiliano imperadore, facesse qualche
impresa; perché questa è una di quelle amicizie che
arrecherebbe a chi la facesse "magis nomen, quam praesidium",
come si dice, in questo testo, che arrecò quella de' Capovani a'
Sidicini. Errarono, adunque, in questa parte i Capovani, per
parere loro avere più forze che non avevano. E così fa la poca
prudenzia degli uomini, qualche volta, che, non sappiendo né
potendo difendere sé medesimi, vogliono prendere impresa di
difendere altrui: come fecero ancora i Tarentini, i quali, sendo
gli eserciti romani allo incontro dello esercito Sannite,
mandarono ambasciadori al Console romano, a fargli intendere come
ei volevano pace intra quegli due popoli, e come erano per fare
guerra contro a quello che dalla pace si discostasse; talché il
Console, ridendosi di questa proposta, alla presenza di detti
ambasciadori fece sonare a battaglia, ed al suo esercito comandò
che andasse a trovare il nimico, mostrando ai Tarentini, con la
opera e non con le parole, di che risposta essi erano degni.
Ed avendo nel presente capitolo ragionato
de' partiti che pigliono i principi, al contrario, per la difesa
d'altrui, voglio, nel seguente, parlare di quegli che si pigliano
per la difesa propria.
Cap.
12
S'egli
è meglio, temendo di essere assaltato, inferire o aspettare la
guerra.
Io
ho sentito da uomini, assai pratichi nelle cose della guerra,
qualche volta disputare, se sono dua principi quasi di equali
forze, e quello più gagliardo abbi bandito la guerra contro a
quell'altro, quale sia migliore partito per l'altro, o aspettare
il nimico dentro a' confini suoi, o andarlo a trovare in casa ed
assaltare lui: e ne ho sentito addurre ragioni da ogni parte. E
chi difende lo andare assaltare altri, ne allega il consiglio che
Creso dette a Ciro, quando, arrivato in su' confini de' Massageti
per fare loro guerra, la loro regina Tamiri gli mandò a dire,
che eleggessi quale de' due partiti volesse; o entrare nel regno
suo, dove ella lo aspetterebbe; o volesse che ella venisse a
trovare lui. E venuta la cosa in discettazione, Creso, contro
alla opinione degli altri, disse che si andasse a trovare lei;
allegando che, s'egli la vincesse discosto a il suo regno, che
non le torrebbe il regno, perché ella arebbe tempo a rifarsi, ma
se la vincesse dentro ai suoi confini, potrebbe seguirla in su la
fuga, e, non le dando spazio a rifarsi, torle lo stato. Allegane
ancora il consiglio che dette Annibale ad Antioco, quando quel re
disegnava fare guerra ai Romani: dove ei mostra come i Romani non
si potevano vincere se non in Italia, perché quivi altrui si
poteva valere delle armi e delle ricchezze e degli amici loro; ma
chi gli combatteva fuora d'Italia, e lasciava loro la Italia
libera, lasciava loro quella fonte che mai le manca vita a
somministrare forze dove bisogna; e conchiuse che ai Romani si
poteva prima tôrre Roma che lo imperio, e prima la Italia che le
altre provincie. Allega ancora Agatocle che, non potendo
sostenere la guerra di casa, assaltò i Cartaginesi che gliene
facevano, e gli ridusse a domandare pace. Allega Scipione che,
per levare la guerra di Italia, assaltò la Africa.
Chi parla al contrario, dice che chi
vuole fare capitare male uno inimico, lo discosti da casa.
Allegane gli Ateniesi, che, mentre che feciono la guerra commoda
alla casa loro, restarono superiori; e come si discostarono, ed
andarono con gli eserciti in Sicilia, perderono la libertà.
Allega le favole poetiche, dove si mostra che Anteo, re di Libia,
assaltato da Ercole Egizio, fu insuperabile mentre che lo
aspettò dentro a' confini del suo regno; ma, come ei se ne
discostò per astuzia di Ercole, perdé lo stato e la vita. Onde
è dato luogo alla favola che Anteo, sendo in terra, ripigliava
le forze da sua madre, che era la Terra, e che Ercole, avvedutosi
di questo, lo levò in alto, e discostollo dalla terra. Allegane
ancora i giudicii moderni. Ciascuno sa come Ferrando re di Napoli
fu ne' suoi tempi tenuto uno savissimo principe: e venendo la
fama, due anni davanti la sua morte, come il re di Francia Carlo
VIII voleva venire a assaltarlo, avendo fatte assai preparazioni,
ammalò; e, venendo a morte, intra gli altri ricordi che lasciò
a Alfonso suo figliuolo, fu ch'egli aspettasse il nimico dentro a
il regno; e per cosa del mondo non traesse forze fuora dello
stato suo, ma lo aspettasse dentro a' suoi confini tutto intero:
il che non fu osservato da quello; ma, mandato uno esercito in
Romagna, sanza combattere perdé quello e lo stato.
Le ragioni che, oltre alle cose dette, da
ogni parte si adducono, sono: che chi assalta viene con maggiore
animo che chi aspetta, il che fa più confidente lo esercito:
toglie, oltre a di questo, molte commodità al nimico di potersi
valere delle sue cose, non si potendo valere di que' sudditi che
siano saccheggiati; e, per avere il nimico in casa, è constretto
il signore avere più rispetto a trarne da loro danari ed
affaticargli: sicché ei viene a seccare quella fonte, come disse
Annibale, che fa che colui può sostenere la guerra. Oltra di
questo, i suoi soldati, per trovarsi nel paese d'altrui, sono
più necessitati a combattere; e quella necessità fa virtù,
come più volte abbiamo detto. Dall'altra parte si dice: come,
aspettando il nimico, si aspetta con assai vantaggio, perché,
sanza disagio alcuno, tu puoi dare a quello molti disagi di
vettovaglie, e d'ogni altra cosa che abbia bisogno uno esercito:
puoi meglio impedirgli i disegni suoi, per la notizia del paese
che tu hai più di lui: puoi con più forze incontrarlo, per
poterle facilmente tutte unire, ma non potere già tutte
discostarle da casa: puoi, sendo rotto, rifarti facilmente; sì
perché del tuo esercito se ne salverà assai, per avere i rifugi
propinqui; sì perché il supplimento non ha a venire discosto:
tanto che tu vieni ad arristiare tutte le forze, e non tutta la
fortuna; e, discostandoti, arrischi tutta la fortuna, e non tutte
le forze. Ed alcuni sono stati che, per indebolire meglio il suo
nimico, lo lasciono entrare parecchi giornate in su il paese loro,
e pigliare assai terre; acciò che, lasciando i presidii in tutte,
indebolisca il suo esercito, e possinlo dipoi combattere più
facilmente.
Ma, per dire ora io quello che io ne
intendo, io credo che si abbia a fare questa distinzione: o io ho
il mio paese armato, come i Romani, o come hanno i Svizzeri, o io
l'ho disarmato, come avevano i Cartaginesi, o come l'hanno il re
di Francia e gli Italiani. In questo caso, si debbe tenere il
nimico discosto a casa; perché, sendo la tua virtù nel danaio e
non negli uomini, qualunque volta ti è impedita la via di quello,
tu sei spacciato; né cosa veruna te lo impedisce quanto la
guerra di casa. In esempli ci sono i Cartaginesi; i quali, mentre
che ebbono la casa loro libera, potettono con le rendite fare
guerra con i Romani; e quando l'avevano assaltata, non potevano
resistere ad Agatocle. I Fiorentini non avevano rimedio alcuno
con Castruccio signore di Lucca, perché ei faceva loro la guerra
in casa; tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re
Ruberto di Napoli. Ma, morto Castruccio, quelli medesimi
Fiorentini ebbono animo di assaltare il duca di Milano in casa,
ed operare di torgli il regno: tanta virtù mostrarono nelle
guerre longinque, e tanta viltà nelle propinque. Ma quando i
regni sono armati, come era armata Roma e come sono i Svizzeri,
sono più difficili a vincere quanto più ti appressi loro:
perché questi corpi possono unire più forze a resistere a uno
impeto, che non possono ad assaltare altrui. Né mi muove in
questo caso l'autorità d'Annibale, perché la passione e l'utile
suo gli faceva così dire a Antioco. Perché, se i Romani
avessono avute in tanto spazio di tempo quelle tre rotte in
Francia ch'egli ebbero in Italia da Annibale, sanza dubbio erano
spacciati: perché non si sarebbono valuti de' residui degli
eserciti, come si valsono in Italia; non arebbono avuto, a
rifarsi, quelle commodità; né potevono con quelle forze
resistere al nimico, che poterono. Non si truova, per assaltare
una provincia, che loro mandassino mai fuora eserciti che
passassino cinquantamila persone; ma per difendere la casa ne
missero in arme contro ai Franciosi, dopo la prima guerra punica,
diciotto centinaia di migliaia. Né arebbono potuto poi rompere
quegli in Lombardia, come gli ruppono in Toscana; perché contro
a tanto numero di inimici non arebbono potuto condurre tante
forze sì discosto, né combattergli con quella commodità. I
Cimbri ruppono uno esercito romano nella Magna, né vi ebbono i
Romani rimedio. Ma come gli arrivarono in Italia, e che ei
poterono mettere tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. I
Svizzeri è facile vincergli fuori di casa, dove ei non possono
mandare più che un trenta o quarantamila uomini; ma vincergli in
casa, dove ei ne possono raccozzare centomila, è difficilissimo.
Conchiuggo adunque, di nuovo, che quel principe che ha i suoi
popoli armati ed ordinati alla guerra, aspetti sempre in casa una
guerra potente e pericolosa, e non la vadia a rincontrare: ma
quello che ha i suoi sudditi disarmati, ed il paese inusitato
alla guerra, se le discosti sempre da casa il più che può. E
così l'uno e l'altro, ciascuno nel suo grado si difenderà
meglio.
Cap.
13
Che
si viene di bassa a gran fortuna più con la fraude; che con la
forza.
Io stimo essere cosa verissima che rado, o non mai, intervenga che gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi, sanza la forza e sanza la fraude; pure che quel grado al quale altri è pervenuto non li sia o donato o lasciato per eredità. Né credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si troverrà bene che la fraude sola basterà: come chiaro vedrà colui che leggerà la vita di Filippo di Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili, che d'infima ovvero di bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o a imperii grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro, questa necessità dello ingannare, considerato che la prima ispedizione che fe' fare a Ciro contro al re di Armenia è piena di fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fe' occupare il suo regno; e non conchiude altro, per tale azione, se non che a un principe che voglia fare gran cose, è necessario imparare a ingannare. Fegli ingannare, oltra di questo, Ciassare, re de' Medii, suo zio materno, in più modi; sanza la quale fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella grandezza che venne. Né credo che si truovi mai alcuno, costituto in bassa fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene solo con la fraude: come fece Giovan Galeazzo per tôrre lo stato e lo imperio di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E quel che sono necessitati fare i principi ne' principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a fare le republiche, infino che le siano diventate potenti, e che basti la forza sola. E perché Roma tenne in ogni parte, o per sorte o per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò ancora di questo. Né poté usare, nel principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo, discorso di sopra da noi, di farsi compagni; perché sotto questo nome se gli fece servi: come furono i Latini, ed altri popoli a lo intorno. Perché prima si valse dell'armi loro in domare i popoli convicini, e pigliare la riputazione dello stato; dipoi, domatogli, venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i Latini non si avvidono mai, di essere al tutto servi, se non poi che vidono dare due rotte ai Sanniti, e constrettigli ad accordo. La quale vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani co' principi longinqui, che mediante quella sentirono il nome romano, e non l'armi, così generò invidia e sospetto in quelli che vedevano e sentivano l'armi, intra i quali furono i Latini. E tanto poté questa invidia e questo timore, che non solo i Latini ma le colonie che essi avevano in Lazio, insieme con i Campani, stati poco innanzi difesi, congiurarono contro a il nome romano. E mossono questa guerra i Latini nel modo che si dice di sopra che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non i Romani, ma difendendo i Sidicini contro ai Sanniti; a' quali i Sanniti facevano guerra con licenza de' Romani. E che sia vero che i Latini si movessono per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino pretore latino, il quale nel concilio loro disse queste parole: "Nam si etiam nunc sub umbra foederis aequi servitutem pati possumus etc.". Vedesi pertanto i Romani ne' primi augumenti loro non essere mancati etiam della fraude; la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire: la quale è meno vituperabile quanto è più coperta, come fu questa de' Romani.
Cap.
14
Ingannansi molte volte gli uomini,
credendo con la umiltà vincere la superbia.
Vedesi molte volte come l'umiltà non solamente non giova ma nuoce, massimamente usandola con gli uomini insolenti, che, o per invidia o per altra cagione, hanno concetto odio teco. Di che ne fa fede lo istorico nostro in questa cagione di guerra intra i Romani e i Latini. Perché, dolendosi i Sanniti con i Romani che i Latini gli avevano assaltati, i Romani non vollono proibire ai Latini tale guerra, disiderando non gli irritare: il che non solamente non gli irritò ma gli fece diventare più animosi contro a loro, e si scopersono più presto inimici. Di che ne fanno fede le parole usate dal prefato Annio pretore latino nel medesimo concilio, dov'e' dice: "Tentastis patientiam negando militem: quis dubitat exarsisse eos? Pertulerunt tamen hunc dolorem. Exercitus nos parare adversus Samnites, foederatos suos, audierunt, nec moverunt se ab urbe. Unde haec illis tanta modestia, nisi conscientia virium, et nostrarum et suarum?". Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo testo, quanto la pazienza de' Romani accrebbe l'arroganza de' Latini. E però, mai un principe debbe volere mancare del grado suo, e non debbe mai lasciare alcuna cosa d'accordo, volendola lasciare onorevolmente, se non quando e' la può, o ei si crede che la possa tenere: perché gli è meglio, quasi sempre, sendosi condotta la cosa in termine che tu non la possa lasciare nel modo detto, lasciarsela tôrre con le forze, che con la paura delle forze. Perché, se tu la lasci con la paura, lo fai per levarti la guerra, ed il più delle volte non te la lievi: perché colui a chi tu arai con una viltà scoperta concesso quella, non istarà saldo, ma ti vorrà tôrre delle altre cose, e si accenderà più contro a di te, stimandoti meno; e, dall'altra parte, in tuo favore troverrai i difensori più freddi, parendo loro che tu sia o debole o vile: ma se tu, subito scoperta la voglia dello avversario, prepari le forze, ancora che le siano inferiori a lui, quello ti comincerà a stimare; stimanti più gli altri principi allo intorno; e a tale viene voglia di aiutarti, sendo in su l'armi, che, abbandonandoti, non ti aiuterebbe mai. Questo s'intende quando tu abbia uno inimico; ma quando ne avessi più, rendere delle cose che tu possedessi a alcuno di loro per riguadagnarselo, ancora che fussi di già scoperta la guerra, e per ismembrarlo dagli altri confederati tuoi nimici, fia sempre partito prudente.
Cap.
15
Gli stati deboli sempre fiano ambigui
nel risolversi: e sempre le diliberazioni lente sono nocive.
In
questa medesima materia, ed in questi medesimi principii di
guerra intra i Latini ed i Romani, si può notare come in ogni
consulta è bene venire allo individuo di quello che si ha a
diliberare, e non stare sempre in ambiguo né in su lo incerto
della cosa. Il che si vede manifesto nella consulta che feciono i
Latini, quando ei pensavano alienarsi dai Romani. Perché, avendo
i Romani presentito questo cattivo umore che ne' popoli latini
era entrato, per certificarsi della cosa, e per veder se potevano
sanza mettere mano alle armi riguadagnarsi quegli popoli, fecero
loro intendere, come e' mandassono a Roma otto cittadini perché
avevano a consultare con loro. I Latini, inteso questo, ed avendo
coscienza di molte cose fatte contro alla voglia de' Romani,
fecioro concilio per ordinare chi dovesse ire a Roma e darli
commissione di quello ch'egli avesse a dire. E stando nel
concilio in questa disputa, Annio loro pretore disse queste
parole: "Ad summam rerum nostrarum pertinere arbitror, ut
cogitetis magis, quid agendum nobis, quam quid loquendum sit.
Facile erit, explicatis consiliis, accommodare rebus verba".
Sono, sanza dubbio, queste parole verissime e debbono essere da
ogni principe e da ogni republica gustate: perché, nella
ambiguità e nella incertitudine di quello che altri voglia fare,
non si sanno accomodare le parole, ma, fermo una volta l'animo, e
diliberato quello sia da esequire, è facil cosa trovarvi le
parole. Io ho notata questa parte più volentieri, quanto io ho
molte volte conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle
publiche azioni, con danno e con vergogna della republica nostra.
E sempre mal avverrà che ne' partiti dubbi e dove bisogna animo
a diliberargli, sarà questa ambiguità, quando abbiano a essere
consigliati e diliberati da uomini deboli.
Non sono meno nocive ancora le
diliberazioni lente e tarde, che le ambigue; massime quelle che
si hanno a diliberare in favore di alcuno amico; perché con la
lentezza loro non si aiuta persona, e nuocesi a sé medesimo.
Queste diliberazioni così fatte procedono o da debolezza d'animo
e di forze, o da malignità di coloro che hanno a diliberare i
quali, mossi dalla passione propria di volere rovinare lo stato o
adempiere qualche altro loro disiderio, non lasciano seguire la
diliberazione, ma la impediscono e la attraversono. Perché i
buoni cittadini, ancora che vegghino una foga popolare voltarsi
alla parte perniziosa, mai impediranno il diliberare, massime di
quelle cose che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo
tiranno in Siragusa, essendo la guerra grande intra i Cartaginesi
ed i Romani, vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire
l'amicizia romana o la cartaginese. E tanto era lo ardore delle
parti, che la cosa stava ambigua, né se ne prendeva alcuno
partito: insino a tanto che Apollonide, uno de' primi in Siracusa,
con una sua orazione piena di prudenza, mostrò come e' non era
da biasimare chi teneva la opinione di aderirsi ai Romani, né
quelli che volevano seguire la parte cartaginese; ma era bene da
detestare quella ambiguità e tardità di pigliare il partito,
perché vedeva al tutto in tale ambiguità la rovina della
republica; ma preso che si fussi il partito, qualunque si fusse,
si poteva sperare qualche bene. Né potrebbe mostrare più Tito
Livio, che si faccia in questa parte, il danno che si tira dietro
lo stare sospeso. Dimostralo ancora in questo caso de' Latini:
poiché, essendo i Lavinii ricerchi da loro d'aiuto contro ai
Romani, differirono tanto a diliberarlo, che, quando eglino erano
usciti appunto fuora della porta con le genti per dare loro
soccorso, venne la nuova i Latini essere rotti. Donde Milionio
loro pretore disse: - Questo poco della via ci costerà assai col
Popolo romano -. Perché, se si diliberavano prima, o di aiutare
o di non aiutare i Latini, non li aiutando, ei non irritavano i
Romani; aiutandogli, essendo lo aiuto in tempo, potevono con la
aggiunta delle loro forze fargli vincere; ma differendo, venivano
a perdere in ogni modo, come intervenne loro. E se i Fiorentini
avessono notato questo testo, non arebbono avuto co' Franciosi
né tanti danni né tante noie quante ebbono nella passata che il
re Luigi di Francia XII fece in Italia contro a Lodovico duca di
Milano. Perché, trattando il re tale passata, ricercò i
Fiorentini d'accordo: e gli oratori, che erano appresso al re,
accordarono con lui che si stessino neutrali, e che il re venendo
in Italia gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in
protezione: e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu
differita tale ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le
cose di Lodovico: intanto che, il re già sendo in su la vittoria,
e volendo poi i Fiorentini ratificare, non fu la ratificazione
accettata; come quello che conobbe i Fiorentini essere venuti
forzati e non voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla
città di Firenze assai danari, e fu per perdere lo stato: come
poi altra volta per simile causa le intervenne. E tanto più fu
dannabile quel partito, perché non si servì ancora a il duca
Lodovico; il quale, se avesse vinto, arebbe mostri molti più
segni d'inimicizia contro ai Fiorentini, che non fece il re. E
benché del male che nasce, alle republiche, di questa debolezza,
se ne sia di sopra in uno altro capitolo discorso, nondimeno,
avendone di nuovo occasione per uno nuovo accidente, ho voluto
replicarne parendomi, massime, materia che debba essere dalle
republiche, simili alla nostra, notata.
Cap.
16
Quanto i soldati de' nostri tempi si
disformino dagli antichi ordini.
La
più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra con
alcuna nazione dal Popolo romano, fu questa che ei fece con i
popoli latini, nel consolato di Torquato e di Decio. Perché ogni
ragione vuole che, così come i Latini per averla perduta
diventarono servi, così sarebbero stati servi i Romani, quando
non l'avessino vinta. E di questa opinione è Tito Livio; perché
in ogni parte fa gli eserciti pari di ordine, di virtù, d'ostinazione
e di numero: solo vi fa differenza, che i capi dello esercito
romano furono più virtuosi che quelli dello esercito latino.
Vedesi ancora come nel maneggio di questa giornata nacquono due
accidenti, non prima nati, e che dipoi hanno radi esempli: che,
di due Consoli, per tenere fermi gli animi de' soldati, ed
ubbidienti a' comandamenti loro, e diliberati al combattere l'uno
ammazzò sé stesso, e l'altro il figliuolo. La parità, che Tito
Livio dice essere in questi eserciti, era che, per avere militato
gran tempo insieme, erano pari di lingua, d'ordine e d'armi:
perché nello ordinare la zuffa tenevano uno modo medesimo; e gli
ordini e i capi degli ordini avevano i medesimi nomi. Era dunque
necessario, sendo di pari forze e di pari virtù, che nascesse
qualche cosa istraordinaria, che fermasse e facesse più ostinati
gli animi dell'uno che dell'altro: nella quale ostinazione
consiste, come altre volte si è detto, la vittoria; perché,
mentre che la dura ne' petti di quelli che combattono, mai non
dànno volta gli eserciti. E perché la durasse più ne' petti de'
Romani che de' Latini, parte la sorte, parte la virtù de'
Consoli fece nascere che Torquato ebbe a ammazzare il figliuolo,
e Decio sé stesso. Mostra Tito Livio, nel mostrare questa
parità di forze, tutto l'ordine che tenevono i Romani nelli
eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli largamente, non
replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello che io vi
giudico notabile, e quello che, per essere negletto da tutti i
capitani di questi tempi, ha fatto, negli eserciti e nelle zuffe,
di molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si
raccoglie come lo esercito romano aveva tre divisioni principali,
le quali toscanamente si possono chiamare tre schiere; e
nominavano la prima astati, la seconda principi, la terza triari:
e ciascuna di queste aveva i suoi cavagli. Nello ordinare una
zuffa, ei mettevano gli astati innanzi; nel secondo luogo, per
ritto, dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi; nel
terzo, pure nel medesimo filo, collocavano i triari. I cavagli di
tutti questi ordini gli ponevano a destra ed a sinistra di queste
tre battaglie; le stiere de' quali cavagli, dalla forma loro, e
dal luogo, si chiamavano "alae" perché parevano come
due alie di quel corpo. Ordinavono la prima stiera, degli astati,
che era nella fronte, serrata in modo insieme, che la potesse
spignere e sostenere il nimico. La seconda stiera, de' principi,
perché non era la prima a combattere, ma bene le conveniva
soccorrere alla prima quando fussi battuta o urtata, non la
facevano stretta, ma mantenevano i suoi ordini radi, e di
qualità che la potessi ricevere in sé, sanza disordinarsi, la
prima, qualunque volta, spinta dal nimico, fusse necessitata
ritirarsi. La terza stiera, de' triari, aveva ancora gli ordini
più radi che la seconda, per potere ricevere in sé, bisognando,
le due prime stiere, de' principi e degli astati. Collocate,
dunque, queste stiere in questa forma, appiccavano la zuffa: e,
se gli astati erano sforzati o vinti, si ritiravano nella radità
degli ordini de' principi; e, tutti uniti insieme, fatto di due
stiere uno corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora erano
ributtati, sforzati si ritiravano tutti nella rarità degli
ordini de' triari; e tutt'a tre le stiere, diventate uno corpo,
rinnovavano la zuffa: dove essendo superati, per non avere più
da rifarsi, perdevono la giornata. E perché ogni volta che
questa ultima stiera de' triari si adoperava, lo esercito era in
pericolo, ne nacque quel proverbio: "Res redacta est ad
triarios", che, a uso toscano, vuole dire:"Noi abbiamo
messa l'ultima posta". I capitani de' nostri tempi, come
egli hanno abbandonati tutti gli altri ordini, e della antica
disciplina non ne osservano parte alcuna, così hanno abbandonata
questa parte, la quale non è di poca importanza: perché chi si
ordina di potersi rifare nelle giornate tre volte, ha ad avere
tre volte inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere per
iscontro una virtù che sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi non
sta se non in sul primo urto, come stanno oggi tutti gli eserciti
cristiani, può facilmente perdere; perché ogni disordine, ogni
mezzana virtù gli può tôrre la vittoria. Quello che fa agli
eserciti nostri mancare di potersi rifare tre volte, è lo avere
perduto il modo di ricevere l'una stiera nell'altra. Il che nasce
perché al presente s'ordinano le giornate con uno di questi due
disordini: o ei mettono le loro stiere a spalle l'una dell'altra,
e fanno la loro battaglia, larga per traverso, e sottile per
diritto; il che la fa più debole, per avere poco dal petto alle
stiene. E quando pure, per farla più forte, ei riducano le
stiere per il verso de' Romani, se la prima fronte è rotta, non
avendo ordine di essere ricevuta dalla seconda, s'ingarbugliano
insieme tutte, e rompano sé medesime: perché, se quella dinanzi
è spinta, ella urta la seconda; se la seconda si vuole fare
innanzi, ella è impedita dalla prima: donde che, urtando la
prima la seconda, e la seconda la terza, ne nasce tanta
confusione, che spesso un minimo accidente rovina uno esercito.
Gli eserciti spagnuoli e franciosi nella zuffa di Ravenna, dove
morì monsignor de Fois capitano delle genti di Francia (la quale
fu, secondo i nostri tempi, assai bene combattuta giornata), s'ordinarono
con l'uno de' soprascritti modi; cioè che l'uno e l'altro
esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle: in modo
che non venivano avere né l'uno né l'altro se non una fronte,
ed erano assai più per il traverso che per il diritto. E questo
avviene loro sempre, dove egli hanno la campagna grande, come gli
avevano a Ravenna: perché, conoscendo il disordine che fanno nel
ritirarsi, mettendosi per un filo, lo fuggono, quando ei possono,
col fare la fronte larga, come è detto; ma quando il paese gli
ristrigne, si stanno nel disordine soprascritto, sanza pensare al
rimedio. Con questo medesimo disordine cavalcano per il paese
inimico, o se ei predano, o se fanno altro maneggio di guerra. Ed
a Santo Regolo in quel di Pisa, ed altrove, dove i Fiorentini
furono rotti da' Pisani ne' tempi della guerra che fu tra i
Fiorentini e quella città, per la sua ribellione dopo la passata
di Carlo re di Francia in Italia, non nacque tale rovina d'altronde
che dalla cavalleria amica; la quale, sendo davanti e ributtata
da' nimici, percosse nella fanteria fiorentina, e quella ruppe:
donde tutto il restante delle genti dierono volta: e messer
Ciriaco dal Borgo, capo antico delle fanterie fiorentine, ha
affermato alla presenza mia molte volte, non essere mai stato
rotto se non dalla cavalleria degli amici. I Svizzeri, che sono i
maestri delle moderne guerre, quando ei militano con i Franciosi,
sopra tutte le cose hanno cura di mettersi in lato, che la
cavalleria amica, se fusse ributtata, non gli urti. E benché
queste cose paiano facili ad intendere, e facilissime a farsi,
nondimeno non si è trovato ancora alcuno de' nostri
contemporanei capitani, che gli antichi ordini imiti, e i moderni
corregga. E benché gli abbino ancora loro tripartito lo esercito,
chiamando l'una parte antiguardo, l'altra battaglia, e l'altra
retroguardo; non se ne servono ad altro che a comandarli nelli
alloggiamenti, ma nello adoperargli, rade volte è, come di sopra
è detto, che a tutti questi corpi non faccino correre una
medesima fortuna.
E perché molti, per scusarne la
ignoranza loro, allegano che la violenza delle artiglierie non
patisce che in questi tempi si usino molti ordini de gli antichi,
voglio disputare nel seguente capitolo questa materia, e vo'
esaminare se le artiglierie impediscano che non si possa usare l'antica
virtù.
Cap.
17
Quanto si debbino stimare dagli
eserciti ne' presenti tempi le artiglierie; e se quella opinione,
che se ne ha in universale, è vera.
Considerando
io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate
ne' nostri tempi, con vocabolo francioso, giornate, e, dagli
Italiani, fatti d'arme) furono fatte da' Romani in diversi tempi,
mi è venuto in considerazione la opinione universale di molti,
che vuole che, se in quegli tempi fussono state le artiglierie,
non sarebbe stato lecito ai Romani, né sì facile, pigliare le
provincie, farsi tributari i popoli, come ei fecero; né arebbono
in alcuno modo fatto sì gagliardi acquisti. Dicono ancora, che,
mediante questi instrumenti de' fuochi, gli uomini non possono
usare né mostrare la virtù loro, come ei potevano anticamente.
E soggiungano una terza cosa: che si viene con più difficultà
alle giornate che non si veniva allora, né vi si può tenere
dentro quegli ordini di quegli tempi; talché la guerra si
ridurrà col tempo in su le artiglierie. E giudicando non fuora
di proposito disputare se tali opinioni sono vere, e quanto le
artiglierie abbino accresciuto o diminuito di forze agli eserciti,
e se le tolgano o danno occasione ai buoni capitani di operare
virtuosamente, comincerò a parlare quanto alla prima loro
opinione: che gli eserciti antichi romani non arebbano fatto gli
acquisti che feciono, se le artiglierie fussono state. Sopra che,
rispondendo, dico come e' si fa guerra o per difendersi o per
offendere; donde si ha prima a esaminare a quale di questi due
modi di guerra le faccino più utile o più danno. E benché sia
che dire da ogni parte, nondimeno io credo che sanza comparazione
faccino più danno a chi si difende, che a chi offende. La
ragione che io ne dico è, che quel che si difende, o egli è
dentro a una terra, o egli è in su i campi dentro a uno steccato.
S'egli è dentro a una terra, o questa terra è piccola, come
sono la maggior parte delle fortezze, o la è grande: nel primo
caso, chi si difende è al tutto perduto, perché l'impeto delle
artiglierie è tale che non truova muro, ancoraché grossissimo,
che in pochi giorni ei non abbatta; e se chi è dentro non ha
buoni spazi da ritirarsi e con fossi e con ripari, si perde; né
può sostenere l'impeto del nimico che volessi dipoi entrare per
la rottura del muro, né a questo gli giova artiglieria che
avessi: perché questa è una massima, che dove gli uomini in
frotta e con impeto possono andare, le artiglierie non gli
sostengono. Però i furori oltramontani nella difesa delle terre
non sono sostenuti: son bene sostenuti gli assalti italiani, i
quali, non in frotta ma spicciolati, si conducano alle battaglie,
le quali loro, per nome molto proprio, chiamano scaramucce. E
questi che vanno con questo disordine e questa freddezza a una
rottura d'un muro dove siano artiglierie, vanno a una manifesta
morte, e contro a loro le artiglierie vagliano: ma quegli che in
frotta condensati, e che l'uno spinge l'altro, vengono a una
rottura, se non sono sostenuti o da fossi o da ripari, entrono in
ogni luogo, e le artiglierie non gli tengono; e, se ne muore
qualcuno, non possono essere tanti che gl'impedischino la
vittoria.
Questo, essere vero, si è conosciuto in
molte espugnazioni fatte dagli oltramontani in Italia, e massime
in quella di Brescia: perché, sendosi quella terra ribellata da'
Franciosi, e tenendosi ancora per il re di Francia la fortezza,
avevano i Viniziani, per sostenere l'impeto che da quella potesse
venire nella terra, munita tutta la strada d'artiglierie, che
dalla fortezza alla città scendeva, e postene a fronte e ne'
fianchi, ed in ogni altro luogo opportuno. Delle quali monsignor
di Fois non fece alcuno conto; anzi, quello con il suo squadrone,
disceso a piede, passando per il mezzo di quelle, occupò la
città, né per quelle si sentì ch'egli avesse ricevuto alcuno
memorabile danno. Talché, chi si difende in una terra piccola,
come è detto, e truovisi le mura in terra, e non abbia spazio da
ritirarsi con i ripari e con fossi ed abbiasi a fidare in su le
artiglierie, si perde subito. Se tu difendi una terra grande, e
che tu abbia commodità di ritirarti, sono nondimanco sanza
comparazione più utili le artiglierie a chi è di fuori, che a
chi è dentro. Prima, perché, a volere che una artiglieria nuoca
a quegli che sono di fuora, tu se' necessitato levarti con essa
dal piano della terra; perché, stando in sul piano, ogni poco d'argine
e di riparo che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu non gli
puoi nuocere. Tanto che, avendoti a alzare, e tirarti in sul
corridoio delle mura, o in qualunque modo levarti da terra, tu ti
tiri dietro due difficultà: la prima, che tu non puoi condurvi
artiglierie della grossezza e della potenza che può trarre colui
di fuora, non si potendo ne' piccoli spazii maneggiare le cose
grandi: l'altra è, quando bene tu ve le potessi condurre, tu non
puoi fare quegli ripari fedeli e sicuri, per salvare detta
artiglieria, che possono fare quegli di fuori, essendo in sul
terreno, ed avendo quelle commodità e quello spazio che loro
medesimi vogliono: talmenteché, gli è impossibile, a chi
difende una terra, tenere le artiglierie ne' luoghi alti, quando
quegli che sono di fuori abbino assai artiglierie e potente; e se
egli hanno a venire con essa ne' luoghi bassi, ella diventa in
buona parte inutile, come è detto. Talché la difesa della
città si ha a ridurre a difenderla con le braccia, come
anticamente si faceva, e con l'artiglieria minuta: di che se si
trae un poco di utilità, rispetto a questa artiglieria minuta,
se ne cava incommodità che contrappesa alla commodità dell'artiglieria;
perché, rispetto a quella, si riducano le mura delle terre,
basse e quasi sotterrate ne' fossi: talché, come si viene alla
battaglia di mano, o per essere battute le mura o per essere
ripieni i fossi, ha, chi è dentro, molti più disavvantaggi che
non aveva allora. E però, come di sopra si disse, giovano questi
instrumenti molto più a chi campeggia le terre, che a chi è
campeggiato. Quanto alla terza cosa, di ridursi in un campo
dentro a uno steccato, per non fare giornata se non a tua
comodità o vantaggio, dico che in questa parte tu non hai più
rimedio, ordinariamente, a difenderti di non combattere, che si
avessono gli antichi; e qualche volta, per conto delle
artiglierie, hai maggiore disavvantaggio. Perché, se il nimico
ti giugne addosso, ed abbia un poco di vantaggio del paese, come
può facilmente intervenire, e truovisi più alto di te; o che
nello arrivare suo tu non abbia ancora fatti i tuoi argini, e
copertoti bene con quegli; subito, e sanza che tu abbia alcun
rimedio, ti disalloggia, e sei forzato uscire delle fortezze tue,
e venire alla zuffa. Il che intervenne agli Spagnuoli nella
giornata di Ravenna; i quali essendosi muniti tra 'l fiume del
Ronco ed uno argine, per non lo avere tirato tanto alto che
bastasse, e per avere i Franciosi un poco il vantaggio del
terreno, furono costretti dalle artiglierie uscire delle fortezze
loro, e venire alla zuffa. Ma dato, come il più delle volte
debbe essere, che il luogo che tu avessi preso con il campo fosse
più eminente che gli altri all'incontro, e che gli argini
fussono buoni e sicuri, talché, mediante il sito e l'altre tue
preparazioni il nimico non ardisse d'assaltarti; si verrà in
questo caso a quegli modi che anticamente si veniva, quando uno
era con il suo esercito in lato da non potere essere offeso: i
quali sono, correre il paese, pigliare o campeggiare le terre tue
amiche, impedirti le vettovaglie, tanto che tu sarai forzato da
qualche necessità a disalloggiare, e venire a giornata; dove le
artiglierie, come di sotto si dirà, non operano molto.
Considerato, adunque, di quali ragioni guerre feciono i Romani, e
veggendo come ei feciono quasi tutte le loro guerre per offendere
altrui e non per difendere loro, si vedrà, quando siano vere le
cose dette di sopra, come quelli arebbono avuto più vantaggio, e
più presto arebbono fatto i loro acquisti, se le fossono state
in quelli tempi.
Quanto alla seconda cosa, che gli uomini
non possono mostrare la virtù loro, come ei potevano anticamente,
mediante l'artiglieria; dico ch'egli è vero, che, dove gli
uomini spicciolati si hanno a mostrare, che ei portano più
pericoli che allora, quando avessono a scalare una terra, o fare
simili assalti, dove gli uomini non ristretti insieme ma di per
sé l'uno dall'altro avessono a comparire. È vero ancora, che
gli capitani e capi degli eserciti stanno sottoposti più a il
pericolo della morte che allora, potendo essere aggiunti con le
artiglierie in ogni luogo; né giova loro lo essere nelle ultime
squadre, e muniti di uomini fortissimi. Nondimeno si vede che l'uno
e l'altro di questi dua pericoli fanno rade volte danni
istraordinari: perché le terre munite bene non si scalano, né
si va con assalti deboli ad assaltarle; ma, a volerle espugnare,
si riduce la cosa a una ossidione, come anticamente si faceva. Ed
in quelle che pure per assalto si espugnano, non sono molto
maggiori i pericoli che allora: perché non mancavano anche in
quel tempo, a chi difendeva le terre, cose da trarre; le quali,
se non erano così furiose, facevano, quanto allo ammazzare gli
uomini, il simile effetto. Quanto alla morte de' capitani e
condottieri, ce ne sono, in ventiquattro anni che sono state le
guerre ne' prossimi tempi in Italia, meno esempli che non era in
dieci anni di tempo appresso agli antichi. Perché, dal conte
Lodovico della Mirandola, che morì a Ferrara quando i Viniziani,
pochi anni sono, assaltarono quello stato, ed il Duca di Nemors,
che morì alla Cirignuola, in fuori, non è occorso che d'artiglierie
ne sia morto alcuno; perché monsignore di Fois a Ravenna morì
di ferro, e non di fuoco. Tanto che, se gli uomini non dimostrano
particularmente la loro virtù, nasce, non dalle artiglierie, ma
dai cattivi ordini e dalla debolezza degli eserciti; i quali,
mancando di virtù nel tutto, non la possono mostrare nella parte.
Quanto alla terza cosa detta da costoro,
che non si possa venire alle mani, e che la guerra si condurrà
tutta in su l'artiglierie, dico questa opinione essere al tutto
falsa; e così fia sempre tenuta da coloro che secondo l'antica
virtù vorranno adoperare gli eserciti loro. Perché, chi vuole
fare uno esercito buono, gli conviene, con esercizi o fitti o
veri, assuefare gli uomini sua ad accostarsi al nimico, e venire
con lui al menare della spada ed a pigliarsi per il petto; e si
debbe fondare più in su le fanterie che in su' cavagli, per le
ragioni che di sotto si diranno. E quando si fondi in su i fanti
ed in su i modi predetti, diventono al tutto le artiglierie
inutili; perché con più facilità le fanterie, nello accostarsi
al nimico, possono fuggire il colpo delle artiglierie, che non
potevano anticamente fuggire l'impeto degli elefanti, de' carri
falcati, e d'altri riscontri inusitati, che le fanterie romane
riscontrarono; contro ai quali sempre trovarono il rimedio: e
tanto più facilmente lo arebbono trovato contro a queste, quanto
egli è più breve il tempo nel quale le artiglierie ti possano
nuocere, che non era quello nel quale potevano nuocere gli
elefanti ed i carri. Perché quegli nel mezzo della zuffa ti
disordinavano, queste, solo innanzi alla zuffa, t'impediscano: il
quale impedimento facilmente le fanterie fuggono, o con andare
coperte dalla natura del sito, o con abbassarsi in su la terra
quando le tirano. Il che anche, per isperienza, si è visto non
essere necessario, massime per difendersi dalle artiglierie
grosse; le quali non si possono in modo bilanciare, o che, se le
vanno alto, le non ti trovino, o che, se le vanno basso, le non
ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle mani, questo è chiaro
più che la luce, che né le grosse né le piccole ti possono
offendere: perché, se quello che ha l'artiglierie è davanti,
diventa tuo prigione; s'egli è dietro, egli offende prima l'amico
che te; a spalle ancora non ti può ferire in modo che tu non lo
possa ire a trovare, e ne viene a seguitare lo effetto detto. Né
questo ha molta disputa; perché se ne è visto l'esemplo de'
Svizzeri, i quali a Novara nel 1513, sanza artiglierie e sanza
cavagli, andarono a trovare lo esercito francioso, munito d'artiglierie,
dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza avere alcuno
impedimento da quelle. E la ragione è, oltre alle cose dette di
sopra, che l'artiglieria ha bisogno di essere guardata, a volere
che la operi, o da mura o da fossi o da argini; e come le
mancherà una di queste guardie, ella è prigione, o la diventa
inutile: come le interviene quando la si ha a difendere con gli
uomini; il che le interviene nelle giornate e zuffe campali. Per
fianco le non si possono adoperare, se non in quel modo che
adoperavano gli antichi gli instrumenti da trarre; che gli
mettevano fuori delle squadre, perché ei combattessono fuori
degli ordini; ed ogni volta che o da cavalleria o da altri erano
spinti, il rifugio loro era dietro alle legioni. Chi altrimenti
ne fa conto, non la intende bene, e fidasi sopra una cosa che
facilmente lo può ingannare. E se il Turco, mediante l'artiglieria,
contro al Sofi ed il Soldano ha avuto vittoria, è nato non per
altra virtù di quella che per lo spavento che lo inusitato
romore messe nella cavalleria loro.
Conchiuggo pertanto, venendo al fine di
questo discorso, l'artiglieria essere utile in uno esercito
quando vi sia mescolata l'antica virtù; ma, sanza quella, contro
a uno esercito virtuoso è inutilissima.
Cap.
18
Come per l'autorità de' Romani, e
per lo esemplo della antica milizia, si debba stimare più le
fanterie che i cavagli.
E'
si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare
chiaramente, quanto i Romani in tutte le militari azioni
estimassono più la milizia a piede che a cavallo, e sopra quella
fondassino tutti i disegni delle forze loro: come si vede per
molti esempli, ed infra gli altri, quando si azzuffarono con i
Latini appresso al lago Regillo; dove essendo già inclinato lo
esercito romano, per soccorrere ai suoi, fecero discendere, degli
uomini a cavallo, a piede, e per quella via, rinnovata la zuffa,
ebbono la vittoria. Dove si vede manifestamente, i Romani avere
più confidato in loro sendo a piede, che mantenendoli a cavallo.
Questo medesimo termine usarono in molte altre zuffe, e sempre lo
trovarono ottimo rimedio alli loro pericoli.
Né si opponga a questo la opinione d'Annibale,
il quale, veggendo in la giornata di Canne che i Consoli avevano
fatto discendere a piè li loro cavalieri, facendosi beffe di
simile partito, disse: "Quam mallem vinctos mihi traderent
equites!", cioè: - Io arei più caro che me gli dessino
legati -. La quale opinione, ancoraché la sia stata in bocca d'un
uomo eccellentissimo, nondimanco, se si ha ad ire dietro alla
autorità, si debbe più credere a una Republica romana, e a
tanti capitani eccellentissimi che furono in quella, che a uno
solo Annibale. Ancoraché, sanza le autorità, ce ne sia ragioni
manifeste: perché l'uomo a piede può andare in di molti luoghi,
dove non può andare il cavallo; puossi insegnarli servare l'ordine,
e, turbato che fussi, come e' lo abbia a riassumere: a' cavagli
è difficile fare servare l'ordine, ed impossibile, turbati che
sono, riordinargli. Oltre a questo, si truova, come negli uomini,
de' cavagli che hanno poco animo, e di quegli che ne hanno assai:
e molte volte interviene che un cavallo animoso è cavalcato da
un uomo vile, e uno cavallo vile da uno animoso; ed in qualunque
modo che segua questa disparità, ne nasce inutilità e disordine.
Possono le fanterie, ordinate, facilmente rompere i cavagli, e
difficilmente essere rotte da quegli. La quale opinione è
corroborata, oltre a molti esempli antichi e moderni, dalla
autorità di coloro che danno delle cose civili regola: dove ei
mostrano come in prima le guerre si cominciarono a fare con i
cavagli, perché non era ancora l'ordine delle fanterie ma come
queste si ordinarono, si conobbe subito quanto loro erano più
utili che quelli. Non è per questo però che i cavagli non siano
necessarii negli eserciti, e per fare scoperte, per iscorrere e
predare i paesi, per seguitare i nimici quando ei sono in fuga, e
per essere ancora in parte una opposizione ai cavagli degli
avversari: ma il fondamento e il nervo dello esercito, e quello
che si debbe più stimare, debbano essere le fanterie.
