Emilio Salgari
IL CORSARO NERO
1.
I FILIBUSTIERI DELLA TORTUE
Una voce robusta, che aveva una
specie di vibrazione metallica, s'alzò
dal mare ed echeggiò fra
le tenebre, lanciando queste parole
minacciose:
- Uomini del canotto! Alt, o vi
mando a picco!...
La piccola imbarcazione, montata
da due soli uomini, che avanzava
faticosamente sui flutti color
inchiostro, fuggendo l'alta sponda che
si delineava confusamente sulla
linea dell'orizzonte, come se da
quella parte temesse un grave
pericolo, s'era bruscamente arrestata. I
due marinai, ritirati
rapidamente i remi, si erano alzati d'un sol
colpo, guardando con inquietudine
dinanzi a loro, e fissando gli
sguardi su di una grande
ombra, che pareva fosse improvvisamente
emersa dai flutti.
Erano entrambi sulla quarantina,
ma dai lineamenti energici e
angolosi, resi più arditi
dalle barbe folte, irte, e che forse mai
avevano conosciuto l'uso del
pettine e della spazzola.
Due ampi cappelli di feltro, in
più parti bucherellati e colle tese
sbrindellate, coprivano le loro
teste; camicie di flanella lacerate e
scolorite, e prive di maniche,
riparavano malamente i loro robusti
petti, stretti alla cintura da
fasce rosse, del pari ridotte in stato
miserando, ma sostenenti un paio
di grosse e pesanti pistole che si
usavano verso la fine del
sedicesimo secolo. Anche i loro corti
calzoni erano laceri, e le gambe
ed i piedi, privi di scarpe, erano
imbrattati di fango nerastro.
Quei due uomini che si
sarebbero potuti scambiare per due evasi da
qualche penitenziario del Golfo del
Messico, se in quel tempo fossero
esistiti quelli fondati più
tardi alle Guiane, vedendo quella grande
ombra che spiccava nettamente sul
fondo azzurro cupo dell'orizzonte,
fra lo scintillio delle stelle, si
scambiarono uno sguardo inquieto.
- Guarda un po', Carmaux, - disse
colui che pareva il più giovane. -
Guarda bene, tu che hai la vista
più acuta di me. Sai che si tratta di
vita o di morte.
- Vedo che è un vascello e
sebbene non sia lontano più di tre tiri di
pistola non saprei dire se
viene dalla Tortue o dalle colonie
spagnole.
- Che siano amici?... Uhm! Osare
spingersi fin qui, quasi sotto i
cannoni dei forti, col pericolo
d'incontrare qualche squadra di navi
d'alto bordo scortante qualche
galeone pieno d'oro!...
- Comunque sia, ci hanno visti,
Wan Stiller, e non ci lasceranno
fuggire. Se lo tentassimo, un colpo
di mitraglia sarebbe sufficiente a
mandarci tutti e due a casa di
Belzebù.
La stessa voce di prima, potente
e sonora, echeggiò per la seconda
volta fra le tenebre, perdendosi
lontana sulle acque del golfo:
- Chi vive?
- Il diavolo, - borbottò
colui che si chiamava Wan Stiller.
Il compagno invece salì sul
banco e con quanta voce aveva gridò:
- Chi è l'audace che vuol
sapere da qual paese veniamo noi?... Se la
curiosità lo divora,
venga da noi e gliela pagheremo a colpi di
pistola.
Quella smargiassata, invece di
irritare l'uomo che interrogava dal
ponte della nave, parve renderlo
lieto, poiché rispose:
- I valorosi s'avanzino e
vengano ad abbracciare i fratelli della
costa!...
I due uomini del canotto avevano
mandato un grido di gioia.
- I fratelli della costa! -
esclamarono.
Poi colui che si chiamava Carmaux
aggiunse:
- Il mare m'inghiotta, se non ho
conosciuta la voce che ci ha data
questa bella nuova.
- Chi credi che sia? - chiese il
compagno, che aveva ripreso il remo
manovrandolo con supremo vigore.
- Un uomo solo, fra tutti i
valorosi della Tortue, può osare spingersi
fino sotto i forti spagnoli.
- Chi?...
- Il Corsaro Nero.
- Tuoni d'Amburgo!... Lui!...
Proprio lui!...
- Che triste notizia per
quell'audace marinaio!... - mormorò Carmaux
con un sospiro. - Ed è
proprio morto!...
- Mentre lui forse sperava di
giungere in tempo per strapparlo vivo
dalle mani degli spagnoli, è
vero, amico?
- Si, Wan Stiller.
- Ed è il secondo che gli
appiccano!...
- Il secondo, sì. Due
fratelli, e tutti e due appesi alla forca
infame!
- Si vendicherà, Carmaux.
- Lo credo, e noi saremo con lui.
Il giorno che vedrò strangolare quel
dannato Governatore di Maracaybo,
sarà il più bello della mia vita e
darò fine ai due smeraldi
che tengo cuciti nei miei pantaloni. Saranno
almeno mille piastre che mangerò
coi camerati.
- Ah!... Ci siamo!... Te lo dicevo
io? E' la nave del Corsaro Nero!...
Il vascello, che poco prima non
si poteva ben discernere per la
profonda oscurità, non si
trovava allora che a mezza gomena dal
piccolo canotto.
Era uno di quei legni da corsa che
adoperavano i filibustieri della
Tortue per dare la caccia ai
grossi galeoni spagnoli, recanti in
Europa i tesori dell'America
centrale, del Messico e delle regioni
equatoriali.
Buoni velieri, muniti d'alta
alberatura per potere approfittare delle
brezze più leggere, colla
carena stretta, la prora e la poppa
soprattutto altissime come si
usavano in quell'epoca, e
formidabilmente armati.
Dodici bocche da fuoco, dodici
caronade, sporgevano le loro nere gole
dai sabordi, minacciando a
babordo ed a tribordo, mentre sull'alto
cassero si allungavano due grossi
cannoni da caccia, destinati a
spazzare i ponti a colpi di
mitraglia.
Il legno corsaro si era messo in
panna per attendere il canotto, ma
sulla prora si vedevano, alla luce
d'un fanale, dieci o dodici uomini
armati di fucili, i quali
parevano pronti a far fuoco al minimo
sospetto.
I due marinai del canotto,
giunti sotto il bordo del veliero,
afferrarono una fune che era
stata loro gettata insieme ad una scala
di corda, assicurarono
l'imbarcazione, ritirarono i remi, poi si
issarono sulla coperta con
un'agilità sorprendente.
Due uomini, entrambi muniti di
fucili, puntarono su di essi le armi,
mentre un terzo si avvicinava,
proiettando sui nuovi arrivati la luce
d'una lanterna.
- Chi siete? - fu chiesto loro.
- Per Belzebù, mio
patrono!... - esclamò Carmaux. - Non si conoscono
più gli amici?...
- Un pesce-cane mi mangi se questi
non è il biscaglino Carmaux!... -
gridò l'uomo della
lanterna. - Come sei ancora vivo, mentre alla
Tortue ti si credeva morto?...
Toh!... Un altro risuscitato!... Non
sei tu l'amburghese Wan Stiller?...
- In carne ed ossa, - rispose
questi.
- Anche tu adunque sei sfuggito al
capestro?...
- Eh... La morte non mi voleva ed
io ho pensato che era meglio vivere
qualche anno ancora.
- Ed il capo?...
- Silenzio, - disse Carmaux.
- Puoi parlare: è morto?
- Banda di corvi!... Avete finito
di gracchiare?... - gridò la voce
metallica, che aveva lanciata
quella frase minacciosa agli uomini del
canotto.
- Tuoni d'Amburgo! Il Corsaro
Nero!... - borbottò Wan Stiller, con un
brivido. Carmaux, alzando la voce,
rispose:
- Eccomi comandante.
Un uomo era sceso allora dal
ponte di comando e si dirigeva verso di
loro, con una mano appoggiata al
calcio d'una pistola che pendevagli
dalla cintola. Era vestito
completamente di nero e con una eleganza
che non era abituale fra i
filibustieri del grande golfo del Messico,
uomini che si accontentavano di un
paio di calzoni e d'una camicia, e
che curavano più le loro
armi che gli indumenti.
Portava una ricca casacca di seta
nera, adorna di pizzi di eguale
colore, coi risvolti di pelle
egualmente nera; calzoni pure di seta
nera, stretti da una larga
fascia frangiata; alti stivali alla
scudiera e sul capo un grande
cappello di feltro, adorno d'una lunga
piuma nera che gli scendeva fino
alle spalle.
Anche l'aspetto di quell'uomo
aveva, come il vestito, qualche cosa di
funebre, con quel volto
pallido, quasi marmoreo, che spiccava
stranamente fra le nere trine del
colletto e le larghe tese del
cappello, adorno d'una barba corta,
nera, tagliata alla nazzarena e un
po' arricciata.
Aveva però i lineamenti
bellissimi: un naso regolare, due labbra
piccole e rosse come il corallo,
una fronte ampia solcata da una
leggera ruga che dava a quel volto
un non so che di malinconico, due
occhi, poi, neri come carbone,
d'un taglio perfetto, dalle ciglia
lunghe, vivide e animate da un
lampo tale che in certi momenti doveva
sgomentare anche i più
intrepidi filibustieri di tutto il golfo. La
sua statura alta, slanciata, lo
faceva conoscere, anche a prima vista,
per un uomo d'alta condizione
sociale e soprattutto per un uomo
abituato al comando.
I due uomini del canotto, vedendolo
avvicinarsi, si erano guardati in
viso con una certa inquietudine,
mormorando:
- Il Corsaro Nero!
- Chi siete voi e da dove
venite? - chiese il Corsaro, fermandosi
dinanzi a loro e tenendo sempre la
destra sul calcio della pistola.
- Noi siamo due filibustieri della
Tortue, due fratelli della costa, -
rispose Carmaux.
- E venite?
- Da Maracaybo.
- Siete fuggiti dalle mani degli
spagnoli?
- Sì, comandante.
- A qual legno appartenevate?
- A quello del Corsaro Rosso.
Il Corsaro Nero udendo quelle
parole trasalì, poi stette un istante
silenzioso, guardando i due
filibustieri con due occhi che pareva
mandassero fiamme.
- Al legno di mio fratello, - disse
poi, con un tremito nella voce.
Afferrò bruscamente Carmaux
per un braccio e lo condusse verso poppa,
traendolo quasi a forza. Giunto
sotto il ponte di comando, alzò il
capo verso un uomo che stava ritto
lassù, come se attendesse qualche
ordine, e disse:
- Incrociare sempre al largo,
signor Morgan; gli uomini rimangano alle
armi e gli artiglieri colle micce
accese; mi avvertirete di tutto ciò
che può succedere.
- Sì, comandante, -
rispose l'altro. - Nessuna nave o scialuppa si
avvicinerà, senza che ne
siate avvertito.
Il Corsaro Nero scese nel
quadro, tenendo sempre Carmaux per il
braccio, entrò in una
piccola cabina ammobiliata con molta eleganza ed
illuminata da una lampada dorata,
quantunque a bordo delle navi
filibustiere fosse proibito, dopo
le nove di sera, di tenere acceso
qualsiasi lume, quindi indicando
una sedia disse brevemente:
- Ora parlerai.
- Sono ai vostri ordini,
comandante.
Invece d'interrogarlo, il Corsaro
si era messo a guardarlo fisso,
tenendo le braccia incrociate sul
petto. Era diventato più pallido del
solito, quasi livido, mentre il
petto gli si sollevava sotto frequenti
sospiri. Due volte aveva aperto le
labbra come per parlare, e poi le
aveva richiuse come se avesse
paura di fare una domanda, la cui
risposta doveva forse essere
terribile.
Finalmente, facendo uno sforzo,
chiese con voce sorda:
- Me l'hanno ucciso, è vero?
- Chi?
- Mio fratello, colui che
chiamavano il Corsaro Rosso.
- Sì, comandante, - rispose
Carmaux, con un sospiro. - Lo hanno ucciso
come vi hanno spento l'altro
fratello, il Corsaro Verde.
Un grido rauco che aveva qualche
cosa di selvaggio, ma nello stesso
tempo straziante, uscì dalle
labbra del comandante.
Carmaux lo vide impallidire
orribilmente e portarsi una mano sul
cuore, e poi lasciarsi cadere su
di una sedia, nascondendosi il viso
colla larga tesa del cappello.
Il Corsaro rimase in quella posa
alcuni minuti, durante i quali il
marinaio del canotto lo udì
singhiozzare, poi balzò in piedi come se
si fosse vergognato di quell'atto
di debolezza.
La tremenda emozione che lo aveva
preso era completamente scomparsa;
il viso era tranquillo, la fronte
serena, il colorito non più marmoreo
di prima, ma lo sguardo era animato
da un lampo così tetro che metteva
paura. Fece due volte il giro
della cabina come se avesse voluto
tranquillizzarsi interamente prima
di continuare il dialogo, poi tornò
a sedersi, dicendo:
- Io temevo di giungere troppo
tardi, ma mi resta la vendetta. L'hanno
fucilato?
- Appiccato, signore.
- Sei certo di questo?
- L'ho veduto coi miei occhi
pendere dalla forca eretta sulla "Plaza
de Granada".
- Quando l'hanno ucciso?
- Quest'oggi, nel pomeriggio.
- E' morto?...
- Da prode, signore. Il Corsaro
Rosso non poteva morire diversamente,
anzi...
- Continua.
- Quando il laccio stringeva, ebbe
ancora la forza d'animo di sputare
in faccia al governatore.
- A quel cane di Wan Guld?
- Sì, al duca fiammingo.
- Ancora lui! Sempre lui!... Ha
giurato adunque un odio feroce contro
di me? Un fratello ucciso a
tradimento e due appiccati da lui!
- Erano i due più audaci
corsari del golfo, signore, è quindi naturale
che li odiasse.
- Ma mi rimane la vendetta!... -
gridò il filibustiere con voce
terribile. - No, non morrò
se prima non avrò sterminato quel Wan Guld
e tutta la sua famiglia e dato alle
fiamme la città ch'egli governa.
«Maracaybo, tu mi sei stata
fatale; ma io pure sarò fatale a te!...
«Dovessi fare appello a tutti
i filibustieri della Tortue ed a tutti i
bucanieri di San Domingo e di Cuba,
non lascerò pietra su pietra di
te!...
«Ora parla, amico: narrami
ogni cosa. Come vi hanno presi?».
- Non ci hanno presi colla
forza delle armi bensì sorpresi a
tradimento quando eravamo inermi,
comandante.
«Come voi sapevate, vostro
fratello si era diretto su Maracaybo per
vendicare la morte del Corsaro
Verde, avendo giurato, al pari di voi,
di appiccare il duca fiammingo.
«Eravamo in ottanta, tutti
risoluti e decisi ad ogni evento, anche ad
affrontare una squadra, ma
avevamo fatto i conti senza il cattivo
tempo. All'imboccatura del Golfo di
Maracaybo, un uragano tremendo ci
sorprende, ci caccia sui bassi
fondi e le onde furiose frantumano la
nostra nave. Ventisei soli,
dopo infinite fatiche, riescono a
raggiungere la costa: eravamo
tutti in condizioni così deplorevoli da
non opporre la minima resistenza e
sprovvisti di qualsiasi arma.
«Vostro fratello ci
incoraggia e ci guida lentamente attraverso le
paludi, per tema che gli spagnoli
ci avessero scorti, e che avessero
incominciato ad inseguirci.
«Credevamo di poter trovare
un rifugio sicuro nelle folte foreste,
quando cademmo in una imboscata.
Trecento spagnoli, guidati da Wan
Guld in persona, ci piombano
addosso, ci chiudono in un cerchio di
ferro, uccidono quelli che
oppongono resistenza e ci conducono
prigionieri a Maracaybo».
- E mio fratello era del numero?
- Sì, comandante. Quantunque
fosse armato d'un pugnale, si era difeso
come un leone, preferendo morire
sul campo piuttosto che sulla forca,
ma il fiammingo l'aveva
riconosciuto ed invece di farlo uccidere con
un colpo di fucile o di spada,
l'aveva fatto risparmiare.
«Trascinati a Maracaybo,
dopo di essere stati maltrattati da tutti i
soldati ed ingiuriati dalla
popolazione, fummo condannati alla forca.
Ieri mattina però, io ed il
mio amico Wan Stiller, più fortunati dei
nostri compagni, siamo riusciti a
fuggire strangolando la nostra
sentinella.
«Dalla capanna di un
indiano presso il quale ci siamo rifugiati,
abbiamo assistito alla morte di
vostro fratello e dei suoi coraggiosi
filibustieri, poi alla sera
aiutati da un negro ci siamo imbarcati su
di un canotto, decisi di
attraversare il golfo del Messico e giungere
alla Tortue. Ecco tutto,
comandante».
- E mio fratello è
morto!... - disse il Corsaro con una calma
terribile. - - L'ho visto come vedo
ora voi.
- E sarà appeso ancora alla
forca infame?
- Vi rimarrà tre giorni.
- E poi verrà gettato in
qualche fogna.
- Certo comandante.
Il Corsaro si era bruscamente
alzato e si era avvicinato al
filibustiere.
- Hai paura tu?... - gli chiese con
strano accento.
- Nemmeno di Belzebù,
comandante.
- Dunque tu non temi la morte?
- No.
- Mi seguiresti?
- Dove?
- A Maracaybo.
- Quando?
- Questa notte.
- Si va ad assalire la città?
- No, non siamo in numero
sufficiente ora, ma più tardi Wan Guld
riceverà mie nuove. Ci
andremo noi due ed il tuo compagno.
- Soli? - chiese Carmaux, con
stupore.
- Noi soli.
- Ma che volete fare?
- Prendere la salma di mio
fratello.
- Badate comandante! Correte il
pericolo di farvi prendere.
- Tu sai chi è il Corsaro
Nero?
- Lampi e folgori! E' il
filibustiere più audace della Tortue.
- Va' adunque ad aspettarmi sul
ponte e fa preparare una scialuppa.
- E' inutile, capitano, abbiamo il
nostro canotto, una vera barca da
corsa.
- Va'!
2.
UNA SPEDIZIONE AUDACE
Carmaux si era affrettato ad
obbedire, sapendo che col formidabile
Corsaro era pericoloso indugiare.
Wan Stiller lo attendeva dinanzi
al boccaporto, in compagnia del
mastro d'equipaggio e d'alcuni
filibustieri, i quali lo interrogavano
sulla disgraziata fine del
Corsaro Rosso e del suo equipaggio,
manifestando terribili propositi
di vendetta contro gli spagnoli di
Maracaybo e soprattutto contro il
governatore. Quando l'amburghese
apprese che si doveva preparare
il canotto per fare ritorno alla
costa, dalla quale si erano
allontanati precipitosamente per un vero
miracolo, non poté
nascondere il suo stupore e la sua apprensione.