Ed infra i peccati de' principi italiani,
che hanno fatto Italia serva de' forestieri, non ci è il
maggiore che avere tenuto poco conto di questo ordine, ed avere
volto tutta la sua cura alla milizia a cavallo. Il quale
disordine è nato per la malignità de' capi, e per la ignoranza
di coloro che tenevano stato. Perché, essendosi ridotta la
milizia italiana da' venticinque anni indietro, in uomini che non
avevano stato, ma erano come capitani di ventura, pensarono
subito come potessero mantenersi la riputazione, stando armati
loro e disarmati i principi. E perché uno numero grosso di fanti
non poteva loro essere continovamente pagato, e non avendo
sudditi da potere valersene, ed uno piccol numero non dava loro
riputazione, si volsono a tenere cavagli: perché dugento o
trecento cavagli che erano pagati ad uno condottiere, lo
mantenevano riputato, ed il pagamento non era tale, che dagli
uomini che tenevono stato non potesse essere adempiuto. E perché
questo seguisse più facilmente, e per mantenersi più in
riputazione, levarono tutta l'affezione e la riputazione da'
fanti, e ridussonla in quelli loro cavagli: e in tanto crebbono
in questo disordine, che in qualunque grossissimo esercito era
una minima parte di fanteria. La quale usanza fece in modo debole,
insieme con molti altri disordini che si mescolarono con quella,
questa milizia italiana, che questa provincia è stata facilmente
calpesta da tutti gli oltramontani. Mostrasi più apertamente
questo errore, di stimare più i cavagli che le fanterie, per uno
altro esemplo romano. Erano i Romani a campo a Sora, ed essendo
uscito fuori della terra una turma di cavagli per assaltare il
campo, se gli fece allo incontro il Maestro de' cavagli romano
con la sua cavalleria; e datosi di petto, la sorte dette che nel
primo scontro i capi dell'uno e dell'altro esercito morirono; e
restati gli altri sanza governo, e durando nondimeno la zuffa, i
Romani, per superare più facilmente il nimico, scesono a piede,
e constrinsono i cavalieri inimici, se si vollono difendere, a
fare il simile: e, con tutto questo, i Romani ne riportarono la
vittoria. Non può essere questo esemplo maggiore in dimostrare
quanto sia più virtù nelle fanterie che ne' cavagli: perché,
se nelle altre fazioni i Consoli facevano discendere i cavalieri
romani, era per soccorrere alle fanterie che pativano, e che
avevano bisogno di aiuto; ma in questo luogo e' discesono, non
per soccorrere alle fanterie né per combattere con uomini a piè
de' nimici, ma combattendo a cavallo, con cavagli, giudicarono,
non potendo superargli a cavallo, potere, scendendo, più
facilmente vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una
fanteria ordinata non possa sanza grandissima difficultà essere
superata se non da un'altra fanteria. Crasso e Marc'Antonio
romani corsono per il dominio de' Parti molte giornate con
pochissimi cavagli ed assai fanteria, ed allo incontro avevano
innumerabili cavagli de' Parti. Crasso vi rimase, con parte dello
esercito, morto; Marc'Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco
in queste azioni romane si vide quanto le fanterie prevalevano ai
cavagli: perché, essendo in uno paese largo, dove i monti sono
radi, i fiumi radissimi, le marine longinque, e discosto da ogni
commodità, nondimanco Marc'Antonio, al giudicio de' Parti
medesimi, virtuosissimamente si salvò; né mai ebbeno ardire
tutta la cavalleria partica tentare gli ordini dello esercito suo.
Se Crasso vi rimase, chi leggerà bene le sue azioni vedrà come
e' vi fu piuttosto ingannato che sforzato: né mai, in tutti i
suoi disordini, i Parti ardirono d'urtarlo; anzi, sempre andando
costeggiandolo, impedendogli le vettovaglie, e promettendogli e
non gli osservando, lo condussono a una estrema miseria.
Io crederei avere a durare più fatica in
persuadere quanto la virtù delle fanterie è più potente che
quella de' cavalli se non ci fossono assai moderni esempli che ne
rendano testimonianza pienissima. E' si è veduto novemila
Svizzeri a Novara, da noi di sopra allegata, andare a affrontare
diecimila cavagli ed altrettanti fanti, e vincergli: perché i
cavagli non gli potevano offendere: i fanti, per essere gente in
buona parte guascona e male ordinata, la stimavano poco. Videsi
di poi ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra a Milano
Francesco re di Francia, che aveva seco ventimila cavagli,
quarantamila fanti, e cento carra d'artiglierie; e se non vinsono
la giornata come a Novara, ei la combatterono dua giorni
virtuosamente e dipoi, rotti ch'ei furono, la metà di loro si
salvarono. Presunse Marco Regolo Attilio, non solo con la
fanteria sua sostenere i cavagli, ma gli elefanti; e se il
disegno non gli riuscì, non fu però che la virtù della sua
fanteria non fosse tanta, ch' e' non confidasse tanto in lei che
credesse superare quella difficultà. Replico, pertanto, che, a
volere superare i fanti ordinati, è necessario opporre loro
fanti meglio ordinati di quegli: altrimenti, si va a una perdita
manifesta. Ne' tempi di Filippo Visconti, duca di Milano, scesono
in Lombardia circa sedicimila Svizzeri: donde quel Duca, avendo
per suo capitano allora il Carmignuola, lo mandò con circa mille
cavagli e pochi fanti all'incontro loro. Costui, non sappiendo l'ordine
del combattere loro, ne andò a incontrarli con i suoi cavagli,
presumendo poterli subito rompere. Ma trovatigli immobili, avendo
perduti molti de' suoi uomini, si ritirò: ed essendo
valentissimo uomo, e sappiendo negli accidenti nuovi pigliare
nuovi partiti, rifattosi di gente gli andò a trovare; e, venuto
loro all'incontro, fece smontare a piè tutte le sue genti d'armi,
e, fatto testa di quelle alle sue fanterie, andò ad investire i
Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio: perché, sendo le
genti d'armi del Carmignuola a piè e bene armate, poterono
facilmente entrare intra gli ordini de' Svizzeri, sanza patire
alcuna lesione ed entrati tra quegli poterono facilmente
offenderli: talché di tutto il numero di quegli, ne rimase
quella parte viva, che per umanità del Carmignuola fu conservata.
Io credo che molti conoschino questa
differenzia di virtù che è intra l'uno e l'altro di questi
ordini: ma è tanta la infelicità di questi tempi, che né gli
esempli antichi né i moderni né la confessione dello errore è
sufficiente a fare che i moderni principi si ravvegghino; e
pensino che, a volere rendere riputazione alla milizia d'una
provincia o d'uno stato, sia necessario risuscitare questi ordini,
tenergli appresso, dare loro riputazione, dare loro vita,
acciocché a lui e vita e riputazione rendino. E come ei deviano
da questi modi, così deviano dagli altri modi, detti di sopra:
onde ne nasce che gli acquisti sono a danno, non a grandezza, d'uno
stato; come di sotto si dirà.
Cap.
19
Che gli acquisti nelle republiche non
bene ordinate, e che secondo la romana virtù non procedano, sono
a ruina, non ad esaltazione di esse.
Queste
contrarie opinioni alla verità fondate in su i mali esempli che
da questi nostri corrotti secoli sono stati introdotti, fanno che
gli uomini non pensono a deviare dai consueti modi. Quando si
sarebbe potuto persuadere uno Italiano, da trenta anni in dietro
che diecimila fanti potessono assaltare in un piano diecimila
cavagli ed altrettanti fanti, e con quelli non solamente
combattere ma vincergli, come si vide per lo esemplo da noi più
volte allegato, a Novara? E benché le istorie ne siano piene,
tamen non ci arebbero prestato fede; e se ci avessero prestato
fede, arebbero detto che in questi tempi s'arma meglio, e che una
squadra di uomini d'arme sarebbe atta ad urtare uno scoglio, non
che una fanteria: e così con queste false scuse corrompevano il
giudizio loro; né arebbero considerato che Lucullo con pochi
fanti ruppe cento cinquantamila cavalli di Tigrane, e che fra
quelli cavalieri era una sorte di cavalleria simile al tutto agli
uomini d'arme nostri: e così, come questa fallacia è stata
scoperta dallo esemplo delle genti oltramontane. E come e' si
vede, per quello, essere vero, quanto alla fanteria, quello che
nelle istorie si narra, così doverrebbero credere essere veri e
utili tutti gli altri ordini antichi. E quando questo fusse
creduto, le republiche ed i principi errerebbero meno; sariano
più forti a opporsi a uno impeto che venisse loro addosso; non
spererebbero nella fuga; e quegli che avessono nelle mani uno
vivere civile, lo saperebbono meglio indirizzare, o per la via
dello ampliare, o per la via del mantenere; e crederebbono che lo
accrescere la città sua di abitatori, farsi compagni e non
sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fare
capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie e con le
giornate e non con le ossidioni, tenere ricco il publico, povero
il privato, mantenere con sommo studio gli esercizi militari,
fusse la vera via a fare grande una republica, e ad acquistare
imperio. E quando questo modo dello ampliare non gli piacessi,
penserebbe che gli acquisti per ogni altra via sono la rovina
delle republiche, e porrebbe freno a ogni ambizione; regolando
bene la sua città dentro con le leggi e co' costumi, proibendole
lo acquistare, e solo pensando a difendersi, e le difese tenere
ordinate bene: come fanno le republiche della Magna, le quali in
questi modi vivano e sono vivute libere un tempo.
Nondimeno, come altra volta dissi quando
discorsi la differenza che era, da ordinarsi per acquistare e
ordinarsi per mantenere; è impossibile che ad una republica
riesca lo stare quieta, e godersi la sua libertà e gli pochi
confini: perché, se lei non molesterà altrui, sarà molestata
ella; e dallo essere molestata le nascerà la voglia e la
necessità dello acquistare; e quando non avessi il nimico fuora,
lo troverrebbe in casa: come pare necessario intervenga a tutte
le gran cittadi. E se le republiche della Magna possono vivere
loro in quel modo, ed hanno potuto durare un tempo, nasce da
certe condizioni che sono in quel paese, le quali non sono
altrove, sanza le quali non potrebbero tenere simile modo di
vivere.
Era quella parte della Magna di che io
parlo, sottoposta allo Imperio romano come la Francia e la Spagna:
ma venuto dipoi in declinazione e ridottosi il titolo di tale
Imperio in quella provincia, cominciarono quelle città più
potenti, secondo la viltà o necessità degl'imperadori, a farsi
libere, ricomperandosi dallo Imperio, con riservargli un piccol
censo annuario; tanto che, a poco a poco, tutte quelle città che
erano immediate dello imperadore, e non erano suggette d'alcuno
principe, si sono in simil modo ricomperate. Occorse, in questi
medesimi tempi che queste città si ricomperavano, che certe
comunità sottoposte al duca di Austria si ribellarono da lui;
tra le quali fu Filiborg, e i Svizzeri, e simili; le quali
prosperando nel principio, pigliarono a poco a poco tanto
augumento, che, non che e' siano tornati sotto il giogo di
Austria, sono in timore a tutti i loro vicini: e questi sono
quegli che si chiamano i Svizzeri. È , adunque, questa provincia
compartita in Svizzeri, republiche che chiamano terre franche,
principi, ed imperadore. E la cagione che, intra tante diversità
di vivere, non vi nascano, o, se le vi nascano, non vi durano
molto le guerre, è quel segno dello imperadore; il quale,
avvenga che non abbi forze, nondimeno ha infra loro tanta
riputazione ch'egli è un loro conciliatore, e con l'autorità
sua, interponendosi come mezzano, spegne subito ogni scandolo. E
le maggiori e le più lunghe guerre vi siano state, sono quelle
che sono seguite intra i Svizzeri ed il duca d'Austria: e benché
da molti anni in qua lo imperadore ed il duca d'Austria sia una
medesima cosa, non pertanto non ha mai possuto superare l'audacia
de' Svizzeri; dove non è stato mai modo d'accordo, se non per
forza. Né il resto della Magna gli ha porti molti aiuti; sì
perché le comunità non sanno offendere chi vuole vivere libero
come loro; sì perché quelli principi, parte non possono, per
essere poveri, parte non vogliono, per avere invidia alla potenza
sua. Possono vivere, adunque, quelle comunità contente del
piccolo loro dominio, per non avere cagione, rispetto all'autorità
imperiale, di disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro
alle mura loro, per avere il nimico propinquo, e che piglierebbe
le occasioni di occuparle, qualunque volta le discordassono. Ché,
se quella provincia fusse condizionata altrimenti, converrebbe
loro cercare di ampliare e rompere quella loro quiete. E perché
altrove non sono tali condizioni, non si può prendere questo
modo di vivere; e bisogna o ampliare per via di leghe, o ampliare
come i Romani. E chi si governa altrimenti, cerca non la sua vita,
ma la sua morte e rovina: perché in mille modi e per molte
cagioni gli acquisti sono dannosi; perché gli sta molto bene,
insieme acquistare imperio e non forze; e chi acquista imperio e
non forze insieme, conviene che rovini. Non può acquistare forze
chi impoverisce nelle guerre, ancora che sia vittorioso, che ei
mette più che non trae degli acquisti: come hanno fatto i
Viniziani ed i Fiorentini, i quali sono stati molto più deboli,
quando l'uno aveva la Lombardia e l'altro la Toscana, che non
erano quando l'uno era contento del mare, e l'altro di sei miglia
di confini. Perché tutto è nato da avere voluto acquistare e
non avere saputo pigliare il modo: e tanto più meritano biasimo,
quanto eglino hanno meno scusa, avendo veduto il modo hanno
tenuto i Romani, ed avendo potuto seguitare il loro esemplo,
quando i Romani, sanza alcuno esemplo, per la prudenza loro, da
loro medesimi lo seppono trovare. Fanno, oltra di questo, gli
acquisti qualche volta non mediocre danno ad ogni bene ordinata
republica, quando e' si acquista una città o una provincia piena
di delizie, dove si può pigliare di quegli costumi per la
conversazione che si ha con quegli: come intervenne a Roma, prima,
nello acquisto di Capova, e dipoi, a Annibale. E se Capova fusse
stata più longinqua dalla città, che lo errore de' soldati non
avesse avuto il rimedio propinquo, o che Roma fusse stata in
alcuna parte corrotta, era, sanza dubbio, quello acquisto la
rovina della romana Repubblica. E Tito Livio fa fede di questo
con queste parole: "Iam tunc minime salubris militari
disciplinae Capua, instrumentum omnium voluptatum, delinitos
militum animos avertit a memoria patriae". E veramente,
simili città o provincie si vendicano contro al vincitore sanza
zuffa e sanza sangue; perché, riempiendogli de' suoi tristi
costumi, gli espongono a essere vinti da qualunque gli assalti. E
Iuvenale non potrebbe meglio, nelle sue satire, avere considerata
questa parte, dicendo che ne' petti romani per gli acquisti delle
terre peregrine erano entrati i costumi peregrini; ed in cambio
di parsimonia e d'altre eccellentissime virtù, "gula et
luxuria incubuit, victumque ulciscitur orbem". Se, adunque,
lo acquistare fu per essere pernizioso a' Romani ne' tempi che
quegli con tanta prudenzia e tanta virtù procedevono, che sarà
adunque a quegli che discosto dai modi loro procedono? e che,
oltre agli altri errori che fanno, di che se n'è di sopra
discorso assai, si vagliano de' soldati o mercenari o ausiliari?
Donde ne risulta loro spesso quelli danni di che nel seguente
capitolo si farà menzione.
Cap.
20
Quale pericolo porti quel principe o
quella republica che si vale della milizia ausiliare o mercenaria.
Se io non avessi lungamente trattato, in altra mia opera, quanto sia inutile la milizia mercenaria ed ausiliare, e quanto utile la propria, io mi stenderei in questo discorso assai più che non farò; ma avendone altrove parlato a lungo, sarò, in questa parte, brieve. Né mi è paruto in tutto da passarla, avendo trovato in Tito Livio, quanto a' soldati ausiliari, sì largo esemplo; perché i soldati ausiliari sono quegli che un principe o una republica manda, capitanati e pagati da lei, in tuo aiuto. E venendo al testo di Livio, dico che, avendo i Romani, in due diversi luoghi, rotti due eserciti de' Sanniti con gli eserciti loro, i quali avevano mandati al soccorso de' Capovani; e per questo liberi i Capovani da quella guerra che i Sanniti facevano loro; e volendo ritornare verso Roma, ed a ciò che i Capovani, spogliati di presidio, non diventassono di nuovo preda de' Sanniti; lasciarono due legioni nel paese di Capova, che gli difendesse. Le quali legioni marcendo nell'ozio, cominciarono a dilettarsi in quello; tanto che, dimenticata la patria e la reverenza del Senato, pensarono di prendere l'armi ed insignorirsi di quel paese che loro con la loro virtù avevano difeso; parendo loro che gli abitatori non fussono degni di possedere quegli beni che non sapevano difendere. La quale cosa presentita, fu da' Romani oppressa e corretta: come, dove noi parleremo delle congiure, largamente si mosterrà. Dico pertanto, di nuovo, come di tutte l'altre qualità de' soldati, gli ausiliari sono i più dannosi: perché in essi quel principe o quella repubblica che gli adopera in suo aiuto, non ha autorità alcuna, ma vi ha solo l'autorità colui che gli manda. Perché gli soldati ausiliarii sono quegli che ti sono mandati da uno principe, come ho detto, sotto i suoi capitani, sotto sue insegne e pagati da lui: come fu questo esercito che i Romani mandarono a Capova. Questi tali soldati, vinto ch'eglino hanno, il più delle volte predano così colui che gli ha condotti, come colui contro a chi e' sono condotti; e lo fanno o per malignità del principe che gli manda, o per ambizione loro. E benché la intenzione de' Romani non fusse di rompere l'accordo e le convenzioni avevano fatto co' Capovani; non per tanto la facilità che pareva a quegli soldati di opprimergli fu tanta, che gli potette persuadere a pensare di tôrre a' Capovani la terra e lo stato. Potrebbesi di questo dare assai esempli, ma voglio mi basti questo, e quello de' Regini, a' quali fu tolto la vita e la terra da una legione che i Romani vi avevano messa in guardia. Debbe, dunque, un principe o una republica pigliare prima ogni altro partito, che ricorrere a condurre nello stato suo per sua difesa genti ausiliarie, quando al tutto e' si abbia a fidare sopra quelle; perché ogni patto, ogni convenzione, ancora che dura, ch'egli arà col nimico gli sarà più leggieri che tale partito. E se si leggeranno bene le cose passate, e discorrerannosi le presenti, si troverrà, per uno che ne abbi avuto buono fine, infiniti esserne rimasi ingannati. Ed un principe o una republica ambiziosa non può avere la maggiore occasione di occupare una città o una provincia, che essere richiesto che mandi gli eserciti suoi alla difesa di quella. Pertanto, colui che è tanto ambizioso che, non solamente per difendersi ma per offendere altri, chiama simili aiuti, cerca d'acquistare quello che non può tenere, e che, da quello che gliene acquista, gli può facilmente essere tolto. Ma l'ambizione dell'uomo è tanto grande, che, per cavarsi una presente voglia, non pensa al male che è in breve tempo per risultargliene. Né lo muovono gli antichi esempli, così in questo come nell'altre cose discorse; perché, se e' fussono mossi da quegli, vedrebbero come, quanto più si mostra liberalità con i vicini, e di essere più alieno da occupargli, tanto più si gettono in grembo: come di sotto, per lo esemplo de' Capovani, si dirà.
Cap.
21
Il primo pretore ch'e' romani mandarono in alcuno luogo,
fu a Capova, dopo quattrocento anni che cominciarono a fare
guerra.
Quanto
i Romani, nel modo del procedere loro circa lo acquistare,
fossero differenti da quegli che ne' presenti tempi ampliano la
giurisdizione loro, si è assai di sopra discorso; e come e'
lasciavano quelle terre, che non disfacevano, vivere con le leggi
loro, eziandio quelle che, non come compagne, ma come suggette si
arrendevano loro; ed in esse non lasciavano alcuno segno d'imperio
per il Popolo romano, ma le obligavano a alcune condizioni, le
quali osservando le mantenevano nello stato e dignità loro. E
conoscesi questi modi essere stati osservati infino che gli
uscirono d'Italia, e che cominciarono a indurre i regni e gli
stati in provincie.
Di questo ne è chiarissimo esemplo, che
il primo Pretore che fussi mandato da loro in alcun luogo, fu a
Capova: il quale vi mandarono, non per loro ambizione, ma perché
e' ne furono ricerchi dai Capovani: i quali, essendo intra loro
discordia, giudicarono essere necessario avere dentro nella
città uno cittadino romano che gli riordinasse e riunisse. Da
questo esemplo gli Anziati mossi, e constretti dalla medesima
necessità, domandarono, ancora loro, uno Prefetto; e Tito Livio
dice, in su questo accidente, ed in su questo nuovo modo d'imperare
"quod jam non solum arma, sed iura romana pollebant".
Vedesi, pertanto, quanto questo modo facilitò lo augumento
romano. Perché quelle città, massime che sono use a vivere
libere, o consuete governarsi per sua provinciali, con altra
quiete stanno contente sotto uno dominio che non veggono, ancora
ch'egli avesse in sé qualche gravezza, che sotto quello che
veggendo ogni giorno, pare loro che ogni giorno sia rimproverata
loro la servitù. Appresso, ne seguita uno altro bene per il
principe: che, non avendo i suoi ministri in mano i giudicii ed i
magistrati che civilmente o criminalmente rendono ragione in
quelle cittadi, non può nascere mai sentenza con carico o
infamia del principe: e vengono per questa via a mancare molte
cagioni di calunnia e d'odio verso di quello. E che questo sia il
vero, oltre agli antichi esempli che se ne potrebbero addurre, ce
n'è uno esemplo fresco in Italia. Perché, come ciascuno sa,
sendo Genova stata più volte occupata da' Franciosi, sempre quel
re, eccetto che ne' presenti tempi, vi ha mandato uno governatore
francioso che in suo nome la governi. Al presente solo, non per
elezione del re, ma perché così ha ordinato la necessità, ha
lasciato governarsi quella città per sé medesima, e da uno
governatore genovese. E sanza dubbio, chi ricercasse quali di
questi due modi rechi più sicurtà al re, dello imperio d'essa,
e più contentezza a quegli popolari, sanza dubbio approverebbe
questo ultimo modo. Oltre a di questo, gli uomini tanto più ti
si gettono in grembo, quanto più tu pari alieno dallo occupargli;
e tanto meno ti temano per conto della loro libertà, quanto più
se' umano e dimestico con loro. Questa dimestichezza e
liberalità fece i Capovani correre a chiedere il Pretore a'
Romani: ché se a' Romani si fusse dimostro una minima voglia di
mandarvelo, subito sariano ingelositi, e si sarebbero discostati
da loro. Ma che bisogna ire per gli esempli a Capova ed a Roma,
avendone in Firenze ed in Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è
che la città di Pistoia venne volontariamente sotto lo imperio
fiorentino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata intra i
Fiorentini, e' Pisani, Lucchesi e Sanesi: e questa diversità di
animo non è nata, perché i Pistolesi non prezzino la loro
libertà come gli altri, e non si giudichino da quanto gli altri;
ma per essersi i Fiorentini portati con loro sempre come frategli,
e con gli altri come inimici. Questo ha fatto che i Pistolesi
sono corsi volontari sotto lo imperio loro: gli altri hanno fatto
e fanno ogni forza per non vi pervenire. E sanza dubbio, se i
Fiorentini o per vie di leghe o di aiuti avessero dimesticati e
non insalvatichiti i suoi vicini, a questa ora, sanza dubbio, e'
sarebbero signori di Toscana. Non è per questo che io giudichi
che non si abbia adoperare l'armi e le forze; ma si debbono
riservare in ultimo luogo dove e quando gli altri modi non
bastino.
Cap.
22
Quanto siano false molte volte le
opinioni degli uomini nel giudicare le cose grandi.
Quanto
siano false molte volte le opinioni degli uomini, lo hanno visto
e veggono coloro che si truovono testimoni delle loro
diliberazioni: le quali, molte volte, se non sono diliberate da
uomini eccellenti, sono contrarie ad ogni verità. E perché gli
eccellenti uomini nelle republiche corrotte, nei tempi quieti
massime, e per invidia e per altre ambiziose cagioni, sono
inimicati, si va dietro a quello che o, da uno comune inganno è
giudicato bene, o, da uomini che più presto vogliono i favori
che il bene dello universale, è messo innanzi. Il quale inganno
dipoi si scuopre nei tempi avversi, e per necessità si rifugge a
quegli che nei tempi quieti erano come dimenticati: come nel suo
luogo in questa parte appieno si discorrerà. Nascono ancora
certi accidenti, dove facilmente sono ingannati gli uomini che
non hanno grande isperienza delle cose, avendo in sé, quello
accidente che nasce, molti verisimili, atti a fare credere quello
che gli uomini sopra tale caso si persuadono. Queste cose si sono
dette per quello che Numicio pretore, poiché i Latini furono
rotti dai Romani, persuase loro, e per quello che, pochi anni
sono si credeva per molti, quando Francesco I re di Francia venne
allo acquisto di Milano, che era difeso da' Svizzeri. Dico
pertanto che, sendo morto Luigi XII, e succedendo nel regno di
Francia Francesco d'Angolem, e desiderando restituire al regno il
ducato di Milano, stato, pochi anni davanti, occupato da'
Svizzeri mediante i conforti di Papa Iulio II, desiderava avere
aiuti in Italia che gli facilitassero la impresa; ed oltre a'
Viniziani, che Luigi si aveva riguadagnati, tentava i Fiorentini
e papa Leone X; parendogli la sua impresa più facile, qualunque
volta si avesse riguadagnati costoro, per essere genti del re di
Spagna in Lombardia, ed altre forze dello imperadore in Verona.
Non cedé Papa Leone alle voglie del re, ma fu persuaso da quegli
che lo consigliavano (secondo si disse) si stesse neutrale,
mostrandogli in questo partito consistere la vittoria certa:
perché per la Chiesa non si faceva avere potenti in Italia né
il re né i Svizzeri ma, volendola ridurre nell'antica libertà,
era necessario liberarla dalla servitù dell'uno e dell'altro. E
perché vincere l'uno e l'altro, o di per sé o tutti a dua
insieme, non era possibile; conveniva che superassino l'uno l'altro,
e che la Chiesa con gli suoi amici urtasse quello, poi, che
rimanesse vincitore. Ed era impossibile trovare migliore
occasione che la presente, sendo l'uno e l'altro in su i campi,
ed avendo il Papa le sue forze a ordine da potere rappresentarsi
in su i confini di Lombardia, e propinquo a l'uno e l'altro
esercito, sotto colore di volere guardare le cose sue, e quivi
stare tanto che venissono alla giornata, la quale ragionevolmente,
sendo l'uno e l'altro esercito virtuoso, doverrebbe essere
sanguinosa per tutte a due le parti, e lasciare in modo
debilitato il vincitore che fusse al Papa facile assaltarlo e
romperlo: e così verrebbe con sua gloria a rimanere signore di
Lombardia, ed arbitro di tutta Italia. E quanto questa opinione
fusse falsa, si vide per lo evento della cosa: perché, sendo
dopo una lunga zuffa suti superati i Svizzeri, non che le genti
del Papa e di Spagna presumessero assaltare i vincitori, ma si
prepararono alla fuga; la quale ancora non sarebbe loro giovata,
se non fusse stato o la umanità o la freddezza del re, che non
cercò la seconda vittoria, ma li bastò fare accordo con la
Chiesa.
Ha questa opinione certe ragioni che
discosto paiono vere, ma sono al tutto aliene dalla verità.
Perché, rade volte accade che il vincitore perda assai suoi
soldati: perché de' vincitori ne muore nella zuffa, non nella
fuga; e nello ardore del combattere, quando gli uomini hanno
volto il viso l'uno all'altro, ne cade pochi, massime perché la
dura poco tempo, il più delle volte; e quando pure durasse assai
tempo e de' vincitori ne morisse assai, è tanta la riputazione
che si tira dietro la vittoria, ed il terrore che la porta seco,
che di lungi avanza il danno che per la morte de' suoi soldati
avesse sopportato. Talché, se uno esercito il quale, in su la
opinione che fusse debilitato, andasse a trovarlo, si troverrebbe
ingannato; se già, e' non fusse lo esercito tale che d'ogni
tempo, e innanzi alla vittoria e poi, potesse combatterlo. In
questo caso ei potrebbe, secondo la sua fortuna e virtù, vincere
e perdere; ma quello che si fusse azzuffato prima, ed avesse
vinto, arebbe più tosto vantaggio dall'altro. Il che si conosce
certo per la isperienza de' Latini, e per la fallacia che Numizio
pretore prese, e per il danno che ne riportarono quegli popoli
che gli crederono: il quale, vinto che i Romani ebbero i Latini,
gridava per tutto il paese di Lazio, che allora era tempo
assaltare i Romani debilitati per la zuffa avevano fatta con loro;
e che solo appresso a' Romani era rimaso il nome della vittoria,
ma tutti gli altri danni avevano sopportati come se fussino stati
vinti; e che ogni poco di forza che di nuovo gli assaltasse, era
per spacciargli. Donde quegli popoli, che gli crederono, fecero
nuovo esercito, e subito furono rotti, e patirono quel danno che
patiranno sempre coloro che terranno simile opinione.
Cap.
23
Quanto i Romani nel giudicare i
sudditi per alcuno accidente che necessitasse tale giudizio
fuggivano la via del mezzo.
"Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem neque bellum pati possent". Di tutti gli stati infelici, è infelicissimo quello d'uno principe o d'una republica che è ridotto in termine che non può ricevere la pace o sostenere la guerra: a che si riducono quegli che sono dalle condizioni della pace troppo offesi; e dall'altro canto, volendo fare guerra, conviene loro o gittarsi in preda di chi gli aiuti o rimanere preda del nimico. Ed a tutti questi termini si viene, pe' cattivi consigli e cattivi partiti, da non avere misurato bene le forze sue, come di sopra si disse. Perché quella republica o quel principe che bene le misurasse, con difficultà si condurrebbe nel termine si condussono i Latini: i quali, quando non dovevano accordare con i Romani, accordarono; e quando ei non dovevano rompere loro guerra, la ruppono: e così seppono fare in modo, che la inimicizia ed amicizia de' Romani fu loro equalmente dannosa. Erano, dunque, vinti i Latini ed al tutto afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi da Cammillo: il quale, avendogli costretti a darsi e rimettersi nelle braccia de' Romani, ed avendo messo la guardia per tutte le terre di Lazio, e preso da tutte gli statichi; tornato in Roma, referì al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E perché questo giudizio è notabile, e merita di essere osservato, per poterlo imitare quando simili occasioni sono date a' principi, io voglio addurre le parole di Livio, poste in bocca di Cammillo; le quali fanno fede e del modo che i Romani tennono in ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre fuggirono la via del mezzo, e si volsono agli estremi. Perché uno governo non è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni via da nuocerti, o con benificarli in modo, che non sia ragionevole ch'eglino abbiano a desiderare di mutare fortuna. Il che tutto si comprende, e prima per la proposta di Cammillo, e poi per il giudizio dato dal Senato sopra quella. Le parole sue furono queste: "Dii immortales ita vos potentes huius consilii fecerunt, ut, sit Latium an non sit, in vestra manu posuerint. Itaque pacem vobis, quod ad Latinos attinet, parare in perpetuum, vel saeviendo vel ignoscendo potestis. Vultis crudelius consulere in dedititios victosque? licet delere omne Latium. Vultis, exemplo maiorum, augere rem romanam, victos in civitatem accipiendo? materia crescendi per summam gloriam suppeditat. Certe id firmissimum imperium est, quo obedientes gaudent. Illorum igitur animos, dum expectatione stupent, seu poena seu beneficio praeoccupari oportet". A questa proposta successe la diliberazione del Senato: la quale fu secondo le parole del Consolo, che, recatosi innanzi, terra per terra, tutti quegli ch'erano di momento, o e' gli benificarono o e' gli spensono, faccendo ai beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da ogni parte assicurandogli; di quegli altri sfasciarono le terre, mandoronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli talmente che con l'armi e con il consiglio non potevono più nuocere. Né usarono mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di momento. Questo giudizio debbono i principi imitare. A questo dovevano accostarsi i Fiorentini, quando nel 1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessono fatto, arebbero assicurato lo imperio loro, e fatto grandissima la città di Firenze, e datogli quegli campi che per vivere gli mancono. Ma loro usorono quella via del mezzo, la quale è dannosissima nel giudicare gli uomini; e parte degli Aretini confinarono, parte ne condennarono; a tutti tolsono gli onori e gli loro antichi gradi nella città; e lasciarono la città intera. E se alcuno cittadino nelle diliberazioni consigliava che Arezzo si disfacesse; a quegli che pareva essere più savi, dicevano come e' sarebbe poco onore della republica disfarla, perché e' parrebbe che Firenze mancasse di forze da tenerli. Le quali ragioni sono di quelle che paiono e non sono vere; perché con questa medesima ragione non si arebbe a ammazzare uno parricida, uno scelerato e scandoloso, sendo vergogna di quel principe mostrare di non avere forze da potere frenare uno uomo solo. E non veggono, questi tali che hanno simili opinioni, come gli uomini particularmente ed una città tutta insieme pecca tal volta contro a uno stato, che, per esemplo agli altri, per sicurtà di sé, non ha altro rimedio uno principe che spegnerla. E l'onore consiste nel potere e sapere gastigarla, non nel potere con mille pericoli tenerla: perché quel principe che non gastiga chi erra, in modo che non possa più errare, è tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia necessario si conferma ancora per la sentenza che dettero de' Privernati. Dove si debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l'una, quello che di sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o benificare o spegnere: l'altra, quanto la generosità dell'animo, quanto il parlare il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini prudenti. Era ragunato il Senato romano per giudicare de' Privernati, i quali, sendosi ribellati, erano di poi per forza ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano mandati dal popolo di Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno de' Senatori, "quam poenam meritos Privernates censeret". Al quale il Privernate rispose: "Eam, quam merentur qui se libertate dignos censent". Al quale il Consolo replicò: "Quid si poenam remittimus vobis, qualem nos pacem vobiscum habituros speremus?". A che quello rispose: "Si bonam dederitis, et fidelem et perpetuam,si malam, haud diuturnam". Donde la più savia parte del Senato, ancora che molti se ne alterassono, disse: "se audivisse vocem et liberi et viri; nec credi posse ullum populum, aut hominem, denique in ea conditione cuius eum poeniteat diutius quam necesse sit, mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi voluntarii pacati sint, neque eo loco ubi servitutem esse velint, fidem sperandam esse". Ed in su queste parole, deliberarono che i Privernati fossero cittadini romani, e de' privilegi della civilità gli onorarono, dicendo: "eos demum qui nihil praeterquam de libertate cogitant, dignos esse, qui Romani fiant". Tanto piacque agli animi generosi questa vera e generosa risposta; perché ogni altra risposta sarebbe stata bugiarda e vile. E coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che sono usi o a essere o a parere loro essere liberi, se ne ingannono; e sotto questo inganno pigliano partiti non buoni per sé, e da non satisfare a loro. Di che nascano le spesse ribellioni, e le rovine degli stati. Ma per tornare al discorso nostro, conchiudo, e per questo e per quel giudizio dato de' Latini: quando si ha a giudicare cittadi potenti e che sono use a vivere libere, conviene o spegnerle o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è vano. E debbesi fuggire al tutto la via del mezzo, la quale è dannosa, come la fu ai Sanniti quando avevano rinchiusi i Romani alle Forche Gaudine; quando non vollero seguire il parere di quel vecchio, che consigliò che i Romani si lasciassero andare onorati, o che si ammazzassero tutti; ma pigliando una via di mezzo, disarmandogli e mettendogli sotto il giogo, gli lasciarono andare pieni d'ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi conobbono con loro danno la sentenza di quel vecchio essere stata utile, e la loro diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a pieno si discorrerà.
Cap.
24
Le fortezze generalmente sono molto
più dannose che utili.
E'
parrà forse a questi savi de' nostri tempi cosa non bene
considerata, che i Romani, nel volere assicurarsi de' popoli di
Lazio e della città di Priverno, non pensassono di edificarvi
qualche fortezza, la quale fosse uno freno a tenergli in fede;
sendo, massime, un detto in Firenze, allegato da' nostri savi,
che Pisa e l'altre simili città si debbono tenere con le
fortezze. E veramente, se i Romani fussono stati fatti come loro,
egli arebbero pensato di edificarle; ma perché gli erano d'altra
virtù, d'altro giudizio, d'altra potenza, e' non le edificarono.
E mentre che Roma visse libera, e che la seguì gli ordini suoi e
le sue virtuose constituzioni, mai n'edificò per tenere o città
o provincie, ma salvò bene alcuna delle edificate. Donde veduto
il modo del procedere de' Romani in questa parte, e quello de'
principi de' nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione,
s'egli è bene edificare fortezze, o se le fanno danno o utile a
quello che l'edifica. Debbesi, adunque, considerare come le
fortezze si fanno o per difendersi dagl'inimici o per difendersi
da' suggetti. Nel primo caso le non sono necessarie; nel secondo,
dannose. E cominciando a rendere ragione perché, nel secondo
caso, le siano dannose, dico che quel principe o quella republica
che ha paura de' sudditi suoi e della rebellione loro, prima
conviene che tale paura nasca da odio che abbiano i suoi sudditi
seco; l'odio, da' mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono
o da potere credere tenergli con forza, o da poca prudenza di chi
gli governa: ed una delle cose che fa credere potergli forzare,
è l'avere loro addosso le fortezze; perché e' mali trattamenti,
che sono cagione dell'odio, nascono in buona parte per avere quel
principe o quella republica le fortezze: le quali, quando sia
vero questo, di gran lunga sono più nocive che utili. Perché in
prima, come è detto, le ti fanno essere più audace e più
violento ne' sudditi; dipoi, non vi è quella sicurtà, dentro,
che tu ti persuadi: perché tutte le forze, tutte le violenze che
si usono per tenere uno popolo, sono nulla, eccetto che due; o
che tu abbia sempre da mettere in campagna uno buono esercito,
come avevano i Romani, o che gli dissipi, spenga, disordini e
disgiunga, in modo che non possano convenire a offenderti.
Perché, se tu gl'impoverisci, "spoliatis arma supersunt";
se tu gli disarmi, "furor arma ministrat"; se tu
ammazzi i capi, e gli altri segui d' ingiuriare, rinascono i capi,
come quelli della Idra, se tu fai le fortezze, le sono utili ne'
tempi di pace, perché ti dànno più animo a fare loro male ma
ne' tempi di guerra sono inutilissime, perché le sono assaltate
dal nimico e da' sudditi, né è possibile che le faccino
resistenza ed all'uno ed all'altro. E se mai furono disutili,
sono, ne' tempi nostri, rispetto alle artiglierie; per il furore
delle quali i luoghi piccoli e dove altri non si possa ritirare
con gli ripari, è impossibile difendere, come di sopra
discorremo.
Io voglio questa materia disputarla più
tritamente. O tu, principe, vuoi con queste fortezze tenere in
freno il popolo della tua città; o tu, principe, o republica,
vuoi frenare una città occupata per guerra. Io mi voglio voltare
al principe, e gli dico: che tale fortezza, per tenere in freno i
suoi cittadini, non può essere più inutile per le cagioni dette
di sopra; perché la ti fa più pronto e men rispettivo a
oppressargli; e quella oppressione gli fa sì disposti alla tua
rovina, e gli accende in modo, che quella fortezza, che ne è
cagione, non ti può poi difendere. Tanto che un principe savio e
buono, per mantenersi buono, per non dare cagione né ardire a'
figliuoli di diventare tristi, mai non farà fortezza, acciocché
quelli, non in su le fortezze, ma in su la benivolenza degli
uomini si fondino. E se il conte Francesco Sforza, diventato duca
di Milano, fu riputato savio, e nondimeno fece in Milano una
fortezza, dico che in questo ei non fu savio, e lo effetto ha
dimostro come tale fortezza fu a danno, e non a sicurtà de' suoi
eredi. Perché giudicando mediante quella vivere sicuri, e potere
offendere i cittadini e sudditi loro, non perdonarono a alcuna
generazione di violenza; talché, diventati sopra modo odiosi,
perderono quello stato come prima il nimico gli assaltò: né
quella fortezza gli difese, né fece loro nella guerra utile
alcuno, e nella pace aveva fatto loro danno assai. Perché se non
avessono avuto quella, e se per poca prudenza avessono agramente
maneggiati i loro cittadini, arebbono scoperto il pericolo più
tosto, e sarebbonsene ritirati; e arebbono poi potuto più
animosamente resistere allo impeto francioso, co' sudditi amici
sanza fortezza, che, con quelli inimici, con la fortezza: le
quali non ti giovano in alcuna parte; perché, o le si perdono
per fraude di chi le guarda, o per violenza di chi le assalta, o
per fame. E se tu vuoi che le ti giovino, e ti aiutino ricuperare
uno stato perduto, dove ti sia rimasa solo la fortezza; ti
conviene avere uno esercito, con il quale tu possa assaltare
colui che ti ha cacciato: e quando tu abbi questo esercito, tu
riaresti lo stato in ogni modo, eziandio la fortezza non vi fosse;
e tanto più facilmente, quanto gli uomini ti fossono più amici
che non ti erano avendogli male trattati per l'orgoglio della
fortezza. E per isperienza si è visto, come questa fortezza di
Milano, né agli Sforzeschi né a' Franciosi, ne' tempi avversi
dell'uno e dell'altro, non ha fatto a alcuno di loro utile alcuno,
anzi a tutti ha arrecato danno e rovine assai, non avendo pensato,
mediante quella, a più onesto modo di tenere quello stato.
Guidubaldo duca di Urbino, figliuolo di Federigo, che fu ne' suoi
tempi tanto stimato capitano, sendo cacciato da Cesare Borgia,
figliuolo di papa Alessandro VI, dello stato; come dipoi, per uno
accidente nato, vi ritornò, fece rovinare tutte le fortezze che
erano in quella provincia, giudicandole dannose. Perché, sendo
quello amato dagli uomini, per rispetto di loro non le voleva; e,
per conto de' nimici, vedeva non le potere difendere, avendo
quelle bisogno d'uno esercito in campagna, che le difendesse:
talché si volse a rovinarle. Papa Iulio, cacciati i Bentivogli
di Bologna fece in quella città una fortezza; e dipoi faceva
assassinare quel popolo da uno suo governatore: talché quel
popolo si ribellò; e subito perdé la fortezza; e così non gli
giovò la fortezza; e l'offese, intanto che, portandosi
altrimenti, gli arebbe giovato. Niccolò da Castello, padre de'
Vitelli, tornato nella sua patria donde era esule, subito disfece
due fortezze vi aveva edificate papa Sisto IV, giudicando, non la
fortezza, ma la benivolenza del popolo lo avesse a tenere in
quello stato. Ma di tutti gli altri esempli il più fresco ed il
più notabile in ogni parte ed atto a mostrare la inutilità
dello edificarle e l'utilità del disfarle, è quello di Genova,
seguito ne' prossimi tempi. Ciascuno sa come, nel 1507, Genova si
ribellò da Luigi XII re di Francia, il quale venne personalmente
e con tutte le forze sue a riacquistarla; e ricuperata che la
ebbe, fece una fortezza, fortissima di tutte le altre delle quali
al presente si avesse notizia: perché era, per sito e per ogni
altra circunstanza, inespugnabile, posta in su una punta di colle
che si estende nel mare, chiamato da' Genovesi Codefà; e, per
questo, batteva tutto il porto e gran parte della città di
Genova. Occorse poi, nel 1512, che, sendo cacciate le genti
franciose d'Italia, Genova, nonostante la fortezza, si ribellò,
e prese lo stato di quella Ottaviano Fregoso; il quale con ogni
industria, in termine di sedici mesi, per fame la espugnò. E
ciascuno credeva, e da molti n'era consigliato, che la
conservasse per suo refugio in ogni accidente; ma esso, come
prudentissimo, conoscendo che non le fortezze, ma la volontà
degli uomini mantenevono i principi in stato, la rovinò. E così,
sanza fondare lo stato suo in su la fortezza, ma in su la virtù
e prudenza sua, lo ha tenuto e tiene. E dove a variare lo stato
di Genova solevano bastare mille fanti, gli avversari suoi lo
hanno assaltato con diecimila, e non lo hanno potuto offendere.
Vedesi adunque per questo, come il disfare la fortezza non ha
offeso Ottaviano, ed il farla non difese il re. Perché, quando
ei potette venire in Italia con lo esercito, ei potette
ricuperare Genova, non vi avendo fortezza; ma quando ei non
potette venire in Italia con lo esercito, ei non potette tenere
Genova, avendovi la fortezza. Fu, adunque, di spesa a il re il
farla, e vergognoso il perderla; a Ottaviano, glorioso il
riacquistarla, ed utile il rovinarla.
Ma vegnamo alle republiche che fanno le
fortezze non nella patria, ma nelle terre che le acquistano. Ed a
mostrare questa fallacia, quando e' non bastasse lo esemplo detto,
di Francia e di Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa: dove i
Fiorentini fecero le fortezze per tenere quella città; e non
conobbero che una città stata sempre inimica del nome fiorentino,
vissuta libera, e che ha alla rebellione per rifugio la libertà,
era necessario, volendola tenere, osservare il modo romano; o
farsela compagna, o disfarla. Perché la virtù delle fortezze si
vide nella venuta del re Carlo; al quale si dettono o per poca
fede di chi le guardava o per timore di maggiore male: dove, se
le non fussono state, i Fiorentini non arebbero fondato il potere
tenere Pisa sopra quelle, e quel re non arebbe potuto per quella
via privare i Fiorentini di quella città; e i modi con gli quali
si fusse mantenuta infino a quel tempo, sarebbono stati per
avventura sufficienti conservarla, e sanza dubbio non arebbero
fatto più cattiva prova che le fortezze. Conchiudo adunque, che,
per tenere la patria propria, la fortezza è dannosa; per tenere
le terre che si acquistono, le fortezze sono inutili: e voglio mi
basti l'autorità de' Romani, i quali, nelle terre che volevano
tenere con violenza, smuravano, e non muravano. E chi contro a
questa opinione mi allegasse negli antichi tempi Taranto, e ne'
moderni Brescia, i quali luoghi mediante le fortezze furono
recuperati dalla ribellione de' sudditi, rispondo che alla
ricuperazione di Taranto, in capo di uno anno, fu mandato Fabio
Massimo con tutto lo esercito, il quale sarebbe stato atto a
ricuperarlo eziandio se non vi fusse stata la fortezza, e se
Fabio usò quella via, quando la non vi fusse stata, ne arebbe
usata un'altra che arebbe fatto il medesimo effetto. Ed io non so
di che utilità sia una fortezza che, a renderti la terra, abbia
bisogno, per la ricuperazione d'essa, d'uno esercito consolare e
d'uno Fabio Massimo per capitano. E che i Romani l'avessono
ripresa in ogni modo, si vede per l'esemplo di Capova; dove non
era fortezza, e per virtù dello esercito la riacquistarono. Ma
vegnamo a Brescia. Dico, come rade volte occorre quello che
occorse in quella rebellione, che la fortezza che rimane nelle
forze tua, sendo ribellata la terra, abbi uno esercito grosso e
propinquo, come era quel de' Franciosi: perché, sendo monsignor
di Fois, capitano del re, con lo esercito a Bologna, intesa la
perdita di Brescia, sanza differire ne andò a quella volta, ed
in tre giorni arrivato a Brescia, per la fortezza riebbe la terra.