- Tornare ancora laggiù!...
- esclamò. - Ci lasceremo la pelle,
Carmaux.
- Bah!... Non ci andremo soli
questa volta.
- Chi ci accompagnerà
dunque?
- Il Corsaro Nero. Allora non ho
più timori. Quel diavolo d'uomo vale
cento filibustieri.
- Ma verrà solo.
- Non conta, Carmaux; con lui
non vi è da temere. E rientreremo in
Maracaybo?...
- Sì, mio caro, e saremo
bravi se condurremo a buon fine l'impresa.
Ehi, mastro, fa' gettare nel
canotto tre fucili, delle munizioni, un
paio di sciabole d'arrembaggio per
noi due, e qualche cosa da mettere
sotto i denti. Non si sa mai ciò
che può succedere e quando potremo
tornare.
- E' già fatto, - rispose il
mastro. - Non mi sono dimenticato nemmeno
il tabacco.
- Grazie, amico. Tu sei la perla
dei mastri.
- Eccolo, - disse in quell'istante
Wan Stiller.
Il Corsaro era comparso sul ponte.
Indossava ancora il suo funebre
costume, ma si era appesa al
fianco una lunga spada, ed alla cintura
un paio di grosse pistole ed uno
di quegli acuti pugnali spagnoli
chiamati "misericordie".
Sul braccio portava un ampio ferraiuolo, nero
come il vestito.
S'avvicinò all'uomo che
stava sul ponte di comando e che doveva essere
il comandante in seconda,
scambiò con lui alcune parole, poi disse
brevemente ai due filibustieri:
- Partiamo.
- Siamo pronti - rispose Carmaux.
Scesero tutti e tre nel canotto che
era stato condotto sotto la poppa
e già provvisto d'armi e
di viveri. Il Corsaro si avvolse nel suo
ferraiuolo e si sedette a prora,
mentre i filibustieri, afferrati i
remi, ricominciarono con grande
lena la faticosa manovra.
La nave filibustiera aveva
subito spento i fanali di posizione e,
orientate le vele, si era messa
a seguire il canotto, correndo
bordate, onde non precederlo.
Probabilmente il comandante in seconda
voleva scortare il suo capo fin
presso la costa per proteggerlo nel
caso d'una sorpresa.
Il Corsaro, semisdraiato a prora,
col capo appoggiato ad un braccio,
stava silenzioso, ma il suo
sguardo, acuto come quello di un'aquila,
percorreva attentamente il
fosco orizzonte, come se cercasse
discernere la costa americana che
le tenebre nascondevano.
Di tratto in tratto volgeva il capo
verso la sua nave che sempre lo
seguiva, ad una distanza di
sette od otto gomene, poi tornava a
guardare verso il sud.
Wan Stiller e Carmaux intanto
arrancavano di gran lena, facendo
volare, sui neri flutti, il
sottile e svelto canotto. Né l'uno né
l'altro parevano preoccupati di
ritornare verso quella costa, popolata
dai loro implacabili nemici,
tanta era la fiducia che avevano
nell'audacia e nella valentia
del formidabile Corsaro, il cui solo
nome bastava a spargere il terrore
in tutte le città marittime del
grande golfo messicano.
Il mare interno di Maracaybo,
essendo liscio come se fosse di olio,
permetteva alla veloce
imbarcazione di avanzare senza troppo
affaticare i due rematori. Non
essendovi in quel luogo, racchiuso fra
due capi che lo proteggono dalle
larghe ondate del grande golfo, coste
ripide, non vi sono flutti di
fondo, sicché è raro che l'acqua là
entro si sconvolga.
I due filibustieri arrancavano da
un'ora, quando il Corsaro Nero, che
fino allora aveva mantenuto una
immobilità quasi assoluta, si alzò
bruscamente in piedi, come se
volesse abbracciare collo sguardo
maggiore orizzonte.
Un lume, che non si poteva
confondere con una stella, brillava a fior
d'acqua, verso il sud-ovest, ad
intervalli d'un minuto.
- Maracaybo, - disse il Corsaro,
con accento cupo, che tradiva un
impeto di sordo furore.
- Sì, - rispose Carmaux, che
si era voltato.
- Quanto distiamo?
- Forse tre miglia, capitano.
- Allora a mezzanotte noi vi
saremo.
- Sì.
- Vi è qualche crociera?
- Quella dei doganieri.
- E' necessario evitarla.
- Conosciamo un posto ove potremo
sbarcare tranquilli e nascondere il
canotto fra i paletuvieri.
- Avanti.
- Una parola, capitano.
- Parla.
- Sarebbe meglio che la nostra nave
non si avvicinasse di più.
- Ha già virato e ci
aspetterà al largo, - rispose il Corsaro.
Stette silenzioso alcuni istanti,
poi riprese:
- E' vero che vi è una
squadra nel lago?
- Sì, comandante, quella
del contrammiraglio Toledo che veglia su
Maracaybo e Gibraltar.
- Ah!... Hanno paura? Ma
l'Olonese è alla Tortue e fra noi due la
manderemo a picco. Pazienza alcuni
giorni ancora, poi Wan Guld saprà
di che cosa saremo capaci noi.
Si ravvolse di nuovo nel suo
mantello, si calò il feltro sugli occhi,
poi tornò a sedersi,
tenendo gli sguardi fissi su quel punto luminoso
che indicava il faro del porto.
Il canotto riprese la corsa; non
manteneva però più la prora verso
l'imboccatura di Maracaybo,
volendo evitare la crociera delle guardie
doganali, le quali non avrebbero
mancato di fermarlo e di arrestare le
persone che lo montavano.
Mezz'ora dopo, la costa del golfo
era perfettamente visibile, non
essendo lontana più di tre
o quattro gomene. La spiaggia scendeva in
mare dolcemente, tutta ingombra di
paletuvieri, piante che crescono
per lo più alla foce dei
corsi d'acqua e che producono delle febbri
terribili e che sono la causa del
"vomito prieto" ossia della temuta
febbre gialla.
Più oltre si vedeva
spiccare, sul fondo stellato del cielo, una cupa
vegetazione, la quale lanciava
in aria enormi ciuffi di foglie
piumate, di dimensioni gigantesche.
Carmaux e Wan Stiller avevano
rallentata la vogata e si erano voltati
per vedere la costa. Non
s'avanzavano che con grandi precauzioni,
procurando di non fare rumore e
guardando attentamente in tutte le
direzioni, come se temessero
qualche sorpresa. Il Corsaro Nero non si
era invece mosso, però aveva
posto dinanzi a sé i tre fucili imbarcati
dal mastro per salutare, con
una scarica, la prima scialuppa che
avesse osato avvicinarsi.
Doveva essere la mezzanotte quando
il canotto si arenava in mezzo ai
paletuvieri, cacciandosi più
di mezzo fra le piante e le contorte
radici.
Il Corsaro si era alzato.
Ispezionò rapidamente la costa, poi balzò
agilmente a terra, legando
l'imbarcazione ad un ramo.
- Lasciate i fucili - disse a
Wan Stiller ed a Carmaux. - Avete le
pistole?
- Sì, capitano, - rispose
l'amburghese.
- Sapete dove siamo?
- A dieci o dodici miglia da
Maracaybo.
- E' situata dietro questo bosco la
città?
- Sul margine di questa macchia
gigantesca.
- Potremo entrare di notte?...
- E' impossibile capitano. Il
bosco è foltissimo e non potremo
attraversarlo prima di domani
mattina.
- Sicché saremo costretti ad
attendere fino a domani sera?
- Se non volete arrischiarvi
di entrare in Maracaybo di giorno,
bisognerà rassegnarsi ad
aspettare.
- Mostrarci in città di
giorno sarebbe un'imprudenza, - rispose il
Corsaro, come parlando fra sé
stesso. - Se avessi qui la mia nave
pronta ad appoggiarci ed a
raccoglierci, l'oserei, ma la "Folgore"
incrocia ora nelle acque del gran
golfo.
Rimase alcuni istanti immobile e
silenzioso, come se fosse immerso in
profondi pensieri, quindi riprese:
- E mio fratello, potremo trovarlo
ancora?
- Rimarrà esposto sulla
"Plaza de Granada" tre giorni, - disse
Carmaux. - Ve lo dissi già.
- Allora abbiamo tempo. Avete
conoscenze in Maracaybo?
- Sì, un negro, quello che
ci offrì il canotto per fuggire. Abita sul
margine di questa foresta in una
capanna isolata.
- Non ci tradirà?
- Rispondiamo di lui.
- In cammino.
Salirono la sponda, Carmaux
dinanzi, il Corsaro in mezzo e Wan Stiller
in coda e si cacciarono in mezzo
all'oscura boscaglia procedendo
cautamente, cogli orecchi tesi
e le mani sui calci delle pistole,
potendo cadere da un istante
all'altro in un agguato.
La foresta si rizzava dinanzi a
loro, tenebrosa come una immensa
caverna. Tronchi d'ogni forma e
dimensione si ergevano verso l'alto,
sostenendo foglie smisurate, le
quali impedivano assolutamente di
scorgere la volta stellata.
Festoni di liane cadevano
dappertutto, intrecciandosi in mille guise,
salendo e scendendo dai tronchi
delle palme e correndo da destra a
sinistra, mentre al suolo
strisciavano, attorcigliate le une alle
altre, radici smisurate, le quali
ostacolavano non poco la marcia dei
tre filibustieri, costringendoli a
fare dei lunghi giri per trovare un
passaggio, od a mettere mano
alle sciabole d'arrembaggio per
reciderle. Dei vaghi bagliori,
come di grossi punti luminosi, che
proiettavano ad intervalli dei
veri sprazzi di luce, correvano in
mezzo a quelle migliaia di tronchi,
danzavano ora a livello del suolo
ed ora in mezzo al fogliame.
Si spegnevano bruscamente, poi si
riaccendevano e formavano delle
vere onde luminose di una
incomparabile bellezza, che aveva
qualche cosa di fantastico.
Erano le grosse lucciole
dell'America meridionale, le "vaga lume" che
tramandano una luce così
vivida da permettere di leggere le scritture
più minute anche alla
distanza di qualche metro e che rinchiuse in un
vasetto di cristallo in tre o
quattro, bastano ad illuminare una
stanza; e le "lampyris
occidental" o perilampo, altri bellissimi
insetti fosforescenti che si
trovano in grandissimi sciami nelle
foreste della Guiana e
dell'Equatore.
I tre filibustieri, sempre nel più
profondo silenzio, continuavano la
marcia, non lasciando le loro
precauzioni, poiché oltre gli uomini,
avevano da temere anche gli
abitanti delle foreste, i sanguinari
giaguari e soprattutto i serpenti,
specialmente gli "jaraca", rettili
velenosissimi, che sono difficili
a scorgersi anche di giorno essendo
la loro pelle del colore delle
foglie secche.
Dovevano aver percorso due miglia,
quando Carmaux, che si trovava
sempre dinanzi, essendo il più
pratico dei luoghi, s'arrestò
bruscamente armando con
precipitazione una delle sue pistole.
- Un giaguaro od un uomo? -
chiese il Corsaro, senza la minima
apprensione.
- Può essere stato un
giaguaro, ma anche una spia, - rispose Carmaux.
- In questo paese non si è
mai certi di vedere l'indomani.
- Dov'è passato?
- A venti passi da me.
Il Corsaro si curvò verso
terra ed ascoltò attentamente, trattenendo
il respiro. Un leggero
scrosciare di foglie giunse fino a lui; era
però così debole che
solamente un orecchio molto esercitato ed acuto
poteva udirlo.
- Può essere un animale,
- rispose rialzandosi. - Bah!... Noi non
siamo uomini da spaventarci.
Impugnate le sciabole e seguitemi.
Girò intorno al tronco di un
albero enorme che torreggiava in mezzo
alle palme, poi sostò in
mezzo ad un gruppo di foglie giganti
scrutando le tenebre. Lo
scrosciare delle foglie secche era cessato,
tuttavia al suo orecchio giunse un
tintinnio metallico e poco dopo un
colpo secco come se il cane d'un
fucile venisse alzato.
- Fermi! Qui vi è qualcuno
che ci spia e che aspetta il momento per
farci fuoco addosso.
- Che ci abbiano veduti
sbarcare? - borbottò Carmaux, con
inquietudine. - Questi spagnoli
hanno spie dappertutto.
Il Corsaro aveva impugnata colla
destra la spada e colla sinistra una
pistola e cercava di girare
quell'ammasso di foglie, senza produrre il
minimo rumore. Ad un tratto Carmaux
e Wan Stiller lo videro slanciarsi
innanzi e piombare, con un solo
salto, addosso ad una forma umana, che
si era improvvisamente alzata in
mezzo ad un cespuglio.
L'assalto del Corsaro era stato
cosi improvviso ed impetuoso che
l'uomo che si teneva imboscato era
andato a gambe levate, percosso in
pieno viso dalla guardia della
spada.
Carmaux e Wan Stiller si erano
subito precipitati su di lui, e mentre
il primo s'affrettava a raccogliere
il fucile che l'uomo imboscato
aveva lasciato cadere, senza
avere avuto il tempo di scaricarlo,
l'altro puntava la pistola dicendo:
- Se ti muovi sei un uomo
spacciato.
- E' uno dei nostri nemici, - disse
il Corsaro che si era curvato.
- Un soldato di quel dannato Wan
Guld, - rispose Wan Stiller.
- Che cosa faceva imboscato in
questo luogo? Sarei curioso di saperlo.
Si levarono le fasce di lana
rossa che portavano ai fianchi e
strinsero le braccia del
prigioniero, senza che questi osasse fare
resistenza.
- Ora vediamo un po' chi sei, -
disse Carmaux.
Lo spagnolo, che era stato
stordito dalla guardia della spada del
Corsaro, cominciava a riaversi,
accennando ad alzarsi.
- "Carrai"! - borbottò
con un tremito nella voce. - Che sia caduto tra
le mani del diavolo?
- L'hai indovinato, - disse
Carmaux. - Giacché a voi piace chiamare
così noi filibustieri.
Lo spagnolo provò un brivido
così forte, che Carmaux se ne accorse.
- Non aver tanta paura, per ora, -
gli disse, ridendo. - Risparmiala
per più tardi, per quando
danzerai nel vuoto un "fandango" disordinato
con un bel pezzo di solida canapa
stretto alla gola.
Poi volgendosi verso il
Corsaro, che guardava in silenzio il
prigioniero, gli chiese:
- Devo finirlo con un colpo di
pistola?
- No, - rispose il capitano.
- Preferite appiccarlo ai rami di
quell'albero?
- Nemmeno.
- Forse è uno di quelli che
hanno appiccato i fratelli della costa ed
il Corsaro Rosso, mio capitano.
A quel ricordo un lampo terribile
balenò negli occhi del Corsaro Nero,
ma subito si spense.
- Non voglio che muoia, - disse
con voce sorda. - Può esserci più
utile d'un appiccato.
- Allora leghiamolo per bene, -
dissero i filibustieri.
Accese un pezzo di miccia da
cannone che teneva in tasca e l'accostò
al viso dello spagnolo.
Quel povero diavolo, caduto nelle
mani dei formidabili corsari della
Tortue, era un uomo di appena
trent'anni, lungo e magro come il suo
compatriota Don Chisciotte, con un
viso angoloso, coperto da una barba
rossiccia e due occhi grigi,
dilatati dallo spavento.
Indossava una casacca di pelle
gialla con qualche rabesco, corti e
larghi calzoni a righe nere e rosse
e calzava lunghi stivali di pelle
nera. Sul capo invece portava
un elmetto d'acciaio adorno di una
vecchia piuma, la quale non aveva
più che rade barbe e dalla cintura
gli pendeva una lunga spada, la
cui guaina era assai rugginosa alle
sue estremità.
- Per Belzebù mio
patrono!... - esclamò Carmaux, ridendo. - Se il
Governatore di Maracaybo ha di
questi prodi vuol dire che non li nutre
di certo con capponi poiché
è più magro di un'aringa affumicata.
Credo, capitano, che valga la pena
d'appiccarlo.
- Non ho detto d'appiccarlo -
rispose il Corsaro.
Poi toccando il prigioniero con la
punta della spada gli disse:
- Ora parlerai se ti preme la
pelle.
- La pelle è già
perduta - rispose lo spagnolo. - Non si esce vivi
dalle vostre mani e quando io
avessi narrato a voi quanto vorreste
sapere, non sarei certo di rivedere
egualmente l'indomani.
- Lo spagnolo ha del coraggio, -
disse Wan Stiller.
- E la sua risposta vale la sua
grazia, - aggiunse il Corsaro. - Via,
parlerai?
- No, - rispose il prigioniero.
- Ti ho promesso salva la vita.
- E chi vi crederà?
- Chi?... Ma sai chi sono io?
- Un filibustiere.
- Sì, ma che si chiama il
Corsaro Nero.
- Per la nostra Signora di
Guadalupa! - esclamò lo spagnolo,
diventando livido. - Il Corsaro
Nero qui!... Siete venuto per
sterminarci tutti e vendicare il
vostro fratello, il Corsaro Rosso?
- Sì, se non parlerai, -
rispose il filibustiere con voce cupa.
- Vi sterminerò tutti e di
Maracaybo non rimarrà pietra su pietra!
- "Por todos los santos!"...
Voi qui? - ripeté il prigioniero, che non
si era ancora rimesso dalla
sorpresa.
- Parla!...
- Sono morto; è quindi
inutile.
- Il Corsaro Nero è un
gentiluomo, sappilo, ed un gentiluomo non ha
mai mancato alla parola data, -
rispose il capitano con voce solenne.
- Allora interrogatemi.
3.
IL PRIGIONIERO
Ad un cenno del capitano, Wan
Stiller e Carmaux avevano sollevato il
prigioniero e l'avevano seduto
ai piedi d'un albero, senza però
slegargli le mani, quantunque
fossero certi che non avrebbe commesso
la pazzia di tentare la fuga.
Il Corsaro gli sedette di fronte,
su di una enorme radice che sorgeva
dal suolo come un serpente
gigantesco, mentre i due filibustieri si
erano messi in sentinella alle
estremità di quel macchione, non
essendo ancora bene sicuri che il
prigioniero fosse solo.
- Dimmi, - disse il Corsaro, dopo
alcuni istanti di silenzio. - E'
ancora esposto mio fratello?...
- Sì, - rispose il
prigioniero. - Il governatore ha ordinato di
tenerlo appeso tre giorni e tre
notti, prima di gettare il cadavere
nella foresta, a pasto delle fiere.
- Credi che sia possibile rubare il
cadavere?
- Forse, non essendovi di notte
che una sentinella a guardia della
"Plaza de Granada".
Quindici appiccati non possono ormai fuggire.
- Quindici!... - esclamò il
Corsaro, con accento cupo. - Dunque quel
feroce Wan Guld non ne ha
risparmiato neppure uno?
- Nessuno.
- E non teme la vendetta dei
filibustieri della Tortue?
- Maracaybo è ben munita di
truppe e di cannoni.
Un sorriso di disprezzo sfiorò
le labbra del fiero Corsaro.
- Che cosa fanno i cannoni a
noi? - disse. - Le nostre sciabole
d'arrembaggio valgono bene di più;
lo avete veduto ancora all'assalto
di S. Francisco di Campeche, a S.
Agostino della Florida ed in altri
combattimenti.
- E' vero, ma Wan Guld si tiene al
sicuro in Maracaybo.
- Ah!... Ebbene, lo vedremo quando
mi sarò abboccato coll'Olonese.
- Coll'Olonese!... - esclamò
lo spagnolo, con un fremito di terrore.
Parve che il Corsaro non avesse
fatto attenzione allo spavento del
prigioniero poiché riprese,
cambiando tono:
- Che cosa facevi in questo bosco?
- Sorvegliavo la spiaggia.
- Solo?
- Sì, solo.
- Si temeva una sorpresa da parte
nostra?
- Non lo nego, poiché
era stata segnalata una nave sospetta,
incrociante nel golfo.
- La mia?
- Se voi siete qui, quella nave
doveva essere la vostra.
- Ed il governatore si sarà
affrettato a fortificarsi.
- Ha fatto di più; ha
mandato alcuni fidi a Gibraltar ad avvertire
l'ammiraglio.
Questa volta fu il Corsaro che
provò un fremito, se non di spavento,
certo d'inquietudine.
- Ah!... - esclamò, mentre
la sua tinta pallida diventava livida. - La
mia nave corre forse un grave
pericolo?
Poi alzando le spalle, soggiunse:
- Bah! Quando i vascelli
dell'ammiraglio giungeranno a Maracaybo, io
sarò a bordo della
""Folgore"".
S'alzò bruscamente, con
un fischio chiamò i due filibustieri che
vegliavano sul margine della
macchia e disse brevemente:
- Partiamo.
- E di quest'uomo, che cosa
dobbiamo farne? - chiese Carmaux.
- Conducetelo con noi; la vostra
vita risponderà per la sua, se vi
fugge.
- Tuoni d'Amburgo! - esclamò
Wan Stiller. - Lo terrò per la cintola,
onde non gli salti il ticchio di
giuocare di gambe.
Si rimisero in cammino l'uno dietro
l'altro, in fila indiana, Carmaux
dinanzi e Wan Stiller ultimo,
dietro al prigioniero, per non perderlo
di vista un solo istante.
Cominciava ad albeggiare. Le
tenebre fuggivano rapidamente, cacciate
dalla rosea luce che invadeva
il cielo, e che si distendeva anche
sotto gli alberi giganti della
foresta.
Le scimmie, che sono così
numerose nell'America meridionale,
specialmente nel Venezuela, si
svegliavano, empiendo la foresta di
grida strane.
Sulla cima di quelle graziose
palme chiamate "asai", dal tronco
sottile ed elegante o fra
il verde fogliame degli enormi
"eriodendron", od in
mezzo alle "sipos", grosse liane che si
avviticchiano intorno agli
alberi, od aggrappate alle radici aeree
delle "aroidee", od in
mezzo alle splendide "bromelie" dai ricchi rami
carichi di fiori scarlatti, si
vedevano agitarsi, come folletti, ogni
specie di quadrumani.
Là vi era una piccola tribù
di "mico", le scimmie più graziose e nello
stesso tempo le più
svelte e le più intelligenti, quantunque siano
così piccine da potersi
nascondere in un taschino della giacca; più
oltre vi erano drappelli di
"sahui" rosse, un po' più grosse degli
scoiattoli, adorne di una
bellissima criniera che le fa rassomigliare
ai leoncini; poi bande di "mono",
le scimmie più magre di tutte, con
gambe e braccia così lunghe
che le fanno rassomigliare a ragni di
dimensioni enormi, o truppe di
"prego", quadrumani che hanno la smania
di tutto devastare e che sono il
terrore dei poveri piantatori.
I volatili non mancavano e
mescolavano le loro grida a quelle dei
quadrumani. Fra le grandi foglie
delle "pomponasse", che servono alla
fabbricazione dei bellissimi e
leggeri cappelli di Panama, o fra i
boschetti di "laransia"
dai fiori esalanti acuti profumi o sulle
"guaresme", bellissime
palme dai fiori purpurei, cicalavano a piena
gola i piccoli "mahitaeo",
specie di pappagalli dalla testa turchina;
gli "arà", grossi
pappagalli tutti rossi, che da mane a sera, con una
costanza degna di migliore causa,
gridano incessantemente "arà arà"; o
i "choradeira" detti
anche uccelli piagnoni, poiché sembra che
piangano e che abbiano sempre da
lamentarsi.
I filibustieri e lo spagnolo,
già abituati a percorrere le grandi
foreste del continente americano e
delle isole del Golfo del Messico,
non si arrestavano ad ammirare né
le piante, né i quadrumani, né i
volatili. Marciavano più
rapidamente che potevano, cercando i passaggi
aperti dalle fiere o dagli indiani,
frettolosi di giungere fuori di
quel caos di vegetali e di scorgere
Maracaybo.
Il Corsaro era diventato
meditabondo e tetro, come già lo era quasi
sempre, anche a bordo della sua
nave o fra le gozzoviglie della
Tortue. Avvolto nel suo ampio
mantello nero, col feltro calato sugli
occhi e con la sinistra appoggiata
alla guardia della spada, la testa
china sul petto, camminava
dietro a Carmaux, senza guardare né i
compagni, né il
prigioniero, come fosse stato solo a percorrere la
foresta.
I due filibustieri, conoscendo le
sue abitudini, si guardavano bene
dall'interrogarlo e di strapparlo
dalle sue meditazioni. Tutt'al più
scambiavano a bassa voce, tra di
loro, qualche parola per consigliarsi
sulla direzione da tenersi,
poi allungavano sempre il passo
inoltrandosi vieppiù fra
quelle reti gigantesche di "sipos" smisurate,
ed i tronchi delle palme, degli
"jacarandò" e delle "massaranduba",
fugando colla loro presenza
stormi di quei vaghi uccellini chiamati
"trochilidi" od uccelli
mosca, dalle splendide penne d'un azzurro
scintillante e dal becco rosso,
color del fuoco.
Camminavano da due ore, sempre più
rapidamente, quando Carmaux, dopo
un istante di esitazione e dopo
d'aver guardato più volte gli alberi
ed il suolo, s'arrestò
indicando a Wan Stiller un macchione di
"cujueiro", piante che
hanno foglie coriacee e che producono dei suoni
bizzarri quando soffia il vento.
- E' qui, Wan Stiller? - chiese. -
Mi pare di non ingannarmi.
Quasi nello stesso momento, in
mezzo alla macchia, si udirono
echeggiare dei suoni melodiosi,
dolcissimi, che pareva uscissero da
qualche flauto.
- Che cos'è? - chiese il
Corsaro, alzando bruscamente il capo e
sbarazzandosi del mantello.
- E' il flauto di Moko, - rispose
Carmaux, con un sorriso.
- Chi è questo Moko?
- Il negro che ci ha aiutati a
fuggire. La sua capanna è in mezzo a
queste piante.
- E perché suona?
- Sarà occupato ad
ammaestrare i suoi serpenti.
- E' un incantatore di rettili?
- Sì, capitano.
- Ma questo flauto può
tradirci.
- Glielo prenderò e
manderemo i serpenti a passeggiare nel bosco.
Il Corsaro fece cenno di tirare
innanzi, però estrasse la spada come
se temesse qualche brutta sorpresa.
Carmaux si era già
cacciato nel macchione avanzando su di un
sentieruzzo appena visibile, poi
era tornato ad arrestarsi mandando un
grido di stupore misto a ribrezzo.
Dinanzi ad una catapecchia di rami
intrecciati, col tetto coperto di
grandi foglie di palme e
semi-nascosta da una "cujera", enorme pianta
da zucche che ombreggia quasi
sempre le capanne degli indiani, stava
seduto un negro di forme erculee.
Era uno dei più bei campioni della
razza africana, poiché era
di statura alta, con spalle larghe e
robuste, petto ampio e braccia
e gambe muscolose, che dovevano
sviluppare una forza gigantesca.
Il suo viso, quantunque avesse le
labbra grosse, il naso schiacciato e
gli zigomi sporgenti, non era
brutto; aveva anzi qualche cosa di
buono, d'ingenuo, d'infantile,
senza la minima traccia di
quell'espressione feroce che si
riscontra in molte razze africane.
Seduto su di un pezzo di tronco
d'albero, suonava un flauto fatto con
una canna sottile di bambù,
traendone dei suoni dolci, prolungati, che
producevano una strana sensazione
di mollezza, mentre dinanzi a lui
strisciavano dolcemente otto o
dieci dei più pericolosi rettili
dell'America meridionale.
Vi erano alcuni "jararacà",
piccoli serpenti color tabacco colla testa
depressa e triangolare, col
collo sottilissimo e che sono così
velenosi che dagli indiani vengono
chiamati i maledetti; alcuni "naja"
chiamati anche "ay ay",
tutti neri e che iniettano un veleno
fulminante, dei "boicinega"
o serpenti a sonaglio e qualche "urutù",
rettile a strisce bianche disposte
in croce sul capo, e la cui
morsicatura produce la paralisi del
membro offeso.
Il negro, udendo il grido di
Carmaux, alzò i suoi occhi grandi, che
parevano di porcellana, fissandoli
sul filibustiere, poi staccando
dalle labbra il flauto, disse con
stupore:
- Siete voi?... Ancora qui...
Vi credevo già nel golfo, al sicuro
dagli spagnoli.
- Sì, siamo noi ma... il
diavolo mi porti se io farò un passo con quei
brutti rettili che ti circondano.
- Le mie bestie non fanno male
agli amici, - rispose il negro,
ridendo. - Aspetta un momento
compare bianco e li manderò a dormire.
Prese un cesto di foglie
intrecciate, vi mise dentro i serpenti, senza
che questi si ribellassero, lo
richiuse accuratamente mettendovi
sopra, per maggior precauzione, un
grosso sasso, poi disse:
- Ora puoi entrare senza timore
nella mia capanna, compare bianco. Sei
solo?
- No, conduco con me il capitano
della mia nave, il fratello del
Corsaro Rosso.
- Il Corsaro Nero?... Lui qui?...
Maracaybo tremerà tutta!...
- Silenzio, negrotto mio. Metti a
nostra disposizione la tua capanna,
e non avrai da pentirti.
Il Corsaro era allora giunto
assieme al prigioniero ed a Wan Stiller.
Salutò con un cenno della
mano il negro che lo attendeva dinanzi alla
capanna, poi entrò dietro
Carmaux, dicendo:
- E' questo l'uomo che ti ha
aiutato a fuggire?
- Sì, capitano.
- Odia forse gli spagnoli?
- Al pari di noi.
- Conosce Maracaybo?
- Come noi conosciamo la Tortue.
Il Corsaro si volse a guardare
il negro, ammirando la potente
muscolatura di quel figlio
dell'Africa, poi aggiunse, come parlando
fra sé:
- Ecco un uomo che potrà
giovarmi
Gettò uno sguardo nella
capanna e vista in un angolo una rozza sedia
di rami intrecciati, vi
sedette, tornando ad immergersi nei suoi
pensieri.
Intanto il negro si era
affrettato a portare alcune focacce di
manioca, specie di farina estratta
da certi tuberi velenosissimi, ma
che dopo essere stati grattugiati e
spremuti perdono le loro qualità
venefiche; della frutta di anone
muricata, sorta di pigne verdi che
contengono, sotto le squame
esterne, una crema biancastra
squisitissima, e parecchie
dozzine di quei profumati banani detti
d'oro, più piccoli degli
altri, ma molto più deliziosi e più
nutritivi.
A tutto quello aveva inoltre
aggiunto una zucca ripiena di "pulque",
bibita fermentata che si estrae in
notevole quantità dalle agavi.
I tre filibustieri, che non avevano
sgretolato un sol biscotto durante
l'intera notte, fecero onore a
quella colazione non dimenticando il
prigioniero; poi si accomodarono
alla meglio su alcuni fasci di
fresche foglie che il negro
aveva portato nella capanna e
s'addormentarono tranquillamente,
come se si trovassero in piena
sicurezza.
Moko si era però messo di
sentinella, dopo aver legato per bene il
prigioniero, che gli era stato
raccomandato dal compare bianco.
Durante l'intera giornata nessuno
dei tre filibustieri si mosse: però
appena calate le tenebre, il
Corsaro si era bruscamente alzato.
Era diventato più pallido
del solito ed i suoi occhi neri erano
animati da un cupo lampo.
Fece due o tre volte il giro
della capanna con passo agitato, poi
arrestandosi dinanzi al prigioniero
gli disse.
- Io ti ho promesso di non
ucciderti, mentre avrei avuto il diritto di
appiccarti al primo albero della
foresta; tu devi dirmi però se io
potrei entrare inosservato nel
palazzo del Governatore.
- Volete andare ad assassinarlo
per vendicare la morte del Corsaro
Rosso?
- Assassinarlo!... - esclamò
il filibustiere, con ira. - Io mi batto,
non uccido a tradimento, perché
sono un gentiluomo. Un duello fra me e
lui sì, non un assassinio.
- E' vecchio, il Governatore,
mentre voi siete giovane, e poi non
potreste introdurvi nella sua
abitazione, senza venire arrestato dai
numerosi soldati che vegliano
presso di lui.
- So che è coraggioso.
- Come un leone.
- Sta bene: spero di ritrovarlo.
Si volse verso i due filibustieri
che si erano alzati, dicendo a Wan
Stiller:
- Tu rimarrai qui, a guardia di
quest'uomo.
- Basta il negro, capitano.
- No, il negro è forte come
un ercole e mi sarà di grande aiuto per
trasportare la salma di mio
fratello. Vieni, Carmaux, andremo a bere
una bottiglia di vino di Spagna a
Maracaybo.
- Mille pesci-cani!... A quest'ora,
capitano!... - esclamò Carmaux.
- Hai paura?
- Con voi scenderei anche
all'inferno, a prendere per il naso messer
Belzebù, ma temo che vi
scoprano.
Un sorriso beffardo contrasse le
sottili labbra del Corsaro.
- La vedremo, - disse poi. - Vieni.
4.
UN DUELLO FRA QUATTRO MURA
Maracaybo, quantunque non avesse
una popolazione superiore alle
diecimila anime, in quell'epoca era
una delle più importanti città che
la Spagna possedesse sulle coste
del Golfo del Messico.
Situata in una splendida
posizione, all'estremità meridionale del
Golfo di Maracaybo, dinanzi
allo stretto che mette nell'ampio lago
omonimo, che internasi per molte
leghe nel continente, era diventata
rapidamente importantissima, e
serviva d'emporio a tutte le produzioni
del Venezuela.
Gli spagnoli l'avevano munita di
un forte poderoso, armato d'un gran
numero di cannoni e sulle due
isole, che lo difendevano dal lato del
golfo, avevano messe
guarnigioni fortissime, temendo sempre
un'improvvisa irruzione dei
formidabili filibustieri della Tortue.
Belle abitazioni erano state erette
dai primi avventurieri che avevano
posto piede su quelle sponde ed
anche non pochi palazzi si vedevano,
costruiti da architetti venuti
dalla Spagna per cercare fortuna nel
nuovo mondo; abbondavano
soprattutto i pubblici ritrovi, dove si
radunavano i ricchi proprietari
di miniere, e dove, in tutte le
stagioni, danzavasi il "fandango"
od il "bolero".
Quando il Corsaro ed i suoi
compagni, Carmaux ed il negro, entrarono
in Maracaybo indisturbati, le vie
erano ancora popolate e le taverne
dove spacciavansi vini d'oltre
Atlantico erano affollate, poiché gli
spagnoli, anche nelle loro
colonie, non avevano rinunciato a sorbirsi
un ottimo bicchiere della natia
Malaga o Xéres.
Il Corsaro aveva rallentato il
passo. Col feltro calato sugli occhi,
avvolto nel suo mantello,
quantunque la sera fosse calda, colla
sinistra appoggiata fieramente
sulla guardia della spada, osservava
attentamente le vie e le case,
come se avesse voluto imprimersele
nella mente.
Giunti sulla "Plaza de
Granada" che formava il centro della città,
s'arrestò sull'angolo di una
casa, appoggiandosi contro il muro, come
se una improvvisa debolezza avesse
colto quel fiero scorridore del
golfo.
La piazza offriva uno spettacolo
così lugubre, da fare fremere l'uomo
più impassibile della terra.
Da quindici forche, innalzate in
semicerchio dinanzi ad un palazzo sul
quale ondeggiava la bandiera
spagnola, pendevano quindici cadaveri
umani. Erano tutti scalzi, colle
vesti a brandelli, eccettuato uno che
indossava un costume dal colore
del fuoco e che calzava alti stivali
da mare.
Sopra quelle quindici forche,
numerosi gruppi di "zopilotes" e di
"urubu", piccoli
avvoltoi dalle penne tutte nere, incaricati della
pulizia delle città
dell'America centrale, parevano solo attendessero
la putrefazione di quei
disgraziati per gettarsi su quelle povere
carni.
Carmaux si era avvicinato al
Corsaro, dicendogli con voce commossa:
- Ecco i compagni.
- Sì, - rispose il Corsaro,
con voce sorda. - Reclamano vendetta e
l'avranno presto.
Si staccò dal muro
facendo uno sforzo violento, chinò il capo sul
petto come se avesse voluto celare
la terribile emozione che aveva
sconvolto i suoi lineamenti e
s'allontanò a rapidi passi, entrando in
una "posada", specie
d'albergo, dove abitualmente si radunano i
nottambuli per vuotare con loro
comodo parecchi boccali di vino.