Ebbe, pertanto, ancora la fortezza di Brescia, a volere che la
giovasse, bisogno d'un monsignor di Fois, e d'uno esercito
francioso che in tre dì la soccorresse. Sì che lo esemplo di
questo, allo incontro delli esempli contrari, non basta; perché
assai fortezze sono state, nelle guerre de' nostri tempi, prese e
riprese con la medesima fortuna che si è ripresa e presa la
campagna, non solamente in Lombardia, ma in Romagna, nel regno di
Napoli, e per tutte le parti d'Italia. Ma, quanto allo edificare
fortezze per difendersi da' nimici di fuori, dico che le non sono
necessarie a quelli popoli ed a quelli regni che hanno buoni
eserciti; ed a quegli che non hanno buoni eserciti, sono inutili:
perché i buoni eserciti sanza le fortezze sono sofficienti a
difendersi; le fortezze sanza i buoni eserciti non ti possono
difendere. E questo si vede per isperienza di quegli che sono
stati e ne' governi e nell'altre cose tenuti eccellenti; come si
vede de' Romani e degli Spartani: che, se i Romani non
edificavano fortezze, gli Spartani, non solamente si astenevano
da quelle, ma non permettevano di avere mura alle loro città;
perché volevono che la virtù dell'uomo particulare, non altro
defensivo, gli difendesse. Dond'è che, sendo domandato uno
Spartano da uno Ateniese, se le mura di Atene gli parevano belle,
gli rispose: - Sì, s'elle fussono abitate da donne -. Quello
principe, adunque, che abbi buoni eserciti, quando in sulle
marine e alla fronte dello stato suo abbia qualche fortezza che
possa qualche dì sostenere el nimico infino che sia a ordine,
sarebbe cosa utile, qualche volta, ma non è necessaria. Ma
quando il principe non ha buono esercito, avere le fortezze per
il suo stato, o alle frontiere, gli sono o dannose o inutili:
dannose, perché facilmente le perde, e perdute gli fanno guerra;
o, se pure le fussono sì forti che il nimico non le potessi
occupare, sono lasciate indietro dallo esercito inimico, e
vengono a essere di nessuno frutto; perché i buoni eserciti,
quando non hanno gagliardissimo riscontro, entrano ne' paesi
inimici sanza rispetto di città o di fortezze che si lascino
indietro; come si vede nelle antiche istorie, e come si vede fece
Francesco Maria, il quale, ne' prossimi tempi, per assaltare
Urbino si lasciò indietro dieci città inimiche, sanza alcuno
rispetto. Quel principe, adunque, che può fare buono esercito,
può fare sanza edificare fortezze; quello che non ha lo esercito
buono, non debbe edificarle. Debbe bene afforzare la città dove
abita, e tenerla munita, e bene disposti i cittadini di quella,
per potere sostenere tanto uno impeto inimico, o che accordo o
che aiuto esterno lo liberi. Tutti gli altri disegni sono di
spesa ne' tempi di pace, ed inutili ne' tempi di guerra. E così,
chi considererà tutto quello ho detto, conoscerà i Romani, come
savi in ogni altro loro ordine, così furono prudenti in questo
giudizio de' Latini e de' Privernati; dove, non pensando a
fortezze, con più virtuosi modi e più savi se ne assicurarono.
Cap.
25
Che lo assaltare una città disunita,
per occuparla mediante la sua disunione, è partito contrario.
Era tanta disunione nella Republica romana intra la Plebe e la Nobilità, che i Veienti, insieme con gli Etrusci, mediante tale disunione, pensarono potere estinguere il nome romano. Ed avendo fatto esercito, e corso sopra i campi di Roma, mandò il Senato, loro contro, Gaio Manilio e Marco Fabio; i quali avendo condotto il loro esercito propinquo allo esercito de' Veienti, non cessavano i Veienti, e con assalti e con obbrobri, offendere e vituperare il nome romano: e fu tanta la loro temerità ed insolenzia, che i Romani, di disuniti diventarono uniti; e venendo alla zuffa, gli ruppano e vinsono. Vedesi pertanto, quanto gli uomini s'ingannano, come di sopra discorremo, nel pigliare de' partiti; e come molte volte credono guadagnare una cosa, e la perdono. Credettono i Veienti, assaltando i Romani disuniti, vincergli; e quello assalto fu cagione della unione di quegli, e della rovina loro. Perché la cagione della disunione delle republiche il più delle volte è l'ozio e la pace; la cagione della unione è la paura e la guerra. E però, se i Veienti fussono stati savi, eglino arebbero, quanto più disunita vedevon Roma, tanto più tenuta da loro la guerra discosto, e con l'arti della pace cerco di oppressargli. Il modo è cercare di diventare confidente di quella città che è disunita; ed infino che non vengono all'armi, come arbitro maneggiarsi intra le parti. Venendo alle armi, dare lenti favori alla parte più debole; sì per tenergli più in su la guerra, e fargli consumare; sì perché le assai forze non gli facessero dubitare tutti, che tu volessi opprimergli e diventare loro principe. E quando questa parte è governata bene, interverrà, quasi sempre, che l'arà quel fine che tu ti hai presupposto. La città di Pistoia, come in altro discorso ed a altro proposito dissi, non venne sotto alla Republica di Firenze con altra arte che con questa: perché sendo quella divisa, e favorendo i Fiorentini ora l'una parte ora l'altra, sanza carico dell'una e dell'altra la condussono in termine, che, stracca in quel suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi in le braccia di Firenze. La città di Siena non ha mai mutato stato, col favore de' Fiorentini, se non quando i favori sono stati deboli e pochi. Perché, quando ei sono stati assai e gagliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di quello stato che regge. Io voglio aggiugnere ai soprascritti uno altro esemplo. Filippo Visconti, duca di Milano, più volte mosse guerra a' Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e sempre ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue imprese, come le pazzie de' Fiorentini gli avevano fatto spendere inutilmente due milioni d'oro. Restarono adunque, come di sopra si dice, ingannati i Veienti e gli Toscani da questa opinione, e furano alfine in una giornata superati da' Romani. E così per lo avvenire ne resterà ingannato qualunque per simile via e per simile cagione crederrà oppressare uno popolo.
Cap.
26
Il vilipendio e l'improperio genera
odio contro a coloro che l'usano, sanza alcuna loro utilità.
Io credo che sia una delle grandi prudenze che usono gli uomini, astenersi o dal minacciare o dallo ingiuriare alcuno con le parole: perché l'una cosa e l'altra non tolgono forze al nimico; ma l'una lo fa più cauto, l'altra gli fa avere maggiore odio contro di te, e pensare con maggiore industria di offenderti. Vedesi questo per lo esemplo de' Veienti, de' quali nel capitolo superiore si è discorso; i quali alla ingiuria della guerra, aggiunsono, contro a' Romani, l'obbrobrio delle parole; dal quale ogni capitano prudente debbe fare astenere i suoi soldati; perché le sono cose che infiammano ed accendano il nimico alla vendetta, ed in nessuna parte lo impediscono, come è detto, alla offesa; tanto che le sono tutte armi che vengono contro a te. Di che ne seguì già uno esemplo notabile in Asia: dove Gabade, capitano de' Persi, essendo stato a campo a Amida più tempo, ed avendo deliberato, stracco dal tedio della ossidione, partirsi; levandosi già con il campo, quegli della terra, venuti tutti in su le mura, insuperbiti della vittoria, non perdonarono a nessuna qualità d'ingiuria, vituperando, accusando, e rimproverando la viltà e la poltroneria del nimico. Da che Gabade irritato, mutò consiglio; e ritornato alla ossidione tanta fu la indegnazione della ingiuria, che in pochi giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo intervenne a' Veienti: a' quali, come è detto, non bastando il fare guerra a' Romani, ancora con le parole gli vituperarono, ed andando infino in su lo steccato del campo a dire loro ingiuria, gl'irritarono molto più con le parole che con le armi: e quegli soldati che prima combattevano mal volentieri, costrinsero i Consoli a appiccare la zuffa, talché i Veienti portarono la pena, come gli antedetti, della contumacia loro. Hanno dunque i buoni principi di eserciti, ed i buoni governatori di republica, a fare ogni opportuno rimedio, che queste ingiurie e rimproveri non si usino o nella città o nello esercito suo, né infra loro, né contro al nimico: perché, usati contro al nimico, ne riescono gl'inconvenienti soprascritti; infra loro, farebbero peggio, non vi si riparando, come vi hanno sempre gli uomini prudenti riparato. Avendo le legioni romane, state lasciate a Capova, congiurato contro a' Capovani, come nel suo luogo si narrerà; ed essendone di questa congiura nata una sedizione, la quale fu poi da Valerio Corvino quietata, intra le altre constituzioni che nella convenzione si fece ordinarono pene gravissime a coloro che rimproverassero mai a alcuni di quegli soldati tale sedizione. Tiberio Gracco, fatto, nella guerra di Annibale, capitano sopra certo numero di servi che i Romani, per carestia d'uomini, avevano armati, ordinò, intra le prime cose, pena capitale a qualunque rimproverasse la servitù a alcuno di loro. Tanto fu stimato dai Romani, come di sopra si è detto, cosa dannosa il vilipendere gli uomini ed il rimproverare loro alcuna vergogna; perché non è cosa che accenda tanto gli animi loro, né generi maggiore isdegno, o da vero o da beffe che si dica: "Nam facetiae asperae, quando nimium ex vero traxere, acrem sui memoriam relinquunt".
Cap.
27
Ai principi e republiche prudenti
debbe bastare vincere; perché, il più delle volte, quando e'
non basta, si perde.
Lo
usare parole contro al nimico poco onorevoli, nasce il più delle
volte da una insolenzia che ti dà o la vittoria o la falsa
speranza della vittoria; la quale falsa speranza fa gli uomini
non solamente errare nel dire, ma ancora nello operare. Perché
questa speranza, quando la entra ne' petti degli uomini, fa loro
passare il segno; e perdere, il più delle volte, quella
occasione dell'avere uno bene certo, sperando di avere un meglio
incerto. E perché questo è un termine che merita considerazione,
ingannandocisi dentro gli uomini molto spesso, e con danno dello
stato loro, e' mi pare da dimostrarlo particularmente con esempli
antichi e moderni, non si potendo con le ragioni così
distintamente dimostrare. Annibale, poi ch'egli ebbe rotti i
Romani a Canne, mandò suoi oratori a Cartagine a significare la
vittoria, e chiedere sussidi. Disputossi in Senato di quello che
si avesse a fare. Consigliava Annone, uno vecchio e prudente
cittadino cartaginese, che si usasse questa vittoria saviamente
in fare pace con i Romani, potendola avere con condizioni oneste,
avendo vinto; e non si aspettasse di averla a fare dopo la
perdita: perché la intenzione de' Cartaginesi doveva essere,
mostrare a' Romani come e' bastavano a combatterli; ed avendosene
avuto vittoria, non si cercasse di perderla per la speranza d'una
maggiore. Non fu preso questo partito; ma fu bene poi, dal Senato
cartaginese, conosciuto savio, quando la occasione fu perduta.
Avendo Alessandro Magno già preso tutto l'oriente, la republica
di Tiro, nobile in quelli tempi, e potente per avere la loro
città in acqua come i Viniziani, veduta la grandezza di
Alessandro, gli mandarono oratori a dirli, come volevano essere
suoi buoni servidori e darli quella ubbidienza voleva, ma che non
erano già per accettare né lui né sue genti nella terra; donde
sdegnato Alessandro, che una città gli volesse chiudere quelle
porte che tutto il mondo gli aveva aperte, gli ributtò, e, non
accettate le condizioni loro vi andò a campo. Era la terra in
acqua, e benissimo, di vettovaglie e di altre munizioni
necessarie alla difesa, munita: tanto che Alessandro, dopo
quattro mesi, si avvide che una città gli toglieva quel tempo
alla sua gloria che non gli avevano tolto molti altri acquisti; e
diliberò di tentare lo accordo, e concedere loro quello che per
loro medesimi avevano domandato. Ma quegli di Tiro, insuperbiti,
non solamente non vollero accettare lo accordo, ma ammazzarono
chi venne a praticarlo. Di che Alessandro sdegnato, con tanta
forza si misse alla ispugnazione, che la prese, disfece, ed
ammazzò e fece schiavi gli uomini.
Venne, nel 1512, uno esercito spagnuolo
in sul dominio fiorentino per rimettere i Medici in Firenze, e
taglieggiare la città, condotti da cittadini d'entro, i quali
avevano dato loro speranza, che, subito fussono in sul dominio
fiorentino, piglierebbero l'armi in loro favore; ed essendo
entrati nel piano, e non si scoprendo alcuno, ed avendo carestia
di vettovaglie, tentarono l'accordo: di che insuperbito il popolo
di Firenze, non lo accettò: donde ne nacque la perdita di Prato,
e la rovina di quello stato.
Non possono, pertanto, i principi, che
sono assaltati, fare il maggiore errore, quando lo assalto è
fatto da uomini di gran lunga più potenti di loro, che recusare
ogni accordo, massime quando egli è offerto: perché non sarà
mai offerto sì basso, che non vi sia dentro in qualche parte il
bene essere di colui che lo accetta, e vi sarà parte della sua
vittoria. Perché e' doveva bastare al popolo di Tiro, che
Alessandro accettasse quelle condizioni ch'egli aveva prima
rifiutate ed era assai vittoria la loro, quando con l'arme in
mano avevano fatto condiscendere uno tanto uomo alla voglia loro.
Doveva bastare ancora al popolo fiorentino, che gli era assai
vittoria, se lo esercito spagnuolo cedeva a qualcuna delle voglie
di quello e le sue non adempiva tutte: perché la intenzione di
quello esercito era mutare lo stato in Firenze, levarlo dalla
divozione di Francia, e trarre da lui danari. Quando di tre cose
e' ne avesse avute due, che son l'ultime, ed al popolo ne fusse
restata una, che era la conservazione dello stato suo, ci aveva
dentro ciascuno qualche onore e qualche satisfazione: né si
doveva il popolo curare delle due cose, rimanendo vivo; né
doveva volere, quando bene egli avesse veduta maggiore vittoria,
e quasi certa, mettere quella in alcuna parte a discrezione della
fortuna, andandone l'ultima posta sua: la quale qualunque
prudente mai arrischierà se non necessitato. Annibale, partito d'Italia,
dove era stato sedici anni glorioso, richiamato da' suoi
Cartaginesi a soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e
Siface; trovò perduto il regno di Numidia e ristretta Cartagine
intra i termini delle sue mura, alla quale non restava altro
refugio che esso e lo esercito suo. Conoscendo come quella era l'ultima
posta della sua patria, non volle prima metterla a rischio, ch'egli
ebbe tentato ogni altro rimedio; e non si vergognò di domandare
la pace, giudicando, se alcuno rimedio aveva la sua patria, era
in quella e non nella guerra: la quale sendogli poi negata, non
volle mancare, dovendo perdere, di combattere; giudicando potere
pur vincere, o, perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibale,
il quale era tanto virtuoso ed aveva il suo esercito intero,
cercò prima la pace che la zuffa, quando ei vidde che, perdendo
quella, la sua patria diveniva serva, che debbe fare un altro di
manco virtù e di manco isperienza di lui? Ma gli uomini fanno
questo errore, che non sanno porre termini alle speranze loro; ed
in su quelle fondandosi, sanza misurarsi altrimenti, rovinano.
Cap.
28
Quanto sia pericoloso a una republica
o a uno principe non vendicare una ingiuria fatta contro al
publico o contro al privato.
Quello
che facciano fare gli sdegni agli uomini, facilmente si conosce
per quello che avvenne ai Romani quando ei mandarono i tre Fabii
oratori a' Franciosi, che erano venuti a assaltare la Toscana, ed
in particulare Chiusi. Perché, avendo mandato il popolo di
Chiusi per aiuto a Roma contro a' Franciosi, i Romani mandarono
ambasciadori a' Franciosi, i quali, in nome del Popolo romano,
significassero loro che si astenessero di fare guerra a' Toscani.
I quali oratori, sendo in su 'l luogo, e più atti a fare che a
dire, venendo i Franciosi ed i Toscani alla zuffa, si messero in
tra i primi a combattere contro a quelli: onde ne nacque che,
essendo conosciuti da loro, tutto lo sdegno avevano contro a'
Toscani, volsero contro a' Romani. Il quale sdegno diventò
maggiore, perché, avendo i Franciosi per loro ambasciadori fatto
querela con il Senato romano di tale ingiuria, e domandato che in
soddisfazione del danno fussino loro dati i soprascritti Fabii,
non solamente non furono consegnati loro, o in altro modo
gastigati, ma venendo i comizi, furono fatti Tribuni con potestà
consolare. Talché, veggendo i Franciosi quelli onorati che
dovevano essere puniti, ripresono tutto essere fatto in loro
dispregio e ignominia; ed accesi di sdegno e d'ira, vennero a
assaltare Roma, e quella presono, eccetto il Campidoglio. La
quale rovina nacque ai Romani solo per la inosservanza della
giustizia; perché, avendo peccato i loro ambasciatori "contra
ius gentium", e dovendo esserne gastigati, furono onorati.
Però è da considerare quanto ogni republica ed ogni principe
debbe tenere conto di fare simile ingiuria, non solamente contro
a una universalità, ma ancora contro a uno particulare. Perché,
se uno uomo è offeso grandemente o dal publico o dal privato e
non sia vendicato secondo la soddisfazione sua; se e' vive in una
republica, cerca, ancora che con la rovina di quella, vendicarsi;
se e' vive sotto un principe, ed abbi in sé alcuna generosità,
non si acquieta mai, in fino che in qualunque modo si vendichi
contro a di colui, come che egli vi vedesse, dentro, il suo
proprio male.
Per verificare questo, non ci è il più
bello né il più vero esemplo che quello di Filippo re di
Macedonia, padre d'Alessandro. Aveva costui in la sua corte
Pausania, giovane bello e nobile, del quale era inamorato Attalo,
uno de' primi uomini che fusse presso a Filippo ed avendolo più
volte ricerco che dovesse acconsentirgli, e trovandolo alieno da
simili cose, diliberò di avere con inganno e per forza quello
che, per altro verso, vedea di non potere avere. E fatto uno
solenne convito, nel quale Pausania e molti altri nobili baroni
convennero, fece, poi che ciascuno fu pieno di vivande e di vino,
prendere Pausania, e, condottolo allo stretto, non solamente per
forza sfogò la sua libidine, ma ancora, per maggiore ignominia,
lo fece da molti degli altri in simile modo vituperare. Della
quale ingiuria Pausania si dolse più volte con Filippo; il quale,
avendolo tenuto un tempo in speranza di vendicarlo, non solamente
non lo vendicò, ma prepose Attalo al governo d'una provincia di
Grecia: donde che Pausania, vedendo il suo nimico onorato e non
gastigato, volse tutto lo sdegno suo, non contro a quello che gli
aveva fatto ingiuria, ma contro a Filippo che non lo aveva
vendicato. Ed una mattina solenne, in su le nozze della figliuola
di Filippo, ch'egli aveva maritata a Alessandro di Epiro, andando
Filippo al tempio, a celebrarle, in mezzo de' due Alessandri,
genero e figliuolo, lo ammazzò. Il quale esemplo è molto simile
a quello de' Romani, e notabile a qualunque governa: che mai non
debbe tanto poco stimare un uomo, che ei creda, aggiugnendo
ingiuria sopra ingiuria, che colui che è ingiuriato non pensi di
vendicarsi con ogni suo pericolo e particulare danno.
Cap.
29
La fortuna acceca gli animi degli
uomini, quando la non vuole che quegli si opponghino a' disegni
suoi.
Se
e' si considererà bene come procedono le cose umane, si vedrà
molte volte nascere cose e venire accidenti, a' quali i cieli al
tutto non hanno voluto che si provvegga. E quando, questo che io
dico, intervenne a Roma, dove era tanta virtù, tanta religione e
tanto ordine, non è maraviglia che gli intervenga molto più
spesso in una città o in una provincia che manchi delle cose
sopradette. E perché questo luogo è notabile assai, a
dimostrare la potenza del cielo sopra le cose umane, Tito Livio
largamente e con parole efficacissime lo dimostra: dicendo come,
volendo il cielo a qualche fine, che i Romani conoscessono la
potenza sua, fece prima errare quegli Fabii che andarono oratori
a' Franciosi, e, mediante l'opera loro, gli concitò a fare
guerra a Roma; dipoi ordinò, che, per reprimere quella guerra,
non si facesse in Roma alcuna cosa degna del Popolo romano;
avendo prima ordinato che Cammillo, il quale poteva essere solo
unico remedio a tanto male, fusse mandato in esilio a Ardea;
dipoi, venendo i Franciosi verso Roma, coloro che, per rimediare
allo impeto de' Volsci ed altri finitimi loro inimici, avevano
creato molte volte uno Dittatore, venendo i Franciosi, non lo
crearono. Ancora nel fare la elezione de' soldati, la fecioro
debole e sanza alcuna istraordinaria diligenza; e furono tanto
pigri al pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a scontrare
i Franciosi sopra il fiume di Allia, discosto a Roma dieci miglia.
Quivi i Tribuni posero il loro campo, sanza alcuna consueta
diligenza; non prevedendo il luogo prima, e non si circundando
con fossa e con isteccato, non usando alcuno rimedio umano e
divino; e nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini radi e
deboli: in modo che né i soldati né i capitani fecero cosa
degna della romana disciplina. Combattessi poi sanza alcuno
sangue; perché ei fuggirono prima che fussono assaltati, e la
maggior parte se n'andò a Veio, l'altra si ritirò a Roma; i
quali, sanza entrare altrimenti nelle case loro, se ne entrarono
in Campidoglio: in modo che il Senato, sanza pensare di difendere
Roma, non chiuse, non che altro, le porte; e parte se ne fuggì,
parte con gli altri se ne entrarono in Campidoglio. Pure, nel
difendere quello, usarono qualche ordine non tumultuario; perché
ei non aggravarono quello di gente inutile; messonvi tutti i
frumenti che poterono, acciocché potessono sopportare l'ossidione;
e della turba inutile de' vecchi, delle donne e de' fanciugli, la
maggior parte se ne fuggì nelle terre circunvicine, il rimanente
restò in Roma in preda de' Franciosi. Talché, chi avesse letto
le cose fatte da quel popolo tanti anni innanzi, e leggessi dipoi
quelli tempi, non potrebbe a nessuno modo credere che fusse stato
uno medesimo popolo. E detto che Tito Livio ha tutti e'
sopradetti disordini, conchiude dicendo: "Adeo obcaecat
animos fortuna, cum vim suam ingruentem refringi non vult".
Né può più essere vera questa conclusione: onde gli uomini che
vivono ordinariamente nelle grandi avversità o prosperità,
meritano manco laude o manco biasimo. Perché il più delle volte
si vedrà quelli a una rovina ed a una grandezza essere stati
convinti da una commodità grande che gli hanno fatto i cieli,
dandogli occasione, o togliendogli, di potere operare
virtuosamente.
Fa bene la fortuna questo, che la elegge
uno uomo, quando la voglia condurre cose grandi, che sia di tanto
spirito e di tanta virtù, che ei conosca quelle occasioni che la
gli porge. Così medesimamente, quando la voglia condurre grandi
rovine, ella vi prepone uomini che aiutino quella rovina. E se
alcuno fusse che vi potesse ostare, o la lo ammazza o la lo priva
di tutte le facultà da potere operare alcuno bene. Conoscesi
questo benissimo per questo testo, come la fortuna, per fare
maggiore Roma, e condurla a quella grandezza venne, giudicò
fussi necessario batterla (come a lungo nel principio del
seguente libro discorrereno), ma non volle già in tutto
rovinarla. E per questo si vede che la fece esulare, e non morire,
Cammillo; fece pigliare Roma, e non il Campidoglio; ordinò che i
Romani, per riparare Roma, non pensassono alcuna cosa buona; per
difendere poi il Campidoglio, non mancarono di alcuno buono
ordine. Fece, perché Roma fusse presa, che la maggior parte de'
soldati che furono rotti a Allia, se ne andorono a Veio; e così,
per la difesa della città di Roma, tagliò tutte le vie. E nell'ordinare
questo, preparò ogni cosa alla sua ricuperazione; avendo
condotto uno esercito romano intero a Veio, e Cammillo a Ardea,
da potere fare grossa testa, sotto uno capitano non maculato d'alcuna
ignominia per la perdita, ed intero nella sua riputazione per la
recuperazione della patria sua.
Sarebbeci da addurre in confermazione
delle cose dette qualche esemplo moderno; ma, per non gli
giudicare necessari, potendo questo a qualunque satisfare, gli
lascereno indietro. Affermo, bene, di nuovo,questo essere
verissimo, secondo che per tutte le istorie si vede, che gli
uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli; possono
tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono, bene, non si
abbandonare mai; perché, non sappiendo il fine suo, e andando
quella per vie traverse ed incognite, hanno sempre a sperare, e
sperando non si abbandonare, in qualunque fortuna ed in qualunque
travaglio si truovino.
Cap.
30
Le republiche e gli principi
veramente potenti non comperono l'amicizie con danari, ma con la
virtù e con la riputazione delle forze.
Erano
i Romani assediati nel Campidoglio, e ancora ch'eglino
aspettassono il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati
dalla fame, vennono a composizione con i Franciosi di
ricomperarsi certa quantità d'oro; e sopra tale convenzione
pesandosi di già l'oro, sopravvenne Cammillo con lo esercito suo:
il che fece, dice lo istorico, la fortuna, "ut Romani auro
redempti non viverent". La quale cosa non solamente è
notabile in questa parte, ma etiam nel processo delle azioni di
questa Republica; dove si vede che mai acquistarono terre con
danari, mai feciono pace con danari, ma sempre con la virtù dell'armi:
il che non credo sia mai intervenuto a alcuna altra republica. Ed
intra gli altri segni per gli quali si conosce la potenza d'uno
stato forte, è vedere come egli vive con gli vicini suoi. E
quando ei si governa in modo che i vicini, per averlo amico,
sieno suoi pensionari, allora è certo segno che quello stato è
potente: ma quando detti vicini, ancora che inferiori a lui,
traggono da quello danari, allora è segno grande della debolezza
di quello.
Legghinsi tutte le istorie romane, e
vedrete come i Massiliensi, gli Edui, i Rodiani, Ierone
siracusano, Eumene e Massinissa regi, i quali tutti erano vicini
ai confini dello imperio romano, per avere l'amicizia di quello
concorrevono a spese ed a tributi ne' bisogni d'esso, non
cercando da lui altro premio che lo essere difesi. Al contrario
si vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal nostro di
Firenze, ne' tempi passati, nella sua maggiore riputazione, non
era signorotto in Romagna che non avessi da quello provvisione; e
di più la dava a' Perugini, a' Castellani, e a tutti gli altri
suoi vicini. Che se questa città fusse stata armata e gagliarda,
sarebbe tutto ito per il contrario; perché molti, per avere la
protezione di essa, arebbono dato danari a lei; e cerco, non di
vendere la loro amicizia, ma di comperare la sua. Né sono in
questa viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il re
di Francia, il quale, con un tanto regno, vive tributario di
Svizzeri, e del re d'Inghilterra. Il che tutto nasce dallo avere
disarmati i popoli suoi, ed avere più tosto voluto, quel re e
gli altri prenominati, godersi un presente utile, di potere
saccheggiare i popoli, e fuggire uno immaginato più tosto che
vero pericolo, che fare cose che gli assicurino, e faccino i loro
stati felici in perpetuo. Il quale disordine, se partorisce
qualche tempo qualche quiete, è cagione col tempo di necessità,
di danni e rovine irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare
quante volte i Fiorentini, Viniziani, e questo regno, si sono
ricomperati in su le guerre, e quante volte ei si sono sottomessi
a una ignominia; a che i Romani una sola volta furono per
sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante terre i Fiorentini
ed i Viniziani hanno comperate: di che si è veduto poi il
disordine, e come le cose che si acquistano con l'oro, non si
sanno difendere con il ferro. Osservarono i Romani questa
generosità e questo modo di vivere, mentre che ei vissono liberi;
ma poi che gli entrarono sotto gl'imperadori, e che gl'imperadori
cominciarono a essere cattivi, ed amare più l'ombra che il sole,
cominciarono ancora essi a ricomperarsi, ora dai Parti, ora dai
Germani, ora da altri popoli convicini: il che fu principio della
rovina di tanto Imperio.
Procedono, pertanto, simili inconvenienti
dallo avere disarmati i tuoi popoli: di che ne risulta uno altro,
maggiore, che quanto il nimico più ti si appressa, tanto ti
truova più debole. Perché chi vive ne' modi detti di sopra,
tratta male quelli sudditi che sono dentro allo imperio suo, e
bene quegli che sono in su i confini dello imperio suo, per avere
uomini ben disposti a tenere il nimico discosto. Da questo nasce
che, per tenerlo più discosto, ei dà provvisione a quelli
signori e popoli che sono propinqui ai confini suoi. Donde nasce
che questi stati così fatti fanno un poco di resistenza in sui
confini, ma, come il nimico gli ha passati, ei non hanno rimedio
alcuno. E non si avveggono, come questo modo del loro procedere
è contro a ogni buono ordine. Perché il cuore e le parti vitali
d'uno corpo si hanno a tenere armate, e non le estremità d'esso;
perché sanza quelle si vive, e, offeso questo, si muore: e
questi stati tengono il cuore disarmato, e le mani e li piedi
armati.
Quello che abbia fatto questo disordine a
Firenze, si è veduto, e vedesi ogni dì: e come uno esercito
passa i confini, e che gli entra dentro propinquo al cuore, non
truova più alcuno rimedio. De' Viniziani si vide, pochi anni
sono, la medesima pruova; e se la loro città non era fasciata
dalle acque, se ne sarebbe veduto il fine. Questa isperienza non
si è vista sì spesso in Francia, per essere quello sì gran
regno, ch'egli ha pochi inimici superiori: nondimanco, quando gli
Inghilesi, nel 1513, assaltarono quel regno, tremò tutta quella
provincia: ed il re medesimo, e ciascuno altro, giudicava che una
rotta sola gli potessi tôrre il regno e lo stato. Ai Romani
interveniva il contrario; perché, quanto più il nimico s'appressava
a Roma, tanto più trovava potente quella città a resistergli. E
si vide nella venuta d'Annibale in Italia, che, dopo tre rotte e
dopo tante morti di capitani e di soldati, ei poterono, non solo
sostenere il nimico, ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo
avere bene armato il cuore, e delle estremità tenere meno conto.
Perché il fondamento dello stato suo era il popolo di Roma, il
nome latino, le altre terre compagne in Italia, e le loro colonie;
donde ei traevano tanti soldati, che furono sufficienti con
quegli a combattere e tenere il mondo. E che sia vero, si vede
per la domanda che fece Annone cartaginese a quelli oratori d'Annibale
dopo la rotta di Canne, i quali avendo magnificato le cose fatte
da Annibale, furono domandati da Annone, se del popolo romano
alcuno era venuto a domandare pace, e se del nome latino e delle
colonie alcuna terra si era ribellata dai Romani; e negando
quegli l'una e l'altra cosa, replicò Annone: - Questa guerra è
ancora intera come prima -.
Vedesi, pertanto, e per questo discorso,
e per quello che più volte abbiamo altrove detto, quanta
diversità sia, dal modo del procedere delle republiche presenti,
a quello delle antiche. Vedesi ancora, per questo, ogni dì,
miracolose perdite e miracolosi acquisti. Perché, dove gli
uomini hanno poca virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua;
e, perché la è varia, variano le republiche e gli stati spesso;
e varieranno sempre, infino che non surga qualcuno che sia della
antichità tanto amatore, che la regoli in modo, che la non abbia
cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto ella puote.
Cap.
31
Quanto sia pericoloso credere agli
sbanditi.
E' non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi altri discorsi, quanto sia cosa pericolosa credere a quelli che sono cacciati della patria sua, essendo cose che ciascuno dì si hanno a praticare da coloro che tengono stati; potendo, massime, dimostrare questo con uno memorabile esemplo addotto da Tito Livio nelle sue istorie, ancora che sia fuora del presupposto suo. Quando Alessandro Magno passò con lo esercito suo in Asia, Alessandro di Epiro, cognato e zio di quello, venne con gente in Italia, chiamato dagli sbanditi Lucani, i quali gli dettono speranza che potrebbe, mediante loro, occupare tutta quella provincia. Donde che quello, sotto la fede e speranza loro venuto in Italia fu morto da quelli, sendo loro promessa la ritornata nella patria dai loro cittadini, se lo ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto sia vana e la fede e le promesse di quelli che si truovano privi della loro patria. Perché, quanto alla fede, si ha a estimare che, qualunque volta e' possano per altri mezzi che per gli tuoi rientrare nella patria loro, che lasceranno te ed accosterannosi a altri, nonostante qualunque promesse ti avessono fatte. E quanto alle vane promesse e speranze, egli è tanta la voglia estrema che è in loro di ritornare in casa, che ei credono naturalmente molte cose che sono false e molte a arte ne aggiungano: talché, tra quello che ei credono e quello che ei dicono di credere, ti riempiono di speranza talmente che, fondatoti in su quella, o tu fai una spesa in vano o tu fai una impresa dove tu rovini.
Io voglio per esemplo mi basti Alessandro predetto, e di più Temistocle ateniese; il quale, essendo fatto ribello, se ne fuggì in Asia a Dario; dove gli promisse tanto, quando ei volessi assaltare la Grecia, che Dario si volse alla impresa. Le quali promesse non gli potendo poi Temistocle osservare, o per vergogna o per tema di supplizio, avvelenò sé stesso. E se questo errore fu fatto da Temistocle, uomo eccellentissimo, si debbe stimare che tanto più vi errino coloro che, per minore virtù, si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque, uno principe andare adagio a pigliare imprese sopra la relazione d'uno confinato, perché il più delle volte se ne resta o con vergogna o con danno gravissimo. E perché ancora rade volte riesce il pigliare le terre di furto, e per intelligenzia che altri avesse in quelle, non mi pare fuora di proposito discorrerne nel sequente capitolo; aggiugnendovi con quanti modi i Romani le acquistavano.
Cap.
32
In quanti modi i Romani occupavano le
terre.
Essendo
i Romani tutti volti alla guerra, fecero sempremai quella con
ogni vantaggio, e quanto alla spesa, e quanto a ogni altra cosa
che in essa si ricerca. Da questo nacque che si guardarono da il
pigliare le terre per ossidione; perché giudicavano questo modo
di tanta spesa e di tanto scommodo, che superassi di gran lunga
la utilità che dello acquisto si potessi trarre: e per questo
pensarono che fosse meglio e più utile soggiogare le terre per
ogni altro modo che assediandole, donde in tante guerre ed in
tanti anni ci sono pochissimi esempli di ossidioni fatte da loro.
I modi, adunque, con i quali gli acquistavano le città. erano o
per espugnazione o per dedizione. La espugnazione era o per forza
e violenza aperta, o per forza mescolata con fraude. La violenza
aperta era o con assalto, sanza percuotere le mura (il che loro
chiamavano "aggredi urbem corona" perché con tutto lo
esercito circundavono la città, e da tutte le parti la
combattevano); e molte volte riuscì loro che in uno assalto
pigliarono una città, ancora che grossissima, come quando
Scipione prese Cartagine Nuova in Ispagna; o, quando questo
assalto non bastava, si dirizzavano a rompere le mura con arieti,
o con altre loro machine belliche: o ei facevano una cava, e per
quella entravano nella città (nel quale modo presono la città
de' Veienti); o, per essere equali a quegli che difendevano le
mura, facevono torri di legname, o ei facevono argini di terra
appoggiati alle mura di fuori, per venire all'altezza d'esse
sopra quegli. Contro a questi assalti, chi difendeva la terra,
nel primo caso, circa lo essere assaltato intorno intorno,
portava più subito pericolo, ed aveva più dubbi rimedi: perché,
bisognandogli in ogni luogo avere assai difensori, o quegli ch'egli
aveva non erano tanti che potessero o sopperire per tutto o
cambiarsi; o, se potevano, non erano tutti di equale animo a
resistere, e da una parte che fusse inchinata la zuffa, si
perdevano tutti. Però occorse, come io ho detto, che molte volte
questo modo ebbe felice successo. Ma quando non riusciva al primo,
non lo ritentavono molto, per essere modo pericoloso per lo
esercito; perché, distendendosi in tanto spazio, restava per
tutto debole a potere resistere a una eruzione che quelli di
dentro avessono fatta; ed anche si disordinavano e straccavano i
soldati; ma per una volta ed allo improvviso tentavano tale modo.
Quanto alla rottura delle mura, si opponevano, come ne' presenti
tempi, con ripari. E per resistere alle cave, facevano una
contracava, e per quella si opponevano al nimico, o con le armi o
con altri ingegni: intra i quali era questo, che gli empievano
dogli di penne, nelle quali appiccavano il fuoco, ed accesi gli
mettevano nella cava, i quali con il fumo e con il puzzo
impedivano la entrata a' nimici. E se con le torre gli
assaltavano, s'ingegnavano con il fuoco rovinarle. E quanto agli
argini di terra, rompevano il muro da basso, dove lo argine s'appoggiava,
tirando dentro la terra che quegli di fuori vi ammontavano;
talché, ponendosi di fuora la terra, e levandosi di drento,
veniva a non crescere l'argine. Questi modi di espugnare non si
possono lungamente tentare: ma bisogna o levarsi da campo o
cercare per altri modi vincere la guerra; come fe' Scipione,
quando, entrato in Africa, avendo assaltato Utica e non gli
riuscendo pigliarla, si levò da campo, e cercò di rompere gli
eserciti cartaginesi: ovvero volgersi alla ossidione, come fecero
a Veio, Capova, Cartagine e Ierusalem e simili terre, che per
ossidione occuparono. Quanto allo acquistare le terre per
violenza furtiva, occorre come intervenne di Palepoli, che per
trattato di quelli di dentro i Romani la occuparono. Di questa
sorte espugnazioni, dai Romani e da altri ne sono state tentate
molte, e poche ne sono riuscite: la ragione è che ogni minimo
impedimento rompe il disegno, e gl'impedimenti vengano facilmente.
Perché, o la congiura si scuopre innanzi che si venga allo atto,
e scuopresi non con molta difficultà, sì per la infedelità di
coloro con chi la è communicata, sì per la difficultà del
praticarla, avendo a convenire con i nimici, e con chi non ti è
lecito, se non sotto qualche colore, parlare. Ma quando la
congiura non si scoprisse nel maneggiarla, vi surgono poi, nel
metterla in atto, mille difficultà. Perché, o se tu vieni
innanzi al tempo disegnato, o se tu vieni dopo, si guasta ogni
cosa: se si lieva uno romore fortuito, come l'oche del
Campidoglio, se si rompe un ordine consueto; ogni minimo errore,
ogni minima fallacia che si piglia, rovina la impresa.
Aggiungonsi a questo le tenebre della notte, le quali mettono
più paura a chi travaglia in quelle cose pericolose. Ed essendo
la maggiore parte degli uomini che si conducono a simili imprese,
inesperti del sito del paese, e de' luoghi dove ei sono menati,
si confondono, inviliscono ed implicano per ogni minimo e
fortuito accidente, ed ogni immagine falsa è per fargli mettere
in volta. Né si trovò mai alcuno che fosse più felice in
queste ispedizioni fraudolente e notturne, che Arato Sicioneo; il
quale, quanto valeva in queste, tanto nelle diurne ed aperte
fazioni era pusillanime: il che si può giudicare fosse più
tosto per una occulta virtù che era in lui, che perché in
quelle naturalmente dovesse essere più felicità. Di questi modi,
adunque, se ne pratica assai, pochi se ne conduce alla pruova, e
pochissimi ne riescono.
Quanto allo acquistare le terre per
dedizione, o le si danno volontarie, o forzate. La volontà nasce,
o per qualche necessità estrinseca che gli costringe a
rifuggirtisi sotto, come fece Capova ai Romani, o per desiderio
di essere governati bene, sendo allettati da il governo buono che
quel principe tiene in coloro che se gli sono, volontari, rimessi
in grembo, come fecero i Rodiani, i Massiliensi ed altre simile
cittadi, che si dettono al Popolo romano. Quanto alla dedizione
forzata, o tale forza nasce da una lunga ossidione, come di sopra
è detto; o la nasce da una continova oppressione di scorrerie,
di predazioni, ed altri mali trattamenti; i quali volendo fuggire,
una città si arrende. Di tutti i modi detti, i Romani usarono
più questo ultimo che nessuno; ed attesono per più che
quattrocento cinquanta anni a straccare i vicini con le rotte e
con le scorrerie, e pigliare, mediante gli accordi, riputazione
sopra di loro, come altre volte abbiamo discorso. E sopra tale
modo si fondarono sempre, ancora che gli tentassino tutti; ma
negli altri trovarono cose o pericolose o inutili. Perché nella
ossidione è la lunghezza e la spesa; nella espugnazione, dubbio
e pericolo; nelle congiure, la incertitudine. E viddono che con
una rotta di esercito inimico acquistavano un regno in un giorno;
e, nel pigliare per ossidione una città ostinata, consumavano
molti anni.
Cap.
33
Come
i Romani davano agli loro capitani degli eserciti le commissioni
libere.
Io estimo che sia da considerare, leggendo questa liviana istoria, volendone fare profitto, tutti e' modi del procedere del Popolo e Senato romano. Ed intra le altre cose che meritano considerazione, sono: vedere con quale autorità ei mandavano fuori i loro Consoli, Dittatori ed altri capitani degli eserciti; de' quali si vede l'autorità essere stata grandissima, ed il Senato non si riservare altro che l'autorità di muovere nuove guerre e di confirmare le paci; e tutte l'altre cose rimetteva nello arbitrio e potestà del Consolo. Perché, deliberata ch'era dal Popolo e dal Senato una guerra, verbigrazia contro a' Latini, tutto il resto rimettevano nello arbitrio del Consolo, il quale poteva o fare una giornata o non la fare, e campeggiare questa o quell'altra terra, come a lui pareva. Le quali cose si verificano per molti esempli, e massime per quello che occorse in una espedizione contro a' Toscani. Perché, avendo Fabio consolo vinto quelli presso a Sutri, e disegnando con lo esercito dipoi passare la selva Cimina ed andare in Toscana, non solamente non si consigliò col Senato, ma non gliene dette alcuna notizia, ancora che la guerra fusse per aversi a fare in paese nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si testifica ancora per le deliberazioni che allo incontro di questo furono fatte dal Senato: il quale avendo intesa la vittoria che Fabio aveva avuta, e dubitando che quello non pigliasse partito di passare per le dette selve in Toscana, giudicando che fosse bene non tentare quella guerra e correre quel pericolo, mandò a Fabio due Legati a fargli intendere non passasse in Toscana; i quali arrivarono ch'e' vi era già passato, ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio di impeditori della guerra tornarono ambasciadori dello acquisto e della gloria avuta. E chi considererà bene questo termine, lo vedrà prudentissimamente usato; perché, se il Senato avesse voluto che un Consolo procedessi nella guerra di mano in mano, secondo che quello gli commetteva, lo faceva meno circunspetto e più lento: perché non gli sarebbe paruto che la gloria della vittoria fusse tutta sua, ma che ne participasse il Senato, con el consiglio del quale ei si fusse governato. Oltra di questo, il Senato si obligava a volere consigliare una cosa che non se ne poteva intendere; perché, nonostante che in quello fossono tutti uomini esercitatissimi nella guerra nondimeno, non essendo in sul luogo e non sappiendo infiniti particulari che sono necessari sapere, a volere consigliare bene, arebbono, consigliando, fatti infiniti errori. E per questo ei volevano che il Consolo per sé facesse, e che la gloria fosse tutta sua; lo amore della quale giudicavano che fusse freno e regola a farlo operare bene. Questa parte si è più volentieri notata da me, perché io veggo che le republiche de' presenti tempi, come è la Viniziana e Fiorentina, la intendono altrimenti; e se gli loro capitani, provveditori o commessari hanno a piantare una artiglieria, lo vogliono intendere e consigliare. Il quale modo merita quella laude che meritano gli altri, i quali tutti insieme le hanno condotte ne' termini in che al presente si truovano.
Libro 3
Cap. 1
A
volere che una setta o una republica viva lungamente, è
necessario ritirarla spesso verso il suo principio.
Egli
è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il termine
della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è loro
ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo
loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o, s'egli
altera, è a salute, e non a danno suo. E perché io parlo de'
corpi misti, come sono le republiche e le sètte, dico che quelle
alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii
loro E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga
vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare;
ovvero che, per qualche accidente fuori di detto ordine, vengono
a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce, che,
non si rinnovando, questi corpi non durano.