Trovato un tavolo vuoto si
sedette, o meglio si lasciò cadere su di
una scranna, senza alzare il capo,
mentre Carmaux urlava:
- Un boccale del tuo migliore
"xéres", oste briccone!... Bada che sia
autentico o non rispondo dei tuoi
orecchi... L'aria del golfo mi ha
fatta venire una tale sete, da
asciugare tutta la tua cantina.
Quelle parole, pronunciate in puro
biscaglino, fecero accorrere più
che in fretta il trattore, con un
fiasco di quell'eccellente vino.
Carmaux empì tre tazze, ma
il Corsaro era così immerso nei suoi tetri
pensieri, che non pensò di
toccare la sua.
- Per mille pesci-cani, - borbottò
Carmaux, urtando il negro. - Il
padrone è in piena tempesta
ed io non vorrei trovarmi nei panni degli
spagnoli. Bell'audacia, in fede
mia, venire qui; ma già, lui non ha
paura.
Si guardò intorno con una
certa curiosità non esente da una vaga paura
ed i suoi occhi s'incontrarono
con quelli di cinque o sei individui
armati di "navaje"
smisurate, i quali lo guardavano con particolare
attenzione.
- Pare che mi ascoltassero, -
diss'egli al negro. - Chi sono
costoro?...
- Baschi al servizio del
Governatore.
- Compatrioti militanti sotto
altre bandiere. Bah! Se credono di
spaventarmi colle loro "navaje",
s'ingannano.
Quegl'individui frattanto avevano
gettate le sigarette che stavano
fumando e dopo essersi bagnata la
gola con alcune tazze di malaga, si
erano messi a chiacchierare con
voce così alta da farsi udire
perfettamente da Carmaux.
- Avete veduti gli appiccati?... -
aveva chiesto uno.
- Sono andato a vederli anche
questa sera, - aveva risposto un altro.
- E' sempre un bello spettacolo che
offrono quelle canaglie!... Ce n'è
uno che fa scoppiare dalle risa,
con quella lingua che gli esce dalla
bocca mezzo palmo.
- Ed il Corsaro Rosso? - chiese un
terzo. - Gli hanno messo in bocca
perfino una sigaretta onde renderlo
più ridicolo.
- Ed io voglio porgli in mano un
ombrello onde domani si ripari dal
sole. Lo vedremo...
Un pugno formidabile, picchiato
sul tavolo e che fece traballare le
tazze gl'interruppe la frase.
Carmaux, impotente a frenarsi,
prima ancora che il Corsaro Nero avesse
pensato a trattenerlo, si era
alzato di balzo ed aveva lasciato andare
sulla tavola vicina quel
formidabile pugno.
- "Rayos de dios"! -
tuonò. - Bella prodezza deridere i morti; il
bello è deridere i vivi,
miei cari "caballeros"!...
I cinque bevitori, stupiti da
quell'improvviso scoppio di rabbia dello
sconosciuto, si erano alzati
precipitosamente, tenendo la destra sulle
"navaje", poi uno di
loro, il più ardito senza dubbio, gli chiese con
cipiglio:
- Chi siete voi, "caballero"?
- Un buon biscaglino che rispetta i
morti, ma che sa bucare il ventre
anche ai vivi.
I cinque bevitori a quella
risposta, che poteva prendersi per una
spacconata, si misero a ridere,
facendo andare maggiormente in bestia
il filibustiere.
- Ah!... E' così? - disse
questi, pallido d'ira.
Guardò il Corsaro, che non
si era mosso come se quell'alterco non lo
riguardasse, poi allungando una
mano verso colui che lo aveva
interrogato, lo respinse
furiosamente urlandogli contro:
- Il lupo di mare mangerà il
lupicino di terra!...
L'uomo respinto era caduto addosso
ad un tavolo, ma si era prontamente
rimesso in gambe, levandosi
rapidamente dalla cintura la "navaja", che
aprì con un colpo secco.
Stava senz'altro per scagliarsi
contro Carmaux e passarlo da parte a
parte, quando il negro, che
fino allora era rimasto semplice
spettatore, ad un cenno del
Corsaro balzò fra i due litiganti,
brandendo minacciosamente una
pesante sedia di legno e di ferro.
- Fermo o t'accoppo!... - gridò
all'uomo armato.
Vedendo quel gigante dalla pelle
nera come il carbone la cui potente
muscolatura pareva pronta a
scattare, i cinque baschi erano
indietreggiati, per non farsi
stritolare da quella sedia che
descriveva in aria delle curve
minacciose.
Quindici o venti bevitori che si
trovavano in una stanza attigua,
udendo quel baccano, si erano
affrettati ad accorrere, preceduti da un
omaccio armato di uno spadone, un
vero tipo di bravaccio, coll'ampio
cappello piumato inclinato su di un
orecchio ed il petto racchiuso
entro una vecchia corazza di pelle
di Cordova.
- Che cosa succede qui? - disse
ruvidamente quell'uomo, sguainando il
brando, con una mossa tragica.
- Succedono, mio caro "caballero",
- disse Carmaux, inchinandosi in
modo buffo, - certe cose che non vi
riguardano affatto.
- Eh!... per tutti i Santi... -
gridò il bravaccio con cipiglio. - Si
vede che voi non conoscete don
Gamaraley Miranda, conte di Badajoz,
nobile di Camargua, e visconte
di...
- Di casa del diavolo, - disse il
Corsaro Nero, alzandosi bruscamente
e guardando fisso il bravaccio.
- E così, "caballero", conte,
marchese, duca, eccetera?...
Il signor di Gamara e d'altri
luoghi ancora arrossì come una peonia,
poi impallidì, dicendo con
voce rauca:
- Per tutte le streghe
dell'inferno!... Non so chi mi tenga dal
mandarvi all'altro mondo a
tenere compagnia a quel cane di Corsaro
Rosso che fa così bella
mostra sulla "Plaza de Granada" ed ai suoi
quattordici birbanti.
Questa volta fu il Corsaro che
impallidì orribilmente. Con un gesto
trattenne Carmaux che stava per
scagliarsi contro l'avventuriero, si
sbarazzò del mantello e
del cappello e con un rapido gesto snudò la
spada, dicendo con voce fremente:
- Il cane sei tu e chi andrà
a tenere compagnia agli appiccati sarà la
tua anima dannata.
Fece cenno agli spettatori di
fare largo e si mise di fronte
all'avversario, ponendosi in
guardia con una eleganza e con una
sicurezza da sconcertare
l'avversario.
- A noi, Conte di casa del diavolo
- disse coi denti stretti. - Fra
poco qui vi sarà un morto.
L'avventuriero si era messo in
guardia, ma ad un tratto si rialzò,
dicendo:
- Un momento, "caballero".
Quando s'incrocia il ferro si ha il diritto
di conoscere il nome
dell'avversario.
- Sono più nobile di te, ti
basta?...
- No, è il nome che voglio
sapere.
- Lo vuoi?... Si, ma peggio per te,
poiché non lo dirai più a nessuno.
Gli si avvicinò e gli
mormorò alcune parole in un orecchio.
L'avventuriero aveva mandato un
grido di stupore e fors'anche di
spavento e aveva fatto due passi
indietro come se avesse voluto
rifugiarsi fra gli spettatori e
tradire il segreto; ma il Corsaro Nero
aveva cominciato ad incalzarlo
vivamente, costringendolo a difendersi.
I bevitori avevano formato un
ampio circolo attorno ai duellanti. Il
negro e Carmaux erano in prima
linea, però non sembravano affatto
preoccupati dell'esito di quello
scontro, specialmente l'ultimo che
sapeva di quanto era capace il
Corsaro.
L'avventuriero, fino dai primi
colpi, si era accorto d'aver dinanzi un
avversario formidabile, deciso ad
ucciderlo al primo colpo falso, e
ricorreva a tutte le risorse
della scherma per parare le botte che
grandinavano.
Quell'uomo non era però
uno spadaccino da disprezzarsi. Alto di
statura, grosso e robustissimo,
dal polso fermo e dal braccio
vigoroso, doveva opporre una lunga
resistenza e si capiva che non era
facile a stancarsi.
Il Corsaro tuttavia, snello, agile,
dalla mano pronta, non gli dava un
istante di tregua, come se
temesse che approfittasse della minima
sosta per tradirlo.
La sua spada lo minacciava sempre,
costringendolo a continue parate.
La punta scintillante balenava
dappertutto, batteva forte il ferro
dell'avventuriero, facendo
sprizzare scintille, e andava a fondo con
una velocità così
fulminea da sconcertare l'avversario.
Dopo due minuti l'avventuriero,
non ostante il suo vigore poco meno
che erculeo, cominciava a
sbuffare ed a rompere. Si sentiva
imbarazzato a rispondere a tutte le
botte del Corsaro e non conservava
più la calma primiera.
Sentiva che la pelle correva un gran pericolo e
che avrebbe finito davvero
coll'andare a tenere poco allegra compagnia
agli appiccati della "Plaza de
Granada".
Il Corsaro invece pareva che avesse
appena sfoderata la spada. Balzava
innanzi con un'agilità da
giaguaro, incalzando sempre con crescente
vigore l'avventuriero. Solamente i
suoi sguardi, animati da un cupo
fuoco, tradivano la collera della
sua anima.
Quegli occhi non si
staccavano un solo istante da quelli
dell'avversario, come se volessero
affascinarlo e turbarlo. Il cerchio
degli spettatori si era aperto per
lasciare campo all'avventuriero, il
quale retrocedeva sempre,
avvicinandosi alla parete opposta. Carmaux,
sempre in prima fila,
cominciava a ridere, prevedendo presto lo
scioglimento di quel terribile
scontro.
Ad un tratto l'avventuriero si
trovò addosso al muro. Impallidì
orribilmente e grosse gocce di
sudore freddo gli imperlarono la
fronte.
- Basta... - rantolò, con
voce affannosa.
- No, - gli disse il Corsaro, con
accento sinistro. - Il mio segreto
deve morire con te.
L'avversario tentò un colpo
disperato. Si rannicchiò più che poté, poi
si scagliò innanzi,
vibrando tre o quattro stoccate una dietro
l'altra.
Il Corsaro, fermo come una rupe, le
aveva parate con eguale rapidità.
- Ora t'inchioderò sulla
parete, - gli disse.
L'avventuriero, pazzo di
spavento, comprendendo ormai di essere
perduto, si mise a urlare.
- Aiuto!... Egli è il Co...
Non finì. La spada
del Corsaro gli era entrata nel petto,
inchiodandolo nella parete e
spegnendogli la frase.
Un getto di sangue gli uscì
dalle labbra macchiandogli la corazza di
pelle che non era stata sufficiente
a ripararlo da quel tremendo colpo
di spada, sbarrò
spaventosamente gli occhi, guardando l'avversario con
un ultimo lampo di terrore,
poi stramazzò pesantemente al suolo,
spezzando in due la lama che lo
tratteneva al muro.
- Se n'è andato, - disse
Carmaux, con un accento beffardo.
Si curvò sul cadavere, gli
strappò di mano la spada e porgendola al
capitano che guardava con occhio
tetro l'avventuriero, gli disse:
- Giacché l'altra si è
spezzata, prendete questa. Per bacco!... E' una
vera lama di Toledo, ve lo
assicuro, signore.
Il Corsaro prese la spada del
vinto senza dir verbo, andò a prendere
il cappello, gettò sul
tavolo un doblone d'oro e uscì dalla "posada"
seguito da Carmaux e dal negro,
senza che gli altri avessero osato
trattenerlo.
5.
L'APPICCATO
Quando il Corsaro ed i suoi
compagni giunsero sulla "Plaza de
Granada", l'oscurità
era così profonda, da non potersi distinguere una
persona a venti passi di distanza.
Un profondo silenzio regnava sulla
piazza, rotto solamente dal lugubre
gracidare di qualche "urubu",
vigilante sulle quindici forche degli
appiccati. Non si udivano nemmeno
più i passi della sentinella posta
dinanzi al palazzo del Governatore,
la cui massa giganteggiava dinanzi
alle forche.
Tenendosi presso i muri delle case
o dietro ai tronchi delle palme, il
Corsaro, Carmaux ed il negro
s'avanzavano lentamente, cogli orecchi
tesi, gli occhi bene aperti e le
mani sulle armi, tentando di giungere
inosservati presso i giustiziati.
Di tratto in tratto, quando
qualche rumore echeggiava per la vasta
piazza, s'arrestavano sotto la
cupa ombra di qualche pianta o sotto
l'oscura arcata di qualche porta,
aspettando, con un certa ansietà,
che il silenzio fosse tornato.
Erano già giunti a pochi
passi dalla prima forca, dalla quale
dondolava, mosso dalla brezza
notturna, un povero diavolo quasi nudo,
quando il Corsaro additò
ai compagni una forma umana che si agitava
sull'angolo del palazzo del
Governatore.
- Per mille pesci-cani!... -
borbottò Carmaux. - Ecco la
sentinella!... Quell'uomo verrà
a guastarci il lavoro.
- Ma Moko è forte, - disse
il negro. - Io andrò a rapire quel soldato.
- E ti farai bucare il ventre,
compare.
Il negro sorrise, mostrando due
file di denti bianchi come l'avorio, e
così acuti da fare invidia
ad uno squalo, dicendo:
- Moko è astuto e sa
strisciare come i serpenti che incanta.
- Va', - gli disse il Corsaro. -
Prima di prenderti con me, voglio
avere una prova della tua audacia.
- L'avrete, padrone. Io prenderò
quell'uomo come un tempo prendevo gli
"jacaré" della
laguna.
Si tolse dai fianchi una corda
sottile, di cuoio intrecciato e che
terminava in un anello, un vero
"lazo", simile a quello usato dai
"vaqueros" messicani per
dare la caccia ai tori, e s'allontanò
silenziosamente, senza produrre il
minimo rumore.
Il Corsaro, nascosto dietro il
tronco d'una palma, lo guardava
attentamente, ammirando forse la
risolutezza di quel negro che, quasi
inerme, andava ad affrontare un
uomo bene armato e certamente
risoluto.
- Ha del fegato il compare, - disse
Carmaux.
Il Corsaro fece un cenno
affermativo col capo, ma non pronunciò una
sola parola. Continuava a
guardare l'africano il quale strisciava al
suolo come un serpente
avvicinandosi lentamente al palazzo del
Governatore.
Il soldato si allontanava allora
dall'angolo, dirigendosi verso il
portone, era armato di un'alabarda
ed al fianco portava anche una
spada.
Vedendo che gli volgeva le
spalle, Moko strisciava più velocemente
tenendo in mano il lazo. Quando
giunse a dodici passi si alzò
rapidamente, fece volteggiare in
aria due o tre volte la corda, poi la
lanciò con mano sicura.
S'udì un leggero sibilo,
poi un grido soffocato ed il soldato
stramazzò al suolo,
lasciando cadere l'alabarda ed agitando pazzamente
le gambe e le braccia.
Moko, con un balzo da leone, gli
era piombato addosso. Imbavagliarlo
strettamente colla fascia rossa che
portava alla cintola, legarlo per
bene e portarlo via come se fosse
stato un fanciullo, fu l'affare di
pochi istanti.
- Eccolo, - disse, gettandolo
ruvidamente ai piedi del capitano.
- Sei un valente, - rispose il
Corsaro. - Legalo a questo albero e
seguimi.
Il negro obbedì aiutato da
Carmaux, poi tutti e due raggiunsero il
Corsaro, il quale esaminava gli
appiccati dondolanti dalle forche.
Giunti in mezzo alla piazza,
il capitano s'arrestò dinanzi ad un
giustiziato che indossava un
costume rosso e che, per amara derisione,
teneva fra le labbra un pezzo di
sigaro.
Nel vederlo, il Corsaro aveva
mandato un vero grido di orrore.
- I maledetti!... - esclamò.
- Anche l'ultimo disprezzo!
La sua voce, che pareva il lontano
ruggito d'una fiera, terminò in uno
straziante singhiozzo.
- Signore, - disse Carmaux, con
voce commossa, - siate forte!
Il Corsaro fece un gesto colla mano
indicandogli l'appiccato.
- Subito, mio capitano, - rispose
Carmaux.
Il negro si era arrampicato sulla
forca, tenendo fra le labbra il
coltello del filibustiere. Recise
con un colpo solo la fune, poi calò
giù il cadavere, adagio,
adagio.
Carmaux gli si era fatto sotto.
Quantunque la putrefazione avesse
cominciato a decomporre le carni
del Corsaro Rosso, il filibustiere lo
prese delicatamente fra le
braccia e l'avvolse nel mantello nero che
il capitano gli porgeva.
- Andiamo - disse il Corsaro, con
un sospiro. - La nostra missione è
finita e l'oceano aspetta la salma
del valoroso.
Il negro prese il cadavere, se lo
accomodò fra le braccia, lo coprì
per bene col mantello, e poi tutti
e tre abbandonarono la piazza,
tristi e taciturni. Quando però
giunsero all'estremità, il Corsaro si
volse guardando un'ultima volta i
quattordici appiccati, i cui corpi
spiccavano lugubremente fra le
tenebre, e disse con voce mesta:
- Addio, valorosi disgraziati;
addio compagni del Corsaro Rosso! La
filibusteria vendicherà ben
presto la vostra morte.
Poi, fissando con due occhi
ardenti il palazzo del Governatore
giganteggiante in fondo alla
piazza, aggiunse con voce cupa:
- Tra me e te, Wan Guld, sta la
morte!...
Si misero in cammino, frettolosi
di uscire da Maracaybo e di giungere
al mare per tornare a bordo della
nave corsara. Ormai più nulla
avevano da fare in quella città,
entro le cui vie non si sentivano più
sicuri, dopo l'avventura della
"posada". Avevano già percorse tre o
quattro viuzze deserte, quando
Carmaux, che camminava dinanzi a tutti,
credette di scorgere delle ombre
umane, seminascoste sotto l'oscura
arcata d'una porta.
- Adagio, - mormorò,
volgendosi verso i compagni. - Se non sono
diventato cieco, vi sono delle
persone che mi pare ci attendano.
- Dove? - chiese il Corsaro.
- Là sotto.
- Forse ancora gli uomini della
"posada"?
- Mille pesci... cani!... Che
siano i cinque baschi colle loro
"navaje"?
- Cinque non sono troppi per noi,
e faremo pagare caro l'agguato, -
disse il Corsaro sguainando la
spada.
- La mia sciabola d'arrembaggio
avrà buon gioco sulle loro
"navaje"!... - disse
Carmaux.
Tre uomini avvolti in grandi
mantelli fioccati, dei "serapè" senza
dubbio, si erano staccati
dall'angolo d'un portone occupando il
marciapiede di destra, mentre
due altri, che fino allora si erano
tenuti celati dietro un carro
abbandonato, chiudevano il passo sul
marciapiede di sinistra.
- Sono i cinque baschi, - disse
Carmaux. - Vedo le "navaje" luccicare
alle loro cintole.
- Tu incaricati dei due di sinistra
ed io dei tre di destra, - disse
il Corsaro, - e tu, Moko, non
occuparti di noi e prendi il largo col
cadavere. Ci aspetterai sul margine
della foresta.
I cinque baschi si erano sbarazzati
dei mantelli piegandoli in quattro
e ponendoseli sul braccio sinistro,
poi avevano aperto i loro lunghi
coltellacci dalla punta acuta come
le lame delle spade:
- Ah!... Ah!... - disse colui che
era stato respinto da Carmaux.
- Pare che non ci siamo ingannati.
- Largo!... - gridò il
Corsaro, che si era messo dinanzi ai compagni.
- Adagio, "caballero", -
disse il basco, facendosi innanzi.
- Che cosa vuoi tu?...
- Soddisfare una piccola curiosità
che ci cruccia.
- E quale?
- Sapere chi siete voi,
"caballero".
- Un uomo che uccide chi gli dà
impiccio, - rispose fieramente il
Corsaro, avanzandosi colla spada in
pugno.
- Allora vi dirò,
"caballero", che noi siamo uomini che non hanno
paura, e che non ci faremo uccidere
come quel povero diavolo che avete
inchiodato al muro. Il vostro
nome ed i vostri titoli o non uscirete
da Maracaybo. Siamo ai servizi
del signor Governatore e dobbiamo
rispondere delle persone che
passeggiano per le vie ad un'ora così
tarda.
- Se volete saperlo, venite a
chiedermi il mio nome, - disse il
Corsaro mettendosi rapidamente
in guardia. - A te i due di destra,
Carmaux.
Il filibustiere aveva sguainata la
sciabola d'arrembaggio e muoveva
risolutamente contro i due
avversari che impedivano il passo sul
marciapiede opposto.
I cinque baschi non si erano
mossi, aspettando l'assalto dei due
filibustieri. Fermi sulle gambe
che tenevano un po' aperte per essere
più pronti a tutte le
evoluzioni, colla mano sinistra stretta contro
la cintura e la destra attorno
al manico della "navaja", ma col
pollice appoggiato sulla parte più
larga della lama, aspettavano il
momento opportuno per scagliare i
colpi mortali.
Dovevano essere cinque
"diestros", ossia valenti, ai quali non
dovevano essere sconosciuti i
colpi più famosi, né il "javeque",
ferita ignominiosa che sfregia il
viso, né il terribile "desjarretazo"
che si avventa per di dietro,
sotto l'ultima costola e che recide la
colonna vertebrale.
Vedendo che non si decidevano, il
Corsaro, impaziente di aprirsi il
passo, piombò sui tre
avversari che gli stavano di fronte, vibrando
botte a destra ed a manca con
velocità fulminea, mentre Carmaux
caricava gli altri due sciabolando
come un pazzo.
I cinque "diestros" non
si erano per questo sgomentati. Dotati di una
agilità prodigiosa,
balzavano indietro parando i colpi ora colle
larghe lame dei loro coltellacci
ed ora coi "serapè", che tenevano
avvolti intorno al braccio
sinistro.
I due filibustieri erano diventati
prudenti, essendosi accorti di
avere da fare con degli avversari
pericolosi.
Quando però videro il
negro allontanarsi col cadavere e perdersi fra
l'oscurità della via
tornarono furiosamente alla carica, frettolosi di
sbrigarsela prima che qualche
guardia, attirata da quel cozzare di
ferri, potesse giungere in aiuto
dei baschi.
Il Corsaro, la cui spada era
ben più lunga delle "navaje" e la cui
abilità nella scherma era
straordinaria, poteva avere buon gioco,
mentre Carmaux era costretto a
tenersi molto in guardia essendo la sua
sciabola assai corta.
I sette uomini lottavano con
furore, ma in silenzio, essendo tutti
assorti nel parare e vibrare
colpi. S'avanzavano, indietreggiavano,
balzavano ora a destra ed ora a
manca, percuotendo forte i ferri.
Ad un tratto il Corsaro,
vedendo uno dei tre avversari perdere
l'equilibrio e fare un passo falso,
scoprendo per un istante il petto,
si allungò con una mossa
fulminea.
La lama toccò e l'uomo cadde
senza mandare un gemito.
- E uno, - disse il Corsaro,
rivolgendosi agli altri. - Fra poco avrò
la vostra pelle!
I due baschi, per nulla
intimoriti, stettero fermi dinanzi a lui,
senza fare un passo indietro;
d'improvviso però il più agile gli si
precipitò addosso
curvandosi verso terra e spingendo dinanzi il
"serapè" che gli
riparava il braccio, come se volesse portare il colpo
della "parte baja", che
se riesce squarcia il ventre, ma poi si rialzò
e scartandosi bruscamente tentò
di vibrare la botta mortale, il
"desjarretazo".
Il Corsaro fu lesto a gettarsi da
un lato e partì a fondo, però la sua
lama s'imbarazzò nel
"serapè" del "valiente".
Tentò di rimettersi in
guardia per parare i colpi che gli vibrava
l'altro basco e quasi subito mandò
un grido di rabbia.
La lama era stata spezzata a metà
dal braccio dell'uomo che stava per
vibrargli il "desjarretazo".
Balzò indietro agitando il
pezzo di spada, e urlando:
- A me, Carmaux!...
Il filibustiere che non era
ancora riuscito a sbrigarsi dei suoi due
avversari, quantunque li avesse
costretti a indietreggiare fino
all'angolo della via, in tre salti
gli fu presso.
- Per mille pesci-cani!... -
tuonò, - eccoci in un bell'impiccio!...
Saremo bravi se riusciremo a
levarci d'attorno questa muta di cani
arrabbiati.
- Teniamo la vita di due di
quei bricconi, - rispose il Corsaro,
armando precipitosamente la pistola
che teneva alla cintola.
Stava per far fuoco sul più
vicino, quando vide precipitarsi addosso
ai quattro baschi, che si erano
radunati, credendosi ormai certi della
vittoria, un'ombra gigantesca.
Quell'uomo, giunto in così buon punto,
teneva in mano un grosso randello.
- Moko!... - esclamarono il Corsaro
e Carmaux.
Il negro invece di rispondere alzò
il bastone e si mise a tempestare
gli avversari con tale furia, che
quei disgraziati in un baleno furono
tutti a terra, chi colla testa
rotta e chi colle costole sfondate.
- Grazie compare!... - gridò
Carmaux. - Mille fulmini!... che
grandinata!...
- Fuggiamo, - disse il Corsaro. -
Qui più nulla abbiamo da fare.
Alcuni abitanti, svegliati dalle
grida dei feriti, cominciavano ad
aprire le finestre per vedere di
che cosa si trattava.
I due filibustieri ed il negro,
sbarazzatisi dei cinque assalitori,
svoltarono precipitosamente
l'angolo della via.
- Dove hai lasciato il cadavere? -
chiese il Corsaro all'africano.
- E' già fuori della città
- rispose il negro.
- Grazie del tuo soccorso.
- Avevo pensato che il mio
intervento poteva esservi utile e mi sono
affrettato a ritornare.
- Vi è nessuno all'estremità
del borgo?
- Non ho veduto alcuno.
- Allora affrettiamoci a battere in
ritirata, prima che giungano altri
avversari, - disse il Corsaro.
Stavano per mettersi in marcia,
quando Carmaux, che s'era spinto
innanzi per perlustrare una via
laterale, tornò rapidamente indietro,
dicendo:
- Capitano, sta per giungere una
pattuglia!...
- Da dove?
- Da quella viuzza.
- Ne prenderemo un'altra. Le armi
in mano, miei prodi, e avanti!...
Va' a disarmare il biscaglino che
ho ucciso; in mancanza di altro è
buona anche una "navaja".
- Col vostro permesso v'offro
la mia sciabola, capitano; io so
adoperare quei lunghi coltelli.
Il bravo marinaio porse al Corsaro
la propria sciabola, poi tornò
indietro e andò a
raccogliere la "navaja" di uno dei biscaglini, arma
formidabile anche in mano sua.
Il drappello s'avvicinava a grandi
passi. Forse aveva udito le grida
dei combattenti ed il cozzare delle
armi e s'affrettava ad accorrere.
I filibustieri, preceduti da
Moko, si misero a correre tenendosi
presso i muri delle case; percorsi
circa centocinquanta passi, udirono
il passo cadenzato di un altra
pattuglia.
- Tuoni! - esclamò Carmaux.
- Stiamo per essere presi in mezzo.
Il Corsaro Nero s'era arrestato,
impugnando la corta sciabola del
filibustiere.
- Che siamo stati traditi?... -
mormorò.
- Capitano, - disse l'africano. -
Vedo otto uomini armati di alabarde
e di moschettoni avanzarsi verso di
noi.
- Amici, - disse il Corsaro, - qui
si tratta di vendere cara la vita.
- Comandate che cosa si deve fare e
noi siamo pronti - risposero il
filibustiere ed il negro, con voce
decisa.
- Moko!
- Padrone!
- Affido a te l'incarico di
portare a bordo il cadavere di mio
fratello. Sei capace di farlo?
Troverai la nostra scialuppa sulla
spiaggia e ti porrai in salvo con
Wan Stiller.
- Sì, padrone.
- Noi faremo il possibile per
sbarazzarci dei nostri avversari, ma se
dovessimo venire sopraffatti,
Morgan sa cosa dovrà fare. Va', porta il
cadavere a bordo, poi verrai qui a
vedere se siamo ancora vivi o
morti.
- Non so decidermi a lasciarvi,
padrone; io sono forte e posso esservi
di molta utilità.
- Mi preme che mio fratello sia
sepolto in mare come il Corsaro Verde
e poi tu puoi renderci maggiori
servigi recandoti a bordo della mia
"Folgore", che qui.
- Ritornerò con dei
rinforzi, signore.
- Morgan verrà, sono certo
di questo. Vattene: ecco la pattuglia.
Il negro non se lo fece
ripetere due volte. Essendo però la via
sbarrata dalle due pattuglie, si
cacciò in una via laterale mettendo
capo ad una muraglia che serviva di
riparo ad un giardino.
Il Corsaro, vistolo scomparire,
si volse verso il filibustiere,
dicendo:
- Prepariamoci a piombare sulla
pattuglia che ci sta dinanzi.
Se riusciamo con un improvviso
attacco ad aprirci il passo, forse
potremo guadagnare la campagna e
poi la foresta.
Si trovavano allora sull'angolo
della via. La seconda pattuglia, già
scorta dal negro, non era lontana
più di trenta passi, mentre la prima
non si scorgeva ancora, essendosi
forse arrestata.
- Teniamoci pronti, - disse il
Corsaro.
- Lo sono, - disse il filibustiere,
che s'era nascosto dietro l'angolo
della casa.
Gli otto alabardieri avevano
rallentato il passo come se temessero
qualche sorpresa, anzi uno di loro,
forse il comandante, aveva detto:
- Adagio, giovanotti! Quei
bricconi devono trovarsi poco lontano di
certo.
- Siamo in otto, signor Elvaez, -
disse un soldato, - mentre il
taverniere ci ha detto che i
filibustieri erano solamente tre.
- Ah! Furfante d'un oste! -
mormorò Carmaux. - Ci ha traditi! Se mi
capita fra le mani gli farò
un occhiello nel ventre, e così grande da
fargli uscire tutto il vino che
avrà bevuto in una settimana!
Il Corsaro Nero aveva alzato la
sciabola pronto a scagliarsi.
- Avanti!... - urlò.
I due filibustieri si
rovesciarono con impeto irresistibile addosso
alla pattuglia che stava per
svoltare l'angolo della via, vibrando
colpi disperati a destra ed a
manca, con rapidità fulminea.
Gli alabardieri, sorpresi da
quell'improvviso attacco, non poterono
resistere e si gettarono chi da
una parte e chi dall'altra, per
sottrarsi a quella gragnuola di
colpi.
Quando si furono rimessi dallo
stupore, il Corsaro ed il suo compagno
erano già lontani.
Accortisi però che avevano avuto da fare con due
soli uomini, si slanciarono sulle
loro tracce, urlando a squarciagola:
- Fermateli! I filibustieri! I
filibustieri!...
Il Corsaro e Carmaux correvano alla
disperata, senza però sapere dove
andassero. Si erano cacciati in
mezzo ad un dedalo di viuzze e
voltavano ad ogni istante
angoli di case senza però riuscire a
guadagnare la campagna.
Gli abitanti, svegliati dalle urla
della pattuglia ed allarmati dalla
presenza di quei formidabili
scorridori del mare, così temuti in tutte
le città spagnole
dell'America, si erano alzati e si udivano porte e
finestre aprirsi o chiudersi con
fracasso, mentre qualche colpo di
fucile rimbombava.
La situazione dei fuggiaschi
stava per diventare, da un istante
all'altro, disperata; quelle
grida e quegli spari potevano spargere
l'allarme anche nel centro
della città e fare accorrere l'intera
guarnigione.
- Tuoni!... - esclamava Carmaux,
galoppando furiosamente. - Tutte
queste grida di oche spaventate
finiranno col perderci! Se non
troviamo il modo di gettarci nella
campagna, finiremo su una forca con
una solida corda al collo.
Sempre correndo, erano allora
giunti all'estremità d'una viuzza la
quale pareva che non avesse nessuno
sbocco.
- Capitano! - gridò
Carmaux, che si trovava dinanzi. - Noi ci siamo
cacciati in una trappola.
- Che cosa vuoi dire? - chiese il
Corsaro.
- Che la via è chiusa.
- Non vi è alcun muro da
scalare?
- Non vi sono che case alte assai.
- Torniamo, Carmaux.
Gl'inseguitori sono ancora lontani e possiamo
forse trovare qualche nuova via che
ci conduca fuori di città.
Stava per riprendere la corsa,
quando disse bruscamente:
- No, Carmaux! Mi è balenata
una nuova idea nel cervello. Io credo che
con un po d'astuzia possiamo fare
perdere le nostre tracce.
Egli si era rapidamente diretto
verso la casa che chiudeva la
estremità di quella viuzza.
Era quella una modesta abitazione a due
piani, costruita parte in muratura
e parte in legno, con una piccola
terrazza verso la cima, adorna di
vasi e di fiori.
- Carmaux, - disse il Corsaro. -
Aprimi questa porta.
- Ci nascondiamo in questa casa?
- Mi sembra il mezzo migliore per
fare perdere le nostre tracce ai
soldati.
- Benissimo, capitano.
Diventeremo proprietari senza pagare un soldo
di pigione.
Presa la lunga "navaja",
introdusse la punta nella fessura della porta
e facendo forza fece saltare il
chiavistello.
I due filibustieri si affrettarono
ad entrare, chiudendo tosto la
porta, mentre i soldati passavano
all'estremità della viuzza, urlando
sempre a
squarciagola:
- Fermateli! fermateli!
Brancolando fra l'oscurità,
i due filibustieri giunsero ben presto ad
una scala che salirono senza
esitare, fermandosi solo sul pianerottolo
superiore.
- Bisogna vedere dove si va,
- disse Carmaux, - e conoscere gli
inquilini. Che brutta sorpresa per
quei poveri diavoli!
Estrasse un acciarino ed un pezzo
di miccia da cannone e l'accese,
soffiandovi sopra per ravvivare la
fiamma.
- To'!... Vi è una porta
aperta, - disse.
- E qualcuno che russa, - aggiunse
il Corsaro.
- Buon segno!... Colui che dorme è
una persona pacifica.
Il Corsaro intanto aveva aperta la
porta procurando di non fare rumore
ed era entrato in una stanza
ammobiliata modestamente e dove si vedeva
un letto che pareva occupato da una
persona.
Prese la miccia, accese una candela
che aveva scorta su di una vecchia
cassa che doveva servire da
canterano, poi si avvicinò al letto ed
alzò risolutamente la
coperta.
Un uomo occupava il posto. Era un
vecchietto già calvo, rugoso, dalla
pelle incartapecorita e color del
mattone, con una barbetta da capra e
due baffi arruffati. Dormiva così
saporitamente da non accorgersi che
la stanza era stata illuminata.
- Non sarà certamente
quest'uomo che ci darà dei fastidi, - disse il
Corsaro.
Lo afferrò per un braccio e
lo scosse ruvidamente, però dapprima senza
successo.
- Bisognerà sparargli una
trombonata in un orecchio - disse Carmaux.
Alla terza scossa però, più
vigorosa delle altre, il vecchio si decise
ad aprire gli occhi. Scorgendo
quei due uomini armati, si alzò
rapidamente a sedere, sgranando due
occhi spaventati ed esclamando con
voce strozzata dal terrore:
- Sono morto!
- Ehi, amico! C'è del
tempo a morire, - disse Carmaux. - Mi sembra
anzi che ora siate più vivo
di prima.
- Chi siete? - chiese il Corsaro.
- Un povero uomo che non ha
mai fatto male a nessuno - rispose il
vecchio, battendo i denti.
- Noi non abbiamo intenzione di
farvi del male, se risponderete a
quanto vorremo sapere.
- Vostra eccellenza non è
dunque un ladro?...
- Sono un filibustiere della
Tortue.
- Un fili... bu... stiere!...
Allora... sono... morto!...
- Vi ho detto che non vi si farà
nulla di male.
- Cosa volete adunque da un povero
uomo come me?
- Sapere innanzi tutto se siete
solo in questa casa.
- Sono solo, signore.
- Chi abita in questi dintorni?
- Dei bravi borghesi.
- Che cosa fate voi?
- Sono un povero uomo.
- Sì, un povero uomo che
possiede una casa, mentre io non ho nemmeno
un letto, - disse Carmaux. - Ah!...
vecchia volpe, tu hai paura per i
tuoi denari!...
- Non ho denari, eccellenza.
Carmaux scoppiò in una
risata.
- Un filibustiere che diventa
eccellenza!... Ma quest'uomo è il più
allegro compare che io abbia mai
incontrato.
Il vecchio lo sbirciò di
traverso, però si guardò bene dal mostrarsi
offeso.
- Alle corte, - disse il Corsaro,
con un tono minaccioso. - Che cosa
fate voi a Maracaybo?
- Sono un povero notaio, signore.
- Sta bene: sappi intanto che noi
prendiamo alloggio nella tua casa,
finché giungerà
l'occasione di andarcene. Noi non ti faremo male
alcuno; bada però che se ci
tradisci, la tua testa lascierà il tuo
collo. Mi hai compreso?