Il modo del rinnovargli, è, come è
detto, ridurgli verso e' principii suoi. Perché tutti e'
principii delle sètte, e delle republiche e de' regni, conviene
che abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglio la
prima riputazione ed il primo augumento loro. E perché nel
processo del tempo quella bontà si corrompe, se non interviene
cosa che la riduca al segno, ammazza di necessità quel corpo. E
questi dottori di medicina dicono, parlando de' corpi degli
uomini, "quod quotidie aggregatur aliquid, quod quandoque
indiget curatione". Questa riduzione verso il principio,
parlando delle republiche, si fa o per accidente estrinseco o per
prudenza intrinseca. Quanto al primo, si vede come egli era
necessario che Roma fussi presa dai Franciosi, a volere che la
rinascesse e rinascendo ripigliasse nuova vita e nuova virtù; e
ripigliasse la osservanza della religione e della giustizia, le
quali in lei cominciavano a macularsi. Il che benissimo si
comprende per la istoria di Livio, dove ei mostra che nel trar
fuori lo esercito contro ai Franciosi e nel creare e' Tribuni con
la potestà consolare, non osservorono alcuna religiosa cerimonia.
Così medesimamente, non solamente non punirono i tre Fabii, i
quali "contra ius gentium" avevano combattuto contro ai
Franciosi, ma gli crearono Tribuni. E debbesi facilmente
presuppore, che dell'altre constituzioni buone, ordinate da
Romolo e da quegli altri principi prudenti, si cominciasse a
tenere meno conto che non era ragionevole e necessario a
mantenere il vivere libero. Venne, dunque, questa battitura
estrinseca, acciocché tutti gli ordini di quella città si
ripigliassono, e si mostrasse a quel popolo, non solamente essere
necessario mantenere la religione e la giustizia, ma ancora
stimare i suoi buoni cittadini, e fare più conto della loro
virtù che di quegli commodi che e' paresse loro mancare,
mediante le opere loro. Il che si vede che successe appunto;
perché, subito ripresa Roma, rinnovarono tutti gli ordini dell'antica
religione loro; punirono quegli Fabii che avevano combattuto
"contra ius gentium"; ed appresso tanto stimorono la
virtù e bontà di Cammillo, che posposto, il Senato e gli altri,
ogni invidia, rimettevano in lui tutto il pondo di quella
republica. È necessario, adunque, come è detto, che gli uomini
che vivono insieme in qualunque ordine, spesso si riconoschino, o
per questi accidenti estrinseci o per gl'intrinseci. E quanto a
questi, conviene che nasca o da una legge, la quale spesso
rivegga il conto agli uomini che sono in quel corpo; o veramente
da uno uomo buono che nasca fra loro, il quale con i suoi esempli
e con le sue opere virtuose faccia il medesimo effetto che l'ordine.
Surge, adunque, questo bene nelle
republiche, o per virtù d'un uomo o per virtù d'uno ordine. E
quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la Republica
romana verso il suo principio furono i Tribuni della plebe, i
Censori, e tutte l'altre leggi che venivano contro all'ambizione
ed alla insolenzia degli uomini. I quali ordini hanno bisogno di
essere fatti vivi dalla virtù d'uno cittadino, il quale
animosamente concorre ad esequirli contro alla potenza di quegli
che gli trapassano. Delle quali esecuzioni, innanzi alla presa di
Roma da' Franciosi, furono notabili, la morte de' figliuoli di
Bruto, la morte de' dieci cittadini, quella di Melio frumentario:
dopo la presa di Roma, fu la morte di Manlio Capitolino, la morte
del figliuolo di Manlio Torquato, la esecuzione di Papirio
Cursore contro a Fabio suo Maestro de' cavalieri, l'accusa degli
Scipioni. Le quali cose, perché erano eccessive e notabili,
qualunque volta ne nasceva una, facevano gli uomini ritirare
verso il segno: e quando le cominciarono ad essere più rare,
cominciarono anche a dare più spazio agli uomini di corrompersi,
e farsi con maggiore pericolo e più tumulto. Perché dall'una
all'altra di simili esecuzioni non vorrebbe passare, il più,
dieci anni: perché, passato questo tempo, gli uomini cominciano
a variare con i costumi e trapassare le leggi; e se non nasce
cosa per la quale si riduca loro a memoria la pena, e rinnuovisi
negli animi loro la paura, concorrono tosto tanti delinquenti,
che non si possono più punire sanza pericolo. Dicevano, a questo
proposito quegli che hanno governato lo stato di Firenze dal 1434
infino al 1494, come egli era necessario ripigliare ogni cinque
anni lo stato, altrimenti, era difficile mantenerlo: e chiamavano
ripigliare lo stato, mettere quel terrore e quella paura negli
uomini che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo in quel tempo
battuti quegli che avevano, secondo quel modo del vivere, male
operato. Ma come di quella battitura la memoria si spegne, gli
uomini prendono ardire di tentare cose nuove, e di dire male; e
però è necessario provvedervi, ritirando quello verso i suoi
principii. Nasce ancora questo ritiramento delle republiche verso
il loro principio dalla semplice virtù d'un uomo, sanza
dependere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna esecuzione:
nondimanco sono di tale riputazione e di tanto esemplo, che gli
uomini buoni disiderano imitarle e gli cattivi si vergognano a
tenere vita contraria a quelle. Quegli che in Roma
particularmente feciono questi buoni effetti, furono Orazio Cocle,
Scevola, Fabrizio, i dua Deci, Regolo Attilio, ed alcuni altri i
quali con i loro esempli rari e virtuosi facevano in Roma quasi
il medesimo effetto che si facessino le leggi e gli ordini. E se
le esecuzioni soprascritte, insieme con questi particulari
esempli, fossono almeno seguite ogni dieci anni in quella città,
ne seguiva di necessità che la non si sarebbe mai corrotta: ma
come ei cominciorono a diradare l'una e l'altra di queste due
cose, cominciarono a multiplicare le corrozioni. Perché dopo
Marco Regolo non vi si vide alcuno simile esemplo: e benché in
Roma surgessono i due Catoni, fu tanta distanza da quello a loro,
ed intra loro dall'uno all'altro, e rimasono sì soli, che non
potettono con gli esempli buoni fare alcuna buona opera; e
massime l'ultimo Catone, il quale, trovando in buona parte la
città corrotta, non potette con lo esemplo suo fare che i
cittadini diventassino migliori. E questo basti quanto alle
republiche.
Ma quanto alle sètte, si vede ancora
queste rinnovazloni essere necessarie, per lo esemplo della
nostra religione, la quale, se non fossi stata ritirata verso il
suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico sarebbe al
tutto spenta. Perché questi, con la povertà e con lo esemplo
della vita di Cristo, la ridussono nella mente degli uomini, che
già vi era spenta: e furono sì potenti gli ordini loro nuovi,
che ei sono cagione che la disonestà de' prelati e de' capi
della religione non la rovinino; vivendo ancora poveramente, ed
avendo tanto credito nelle confessioni con i popoli e nelle
predicazioni, che ci dànno loro a intendere come egli è male
dir male del male, e che sia bene vivere sotto la obedienza loro,
e, se fanno errore, lasciargli gastigare a Dio: e così quegli
fanno il peggio che possono, perché non temono quella punizione
che non veggono e non credono. Ha, adunque, questa rinnovazione
mantenuto, e mantiene, questa religione.
Hanno ancora i regni bisogno di
rinnovarsi, e ridurre le leggi di quegli verso i suoi principii.
E si vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di
Francia; il quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini
più che alcuno altro regno. Delle quali leggi ed ordini ne sono
mantenitori i parlamenti, e massime quel di Parigi; le quali sono
da lui rinnovate qualunque volta ei fa una esecuzione contro ad
un principe di quel regno, e che ei condanna il Re nelle sue
sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto per essere stato uno
ostinato esecutore contro a quella Nobilità: ma qualunque volta
ei ne lasciassi alcuna impunita, e che le venissono a
multiplicare, sanza dubbio ne nascerebbe o che le si arebbono a
correggere con disordine grande, o che quel regno si risolverebbe.
Conchiudesi, pertanto, non essere cosa
più necessaria in uno vivere comune, o setta o regno o republica
che sia, che rendergli quella riputazione ch'egli aveva ne'
principii suoi; ed ingegnarsi che siano o gli ordini buoni o i
buoni uomini che facciano questo effetto, e non lo abbia a fare
una forza estrinseca. Perché, ancora che qualche volta la sia
ottimo rimedio, come fu a Roma, ella è tanto pericolosa, che non
è in modo alcuno da disiderarla. E per dimostrare a qualunque,
quanto le azioni degli uomini particulari facessono grande Roma,
e causassino in quella città molti buoni effetti, verrò alla
narrazione e discorso di quegli: intra e' termini de' quali
questo terzo libro, ed ultima parte di questa prima Deca, si
concluderà. E benché le azioni degli re fossono grandi e
notabili nondimeno, dichiarandole la istoria diffusamente, le
lascerò indietro; né parlereno altrimenti di loro, eccetto che
di alcuna cosa che avessono operata appartenente alli loro
privati commodi; e comincerenci da Bruto, padre della romana
libertà.
Cap. 2
Come egli è cosa sapientissima
simulare in tempo la pazzia.
Non fu alcuno mai tanto prudente, né tanto estimato savio per alcuna sua egregia operazione, quanto merita d'esser tenuto Iunio Bruto nella sua simulazione della stultizia. Ed ancora che Tito Livio non esprima altro che una cagione che lo inducesse a tale simulazione, quale fu di potere più sicuramente vivere e mantenere il patrimonio suo; nondimanco, considerato il suo modo di procedere, si può credere che simulasse ancora questo per essere manco osservato, ed avere più commodità di opprimere i Re e di liberare la sua patria, qualunque volta gliele fosse data occasione. E, che pensassi a questo, si vide, prima, nello interpetrare l'oracolo d'Apolline, quando simulò cadere per baciare la terra, giudicando per quello avere favorevole gl'Iddii a' pensieri suoi; e dipoi, quando, sopra la morta Lucrezia, intra 'l padre ed il marito ed altri parenti di lei, ei fu il primo a trarle il coltello della ferita, e fare giurare ai circustanti, che mai sopporterebbono che, per lo avvenire, alcuno regnasse in Roma. Dallo esemplo di costui hanno ad imparare tutti coloro che sono male contenti d'uno principe: e debbono prima misurare e prima pesare le forze loro; e, se sono sì potenti che possino scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente guerra, debbono entrare per questa via, come manco pericolosa e più onorevole. Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le forze loro non bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli amici: ed a questo effetto, entrare per tutte quelle vie che giudicano essere necessarie, seguendo i piàciti suoi, e pigliando dilettazione di tutte quelle cose che veggono quello dilettarsi. Questa dimestichezza, prima, ti fa vivere sicuro; e, sanza portare alcuno pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel principe insieme con esso lui, e ti arreca ogni comodità di sodisfare allo animo tuo. Vero è che alcuni dicono che si vorrebbe con gli principi non stare sì presso che la rovina loro ti coprisse, né sì discosto che, rovinando quegli, tu non fosse a tempo a salire sopra la rovina loro: la quale via del mezzo sarebbe la più vera, quando si potesse osservare; ma perché io credo che sia impossibile, conviene ridursi a' duoi modi soprascritti, cioè o di allargarsi o di stringersi con loro. Chi fa altrimenti, e sia uomo, per la qualità sua, notabile, vive in continovo pericolo. Né basta dire: - Io non mi curo di alcuna cosa, non disidero né onori né utili, io mi voglio vivere quietamente e sanza briga! - perché queste scuse sono udite e non accettate: né possono gli uomini che hanno qualità, eleggere lo starsi, quando bene lo eleggessono veramente e sanza alcuna ambizione, perché non è loro creduto; talché, se si vogliono stare loro, non sono lasciati stare da altri. Conviene adunque fare il pazzo, come Bruto; ed assai si fa il matto, laudando, parlando, veggendo, faccendo cose contro allo animo tuo, per compiacere al principe. E poiché noi abbiamo parlato della prudenza di questo uomo per ricuperare la libertà a Roma, parlereno ora della sua severità nel mantenerla.
Cap. 3
Come egli è necessario, a volere
mantenere una libertà acquistata di nuovo, ammazzare i figliuoli
di Bruto.
Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel mantenere in Roma quella libertà che elli vi aveva acquistata; la quale è di uno esemplo raro in tutte le memorie delle cose: vedere il padre sedere pro tribunali, e non solamente condennare i suoi figliuoli a morte ma essere presente alla morte loro. E sempre si conoscerà questo per coloro che le cose antiche leggeranno: come, dopo una mutazione di stato, o da republica in tirannide o da tirannide in republica è necessaria una esecuzione memorabile contro a' nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo. E perché di sopra è discorso questo luogo largamente, mi rimetto a quello che allora se ne disse: solo ci addurrò uno esemplo, stato, ne' dì nostri e nella nostra patria, memorabile. E questo è Piero Soderini, il quale si credeva superare con la pazienza e bontà sua quello appetito che era ne' figliuoli di Bruto, di ritornare sotto un altro governo e se ne ingannò. E benché quello, per la sua prudenza, conoscesse questa necessità; e che la sorte e l'ambizione di quelli che lo urtavano, gli dessi occasione a spegnerli; nondimeno non volse mai l'animo a farlo. Perché, oltre al credere di potere con la pazienza e con la bontà estinguere i mali omori, e con i premii verso qualcuno consummare qualche sua inimicizia; giudicava (e molte volte ne fece con gli amici fede) che, a volere gagliardamente urtare le sue opposizioni, e battere suoi avversari, gli bisognava pigliare istraordinaria autorità, e rompere con le leggi la civile equalità: la quale cosa, ancora che dipoi non fosse da lui usata tirannicamente, arebbe tanto sbigottito l'universale, che non sarebbe mai poi concorso, dopo la morte di quello, a rifare un gonfalonieri a vita; il quale ordine elli giudicava fosse bene augumentare e mantenere. Il quale rispetto era savio e buono: nondimeno, e' non si debbe mai lasciare scorrere un male, rispetto ad uno bene, quando quel bene facilmente possa essere, da quel male, oppressato. E doveva credere che, avendosi a giudicare l'opere sue e la intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l'avessi accompagnato, che poteva certificare ciascuno, come, quello l'aveva fatto, era per salute della patria, e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in modo, che uno suo successore non potesse fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma lo ingannò la prima opinione, non conoscendo che la malignità non è doma da tempo né placata da alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e' perdé, insieme con la patria sua, lo stato e la riputazione. E come egli è cosa difficile salvare uno stato libero, così è difficile salvarne uno regio; come nel sequente capitolo si mosterrà.
Cap. 4
Non vive sicuro uno principe in uno
principato, mentre vivono coloro che ne sono stati spogliati.
La morte di Tarquinio Prisco causata dai figliuoli di Anco, e la morte di Servio Tullo causata da Tarquinio Superbo, mostra quanto difficil sia, e pericoloso, spogliare uno del regno, e quello lasciare vivo, ancora che cercassi con merito guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu ingannato da parergli possedere quel regno giuridicamente, essendogli stato dato dal Popolo e confermato dal Senato: né credette che ne' figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno, che non avessono a contentarsi di quello che si contentava tutta Roma. E Servio Tullo s'ingannò, credendo potere con nuovi meriti guadagnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodoché, quanto al primo, si può avvertire ogni principe, che non viva mai sicuro del suo principato, finché vivono coloro che ne sono stati spogliati. Quanto al secondo, si può ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie furono cancellate da' beneficii nuovi; e, tanto meno, quanto il beneficio nuovo è minore che non è stata la ingiuria. E sanza dubbio, Servio Tullo fu poco prudente a credere che i figliuoli di Tarquinio fussono pazienti ad essere generi di colui di chi e' giudicavano dovere essere re. E questo appitito del regnare è tanto grande, che non solamente entra ne' petti di coloro a chi si aspetta il regno, ma di quelli a chi e' non si aspetta: come fu nella moglie di Tarquinio, giovane, figliuola di Servio; la quale, mossa da questa rabbia, contro ogni piatà paterna, mosse il marito contro al padre a torgli la vita ed il regno: tanto stimava più essere regina che figliuola di re. Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio Tullo, perderono il regno per non si sapere assicurare di coloro a chi ei lo avevano usurpato, Tarquinio Superbo lo perdé per non osservare gli ordini degli antichi re: come nel sequente capitolo si mosterrà.
Cap. 5
Quello che fa perdere uno regno ad
uno re che sia, di quello, ereditario.
Avendo Tarquinio Superbo morto Servio Tullo, e di lui non rimanendo eredi, veniva a possedere il regno sicuramente, non avendo a temere di quelle cose che avevano offeso i suoi antecessori. E, benché il modo dell'occupare il regno fosse stato istraordinario ed odioso, nondimeno quando elli avesse osservato gli antichi ordini delli altri re, sarebbe stato comportato, né si sarebbe concitato il Senato e la plebe contro di lui per torgli lo stato. Non fu, adunque, cacciato costui per avere Sesto suo figliuolo stuprata Lucrezia, ma per avere rotte le leggi del regno, e governatolo tirannicamente; avendo tolto al Senato ogni autorità, e ridottola a sé proprio; e quelle faccende che ne' luoghi publici con sodisfazione del Senato romano si facevano, le ridusse a fare nel palazzo suo, con carico ed invidia sua; talché in breve tempo gli spoliò Roma di tutta quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri re mantenuta. Né gli bastò farsi inimici i Padri, che si concitò ancora, contro, la Plebe, affaticandola in cose mecaniche e tutte aliene da quello a che gli avevano adoperati i suoi antecessori: talché, avendo ripiena Roma di esempli crudeli e superbi, aveva disposto già gli animi di tutti i Romani alla ribellione, qualunque volta ne avessono occasione. E, se lo accidente di Lucrezia non fosse venuto, come prima ne fosse nato un altro, arebbe partorito il medesimo effetto. Perché se Tarquinio fosse vissuto come gli altri re, e Sesto suo figliuolo avessi fatto quello errore, sarebbono Bruto e Collatino ricorsi a Tarquinio, per la vendetta contro a Sesto, e non al Popolo romano. Sappino adunque i principi, come a quella ora ei cominciano a perdere lo stato che cominciano a rompere le leggi, e quelli modi e quelle consuetudini che sono antiche, e sotto le quali lungo tempo gli uomini sono vivuti. E se, privati che ei sono dello stato, ei diventassono mai tanto prudenti che ei conoscessono con quanta facilità i principati si tenghino da coloro che saviamente si consigliano, dorrebbe molto più loro tale perdita, ed a maggiore pena si condannerebbono, che da altri fossono condannati. Perché egli è molto più facile essere amato dai buoni che dai cattivi, ed ubidire alle leggi che volere comandare loro. E volendo intendere il modo avessono a tenere a fare questo, non hanno a durare altra fatica che pigliare per loro specchio la vita de' principi buoni, come sarebbe Timoleone Corintio, Arato Sicioneo, e simili: nella vita dei quali ei troveria tanta sicurtà e tanta sodisfazione di chi regge e di chi è retto, che doverrebbe venirgli voglia di imitargli, potendo facilmente, per le ragioni dette, farlo. Perché gli uomini, quando sono governati bene, non cercono né vogliono altra libertà: come intervenne a' popoli governati dai dua prenominati; che gli costrinsono ad essere principi mentre che vissono, ancora che da quegli più volte fosse tentato di ridursi in vita privata. E perché in questo, e ne' due antecedenti capitoli, si è ragionato degli omori concitati contro a' principi, e delle congiure fatte da' figliuoli di Bruto contro alla patria, e di quelle fatte contro a Tarquinio Prisco ed a Servio Tullo; non mi pare cosa fuor di proposito, nel sequente capitolo, parlarne diffusamente, sendo materia degna d'essere notata da' principi e da' privati.
Cap. 6
Delle congiure.
Ei
non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle congiure,
essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai privati; perché
si vede per quelle molti più principi avere perduta la vita e lo
stato, che per guerra aperta. Perché il poter fare aperta guerra
ad uno principe, è conceduto a pochi: il poterli congiurare
contro, è concesso a ciascuno. Dall'altra parte, gli uomini
privati non entrano in impresa più pericolosa né più temeraria
di questa; perché la è difficile e pericolosissima in ogni sua
parte. Donde ne nasce che molte se ne tentino, e pochissime hanno
il fine desiderato. Acciocché, adunque, i principi imparino a
guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi
si mettino, anzi imparino ad essere contenti a vivere sotto
quello imperio che dalla sorte è stato loro proposto; io ne
parlerò diffusamente, non lasciando indietro alcuno caso
notabile in documento dell'uno e dell'altro. E veramente, quella
sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli uomini
hanno ad onorare le cose passate e ad ubbidire alle presenti; e
debbono desiderare i buoni principi, e, comunque ei si sieno
fatti, tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più delle
volte rovina sé e la sua patria.
Dobbiamo adunque, entrando nella materia,
considerare prima contro a chi si fanno le congiure; e troverreno
farsi o contro alla patria, o contro ad uno principe: delle quali
due voglio che al presente ragioniamo; perché, di quelle che si
fanno per dare una terra a' nimici che la assediano, o che abbino,
per qualunque cagione, similitudine con questa, se n'è parlato
di sopra a sufficienza. E trattereno, in questa prima parte, di
quelle contro al principe, e prima esaminereno le cagioni di esse:
le quali sono molte, ma una ne è importantissima più che tutte
le altre. E questa è lo essere odiato dallo universale, perché
il principe che si è concitato questo universale odio, è
ragionevole che abbi de' particulari i quali da lui siano stati
più offesi, e che desiderino vendicarsi. Questo desiderio è
accresciuto loro da quella mala disposizione universale che
veggono essergli concitata contro. Debbe, adunque, un principe
fuggire questi carichi privati; e come debba fare a fuggirli,
avendone altrove trattato, non ne voglio parlare qui; perché,
guardandosi da questo, le semplice offese particulari gli faranno
meno guerra. L'una, perché si riscontra rade volte in uomini che
stimino tanto una ingiuria, che si mettino a tanto pericolo per
vendicarla; l'altra, che, quando pure ei fossono d'animo e di
potenza da farlo, sono ritenuti da quella benivolenza universale
che veggono avere ad uno principe. Le ingiurie, conviene che
siano nella roba, nel sangue o nell'onore. Di quelle del sangue
sono più pericolose le minacce che le esecuzioni; anzi, le
minacce sono pericolosissime, e nelle esecuzioni non vi è
pericolo alcuno; perché chi è morto non può pensare alla
vendetta; quelli che rimangono vivi, il più delle volte ne
lasciano il pensiero a te. Ma colui che è minacciato, e che si
vede costretto da una necessità o di fare o di patire, diventa
uno uomo pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo
particularmente direno. Fuora di questa necessità, la roba e l'onore
sono quelle due cose che offendono più gli uomini che alcun'altra
offesa, e dalle quali il principe si debbe guardare: perché e'
non può mai spogliare uno, tanto, che non gli rimanga uno
coltello da vendicarsi; non può mai tanto disonorare uno, che
non gli resti uno animo ostinato alla vendetta. E degli onori che
si tolgono agli uomini, quello delle donne importa più; dopo
questo, il vilipendio della sua persona. Questo armò Pausania
contro a Filippo di Macedonia, questo ha armato molti altri
contro a molti altri principi: e ne' nostri tempi Luzio Belanti
non si mosse a congiurare contro a Pandolfo tiranno di Siena, se
non per averli quello data e poi tolta per moglie una sua
figliuola; come nel suo loco direno. La maggiore cagione che fece
che i Pazzi congiurarono contro ai Medici, fu la eredità di
Giovanni Bonromei, la quale fu loro tolta per ordine di quegli.
Un'altra cagione ci è, e grandissima, che fa gli uomini
congiurare contro al principe; la quale è il desiderio di
liberare la patria, stata da quello occupata. Questa cagione
mosse Bruto e Cassio contro a Cesare; questa ha mosso molti altri
contro a' Falari, Dionisii, ed altri occupatori della patria loro.
Né può, da questo omore, alcuno tiranno guardarsi, se non con
diporre la tirannide. E perché non si truova alcuno che faccia
questo, si truova pochi che non capitino male; donde nacque quel
verso di Iuvenale:
Ad generum cereris sine caede et vulnere pauci
descendunt reges, et sicca morte tiranni.
I
pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle congiure,
sono grandi, portandosi per tutti i tempi; perché in tali casi
si corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti
che sono. Quegli che congiurano, o ei sono uno, o ei sono più.
Uno, non si può dire che sia congiura, ma è una ferma
disposizione nata in uno uomo di ammazzare il principe. Questo
solo, de' tre pericoli che si corrono nelle congiure, manca del
primo; perché, innanzi alla esecuzione non porta alcuno pericolo,
non avendo altri il suo secreto, né portando pericolo che torni
il disegno suo all'orecchio del principe. Questa deliberazione
così fatta può cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte,
grande, piccolo, nobile, ignobile, familiare e non familiare al
principe; perché ad ognuno è lecito qualche volta parlarli; ed
a chi è lecito parlare, è lecito sfogare l'animo suo. Pausania,
del quale altre volte si è parlato, ammazzò Filippo di
Macedonia che andava al tempio, con mille armati d'intorno, ed in
mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma costui fu nobile e
cognito al principe. Uno spagnuolo, povero ed abietto, dette una
coltellata in su el collo al re Ferrando, re di Spagna: non fu la
ferita mortale, ma per questo si vide che colui ebbe animo e
commodità a farlo. Uno dervis, sacerdote turchesco, trasse d'una
scimitarra a Baisit, padre del presente Turco: non lo ferì, ma
ebbe pure animo e commodità a volerlo fare. Di questi animi
fatti così, se ne truova, credo, assai che lo vorrebbono fare,
perché nel volere non è pena né pericolo alcuno; ma pochi che
lo facciano: ma di quelli che lo fanno, pochissimi o nessuno che
non siano ammazzati in sul fatto; però non si truova chi voglia
andare ad una certa morte. Ma lasciamo andare queste uniche
volontà, e veniamo alle congiure intra i più. Dico, trovarsi
nelle istorie, tutte le congiure essere fatte da uomini grandi, o
familiarissimi del principe: perché gli altri, se non sono matti
affatto, non possono congiurare; perché gli uomini deboli, e non
familiari al principe, mancano di tutte quelle speranze e di
tutte quelle commodità che si richiede alla esecuzione d'una
congiura. Prima, gli uomini deboli non possono trovare riscontro
di chi tenga loro fede; perché uno non può consentire alla
volontà loro, sotto alcuna di quelle speranze che fa entrare gli
uomini ne' pericoli grandi: in modo che, come ei si sono
allargati in dua o in tre persone, ci trovono lo accusatore e
rovinano: ma quando pure si fossono tanto felici che mancassino
di questo accusatore, sono nella esecuzione intorniati da tale
difficultà, per non avere l'entrata facile al principe, che gli
è impossibile che in essa esecuzione ei non rovinino. Perché,
se gli uomini grandi, e che hanno l'entrata facile, sono oppressi
da quelle difficultà che di sotto si diranno, conviene che in
costoro quelle difficultà sanza fine creschino. Pertanto gli
uomini (perché, dove ne va la vita e la roba, non sono al tutto
insani) quando e' si veggono deboli, se ne guardano; e quando
egli hanno a noia uno principe, attendono a bestemmiarlo, ed
aspettono che quelli che hanno maggiore qualità di loro, gli
vendichino. E se pure si trovasse che alcuno di questi simili
avessi tentato qualche cosa, si debbe laudare in loro la
intenzione, e non la prudenza. Vedesi, pertanto, quelli che hanno
congiurato, essere stati tutti uomini grandi, o familiari, del
principe; de' quali molti hanno congiurato, mossi così da troppi
beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu Perennio contro a
Commodo, Plauziano contro a Severo, Seiano contro a Tiberio.
Costoro tutti furono dai loro imperadori constituiti in tanta
ricchezza, onore e grado, che non pareva che mancasse loro, alla
perfezione della potenza, altro che lo imperio; e di questo non
volendo mancare, si mossono a congiurare contro al principe; ed
ebbono le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro
ingratitudine: ancora che di queste simili ne' tempi più freschi
ne avessi buono fine quella di Iacopo di Appiano contro a messer
Piero Gambacorti, principe di Pisa: il quale Iacopo, allevato e
nutrito e fatto riputato da lui, gli tolse poi lo stato. Fu di
queste quella del Coppola, ne' nostri tempi, contro il re
Ferrando d'Aragona; il quale Coppola, venuto a tanta grandezza
che non gli pareva gli mancassi se non il regno, per volere
ancora quello, perdé la vita. E veramente, se alcuna congiura
contro ai principi, fatta da uomini grandi, dovesse avere buono
fine, doverrebbe essere questa; essendo fatta da un altro re, si
può dire, e da chi ha tanta commodità di adempiere il suo
disiderio: ma quella cupidità del dominare che gli accieca, gli
accieca ancora nel maneggiare questa impresa; perché, se ei
sapessono fare questa cattività con prudenza, sarebbe
impossibile non riuscisse loro. Debbe, adunque, uno principe che
si vuole guardare dalle congiure, temere più coloro a chi elli
ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi egli avesse fatte
troppe ingiurie. Perché questi mancono di commodità, quelli ne
abondano; e la voglia è simile, perché gli è così grande o
maggiore il desiderio del dominare, che non è quello della
vendetta. Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro amici,
che da quella al principato sia qualche intervallo, e che vi sia
in mezzo qualche cosa da desiderare: altrimenti, sarà cosa rada
se non interverrà loro, come a' principi soprascritti. Ma
torniamo all'ordine nostro.
Dico che, avendo ad essere, quelli che
congiurano, uomini grandi, e che abbino l'adito facile al
principe, si ha a discorrere i successi di queste loro imprese
quali siano stati, e vedere la cagione che gli ha fatti essere
felici ed infelici. E come io dissi di sopra ci si truovano
dentro, in tre tempi, pericoli: prima, in su 'l fatto e poi. Se
ne truova poche che abbino buono esito, perché gli è
impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E cominciando a
discorrere e' pericoli di prima, che sono i più importanti, dico,
come e' bisogna essere molto prudente, ed avere una gran sorte,
che, nel maneggiare una congiura, la non si scuopra. E si
scuoprono o per relazione, o per coniettura. La relazione nasce
da trovare poca fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la
comunichi. La poca fede si truova facilmente, perché tu non puoi
comunicarla se non con tuoi fidati, che per tuo amore si mettino
alla morte, o con uomini che siano male contenti del principe. De'
fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma, come tu ti distendi
in molti, è impossibile gli truovi: dipoi, e' bisogna bene che
la benivolenza che ti portano sia grande, a volere che non paia
loro maggiore il pericolo e la paura della pena. Dipoi gli uomini
s'ingannano, il più delle volte, dello amore che tu giudichi che
uno uomo ti porti; né te ne puoi mai assicurare, se tu non ne
fai esperienza: e farne esperienza in questo è pericolosissimo.
E sebbene ne avessi fatto esperienza in qualche altra cosa
pericolosa dove e' ti fossono stati fedeli, non puoi da quella
fede misurare questa, passando, questo, di gran lunga, ogni altra
qualità di pericolo. Se misuri la fede dalla mala contentezza
che uno abbia del principe, in questo tu ti puoi facilmente
ingannare: perché, subito che tu hai manifestato a quel male
contento l'animo tuo, tu gli dài materia di contentarsi, e
conviene bene, o che l'odio sia grande, o che l'autorità tua sia
grandissima a mantenerlo in fede.
Di qui nasce che assai ne sono rivelate,
ed oppresse ne' primi principii loro; e che, quando una è stata
infra molti uomini segreta lungo tempo, è tenuta cosa miracolosa:
come fu quella di Pisone contro a Nerone, e, ne' nostri tempi,
quella de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici: delle
quali erano consapevoli più che cinquanta uomini; e condussonsi,
alla esecuzione, a scoprirsi. Quanto a scoprirsi per poca
prudenza, nasce quando uno congiurato ne parla poco cauto, in
modo che uno servo o altra terza persona t'intenda, come
intervenne ai figliuoli di Bruto, che, nel maneggiare la cosa con
i legati di Tarquinio, furono intesi da uno servo, che gli
accusò: ovvero quando per leggerezza ti viene communicata a
donna o a fanciullo che tu ami o a simile leggieri persona; come
fece Dimmo, uno de' congiurati con Filota contro a Alessandro
Magno, il quale communicò la congiura a Nicomaco, fanciullo
amato da lui; il quale subito la disse a Ciballino suo fratello,
e Ciballino ad el re. Quanto a scoprirsi per coniettura, ce n'è
in esemplo la congiura Pisoniana contro a Nerone; nella quale
Scevino, uno de' congiurati, il dì dinanzi ch'egli aveva ad
ammazzare Nerone, fece testamento, ordinò che Milichio, suo
liberto, facessi arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso,
liberò tutti i suoi servi e dette loro danari, fece ordinare
fasciature da legare ferite: per le quali conietture accortosi
Milichio della cosa, lo accusò a Nerone. Fu preso Scevino, e con
lui Natale un altro congiurato, i quali erano stati veduti
parlare a lungo e di segreto insieme, il dì davanti; e non si
accordando del ragionamento avuto, furono forzati a confessare il
vero talché la congiura fu scoperta, con rovina di tutti i
congiurati.
Da queste cagioni dello scoprire le
congiure è impossibile guardarsi che, per malizia, per
imprudenza o per leggerezza, la non si scuopra, qualunque volta i
conscii d'essa passono il numero di tre o di quattro. E come e'
ne è preso più che uno, è impossibile non riscontrarla,
perché due non possano essere convenuti insieme di tutti e'
ragionamenti loro. Quando e' ne sia preso solo uno, che sia uomo
forte, può elli, con la fortezza dello animo, tacere i
congiurati; ma conviene che i congiurati non abbiano meno animo
di lui a stare saldi, e non si scoprire con la fuga: perché da
una parte che l'animo manca o da chi è sostenuto o da chi è
libero, la congiura è scoperta. Ed è rado lo esemplo indotto da
Tito Livio nella congiura fatta contro a Girolamo, re di Siracusa;
dove, sendo Teodoro, uno de' congiurati, preso, celò con una
virtù grande tutti i congiurati, ed accusò gli amici del re, e
dall'altra parte, i congiurati confidarono tanto nella virtù di
Teodoro, che nessuno si partì di Siracusa, o fece alcuno segno
di timore. Passasi, adunque, per tutti questi pericoli nel
maneggiare una congiura innanzi che si venga alla esecuzione di
essa: i quali volendo fuggire, ci sono questi rimedi. Il primo ed
il più vero, anzi, a dire meglio, unico, è non dare tempo ai
congiurati di accusarti; e comunicare loro la cosa quando tu la
vuoi fare, e non prima. Quelli che hanno fatto così, fuggono al
certo i pericoli che sono nel praticarla, e, il più delle volte,
gli altri; anzi hanno tutte avuto felice fine: e qualunque
prudente arebbe commodità di governarsi in questo modo. Io
voglio che mi basti addurre due esempli.
Nelemato, non potendo sopportare la
tirannide di Aristotimo, tiranno di Epiro, ragunò in casa sua
molti parenti ed amici, e, confortatogli a liberare la patria,
alcuni di loro chiesono tempo a diliberarsi ed ordinarsi, donde
Nelemato fece a' suoi servi serrare la casa, ed a quelli che esso
aveva chiamati disse: - O voi giurerete di andare ora a fare
questa esecuzione, o io vi darò tutti prigioni ad Aristotimo -.
Dalle quali parole mossi coloro, giurarono; ed andati, sanza
intermissione di tempo, felicemente l'ordine di Nelemato
esequirono. Avendo uno Mago, per inganno, occupato il regno de'
Persi, ed avendo Ortano, uno de' grandi uomini del regno, intesa
e scoperta la fraude, lo conferì con sei altri principi di
quello stato, dicendo come gli era da vendicare il regno dalla
tirannide di quel Mago; e domandando, alcuno di loro, tempo, si
levò Dario, uno de' sei chiamati da Ortano, e disse: - O noi
andreno ora a fare questa esecuzione, o io vi andrò ad accusare
tutti -. E così d'accordo levatisi, sanza dare tempo ad alcuno
di pentirsi, esequirono felicemente i disegni loro. Simile a
questi due esempli ancora è il modo che gli Etoli tennono ad
ammazzare Nabide, tiranno spartano; i quali mandarono Alessameno
loro cittadino, con trenta cavagli e dugento fanti, a Nabide,
sotto colore di mandargli aiuto; ed il segreto solamente
comunicorono ad Alessameno; ed agli altri imposono che lo
ubbidissoro in ogni e qualunque cosa, sotto pena di esilio. Andò
costui in Sparta, e non comunicò mai la commissione sua se non
quando e' la volle esequire: donde gli riuscì d'ammazzarlo.
Costoro, adunque per questi modi, hanno fuggiti quelli pericoli
che si portano nel maneggiare le congiure; e chi imiterà loro,
sempre gli fuggirà.
E che ciascuno possa fare come loro io ne
voglio dare lo esemplo di Pisone preallegato di sopra. Era Pisone
grandissimo e riputatissimo uomo, e familiare di Nerone, ed in
chi elli confidava assai. Andava Nerone ne' suoi orti spesso a
mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone farsi amici uomini, d'animo
e di cuore e di disposizione atti ad una tale esecuzione (il che
ad uno grande è facilissimo); e quando Nerone fosse stato ne' i
suoi orti, comunicare loro la cosa, e con le parole convenienti
inanimarli a fare quello che loro non avevano tempo a ricusare, e
che era impossibile che non riuscisse. E così, se si
esamineranno tutte l'altre, si troverrà poche non essere potute
condursi nel medesimo modo: ma gli uomini, per l'ordinario, poco
intendenti delle azioni del mondo, spesso fanno errori gravissimi,
e tanto maggiori in quelle che hanno più dello istraordinario,
come è questa. Debbesi, adunque, non comunicare mai la cosa se
non necessitato ed in sul fatto; e se pure la vuoi comunicare,
comunicarla ad uno solo, del quale abbia fatto lunghissima
isperienza, o che sia mosso dalle medesime cagioni che tu.
Trovarne uno così fatto è molto più facile che trovarne più,
e per questo vi è meno pericolo, dipoi, quando pure ei ti
ingannassi, vi è qualche rimedio a difendersi, che non è dove
siano congiurati assai: perché da alcuno prudente ho sentito
dire che con uno si può parlare ogni cosa, perché tanto vale,
se tu non ti lasci condurre a scrivere di tua mano, il sì dell'uno
quanto il no dell'altro; e dallo scrivere ciascuno debbe
guardarsi come da uno scoglio, perché non è cosa che più
facilmente ti convinca, che lo scritto di tua mano. Plauziano,
volendo fare ammazzare Severo imperadore ed Antonino suo
figliuolo, commisse la cosa a Saturnino tribuno; il quale,
volendo accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando che, venendo all'accusa,
e' non fussi più creduto a Plauziano che a lui, gli chiese una
cedola di sua mano, che facessi fede di questa commissione; la
quale Plauziano, accecato dall'ambizione, gli fece: donde seguì
che fu, dal tribuno, accusato e convinto; e sanza quella cedola,
e certi altri contrassegni, sarebbe stato Plauziano superiore;
tanto audacemente negava. Truovasi, adunque, nell'accusa d'uno,
qualche rimedio, quando tu non puoi essere da una scrittura, o
altri contrasegni, convinto: da che uno si debbe guardare.
Era nella congiura Pisoniana una femina
chiamata Epicari, stata per lo adietro amica di Nerone; la quale
giudicando che fussi a proposito mettere tra i congiurati uno
capitano di alcune trireme che Nerone teneva per sua guardia, gli
comunicò la congiura ma non i congiurati. Donde, rompendogli
quello capitano la fede ed accusandola a Nerone, fu tanta l'audacia
di Epicari nel negarlo, che Nerone, rimaso confuso, non la
condannò. Sono, adunque, nel comunicare la cosa ad uno solo, due
pericoli: l'uno, che non ti accusi in pruova; l'altro, che non ti
accusi convinto e constretto dalla pena, sendo egli preso per
qualche sospetto o per qualche indizio avuto di lui. Ma nell'uno
e nell'altro di questi due pericoli è qualche rimedio, potendosi
negare l'uno, allegandone l'odio che colui avesse teco; e negare
l'altro, allegandone la forza che lo constringesse a dire le
bugie. È , adunque, prudenza non comunicare la cosa a nessuno,
ma fare secondo gli esempli soprascritti; o, quando pure la
comunichi, non passare uno; dove, se è qualche più pericolo, ve
n'è meno assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo
modo è quando una necessità ti costringa a fare quello al
principe che tu vedi che 'l principe vorrebbe fare a te, la quale
sia tanto grande che non ti dia tempo se non a pensare ad
assicurarti. Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al
fine desiderato: ed a provarlo voglio bastino due esempli.
Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto,
capi de' soldati pretoriani, ed intra' primi amici e familiari
suoi; aveva Marzia in nelle prime sue concubine o amiche; e
perché egli era da costoro qualche volta ripreso de' modi con i
quali maculava la persona sua e lo Imperio, diliberò di farli
morire; e scrisse in su una listra Marzia, Leto ed Eletto ed
alcuni altri che voleva, la notte sequente fare morire; e quella
listra messe sotto il capezzale del suo letto. Ed essendo ito a
lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando per camera e su
pel letto, gli venne trovato questa listra, ed uscendo fuora con
essa in mano, riscontrò Marzia; la quale gliene tolse, e,
lettala, e veduto il contenuto di essa, subito mandò per Leto ed
Eletto; e conosciuto tutti a tre il pericolo in quale erano,
deliberorono prevenire; e, sanza mettere tempo in mezzo, la notte
sequente ammazzorono Commodo. Era Antonino Caracalla, imperadore,
con gli eserciti suoi in Mesopotamia, ed aveva per suo prefetto
Macrino, uomo più civile che armigero; e, come avviene ch'e'
principi non buoni temono sempre che altri non operi, contro a
loro, quello che par loro meritare, scrisse Antonino a Materniano
suo amico a Roma, che intendessi dagli astrologi, s'egli era
alcuno che aspirasse allo imperio, e gliene avvisasse. Donde
Materniano gli scrisse, come Macrino era quello che vi aspirava;
e pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che dello
imperadore, e, per quella, conosciuta la necessità o d'ammazzare
lui prima che nuova lettera venisse da Roma o di morire, commisse
a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva morto,
pochi giorni innanzi uno fratello, che lo ammazzasse: il che fu
esequito da lui felicemente. Vedesi, adunque, che questa
necessità che non dà tempo, fa quasi quel medesimo effetto che
il modo, da me sopra detto, che tenne Nelemato di Epiro. Vedesi
ancora quello che io dissi, quasi nel principio di questo
discorso, come le minacce offendono più i principi, e sono
cagione di più efficace congiure che le offese: da che uno
principe si debbe guardare; perché gli uomini si hanno o
accarezzare o assicurarsi di loro; e non li ridurre mai in
termine che gli abbiano a pensare che bisogni loro o morire o far
morire altrui.
Quanto ai pericoli che si corrono in su
la esecuzione, nascono questi o da variare l'ordine, o da mancare
l'animo a colui che esequisce, o da errore che lo esecutore
faccia per poca prudenza, o per non dare perfezione alla cosa,
rimanendo vivi parte di quelli che si disegnavano ammazzare. Dico,
adunque, come e' non è cosa alcuna che faccia tanto sturbo o
impedimento a tutte le azioni degli uomini, quanto è in uno
instante, sanza avere tempo, avere a variare un ordine e a
pervertirlo da quello che si era ordinato prima. E se questa
variazione fa disordine in cosa alcuna, lo fa nelle cose della
guerra, ed in cose simili a quelle di che noi parliano; perché
in tali azioni non è cosa tanto necessaria a fare, quanto che
gli uomini fermino gli animi loro ad esequire quella parte che
tocca loro: e se gli uomini hanno volto la fantasia per più
giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello subito varii, è
impossibile che non si perturbino tutti, e non rovini ogni cosa;
in modo che gli è meglio assai esequire una cosa secondo l'ordine
dato, ancora che vi si vegga qualche inconveniente, che non è,
per volere cancellare quello, entrare in mille inconvenienti.
Questo interviene quando e' non si ha tempo a riordinarsi;
perché, quando si ha tempo, si può l'uomo governare a suo modo.
La congiura de' Pazzi contro a Lorenzo e
Giuliano de' Medici, è nota. L'ordine dato era che dessino
desinare al cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare
ammazzargli: dove si era distribuito chi aveva a ammazzargli, chi
aveva a pigliare il palazzo, e chi correre la città e chiamare
alla libertà il popolo. Accadde che, essendo nella chiesa
cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il Cardinale ad uno
ufficio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi
desinava: il che fece che i congiurati s'adunorono insieme e
quello che gli avevano a fare in casa i Medici, deliberarono di
farlo in chiesa. Il che venne a perturbare tutto l'ordine,
perché Giovambatista da Montesecco non volle concorrere all'omicidio,
dicendo non lo volere fare in chiesa: talché gli ebbono a mutare
nuovi ministri in ogni azione; i quali, non avendo tempo a
fermare l'animo, fecero tali errori, che in essa esecuzione
furono oppressi.
Manca l'animo a chi esequisce, o per
riverenza, o per propria viltà dello esecutore. È tanta la
maestà e la riverenza che si tira dietro la presenza d'uno
principe, ch'egli è facil cosa o che mitighi o che gli
sbigottisca uno esecutore. A Mario, essendo preso da' Minturnesi,
fu mandato uno servo che lo ammazzasse; il quale, spaventato
dalla presenza di quello uomo e dalla memoria del nome suo,
divenuto vile, perdé ogni forza ad ucciderlo. E se questa
potenza è in uomo legato e prigione, ed affogato nella mala
fortuna; quanto si può tenere che la sia maggiore in uno
principe sciolto, con la maestà degli ornamenti, della pompa e
della comitiva sua! talché ti può questa tale pompa spaventare,
o vero con qualche grata accoglienza raumiliare. Congiurorono
alcuni contro a Sitalce re di Tracia, deputorono il dì della
esecuzione; convennono al luogo diputato, dove era il principe;
nessuno di loro si mosse per offenderlo: tanto che si partirono
sanza avere tentato alcuna cosa e sanza sapere quello che se gli
avessi impediti; ed incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale
errore più volte; tanto che, scopertasi la congiura, portarono
pena di quello male che potettono e non vollono fare.