- Ma che cosa volete da me? -
piagnucolò il disgraziato.
- Nulla per ora. Indossa le
tue vesti e non mandare un grido o
metteremo in esecuzione la
minaccia.
Il notaio si affrettò ad
obbedire; era però così spaventato e tremava
tanto, che Carmaux fu costretto ad
aiutarlo.
- Ora legherai quest'uomo, - disse
il Corsaro. - Sta' attento che non
fugga.
- Rispondo di lui come di me
stesso, capitano. Lo legherò così bene
che non potrà fare il più
piccolo movimento.
Mentre il filibustiere riduceva
all'impotenza il vecchio, il Corsaro
aveva aperta la finestra che
guardava sulla viuzza, per vedere che
cosa succedeva al di fuori.
Pareva che le pattuglie si fossero
ormai allontanate, non udendosi più
le loro grida; però delle
persone, svegliate da quegli allarmi, si
vedevano alle finestre delle case
vicine e si udivano chiacchierare ad
alta voce.
- Avete udito? - gridava un
omaccione che mostrava un lungo
archibugio. - Pare che i
filibustieri abbiano tentato un colpo sulla
città.
- E' impossibile, - risposero
alcune voci.
- Ho udito i soldati a gridare.
- Sono stati messi in fuga?
- Lo credo poiché non si ode
più nulla.
- Una bella audacia!... Entrare in
città con tanti soldati che vi sono
qui!...
- Volevano certamente salvare il
Corsaro Rosso.
- Ed invece lo hanno trovato
appiccato.
- Che brutta sorpresa per quei
ladroni!...
- Speriamo che i soldati ne
prendano degli altri da appiccare - disse
l'uomo dell'archibugio. - Del
legno ce n'è ancora per rizzare delle
forche Buona notte, amici!... A
domani!...
- Sì, - mormorò il
Corsaro. - Del legno ve n'è ancora, ma sulle nostre
navi vi sono ancora tante palle da
distruggere Maracaybo. Un giorno
avrete mie nuove.
Rinchiuse prudentemente la finestra
e tornò nella stanza del notaio.
Carmaux intanto aveva frugata
tutta la casa ed aveva fatto man bassa
nella dispensa.
Il brav'uomo si era ricordato che
la sera innanzi non aveva avuto
tempo di cenare, ed avendo
trovato un volatile ed un bel pesce
arrostito che forse il povero
notaio s'era serbato per la colazione,
si era affrettato a mettere
l'uno e l'altro a disposizione del
capitano.
Oltre a quei cibi, aveva scovato,
in fondo ad un armadio, alcune
bottiglie assai polverose, che
portavano le marche dei migliori vini
di Spagna: Xéres, Porto,
Alicante e anche Madera.
- Signore, - disse Carmaux, colla
sua più bella voce, rivolgendosi
verso il Corsaro, - mentre gli
spagnoli corrono dietro alle nostre
ombre, date un colpo di dente a
questo pesce, una tinca superba di
lago, ed assaggiate questo pezzo
d'anitra selvatica. Ho poi scoperto
certe bottiglie che il nostro
notaio teneva forse per le grandi
occasioni, che vi metteranno un po'
di buon umore addosso. Ah! Si vede
che l'amico era amante dei liquidi
d'oltre Atlantico! Sentiremo se era
di buon gusto.
- Grazie, - rispose il Corsaro, il
quale però era ridiventato tetro.
Si sedette, ma fece poco onore al
pasto. Era ritornato silenzioso e
triste come già lo avevano
quasi sempre visto i filibustieri.
Assaggiò il pesce, bevette
alcuni bicchieri, poi si alzò bruscamente,
mettendosi a passeggiare per la
stanza.
Il filibustiere invece non solo
divorò il resto, ma vuotò anche un
paio di bottiglie con grande
disperazione del povero notaio, il quale
non finiva di lagnarsi, vedendo
consumare così presto quei vini che
aveva fatto venire, con grandi
spese, dalla lontana patria.
Il marinaio però, messo di
buon umore da quella bevuta, fu tanto
gentile da offrirgliene un
bicchiere, per fargli passare la paura
provata e la rabbia che lo rodeva.
- Tuoni! - esclamò.
- Non credevo che la notte dovesse
passare così allegramente. Trovarsi
fra due fuochi e colla minaccia di
terminare la vita con una solida
corda al collo, e finire invece in
mezzo a queste deliziose bottiglie,
non era cosa da sperarsi.
- Il pericolo non è però
ancora passato, mio caro, - disse il Corsaro.
- Chi ci assicura che domani gli
spagnoli, non avendoci più trovati,
non vengano a scovarci? Si sta
bene qui, ma amerei meglio trovarmi a
bordo della mia "Folgore".
- Con voi io non ho alcun timore,
mio capitano; voi solo valete cento
uomini.
- Tu forse hai dimenticato che il
Governatore di Maracaybo è una
vecchia volpe e che tutto oserebbe
pure di avermi in sua mano. Sai che
fra me e lui si è impegnata
una guerra a morte.
- Nessuno sa che voi siete qui.
- Si potrebbe sospettarlo e poi,
hai dimenticato i biscaglini? Io
credo che hanno saputo che
l'uccisore di quello spaccone di conte era
il fratello del povero Corsaro
Rosso e del Verde.
- Forse avete ragione, signore.
Credete che Morgan ci manderà dei
soccorsi?
- Il luogotenente non è uomo
da abbandonare il suo comandante nelle
mani degli spagnoli. E' un audace,
un valoroso e non sarei sorpreso se
tentasse di forzare il passo, per
far piovere sulla città una tempesta
di palle.
- Sarebbe una pazzia che potrebbe
pagare cara, signore.
- Eh!.. Quante non ne abbiamo
commesse noi, e sempre o quasi sempre
con esito fortunato.
Il Corsaro si sedette sorseggiando
un bicchiere, poi si alzò e si
diresse verso una finestra che
s'apriva sul pianerottolo e che
dominava l'intera viuzza. Si
era messo in osservazione da una
mezz'ora, quando Carmaux lo
vide entrare precipitosamente nella
stanza, dicendo:
- E' sicuro il negro?
- E' un uomo fidato, comandante.
- Incapace di tradirci?...
- Metterei una mano sul fuoco per
lui.
- Egli è qui...
- L'avete veduto?
- Ronza nella viuzza.
- Bisogna farlo salire, comandante.
- E del cadavere di mio fratello,
che cosa ne avrà fatto? - chiese il
Corsaro, aggrottando la fronte.
- Quando sarà qui lo
sapremo.
- Va' a chiamarlo, ma sii prudente.
Se ti scorgono non risponderei più
della nostra vita.
- Lasciate pensare a me, signore,
- disse Carmaux, con un sorriso. -
Vi domando solamente dieci minuti
di tempo per diventare il notaio di
Maracaybo.
6.
LA SITUAZIONE DEI FILIBUSTIERI SI
AGGRAVA
I dieci minuti non erano ancora
trascorsi, quando Carmaux lasciava la
casa del notaio per mettersi in
cerca del negro che il Corsaro aveva
veduto ronzare nella viuzza.
In quel brevissimo tempo, il
bravo e coraggioso filibustiere si era
così completamente
trasformato, da diventare irriconoscibile.
Con pochi colpi di forbice si era
accorciata l'incolta barba ed i
lunghi capelli arruffati, poi
aveva indossato lestamente un costume
spagnolo che il notaio doveva aver
serbato per le grandi occasioni e
che gli si adattava benissimo,
essendo entrambi della medesima
statura.
Così vestito, il terribile
scorridore del mare poteva passare per un
tranquillo ed onesto borghese
di Gibraltar, se non per il notaio
stesso. Da uomo prudente però,
nelle profonde e comodissime tasche, si
era nascosto le pistole, non
fidandosi nemmeno di quel costume.
Così trasformato, lasciò
l'abitazione come un pacifico cittadino che
va a respirare una boccata
d'aria mattutina, guardando in alto per
vedere se l'alba, già non
lontana, si decideva a fugare le tenebre.
La viuzza era deserta, ma se il
comandante aveva poco prima scorto il
negro, questi non doveva essere
andato molto lontano.
- In qualche luogo lo scoverò,
- mormorò il filibustiere. - Se compare
"sacco di carbone" s'è
deciso a ritonare, vuol dire che dei gravi
motivi gli hanno impedito di
abbandonare Maracaybo. Che quel dannato
di Wan Guld abbia saputo che è
stato il Corsaro Nero a fare il colpo?
Che sia proprio destino che i tre
valorosi fratelli debbano cadere
tutti nelle mani di quel
sinistro vecchio?... Ma vivaddio!... Noi
usciremo di qui per rendergli un
giorno dente per dente, occhio per
occhio, vita per vita!...
Così monologando era
uscito dalla viuzza e si preparava a voltare
l'angolo d'una casa, quando un
soldato armato d'un archibugio e che
erasi tenuto nascosto sotto
l'arcata d'un portone, gli sbarrò
improvvisamente il passo,
dicendogli con voce minacciosa:
- Alto là!...
- Morte e dannazione! - brontolò
Carmaux, cacciando una mano in tasca
ed impugnando una delle pistole. -
Ci siamo già!...
Poi assumendo l'aspetto d'un buon
borghese, disse:
- Che cosa desiderate, signor
soldato?
- Sapere chi siete.
- Come!... Non mi conoscete?...
Io sono il notaio del quartiere,
signor soldato.
- Scusate, sono giunto da poco a
Maracaybo, signor notaio. Dove
andate, si può saperlo?
- C'è un povero diavolo che
sta per morire e capirete bene che quando
si prepara ad andarsene all'altro
mondo, bisogna che pensi agli eredi.
- E' vero, signor notaio,
guardate però di non incontrare i
filibustieri.
- Dio mio! - esclamò
Carmaux, fingendosi spaventato. - I filibustieri
qui? Come mai quelle canaglie
hanno osato di sbarcare a Maracaybo
città quasi impenetrabile e
governata da quel valoroso soldato che si
chiama Wan Guld?
- Non si sa in quale modo siano
riusciti a sbarcare, non essendo stata
scorta alcuna nave filibustiera né
presso le isole, né al golfo di
Coro; però che qui siano
venuti ormai non se ne dubita più. Vi basti
sapere che hanno ucciso tre o
quattro uomini e che hanno avuto
l'audacia di rapire il cadavere del
Corsaro Rosso, il quale era stato
appiccato dinanzi al palazzo
del Governatore assieme al suo
equipaggio.
- Che birbanti!... E dove sono?
- Si crede che siano fuggiti per la
campagna. Delle truppe sono state
spedite in vari luoghi e si spera
di catturarli e di mandarli a tenere
poco allegra compagnia agli
appiccati.
- Che siano invece nascosti in
città?...
- Non è possibile; sono
stati visti fuggire verso la campagna.
Carmaux ne sapeva abbastanza e
credette essere giunto il momento di
andarsene, onde non perdere il
negro.
- Mi guarderò
dall'incontrarli, - disse - Buona guardia, signor
soldato. Io me ne vado o giungerò
troppo tardi presso il mio cliente
moribondo.
- Buona fortuna, signor notaio
Il furbo filibustiere si calò
il cappello sugli occhi e si allontanò
frettolosamente, fingendo di
guardarsi intorno per simulare meglio le
paure che non sentiva affatto.
- Ah! Ah!... - esclamò
quando fu lontano. - Ci credono usciti dalla
città i... Benissimo miei
cari!... Ce ne staremo pacificamente nella
casa di quell'ottimo notaio,
finché i soldati saranno rientrati, poi
prenderemo tranquillamente il
largo. Che superba idea ha avuto il
comandante!... L'Olonese, che si
vanta il più astuto filibustiere
della Tortue, non ne avrebbe avuta
una migliore.
Aveva già voltato l'angolo
della via per prenderne un'altra più larga,
fiancheggiata da belle casette
circondate da eleganti verande
sostenute da pali variopinti,
quando scorse un'ombra nerissima e di
statura gigantesca, ferma presso
una palma che cresceva dinanzi ad una
graziosa palazzina.
- Se non m'inganno è il mio
compare "sacco di carbone", - mormorò il
filibustiere. - Questa volta noi
abbiamo una fortuna straordinaria, ma
già si sa che il diavolo ci
protegge, così almeno dicono gli spagnoli.
L'uomo che si teneva
semi-nascosto dietro il tronco del palmizio,
vedendo Carmaux avvicinarsi, cercò
di appiattarsi sotto il portone
della palazzina, credendo forse di
avere da fare con qualche soldato,
poi, non credendosi sicuro nemmeno
colà, voltò rapidamente l'angolo
dell'abitazione, onde raggiungere
forse una delle tante viuzze della
città.
Il filibustiere aveva avuto il
tempo di accertarsi che si trattava
veramente del negro.
In pochi salti giunse presso la
palazzina e svoltò l'angolo, gridando
a mezza voce:
- Ehi, compare!...
Il negro s'era subito
arrestato, poi dopo qualche istante di
esitazione era tornato indietro.
Riconoscendo Carmaux, quantunque
questi si fosse bene camuffato da
borghese spagnolo, una esclamazione
di gioia e di stupore gli sfuggì.
- Tu compare bianco!...
- Hai due buoni occhi, compare
"sacco di carbone", - disse il
filibustiere, ridendo.
- Ed il capitano?
- Non occuparti di lui, per ora è
salvo e basta. Perché sei ritornato?
Il comandante ti aveva ordinato di
portare il cadavere a bordo della
nave.
- Non l'ho potuto, compare. La
foresta è stata invasa da parecchi
drappelli di soldati giunti
probabilmente dalla costa.
- Si erano già accorti del
nostro sbarco?
- Lo temo, compare bianco.
- Ed il cadavere, dove l'hai
nascosto?
Nella mia capanna, in mezzo ad un
fitto strato di fresche foglie.
- Non lo troveranno gli spagnoli?
- Ho avuto la precauzione di
mettere in libertà tutti i serpenti. Se i
soldati vorranno entrare nella
capanna, vedranno i rettili e
fuggiranno.
- Sei furbo, compare.
- Si fa quello che si può.
- Tu dunque non credi possibile
prendere il largo per ora?
- Ti ho detto che nella foresta vi
sono dei soldati.
- La cosa è grave. Morgan,
il comandante in seconda della ""Folgore"",
tornare può commettere
qualche imprudenza, - mormorò il filibustiere.
- Vedremo come finirà questa
avventura.
- Compare, sei conosciuto in
Maracaybo?
- Tutti mi conoscono, venendo
sovente a vendere delle erbe che
guariscono le ferite.
- Nessuno sospetterà di te?
- No, compare.
- Allora seguimi: andiamo dal
comandante.
- Un momento, compare.
- Che vuoi?
- Ho condotto anche il vostro
compagno. - Chi? Wan Stiller?...
- Correva inutilmente il
pericolo di farsi prendere, ed egli ha
pensato che poteva rendere
maggiori servizi qui che standosene a
guardia della capanna.
- Ed il prigioniero?
- Lo abbiamo legato così
bene, che lo ritroveremo ancora se i suoi
camerati non andranno a liberarlo.
- E dov'è Wan Stiller?
- Aspetta un momento, compare.
Il negro s'accostò ambo le
mani alle labbra e mandò un lieve grido che
si poteva confondere con quello
d'un vampiro, uno di quei grossi
pipistrelli che sono così
numerosi nell'America del Sud.
Un istante dopo un uomo superava
la muraglia del giardino e balzava
quasi addosso a Carmaux, dicendo:
- Ben felice di vederti ancora
vivo, camerata.
- Ed io più felice di te,
amico Wan Stiller, - rispose Carmaux.
- Credi che il capitano mi
rimprovererà di essere venuto qui?
Sapendovi in pericolo, io non
potevo starmene nascosto nel bosco a
guardare gli alberi.
- Il comandante sarà
contento, mio caro. Un valoroso di più è un uomo
troppo prezioso in questi momenti.
- Amici, andiamo!...
Cominciava allora ad albeggiare.
Le stelle rapidamente impallidivano
non essendovi veramente l'alba
in quelle regioni, anzi nemmeno
l'aurora; alla notte succede di
colpo il giorno. Il sole spunta quasi
d'improvviso e colla potenza dei
suoi raggi scaccia bruscamente le
tenebre, le quali in un
istante si dileguano. Gli abitanti di
Maracaybo, quasi tutti
mattinieri, cominciavano a svegliarsi. Le
finestre si aprivano e qualche
testa appariva; si udivano qua e là dei
sonori starnuti e degli sbadigli
ed il chiacchierio cominciava nelle
case.
Certamente si commentavano gli
avvenimenti della notte, che avevano
sparso non poco terrore fra tutti,
essendo i filibustieri assai temuti
in tutte le colonie spagnole
dell'immenso Golfo del Messico.
Carmaux che non voleva fare
incontri, per tema di venire riconosciuto
da qualcuno dei bevitori della
taverna, allungava il passo seguito dal
negro e dall'Amburghese.
Giunto presso la viuzza, trovò
ancora il soldato che passeggiava da un
angolo all'altro della via, tenendo
a spalla l'alabarda.
- Già di ritorno, signor
notaio? - chiese scorgendo Carmaux.
- Che cosa volete, - rispose il
filibustiere, - il mio cliente aveva
fretta di lasciare questa valle di
lacrime e s'è sbrigato presto.
- Vi ha lasciato forse in
eredità questo superbo negro? - chiese,
indicando l'incantatore di
serpenti. - "Caramba"! Un colosso che vale
delle migliaia di piastre.
- Sì, me lo ha regalato.
Buon giorno, signor soldato.
Voltarono frettolosamente
l'angolo, si cacciarono nella viuzza, ed
entrarono nell'abitazione del
notaio, chiudendo poi la porta e
sbarrandola.
Il Corsaro Nero li aspettava sul
pianerottolo, in preda ad una viva
impazienza che non sapeva
nascondere.
- Dunque - chiese. - Perché
il negro è tornato? Ed il cadavere di mio
fratello?... Ed anche tu qui, Wan
Stiller?
Carmaux in poche parole lo informò
dei motivi che avevano costretto il
negro a fare ritorno a Maracaybo e
deciso Wan Stiller ad accorrere in
loro aiuto, poi di ciò che
aveva potuto sapere dal soldato che
vegliava all'estremità della
viuzza.
- Le notizie che tu rechi
sono gravi, - disse il capitano,
rivolgendosi al negro. - Se gli
spagnoli battono la campagna e la
costa, non so come potremo
raggiungere la mia "Folgore". Non è per me
che io temo, ma per la mia nave
che può venire sorpresa dalla squadra
dell'ammiraglio Toledo.
- Tuoni! - esclamò Carmaux.