Congiurarono contro a Alfonso, duca di Ferrara, due sui frategli,
ed usarono mezzano Giannes, prete e cantore del duca; il quale
più volte, a loro richiesta, condusse il duca fra loro, talché
gli avevano arbitrio d'ammazzarlo: nondimeno, mai nessuno di loro
non ardì di farlo; tanto che, scoperti, portarono la pena della
cattività e poca prudenza loro. Questa negligenza non potette
nascere da altro, se non che convenne o che la presenza gli
sbigottisse o che qualche umanità del principe gli umiliasse.
Nasce in tali esecuzioni inconveniente o errore per poca prudenza
o per poco animo; perché l'una e l'altra di queste due cose ti
invasa, e portato da quella confusione di cervello ti fa dire e
fare quello che tu non debbi.
E che gli uomini invasino e si confondino,
non lo può meglio dimostrare Tito Livio quando discrive di
Alessameno etolo, quando ei volle ammazzare Nabide spartano, di
che abbiamo di sopra parlato; che, venuto il tempo della
esecuzione, scoperto che egli ebbe ai suoi quello che si aveva a
fare, dice Tito Livio queste parole: "Collegit et ipse
animum, confusum tantae cogitatione rei". Perché gli è
impossibile che alcuno, ancora che di animo fermo, ed uso alla
morte degli uomini e adoperare il ferro, non si confunda. Però
si debba eleggere uomini isperimentati in tali maneggi, ed a
nessuno altro credere, ancora che tenuto animosissimo. Perché,
dello animo nelle cose grandi, sanza averne fatto isperienza, non
sia alcuno che se ne prometta cosa certa. Può, adunque, questa
confusione o farti cascare l'armi di mano, o farti dire cose che
facciano il medesimo effetto. Lucilla, sirocchia di Commodo,
ordinò che Quinziano lo ammazzassi. Costui aspettò Commodo
nella entrata dello anfiteatro e con un pugnale ignudo
accostandosegli, gridò: - Questo ti manda il Senato! - le quali
parole fecero che fu prima preso ch'egli avesse calato il braccio
per ferire. Messer Antonio da Volterra, diputato, come di sopra
si disse, ad ammazzare Lorenzo de' Medici, nello accostarsegli
disse: - Ah traditore! - la quale voce fu la salute di Lorenzo, e
la rovina di quella congiura. Può non si dare perfezione alla
cosa, quando si congiura contro ad uno capo, per le cagioni dette:
ma facilmente non se le dà perfezione quando si congiura contro
a due capi, anzi è tanto difficile, che gli è quasi impossibile
che la riesca. Perché fare una simile azione in uno medesimo
tempo in diversi luoghi, è quasi impossibile; perché in diversi
tempi non si può fare, non volendo che l'una guasti l'altra. In
modo che, se il congiurare contro ad uno principe è cosa dubbia,
pericolosa e poco prudente; congiurare contro a due, è al tutto
vana e leggieri. E se non fosse la riverenza dello istorico, io
non crederrei mai che fosse possibile quello che Erodiano dice di
Plauziano, quando ei commisse a Saturnino centurione, che elli
solo ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in diversi paesi:
perché la è cosa tanto discosto da il ragionevole che altro che
questa autorità non me lo farebbe credere.
Congiurorono certi giovani ateniesi
contro a Diocle ed Ippia, tiranni di Atene. Ammazzarono Diocle ed
Ippia, che rimase, lo vendicò. Chione e Leonide eraclensi e
discepoli di Platone, congiurarono contro a Clearco e Satiro,
tiranni; ammazzarono Clearco; e Satiro, che restò vivo, lo
vendicò. Ai Pazzi, più volte da noi allegati, non successe di
ammazzare se non Giuliano. In modo che di simili congiure contro
a più capi, se ne debbe astenere ciascuno, perché non si fa
bene né a sé né alla patria né ad alcuno: anzi quelli che
rimangono, diventono più insopportabili e più acerbi; come sa
Firenze, Atene ed Eraclea, state da me preallegate. È vero che
la congiura che Pelopida fece per liberare Tebe sua patria, ebbe
tutte le difficultà: nondimeno ebbe felicissimo fine; perché
Pelopida non solamente congiurò contro a due tiranni, ma contro
a dieci, non solamente non era confidente e non gli era facile la
entrata a e' tiranni, ma era ribello: nondimanco ei poté venire
in Tebe, ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pure
nondimanco fece tutto, con l'aiuto d'uno Carione, consigliere de'
tiranni, dal quale ebbe l'entrata facile alla esecuzione sua. Non
sia alcuno, nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché
come ella fu impresa impossibile, e cosa maravigliosa a riuscire,
così fu, ed è tenuta dagli scrittori, i quali la celebrano,
come cosa rara e quasi sanza esemplo. Può essere interrotta tale
esecuzione da una falsa immaginazione o da uno accidente
imprevisto che nasca in su 'l fatto. La mattina che Bruto e gli
altri congiurati volevano ammazzare Cesare, accadde che quello
parlò a lungo con Gneo Popilio Lenate, uno de' congiurati; e
vedendo gli altri questo lungo parlamento, dubitarono che detto
Popilio non rivelasse a Cesare la congiura: e furono per tentare
di ammazzare Cesare quivi, e non aspettare che fosse in Senato;
ed arebbonlo fatto, se non che il ragionamento finì, e, visto
non fare a Cesare moto alcuno istraordinario, si rassicurarono.
Sono queste false immaginazioni da considerarle, ed avervi, con
prudenza, rispetto; e tanto più, quanto egli è facile ad averle.
Perché chi ha la sua conscienza macchiata, facilmente crede che
si parli di lui: puossi sentire una parola, detta ad uno altro
fine, che ti faccia perturbare l'animo, e credere che la sia
detta sopra il caso tuo, e farti o con la fuga scoprire la
congiura da te, o confondere l'azione con acceleralla fuora di
tempo. E questo tanto più facilmente nasce, quando ei sono molti
ad essere conscii della congiura.
Quanto alli accidenti, perché sono
inisperati, non si può se non con gli esempli mostrarli, e fare
gli uomini cauti secondo quegli. Luzio Belanti da Siena, del
quale di sopra abbiamo fatto menzione, per lo sdegno aveva contro
a Pandolfo, che gli aveva tolto la figliuola che prima gli aveva
data per moglie, diliberò d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo.
Andava Pandolfo quasi ogni giorno a vicitare uno suo parente
infermo, e nello andarvi passava dalle case di Iulio. Costui,
adunque, veduto questo, ordinò di avere i suoi congiurati in
casa ad ordine per ammazzare Pandolfo nel passare; e, messisi
dentro all'uscio armati, teneva uno alla finestra, che, passando
Pandolfo, quando ei fussi presso all'uscio, facessi un cenno.
Accadde che, venendo Pandolfo, ed avendo fatto colui il cenno,
riscontrò uno amico che lo fermò; ed alcuni di quelli che erano
con lui, vennono a trascorrere innanzi; e veduto, e sentito il
romore d'arme, scopersono l' agguato; in modo che Pandolfo si
salvò, e Iulio ed i compagni si ebbono a fuggire di Siena.
Impedì quello accidente di quello scontro quella azione, e fece
a Iulio rovinare la sua impresa. Ai quali accidenti, perché e'
son rari, non si può fare alcuno rimedio. È bene necessario
esaminare tutti quegli che possono nascere, e rimediarvi.
Restaci al presente, solo a disputare de'
pericoli che si corrono dopo la esecuzione: i quali sono
solamente uno; e questo è, quando e' rimane alcuno che vendichi
il principe morto. Possono, adunque, rimanere suoi frategli, o
suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi si aspetti il principato;
e possono rimanere o per tua negligenzia o per le cagioni dette
di sopra, che faccino questa vendetta: come intervenne a Giovanni
Andrea da Lampognano, il quale, insieme con i suoi congiurati,
avendo morto il duca di Milano, ed essendo rimaso uno suo
figliuolo e due suoi frategli, furono a tempo a vendicare il
morto. E veramente, in questi casi, i congiurati sono scusati,
perché non ci hanno rimedio; ma quando ne rimane vivo alcuno,
per poca prudenza, o per loro negligenza, allora è che non
meritano scusa. Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte
Girolamo loro signore, presono la moglie, ed i suoi figliuoli,
che erano piccoli; e non parendo loro potere vivere sicuri se non
si insignorivano della fortezza, e non volendo il castellano
darla loro, Madonna Caterina (che così si chiamava la contessa)
promisse ai congiurati, che, se la lasciavano entrare in quella,
di farla consegnare loro, e che ritenessono a presso di loro i
suoi figliuoli per istatichi. Costoro, sotto questa fede, ve la
lasciarono entrare; la quale, come fu dentro, dalle mura
rimproverò loro la morte del marito, e minacciogli d'ogni
qualità di vendetta. E per mostrare che de' suoi figliuoli non
si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva
ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di consiglio e
tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo esilio
patirono pena della poca prudenza loro. Ma di tutti i pericoli
che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il più certo
né quello che sia più da temere, che quando il popolo è amico
del principe che tu hai morto: perché a questo i congiurati non
hanno rimedio alcuno, perché e' non se ne possono mai assicurare.
In esemplo ci è Cesare, il quale, per avere il popolo di Roma
amico, fu vendicato da lui; perché, avendo cacciati i congiurati,
di Roma, fu cagione che furono tutti, in varii tempi e in varii
luoghi, ammazzati.
Le congiure che si fanno contro alla
patria sono meno pericolose, per coloro che le fanno, che non
sono quelle contro ai principi: perché nel maneggiarle vi sono
meno pericoli che in quelle; nello esequirle vi sono quelli
medesimi; dopo la esecuzione non ve ne è alcuno. Nel maneggiarle
non vi è pericoli molti: perché uno cittadino può ordinarsi
alla potenza sanza manifestare lo animo e disegno suo ad alcuno;
e, se quegli suoi ordini non gli sono interrotti, seguire
felicemente la impresa sua; se gli sono interrotti con qualche
legge, aspettare tempo ed entrare per altra via. Questo s'intende
in una republica dove è qualche parte di corrozione; perché, in
una non corrotta, non vi avendo luogo nessuno principio cattivo,
non possono cadere in uno suo cittadino questi pensieri. Possono,
adunque, i cittadini per molti mezzi e molte vie aspirare al
principato dove e' non portano pericolo di essere oppressi: sì
perché le republiche sono più tarde che uno principe, dubitano
meno, e per questo sono manco caute; sì perché hanno più
rispetto ai loro cittadini grandi, e per questo quelli sono più
audaci e più animosi a fare loro contro. Ciascuno ha letto la
congiura di Catilina scritta da Sallustio, e sa come, poi che la
congiura fu scoperta, Catilina non solamente stette in Roma, ma
venne in Senato, e disse villania al Senato ed al Consolo, tanto
era il rispetto che quella città aveva ai suoi cittadini. E
partito che fu di Roma, e ch'egli era di già in su gli eserciti,
non si sarebbe preso Lentulo e quelli altri, se non si fossoro
avute lettere di loro mano che gli accusavano manifestamente.
Annone, grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando alla
tirannide, aveva ordinato nelle nozze d'una sua figliuola di
avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe. Questa cosa
intesasi, non vi fece il Senato altra provisione che d'una legge,
la quale poneva termini alle spese de' conviti e delle nozze:
tanto fu il rispetto che gli ebbero alle qualità sue. È bene
vero, che nello esequire una congiura contro alla patria, vi è
difficultà più, e maggiori pericoli, perché rade volte è che
bastino le tue forze proprie conspirando contro a tanti; e
ciascuno non è principe d'uno esercito, come era Cesare o
Agatocle o Cleomene, e simili, che hanno ad un tratto e con le
forze loro occupato la patria. Perché a simili è la via assai
facile ed assai sicura, ma gli altri, che non hanno tante
aggiunte di forze, conviene che facciano le cose, o con inganno
ed arte, o con forze forestiere. Quanto allo inganno ed all'arte,
avendo Pisistrato ateniese vinti i Megarensi, e per questo
acquistata grazia nel popolo, uscì una mattina fuora, ferito,
dicendo che la Nobilità per invidia lo aveva ingiuriato, e
domandò di potere menare armati seco per guardia sua. Da questa
autorità facilmente salse a tanta grandezza, che diventò
tiranno di Atene. Pandolfo Petrucci tornò, con altri fuora
usciti, in Siena, e gli fu data la guardia della piazza con
governo, come cosa mecanica, e che gli altri rifiutarono;
nondimanco quelli armati, con il tempo, gli dierono tanta
riputazione, che, in poco tempo, ne diventò principe. Molti
altri hanno tenute altre industrie ed altri modi, e con ispazio
di tempo e sanza pericolo vi si sono condotti. Quegli che con
forze loro, o con eserciti esterni, hanno congiurato per occupare
la patria, hanno avuti varii eventi, secondo la fortuna. Catilina
preallegato vi rovinò sotto. Annone, di chi di sopra facemo
menzione, non gli essendo riuscito il veleno, armò, di suoi
partigiani, molte migliaia di persone, e loro ed elli furono
morti. Alcuni primi cittadini di Tebe per farsi tiranni
chiamorono in aiuto uno esercito spartano, e presono la tirannide
di quella città. Tanto che, esaminate tutte le congiure fatte
contro alla patria, non ne troverrai alcuna, o poche, che, nel
maneggiarle, siano oppresse; ma tutte, o sono riuscite o sono
rovinate, nella esecuzione. Esequite che le sono, ancora non
portano altri periculi che si porti la natura del principato in
sé: perché divenuto che uno è tiranno, ha i suoi naturali ed
ordinari pericoli che gli arreca la tirannide, alli quali non ha
altri rimedi che si siano di sopra discorsi.
Questo è quanto mi è occorso scrivere
delle congiure; e se io ho ragionato di quelle che si fanno con
il ferro, e non col veneno, nasce che le hanno tutte uno medesimo
ordine. Vero è che quelle del veneno sono più pericolose, per
essere più incerte, perché non si ha commodità per ognuno; e
bisogna conferirlo con chi la ha, e questa necessità del
conferire ti fa pericolo. Dipoi, per molte cagioni, uno
beveraggio di veleno non può essere mortale: come intervenne a
quelli che ammazzarono Commodo, che, avendo quello ributtato il
veleno che gli avevano dato, furono forzati a strangolarlo, se
vollono che morisse. Non hanno, pertanto, i principi il maggiore
nimico che la congiura: perché, fatta che è una congiura loro
contro, o la gli ammazza, o la gli infama. Perché, se la riesce,
e' muoiono; se la si scuopre, e loro ammazzino i congiurati, si
crede sempre che la sia stata invenzione di quel principe, per
isfogare l'avarizia e la crudeltà sua contro al sangue e la roba
di quegli che egli ha morti. Non voglio però mancare di
avvertire quel principe o quella republica contro a chi fosse
congiurato, che abbino avvertenza, quando una congiura si
manifesta loro, innanzi che facciano impresa di vendicarla,
cercare ed intendere molto bene la qualità di essa, e misurino
bene le condizioni de' congiurati e le loro; e quando la truovino
grossa e potente, non la scuoprino mai, infino a tanto che si
siano preparati con forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti
facendo, scoprirebbono la loro rovina. Però, debbono con ogni
industria dissimularla; perché i congiurati, veggendosi scoperti,
cacciati da necessità, operano sanza rispetto. In esemplo ci
sono i Romani; i quali, avendo lasciate due legioni di soldati a
guardia de' Capovani contro ai Sanniti, come altrove dicemo,
congiurarono quelli capi delle legioni insieme di opprimere i
Capovani: la quale cosa intesasi a Roma, commissono a Rutilio
nuovo Consolo che vi provvedesse; il quale, per addormentare i
congiurati, pubblicò come il Senato aveva raffermo le stanze
alle legioni capovane. Il che credendosi quelli soldati, e
parendo loro avere tempo ad esequire il disegno loro, non
cercarono di accelerare la cosa; e così stettono infino che
cominciarono a vedere che il Consolo gli separava l'uno dall'altro:
la quale cosa generò in loro sospetto, fece che si scopersono e
mandarono ad esecuzione la voglia loro. Né può essere questo
maggiore esemplo nell'una e nell'altra parte: perché per questo
si vede, quanto gli uomini sono lenti nelle cose dove credono
avere tempo, e quanto e' sono presti dove la necessità gli
caccia. Né può uno principe o una republica, che vuole
differire lo scoprire una congiura a suo vantaggio, usare termine
migliore che offerire, di prossimo, occasione con arte ai
congiurati acciocché, aspettando quella, o parendo loro avere
tempo, diano tempo a quello o a quella a gastigarli. Chi ha fatto
altrimenti, ha accelerato la sua rovina: come fece il duca di
Atene, e Guglielmo de' Pazzi. Il duca, diventato tiranno di
Firenze, ed intendendo esserli congiurato contro, fece, sanza
esaminare altrimenti la cosa, pigliare uno de' congiurati: il che
fece subito pigliare l'armi agli altri; e torgli lo stato.
Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel 1501, ed avendo
inteso come in Arezzo era una congiura in favore de' Vitelli per
tôrre quella terra ai Fiorentini, subito se n'andò in quella
città, e sanza pensare alle forze de' congiurati o alle sue, e,
sanza prepararsi di alcuna forza, con il consiglio del vescovo
suo figliuolo, fece pigliare uno de' congiurati: dopo la quale
presura, gli altri subito presono l'armi, e tolsono la terra ai
Fiorentini; e Guglielmo, di commessario, diventò prigione. Ma
quando le congiure sono deboli, si possono e debbono sanza
rispetto opprimerle. Non è ancora da imitare in alcuno modo due
termini usati, quasi contrari l'uno all'altro, l'uno dal
prenominato duca di Atene, il quale, per mostrare di credere di
avere la benivolenza de' cittadini fiorentini, fece morire uno
che gli manifestò una congiura; l'altro da Dione siragusano, il
quale, per tentare l'animo di alcuno che elli aveva a sospetto,
consentì a Callippo, nel quale ei confidava, che mostrasse di
farli una congiura contro. E tutti a due questi capitorono male:
perché l'uno tolse l'animo agli accusatori, e dettelo a chi
volesse congiurare, l'altro dette la via facile alla morte sua,
anzi fu elli proprio capo della sua congiura; come per isperienza
gl'intervenne, perché Callippo, potendo sanza rispetto praticare
contro a Dione, praticò tanto che gli tolse lo stato e la vita.
Cap. 7
Donde nasce che le mutazioni dalla libertà alla servitù,
e dalla servitù alla libertà, alcuna ne è sanza sangue, alcuna
ne è piena.
Dubiterà forse alcuno donde nasca che molte mutazioni, che si fanno dalla vita libera alla tirannica, e per contrario, alcuna se ne faccia con sangue, alcuna sanza; perché, come per le istorie si comprende, in simili variazioni alcuna volta sono stati morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato ingiurato alcuno: come intervenne nella mutazione che fe' Roma dai Re a' Consoli, dove non furono cacciati altri che i Tarquinii, fuora della offensione di qualunque altro. Il che depende da questo: perché quello stato che si muta, nacque con violenza, o no: e perché, quando e' nasce con violenza, conviene nasca con ingiuria di molti, è necessario poi, nella rovina sua, che gl'ingiuriati si voglino vendicare; e da questo desiderio di vendetta nasce il sangue e la morte degli uomini. Ma quando quello stato è causato da uno comune consenso d'una universalità che lo ha fatto grande, non ha cagione poi, quando rovina detta universalità, di offendere altri che il capo. E di questa sorte fu lo stato di Roma, e la cacciata de' Tarquinii; come fu ancora in Firenze lo stato de' Medici, che poi nelle rovine loro, nel 1494, non furono offesi altri che loro. E così tali mutazioni non vengono ad essere molto pericolose: ma sono bene pericolosissime quelle che sono fatte da quegli che si hanno a vendicare; le quali furono sempre mai di sorte, da fare, non che altro, sbigottire chi le legge. E perché di questi esempli ne sono piene le istorie, io le voglio lasciare indietro.
Cap. 8
Chi vuole alterare una republica,
debbe considerare il suggetto di quella.
Egli
si è di sopra discorso, come uno tristo cittadino non può male
operare in una republica che non sia corrotta: la quale
conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si
dissono, con lo esemplo di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino.
Il quale Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare
autorità istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con il
fargli molti beneficii, come era dividergli quegli campi che i
Romani avevano tolto agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa
sua ambizione, ed in tanto recata a sospetto, che, parlando egli
al popolo, ed offerendo di darli quelli danari che si erano
ritratti dei grani che il publico aveva fatti venire di Sicilia,
al tutto gli recusò, parendo a quello che Spurio volessi dare
loro il prezzo della loro libertà. Ma se tale popolo fusse stato
corrotto, non arebbe recusato detto prezzo, e gli arebbe aperta
alla tirannide quella via che gli chiuse. Fa molto maggiore
essemplo di questo, Manlio Capitolino: perché mediante costui si
vede quanta virtù d'animo e di corpo, quante buone opere fatte
in favore della patria, cancella dipoi una brutta cupidità di
regnare: la quale, come si vede, nacque in costui per la invidia
che lui aveva degli onori erano fatti a Cammillo; e venne in
tanta cecità di mente, che, non pensando al modo del vivere
della città, non esaminando il suggetto, quale esso aveva, non
atto a ricevere ancora trista forma, si misse a fare tumulti in
Roma contro al Senato e contro alle leggi patrie. Dove si conosce
la perfezione di quella città, e la bontà della materia sua:
perché nel caso suo nessuno della Nobilità, come che fossero
agrissimi difensori l'uno dell'altro, si mosse a favorirlo;
nessuno de' parenti fece impresa in suo favore: e con gli altri
accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti
mesti per accattare misericordia in favore dello accusato, e con
Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe, che solevano
sempre favorire le cose che pareva venissono in beneficio del
popolo; e quanto erano più contro a' nobili, tanto più le
tiravano innanzi; in questo caso si unirono co' nobili, per
opprimere una comune peste. Il popolo di Roma desiderosissimo
dell'utile proprio, ed amatore delle cose che venivano contro
alla Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori,
nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa
sua al giudicio del popolo, quel popolo, diventato di difensore
giudice, sanza rispetto alcuno lo condannò a morte. Pertanto io
non credo che sia esemplo in questa istoria, più atto a mostrare
la bontà di tutti gli ordini di quella Republica, quanto è
questo; veggendo che nessuno di quella città si mosse a
difendere uno cittadino pieno d'ogni virtù, e che publicamente e
privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili. Perché in
tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro
rispetto; e considerarono molto più a' pericoli presenti che da
lui dependevano che a' meriti passati: tanto che con la morte sua
e' si liberarono. E Tito Livio dice: "Hunc exitum habuit vir,
nisi in libera civitate natus esset, memorabilis". Dove sono
da considerare due cose: l'una, che per altri modi si ha a
cercare gloria in una città corrotta, che in una che ancora viva
politicamente; l'altra (che è quasi quel medesimo che la prima),
che gli uomini nel procedere loro, è tanto più nelle azioni
grandi, debbono considerare i tempi, e accommodarsi a quegli.
E coloro che, per cattiva elezione o per
naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più
delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro, al
contrario l'hanno quegli che si concordano col tempo. E sanza
dubbio, per le parole preallegate dello istorico, si può
conchiudere, che, se Manlio fusse nato ne' tempi di Mario e di
Silla, dove già la materia era corrotta e dove esso arebbe
potuto imprimere la forma dell'ambizione sua, arebbe avuti quegli
medesimi séguiti e successi che Mario e Silla, e gli altri poi,
che, dopo loro, alla tirannide aspirarono. Così medesimamente,
se Silla e Mario fussono stati ne' tempi di Manlio, sarebbero
stati, in tra le prime loro imprese, oppressi. Perché un uomo
può bene cominciare con suoi modi e con suoi tristi termini a
corrompere uno popolo di una città, ma gli è impossibile che la
vita d'uno basti a corromperla in modo che egli medesimo ne possa
trarre frutto; e quando bene e' fussi possibile, con lunghezza di
tempo, che lo facesse, sarebbe impossibile, quanto al modo del
procedere degli uomini, che sono impazienti, e non possono
lungamente differire una loro passione. Appresso, s'ingannano
nelle cose loro, ed in quelle, massime, che desiderono assai;
talché, o per poca pazienza o per ingannarsene, entrerebbero in
impresa contro a tempo, e capiterebbono male. Però è bisogno, a
volere pigliare autorità in una republica e mettervi trista
forma, trovare la materia disordinata dal tempo, e che, a poco a
poco, e di generazione in generazione, si sia condotta al
disordine: la quale vi si conduce di necessità, quando la non
sia, come di sopra si discorse, spesso rinfrescata di buoni
esempli, o con nuove leggi ritirata verso i principii suoi.
Sarebbe, dunque, stato Manlio uno uomo raro e memorabile, se e'
fussi nato in una città corrotta. E però debbeno i cittadini
che nelle republiche fanno alcuna impresa o in favore della
libertà o in favore della tirannide, considerare il suggetto che
eglino hanno, e giudicare da quello la difficultà delle imprese
loro. Perché tanto è difficile e pericoloso volere fare libero
uno popolo che voglia vivere servo, quanto è volere fare servo
uno popolo che voglia vivere libero. E perché di sopra si dice,
che gli uomini nell'operare debbono considerare le qualità de'
tempi e procedere secondo quegli, ne parlereno a lungo nel
sequente capitolo.
Cap. 9
Come conviene variare co' tempi
volendo sempre avere buona fortuna.
Io
ho considerato più volte come la cagione della trista e della
buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del procedere
suo con i tempi: perché e' si vede che gli uomini nelle opere
loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con
cauzione. E perché nell'uno e nell'altro di questi modi si
passano e' termini convenienti, non si potendo osservare la vera
via, nell'uno e nell'altro si erra. Ma quello viene ad errare
meno, ed avere la fortuna prospera, che riscontra, come ho detto,
con il suo modo il tempo, e sempre mai si procede, secondo ti
sforza la natura. Ciascuno sa come Fabio Massimo procedeva con lo
esercito suo rispettivamente e cautamente, discosto da ogni
impeto e da ogni audacia romana, e la buona fortuna fece che
questo suo modo riscontrò bene con i tempi. Perché, sendo
venuto Annibale in Italia, giovane e con una fortuna fresca, ed
avendo già rotto il popolo romano due volte; ed essendo quella
republica priva quasi della sua buona milizia, e sbigottita; non
potette sortire migliore fortuna, che avere uno capitano il quale,
con la sua tardità e cauzione, tenessi a bada il nimico. Né
ancora Fabio potette riscontrare tempi più convenienti a' modi
suoi: di che ne nacque che fu glorioso. E che Fabio facessi
questo per natura, e non per elezione, si vide, che, volendo
Scipione passare in Affrica con quegli eserciti per ultimare la
guerra, Fabio la contradisse assai, come quello che non si poteva
spiccare da' suoi modi e dalla consuetudine sua; talché, se
fusse stato a lui Annibale sarebbe ancora in Italia; come quello
che non si avvedeva che gli erano mutati i tempi, e che bisognava
mutare modo di guerra. E se Fabio fusse stato re di Roma, poteva
facilmente perdere quella guerra; perché non arebbe saputo
variare, col procedere suo, secondo che variavono i tempi: ma
essendo nato in una republica dove erano diversi cittadini e
diversi umori, come la ebbe Fabio, che fu ottimo ne' tempi debiti
a sostenere la guerra, così ebbe poi Scipione, ne' tempi atti a
vincerla.
Quinci nasce che una republica ha
maggiore vita, ed ha più lungamente buona fortuna, che uno
principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de'
temporali, per la diversità de' cittadini che sono in quella,
che non può uno principe. Perché un uomo che sia consueto a
procedere in uno modo, non si muta mai, come è detto; e conviene
di necessità che, quando e' si mutano i tempi disformi a quel
suo modo, che rovini.
Piero Soderini, altre volte preallegato,
procedeva in tutte le cose sue con umanità e pazienza. Prosperò
egli e la sua patria, mentre che i tempi furono conformi al modo
del procedere suo: ma come e' vennero dipoi tempi dove e'
bisognava rompere la pazienza e la umiltà, non lo seppe fare;
talché insieme con la sua patria rovinò. Papa Iulio II
procedette in tutto il tempo del suo pontificato con impeto e con
furia; e perché gli tempi l'accompagnarono bene gli riuscirono
le sua imprese tutte. Ma se fossero venuti altri tempi che
avessono ricerco altro consiglio, di necessità rovinava; perché
no arebbe mutato né modo né ordine nel maneggiarsi. E che noi
non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l'una, che noi
non ci possiamo opporre a quello che ci inclina la natura; l'altra,
che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non
è possibile persuadergli che possa fare bene a procedere
altrimenti: donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia,
perché ella varia i tempi, ed elli non varia i modi. Nascene
ancora le rovine delle cittadi, per non si variare gli ordini
delle republiche co' tempi; come lungamente di sopra discorremo:
ma sono più tarde, perché le penono più a variare, perché
bisogna che venghino tempi che commuovino tutta la republica, a
che uno solo, col variare il modo del procedere, non basta.
E perché noi abbiamo fatto menzione di
Fabio Massimo che tenne a bada Annibale, mi pare da discorrere
nel capitolo sequente, se uno capitano, volendo fare la giornata
in ogni modo col nimico, può essere impedito, da quello, che non
lo faccia.
Cap.
10
Che uno capitano non può fuggire la
giornata, quando l'avversario la vuol fare in ogni modo.
"Cneus
Sulpitius dictator adversus Gallos bellum trahebat, nolens se
fortunae committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in
dies, et locus alienus, faceret". Quando e' séguita uno
errore, dove tutti gli uomini o la maggiore parte s'ingannino, io
non credo che sia male molte volte riprovarlo. Pertanto, come che
io abbia di sopra più volte mostro quanto le azioni circa le
cose grandi sieno disformi a quelle delli antichi tempi,
nondimeno non mi pare superfluo al presente replicarlo. Perché,
se in alcuna parte si devia dagli antichi ordini si devia massime
nelle azioni militari, dove al presente non è osservata alcuna
di quelle cose che dagli antichi erano stimate assai. Ed è nato
questo inconveniente, perché le republiche ed i principi hanno
imposta questa cura ad altrui; e per fuggire i pericoli si sono
discostati da questo esercizio: e se pure si vede qualche volta
uno re de' tempi nostri andare in persona, non si crede, però,
che da lui nasca altri modi che meritino più laude. Perché
quello esercizio, quando pure lo fanno, lo fanno a pompa, e non
per alcuna altra laudabile cagione. Pure, questi fanno minori
errori rivedendo i loro eserciti qualche volta in viso, tenendo a
presso di loro il titolo dello imperio, che non fanno le
republiche, e massime le italiane; le quali, fidandosi d'altrui,
né s'intendendo in alcuna cosa di quello che appartenga alla
guerra; e, dall'altro canto, volendo, per parere d'essere loro il
principe, deliberarne, fanno in tale deliberazione mille errori.
E benché di alcuno ne abbi discorso altrove, voglio al presente
non ne tacere uno importantissimo. Quando questi principi oziosi,
o republiche effeminate, mandono fuora uno loro capitano, la più
savia commissione che paia loro dargli, è quando gl'impongono
che per alcuno modo venga a giornata, anzi, sopra ogni cosa, si
guardi dalla zuffa; e parendo loro, in questo, imitare la
prudenza di Fabio Massimo, che, differendo il combattere, salvò
lo stato ai Romani, non intendono che, la maggiore parte delle
volte, questa commissione è nulla o è dannosa. Per che si debbe
pigliare questa conclusione: che uno capitano, che voglia stare
alla campagna, non può fuggire la giornata, qualunque volta il
nemico la vuole fare in ogni modo. E non è altro questa
commissione che dire: fa' la giornata a posta del nimico, e non a
tua. Perché a volere stare in campagna, e non fare la giornata,
non ci è altro rimedio sicuro che porsi cinquanta miglia almeno
discosto al nimico; e di poi tenere buone spie, che, venendo
quello verso di te, tu abbi tempo a discostarti. Uno altro
partito ci è; inchiudersi in una città. E l'uno e l'altro di
questi due partiti è dannosissimo. Nel primo si lascia in preda
il paese suo al nimico; ed uno principe valente vorrà più tosto
tentare la fortuna della zuffa, che allungare la guerra con tanto
danno de' sudditi. Nel secondo partito è la perdita manifesta;
perché e' conviene che, riducendoti con uno esercito in una
città, tu venga ad essere assediato, ed in poco tempo patire
fame, e venire a dedizione. Talché fuggire la giornata, per
queste due vie, è dannosissimo. Il modo che tenne Fabio Massimo,
di stare ne' luoghi forti, è buono quando tu hai sì virtuoso
esercito, che il nimico non abbia ardire di venirti a trovare
dentro a' tuoi vantaggi. Né si può dire che Fabio fuggissi la
giornata, ma più tosto che la volessi fare a suo vantaggio.
Perché, se Annibale fusse ito a trovarlo, Fabio l'arebbe
aspettato, e fatto la giornata seco: ma Annibale non ardì mai di
combattere con lui a modo di quello. Tanto che la giornata fu
fuggita così da Annibale come da Fabio: ma se uno di loro l'avessi
voluta fare in ogni modo, l'altro non vi aveva se non uno de' tre
rimedi; i due sopradetti, o fuggirsi.
E che questo che io dico sia vero, si
vede manifestamente con mille esempli, e massime nella guerra che
i Romani feciono con Filippo di Macedonia, padre di Perse:
perché Filippo, sendo assaltato dai Romani, deliberò non venire
alla zuffa; e, per non vi venire, volle fare prima come aveva
fatto Fabio Massimo in Italia; e si pose con il suo esercito
sopra la sommità d'uno monte, dove si afforzò assai, giudicando
ch'e' Romani non avessero ardire di andare a trovarlo. Ma,
andativi e combattutolo, lo cacciarono di quel monte; ed egli,
non potendo resistere, si fuggì con la maggiore parte delle
genti. E quel che lo salvò che non fu consumato in tutto, fu la
iniquità del paese, qual fece che i Romani non poterono seguirlo.
Filippo, adunque, non volendo azzuffarsi, ed essendosi posto con
il campo presso a' Romani, si ebbe a fuggire; ed avendo
conosciuto per questa isperienza, come, non volendo combattere,
non gli bastava stare sopra i monti, e nelle terre non volendo
rinchiudersi, deliberò pigliare l'altro modo, di stare discosto
molte miglia al campo romano. Donde, se i Romani erano in una
provincia, e' se ne andava nell'altra, e così sempre, donde i
Romani partivano esso entrava. E veggendo, alla fine, come nello
allungare la guerra per questa via, le sue condizioni
peggioravano, e che i suoi suggetti ora da lui ora dai nimici
erano oppressi, deliberò di tentare la fortuna della zuffa; e
così venne con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque
non combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che
aveva lo esercito di Fabio, e che ora ha quello di Gneo Sulpizio,
cioè avere uno esercito sì buono, che il nimico non ardisca
venirti a trovare drento alle fortezze tue; e che il nimico sia
in casa tua sanza avere preso molto piè, dove e' patisca
necessità del vivere. Ed è in questo caso il partito utile, per
le ragioni che dice Tito Livio: "nolens se fortunae
committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et
locus alienus, faceret". Ma in ogni altro termine non si
può fuggire giornata, se non con tuo disonore e pericolo.
Perché fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto; e con
più vergogna, quanto meno si è fatto pruova della tua virtù. E
se a lui riuscì salvarsi, non riuscirebbe ad uno altro che non
fussi aiutato dal paese come egli. Che Annibale non fussi maestro
di guerra, alcuno mai non lo dirà ed essendo allo incontro di
Scipione in Affrica, s'egli avessi veduto vantaggio in allungare
la guerra, ei lo arebbe fatto; e per avventura, sendo lui buono
capitano, ed avendo buono esercito, lo arebbe potuto fare, come
fece Fabio in Italia: ma non lo avendo fatto, si debbe credere
che qualche cagione importante lo movessi. Perché uno principe
che abbi uno esercito messo insieme, e vegga che per difetto di
danari o d'amici e' non può tenere lungamente tale esercito, è
matto al tutto se non tenta la fortuna innanzi che tale esercito
si abbia a risolvere: perché, aspettando e' perde il certo;
tentando, potrebbe vincere.
Un'altra cosa ci è ancora da stimare
assai: la quale è che si debbe, eziandio perdendo, volere
acquistare gloria; e più gloria si ha, ad essere vinto per forza,
che per altro inconveniente che ti abbi fatto perdere. Sì che
Annibale doveva essere constretto da queste necessità. E dall'altro
canto, Scipione, quando Annibale avessi differita la giornata, e
non gli fusse bastato l'animo irlo a trovare ne' luoghi forti,
non pativa, per avere di già vinto Siface ed acquistato tante
terre in Affrica, che vi poteva stare sicuro e con commodità
come in Italia. Il che non interveniva ad Annibale, quando era
all'incontro di Fabio; né a questi Franciosi, che erano allo
incontro di Sulpizio.
Tanto meno ancora può fuggire la
giornata colui che con lo esercito assalta il paese altrui;
perché, se vuole entrare nel paese del nimico, gli conviene,
quando il nimico se gli facci incontro, azzuffarsi seco, e se si
pone a campo ad una terra, si obliga tanto più alla zuffa: come
ne' tempi nostri intervenne al duca Carlo di Borgogna, che, sendo
accampato a Moratto, terra de' Svizzeri, fu da' Svizzeri
assaltato e rotto, e come intervenne allo esercito di Francia,
che, campeggiando Novara, fu medesimamente da' Svizzeri rotto.
Cap.
12
Che
chi ha a fare con assai, ancora che sia inferiore, pure che possa
sostenere gli primi impeti, vince.
La
potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma fu grande; e
fu necessaria, come molte volte da noi è stato discorso, perché
altrimenti non si sarebbe potuto porre freno all'ambizione della
Nobilità, la quale arebbe molto tempo innanzi corrotta quella
republica, che la non si corroppe. Nondimeno, perché in ogni
cosa, come altre volte si è detto, è nascoso qualche proprio
male, che fa surgere nuovi accidenti, è necessario a questo con
nuovi ordini provvedere. Essendo, pertanto, divenuta l'autorità
tribunizia insolente, e formidabile alla Nobilità e a tutta Roma,
e' ne sarebbe nato qualche inconveniente, dannoso alla libertà
romana, se da Appio Claudio non fosse stato mostro il modo con il
quale si avevano a difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il
quale fu che trovarono sempre infra loro qualcuno che fussi, o
pauroso, o corrottibile, o amatore del comune bene; talmente che
lo disponevano ad opporsi alla volontà di quegli altri, che
volessono tirare innanzi alcuna deliberazione contro alla
volontà del Senato. Il quale rimedio fu un grande temperamento a
tanta autorità, e per molti tempi giovò a Roma. La quale cosa
mi ha fatto considerare che, qualunche volta e' sono molti
potenti uniti contro a un altro potente ancora che tutti insieme
siano molto più potenti di quello, nondimanco si debbe sempre
sperare più in quel solo e men gagliardo che in quelli assai,
ancora che gagliardissimi. Perché, lasciando stare tutte quelle
cose delle quali uno solo si può, più che molti, prevalere (che
sono infinite), sempre occorrerà questo: che potrà, usando un
poco d'industria, disunire gli assai; e quel corpo, ch'era
gagliardo, fare debole. Io non voglio in questo addurre antichi
esempli, che ce ne sarebbono assai; ma voglio mi bastino i
moderni, seguiti ne' tempi nostri.
Congiurò nel 1481 tutta Italia contro ai
Viniziani; e poiché loro al tutto erano persi, e non potevano
stare più con lo esercito in campagna, corruppono il signor
Lodovico che governava Milano, e per tale corrozione feciono uno
accordo, nel quale non solamente riebbono le terre perse ma
usurparono parte dello stato di Ferrara. E così coloro che
perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace. Pochi
anni sono, congiurò contro a Francia tutto il mondo: nondimeno,
avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si ribellò da'
confederati, e fece accordo seco; in modo che gli altri
confederati furono constretti, poco dipoi, ad accordarsi ancora
essi. Talché, sanza dubbio, si debbe sempre mai fare giudicio,
quando e' si vede una guerra mossa da molti contro ad uno, che
quello uno abbia a restare superiore, quando sia di tale virtù,
che possa sostenere i primi impeti, e col temporeggiarsi
aspettare tempo. Perché, quando ei non fosse così, porterebbe
mille pericoli: come intervenne a' Viniziani nell'otto, i quali,
se avessero potuto temporeggiare con lo esercito francioso, ed
avere tempo a guadagnarsi alcuno di quegli che gli erano
collegati contro, averiano fuggita quella rovina; ma, non avendo
virtuose armi da potere temporeggiare il nimico, e per questo non
avendo avuto tempo a separarne alcuno, rovinarono. Per che si
vide che il Papa, riavuto ch'egli ebbe le cose sue, si fece loro
amico, e così Spagna: e molto volentieri l'uno e l'altro di
questi due principi arebbero salvato loro lo stato di Lombardia
contro a Francia, per non la fare sì grande in Italia, se gli
avessono potuto. Potevano, dunque, i Viniziani dare parte per
salvare il resto: il che se loro avessono fatto in tempo che
paressi che la non fussi stata necessità, ed innanzi ai moti
della guerra, era savissimo partito; ma in su' moti era
vituperoso, e per avventura di poco profitto. Ma, innanzi a tali
moti, pochi in Vinegia de' cittadini potevano vedere il pericolo,
pochissimi vedere il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per
tornare al principio di questo discorso, conchiudo: che così
come il Senato romano ebbe rimedio per la salute della patria
contro all'ambizione de' Tribuni, per essere molti, così arà
rimedio qualunque principe che sia assaltato da molti, qualunque
volta ei saprà con prudenza usare termini convenienti a
disgiungerli.
Cap.
12
Come uno capitano prudente debbe
imporre ogni necessità di combattere a' suoi soldati, e, a
quegli degli inimici, torla.
Altre
volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la
necessità, ed a quale gloria siano sute condutte da quella; e,
come da alcuni morali filosofi è stato scritto, le mani e la
lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti a nobilitarlo,
non arebbero operato perfettamente, né condotte le opere umane a
quella altezza si veggono condotte, se dalla necessità non
fussoro spinte. Sendo conosciuta, adunque, dagli antichi capitani
degli eserciti la virtù di tale necessità, e quanto per quella
gli animi de' soldati diventavono ostinati al combattere;
facevano ogni opera perché i soldati loro fussero constretti da
quella; e, dall'altra parte, usavono ogni industria perché gli
nimici se ne liberassero: e per questo molte volte apersono al
nimico quella via che loro gli potevano chiudere; ed a' suoi
soldati propri chiusono quella che potevano lasciare aperta.
Quello, adunque, che desidera o che una città si defenda
ostinatamente, o che uno esercito in campagna ostinatamente
combatta, debbe, sopra ogni altra cosa, ingegnarsi di mettere, ne'
petti di chi ha a combattere, tale necessità. Onde uno capitano
prudente, che avesse a andare ad una espugnazione d'una città,
debbe misurare la facilità o la difficultà dello espugnarla,
dal conoscere e considerare quale necessità constringa gli
abitatori di quella a difendersi: e quando vi truovi assai
necessità che gli constringa alla difesa, giudichi la
espugnazione difficile; altrimenti, la giudichi facile. Quinci
nasce che le terre, dopo la rebellione, sono più difficili ad
acquistare, che le non sono nel primo acquisto; perché, nel
principio, non avendo cagione di temere di pena, per non avere
offeso, si arrendono facilmente; ma parendo loro, sendosi dipoi
ribellate, avere offeso, e per questo temendo la pena, diventono
difficili ad essere espugnate. Nasce ancora tale ostinazione da e'
naturali odii che hanno i principi vicini, e le republiche vicine,
l'uno con l'altro: il che procede da ambizione di dominare e
gelosia del loro stato, massimamente se le sono republiche, come
interviene in Toscana; la quale gara e contenzione ha fatto e
farà sempre difficile la espugnazione l'una dell'altra. Pertanto,
chi considera bene i vicini della città di Firenze ed i vicini
della città di Vinegia, non si maraviglierà, come molti fanno,
che Firenze abbia più speso nelle guerre, ed acquistato meno di
Vinegia: perché tutto nasce da non avere avuto i Viniziani le
terre vicine sì ostinate alla difesa, quanto ha avuto Firenze;
per essere state tutte le cittadi finitime a Vinegia use a vivere
sotto uno principe, e non libere; e quegli che sono consueti a
servire, stimono molte volte poco il mutare padrone, anzi molte
volte lo desiderano. Talché Vinegia, benché abbia avuto i
vicini più potenti che Firenze, per avere trovato le terre meno
ostinate, le ha potuto più tosto vincere, che non ha fatto
quella sendo circundata da tutte città libere.
Debbe adunque uno capitano, per tornare
al primo discorso, quando egli assalta una terra, con ogni
diligenza ingegnarsi di levare, a' difensori di quella, tale
necessità, e, per consequenzia, tale ostinazione; promettendo
perdono, se gli hanno paura della pena; e se gli avessono paura
della libertà, mostrare di non andare contro al comune bene, ma
contro a pochi ambiziosi della città; la quale cosa molte volte
ha facilitato le imprese e le espugnazioni delle terre. E benché
simili colori sieno facilmente conosciuti, e massime dagli uomini
prudenti; nondimeno vi sono spesso ingannati i popoli, i quali,
cupidi della presente pace, chiuggono gli occhi a qualunque altro
laccio che sotto le larghe promesse si tendesse. E per questa via
infinite città sono diventate serve: come intervenne a Firenze
ne' prossimi tempi; e come intervenne a Crasso ed allo esercito
suo: il quale, come che conoscesse le vane promesse de' Parti, le
quali erano fatte per tôrre via la necessità a' suoi soldati
del difendersi, non per tanto non potette tenergli ostinati,
accecati dalle offerte della pace che erano fatte loro da' loro
inimici; come si vede particularmente leggendo la vita di quello.
Dico pertanto, che avendo i Sanniti, fuora delle convenzioni
dello accordo, per l'ambizione di pochi, corso e predato sopra i
campi de' confederati romani; ed avendo dipoi mandati
imbasciadori a Roma a chiedere pace, offerendo di ristituire le
cose predate, e di dare prigioni gli autori de' tumulti e della
preda; furono ributtati dai Romani. E ritornati in Sannio sanza
speranza di accordo, Claudio Ponzio, capitano allora dello
esercito de' Sanniti, con una sua notabile orazione mostrò come
i Romani volevono in ogni modo guerra, e, benché per loro si
desiderasse la pace, necessità gli faceva seguire la guerra
dicendo queste parole: "Iustum est bellum quibus necessarium,
et pia arma quibus nisi in armis spes est"; sopra la quale
necessità egli fondò con gli suoi soldati la speranza della
vittoria. E per non avere a tornare più sopra questa materia, mi
pare di addurci quelli esempli romani che sono più degni di
notazione. Era Gaio Manilio con lo esercito, all'incontro de'
Veienti; ed essendo parte dello esercito veientano entrato dentro
agli steccati di Manilio, corse Manilio con una banda al soccorso
di quegli; e perché i Veienti non potessino salvarsi, occupò
tutti gli aditi del campo; donde veggendosi i Veienti rinchiusi,
cominciarono a combattere con tanta rabbia, che gli ammazzarono
Manilio; ed arebbero tutto il resto de' Romani oppressi, se dalla
prudenza d'uno Tribuno non fusse stato loro aperta la via ad
andarsene. Dove si vede come, mentre la necessità costrinse i
Veienti a combattere, e' combatterono ferocissimamente; ma quando
viddero aperta la via, pensarono più a fuggire che a combattere.
Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli
eserciti loro ne' confini romani. Mandossi loro allo incontro i
Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, lo esercito de'
Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si trovò, ad un tratto,
rinchiuso intra gli steccati suoi, occupati dai Romani, e l'altro
esercito romano; e veggendo come gli bisognava o morire o farsi
la via con il ferro, disse a' suoi soldati queste parole: "Ite
mecum; non murus nec vallum, armati armatis obstant; virtute
pares, quae ultimum ac maximum telum est, necessitate superiores
estis". Sì che questa necessità è chiamata da Tito Livio
"ultimum ac maximum telum". Cammillo, prudentissimo di
tutti i capitani romani, sendo già dentro nella città de'
Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e
tôrre ai nimici una ultima necessità di difendersi, comandò,
in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che
fussono disarmati; talché, gittate l'armi in terra, si prese
quella città quasi sanza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti
capitani osservato.
Cap.
13
Dove sia più da confidare, o in uno
buono capitano che abbia lo esercito debole, o in uno buono
esercito che abbia il capitano debole.
Essendo
diventato Coriolano esule di Roma, se n'andò ai Volsci; dove
contratto uno esercito per vendicarsi contro ai suoi cittadini,
se ne venne a Roma; donde dipoi si partì, più per la piatà
della sua madre, che per le forze de' Romani. Sopra il quale
luogo Tito Livio dice, essersi per questo conosciuto, come la
Republica romana crebbe più per la virtù de' capitani che de'
soldati; considerato come i Volsci per lo addietro erano stati
vinti, e solo poi avevano vinto che Coriolano fu loro capitano. E
benché Livio tenga tale opinione, nondimeno si vede in molti
luoghi della sua istoria la virtù de' soldati sanza capitano
avere fatto maravigliose pruove, ed essere stati più ordinati e
più feroci dopo la morte de' Consoli loro, che innanzi che
morissono: come occorse nello esercito che i Romani avevano in
Ispagna sotto gli Scipioni; il quale, morti i due capitani, poté,
con la virtù sua, non solamente salvare sé stesso, ma vincere
il nimico, e conservare quella provincia alla Republica. Talché,
discorrendo tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la
virtù de' soldati arà vinta la giornata; e molti altri, dove
solo la virtù de' capitani arà fatto il medesimo effetto: in
modo che si può giudicare, l'uno abbia bisogno dell'altro, e l'altro
dell'uno. È cci bene da considerare, prima, quale sia più da
temere, o d'uno buono esercito male capitanato, o d'uno buono
capitano accompagnato da cattivo esercito. E seguendo in questo
la opinione di Cesare, si debbe estimare poco l'uno e l'altro.
Perché, andando egli in Ispagna contro a Afranio e Petreio, che
avevano uno ottimo esercito, disse che gli stimava poco, "quia
ibat ad exercitum sine duce", mostrando la debolezza de'
capitani. Al contrario, quando andò in Tessaglia contro a
Pompeio, disse: "Vado ad ducem sine exercitu".
Puossi considerare un'altra cosa: a quale
è più facile, o ad uno buono capitano fare uno buono esercito,
o ad uno buono esercito fare uno buono capitano. Sopra che dico
che tale questione pare decisa: perché più facilmente molti
buoni troverranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono,
che non farà uno molti. Lucullo, quando fu mandato contro a
Mitridate, era al tutto inesperto della guerra; nondimanco quel
buono esercito, dove era assai capi ottimi, lo feciono tosto uno
buono capitano. Armorono i Romani, per difetto di uomini, assai
servi, e gli dieno ad esercitare a Sempronio Gracco, il quale in
poco tempo fece uno buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come
altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta Tebe loro patria della
servitù degli Spartani, in poco tempo fecero, de' contadini
tebani, soldati ottimi, che poterono non solamente sostenere la
milizia spartana ma vincerla. Sì che la cosa è pari, perché l'uno
buono può trovare l'altro. Nondimeno uno esercito buono sanza
capo buono suole diventare insolente e pericoloso; come diventò
lo esercito di Macedonia dopo la morte di Alessandro, e come
erano i soldati veterani nelle guerre civili. Tanto che io credo
che sia più da confidare assai in uno capitano che abbi tempo ad
instruire uomini e commodità di armargli, che in uno esercito
insolente con uno capo tumultuario fatto da lui. Però è da
addoppiare la gloria e la laude a quelli capitani che, non
solamente hanno avuto a vincere il nimico, ma, prima che venghino
alle mani con quello, è convenuto loro instruire lo esercito
loro, e farlo buono: perché in questi si mostra doppia virtù, e
tanto rada, che, se tale ferita fosse stata data a molti, ne
sarebbono stimati e riputati meno assai che non sono.
Cap.
14
Le invenzioni nuove, che appariscono
nel mezzo della zuffa, e le voci nuove che si odino, quali
effetti facciano.
Di
quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe uno nuovo
accidente che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda, si
dimostra in assai luoghi: e massime per questo esemplo che
occorse nella zuffa che i Romani fecero con i Volsci: dove
Quinzio, veggendo inclinare uno de' corni del suo esercito,
cominciò a gridare forte, che gli stessono saldi perché l'altro
corno dello esercito era vittorioso: con la quale parola avendo
dato animo ai suoi e sbigottimento a' nimici, vinse. E se tali
voci in uno esercito bene ordinato fanno effetti grandi, in uno
tumultuario e male ordinato gli fanno grandissimi, perché il
tutto è mosso da simile vento. Io ne voglio addurre uno esemplo
notabile, occorso ne' tempi nostri. Era la città di Perugia,
pochi anni sono, divisa in due parti, Oddi e Baglioni. Questi
regnavano; quelli altri erano esuli: i quali avendo, mediante
loro amici, ragunato esercito, e ridottisi in alcuna loro terra
propinqua a Perugia, con il favore della parte, una notte
entrarono in quella città, e, sanza essere iscoperti, se ne
venivano per pigliare la piazza. E perché quella città in su
tutti i canti delle vie ha catene che la tengono sbarrata,
avevano le genti oddesche, davanti, uno che con una mazza di
ferro rompea i serrami di quelle, acciocché i cavagli potessero
passare; e restandogli a rompere solo quella che sboccava in
piazza, ed essendo già levato il romore all'armi, ed essendo
colui che rompeva oppresso dalla turba che gli veniva dietro, né
potendo per questo alzare bene le braccia per rompere; per
potersi maneggiare, gli venne detto: - Fatevi indietro! - la
quale voce andando di grado in grado dicendo "addietro!",
cominciò a fare fuggire gli ultimi, e di mano in mano gli altri,
con tanta furia, che per loro medesimi si ruppono: e così restò
vano il disegno degli Oddi, per cagione di sì debole accidente.
Dove è da considerare che, non tanto gli
ordini in uno esercito sono necessari per potere ordinatamente
combattere quanto perché ogni minimo accidenti non ti disordini.
Perché, non per altro le moltitudini popolari sono disutili per
la guerra, se non perché ogni romore ogni voce, ogni strepito,
gli altera e fagli fuggire. E però uno buono capitano in tra gli
altri suoi ordini debbe ordinare chi sono quegli che abbino a
pigliare la sua voce e rimetterla ad altri, ed assuefare gli suoi
soldati che non credino se non a quelli; e gli suoi capitani, che
non dichino se non quel che da lui è commesso; perché, non
osservata bene questa parte, si è visto molte volte avere fatti
disordini grandissimi.
Quanto al vedere cose nuove, debbe ogni
capitano ingegnarsi di farne apparire alcuna, mentre che gli
eserciti sono alle mani, che dia animo a' suoi e tolgalo agli
inimici; perché, intra gli accidenti che ti diano la vittoria,
questo è efficacissimo. Di che se ne può addurre per testimone
Caio Sulpizio, dittatore romano; il quale venendo a giornata con
i Franciosi, armò tutti i saccomanni e gente vile del campo; e
quegli fatti salire sopra i muli ed altri somieri con armi ed
insegne da parere gente a cavallo, gli messe sotto le insegne,
dietro ad uno colle, e comandò che, ad uno segno dato, nel tempo
che la zuffa fosse più gagliarda, si scoprissono e mostrassinsi
a' nimici. La quale cosa così ordinata e fatta, dette tanto
terrore ai Franciosi, che perderono la giornata. E però uno
buono capitano debbe fare due cose: l'una, di vedere, con alcune
di queste nuove invenzioni, di sbigottire il nimico; l'altra, di
stare preparato che, essendo fatte dal nimico contro di lui, le
possa scoprire, e fargliene tornare vane. Come fece il re d'India
a Semiramis; la quale, veggendo come quel re aveva buono numero
di elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa n'era
copiosa, ne formò assai con cuoia di bufoli e di vacche, e,
quegli messi sopra i cammegli, gli mandò davanti; ma conosciuto
da il re lo inganno, le tornò quel suo disegno, non solamente
vano, ma dannoso. Era Mamerco, dittatore, contro ai Fidenati, i
quali, per isbigottire lo esercito romano, ordinarono che, in su
l'ardore della zuffa, uscisse fuori di Fidene numero di soldati
con fuochi in su le lance, acciocché i Romani, occupati dalla
novità della cosa, rompessono intra loro gli ordini. Sopra che
è da notare, che, quando tali invenzioni hanno più del vero che
del fitto, si può bene allora rappresentarle agli uomini,
perché, avendo assai del gagliardo, non si può scoprire così
presto la debolezza loro: ma quando le hanno più del fitto che
del vero, è bene, o non le fare o, faccendole, tenerle discosto,
di qualità che le non possino essere così presto scoperte; come
fece Caio Sulpizio de' mulattieri. Perché, quando vi è dentro
debolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e ti fanno danno,
e non favore; come fero gli elefanti a Semiramis, e ai Fidenati i
fuochi: i quali benché nel principio turbassono un poco lo
esercito, nondimeno, come e' sopravenne il Dittatore, e cominciò
a gridargli, dicendo che non si vergognavano a fuggire il fumo
come le pecchie, e che dovessono rivoltarsi a loro; gridando:
"Suis flammis delete Fidenas, quas vestris beneficiis
placare non potuistis"; tornò quello trovato ai Fidenati
inutile, e restarono perditori della zuffa.
Cap. 15
Che uno e non molti sieno preposti ad uno esercito, e come
i più comandatori offendono.
Essendosi
ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i Romani
avevano mandata in Fidene, crearono i Romani, per rimediare a
questo insulto, quattro Tribuni con potestà consolare de' quali
lasciatone uno alla guardia di Roma, ne mandarono tre contro ai
Fidenati ed i Veienti: i quali, per essere divisi infra loro e
disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perché, del
disonore, ne furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu
cagione la virtù de' soldati. Donde i Romani, veggendo questo
disordine, ricorsono alla creazione del Dittatore, acciocché un
solo riordinasse quello che tre avevano disordinato. Donde si
conosce la inutilità di molti comandadori in uno esercito, o in
una terra che si abbia a difendere; e Tito Livio non lo può più
chiaramente dire che con le infrascritte parole: "Tres
Tribuni potestate consulari documento fuere, quam plurium
imperium bello inutile esset, tendendo ad sua quisque consilia,
cum alii aliud videretur, aperuerunt ad occasionem locum hosti".
E benché questo sia assai esemplo a
provare il disordine che fanno nella guerra i più comandatori,
ne voglio addurre alcuno altro, e moderno ed antico, per maggiore
dichiarazione della cosa.
Nel 1500, dopo la ripresa che fece il re
di Francia Luigi XII, di Milano, mandò le sue genti a Pisa per
ristituirla ai Fiorentini; dove furono mandati commessari
Giovambatista Ridolfi e Luca di Antonio degli Albizi. E perché
Giovambatista era uomo di riputazione, e di più tempo, Luca al
tutto lasciava governare ogni cosa a lui: e s'egli non dimostrava
la sua ambizione con opporsegli, la dimostrava col tacere, e con
lo straccurare e vilipendere ogni cosa, in modo che non aiutava
le azioni del campo né con l'opere né con il consiglio, come se
fusse stato uomo di nessuno momento. Ma si vide poi tutto il
contrario; quando Giovambatista, per certo accidente seguito, se
n'ebbe a tornare a Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostrò
quanto con l'animo, con la industria e col consiglio, valeva: le
quali tutte cose, mentre vi fu la compagnia, erano perdute.
Voglio di nuovo addurre, in confermazione di questo, parole di
Tito Livio; il quale, referendo come, essendo mandato da' Romani
contro agli Equi Quinzio ed Agrippa suo collega, Agrippa volle
che tutta l'amministrazione della guerra fosse appresso a Quinzio,
e' dice: "Saluberrimum in administratione magnarum rerum est,
summam imperii apud unum esse". Il che è contrario a quello
che oggi fanno queste nostre republiche e principi di mandare ne'
luoghi, per amministrargli meglio, più d'uno commessario e più
d'uno capo: il che fa una inestimabile confusione. E se si
cercassi le cagioni della rovina degli eserciti italiani e
franciosi ne' nostri tempi, si troveria la potissima essere stata
questa. E puossi conchiudere veramente, come egli è meglio
mandare in una ispedizione uno uomo solo di comunale prudenzia,
che due valentissimi uomini insieme con la medesima autorità.
Cap.
16
Che
la vera virtù si va ne' tempi difficili, a trovare; e ne' tempi
facili, non gli uomini virtuosi, ma quegli che per ricchezze o
per parentado hanno piu' grazia.
Egli
fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari in una
republica, ne' tempi pacifichi, sono negletti; perché, per la
invidia che si ha tirato dietro la riputazione che la virtù d'essi
ha dato loro, si truova in tali tempi assai cittadini che
vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro superiori. E
di questo ne è uno luogo buono in Tucidide, istorico greco; il
quale mostra come, sendo la republica ateniese rimasa superiore
in la guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato l'orgoglio degli
Spartani, e quasi sottomessa tutta l'altra Grecia, salse in tanta
riputazione che la disegnò di occupare la Sicilia. Venne questa
impresa in disputa in Atene. Alcibiade e qualche altro cittadino
consigliavano che la si facesse, come quelli che, pensando poco
al bene publico, pensavono all'onore loro, disegnando essere capi
di tale impresa. Ma Nicia, che era il primo intra i reputati di
Atene, la dissuadeva; e la maggiore ragione che, nel concionare
al popolo, perché gli fusse prestato fede, adducesse, fu questa:
che, consigliando esso che non si facesse questa guerra, e'
consigliava cosa che non faceva per lui; perché, stando Atene in
pace, sapeva come vi era infiniti cittadini che gli volevano
andare innanzi; ma, faccendosi guerra, sapeva che nessuno
cittadino gli sarebbe superiore o equale.
Vedesi, pertanto, adunque, come nelle
republiche è questo disordine, di fare poca stima de' valenti
uomini, ne' tempi quieti. La quale cosa gli fa indegnare in due
modi: l'uno per vedersi mancare del grado loro; l'altro, per
vedersi fare compagni e superiori uomini indegni e di manco
sofficienza di loro. Il quale disordine nelle republiche ha
causato di molte rovine; perché quegli cittadini che
immeritamente si veggono disprezzare, e conoscono che e' ne sono
cagione i tempi facili e non pericolosi, s'ingegnano di turbargli,
movendo nuove guerre in pregiudicio della republica. E pensando
quali potessono essere e' rimedi, ce ne truovo due: l'uno,
mantenere i cittadini poveri, acciocché con le ricchezze sanza
virtù e' non potessino corrompere né loro né altri, l'altro,
di ordinarsi in modo alla guerra, che sempre si potesse fare
guerra, e sempre si avesse bisogno di cittadini riputati, come e'
Romani ne' suoi primi tempi. Perché, tenendo fuori quella città
sempre eserciti, sempre vi era luogo alla virtù degli uomini;
né si poteva tôrre il grado a uno che lo meritasse, e darlo ad
uno che non lo meritasse: perché, se pure lo faceva qualche
volta, per errore o per provare, ne seguiva tosto tanto suo
disordine e pericolo, che la ritornava subito nella vera via. Ma
le altre republiche, che non sono ordinate come quella, e che
fanno solo guerra quando la necessità le costringe, non si
possono difendere da tale inconveniente: anzi sempre v'incorreranno
dentro; e sempre ne nascerà disordine, quando quello cittadino,
negletto e virtuoso, sia vendicativo, ed abbia nella città
qualche riputazione e aderenzia. E la città di Roma uno tempo
fece difesa; ma a quella ancora, poiché l'ebbe vinto Cartagine
ed Antioco (come altrove si disse), non temendo più le guerre,
pareva potere commettere gli eserciti a qualunque la voleva; non
riguardando tanto alla virtù, quanto alle altre qualità che gli
dessono grazia nel popolo. Perché si vide che Paulo Emilio ebbe
più volte la ripulsa nel consolato, né fu prima fatto consolo
che surgesse la guerra macedonica; la quale giudicandosi
pericolosa, di consenso di tutta la città fu commessa a lui.
Sendo nella nostra città di Firenze
seguite dopo il 1494 di molte guerre, ed avendo fatto i cittadini
fiorentini tutti una cattiva pruova, si riscontrò a sorte la
città in uno che mostrò come si aveva a comandare agli eserciti;
il quale fu Antonio Giacomini. E mentre che si ebbe a fare guerre
pericolose, tutta l'ambizione degli altri cittadini cessò, e
nella elezione del commessario e capo degli eserciti non aveva
competitore alcuno; ma come si ebbe a fare una guerra dove non
era alcuno dubbio, ed assai onore e grado, e' vi trovò tanti
competitori, che, avendosi ad eleggere tre commessari per
campeggiare Pisa, e' fu lasciato indietro. E benché e' non si
vedesse evidentemente che male ne seguisse al publico per non vi
avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare facilissima
coniettura; perché, non avendo più i Pisani da defendersi né
da vivere, se vi fusse stato Antonio, sarebbero stati tanto
innanzi stretti, che si sarebbero dati a discrezione de'
Fiorentini. Ma, sendo loro assediati da capi che non sapevano ne
stringergli ne sforzargli, furono tanto intrattenuti che la
città di Firenze gli comperò, dove la gli poteva avere a forza.
Convenne che tale sdegno potesse assai in Antonio; e bisognava ch'e'
fussi bene paziente e buono, a non disiderare di vendicarsene, o
con la rovina della città, potendo, o con l'ingiuria di alcuno
particulare cittadino. Da che si debbe una republica guardare;
come nel seguente capitolo si discorrerà.
Cap.
17
Che non si offenda uno, e poi quel
medesimo si mandi in amministrazione e governo d'importanza.
Debbe una republica assai considerare di non preporre alcuno ad alcuna importante amministrazione, al quale sia stato fatto da altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone, il quale si partì dallo esercito che lui aveva a fronte ad Annibale, e con parte d'esso ne andò nella Marca, a trovare l'altro Consolo per combattere con Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale, s'era trovato per lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con lo esercito, che bisognava o che Asdrubale combattesse con suo disavvantaggio o si morisse di fame, fu da Asdrubale astutamente tanto intrattenuto con certe pratiche d'accordo, che gli uscì di sotto, e tolsegli quella occasione di oppressarlo. La quale cosa, saputa a Roma, gli dette carico grande appresso a il Senato ed al popolo; e di lui fu parlato inonestamente per tutta quella città, non sanza suo grande disonore e disdegno. Ma, sendo poi fatto Consolo, e mandato allo incontro di Annibale, prese il soprascritto partito, il quale fu pericolosissimo, talmente che Roma stette tutta dubbia e sollevata infino a tanto che vennono le nuove della rotta di Asdrubale. Ed essendo poi domandato Claudio, per quale cagione avesse preso sì pericoloso partito, dove sanza una estrema necessità egli aveva giucato quasi la libertà di Roma; rispose che lo aveva fatto perché sapeva che, se gli riusciva, riacquistava quella gloria che si aveva perduta in Ispagna; e se non gli riusciva, e che questo suo partito avesse avuto contrario fine, sapeva come e' si vendicava contro a quella città ed a quegli cittadini che lo avevano tanto ingratamente ed indiscretamente offeso. E quando queste passioni di tali offese possono tanto in uno cittadino romano, e in quegli tempi che Roma ancora era incorrotta, si debbe pensare quanto elle possano in uno cittadino d'un'altra città che non sia fatta come era allora quella. E perché a simili disordini che nascano nelle republiche non si può dare certo rimedio, ne seguita che gli è impossibile ordinare una republica perpetua, perché per mille inopinate vie si causa la sua rovina.
Cap.
18
Nessuna cosa è più degna d'uno
capitano, che presentire i partiti del nimico.
Diceva
Epaminonda tebano, nessuna cosa essere più necessaria e più
utile ad uno capitano, che conoscere le diliberazioni e' partiti
del nimico. E perché tale cognizione è difficile, merita tanto
più laude quello che adopera in modo che le coniettura. E non
tanto è difficile intendere i disegni del nimico, ch'egli è
qualche volta difficile intendere le azioni sue; e non tanto le
azioni che per lui si fanno discosto, quanto le presenti e le
propinque. Perché molte volte è accaduto che, sendo durata una
zuffa infino a notte, chi ha vinto crede avere perduto, e chi ha
perduto crede avere vinto. Il quale errore ha fatto diliberare
cose contrarie alla salute di colui che ha diliberato: come
intervenne a Bruto e Cassio, i quali per questo errore perderono
la guerra; perché, avendo vinto Bruto dal corno suo, credette
Cassio, che aveva perduto, che tutto lo esercito fusse rotto; e
disperatosi, per questo errore, della salute, ammazzò sé stesso.
Ne' nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia, a Santa
Cecilia, Francesco re di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo
la notte, credettero, quella parte de' Svizzeri che erano rimasti
interi, avere vinto, non sappiendo di quegli che erano stati
rotti e morti: il quale errore fece che loro medesimi non si
salvarono, aspettando di ricombattere la mattina con tanto loro
disavantaggio; e fecero anche errare, e per tale errore presso
che rovinare, lo esercito del Papa e di Ispagna, il quale, in su
la falsa nuova della vittoria, passò il Po, e, se procedeva
troppo innanzi, restava prigione de' Franciosi che erano
vittoriosi.
Questo simile errore occorse ne' campi
romani e in quegli degli Equi. Dove, sendo Sempronio consolo con
lo esercito allo incontro degl'inimici, ed appiccandosi la zuffa,
si travagliò quella giornata infino a sera, con varia fortuna
dell'uno e dell'altro: e venuta la notte, sendo l'uno e l'altro
esercito mezzo rotto, non ritornò alcuno di loro ne' suoi
alloggiamenti; anzi ciascuno si ritrasse ne' prossimi colli, dove
credevano essere più sicuri; e lo esercito romano si divise in
due parti: l'una ne andò col Console; l'altra, con uno Tempanio
centurione, per la virtù del quale lo esercito romano quel
giorno non era stato rotto interamente. Venuta la mattina, il
Consolo romano, sanza intendere altro de' nimici, si tirò verso
Roma; il simile fece lo esercito degli Equi: perché ciascuno di
questi credeva che il nimico avesse vinto, e però ciascuno si
ritrasse sanza curare di lasciare i suoi alloggiamenti in preda.
Accadde che Tempanio, ch'era con il resto dello esercito romano,
ritirandosi ancora esso, intese, da certi feriti degli Equi, come
i capitani loro s'erano partiti, ed avevano abbandonati gli
alloggiamenti: donde che egli, in su questa nuova, se n'entrò
negli alloggiamenti romani, e salvogli; e dipoi saccheggiò
quegli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso. La quale
vittoria come si vede, consisté solo in chi prima di loro intese
i disordini del nimico. Dove si debbe notare, come e' può spesso
occorrere che due eserciti, che siano a fronte l'uno dell'altro,
siano nel medesimo disordine, e patischino le medesime necessità;
e che quello resti poi vincitore che è il primo ad intendere le
necessità dello altro.
Io voglio dare di questo uno esemplo
domestico e moderno. Nel 1498, quando i Fiorentini avevano uno
esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte quella
città; della quale avendo i Viniziani presa la protezione, non
veggendo altro modo a salvarla, diliberarono di divertire quella
guerra, assaltando da un'altra banda il dominio di Firenze; e,
fatto uno esercito potente, entrarono per la Val di Lamona, ed
occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di
Castiglione, che è in sul colle di sopra. Il che sentendo i
Fiorentini, diliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le
forze avevano in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed
ordinate nuove genti a cavallo, le mandarono a quella volta:
delle quali ne furono capi Iacopo IV d'Appiano, signore di
Piombino, ed il conte Rinuccio da Marciano. Sendosi adunque,
condotte queste genti in su il colle sopra Marradi, si levarono i
nimici d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel borgo. Ed
essendo stato l'uno e l'altro di questi due eserciti a fronte
qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai e di vettovaglie e d'ogni
altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno d'affrontare l'altro,
né sappiendo i disordini l'uno dell'altro, deliberarono in una
sera medesima l'uno e l'altro di levare gli alloggiamenti la
mattina vegnente, e ritirarsi in dietro; il Viniziano verso
Bersighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e il Mugello.
Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno de' campi
incominciato ad avviare i suoi impedimenti; a caso una donna si
partì del borgo di Marradi, e venne verso il campo fiorentino,
sicura per la vecchiezza e per la povertà, desiderosa di vedere
certi suoi che erano in quel campo: dalla quale intendendo i
capitani delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva,
si fecero, in su questa nuova, gagliardi; e mutato consiglio,
come se gli avessono disalloggiati i nimici, ne andarono sopra di
loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati e vinta la guerra.
La quale vittoria non nacque da altro che dallo avere inteso
prima dei nimici come e' se n'andavano: la quale notizia, se
fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro a'
nostri il medesimo effetto.
Cap.
19
Se a reggere una moltitudine è più
necessario l'ossequio che la pena.
Era
la Republica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de'
plebei: nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono fuori
con gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere
crudele e rozzo nel comandare, fu male ubidito da' suoi, tanto
che quasi rotto si fuggì della sua provincia; Quinzio, per
essere benigno e di umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti,
e riportonne la vittoria. Donde e' pare che e' sia meglio, a
governare una moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che
crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito, al quale molti altri
scrittori acconsentano in una sua sentenza conchiude il contrario,
quando ait: "In multitudine regenda plus poena quam
obsequium valet". E considerando come si possa salvare l'una
e l'altra di queste opinioni dico: o che tu hai a reggere uomini
che ti sono per l'ordinario compagni, o uomini che ti sono sempre
suggetti. Quando ti sono compagni, non si può interamente usare
la pena, né quella severità di che ragiona Cornelio; e perché
la plebe romana aveva in Roma equale imperio con la Nobilità,
non poteva uno, che ne diventava principe a tempo, con crudeltà
e rozzezza maneggiarla. E molte volte si vide che migliore frutto
fecero i capitani romani che si facevano amare dagli eserciti, e
che con ossequio gli maneggiavano, che quegli che si facevano
istraordinariamente temere; se già e' non erano accompagnati da
una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi comanda a'
sudditi, de' quali ragiona Cornelio, acciocché non doventino
insolenti, e che per troppa tua facilità non ti calpestino,
debbe volgersi più tosto alla pena che all'ossequio. Ma questa
anche debbe essere in modo moderata, che si fugga l'odio; perché
farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe. Il modo del
fuggirlo è lasciare stare la roba de' sudditi: perché del
sangue, quando non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno
principe ne è desideroso, se non necessitato, e questa
necessità viene rade volte; ma, sendovi mescolata la rapina
viene sempre, né mancano mai le cagioni ed il desiderio di
spargerlo; come in altro trattato sopra questa materia si è
largamente discorso. Meritò adunque, più laude Quinzio che
Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai termini suoi, e non
ne' casi osservati di Appio, merita d'essere approvata.
E perché noi abbiamo parlato della pena
e dell'ossequio non mi pare superfluo mostrare, come uno esemplo
di umanità poté appresso i Falisci più che l'armi.
Cap.
20
Uno esemplo di umanità appresso i
falisci potette più che ogni forza romana.
Essendo Cammillo con lo esercito intorno alla città de' Falisci, e quella assediando, uno maestro di scuola de' più nobili fanciulli di quella città, pensando di gratificarsi Cammillo ed il popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo con quegli fuori della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a Cammillo, e presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra si darebbe nelle sue mani. Il quale presente non solamente non fu accettato da Cammillo; ma, fatto spogliare quel maestro, e legatogli le mani di dietro, e dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga in mano, lo fece da quegli con di molte battiture accompagnare nella terra. La quale cosa intesa da quegli cittadini, piacque tanto loro la umanità ed integrità di Cammillo, che, sanza volere più difendersi, diliberarono di darli la terra. Dove è da considerare, con questo vero esemplo, quanto qualche volta possa più negli animi degli uomini uno atto umano e pieno di carità, che uno atto feroce e violento; e come molte volte quelle provincie e quelle città che le armi, gl'instrumenti bellici ed ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo di umanità e di piatà, di castità o di liberalità, ha aperte. Di che ne sono nelle istorie, oltre a questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi romane non potevano cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la liberalità di Fabrizio, quando gli manifestò l'offerta che aveva fatta ai Romani quello suo familiare, di avvelenarlo. Vedesi ancora, come a Scipione Affricano non dette tanta riputazione in Ispagna la espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette quello esemplo di castità, di avere renduto la moglie, giovane, bella, ed intatta al suo marito; la fama della quale azione gli fece amica tutta la Ispagna. Vedesi ancora, questa parte quanto la sia desiderata da' popoli negli uomini grandi, e quanto sia laudata dagli scrittori; e da quegli che descrivano la vita de' principi, e da quegli che ordinano come ei debbano vivere. Intra i quali Senofonte si affatica assai in dimostrare quanti onori, quante vittorie, quanta buona fama arrecasse a Ciro lo essere umano ed affabile, e non dare alcuno esemplo di sé, né di superbo, né di crudele, né di lussurioso né di nessuno altro vizio che macchi la vita degli uomini. Pure nondimeno, veggendo Annibale, con modi contrari a questi, avere conseguito gran fama e gran vittorie, mi pare da discorrere, nel seguente capitolo, donde questo nasca.
Cap.
21
Donde
nacque che Annibale, con diverso modo di procedere da Scipione
fece quelli medesimi effetti in Italia che quello in Ispagna.
Io
estimo che alcuni si potrebbono maravigliare veggendo come
qualche capitano, nonostante ch'egli abbia tenuto contraria vita,
abbia nondimeno fatti simili effetti a coloro che sono vissuti
nel modo soprascritto: talché pare che la cagione delle vittorie
non dependa dalle predette cause; anzi pare che quelli modi non
ti rechino né più forza né più fortuna, potendosi per
contrari modi acquistare gloria e riputazione. E per non mi
partire dagli uomini soprascritti, e per chiarire meglio quello
che io ho voluto dire, dico come e' si vede Scipione entrare in
Ispagna, e con quella sua umanità e piatà subito farsi amica
quella provincia, ed adorare ed ammirare da' popoli. Vedesi, allo
incontro, entrare Annibale in Italia, e con modi tutti contrari,
cioè con crudeltà, violenza e rapina ed ogni ragione infideltà,
fare il medesimo effetto che aveva fatto Scipione in Ispagna;
perché, a Annibale, si ribellarono tutte le città d'Italia,
tutti i popoli lo seguirono.
E pensando donde questa cosa possa
nascere, ci si vede dentro più ragioni. La prima è, che gli
uomini sono desiderosi di cose nuove; in tanto che così
disiderano il più delle volte novità quegli che stanno bene,
come quegli che stanno male: perché, come altra volta si disse,
ed è il vero, gli uomini si stuccono nel bene, e nel male si
affliggano. Fa, adunque, questo desiderio aprire le porte a
ciascuno che in una provincia si fa capo d'una innovazione; e s'egli
è forestiero, gli corrono dietro; s'egli è provinciale, gli
sono intorno, augumentanlo e favorisconlo: talmenteché, in
qualunque modo elli proceda, gli riesce il fare progressi grandi
in quegli luoghi. Oltre a questo, gli uomini sono spinti da due
cose principali; o dallo amore, o dal timore: talché, così gli
comanda chi si fa amare, come lui che si fa temere; anzi, il più
delle volte è più seguito e più ubbidito chi si fa temere che
chi si fa amare.
Importa, pertanto, poco ad uno capitano,
per qualunque di queste vie e' si cammini, pure che sia uomo
virtuoso, e che quella virtù lo faccia riputato intra gli uomini.
Perché, quando la è grande, come la fu in Annibale ed in
Scipione, ella cancella tutti quegli errori che si fanno per
farsi troppo amare o per farsi troppo temere. Perché dall'uno e
dall'altro di questi due modi possono nascere inconvenienti
grandi, ed atti a fare rovinare uno principe: perché colui che
troppo desidera essere amato, ogni poco che si parte dalla vera
via, diventa disprezzabile: quell'altro che desidera troppo di
essere temuto, ogni poco ch'egli eccede il modo, diventa odioso.
E tenere la via del mezzo non si può appunto, perché la nostra
natura non ce lo consente: ma è necessario queste cose che
eccedono mitigare con una eccessiva virtù, come faceva Annibale
e Scipione. Nondimeno si vide come l'uno e l'altro furono offesi
da questi loro modi di vivere, e così furono esaltati.
La esaltazione di tutti a due si è detta.
L'offesa, quanto a Scipione, fu che gli suoi soldati in Ispagna
se gli ribellarono, insieme con parte de' suoi amici: la quale
cosa non nacque da altro che da non lo temere; perché gli uomini
sono tanto inquieti, che, ogni poco di porta che si apra loro all'ambizione,
dimenticano subito ogni amore che gli avessero posto al principe
per la umanità sua; come fecero i soldati ed amici predetti:
tanto che Scipione, per rimediare a questo inconveniente, fu
costretto usare parte di quella crudeltà che elli aveva fuggita.
Quanto ad Annibale, non ci è esemplo alcuno particulare, dove
quella sua crudeltà e poca fede gli nocesse: ma si può bene
presupporre che Napoli, e molte altre terre che stettero in fede
del popolo romano, stessero per paura di quella. Viddesi bene
questo che quel suo modo di vivere impio, lo fece più odioso al
popolo romano, che alcuno altro inimico che avesse mai quella
Republica: in modo che, dove a Pirro mentre che egli era con lo
esercito in Italia, manifestarono quello che lo voleva avvelenare,
ad Annibale mai, ancora che disarmato e disperso, perdonarono,
tanto che lo fecioro morire. Nacquene, adunque, ad Annibale, per
essere tenuto impio e rompitore di fede e crudele, queste
incommodità; ma gliene risultò allo incontro una commodità
grandissima, la quale è ammirata da tutti gli scrittori: che,
nel suo esercito, ancoraché composto di varie generazioni di
uomini, non nacque mai alcuna dissensione, né infra loro
medesimi, né contro di lui. Il che non potette dirivare da altro,
che dal terrore che nasceva dalla persona sua: il quale era tanto
grande, mescolato con la riputazione che gli dava la sua virtù,
che teneva i suoi soldati quieti ed uniti. Conchiudo, dunque,
come e' non importa molto in quale modo uno capitano si proceda,
pure che in esso sia virtù grande che condisca bene l'uno e l'altro
modo di vivere: perché, come è detto, nell'uno e nell'altro è
difetto e pericolo, quando da una virtù istraordinaria non sia
corretto. E se Annibale e Scipione, l'uno con cose laudabili, l'altro
con detestabili, feciono il medesimo effetto; non mi pare da
lasciare indietro il discorrere ancora di due cittadini romani,
che conseguirono con diversi modi, ma tutti a due laudabili, una
medesima gloria.
Cap. 22
Come la
durezza di Manlio Torquato e la umanità di Valerio Corvino
acquistò a ciascuno la medesima gloria.
E'
furno in Roma in uno medesimo tempo due capitani eccellenti,
Manlio Torquato e Valerio Corvino; i quali, di pari virtù, di
pari trionfi e gloria, vissono in Roma, e ciascuno di loro, in
quanto si apparteneva al nimico, con pari virtù l'acquistarono,
ma quanto si apparteneva agli eserciti ed agl'intrattenimenti de'
soldati, diversissimamente procederono: perché Manlio con ogni
generazione di severità sanza intermettere a' suoi soldati o
fatica o pena, gli comandava: Valerio, dall'altra parte, con ogni
modo e termine umano, e pieno di una familiare domestichezza, gl'intratteneva.
Per che si vide, che, per avere l'ubbidienza de' soldati, l'uno
ammazzò il figliuolo, e l'altro non offese mai alcuno. Nondimeno,
in tanta diversità di procedere, ciascuno fece il medesimo
frutto, e contro a' nimici ed in favore della republica e suo.
Perché nessuno soldato non mai o detrattò la zuffa o si
ribellò da loro o fu, in alcuna parte, discrepante dalla voglia
di quegli; quantunque gl'imperi di Manlio fussero sì aspri, che
tutti gli altri imperi che eccedevano il modo, erano chiamati
"manliana imperia". Dove è da considerare, prima,
donde nacque che Manlio fu costretto procedere sì rigidamente; l'altro,
donde avvenne che Valerio potette procedere sì umanamente l'altro,
quale cagione fe' che questi diversi modi facessero il medesimo
effetto; ed in ultimo, quale sia di loro meglio, e, imitare, più
utile. Se alcuno considera bene la natura di Manlio d'allora che
Tito Livio ne comincia a fare menzione, lo vedrà uomo fortissimo,
pietoso verso il padre e verso la patria, e reverentissimo a'
suoi maggiori. Queste cose si conoscono dalla morte di quel
Francioso, dalla difesa del padre contro al Tribuno; e come,
avanti ch'egli andasse alla zuffa del Francioso, e' n'andò al
Consolo con queste parole: "Iniussu tuo adversus hostem
nunquam pugnabo, non si certam victoriam videam". Venendo,
dunque, un uomo così fatto a grado che comandi, desidera di
trovare tutti gli uomini simili a sé; e l'animo suo forte gli fa
comandare cose forti; e quel medesimo, comandate che le sono,
vuole si osservino. Ed è una regola verissima, che, quando si
comanda cose aspre, conviene con asprezza farle osservare;
altrimenti, te ne troverresti ingannato. Dove è da notare, che a
volere essere ubbidito, è necessario saper comandare: e coloro
sanno comandare, che fanno comparazione dalle qualità loro a
quelle di chi ha ad ubbidire; e quando vi veggono proporzione,
allora comandino; quando sproporzione, se ne astenghino.
E però diceva un uomo prudente, che, a
tenere una republica, con violenza, conveniva fusse proporzione
da chi sforzava a quel che era sforzato. E qualunque volta questa
proporzione vi era, si poteva credere che quella violenza fusse
durabile; ma quando il violentato fusse più forte che il
violentante, si poteva dubitare che ogni giorno quella violenza
cessasse.
Ma tornando al discorso nostro, dico che,
a comandare le cose forti, conviene essere forte; e quello che è
di questa fortezza e che le comanda, non può poi con dolcezza
farle osservare. Ma chi non è di questa fortezza d'animo, si
debbe guardare dagl'imperi istraordinari, e negli ordinari può
usare la sua umanità. Perché le punizioni ordinarie non sono
imputate al principe, ma alle leggi ed a quegli ordini. Debbesi,
dunque, credere che Manlio fusse costretto procedere sì
rigidamente dagli straordinari suoi imperi, a' quali lo inclinava
la sua natura: i quali sono utili in una republica, perché e'
riducono gli ordini di quella verso il principio loro, e nella
sua antica virtù. E se una republica fusse sì felice, ch'ella
avesse spesso, come di sopra dicemo, chi con lo esemplo suo le
rinnovasse le leggi; e non solo la ritenesse che la non corresse
alla rovina, ma la ritirasse indietro; la sarebbe perpetua. Sì
che Manlio fu uno di quelli che con l'asprezza de' suoi imperi
ritenne la disciplina militare in Roma; costretto prima dalla
natura sua, dipoi dal desiderio aveva, si osservasse quello che
il suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall'altro
canto, Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui
bastava si osservassono le cose consuete osservarsi negli
eserciti romani. La quale consuetudine, perché era buona,
bastava ad onorarlo; e non era faticosa a osservarla, e non
necessitava Valerio a punire i transgressori: sì perché non ve
n'era; sì perché, quando e' ve ne fosse stati, imputavano, come
è detto, la punizione loro agli ordini e non alla crudeltà del
principe. In modo che, Valerio poteva fare nascere da lui ogni
umanità, dalla quale ei potesse acquistare grado con i soldati,
e la contentezza loro. Donde nacque che, avendo l'uno e l'altro
la medesima ubbidienza, potettono, diversamente operando, fare il
medesimo effetto. Possono quelli che volessero imitare costoro,
cadere in quelli vizi di dispregio e di odio che io dico, di
sopra, di Annibale e di Scipione: il che si fugge con una virtù
eccessiva che sia in te, e non altrimenti.
Resta ora a considerare quale di questi
modi di procedere sia più laudabile. Il che credo sia
disputabile, perché gli scrittori lodano l'uno modo e l'altro.
Nondimeno, quegli che scrivono come uno principe si abbia a
governare, si accostano più a Valerio che a Manlio; e Senofonte,
preallegato da me, dando di molti esempli della umanità di Ciro,
si conforma assai con quello che dice di Valerio, Tito Livio.
Perché, essendo fatto Consolo contro ai Sanniti, e venendo il
dì che doveva combattere, parlò a' suoi soldati con quella
umanità con la quale ei si governava; e dopo tale parlare, Tito
Livio dice quelle parole: "Non alias militi familiarior dux
fuit, inter infimos milites omnia haud gravate mundia obeundo. In
ludo praeterea militari, cum velocitatis viriumque inter se
aequales certamina ineunt, comiter facilis vincere ac vinci vultu
eodem; nec quemquam aspernari parem qui se offerret; factis
benignus pro re; dictis haud minus libertatis alienae, quam suae
dignitatis memor; et (quo nihil popularius est) quibus artibus
petierat magistratus, iisdem gerebat". Parla medesimamente,
di Manlio, Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua
severità nella morte del figliuolo fece tanto ubbidiente lo
esercito al Consolo, che fu cagione della vittoria che il popolo
romano ebbe contro ai Latini; ed in tanto procede in laudarlo,
che, dopo tale vittoria, descritto ch'egli ha tutto l'ordine di
quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che il popolo romano vi
corse, e le difficultà che vi furono a vincere fa questa
conclusione: che solo la virtù di Manlio dette quella vittoria
ai Romani. E faccendo comparazione delle forze dell'uno e dell'altro
esercito, afferma come quella parte arebbe vinto che avesse avuto
per consolo Manlio. Talché considerato tutto quello che gli
scrittori ne parlano, sarebbe difficile giudicarne. Nondimeno,
per non lasciare questa parte indecisa, dico come in uno
cittadino che viva sotto le leggi d'una republica, credo sia più
laudabile e meno pericoloso il procedere di Manlio: perché
questo modo tutto è in favore del publico, e non risguarda in
alcuna parte all'ambizione privata; perché tale modo non si può
acquistare partigiani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed
amando solo il bene commune; perché chi fa questo, non si
acquista particulari amici, quali noi chiamiamo, come di sopra si
disse, partigiani. Talmenteché, simile modo di procedere non
può essere più utile né più disiderabile in una republica;
non mancando in quello la utilità publica, e non vi potendo
essere alcun sospetto della potenza privata. Ma nel modo del
procedere di Valerio è il contrario: perché, se bene in quanto
al publico si fanno e' medesimi effetti, nondimeno vi surgono
molte dubitazioni per la particulare benivolenza che colui si
acquista con i soldati, da fare in uno lungo imperio cattivi
effetti contro alla libertà.