- Non mancherebbe che questo!
- Io comincio a temere che questa
avventura finisca male, - mormorò
Wan Stiller. - Bah!... Dovevamo
già essere appiccati da due giorni,
possiamo quindi accontentarci di
essere vissuti altre quarantotto ore.
Il Corsaro Nero si era messo a
passeggiare per la stanza, girando e
rigirando attorno alla cassa che
aveva servito da tavola. Pareva assai
preoccupato e nervoso: di tratto in
tratto interrompeva quei giri,
fermandosi bruscamente dinanzi
ai suoi uomini, poi riprendeva le
mosse, crollando il capo.
D'improvviso s'arrestò
dinanzi al notaio che giaceva sul letto
strettamente legato, e piantandogli
in viso uno sguardo minaccioso gli
disse:
- Tu conosci i dintorni di
Maracaybo?
- Sì, eccellenza, - rispose
il povero uomo con voce tremante.
- Potresti farci uscire dalla
città senza venire sorpresi dai tuoi
compatrioti e condurci in qualche
luogo sicuro?
- Come potrei farlo, signore?...
Appena fuori della mia casa vi
riconoscerebbero e vi
prenderebbero ed io assieme a voi; poi si
incolperebbe me di avere cercato di
salvarvi, ed il Governatore, che è
un uomo che non scherza, mi farebbe
appiccare.
- Ah!... Si ha paura di Wan Guld,
- disse il Corsaro, coi denti
stretti, mentre un cupo lampo
gli balenava negli occhi. - Sì,
quell'uomo è energico, fiero
ed anche spietato: egli sa farsi temere e
fare tremare tutti. Tutti! No, non
tutti! Sarà lui un giorno, che io
vedrò tremare!... Quel
giorno egli pagherà colla vita la morte dei
miei fratelli!
- Voi volete uccidere il
Governatore? - chiese il notaio, con tono
incredulo.
- Silenzio, vecchio, se ti preme la
pelle, - disse Carmaux.
Il Corsaro pareva che non avesse
udito né l'uno né l'altro. Era uscito
dalla stanza dirigendosi verso
la finestra dell'attiguo corridoio e
dalla quale, come fu detto, si
poteva dominare l'intera viuzza.
- Eccoci in un bell'imbarazzo, -
disse Wan Stiller, volgendosi verso
il negro. - Nostro compare
"sacco di carbone" non ha nel suo cranio
qualche eccellente idea che ci
tragga da questa situazione poco
allegra?... Non mi sento troppo
sicuro in questa casa.
- Forse ne ho una, - rispose il
negro.
- Gettala fuori, compare, -
disse Carmaux. - Se la tua idea è
realizzabile, ti prometto un
abbraccio, io che non ho mai abbracciato
un uomo di color nero, né
giallo, né rosso.
- Bisogna però attendere la
sera.
- Non abbiamo fretta, per ora.
- Vestitevi da spagnoli e uscite
tranquillamente dalla città.
- Forse non ho indosso le vesti del
notaio?
- Non bastano.
- Cosa vuoi che mi metta adunque?
- Un bel costume da moschettiere o
da alabardiere. Se voi uscite dalla
città vestiti da
borghesi, le truppe che battono la campagna non
tarderebbero ad arrestarvi.
- Lampi!... Che superba idea!... -
esclamò Carmaux. - Tu hai ragione,
compare sacco di carbone!...
Vestiti da soldati, a nessuno verrebbe di
certo il ticchio di fermarci per
chiederci dove andiamo e chi siamo,
specialmente di notte. Ci
crederanno una ronda e noi potremo prendere
comodamente il largo ed imbarcarci.
- E le vesti, dove trovarle? -
chiese Wan Stiller.
- Dove?... Si va a sbudellare un
paio di soldati e si spogliano, -
disse risolutamente Carmaux. - Sai
bene che noi siamo lesti di mano.
- Non è necessario esporvi a
tanto pericolo, - disse il negro. - Io
sono conosciuto in città,
nessuno sospetta di me, dunque posso recarmi
a comperare delle vesti ed anche
delle armi.
- Compare "sacco di
carbone", tu sei un brav'uomo ed io ti darò un
abbraccio da fratello.
Così dicendo il filibustiere
aveva aperte le braccia per stringere il
negro, ma gli mancò il
tempo. Un colpo sonoro era rimbombato sulla via
echeggiando sulle scale.
- Lampi!... - esclamò
Carmaux. - Qualcuno picchia alla porta!...
In quel momento il Corsaro Nero
entrò, dicendo:
- V'è un uomo che forse
chiede di voi, notaio.
- Sarà qualche mio cliente,
signore, - rispose il prigioniero, con un
sospiro. - Qualche cliente che
forse mi avrebbe fatto guadagnare una
buona giornata, mentre io invece...
- Basta, finiscila, - disse
Carmaux. - Ne sappiamo abbastanza,
chiacchierone.
Un secondo colpo, più
violento del primo, fece tremare la porta,
seguito da queste parole:
- Aprite, signor notaio! Non vi è
tempo da perdere!...
- Carmaux, - disse il Corsaro, che
aveva presa una rapida risoluzione.
- Se noi ci ostinassimo a
non aprire, quell'uomo potrebbe
insospettirsi, temere che qualche
accidente abbia colto il vecchio e
recarsi ad avvertire l'alcalde del
quartiere.
- Che cosa devo fare comandante?
- Aprire, poi legare per bene
quell'importuno e mandarlo a tenere
compagnia al notaio.
Non aveva ancora finito di parlare
che già Carmaux era sulle scale,
accompagnato dal gigantesco negro.
Udendo risuonare un terzo colpo
che per poco non fece saltare le
tavole della porta, si affrettò
ad aprire, dicendo:
- Uh!... Che furia, signore!...
Un giovanotto di diciotto o
vent'anni, vestito signorilmente ed armato
d'un elegante pugnaletto che
teneva appeso alla cintura, entrò
frettolosamente, gridando:
- E' così che si fanno
attendere le persone che hanno fretta?...
Carr...
Vedendo Carmaux ed il negro, egli
s'era arrestato guardandoli con
stupore ed anche con un po'
d'inquietudine, poi cercò di fare un passo
indietro ma la porta era stata
prontamente chiusa dietro di lui.
- Chi siete voi? - chiese.
- Due servi del signor notaio -
rispose Carmaux, facendo un goffo
inchino.
- Ah!... Ah!... - esclamò
il giovanotto. - Don Turillo è diventato
tutto d'un tratto ricco, per
permettersi il lusso di avere due
servi?...
- Sì, ha ereditato da un
suo zio morto nel Perù, - disse il
filibustiere, ridendo.
- Conducetemi subito da lui. Era
già avvertito che oggi doveva avere
luogo il mio matrimonio colla
"señorita" Carmen di Vasconcellos. Ha
bisogno di farsi pregare quel...
La frase gli era stata
bruscamente strozzata da una mano del negro
piombatagli improvvisamente fra le
due spalle. Il povero giovane,
mezzo strangolato da una rapida
stretta, cadde sulle ginocchia mentre
gli occhi gli uscivano dalle orbite
e la sua pelle diventava bruna.
- Eh, adagio, compare, - disse
Carmaux. - Se stringi ancora un po' me
lo soffochi completamente.
Bisogna essere un po' gentili coi clienti
del notaio!...
- Non temere, compare bianco, -
rispose l'incantatore di serpenti.
Il giovanotto, il quale d'altronde
era così spaventato da non pensare
ad opporre la minima resistenza,
fu portato nella stanza superiore,
disarmato del pugnaletto, legato
per bene e gettato a fianco del
notaio.
- Ecco fatto, capitano, - disse
Carmaux.
Questi approvò il colpo
di mano del marinaio con un gesto del capo,
poi avvicinatosi al giovanotto che
lo guardava con due occhi smarriti
gli chiese:
- Voi siete?
- E' uno dei miei migliori
clienti, signore, - disse il notaio. -
Questo bravo giovane mi avrebbe
fatto guadagnare quest'oggi almeno...
- Tacete voi, - disse il Corsaro
con accento secco.
- Il notaio diventa un vero
pappagallo! - esclamò Carmaux. - Se la
continua così, bisognerà
tagliargli un pezzo di lingua.
Il bel giovanotto si era
voltato verso il Corsaro e dopo averlo
guardato per alcuno istanti, con un
certo stupore, rispose:
- Io sono il figlio del giudice di
Maracaybo, don Alonzo de Conxevio.
Spero che ora mi spiegherete il
motivo di questo sequestro personale.
- E' inutile che lo sappiate,
però se starete tranquillo non vi sarà
fatto alcun male, e domani, se non
accadranno avvenimenti imprevisti,
sarete libero.
- Domani!... - esclamò il
giovanotto, con doloroso stupore. - Pensate,
signore, che oggi io devo
impalmare la figlia del capitano
Vasconcellos.
- Vi sposerete domani.
- Badate!... Mio padre è
amico del Governatore e voi potreste pagare
ben caro questo vostro
misterioso procedere a mio riguardo. Qui a
Maracaybo vi sono soldati e
cannoni.
Un sorriso sdegnoso sfiorò
le labbra dell'uomo di mare.
- Non li temo, - disse poi. -
Anch'io ho uomini ben più formidabili di
quelli che vegliano in Maracaybo,
ed anche dei cannoni.
- Ma chi siete voi?
- E' inutile che lo sappiate.
Ciò detto il Corsaro gli
volse bruscamente le spalle ed uscì,
mettendosi di sentinella alla
finestra, mentre Carmaux ed il negro
frugavano la casa dalla cantina al
solaio, per vedere se era possibile
preparare una colazione e Wan
Stiller si accomodava presso i due
prigionieri onde impedire qualsiasi
tentativo di fuga.
Il compare bianco ed il compare
negro, dopo avere messo sotto sopra
tutta l'abitazione, riuscirono a
scoprire un prosciutto affumicato ed
un certo formaggio assai
piccante che doveva mettere tutti di buon
umore e fare meglio gustare
l'eccellente vino del notaio, almeno così
assicurava l'amabile filibustiere.
Già avevano avvertito il
Corsaro che la colazione era pronta ed
avevano stappate alcune bottiglie
di Porto, quando udirono picchiare
nuovamente alla porta.
- Chi può essere? - si
chiese Carmaux. - Un altro cliente che desidera
andare a tenere compagnia al
notaio?...
- Va' a vedere, - disse il
Corsaro, che s'era già assiso alla tavola
improvvisata.
Il marinaio non si fece ripetere
l'ordine due volte ed affacciatosi
alla finestra, senza però
alzare la persiana, vide dinanzi alla porta
un uomo un po' attempato e che
pareva un servo od un usciere di
tribunale.
- Diavolo! - mormorò. -
Verrà a cercare il giovanotto. La sparizione
misteriosa del fidanzato avrà
preoccupato sposa, padrini e gli
invitati Uhm!... La faccenda
comincia ad imbrogliarsi!...
Il servo intanto, non ricevendo
risposta, continuava a martellare con
crescente lena facendo un fracasso
tale, da attirare alle finestre
tutti gli abitanti delle case
vicine.
Bisognava assolutamente
aprire ed impadronirsi anche di
quell'importuno prima che i
vicini, messi in sospetto, non
accorressero ad abbattere porta o
mandassero a chiamare i soldati.
Carmaux ed il negro si affrettarono
quindi a scendere e ad aprire, non
appena quel servo od usciere che
fosse si trovò nel corridoio fu preso
per la gola onde non potesse
gridare, legato, imbavagliato, quindi
portato nella camera superiore a
tenere compagnia al disgraziato
padroncino ed al non meno
sfortunato notaio.
- Il diavolo se li porti
tutti!... - esclamò Carmaux. - Noi faremo
prigioniera l'intera popolazione di
Maracaybo, se continua ancora per
qualche tempo.
7.
UN DUELLO FRA GENTILUOMINI
La colazione, contrariamente
alle previsioni di Carmaux, fu poco
allegra ed il buon umore
mancò, non ostante quell'eccellente
prosciutto, il formaggio piccante e
le bottiglie del povero notaio.
Tutti cominciavano a diventare
inquieti per la brutta piega che
prendevano gli avvenimenti, a
causa di quel disgraziato giovanotto e
del suo matrimonio. La sua
sparizione misteriosa, unitamente a quella
del servo, non avrebbe di certo
mancato di spaventare i parenti ed
erano da aspettarsi presto delle
nuove visite di servi o di amici, o,
peggio ancora, di soldati o
di qualche giudice o di qualche
"alguazil".
Quello stato di cose non
poteva assolutamente durare a lungo. I
filibustieri avrebbero fatto
ancora altri prigionieri, ma poi
sarebbero certamente venuti i
soldati, e non uno alla volta per farsi
prendere.
Il Corsaro ed i suoi due marinai
avevano ventilati parecchi progetti,
ma nemmeno uno era sembrato
buono. La fuga per il momento era
assolutamente impossibile;
sarebbero stati di certo riconosciuti,
arrestati e senz'altro appiccati
come il povero Corsaro Rosso ed i
suoi sventurati compagni. Bisognava
attendere la notte; era però poco
probabile che i parenti del
giovanotto dovessero lasciarli tranquilli.
I tre filibustieri,
ordinariamente così fecondi di trovate e di
astuzie al pari di tutti i loro
compagni della Tortue, si trovavano in
quel momento completamente
imbarazzati.
Carmaux aveva suggerita l'idea di
indossare le vesti dei prigionieri e
di uscire audacemente, ma si era
subito accorto dell'impossibilità di
realizzare il suo piano, non
potendosi utilizzare il costume del
giovanotto, perché nessuno
avrebbe potuto indossarlo, e poi la cosa
era stata giudicata troppo
pericolosa, coi soldati che battevano le
campagne vicine. Il negro era
invece tornato alla sua prima idea, cioè
di recarsi ad acquistare delle
divise di alabardieri o di
moschettieri; anche questo per il
momento era stato scartato, essendo
costretti ad aspettare la notte per
poterla effettuare con qualche
successo.
Stavano pensando e ripensando per
scovare qualche nuovo progetto, che
fornisse loro il mezzo di uscire da
quella situazione, che diveniva di
minuto in minuto più
imbarazzante e pericolosa, quando un terzo
individuo venne a battere alla
porta del notaio.
Questa volta non si trattava
di un servo, bensì d'un gentiluomo
castigliano, armato di spada e di
pugnale, qualche parente forse del
giovanotto o qualcuno dei padrini.
- Tuoni! - esclamò Carmaux.
- E' una processione di gente che viene a
questa dannata casa!... Prima il
giovanotto, poi un servo, ora un
gentiluomo, più tardi sarà
il padre dello sposo, poi i padrini, gli
amici eccetera. Finiremo per fare
il matrimonio qui!...
Il castigliano, vedendo che nessuno
si era affrettato ad aprire, aveva
cominciato a raddoppiare i colpi,
alzando e lasciando cadere senza
posa il pesante battente di ferro.
Quell'uomo doveva essere certo poco
paziente e probabilmente ben
più pericoloso del giovanotto e del
servo.
- Va', Carmaux, - disse il Corsaro.
- Temo però, comandante,
che non sia cosa facile prenderlo e legarlo
Quell'uomo è solido, ve
lo assicuro, ed opporrà una resistenza
disperata.
- Ci sarò anch'io e tu sai
che le mie braccia sono robuste.
Il Corsaro, avendo visto in un
angolo della stanza una spada, qualche
vecchia arma di famiglia che il
notaio aveva conservata, l'aveva presa
e dopo avere provata
l'elasticità della lama se l'era appesa al
fianco, mormorando:
- Acciaio di Toledo: darà da
fare al castigliano.
Carmaux ed il negro avevano in quel
frattempo aperta la porta che
minacciava di venire sfondata
sotto i furiosi ed incessanti colpi del
battente ed il gentiluomo era
entrato collo sguardo crucciato, la
fronte aggrottata e la sinistra
sulla guardia della spada, dicendo con
voce collerica:
- Occorre il cannone qui, per farsi
aprire?...
Il nuovo venuto era un bell'uomo
sulla quarantina, alto di statura,
robusto, dal tipo maschio ed
altero, con due occhi nerissimi ed una
folta barba pure nera, che gli dava
un aspetto marziale.
Indossava un elegante costume
spagnolo di seta nera e calzava alti
stivali di pelle gialla, colle
trombe dentellate, e speroni.
- Perdonate signore, se
abbiamo tardato, - rispose Carmaux,
inchinandosi grottescamente dinanzi
a lui, - ma eravamo occupatissimi.
- A fare che cosa? - chiese il
castigliano.
- A curare il signor notaio.
- E' ammalato forse?
- E' stato preso da una
potentissima febbre, signore.
- Chiamatemi conte, furfante.
- Scusatemi signor conte; io non
avevo l'onore di conoscervi.
- Andatevene al diavolo!... Dov'è
mio nipote?... Sono due ore che è
venuto qui.
- Noi non abbiamo veduto nessuno.
- Tu vuoi burlarti di me!... Dov'è
il notaio?...
- E' a letto, signore.
- Conducimi subito da lui.
Carmaux che voleva attirarlo in
fondo al corridoio prima di fare segno
al negro di porre in opera la sua
prodigiosa forza muscolare, si mise
innanzi al castigliano; poi,
appena giunse alla base della scala, si
volse bruscamente, dicendo:
- A te, compare!
Il negro si gettò
rapidamente sul castigliano; questi, che si teneva
probabilmente in guardia e che
possedeva un'agilità da dare dei punti
ad un marinaio, con un solo salto
varcò i tre primi gradini, scartando
Carmaux con un urto violento e
snudò risolutamente la spada gridando:
- Ah!... Mariuoli!... Che cosa
significa questo attacco? Ora vi
taglierò gli orecchi!...
- Se volete sapere che cosa
significa questo attacco, ve lo spiegherò
io, signore, - disse una voce.
Il Corsaro Nero era comparso
improvvisamente sul pianerottolo, colla
spada in pugno, ed aveva cominciato
a scendere i primi gradini.
Il castigliano si era voltato
senza però perdere di vista Carmaux ed
il negro, i quali si erano ritirati
in fondo al corridoio, mettendosi
di guardia dinanzi alla porta.
Il primo aveva impugnata la lunga
"navaja" ed il secondo
s'era armato di una traversa di legno, arma
formidabile nelle sue mani.
- Chi siete voi, signore? - chiese
il castigliano senza manifestare il
minimo timore. - Dalle vesti che
indossate vi si potrebbe credere un
gentiluomo, ma l'abito non fa
sempre il monaco o potreste esser anche
qualche bandito.