E se in Publicola questi cattivi effetti
non nacquono, ne fu cagione non essere ancora gli animi de'
Romani corrotti, e quello non essere stato lungamente e
continovamente al governo loro. Ma se noi abbiamo a considerare
uno principe, come considera Senofonte, noi ci accostereno al
tutto a Valerio, e lasceremo Manlio perché uno principe debbe
cercare ne' soldati e ne' sudditi l'ubbidienza e lo amore. La
ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli ordini e lo essere
tenuto virtuoso; lo amore gli dà l'affabilità, l'umanità, la
piatà, e l'altre parti che erano in Valerio, e che Senofonte
scrive essere in Ciro. Perché lo essere uno principe bene voluto
particularmente, ed avere lo esercito suo partigiano, si conforma
con tutte l'altre parti dello stato suo: ma in uno cittadino che
abbia lo esercito suo partigiano, non si conforma già questa
parte con l'altre sue parti, che lo hanno a fare vivere sotto le
leggi ed ubidire ai magistrati.
Leggesi intra le cose antiche della
Republica viniziana, come, essendo le galee viniziane tornate in
Vinegia, e venendo certa differenza intra quegli delle galee ed
il popolo, donde si venne al tumulto ed all'armi, né si potendo
la cosa quietare né per forza di ministri né per riverenza di
cittadini né timore de' magistrati; subito a quelli marinai
apparve innanzi uno gentiluomo che era, l'anno davanti, stato
capitano loro, per amore di quello si partirono, e lasciarono la
zuffa. La quale ubbidienza generò tanta suspizione al Senato,
che, poco tempo dipoi, i Viniziani, o per prigione o per morte,
se ne assicurarono. Conchiudo pertanto, il procedere di Valerio
essere utile in uno principe e pernizioso in uno cittadino; non
solamente alla patria, ma a sé a lei, perché quelli modi
preparano la via alla tirannide; a sé, perché in sospettando la
sua città del modo del procedere suo è costretta assicurarsene
con suo danno. E così, per il contrario, affermo il procedere di
Manlio in uno principe essere dannoso, ed in uno cittadino utile,
e massime alla patria: ed ancora rade volte offende; se già
questo odio che ti reca la tua severità, non è accresciuto da
sospetto che l'altre tue virtù per la gran riputazione ti
arrecassono: come, di sotto, di Cammillo si discorrerà.
Cap.
23
Per quale cagione Cammillo fusse
cacciato di Roma.
Noi
abbiamo conchiuso di sopra, come, procedendo come Valerio, si
nuoce alla patria ed a sé; e, procedendo come Manlio, si giova
alla patria, e nuocesi qualche volta a sé. Il che si pruova
assai bene per lo esemplo di Cammillo, il quale nel procedere suo
simigliava più tosto Manlio che Valerio. Donde Tito Livio,
parlando di lui, dice, come "eius virtutem milites oderant,
et mirabantur".
Quello che lo faceva tenere maraviglioso
era la sollicitudine, la prudenza, la grandezza dello animo, il
buon ordine che lui servava nello adoperarsi, e nel comandare
agli eserciti: quello che lo faceva odiare, era essere più
severo nel gastigargli che liberale nel rimunerargli. E Tito
Livio ne adduce di questo odio queste cagioni: la prima, che i
danari che si trassono de' beni de' Veienti che si venderono,
esso gli applicò al publico, e non gli divise con la preda: l'altra,
che nel trionfo ei fece tirare il suo carro trionfale da quattro
cavagli bianchi, dove essi dissero che per la superbia e' si era
voluto agguagliare al Sole: la terza, che ei fece voto di dare a
Apolline la decima parte della preda de' Veienti, la quale,
volendo sodisfare al voto, si aveva a trarre delle mani de'
soldati che l'avevano di già occupata. Dove si notano bene e
facilmente quelle cose che fanno uno principe odioso appresso il
popolo; delle quali la principale è privarlo d'uno utile. La
quale è cosa d'importanza assai, perché le cose che hanno in
sé utilità, quando l'uomo n'è privo, non le dimentica mai, ed
ogni minima necessità te ne fa ricordare; e perché le
necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno. L'altra
cosa è lo apparire superbo ed enfiato; il che non può essere
più odioso a' popoli, e massime a' liberi. E benché da quella
superbia e da quel fasto non ne nascesse loro alcuna incommodità,
nondimeno hanno in odio chi l'usa: da che uno principe si debbe
guardare come da uno scoglio: perché tirarsi odio addosso senza
suo profitto, è al tutto partito temerario e poco prudente.
Cap.
24
La prolungazione degl'imperii fece
serva Roma.
Se si considera bene il procedere della Republica romana, si vedrà due cose essere state cagione della risoluzione di quella Republica: l'una furon le contenzioni che nacquono dalla legge agraria; l'altra, la prolungazione degli imperii: le quali cose se fussono state conosciute bene da principio, e fattovi i debiti rimedi, sarebbe stato il vivere libero più lungo, e per avventura più quieto. E benché, quanto alla prolungazione dello imperio, non si vegga che in Roma nascessi mai alcuno tumulto; nondimeno si vide in fatto, quanto nocé alla città quella autorità che i cittadini per tali diliberazioni presono. E se gli altri cittadini a chi era prorogato il magistrato, fussono stati savi e buoni come fu Lucio Quinzio, non si sarebbe incorso in questo inconveniente. La bontà del quale è di uno esemplo notabile, perché, essendosi fatto intra la Plebe ed il Senato convenzione d'accordo, ed avendo la Plebe prolungato in uno anno lo imperio ai Tribuni, giudicandogli atti a potere resistere all'ambizione de' nobili, volle il Senato, per gara della Plebe e per non parere da meno di lei, prolungare il consolato a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò questa diliberazione, dicendo che i cattivi esempli si voleva cercare di spegnergli, non di accrescergli con uno altro più cattivo esemplo, e volle si facessono nuovi Consoli. La quale bontà e prudenza se fosse stata in tutti i cittadini romani, non arebbe lasciata introdurre quella consuetudine di prolungare i magistrati, e da quelli non si sarebbe venuto alla prolungazione delli imperii: la quale cosa, col tempo, rovinò quella Republica. Il primo a chi fu prorogato lo imperio, fu a Publio Philone; il quale essendo a campo alla città di Palepoli, e venendo la fine del suo consolato, e parendo al Senato ch'egli avesse in mano quella vittoria, non gli mandarono il successore, ma lo fecero Proconsolo; talché fu il primo Proconsolo. La quale cosa, ancora che mossa dal Senato per utilità publica, fu quella che con il tempo fece serva Roma. Perché, quanto più i Romani si discostarono con le armi, tanto più parve loro tale prorogazione necessaria, e più la usarono. La quale cosa fece due inconvenienti: l'uno, che meno numero di uomini si esercitarono negl'imperii, e si venne per questo a ristringere la riputazione in pochi: l'altro, che, stando uno cittadino assai tempo comandatore d'uno esercito, se lo guadagnava e facevaselo partigiano; perché quello esercito col tempo dimenticava il Senato e riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono trovare soldati che contro al bene publico gli seguitassono: per questo, Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani non avessono prolungati i magistrati e gli imperii, se non venivano sì tosto a tanta potenza, e se fussono stati più tardi gli acquisti loro, sarebbono ancora più tardi venuti nella servitù.
Cap.
25
Della
povertà di Cincinnato e di molti cittadini romani.
Noi abbiamo ragionato altrove come la più utile cosa che si ordini in uno vivere libero è che si mantenghino i cittadini poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse quello che facesse questo effetto, avendo, massime, la legge agraria avuta tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza si vide, che, dopo quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una grandissima povertà; né si può credere che altro ordine maggiore facesse questo effetto, che vedere come per la povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a qualunque onore, e come e' si andava a trovare la virtù in qualunque casa l'abitasse. Il quale modo di vivere faceva manco desiderabili le ricchezze. Questo si vede manifesto; perché, sendo Minuzio consolo assediato con lo esercito suo dagli Equi, si empié di paura Roma, che quello esercito non si perdesse; tanto che ricorsero a creare il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro cose afflitte. E crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale allora si trovava nella sua piccola villa, la quale lavorava di sua mano. La quale cosa con parole auree e celebrata da Tito Livio, dicendo: "Operae pretium est audire, qui omnia prae divitiis humana spernunt, neque honori magno locum, neque virtuti putant esse, nisi effusae affluant opes". Arava Cincinnato la sua piccola villa, la quale non trapassava il termine di quattro iugeri quando da Roma vennero i Legati del Senato a significargli la elezione della sua dittatura, a mostrargli in quale pericolo si trovava la romana Republica. Egli, presa la sua toga, venuto in Roma e ragunato uno esercito ne andò a liberare Minuzio, ed avendo rotti e spogliati i nimici, e liberato quello, non volle che lo esercito assediato fusse partecipe della preda, dicendogli queste parole: - Io non voglio che tu participi della preda di coloro de' quali tu se' stato per essere preda; - e privò Minuzio del consolato, e fecelo Legato, dicendogli: - Starai in questo grado tanto, che tu impari a sapere essere Consolo -. Aveva fatto suo Maestro de' cavagli Lucio Tarquinio, il quale per la povertà militava a piede. Notasi, come è detto, l'onore che si faceva in Roma alla povertà; e come a un uomo buono e valente, quale era Cincinnato, quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo. La quale povertà si vede come era ancora ne' tempi di Marco Regolo; perché, sendo in Affrica con gli eserciti, domandò licenza al Senato per potere tornare a custodire la sua villa, la quale gli era guasta da' suoi lavoratori. Dove si vede due cose notabilissime: l'una, la povertà, e come vi stavano dentro contenti, e come e' bastava a quelli cittadini trarre della guerra onore, e l'utile tutto lasciavano al publico. Perché, s'egli avessero pensato d'arricchire della guerra, gli sarebbe dato poca briga che i suoi campi fussono stati guasti. L'altra è considerare la generosità dell'animo di quelli cittadini, i quali, preposti ad uno esercito, saliva la grandezza dello animo loro sopra ogni principe, non stimavono i re, non le republiche; non gli sbigottiva né spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano parchi, umili, curatori delle piccole facultà loro, ubbidienti a' magistrati, reverenti alli loro maggiori: talché pare impossibile che uno medesimo animo patisca tale mutazione. Durò questa povertà ancora infino a' tempi di Paulo Emilio, che furono quasi gli ultimi felici tempi di quella Republica, dove uno cittadino, che col trionfo suo arricchì Roma, nondimeno mantenne povero sé. Ed in tanto si stimava ancora la povertà, che Paulo, nell'onorare chi si era portato bene nella guerra, donò a uno suo genero una tazza d'ariento, il quale fu il primo ariento che fusse nella sua casa. Potrebbesi, con un lungo parlare, mostrare quanto migliori frutti produca la povertà che la ricchezza, e come l'una ha onorato le città, le provincie, le sétte, e l'altra le ha rovinate; se questa materia non fusse stata molte volte da altri uomini celebrata.
Cap.
26
Come per cagione di femine si rovina
uno stato.
Nacque
nella città d'Ardea intra i patrizi e gli plebei una sedizione
per cagione d'uno parentado: dove, avendosi a maritare una femina
ricca, la domandarono parimente uno plebeo ed uno nobile; e non
avendo quella padre, i tutori la volevono congiugnere al plebeo,
la madre al nobile: di che nacque tanto tumulto, che si venne
alle armi; dove tutta la Nobilità si armò in favore del nobile,
e tutta la plebe in favore del plebeo. Talché, essendo superata
la plebe, si uscì d'Ardea, e mandò a' Volsci per aiuto: i
nobili mandarono a Roma. Furono prima i Volsci, e, giunti intorno
ad Ardea, si accamparono. Sopravvennono i Romani, e rinchiusono i
Volsci infra la terra e loro; tanto che gli costrinsono, essendo
stretti dalla fame, a darsi a discrezione. Ed entrati i Romani in
Ardea, e morti tutti i capi della sedizione, composono le cose di
quella città.
Sono in questo testo più cose da notare.
Prima, si vede come le donne sono state cagioni di molte rovine,
ed hanno fatti gran danni a quegli che governano una città, ed
hanno causato di molte divisioni in quelle: e, come si è veduto
in questa nostra istoria, lo eccesso fatto contro a Lucrezia
tolse lo stato ai Tarquinii; quell'altro, fatto contro a Virginia,
privò i Dieci dell'autorità loro. Ed Aristotile, intra le prime
cause che mette della rovina de' tiranni, è lo avere ingiuriato
altrui per conto delle donne, o con stuprarle, o con violarle, o
con rompere i matrimonii; come di questa parte, nel capitolo dove
noi trattamo delle congiure, largamente si parlò. Dico, adunque,
come i principi assoluti ed i governatori delle republiche non
hanno a tenere poco conto di questa parte; ma debbono considerare
i disordini che per tale accidente possono nascere, e rimediarvi
in tempo che il rimedio non sia con danno e vituperio dello stato
loro o della loro republica: come intervenne agli Ardeati; i
quali, per avere lasciato crescere quella gara intra i loro
cittadini, si condussero a dividersi infra loro; e, volendo
riunirsi, ebbono a mandare per soccorsi esterni: il che è uno
grande principio d'una propinqua servitù.
Ma veniamo allo altro notabile, del modo
del riunire le città; del quale nel futuro capitolo parlereno.
Cap.
27
Come e' si ha ad unire una città
divisa; e come e' non è vera quella opinione, che, a tenere le
città, bisogni tenerle divise.
Per
lo esemplo de' Consoli romani che riconciliorono insieme gli
Ardeati, si nota il modo come si debbe comporre una città divisa:
il quale non è altro, né altrimenti si debbe medicare, che
ammazzare i capi de' tumulti, perché gli è necessario pigliare
uno de' tre modi: o ammazzargli, come feciono costoro; o
rimuovergli della città; o fare loro fare pace insieme, sotto
oblighi di non si offendere. Di questi tre modi, questo ultimo è
più dannoso, meno certo e più inutile. Perché gli è
impossibile, dove sia corso assai sangue, o altre simili ingiurie,
che una pace, fatta per forza, duri, riveggendosi ogni dì
insieme in viso; ed è difficile che si astenghino dallo
ingiuriare l'uno l'altro, potendo nascere infra loro ogni dì,
per la conversazione, nuove cagioni di querele.
Sopra che non si può dare il migliore
esemplo che la città di Pistoia. Era divisa quella città, come
è ancora, quindici anni sono, in Panciatichi e Cancellieri; ma
allora era in sull'armi, ed oggi le ha posate. E dopo molte
dispute infra loro vennono al sangue, alla rovina delle case, al
predarsi la roba, e ad ogni altro termine di nimico. Ed i
Fiorentini, che gli avevano a comporre, sempre vi usarono quel
terzo modo; e sempre ne nacque maggiori tumulti e maggiori
scandali: tanto che, stracchi, e' si venne al secondo modo, di
rimuovere i capi delle parti; de' quali alcuni messono in
prigione alcuni altri confinarono in vari luoghi: tanto che l'accordo
fatto potette stare, ed è stato infino a oggi. Ma sanza dubbio
più sicuro saria stato il primo. Ma perché simili esecuzioni
hanno il grande ed il generoso, una republica debole non le sa
fare, ed ènne tanto discosto, che a fatica la si conduce al
rimedio secondo. E questi sono di quegli errori che io dissi nel
principio, che fanno i principi de' nostri tempi, che hanno a
giudicare le cose grandi; perché doverrebbono volere udire come
si sono governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente
simili casi. Ma la debolezza de' presenti uomini, causata dalla
debole educazione loro e dalla poca notizia delle cose, fa che si
giudicano i giudicii antichi, parte inumani, parte impossibili.
Ed hanno certe loro moderne opinioni, discosto al tutto dal vero,
come è quella che dicevano e' savi della nostra città, un tempo
fa: che bisognava tenere Pistoia con le parti, e Pisa con le
fortezze; e non si avveggono, quanto l'una e l'altra di queste
due cose è inutile.
Io voglio lasciare le fortezze, perché
di sopra ne parlamo a lungo; e voglio discorrere la inutilità
che si trae del tenere le terre, che tu hai in governo, divise.
In prima, egli è impossibile che tu ti mantenga tutte a due
quelle parti amiche, o principe o republica che le governi.
Perché dalla natura è dato agli uomini pigliare parte in
qualunque cosa divisa, e piacergli più questa che quella.
Talché, avendo una parte di quella terra male contenta, fa che,
la prima guerra che viene, te la perdi; perché gli è
impossibile guardare una città che abbia e' nimici fuori e
dentro. Se la è una republica che la governi, non ci è il più
bel modo a fare cattivi i tuoi cittadini ed a fare dividere la
tua città, che avere in governo una città divisa; perché
ciascuna parte cerca di avere favori, e ciascuna si fa amici con
varie corruttele: talché ne nasce due grandissimi inconvenienti;
l'uno, che tu non ti gli fai mai amici, per non gli potere
governare bene, variando il governo spesso, ora con l'uno, ora
con l'altro omore; l'altro, che tale studio di parte divide di
necessità la tua republica. Ed il Biondo, parlando de'
Fiorentini e de' Pistolesi, ne fa fede, dicendo: "Mentre che
i Fiorentini disegnavono di riunire Pistoia, divisono sé
medesimi". Pertanto, si può facilmente considerare il male
che da questa divisione nasca.
Nel 1502, quando si perdé Arezzo, e
tutto Val di Tevere e Val di Chiana, occupatoci dai Vitelli e dal
duca Valentino, venne un monsignor di Lant, mandato dal re di
Francia a fare ristituire ai Fiorentini tutte quelle terre
perdute; e trovando Lant in ogni castello uomini che, nel
vicitarlo, dicevano che erano della parte di Marzocco, biasimò
assai questa divisione: dicendo, che, se in Francia uno di quegli
sudditi del re dicesse di essere della parte del re, sarebbe
gastigato, perché tale voce non significherebbe altro, se non
che in quella terra fusse gente inimica del re, e quel re vuole
che le terre tutte sieno sue amiche, unite e sanza parte. Ma
tutti questi modi e queste opinioni diverse dalla verità,
nascono dalla debolezza di chi è signore; i quali, veggendo di
non potere tenere gli stati con forza e con virtù, si voltono a
simili industrie: le quali qualche volta ne' tempi quieti giovano
qualche cosa, ma, come e' vengono le avversità ed i tempi forti,
le mostrano la fallacia loro.
Cap.
28
Che si debbe por mente alle opere de'
cittadini, perché molte volte sotto una opera pia si nasconde
uno principio di tirannide.
Essendo la città di Roma aggravata dalla fame, e non bastando le provisioni publiche a cessarla, prese animo uno Spurio Melio, essendo assai ricco, secondo quegli tempi, di fare provisione privatamente di frumento, e pascerne col suo grado la plebe. Per la quale cosa, egli ebbe tanto concorso di popolo in suo favore, che il Senato, pensando all' inconveniente che di quella sua liberalità poteva nascere, per opprimerla avanti che la pigliasse più forze, gli creò uno Dittatore addosso, e fecelo morire. Qui è da notare, come molte volte le opere che paiono pie e da non le potere ragionevolmente dannare, diventono crudeli, e per una republica sono pericolosissime, quando le non siano a buona ora corrette. E per discorrere questa cosa più particularmente, dico che una republica sanza i cittadini riputati non può stare, né può governarsi in alcuno modo bene. Dall'altro canto, la riputazione de' cittadini è cagione della tirannide delle republiche. E volendo regolare questa cosa, bisogna ordinarsi talmente, che i cittadini siano riputati, di riputazione che giovi, e non nuoca, alla città ed alla libertà di quella. E però si debbe esaminare i modi con i quali e' pigliano riputazione; che sono in effetto due: o publici o privati. I modi publici sono, quando uno, consigliando bene, operando meglio, in beneficio comune, acquista riputazione. A questo onore si debba aprire la via ai cittadini, e preporre premii ed ai consigli ed alle opere, talché se ne abbiano ad onorare e sodisfare. E quando queste riputazioni, prese per queste vie, siano stiette e semplici, non saranno mai pericolose: ma quando le sono prese per vie private, che è l'altro modo preallegato, sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private sono, faccendo beneficio a questo ed a quello altro privato, col prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai magistrati, e faccendogli simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani, e danno animo, a chi è così favorito, di potere corrompere il publico e sforzare le leggi. Debbe, pertanto, una republica bene ordinata aprire le vie come è detto, a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private, come si vede che fece Roma perché in premio di chi operava bene per il publico, ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori che la dava ai suoi cittadini, ed in danno di chi sotto vari colori per vie private cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non bastassero, per essere accecato il popolo da una spezie di falso bene, ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio facesse ritornare dentro al segno chi ne fosse uscito, come la fece per punire Spurio Melio. Ed una che di queste cose si lasci impunita, è atta a rovinare una republica; perché difficilmente con quello esemplo si riduce dipoi in la vera via.
Cap.
29
Che gli peccati de' popoli nascono
dai principi.
Non si dolghino i principi di alcuno peccato che facciono i popoli ch'egli abbiano in governo; perché tali peccati conviene che naschino o per la sua negligenza, o per essere lui macchiato di simili errori. E chi discorrerà i popoli che ne' nostri tempi sono stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà che sarà al tutto nato da quegli che gli governavano, che erano di simile natura. La Romagna, innanzi che in quella fussono spenti da papa Alessandro VI quegli signori che la comandavano, era un esempio d'ogni sceleratissima vita, perché quivi si vedeva per ogni leggiere cagione seguire occisioni e rapine grandissime. Il che nasceva dalla tristitia di quelli principi; non dalla natura trista degli uomini, come loro dicevano. Perché, sendo quegli principi poveri, e volendo vivere da ricchi, erano necessitati volgersi a molte rapine, e quelle per vari modi usare. Ed intra l'altre disoneste vie che tenevano, e' facevano leggi, e proibivono alcuna azione; dipoi erano i primi che davano cagione della inosservanza di esse, né mai punivano gli inosservanti, se non poi, quando vedevano assai essere incorsi in simile pregiudizio; ed allora si voltavano alla punizione, non per zelo della legge fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nasceva molti inconvenienti, e sopra tutto, questo, che i popoli s'impoverivano, e non si correggevano; e quegli che erano impoveriti, s'ingegnavano, contro a' meno potenti di loro, prevalersi. Donde surgevano tutti quelli mali che di sopra si dicano, de' quali era cagione il principe. E che questo sia vero, lo mostra Tito Livio quando e' narra che, portando i Legati romani il dono della preda de' Veienti ad Apolline, furono presi da' corsali di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra: ed inteso Timasiteo, loro principe, che dono era questo, dove gli andava e chi lo mandava, si portò, quantunque nato a Lipari, come uomo romano, e mostrò al popolo quanto era impio occupare simile dono; tanto che, con il consenso dello universale, ne lasciò andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello istorico sono queste: "Timasitheus multitudinem religione implevit, quae semper regenti est similis". E Lorenzo de' Medici, a confermazione di questa sentenza, dice:
e quel che fa 'l signor, fanno poi molti;
ché nel signor son tutti gli occhi volti.
Cap. 30
A uno cittadino che voglia nella sua republica fare di sua autorità alcuna opera buona, è necessario, prima, spegnere l'invidia: e come, vedendo il nimico, si ha a ordinare la difesa d'una città.
Intendendo
il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo deletto
per venire a' danni di Roma; e come i Latini e gli Ernici, stati
per lo addietro amici del Popolo romano, si erano accostati con i
Volsci, perpetui inimici di Roma; giudicò questa guerra dovere
essere pericolosa. E trovandosi Cammillo tribuno di potestà
consolare, pensò che si potesse fare sanza creare il Dittatore,
quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono cedergli la somma
dello imperio. Il che detti Tribuni fecero volontariamente:
"Nec quicquam (dice Tito Livio) de maiestate sua detractum
credebant, quod maiestati eius concessissent". Onde Cammillo,
presa a parole questa ubbidienza, comandò che si scrivesse tre
eserciti. Del primo volle essere capo lui, per ire contro a'
Toscani. Del secondo fece capo Quinto Servilio, il quale volle
stesse propinquo a Roma, per ostare ai Latini ed agli Ernici, se
si movessono. Al terzo esercito prepose Lucio Quinzio, il quale
scrisse per tenere guardata la città e difese le porte e la
curia, in ogni caso che nascesse. Oltre a di questo, ordinò che
Orazio, uno de' suoi collegi, provedesse l'armi ed il frumento e
l'altre cose che richieggono i tempi della guerra. Prepose
Cornelio, ancora, suo collega, al Senato ed al publico consigliò,
acciocché potesse consigliare le azioni che giornalmente si
avevano a fare ed esequire: in modo furono quegli Tribuni, in
quelli tempi, per la salute della patria, disposti a comandare ed
a ubbidire. Notasi per questo testo, quello che faccia uno uomo
buono e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile e'
possa fare alla sua patria, quando, mediante la sua bontà e
virtù, egli ha spenta la invidia; la quale è molte volte
cagione che gli uomini non possono operare bene, non permettendo
detta invidia che gli abbino quella autorità la quale è
necessaria avere nelle cose d'importanza. Spegnesi questa invidia
in due modi. O per qualche accidente forte e difficile, dove
ciascuno, veggendosi perire, posposta ogni ambizione, corre
volontariamente ad ubbidire a colui che crede che con la sua
virtù lo possa liberare: come intervenne a Cammillo, il quale
avendo dato di sé tanti saggi di uomo eccellentissimo, ed
essendo stato tre volte Dittatore, ed avendo amministrato sempre
quel grado ad utile publico, e non a propria utilità aveva fatto
che gli uomini non temevano della grandezza sua; e per esser
tanto grande e tanto riputato, non stimavano cosa vergognosa
essere inferiori a lui (e però dice Tito Livio saviamente quelle
parole "Nec quicquam" ecc.) in un altro modo si spegne
l'invidia quando, o per violenza o per ordine naturale, muoiono
coloro che sono stati tuoi concorrenti nel venire a qualche
riputazione ed a qualche grandezza; quali, veggendoti riputato
più di loro, è impossibile che mai acquieschino, e stieno
pazienti. E quando e' sono uomini che siano usi a vivere in una
città corrotta, dove la educazione non abbia fatto in loro
alcuna bontà, è impossibile che per accidente alcuno, mai si
ridichino; e per ottenere la voglia loro, e satisfare alla loro
perversità d'animo sarebbero contenti vedere la rovina della
loro patria. A vincere questa invidia non ci è altro rimedio che
la morte di coloro che l'hanno; e quando la fortuna è tanto
propizia a quell'uomo virtuoso, che si muoiano ordinariamente,
diventa, sanza scandalo, glorioso, quando sanza ostacolo e sanza
offesa e' può mostrare la sua virtù; ma quando e' non abbi
questa ventura, gli conviene pensare per ogni via a torsegli
dinanzi; e prima che e' facci cosa alcuna, gli bisogna tenere
modi che vinca questa difficultà. E chi legge la Bibbia
sensatamente, vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le
sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare
infiniti uomini, i quali, non mossi da altro che dalla invidia,
si opponevano a' disegni suoi. Questa necessità conosceva
benissimo frate Girolamo Savonerola; conoscevala ancora Piero
Soderini, gonfaloniere di Firenze. L'uno non potette vincerla,
per non avere autorità a poterlo fare (che fu il frate), e per
non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne
arebbero avuto autorità. Nonpertanto per lui non rimase, e le
sue prediche sono piene di accuse de' savi del mondo e d'invettive
contro a loro: perché chiamava così questi invidi, e quegli che
si opponevano agli ordini suoi. Quell'altro credeva, col tempo,
con la bontà, con la fortuna sua, col benificare alcuno,
spegnere questa invidia; vedendosi di assai fresca età, e con
tanti nuovi favori che gli arrecava el modo del suo procedere,
che credeva potere superare quelli tanti che per invidia se gli
opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto: e non
sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta,
la fortuna varia, e la malignità non truova dono che la plachi.
Tanto che l'uno e l'altro di questi due rovinarono, e la rovina
loro fu causata da non avere saputo o potuto vincere questa
invidia.
L'altro notabile è l'ordine che Cammillo
dette, dentro e fuori, per la salute di Roma. E veramente, non
sanza cagione gli istorici buoni, come è questo nostro, mettono
particularmente e distintamente certi casi, acciocché i posteri
imparino come gli abbino in simili accidenti difendersi. E
debbesi in questo testo notare, che non è la più pericolosa né
la più inutile difesa, che quella che si fa tumultuariamente e
sanza ordine. E questo si mostra per quello terzo esercito che
Cammillo fece scrivere per lasciarlo, in Roma, a guardia della
città: perché molti arebbero giudicato e giudicherebbero questa
parte superflua, sendo quel popolo, per l'ordinario, armato e
bellicoso; e per questo, che non bisognasse di scriverlo
altrimenti, ma bastasse farlo armare quando il bisogno venisse.
Ma Cammillo, e qualunque fusse savio come era esso, la giudica
altrimenti; perché non permette mai che una moltitudine pigli l'arme,
se non con certo ordine e certo modo. E però, in su questo
esemplo, uno che sia preposto a guardia d'una città, debba
fuggire come uno scoglio il fare armare gli uomini
tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e scelti quegli che
voglia si armino, chi gli abbino ad ubbidire, dove a convenire,
dove a andare; e, quegli che non sono scritti, comandare che
stieno ciascuno alle case sue, a guardia di quelle. Coloro che
terranno questo ordine in una città assaltata, facilmente si
potranno difendere: chi farà altrimenti, non imiterà Cammillo,
e non si difenderà.
Cap.
31
Le
republiche forti e gli uomini eccellenti ritengono in ogni
fortuna il medesimo animo e la loro medesima dignità.
Intra
l'altre magnifiche cose che 'l nostro istorico fa dire e fare a
Cammillo, per mostrare come debbe essere fatto un uomo eccellente,
gli mette in bocca queste parole: "Nec mihi dictatura animos
fecit, nec exilium ademit". Per le quali si vede, come gli
uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se
la varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli, quegli non
variano, ma tengono sempre lo animo fermo, ed in tale modo
congiunto con il modo del vivere loro, che facilmente si conosce
per ciascuno, la fortuna non avere potenza sopra di loro.
Altrimenti si governano gli uomini deboli perché invaniscono ed
inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli
hanno a quella virtù che non conobbono mai. D'onde nasce che
diventano insopportabili ed odiosi a tutti coloro che gli hanno
intorno. Da che poi depende la subita variazione della sorte; la
quale come veggono in viso, caggiono subito nell'altro difetto, e
diventano vili ed abietti. Di qui nasce che i principi così
fatti pensano nelle avversità più a fuggirsi che a difendersi,
come quelli che, per avere male usata la buona fortuna, sono ad
ogni difesa impreparati. Questa virtù, e questo vizio, che io
dico trovarsi in un uomo solo, si truova ancora in una republica,
ed in esemplo ci sono i Romani ed i Viniziani. Quelli primi,
nessuna cattiva sorte gli fece mai diventare abietti né nessuna
buona fortuna gli fece mai essere insolenti; come si vide
manifestamente dopo la rotta ch'egli ebbero a Canne, e dopo la
vittoria ch'egli ebbero contro a Antioco; perché, per quella
rotta, ancora che gravissima per essere stata la terza, non
invilirono mai; e mandarono fuori eserciti; non vollono
riscattare i loro prigioni contro agli ordini loro; non mandarono
ad Annibale o a Cartagine a chiedere pace: ma, lasciate stare
tutte queste cose abiette indietro, pensarono sempre alla guerra
armando, per carestia di uomini, i vecchi ed i servi loro. La
quale cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si
disse, mostrò a quel Senato quanto poco conto si aveva a tenere
della rotta di Canne. E così si vide come i tempi difficili non
gli sbigottivono, né gli rendevono umili. Dall'altra parte, i
tempi prosperi non gli facevano insolenti: perché, mandando
Antioco oratori a Scipione, a chiedere accordo, avanti che
fussono venuti alla giornata, e ch'egli avesse perduto Scipione
gli dette certe condizioni della pace; quali erano, che si
ritirasse dentro alla Soria, ed il resto lasciasse nello arbitrio
del Popolo romano. Il quale accordo recusando Antioco, e venendo
alla giornata, e perdendola, rimandò imbasciadori a Scipione,
con commissione che pigliassero tutte quelle condizioni erano
date loro dal vincitore: alli quali non propose altri patti che
quegli si avesse offerti innanzi che vincesse; soggiugnendo
queste parole: "Quod Romani, si vincuntur, non minuuntur
animis; nec, si vincunt, insolescere solent".
Al contrario appunto di questo si è
veduto fare ai Viniziani: i quali nella buona fortuna, parendo
loro aversela guadagnata con quella virtù che non avevano, erano
venuti a tanta insolenza che chiamavano il re di Francia
figliuolo di San Marco; non stimavano la Chiesa; non capivano in
modo alcuno in Italia; ed eronsi presupposti nello animo di avere
a fare una monarchia simile alla romana. Dipoi, come la buona
sorte gli abbandonò e ch'egli ebbono una mezza rotta a Vailà,
dal re di Francia, perderono non solamente tutto lo stato loro
per ribellione, ma buona parte ne dettero al papa ed al re di
Spagna per viltà ed abiezione d'animo; ed in tanto invilirono,
che mandarono imbasciadori allo imperadore a farsi tributari,
scrissono al papa lettere piene di viltà e di sommissione per
muoverlo a compassione. Alla quale infelicità pervennono in
quattro giorni, e dopo una mezza rotta: perché, avendo
combattuto il loro esercito, nel ritirarsi venne a combattere ed
essere oppresso circa la metà, in modo che, l'uno de'
Provveditori, che si salvò, arrivò a Verona con più di
venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo. Talmenteché,
se a Vinegia e negli ordini loro fosse stata alcuna qualità di
virtù, facilmente si potevano rifare, e rimostrare di nuovo il
viso alla fortuna, ed essere a tempo o a vincere o a perdere più
gloriosamente, o ad avere accordo più onorevole. Ma la viltà
dello animo loro, causata dalla qualità de' loro ordini non
buoni nelle cose della guerra, gli fece ad un tratto perdere lo
stato e l'animo. E sempre interverrà così a qualunque si
governa come loro. Perché questo diventare insolente nella buona
fortuna ed abietto nella cattiva, nasce dal modo del procedere
tuo, e dalla educazione nella quale ti se' nutrito: la quale,
quando è debole e vana, ti rende simile a sé; quando è stata
altrimenti, ti rende anche d'un'altra sorte; e, faccendoti
migliore conoscitore del mondo, ti fa meno rallegrare del bene, e
meno rattristare del male. E quello che si dice d'uno solo, si
dice di molti che vivono in una republica medesima; i quali si
fanno di quella perfezione, che ha il modo del vivere di quella.
E benché altra volta si sia detto come
il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia; e come,
dove non è questa, non possono essere né leggi buone né alcuna
altra cosa buona, non mi pare superfluo riplicarlo: perché ad
ogni punto nel leggere questa istoria si vede apparire questa
necessità; e si vede come la milizia non puoté essere buona, se
la non è esercitata; e come la non si può esercitare, se la non
è composta di tuoi sudditi. Perché sempre non si sta in guerra,
né si può starvi. Però conviene poterla esercitare a tempo di
pace; e con altri che con sudditi non si può fare questo
esercizio, rispetto alla spesa. Era Cammillo andato, come di
sopra dicemo, con lo esercito contro ai Toscani; ed avendo i suoi
soldati veduto la grandezza dello esercito de' nimici, si erano
tutti sbigottiti, parendo loro essere tanto inferiori da non
potere sostenere l'impeto di quegli. E pervenendo questa mala
disposizione del campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò fuora,
ed andando parlando per il campo a questi e quelli soldati,
trasse loro del capo questa opinione; e nello ultimo, sanza
ordinare altrimenti il campo, disse: "Quod quisque didicit,
aut consuevit, faciet". E chi considera bene questo termine,
e le parole disse loro, per inanimirli ad ire contro a' nimici,
considerasi come e' non si poteva né dire né fare fare alcuna
di quelle cose a uno esercito che prima non fosse stato ordinato
ed esercitato ed in pace ed in guerra. Perché di quegli soldati
che non hanno imparato a fare cosa alcuna, non può uno capitano
fidarsi, e credere che faccino alcuna cosa che stia bene; e se
gli comandasse uno nuovo Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché,
non potendo uno capitano essere, mentre si fa la giornata, in
ogni parte; se non ha prima in ogni parte ordinato di potere
avere uomini che abbino lo spirito suo e bene gli ordini e modi
del procedere suo, conviene di necessità che ci rovini. Se,
adunque, una città sarà armata ed ordinata come Roma; e che
ogni dì ai suoi cittadini, ed in particulare ed in publico,
tocchi a fare isperienza e della virtù loro, e della potenza
della fortuna; interverrà sempre che in ogni condizione di tempo
ei fiano del medesimo animo, e manterranno la medesima loro
degnità: ma quando e' fiano disarmati, e che si appoggeranno
solo agl'impeti della fortuna e non alla propria virtù,
varieranno col variare di quella, e daranno sempre, di loro,
esemplo tale che hanno dato i Viniziani.
Cap.
32
Quali modi hanno tenuti alcuni a
turbare una pace.
Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velitre, due sue colonie, sotto speranza di essere difese dai Latini, ed essendo di poi i Latini, vinti, e mancando di quella speranza, consigliavano assai cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori a raccomandarsi al Senato: il quale partito fu turbato da coloro che erano stati autori della ribellione; i quali temevano che tutta la pena non si voltasse sopra le teste loro. E per tôrre via ogni ragionamento di pace, incitarono la moltitudine ad amarsi, ed a correre sopra i confini romani. E veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o uno principe lievi al tutto l'animo da uno accordo, non ci è altro rimedio più vero né più stabile, che farli usare qualche grave sceleratezza contro a colui con il quale tu non vuoi che l'accordo si faccia: perché sempre lo terrà discosto quella paura di quella pena che a lui parrà per lo errore commesso avere meritata. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi ebbono con i Romani, quelli soldati che dai Cartaginesi erano stati adoperati in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne andarono in Affrica; dove non essendo sodisfatti del loro stipendio, mossono l'armi contro ai Cartaginesi; e fatti, di loro, due capi, Mato e Spendio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne saccheggiarono. I Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa, mandarono, a quelli, ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano avesse alcuna autorità con quelli, essendo stato per lo adietro loro capitano. Ed arrivato costui, e volendo Spendio e Mato obligare tutti quelli soldati a non sperare di avere mai più pace con i Cartaginesi e per questo obligarli alla guerra; persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro prigioni. Donde, non solamente gli ammazzarono, ma con mille supplicii in prima gli straziorono; aggiugnendo a questa sceleratezza uno editto che tutti i Cartaginesi, che per lo avvenire si pigliassono, si dovessono in simile modo uccidere. La quale diliberazione ed esecuzione fece quello esercito crudele ed ostinato contro ai Cartaginesi.
Cap.
33
Egli è necessario, a volere vincere
una giornata, fare lo esercito confidente ed infra loro e con il
capitano.
A
volere che uno esercito vinca la giornata, è necessario farlo
confidente, in modo che creda dovere in ogni modo vincere. Le
cose che lo fanno confidente sono: che sia armato ed ordinato
bene; conoschinsi l'uno l'altro. Né può nascere questa
confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati che sono
nati e vissuti insieme. Conviene che il capitano sia stimato di
qualità che confidino nella prudenza sua: e sempre confideranno,
quando lo vegghino ordinato, sollecito ed animoso, e che tenga
bene e con riputazione la maestà del grado suo: e sempre la
manterrà, quando gli punisca degli errori, e non gli affatichi
invano; osservi loro le promesse; mostri facile la via del
vincere; quelle cose che discosto potessino mostrare i pericoli,
le nasconda o le alleggerisca. Le quali cose, osservate bene,
sono cagione grande che lo esercito confida, e confidando vince.
Usavano i Romani di fare pigliare agli eserciti loro questa
confidenza per via di religione: donde nasceva, che con gli
augurii ed auspicii creavano i Consoli, facevano il deletto,
partivano con gli eserciti, e venivano alla giornata. E sanza
avere fatto alcuna di queste cose, non mai arebbe uno buono
capitano e savio tentata alcuna fazione, giudicando di averla
potuta perdere facilmente, s'e' suoi soldati non avessoro prima
intesi gli Dii essere da parte loro. E quando alcuno Consolo, o
altro loro capitano, avesse combattuto, contro agli auspicii, lo
arebbero punito; come ei punirono Claudio Pulcro. E benché
questa parte in tutte le istorie romane si conosca, nondimeno si
pruova più certo per le parole che Livio usa nella bocca di
Appio Claudio; il quale, dolendosi col popolo della insolenzia de'
Tribuni della plebe, e mostrando che, mediante quelli, gli
auspicii e le altre cose pertinenti alla religione si
corrompevano, dice così: "Eludant nunc licet religiones.
Quid enim interest, si pulli non pascentur, si ex cavea tardius
exiverint, si occinuerit avis? Parva sunt haec; sed parva ista
non contemnendo, maiores nostri maximam hanc rempublicam fecerunt".
Perché in queste cose piccole è quella forza di tenere uniti e
confidenti i soldati: la quale cosa è prima cagione d'ogni
vittoria. Nonpertanto, conviene con queste cose sia accompagnata
la virtù: altrimenti, le non vagliano. I Prenestini, avendo
contro ai Romani fuori el loro esercito, se n'andarono ad
alloggiare in sul fiume d'Allia, il luogo dove i Romani furono
vinti da i Franciosi; il che fecero per mettere fiducia ne' loro
soldati, e sbigottire i Romani per la fortuna del luogo. E
benché questo loro partito fusse probabile, per quelle ragioni
che di sopra si sono discorse; nientedimeno il fine della cosa
mostrò che la vera virtù non teme ogni minimo accidente. Il che
lo istorico benissimo dice con queste parole, in bocca poste del
Dittatore, che parla così al suo Maestro de' cavagli: "Vides
tu, fortuna illos fretos ad Alliam consedisse; at tu, fretus
armis animisque, invade mediam aciem". Perché una vera
virtù, un ordine buono, una sicurtà presa da tante vittorie,
non si può con cose di poco momento spegnere; né una cosa vana
fa loro paura, né un disordine gli offende: come si vede certo,
che, essendo due Manlii consoli contro a' Volsci, per avere
mandato temerariamente parte del campo a predare, ne seguì che,
in un tempo, e quelli che erano iti e quelli che erano rimasti si
trovavono assediati; dal quale pericolo, non la prudenza de'
Consoli, ma la virtù de' propri soldati gli liberò. Dove Tito
Livio dice queste parole: "Militum, etiam sine rectore,
stabilis virtus tutata est".
Non voglio lasciare indietro uno termine
usato da Fabio, sendo entrato di nuovo con lo esercito in Toscana,
per farlo confidente, giudicando quella tale fidanza essere più
necessaria per averlo condotto in paese nuovo, incontro a nimici
nuovi: che, parlando avanti la zuffa a' soldati, e detto ch'ebbe
molte ragioni, mediante le quali ei potevono sperare la vittoria,
disse che potrebbe ancora dire loro certe cose buone, e dove ei
vedrebbono la vittoria certa, se non fusse pericoloso il
manifestarle. Il quale modo, come e' fu saviamente usato, così
merita di essere imitato.
Cap.
34
Quale fama o voce o opinione fa che
il popolo comincia a favorire uno cittadino: e se ei distribuisce
i magistrati con maggiore prudenza che un principe.
Altra
volta parlamo come Tito Manlio, che fu poi detto Torquato, salvò
Lucio Manlio suo padre da una accusa che gli aveva fatta Marco
Pomponio tribuno della plebe. E benché il modo del salvarlo
fosse alquanto violento ed istraordinario, nondimeno quella
filiale piatà verso del padre fu tanto grata allo universale,
che, non solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a fare i
Tribuni delle legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo luogo.
Per il quale successo, credo che sia bene considerare il modo che
tiene il popolo a giudicare gli uomini nelle distribuzioni sue; e
che, per quello noi veggiamo, s'egli è vero quanto di sopra si
conchiuse, che il popolo sia migliore distributore che uno
principe.
Dico, adunque, come il popolo nel suo
distribuire va dietro a quello che si dice d'uno per publica voce
e fama, quando per sue opere note non lo conosce altrimenti, o
per presunzione o opinione che si ha di lui. Le quali due cose
sono causate o da' padri di quelli tali che, per essere stati
grandi uomini e valenti nella città, si crede che i figliuoli
debbeno essere simili a loro, infino a tanto che per le opere di
quegli non s'intenda il contrario; o la è causata dai modi che
tiene quello di chi si parla. I modi migliori che si possino
tenere, sono: avere compagnia di uomini gravi, di buoni costumi,
e riputati savi da ciascuno. E perché nessuno indizio si può
avere maggiore d'un uomo, che le compagnie con quali egli usa;
meritamente uno che usa con compagnie oneste, acquista buono nome,
perché è impossibile che non abbia qualche similitudine di
quelle. O veramente si acquista questa publica fama per qualche
azione istraordinaria e notabile ancora che privata, la quale ti
sia riuscita onorevolmente. E di tutte a tre queste cose che
danno nel principio buona riputazione ad uno, nessuna la dà
maggiore che questa ultima: perché quella prima de' parenti e de'
padri è sì fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in
poco si consuma, quando la virtù propria di colui che ha a
essere giudicato non l'accompagna. La seconda, che ti fa
conoscere per via delle pratiche tue, è meglio della prima, ma
è molto inferiore alla terza, perché, infino a tanto che non si
vede qualche segno che nasca da te sta la riputazione tua fondata
in su l'opinione, la quale è facilissima a cancellarla. Ma
quella terza, essendo principiata e fondata in sul fatto ed in su
la opera tua, ti dà nel principio tanto nome, che bisogna bene
che operi poi molte cose contrarie a questa, volendo annullarla.
Debbono, adunque, gli uomini che nascono in una republica
pigliare questo verso, ed ingegnarsi, con qualche operazione
istraordinaria, cominciare a rilevarsi. Il che molti a Roma in
gioventù fecero o con il promulgare una legge che venisse in
comune utilità; o con accusare qualche potente cittadino come
transgressore delle leggi; o col fare simili cose notabili e
nuove, di che si avesse a parlare. Né solamente sono necessarie
simili cose per cominciare a darsi la riputazione ma sono ancora
necessarie per mantenerla ed accrescerla. Ed a volere fare questo,
bisogna rinnovarle; come per tutto il tempo della sua vita fece
Tito Manlio: perché, difeso ch'egli ebbe il padre tanto
virtuosamente e istraordinariamente, e per questa azione presa la
prima riputazione sua, dopo certi anni combatté con quel
Francioso, e, morto, gli trasse quella collana d'oro che gli
dette il nome di Torquato. Non bastò questo, che dipoi, già in
età matura, ammazzò il figliuolo per avere combattuto sanza
licenza, ancora ch'egli avesse superato il nimico. Le quali tre
azioni allora gli dettero più nome e per tutti i secoli lo fanno
più celebre, che non lo fece alcuno trionfo ed alcuna altra
vittoria, di che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E la
cagione è, perché in quelle vittorie Manlio ebbe moltissimi
simili; in queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o
nessuno.
A Scipione maggiore non arrecarono tanta
gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli dette lo avere, ancora
giovinetto, in sul Tesino, difeso il padre; e lo avere, dopo la
rotta di Canne, animosamente con la spada sguainata fatto giurare
più giovani romani che ei non abbandonerebbero l'Italia, come di
già infra loro avevano diliberato: le quali due azioni furono
principio alla riputazione sua, e gli feciono scala ai trionfi
della Spagna e dell'Affrica. La quale opinione da lui fu ancora
accresciuta, quando ei rimandò la sua figliuola al padre, e la
moglie al marito, in Ispagna. Questo modo del procedere non è
necessario solamente a quelli cittadini che vogliono acquistare
fama per ottenere gli onori nella loro republica, ma è ancora
necessario ai principi per mantenersi la riputazione nel
principato loro: perché nessuna cosa gli fa tanto stimare,
quanto dare di sé rari esempli con qualche fatto o detto rado,
conforme al bene comune, il quale mostri il signore o magnanimo o
liberale o giusto, e che sia tale che si riduca come in proverbio
intra i suoi suggetti.
Ma, per tornare donde noi cominciamo
questo discorso, dico come il popolo, quando ei comincia a dare
uno grado a uno suo cittadino, fondandosi sopra quelle tre
cagioni soprascritte, non si fonda male; ma poi, quando gli assai
esempli de' buoni portamenti d'uno lo fanno più noto, si fonda
meglio, perché in tale caso non può essere che quasi mai s'inganni.
Io parlo solamente di quelli gradi che si dànno agli uomini nel
principio, avanti che per ferma isperienza siano conosciuti, o
che passino da un'azione a un'altra dissimile: dove, e quanto
alla falsa opinione, e quanto alla corrozione, sempre faranno
minori errori che i principi. E perché e' può essere che i
popoli s'ingannerebbono della fama, della opinione e delle opere
d'uno uomo, stimandole maggiori che in verità non sono, il che
non interverrebbe a uno principe, perché gli sarebbe detto, e
sarebbe avvertito da chi lo consigliasse; perché ancora i popoli
non manchino di questi consigli, i buoni ordinatori delle
republiche hanno ordinato, che, avendosi a creare i supremi gradi
nelle città, dove fosse pericoloso mettervi uomini insufficienti,
e veggendosi la voga popolare essere diritta a creare alcuno che
fosse insufficiente, sia lecito a ogni cittadino, e gli sia
imputato a gloria, di publicare nelle concioni i difetti di
quello, acciocché il popolo, non mancando della sua conoscenza,
possa meglio giudicare. E che questo si usasse a Roma, ne rende
testimonio l'orazione di Fabio Massimo, la quale ei fece al
popolo nella seconda guerra punica, quando nella creazione de'
Consoli i favori si volgevano a creare Tito Ottacilio; e
giudicandolo Fabio insufficiente a governare in quelli tempi il
consolato, gli parlò contro, mostrando la insufficienza sua;
tanto che gli tolse quel grado, e volse i favori del popolo a chi
più lo meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli, nella
elezione a' magistrati, secondo quelli contrassegni che degli
uomini si possono avere più veri; e quando ei possono essere
consigliati come i principi, errano meno de' principi: e quel
cittadino che voglia cominciare a avere i favori del popolo,
debbe con qualche fatto notabile, come fece Tito Manlio,
guadagnarseli.
Cap.
35
Quali pericoli si portano nel farsi
capo a consigliare una cosa; e, quanto ella ha più dello
istraordinario, maggiori pericoli vi si corrono.
Quanto
sia cosa pericolosa farsi capo d'una cosa nuova che appartenga a
molti, e quanto sia difficile a trattarla ed a condurla, e,
condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta
materia a discorrerla: però, riserbandola a luogo più
conveniente, parlerò solo di quegli pericoli che portano i
cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi capo d'una
diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio
di essa sia imputato a lui. Perché, giudicando gli uomini le
cose dal fine, tutto il male che ne risulta s'imputa allo autore
del consiglio; e, se ne risulta bene, ne è commendato: ma di
lunge il premio non contrappesa a il danno. Il presente Sultan
Salì, detto Gran Turco, essendosi preparato (secondo che ne
riferiscono alcuni che vengono de' suoi paesi) di fare la impresa
di Soria e di Egitto, fu confortato da uno suo Bascià, quale ei
teneva ai confini di Persia, di andare contro al Sofì: dal quale
consiglio mosso andò con esercito grossissimo a quella impresa;
e arrivando in uno paese larghissimo, dove sono assai diserti e
le fiumare rade, e trovandovi quelle difficultà che già fecero
rovinare molti eserciti romani, fu in modo oppressato da quelle,
che vi perdé, per fame e per peste, ancora che nella guerra
fosse superiore, gran parte delle sue genti: talché, irato
contro allo autore del consiglio, lo ammazzò. Leggesi, assai
cittadini stati confortatori d'una impresa, e, per avere avuto
quella tristo fine, essere stati mandati in esilio. Fecionsi capi
alcuni cittadini romani, che si facesse in Roma il Consule
plebeio. Occorse che il primo che uscì fuori con gli eserciti,
fu rotto; onde a quegli consigliatori sarebbe avvenuto qualche
danno, se non fosse stata tanto gagliarda quella parte, in onore
della quale tale diliberazione era venuta.
È cosa adunque certissima, che quegli
che consigliano una republica, e quegli che consigliano uno
principe, sono posti intra queste angustie, che, se non
consigliano le cose che paiono loro utili, o per la città o per
il principe, sanza rispetto, e' mancano dell'ufficio loro; se le
consigliano, e' gli entrano in pericolo della vita e dello stato:
essendo tutti gli uomini in questo ciechi, di giudicare i buoni e
i cattivi consigli dal fine. E pensando in che modo ei potessono
fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci veggo altra
via che pigliare le cose moderatamente, e non ne prendere alcuna
per sua impresa, e dire la opinione sua sanza passione, e sanza
passione con modestia difenderla: in modo che, se la città o il
principe la segue, che la segua voluntario, e non paia che vi
venga tirato dalla tua importunità. Quando tu faccia così, non
è ragionevole che uno principe ed uno popolo del tuo consiglio
ti voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di molti:
perché quivi si porta pericolo dove molti hanno contradetto, i
quali poi nello infelice fine concorrono a farti rovinare. E se
in questo caso si manca di quella gloria che si acquista nello
essere solo contro a molti a consigliare una cosa, quando ella
sortisce buono fine, ci sono a rincontro due beni: il primo, del
mancare di pericolo; il secondo, che, se tu consigli una cosa
modestamente, e per la contradizione il tuo consiglio non sia
preso e per il consiglio d'altrui ne seguiti qualche rovina, ne
risulta a te gloria grandissima. E benché la gloria che si
acquista de' mali che abbia o la tua città o il tuo principe,
non si possa godere, nondimeno è da tenerne qualche conto.
Altro consiglio non credo si possa dare
agli uomini in questa parte: perché consigliandogli che
tacessono, e che non dicessono l'opinione loro, sarebbe cosa
inutile alla republica o al loro principe, e non fuggirebbono il
pericolo; perché in poco tempo diventerebbono sospetti: ed
ancora potrebbe loro intervenire come a quegli amici di Perse re
de' Macedoni, il quale essendo stato rotto da Paulo Emilio, e
fuggendosi con pochi amici, accadde che, nel replicare le cose
passate, uno di loro cominciò a dire a Perse molti errori fatti
da lui, che erano stati cagione della sua rovina; al quale Perse
rivoltosi, disse: - Traditore, sì che tu hai indugiato a dirmelo
ora che io non ho più rimedio! - e sopra queste parole di sua
mano lo ammazzò. E così colui portò la pena d'essere stato
cheto quando e' doveva parlare, e di avere parlato quando e'
doveva tacere; non fuggì il pericolo per non avere dato il
consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i termini
soprascritti.
Cap.
36
Le cagioni perché i Franciosi siano
stati e siano ancora giudicati nelle zuffe, da principio più che
uomini, e dipoi meno che femine.
La
ferocità di quello Francioso che provocava qualunque Romano,
appresso al fiume Aniene, a combattere seco, dipoi la zuffa fatta
intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito Livio
più volte dice, che i Franciosi sono nel principio della zuffa
più che uomini, e nel successo del combattere riescono poi meno
che femine. E pensando donde questo nasca, si crede per molti che
sia la natura loro così fatta: il che credo sia vero; ma non è
per questo che questa loro natura, che gli fa feroci nel
principio, non si potesse in modo con l'arte ordinare, che la gli
mantenesse feroci infino nello ultimo.
Ed a volere provare questo, dico come e'
sono di tre ragioni eserciti: l'uno dove è furore ed ordine;
perché dall'ordine nasce il furore e la virtù, come era quello
de' Romani: perché si vede in tutte le istorie, che in quello
esercito era un ordine buono, che vi aveva introdotto una
disciplina militare per lungo tempo. Perché in uno esercito,
bene ordinato nessuno debbe fare alcuna opera se non regolarlo: e
si troverrà, per questo, che nello esercito romano, dal quale,
avendo elli vinto il mondo, debbono prendere esemplo tutti gli
altri eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si
meritricava, non si faceva alcuna azione o militare o domestica
sanza l'ordine del console. Perché quegli eserciti che fanno
altrimenti, non sono veri eserciti; e se fanno alcuna pruova, la
fanno per furore e per impeto, e non per virtù. Ma dove la
virtù ordinata usa il furore suo con i modi e co' tempi, né
difficultà veruna lo invilisce, né li fa mancare l'animo:
perché gli ordini buoni gli rinfrescono l'animo ed il furore,
nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non manca,
infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contrario
interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine, come
erano i Franciosi, i quali tuttavia nel combattere mancavano,
perché, non riuscendo loro con il primo impeto vincere, e non
essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro furore nel
quale egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la quale
ei cunfidassono come quello era raffreddo, mancavano. Al
contrario i Romani, dubitando meno de' pericoli per gli ordini
loro buoni non diffidando della vittoria, fermi ed ostinati
combattevano col medesimo animo e con la medesima virtù nel fine
che nel principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si
accendevano. La terza qualità di eserciti è dove non è furore
naturale né ordine accidentale: come sono gli eserciti italiani
de' nostri tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non si
abbattano a uno esercito che per qualche accidente si fugga, mai
non vinceranno. E sanza addurre altri esempli, si vede, ciascuno
dì, come ei fanno pruove di non avere alcuna virtù. E perché,
con il testimonio di Tito Livio, ciascuno intenda come debbe
essere fatta la buona milizia, e come è fatta la rea; io voglio
addurre le parole di Papirio Cursore, quando ei voleva punire
Fabio, Maestro de' cavalli, quando disse: "Nemo hominum,
nemo Deorum, verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non
auspicia observentur; sine commeatu vagi milites in pacato, in
hostico errent; immemores sacramenti, licentia sola se ubi velint
exauctorent; infrequentia deserant signa; neque conveniatur ad
edictum, nec discernantur, interdiu nocte; aequo iniquo loco,
iussu iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines
servent: latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et
sacrata militia sit". E puossi per questo testo adunque,
facilmente vedere se la milizia de' nostri tempi è cieca e
fortuita, o sacrata e solenne; e quanto le manca a essere simile
a quella che si può chiamare milizia; e quanto ella è discosto
da essere furiosa ed ordinata, come la romana, o furiosa solo,
come la franciosa.
Cap.
37
Se le piccole battaglie innanzi alla
giornata sono necessarie; e come si debbe fare a conoscere uno
inimico nuovo, volendo fuggire quelle.
E'
pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo
discorso, si truovi, oltre alle altre difficultà, nel volere
condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al
bene sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente
nasca che pare impossibile potere mancare dell'uno, volendo l'altro.
E questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E però
si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se'
aiutato in modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario
e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto ricordare la
zuffa di Manlio e del Francioso, dove Tito Livio dice: "Tanti
ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut Gallorum
exercitus, relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox in
Campaniam transierit". Perché io considero, dall'uno canto,
che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare alcuna
cosa, che, essendo di poco momento, possa fare cattivi effetti
nel suo esercito: perché cominciare una zuffa dove non si
operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la fortuna, è cosa
al tutto temeraria; come io dissi di sopra, quando io dannai il
guardare de' passi.
Dall'altra parte, io considero come i
capitani savi, quando vengono allo incontro d'uno nuovo nimico, e
ch'e' sia riputato, ei sono necessitati, prima che venghino alla
giornata, fare provare, con leggieri zuffe, ai loro soldati, tali
nimici; acciocché, cominciandogli a conoscere e maneggiare,
perdino quel terrore che la fama e la riputazione aveva dato loro.
E questa parte in uno capitano è importantissima; perché ella
ha in sé quasi una necessità che ti costringe a farla,
parendoti andare ad una manifesta perdita, sanza avere prima
fatto, con piccole isperienze, di tôrre ai tuoi soldati quello
terrore che la riputazione del nimico aveva messo negli animi
loro.
Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con
gli eserciti contro ai Sanniti nuovi inimici, e che per lo
addietro mai non avevano provate l'armi l'uno dell'altro, dove
dice Tito Livio, che Valerio fece fare ai Romani con i Sanniti
alcune leggieri zuffe "ne eos novum bellum, ne novus hostis
terreret". Nondimeno è pericolo gravissimo, che, restando i
tuoi soldati in quelle battaglie vinti, la paura e la viltà non
cresca loro, e ne conseguitino contrari effetti a' disegni tuoi:
cioè, che tu gli sbigottisca, avendo disegnato di assicurargli:
tanto che questa è una di quelle cose che ha il male sì
propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è
facil cosa prendere l'uno, credendo pigliare l'altro. Sopra che
io dico, che uno buono capitano debbe osservare con ogni
diligenza, che non surga alcuna cosa che per alcuno accidente
possa tôrre l'animo allo esercito suo. Quello che gli può
tôrre l'animo è cominciare a perdere; e però si debbe guardare
dalle zuffe piccole, e non le permettere se non con grandissimo
vantaggio, e con speranza di certa vittoria: non debbe fare
imprese di guardare passi, dove non possa tenere tutto lo
esercito suo: non debbe guardare terre, se non quelle che,
perdendole, di necessità ne seguisse la rovina sua; e quelle che
guarda, ordinarsi in modo, e con le guardie di esse e con lo
esercito, che, trattandosi della ispugnazione di esse, ei possa
adoperare tutte le forze sue; l'altre debbe lasciare indifese.
Perché ogni volta che si perde una cosa che si abbandoni, e lo
esercito sia ancora insieme, non si perde la riputazione della
guerra né la speranza del vincerla: ma quando si perde una cosa
che tu hai disegnata difendere, e ciascuno crede che tu la
difenda, allora è il danno e la perdita; ed hai quasi, come i
Franciosi, con una cosa di piccolo momento perduta la guerra.
Filippo di Macedonia, padre di Perse,
uomo militare e di gran condizione ne' tempi suoi, essendo
assaltato dai Romani, assai de' suoi paesi, i quali elli
giudicava non potere guardare, abbandonò e guastò: come quello
che, per essere prudente, giudicava più pernizioso perdere la
riputazione col non potere difendere quello che si metteva a
difendere, che, lasciandolo in preda al nimico perderlo come cosa
negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro
erano afflitte, negarono a molti loro raccomandati e sudditi gli
aiuti, commettendo loro che si difendessono il meglio potessono.
I quali partiti sono migliori assai, che pigliare difese e poi
non le difendere: perché in questo partito si perde amici e
forze; in quello, amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe,
dico che, se pure uno capitano è costretto per la novità del
nimico fare qualche zuffa, debbe farla con tanto suo vantaggio,
che non vi sia alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come
Mario (il che è migliore partito), il quale, andando contro a'
Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano a predare Italia, e
venendo con uno spavento grande per la ferocità e moltitudine
loro, e per avere di già vinto uno esercito romano, giudicò
Mario essere necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare
alcuna cosa per la quale lo esercito suo deponesse quel terrore
che la paura del nimico gli aveva dato; e, come prudentissimo
capitano, più che una volta collocò lo esercito suo in luogo
donde i Cimbri con lo esercito loro dovessono passare. E così,
dentro alle fortezze del suo campo, volle che i suoi soldati gli
vedessono, ed assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico;
acciocché, vedendo una moltitudine inordinata, piena d'impedimenti,
con armi inutili, e parte disarmati, si rassicurassono, e
diventassono desiderosi della zuffa. Il quale partito, come fu da
Mario saviamente preso, così dagli altri debbe essere
diligentemente imitato, per non incorrere in quelli pericoli che
io dico disopra, e non avere a fare come i Franciosi, "qui
ob rem parvi ponderis trepidi, in Tiburtem agrum et in Campaniam
transierunt". E perché noi abbiamo allegato in questo
discorso Valerio Corvino, voglio, mediante le parole sue, nel
seguente capitolo, come debbe essere fatto uno capitano,
dimostrare.
Cap.
38
Come debbe essere fatto uno capitano
nel quale lo esercito suo possa confidare.
Era,
come di sopra dicemo, Valerio Corvino con lo esercito contro ai
Sanniti, nuovi nimici del Popolo romano: donde che, per
assicurare i suoi soldati, e per farli conoscere i nimici, fece
fare a' suoi certe leggieri zuffe; e non gli bastando questo,
volle, avanti alla giornata, parlare loro, e mostrò, con ogni
efficacia, quanto ei dovevano stimare poco tali nimici, allegando
la virtù de' suoi soldati, e la propria. Dove si può notare,
per le parole che Livio gli fa dire, come debbe essere fatto uno
capitano in chi lo esercito abbia a confidare; le quali parole
sono queste: "Tum etiam intueri, cuius ductu auspicioque
ineunda pugna sit, utrum, qui audiendus dumtaxat magnificus
adhortator sit, verbis tantum ferox, operum militarium expers, an
qui et ipse tela tractare, procedere ante signa, versari media in
mole pugnae sciat. Facta mea, non dicta, vos, milites, sequi volo;
nec disciplinam modo, sed exemplum etiam a me petere, qui hac
dextra mihi tres consulatus, summamque laudem peperi". Le
quali parole, considerate bene, insegnano a qualunque, come ei
debbe procedere a volere tenere il grado del capitano: e quello
che sarà fatto altrimenti, troverrà, con il tempo, quel grado,
quando per fortuna o per ambizione vi sia condotto, torgli e non
dargli riputazione; perché non i titoli illustrono gli uomini,
ma gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal principio di questo
discorso considerare che, se gli capitani grandi hanno usati
termini istraordinari a fermare gli animi d'uno esercito veterano
quando con i nimici inconsueti debbe affrontarsi; quanto
maggiormente si abbia a usare la industria quando si comandi uno
esercito nuovo, che non abbia mai veduto il nimico in viso!
Perché, se lo inusitato inimico allo esercito vecchio dà
terrore, tanto maggiormente lo debbe dare ogni inimico a uno
esercito nuovo. Pure, si è veduto molte volte dai buoni capitani
tutte queste difficultà con somma prudenza essere vinte: come
fece quel Gracco romano, ed Epaminonda tebano, de' quali altra
volta abbiamo parlato, che con eserciti nuovi vinsono eserciti
veterani ed esercitatissimi.
I modi che ei tenevano, era: parecchi
mesi esercitargli in battaglie fitte e assuefargli alla
ubbidienza ed allo ordine; e da quelli poi, con massima
confidenza, nella vera zuffa gli adoperavano. Non si debba,
adunque, diffidare alcuno uomo militare di non potere fare buoni
eserciti, quando non gli manchi uomini; perché quel principe,
che abbonda di uomini e manca di soldati, debbe solamente, non
della viltà degli uomini, ma della sua pigrizia e poca prudenza,
dolersi.
Cap.
39
Che uno capitano debbe essere
conoscitore de' siti.
Intra
le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è
la cognizione de' siti e de' paesi; perché, sanza questa
cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti non
può bene operare alcuna cosa. E perché tutte le scienze
vogliono pratica a volere perfettamente possederle, questa è una
che ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero questa
particulare cognizione, si acquista più mediante le cacce che
per veruno altro esercizio. Però gli antichi scrittori dicono
che quelli eroi che governarono nel loro tempo il mondo, si
nutrirono nelle selve e nelle cacce; perché la caccia, oltre a
questa cognizione, c'insegna infinite cose che sono nella guerra
necessarie. E Senofonte, nella vita di Ciro, mostra che, andando
Ciro ad assaltare il re d'Armenia, nel divisare quella fazione,
ricordò a quegli suoi, che questa non era altro che una di
quelle cacce le quali molte volte avevano fatte seco. E ricordava
a quelli che mandava in agguato in su e' monti, che gli erano
simili a quelli che andavano a tendere le reti in su e' gioghi;
ed a quelli che scorrevano per il piano, erano simili a quegli
che andavano a levare del suo covile la fiera, acciocché,
cacciata, desse nelle reti.
Questo si dice per mostrare come le cacce,
secondo che Senofonte appruova, sono una immagine d'una guerra: e
per questo agli uomini grandi tale esercizio è onorevole e
necessario. Non si può ancora imparare questa cognizione de'
paesi in altro commodo modo, che per via di caccia, perché la
caccia fa, a colui che la usa sapere come sta particularmente
quei paese dove elli la esercita. E fatto che uno si è familiare
bene una regione, con facilità comprende poi tutti i paesi nuovi;
perché ogni paese ed ogni membro di quelli hanno insieme qualche
conformità, in modo che dalla cognizione d'uno facilmente si
passa alla cognizione dell'altro. Ma chi non ne ha bene pratico
uno, con difficultà, anzi non mai se non con un lungo tempo,
può conoscere l'altro. E chi ha questa pratica, in uno voltare d'occhio
sa come giace quel piano, come surge quel monte, dove arriva
quella valle, e tutte le altre simili cose, di che elli ha per lo
addietro fatto una ferma scienza. E che questo sia vero, ce lo
mostra Tito Livio con lo esemplo di Publio Decio; il quale,
essendo Tribuno de' soldati nello esercito che Cornelio consolo
conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi il Consolo ridotto in
una valle, dove lo esercito de' Romani poteva dai Sanniti essere
rinchiuso, e vedendosi in tanto pericolo, disse al Consolo:
"Vides tu, Aule Corneli, cacumen illud supra hostem? arx
illa est spei salutisque nostrae, si eam (quoniam caeci reliquere
Samnites) impigre capimus". Ed innanzi a queste parole,
dette da Decio, Tito Livio dice: "Publius Decius tribunus
militum, conspicit unum editum in saltu collem, imminentem
hostium castris aditu arduum impedito agmini, expeditis haud
difficilem". Donde, essendo stato mandato sopra esso dal
Consolo con tremila soldati, ed avendo salvo lo esercito romano e
disegnando, venente la notte, di partirsi, e salvare ancora sé
ed i suoi soldati, gli fa dire queste parole: "Ite mecum, ut,
dum lucis aliquid superest, quibus locis hostes praesidia ponant,
qua pateat hinc exitus, exploremus. Haec omnia sagulo militari
amicus ne ducem circumire hostes notarent, perlustravit".
Chi considerrà, adunque, tutto questo testo, vedrà quanto sia
utile e necessario a uno capitano sapere la natura de' paesi:
perché, se Decio non gli avesse saputi e conosciuti, non arebbe
potuto giudicare quale utile faceva pigliare quel colle, allo
esercito Romano, né arebbe potuto conoscere di discosto, se quel
colle era accessibiie o no; e condotto che si fu poi sopra esso,
volendosene partire per ritornare al Consolo, avendo i nimici
intorno, non arebbe dal discosto potuto speculare le vie dello
andarsene, e gli luoghi guardati da' nimici. Tanto che, di
necessità conveniva, che Decio avesse tale cognizione perfetta:
la quale fece che, con il pigliare quel colle, ei salvò lo
esercito romano; dipoi seppe, sendo assediato, trovare la via a
salvare sé e quegli che erano stati seco.
Cap.
40
Come usare la fraude nel maneggiare la guerra è cosa
gloriosa.
Ancora
che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco
nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e gloriosa; e,
parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico, come
quello che lo supera con le forze. E vedesi questo per il
giudicio che ne fanno coloro che scrivono le vite degli uomini
grandi; i quali lodono Annibale e gli altri che sono stati
notabilissimi in simili modi di procedere. Di che per leggersi
assai esempli, non ne replicherò alcuno. Dirò solo questo, che
io non intendo quella fraude essere gloriosa, che ti fa rompere
la fede data ed i patti fatti; perché questa, ancora che la ti
acquisti, qualche volta, stato e regno, come di sopra si discorse,
la non ti acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella fraude che
si usa con quel nimico che non si fida di te, e che consiste
proprio nel maneggiare la guerra; come fu quella di Annibale
quando in sul lago di Perugia simulò la fuga per rinchiudere il
Consolo e lo esercito romano, e quando, per uscire di mano di
Fabio Massimo, accese le corna dello armento suo.
Alle quali fraudi fu simile questa che
usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere lo esercito
romano dentro alle Forche Caudine: il quale, avendo messo lo
esercito suo a ridosso de' monti, mandò più suoi soldati sotto
veste di pastori con assai armento per il piano; i quali sendo
presi dai Romani, e domandati dove era lo esercito de' Sanniti,
convennono tutti, secondo l'ordine dato da Ponzio, a dire come
egli era allo assedio di Nocera. La quale cosa, creduta dai
Consoli, fece che ei si rinchiusono dentro ai balzi caudini; dove
entrati, furono subito assediati dai Sanniti. E sarebbe stata
questa vittoria, avuta per fraude, gloriosissima a Ponzio, se
egli avesse seguitati i consigli del padre il quale voleva che i
Romani o ei si salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti,
e che non si pigliasse la via del mezzo, "quae, neque amicos
parat neque inimicos tollit". La quale via fu sempre
perniziosa nelle cose di stato come di sopra in altro luogo si
discorse.
Cap.
41
Che la patria si debbe difendere o
con ignominia o con gloria; ed in qualunque modo è bene difesa.
Era, come di sopra si è detto, il Consolo e lo esercito romano assediato da' Sanniti: i quali avendo posto ai Romani condizioni ignominiosissime (come era volergli mettere sotto il giogo, e disarmati rimandargli a Roma), e per questo stando i Consoli come attoniti, e tutto lo esercito disperato; Lucio Lentolo, legato romano, disse che non gli pareva che fosse da fuggire qualunque partito per salvare la patria: perché, consistendo la vita di Roma nella vita di quello esercito, gli pareva da salvarlo in ogni modo; e che la patria è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria: perché, salvandosi quello esercito, Roma era a tempo a cancellare la ignominia; non si salvando, ancora che gloriosamente morisse, era perduto Roma e la libertà sua. E così fu seguitato il suo consiglio. La quale cosa merita di essere notata ed osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria sua: perché dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà. La quale cosa è imitata con i detti e con i fatti dai Franciosi, per difendere la maestà del loro re e la potenza del loro regno; perché nessuna voce odono più impazientemente che quella che dicesse: - Il tale partito è ignominioso per il re -; perché dicono che il loro re non può patire vergogna in qualunque sua diliberazione, o in buona o in avversa fortuna: perché, se perde, se vince, tutto dicono essere cose da re.
Cap.
42
Che le promesse fatte per forza, non
si debbono osservare.
Tornati i Consoli con lo esercito disarmato e con la ricevuta ignominia a Roma, il primo che in Senato disse che la pace fatta a Caudio non si doveva osservare, fu il consolo Spurio Postumio; dicendo, come il popolo romano non era obligato, ma ch'egli era bene obligato esso e gli altri che avevano promessa la pace: e però il popolo, volendosi liberare da ogni obligo, aveva a dare prigioni nelle mani de' Sanniti lui e tutti gli altri che l'avevano promessa. E con tanta ostinazione tenne questa conclusione, che il Senato ne fu contento; e mandando prigioni lui e gli altri in Sannio, protestarono ai Sanniti la pace non valere. E tanto fu in questo caso, a Postumio, favorevole la fortuna, che i Sanniti non lo ritennono; e ritornato in Roma, fu Postumio appresso ai Romani più glorioso per avere perduto, che non fu Ponzio appresso ai Sanniti per avere vinto. Dove sono da notare due cose: l'una, che in qualunque azione si può acquistare gloria, perché nella vittoria si acquista ordinariamente; nella perdita si acquista o col mostrare tale perdita non essere venuta per tua colpa, o per fare subito qualche azione virtuosa che la cancelli: l'altra è, che non è vergognoso non osservare quelle promesse che ti sono state fatte promettere per forza; e sempre le promesse forzate che riguardano il publico, quando e' manchi la forza, si romperanno, e fia sanza vergogna di chi le rompe. Di che si leggono in tutte le istorie vari esempli; e ciascuno dì, ne' presenti tempi, se ne veggono. E non solamente non si osservano intra i principi le promesse forzate, quando e' manca la forza; ma non si osservano ancora tutte le altre promesse, quando e' mancano le cagioni che le feciono promettere. Il che se è cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono osservare simili modi o no, largamente è disputato da noi nel nostro trattato De Principe: però al presente lo tacereno.
Cap.
43
Che
gli uomini, che nascono in una provincia, osservino per tutti i
tempi quasi quella medesima natura.
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché, essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che le sortischino il medesimo effetto. Vero è, che le sono le opere loro ora in questa provincia più virtuose che in quella, ed in quella più che in questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro. Fa ancora facilità il conoscere le cose future per le passate; vedere una nazione lungo tempo tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente avara, o continovamente fraudolente, o avere alcuno altro simile vizio o virtù. E chi leggerà le cose passate della nostra città di Firenze, e considererà quelle ancora che sono ne' prossimi tempi occorse, troverrà i popoli tedeschi e franciosi pieni di avarizia, di superbia, di ferocità e d'infidelità; perché tutte queste quattro cose in diversi tempi hanno offeso molto la nostra città. E quanto alla poca fede, ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo VIII, ed elli prometteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le rendé. In che quel re mostrò la poca fede, e l'assai avarizia sua. Ma lasciamo andare queste cose fresche. Ciascuno può avere inteso quello che seguì nella guerra che fece il popolo fiorentino contro a' Visconti duchi di Milano; ed essendo Firenze privo degli altri ispedienti, pensò di condurre lo imperadore in Italia, il quale con la riputazione e forze sue assaltasse la Lombardia. Promisse lo imperadore venire con assai genti, e fare quella guerra contro a' Visconti, e difendere Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli dessono centomila ducati per levarsi, e centomila poi ch'ei fosse in Italia. Ai quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatigli i primi danari, e dipoi i secondi, giunto che fu a Verona, se ne tornò indietro sanza operare alcuna cosa, causando essere restato da quegli che non avevano osservate le convenzioni erano fra loro. In modo che, se Firenze non fosse stata o costretta dalla necessità o vinta dalla passione, ed avesse letti e conosciuti gli antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata né questa né molte altre volte ingannata da loro; essendo loro stati sempre a un modo, ed avendo in ogni parte e con ognuno usati i medesimi termini. Come ei si vede ch'ei fecero anticamente a' Toscani, i quali essendo oppressi dai Romani, per essere stati da loro più volte messi in fuga e rotti; e veggendo mediante le loro forze non potere resistere allo impeto di quegli; convennono, con i Franciosi che di qua dall'Alpi abitavano in Italia, di dare loro somma di danari, e che fussono obligati congiugnere gli eserciti con loro, ed andare contro ai Romani: donde ne seguì che i Franciosi, presi i danari, non vollono dipoi pigliare l'armi per loro, dicendo avergli avuti, non per fare guerra con i loro nimici, ma perché si astenessino di predare il paese toscano. E così i popoli toscani, per l'avarizia e poca fede de' Franciosi, rimasono ad un tratto privi de' loro danari, e degli aiuti che gli speravono da quegli. Talché si vede, per questo esemplo de' Toscani antichi, e per quello de' Fiorentini, i Franciosi avere usati i medesimi termini; e per questo facilmente si può conietturare, quanto i principi si possono fidare di loro.
Cap.
44
E'
si ottiene con l'impeto e con l'audacia molte volte quello che
con modi ordinarii non si otterrebbe mai.
Essendo
i Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e non potendo con lo
esercito loro stare alla campagna a petto ai Romani, diliberarono
lasciare guardate le terre in Sannio e di passare con tutto lo
esercito loro in Toscana, la quale era in triegua con i Romani; e
vedere, per tale passata, se ei potessono con la presenzia dello
esercito loro indurre i Toscani a ripigliare l'armi; il che
avevano negato ai loro ambasciadori. E nel parlare che feciono i
Sanniti ai Toscani, nel mostrare, massime, qual cagione gli aveva
indotti a pigliare l'armi, usarono uno termine notabile, dove
dissono: "rebellasse, quod pax servientibus gravior, quam
liberis bellum esset". E così, parte con le persuasioni,
parte con la presenza dello esercito loro, gl'indussono a
ripigliare l'armi. Dove è da notare che quando uno principe
desidera ottenere una cosa da uno altro, debbe, se la occasione
lo patisce, non gli dare spazio a diliberarsi, e fare in modo che
vegga la necessità della presta diliberazione; la quale è
quando colui che è domandato vede che dal negare o dal differire
ne nasca una subita e pericolosa indegnazione.
Questo termine si è veduto bene usare ne'
nostri tempi da papa Iulio con i Franciosi, e da monsignore di
Fois capitano del re di Francia col marchese di Mantova: perché
papa Iulio, volendo cacciare i Bentivogli di Bologna, e
giudicando, per questo, avere bisogno delle forze franciose, e
che i Viniziani stessono neutrali; ed avendone ricerco l'uno e l'altro,
e traendo da loro risposta dubbia e varia; diliberò col non dare
loro tempo fare venire l'uno e l'altro nella sentenza sua: e
partitosi da Roma con quelle tante genti ch'ei poté raccozzare,
ne andò verso Bologna; ed ai Viniziani mandò a dire che
stessono neutrali, ed al re di Francia, che gli mandasse le forze.
Talché, rimanendo tutti distretti dal poco spazio di tempo, e
veggendo come nel papa doveva nascere una manifesta indegnazione
differendo o negando, cederono alle voglie sue, ed il re gli
mandò aiuto, ed i Viniziani si stettono neutrali. Monsignor di
Fois, ancora, essendo con lo esercito in Bologna, ed avendo
intesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla ricuperazione
di quella, aveva due vie; l'una per il dominio del re, lunga e
tediosa; l'altra, breve, per il dominio di Mantova: e non
solamente era necessitato passare per il dominio di quel marchese,
ma gli conveniva entrare per certe chiuse intra paludi e laghi,
di che è piena quella regione, le quali con fortezze ed altri
modi erano serrate e guardate da lui. Onde che Fois, diliberato d'andare
per la più corta, e per vincere ogni difficultà né dare tempo
al marchese a diliberarsi, a un tratto mosse le sue genti per
quella via, ed al marchese significò gli mandasse le chiavi di
quel passo. Talché il marchese, occupato da questa subita
diliberazione, gli mandò le chiavi: le quali mai gli arebbe
mandate se Fois più trepidamente si fosse governato, essendo
quello marchese in lega con il Papa e con i Viniziani, ed avendo
uno suo figliuolo nelle mani del Papa; le quali cose gli davano
molte oneste scuse a negarle. Ma assaltato dal subito partito,
per le cagioni che di sopra si dicono, le concesse. Così feciono
i Toscani coi Sanniti, avendo, per la presenza dello esercito di
Sannio, preso quelle armi che gli avevano negato, per altri tempi,
pigliare.
Cap.
45
Quale sia migliore partito nelle
giornate, o sostenere l'impeto de' nimici, e, sostenuto, urtargli;
ovvero da prima con furia assaltargli.
Erano Decio e Fabio, consoli romani, con due eserciti all'incontro degli eserciti de' Sanniti e de' Toscani; e venendo alla zuffa ed alla giornata insieme, è da notare, in tale fazione, quale de' due diversi modi di procedere tenuti dai due Consoli sia migliore. Perché Decio con ogni impeto e con ogni suo sforzo assaltò il nimico; Fabio solamente lo sostenne, giudicando lo assalto lento essere più utile, riserbando l'impeto suo nello ultimo, quando il nimico avesse perduto el primo ardore del combattere, e, come noi diciamo, la sua foga. Dove si vede, per il successo della cosa, che a Fabio riuscì molto meglio il disegno che a Decio: il quale si straccò ne' primi impeti; in modo che, vedendo la banda sua più tosto in volta che altrimenti, per acquistare con la morte quella gloria alla quale con la vittoria non aveva potuto aggiugnere, ad imitazione del padre sacrificò sé stesso per le romane legioni. La quale cosa intesa da Fabio, per non acquistare manco onore vivendo, che si avesse il suo collega acquistato morendo, spinse innanzi tutte quelle forze che si aveva a tale necessità riservate; donde ne riportò una felicissima vittoria. Donde si vede che il modo del procedere di Fabio è più sicuro e più imitabile.
Cap.
46
Donde nasce che una famiglia in una
città tiene un tempo i medesimi costumi.
E' pare che non solamente l'una città dall'altra abbia certi modi ed instituti diversi, e procrei uomini o più duri o più effeminati, ma nella medesima città si vede tale differenza essere nelle famiglie, l'una dall'altra. Il che si riscontra essere vero in ogni città, e nella città di Roma se ne leggono assai esempli: perché e' si vede i Manlii essere stati duri ed ostinati, i Publicoli uomini benigni ed amatori del popolo, gli Appii ambiziosi e nimici della Plebe: e così molte altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue spartite dall'altre. Le quali cose non possono nascere solamente dal sangue, perché conviene che varii mediante la diversità de' matrimonii; ma è necessario venga dalla diversa educazione che ha l'una famiglia dall'altra. Perché gl'importa assai che un giovanetto da' teneri anni cominci a sentire dire bene o male d'una cosa; perché conviene di necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il modo del procedere in tutti i tempi della sua vita. E se questo non fusse, sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la medesima voglia, e fossono stati agitati dalle medesime passioni, come nota Tito Livio in molti di loro: e per ultimo, essendo uno di loro fatto Censore ed avendo il suo collega alla fine de' diciotto mesi, come ne disponeva la legge, diposto il magistrato, Appio non lo volle diporre, dicendo che lo poteva tenere cinque anni, secondo la prima legge ordinata da' Censori. E benché sopra questo se ne facessero assai concioni, e generassissene assai tumulti, non pertanto non ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla volontà del Popolo e della maggiore parte del Senato. E chi leggerà la orazione gli fece contro Publio Sempronio tribuno della plebe, vi noterà tutte le insolenzie appiane, e tutte le bontà ed umanità usate da infiniti cittadini per ubbidire alle leggi ed agli auspicii della loro patria.
Cap.
47
Che uno buono cittadino per amore
della patria debbe dimenticare le ingiurie private.
Era Marzio consolo con lo esercito contro ai Sanniti, ed essendo stato in una zuffa ferito, e per questo portando le genti sue pericolo, giudicò il Senato essere necessario mandarvi Papirio Cursore dittatore per sopperire ai difetti del consolo. Ed essendo necessario che il Dittatore fosse nominato da Fabio, quale era consolo con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli nimico, che non volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due ambasciadori a pregarlo, che, posto da parte i privati odii, dovesse per beneficio publico nominarlo. Il che Fabio fece, mosso dalla carità della patria; ancora che col tacere e con molti altri modi facesse segno che tale nominazione gli premesse. Dal quale debbono pigliare esemplo tutti quelli che cercano di essere tenuti buoni cittadini.
Cap.
48
Quando si vede fare uno errore grande
a uno nimico, si debbe credere che vi sia sotto inganno.
Essendo
rimaso Fulvio Legato nello esercito che e' Romani avevano in
Toscana, essendo ito il Consolo per alcune cerimonie a Roma, i
Toscani, per vedere se potevano avere quello alla tratta, posono
uno aguato propinquo a' campi romani, e mandarono alcuni soldati
con veste di pastori con assai armento, e li feciono venire alla
vista dello esercito romano: i quali così travestiti si
accostarono allo steccato del campo; onde che il Legato,
maravigliatosi di questa loro presunzione, non gli parendo
ragionevole, tenne modo ch'egli scoperse la fraude; e così
restò il disegno de' Toscani rotto. Qui si può commodamente
notare, che uno capitano di eserciti non debbe prestare fede ad
uno errore che evidentemente si vegga fare al nimico: perché
sempre vi sarà sotto fraude, non sendo ragionevole che gli
uomini siano tanto incauti. Ma spesso il disiderio del vincere
acceca gli animi degli uomini, che non veggono altro che quello
pare facci per loro.
I Franciosi, avendo vinto i Romani ad
Allia, e venendo a Roma, e trovando le porte aperte e sanza
guardia, stettero tutto quel giorno e la notte sanza entrarvi,
temendo di fraude, e non potendo credere che fusse tanta viltà e
tanto poco consiglio ne' petti romani, che gli abbandonassono la
patria. Quando nel 1508, stando li Fiorentini, a campo a Pisa,
Alfonso Del Mutolo, cittadino pisano, si trovava prigione de'
Fiorentini e' promisse che, s'egli era libero, che darebbe una
porta di Pisa allo esercito fiorentino. Fu costui libero: dipoi,
per praticare la cosa, venne molte volte a parlare con i legati
de' commessari; e veniva non di nascosto ma scoperto ed
accompagnato da' Pisani; i quali lasciava da parte, quando
parlava con i Fiorentini. Talmenteché si poteva conietturare il
suo animo doppio; perché non era ragionevole, se la pratica
fosse stata fedele, ch'elli l'avesse trattata sì alla scoperta.
Ma il disiderio che si aveva di avere Pisa, accecò in modo i
Fiorentini, che, condottisi con l'ordine suo alla porta a Lucca,
vi lasciarono più loro capi ed altre genti, con disonore loro,
per il tradimento doppio che fece detto Alfonso.
Cap. 49
Una
republica, a volerla mantenere libera, ha ciascuno dì bisogno di
nuovi provvedimenti; e per quali meriti Quinto Fabio fu chiamato
Massimo.
È
di necessità, come altre volte si è detto, che ciascuno dì in
una città grande naschino accidenti che abbiano bisogno del
medico; e secondo che gl'importano più, conviene trovare il
medico più savio. E se in alcuna città nacquono mai simili
accidenti, nacquono in Roma e strani ed insperati; come fu quello
quando e' parve che tutte le donne romane avessono congiurato
contro ai loro mariti di ammazzargli: tante se ne trovò che gli
avevano avvelenati, e tante che avevano preparato il veleno per
avvelenargli. Come fu ancora quella congiura de' Baccanali, che
si scoprì nel tempo della guerra macedonica, dove erano già
inviluppati molte migliaia di uomini e di donne; e, se la non si
scopriva, sarebbe stata pericolosa per quella città, o se pure i
Romani non fussono stati consueti a gastigare le moltitudini
degli erranti: perché, quando e' non si vedesse per altri
infiniti segni la grandezza di quella Republica, e la potenza
delle esecuzioni sue, si vede per le qualità della pena che la
imponeva a chi errava. Né dubitò fare morire per via di
giustizia una legione intera per volta, ed una città; e di
confinare otto o diecimila uomini con condizioni istraordinarie,
da non essere osservate da uno solo, non che da tanti: come
intervenne a quelli soldati che infelicemente avevano combattuto
a Canne; i quali confinò in Sicilia, ed impose loro che non
albergassono in terra, e che mangiassono ritti.
Ma di tutte le altre esecuzioni era
terribile il decimare gli eserciti, dove a sorte, di tutto uno
esercito, era morto di ogni dieci uno. Né si poteva, a gastigare
una moltitudine, trovare più spaventevole punizione di questa.
Perché quando una moltitudine erra, dove non sia l'autore certo,
tutti non si possono gastigare, per essere troppi; punirne parte,
e parte lasciarne impuniti, si farebbe torto a quegli che si
punissono, e gli impuniti arebbono animo di errare un'altra volta.
Ma ammazzandone la decima parte a sorte, quando tutti lo meritano,
chi è punito si duole della sorte, chi non è punito ha paura
che un'altra volta non tocchi a lui, e guardasi da errare.
Furono punite, adunque, le venefiche e le
baccanali, secondo che meritavano i peccati loro. E benché
questi morbi in una republica faccino cattivi effetti, non sono a
morte, perché sempre quasi si ha tempo a correggergli: ma non si
ha già tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali, se non
sono da uno prudente corretti, rovinano la città.
Erano in Roma, per la liberalità che i
Romani usavano di donare la civiltà a' forestieri, nate tante
genti nuove, che le cominciavano avere tanta parte ne' suffragi,
che il governo cominciava variare, e partivasi da quelle cose e
da quelli uomini dove era consueto andare. Di che accorgendosi
Quinto Fabio, che era Censore, messe tutte queste genti nuove, da
chi dipendeva questo disordine, sotto quattro Tribù acciocché
non potessono, ridutti in sì piccoli spazi, corrompere tutta
Roma. Fu questa cosa bene conosciuta da Fabio, e postovi, sanza
alterazione, conveniente rimedio; il quale fu tanto accetto a
quella civiltà, ch'e' meritò di essere chiamato Massimo.