- Ecco una parola che potrebbe
costarvi cara, mio gentiluomo, -
rispose il Corsaro.
- Bah!... Lo si vedrà più
tardi.
- Siete coraggioso, signore;
tanto meglio. Vi consiglierei però di
deporre la spada e di arrendervi.
- A chi?...
- A me.
- Ad un bandito che tende un
agguato per assassinare a tradimento le
persone?...
- No, al cavaliere Emilio di
Roccanera, signore di Ventimiglia.
- Ah!... Voi siete un
gentiluomo!... Vorrei almeno sapere allora
perché il signore di
Ventimiglia cerca di farmi assassinare dai suoi
servi.
- E' una supposizione affatto
vostra, signore; nessuno ha mai pensato
ad assassinarvi. Si voleva
disarmarvi e tenervi prigioniero per
qualche giorno e nient'altro.
- E per quale motivo?
- Onde impedirvi di avvertire le
autorità di Maracaybo che qui mi
trovo io, - rispose il Corsaro.
- Forse che il signor di
Ventimiglia ha dei conti da regolare colle
autorità di Maracaybo?
- Non sono troppo amato da loro o
meglio da Wan Guld, il quale sarebbe
troppo felice di avermi in sua
mano, come io sarei ben lieto di averlo
in mio potere.
- Non vi comprendo signore, - disse
il castigliano.
- Ciò non vi interessa.
Orsù, volete arrendervi?
- Oh!... E voi lo pensate! Un uomo
di spada cedere senza difendersi?
- Allora mi costringete ad
uccidervi. Non posso permettervi di
andarvene, od io ed i miei compagni
saremmo perduti.
- Ma chi siete voi infine?
- Dovreste ormai averlo
indovinato: noi siamo filibustieri della
Tortue. Signore, difendetevi,
perché ora vi ucciderò.
- Lo credo dovendo fare fronte a
tre avversari.
- Non preoccupatevi di loro, -
disse il Corsaro, indicando Carmaux ed
il negro. - Quando il loro
comandante si batte hanno l'abitudine di
non immischiarsene.
- In tal caso spero di mettervi
presto fuori di combattimento. Voi non
conoscete ancora il braccio del
conte di Lerma.
- Come voi non conoscete quello del
signore di Ventimiglia. Conte,
difendetevi!...
- Una parola se me lo permettete.
Che cosa avete fatto di mio nipote e
del suo domestico?
- Sono prigionieri assieme al
notaio, ma non inquietatevi per loro.
Domani saranno liberi e vostro
nipote potrà impalmare la sua bella.
- Grazie, cavaliere.
Il Corsaro Nero s'inchinò
lievemente, poi scese rapidamente i gradini
ed incalzò il castigliano
con tanta furia, che questi fu costretto a
retrocedere di due passi.
Per alcuni istanti nell'angusto
corridoio si udì solo lo stridore dei
ferri. Carmaux ed il negro,
appoggiati contro la porta, colle braccia
incrociate assistevano al duello
senza parlare, cercando di seguire
cogli sguardi il fulmineo guizzare
delle lame.
Il castigliano si batteva
splendidamente, da spadaccino valente,
parando con grande sangue freddo e
vibrando stoccate bene dirette;
dovette ben presto convincersi
però d'avere dinanzi un avversario dei
più terribili e che
possedeva dei muscoli d'acciaio.
Dopo le prime botte, il Corsaro
Nero aveva riacquistata la sua calma.
Non attaccava che di rado,
limitandosi a difendersi come se volesse
prima stancare l'avversario e
studiare il suo gioco. Fermo sulle sue
gambe nervose, col corpo
diritto, la mano sinistra avanzata
orizzontalmente, gli occhi
lampeggianti, pareva che giocasse. Invano
il castigliano aveva cercato di
spingerlo verso la scala colla segreta
speranza di farlo cadere,
vibrandogli una tempesta di stoccate. Il
Corsaro non aveva fatto un solo
passo indietro ed era rimasto
irremovibile fra quello scintillio
della lama, ribattendo i colpi con
una rapidità prodigiosa,
senza uscire di linea.
D'improvviso però si
slanciò a fondo. Battere di terza la lama
dell'avversario con un colpo
secco, legarla di seconda e fargliela
cadere al suolo, fu un colpo solo.
Il castigliano, trovandosi inerme,
era diventato pallido e si era
lasciato sfuggire un grido. La punta
scintillante della lama del
Corsaro rimase un istante tesa,
minacciandogli il petto, poi subito
si rialzò.
- Voi siete un valoroso, - disse,
salutando l'avversario. - Voi non
volevate cedere la vostra arma: ora
io me la prendo, ma vi lascio la
vita.
Il castigliano era rimasto
immobile col più profondo stupore scolpito
in viso. Gli sembrava forse
impossibile di trovarsi ancora vivo. Ad un
tratto fece rapidamente due passi
innanzi e tese la destra al Corsaro,
dicendo:
- I miei compatrioti dicono che i
filibustieri sono uomini senza fede,
senza legge, dediti solamente al
ladronaggio di mare; io posso ora
dire come fra costoro si trovano
anche dei valorosi, che in fatto di
cavalleria e di generosità
possono dare dei punti ai più compiti
gentiluomini d'Europa. Signor
cavaliere, ecco la mia mano: grazie!...
Il Corsaro gliela strinse
cordialmente, poi raccogliendo la spada
caduta e porgendola al conte
rispose:
- Conservate la vostra arma,
signore; a me basta che voi mi
promettiate di non adoperarla, fino
a domani, contro di noi.
- Ve lo prometto, cavaliere, sul
mio onore.
- Ora lasciatevi legare senza
opporre resistenza. Mi rincresce dovere
ricorrere a questa necessità;
ma non posso farne a meno.
- Fate quello che credete.
Ad un cenno del Corsaro, Carmaux si
avvicinò al castigliano e gli legò
le mani, poi lo affidò al
negro, il quale s'affrettò a condurlo nella
stanza superiore a tenere compagnia
al nipote, al servo ed al notaio.
- Speriamo che la processione
sia finita, - disse Carmaux,
rivolgendosi verso il Corsaro.
- Io credo invece che fra poco
altre persone verranno ad importunarci,
- rispose il capitano. - Tutte
queste misteriose sparizioni non
tarderanno a creare dei gravi
sospetti fra i familiari del conte e del
giovanotto, e le autorità
di Maracaybo vorranno immischiarsene. Noi
faremo bene a barricare le porte
e prepararci alla difesa. Hai
osservato se vi sono armi da fuoco
in questa casa?...
- Ho trovato nel granaio un
archibugio e delle munizioni, oltre ad una
vecchia alabarda arrugginita ed una
corazza.
- Il fucile potrà servirci.
- E come potremo resistere,
comandante, se i soldati verranno ad
assalire la casa?...
- Lo si vedrà poi; ti
assicuro che, vivo, Wan Guld non mi avrà mai!...
Orsù, prepariamoci alla
difesa. Più tardi, se avremo tempo, penseremo
alla colazione.
Il negro era tornato, lasciando Wan
Stiller a guardia dei prigionieri.
Messo al corrente di ciò
che si doveva fare, si mise alacremente
all'opera.
Aiutato da Carmaux, portò
nel corridoio tutti i mobili più pesanti e
più voluminosi della casa,
non senza provocare, da parte del povero
notaio, una sequela di proteste
affatto inutili. Casse, armadi, tavoli
massicci, canterani furono
accumulati contro la porta, in modo da
barricarla completamente.
Non contenti, i filibustieri
rizzarono con altre casse ed altri mobili
una seconda barricata alla base
della scala, per potere contrastare il
passo agli assalitori, nel caso
che la porta non avesse potuto più
resistere.
Avevano appena terminati quei
preparativi di difesa, quando videro Wan
Stiller scendere la scala a
precipizio.
- Comandante, - disse, - nella
viuzza si sono aggruppati parecchi
cittadini e tutti guardano verso
questa casa. Io credo che ormai si
siano accorti che qui succedono
delle misteriose sparizioni d'uomini.
- Ah!... - si limitò ad
esclamare il Corsaro, senza che un muscolo del
suo viso si fosse alterato.
Salì tranquillamente la
scala e si affacciò alla finestra che dominava
la viuzza tenendosi nascosto dietro
le persiane.
Wan Stiller aveva detto il vero.
Una cinquantina di persone, divise in
vari gruppetti, ingombravano
l'opposta estremità della viuzza. Quei
borghesi parlavano con
animazione e s'indicavano vicendevolmente la
casa del notaio, mentre alle
finestre delle case vicine si vedevano
apparire e scomparire gli
inquilini.
- Ciò che temevo sta per
succedere, - mormorò il Corsaro, aggrottando
la fronte. - Orsù, se devo
morire anch'io in Maracaybo, così doveva
essere scritto sul libro del mio
destino. Poveri fratelli miei, caduti
forse invendicati!... Oh!... Ma
la morte non è ancora giunta e la
fortuna protegge i filibustieri
della Tortue... Carmaux, a me!...
Il marinaio sentendosi chiamare
non aveva indugiato ad accorrere,
dicendo:
- Eccomi, mio comandante.
- Tu mi hai detto d'aver trovato
delle munizioni.
- Un barilotto di polvere
della capacità di otto o dieci libbre,
signore.
- Lo collocherai nel corridoio,
dietro la porta e vi metterai una
miccia.
- Lampi!... Faremo saltare la casa?
- Sì, se sarà
necessario.
- Ed i prigionieri?
- Peggio per loro se i soldati
vorranno prenderci. Noi abbiamo il
diritto di difenderci e lo faremo
senza esitare.
- Ah!... Eccoli... - esclamò
Carmaux che teneva gli occhi fissi sulla
viuzza.
- Chi?
- I soldati, comandante.
- Va' a prendere il barile, poi
verrai a raggiungermi assieme a Wan
Stiller. Non dimenticare
l'archibugio.
Alla estremità della viuzza
era comparso un drappello di archibugieri
comandati da un tenente e seguito
da un codazzo di curiosi. Erano due
dozzine di soldati, perfettamente
equipaggiati come se si recassero
alla guerra, con fucili, spade e
misericordie alla cintura.
Accanto al tenente, il Corsaro
scorse un vecchio signore, dalla barba
bianca, armato di spada, e
sospettò che fosse qualche parente del
conte o del giovanotto.
Il drappello si fece largo fra i
borghesi che ingombravano la viuzza e
fece alt a dieci passi dalla
casa del notaio, disponendosi su una
triplice linea e preparando i
fucili come se dovessero aprire
senz'altro il fuoco.
Il tenente osservò per
alcuni istanti le finestre, scambiò alcune
parole col vecchio che gli stava
vicino, poi si avvicinò risolutamente
alla porta e lasciò cadere
il pesante martello, gridando:
- In nome del Governatore,
aprite!...
- Siete pronti, miei prodi? -
chiese il Corsaro.
- Siamo pronti, signore, -
risposero Carmaux, Wan Stiller ed il negro.
- Voi rimarrete con me e tu, mio
bravo africano, sali al piano
superiore e guarda se puoi scoprire
qualche abbaino che ci permetta di
fuggire sui tetti.
Ciò detto aprì le
imposte e curvandosi sul davanzale, chiese:
- Che cosa desiderate, signore?...
Il tenente vedendo comparire,
in luogo del notaio, quell'uomo dai
lineamenti arditi, con quell'ampio
cappello nero adorno della lunga
piuma nera, era rimasto immobile
guardandolo con stupore.
- Chi siete voi? - gli chiese,
dopo qualche istante. - Io domando del
notaio.
- Per lui rispondo io, non potendo
egli muoversi, per il momento.
- Allora apritemi: ordine del
Governatore.
- E se io non volessi?
- In tal caso non risponderei delle
conseguenze. Sono accadute delle
cose assai strane in questa casa,
mio gentiluomo, ed ho avuto l'ordine
di sapere che cosa è
avvenuto del Signor Pedro Conxevio, del suo
servo, e di suo zio, il conte di
Lerma.
- Se vi preme di saperlo, vi dirò
che sono in questa casa vivi tutti,
anzi di buon umore.
- Fateli scendere.
- E' impossibile, signore, -
rispose il Corsaro.
- Vi intimo di obbedire o farò
sfasciare la porta.
- Fatelo, vi avverto però
che dietro la porta ho fatto collocare un
barilotto di polvere e che al primo
vostro tentativo di forzarla, io
darò fuoco alla miccia e
farò saltare la casa assieme al notaio, al
signor Conxevio al servo ed al
conte di Lerma. Ora provatevi, se
l'osate!...
Udendo quelle parole pronunciate
con voce calma, fredda, recisa e con
tono da non ammettere alcun
dubbio sulla terribile minaccia, un
fremito di terrore aveva scossi i
soldati ed i curiosi che li avevano
seguiti, anzi parecchi di questi
si erano affrettati a prendere il
largo, temendo che la casa fosse lì
lì per saltare in aria. Perfino il
tenente aveva fatto
involontariamente alcuni passi indietro.
Il Corsaro era rimasto
tranquillamente alla finestra come se fosse un
semplice spettatore, non perdendo
però di vista gli archibugi dei
soldati mentre Carmaux e Wan
Stiller, che si trovavano dietro di lui,
spiavano le mosse dei vicini, i
quali erano accorsi in massa sulle
terrazze e sui poggiuoli.
- Ma chi siete voi? - chiese
finalmente il tenente.
- Un uomo che non vuol essere
disturbato da chicchessia, nemmeno dagli
ufficiali del governatore, -
rispose il Corsaro.
- Vi intimo di dirmi il vostro
nome.
- A me non garba affatto.
- Vi costringerò.
- Ed io farò saltare la
casa.
- Ma voi siete pazzo.
- Quanto lo siete voi.
- Ah! Insultate?
- Niente affatto, signor mio,
rispondo.
- Finitela!... Lo scherzo è
durato troppo.
- Lo volete? Ehi~ Carmaux...
Va' a mettere fuoco al barile di
polvere!...
8.
UNA FUGA PRODIGIOSA
Udendo quel comando un immenso urlo
di terrore si era alzato non solo
fra la folla dei curiosi, ma anche
fra i soldati. Soprattutto i vicini
e non a torto, poiché
saltando la casa del notaio sarebbero di certo
crollate anche quelle occupate da
loro, urlavano a squarciagola, come
già si sentissero mandare in
aria dallo scoppio.
Borghesi e soldati si erano
affrettati a sgombrare mettendosi in salvo
all'estremità della
viuzza, mentre i vicini si precipitavano
all'impazzata giù dalle
scale, cercando di portare con loro almeno gli
oggetti più preziosi. Tutti
ormai erano certi che quell'uomo, qualche
pazzo secondo alcuni, dovesse
davvero mettere in esecuzione la
terribile minaccia.
Solo il tenente era rimasto
coraggiosamente al suo posto, ma dagli
sguardi ansiosi che lanciava verso
la casa, si poteva comprendere che
se fosse stato solo, o non avesse
avuti quei galloni di comandante,
non si sarebbe di certo fermato
colà.
- No!... Fermatevi, signore!... -
aveva gridato. - Siete pazzo?
- Desiderate qualche cosa? - gli
chiese il Corsaro, colla sua solita
voce tranquilla.
- Vi dico di non mettere in
esecuzione il vostro triste progetto.
- Volentieri, purché mi
lasciate tranquillo.
- Lasciate in libertà il
conte di Lerma e gli altri e vi prometto di
non seccarvi.
- Lo farei volentieri se voleste
accettare prima le mie condizioni.
- Quali sarebbero?
- Di fare ritirare le truppe,
innanzi tutto.
- Poi?
- Procurare, a me ed ai miei
compagni, un salvacondotto firmato dal
Governatore, per poter lasciare la
città senza venire disturbati dai
soldati che battono la campagna.
- Ma chi siete voi, per avere
bisogno di un salvacondotto?... - chiese
il tenente, il cui stupore
aumentava insieme ai sospetti.
- Un gentiluomo d'oltremare, -
rispose il Corsaro, con nobile
fierezza.
- Allora non vi necessita alcun
salvacondotto per lasciare la città.
- Al contrario.
- Ma allora voi avete qualche
delitto sulla coscienza. Ditemi il
vostro nome, signore.
In quell'istante un uomo che
portava attorno al capo una pezzuola
macchiata in più luoghi di
sangue e che si avanzava penosamente, come
se avesse una gamba storpiata,
giunse presso il tenente.
Carmaux, che si teneva sempre
dietro il Corsaro, spiando i soldati, lo
vide ed un grido gli sfuggì.
- Lampi!... - esclamò.
- Che cos'hai, mio bravo? - chiese
il Corsaro volgendosi vivamente.
- Noi stiamo per venire traditi,
comandante. Quell'uomo è uno dei
biscaglini che ci hanno assaliti
colle "navaje".
- Ah!... - fece il Corsaro, alzando
le spalle.
Il biscaglino, poiché era
proprio uno di quelli che avevano assistito
al duello della taverna e che poi
avevano aggredito i filibustieri coi
loro smisurati coltelli, si volse
verso il tenente, dicendogli:
- Voi volete sapere chi è
quel gentiluomo dal feltro nero, è vero?
- Sì, - rispose il tenente.
- Lo conosci tu?
- "Carrai"!... E'
stato uno dei suoi uomini che mi ha conciato in
questo modo. Signor tenente,
badate che non vi sfugga!... Egli è uno
dei filibustieri!...
Un urlo, ma questa volta non più
di spavento, bensì di furore, scoppiò
da tutte le parti, seguito da
uno sparo e da un grido di dolore.
Carmaux, ad un cenno del
Corsaro, aveva alzato rapidamente il
moschettone, e con una palla
ben aggiustata aveva abbattuto il
biscaglino.
Era troppo!... Venti archibugi si
alzarono verso la finestra occupata
dal Corsaro, mentre la folla urlava
a squarciagola:
- Accoppate quelle canaglie!...
- No, prendeteli ed appiccateli
sulla "plaza".
- Arrostiteli vivi!...
- A morte!... A morte!...
Il tenente con un rapido gesto
aveva fatto abbassare i fucili, e
spintosi sotto la finestra, disse
al Corsaro, che non si era mosso dal
suo posto, come se tutte quelle
minacce non lo riguardassero:
- Mio gentiluomo, la commedia è
finita: arrendetevi!
Il Corsaro rispose con un'alzata di
spalle.
- Mi avete capito? - gridò
il tenente, rosso di collera.
- Perfettamente, signore.
- Arrendetevi o farò
abbattere la porta.
- Fatelo, - rispose freddamente il
Corsaro. - Vi avverto solo che il
barile di polvere è
pronto e che farò saltare la casa assieme ai
prigionieri.
- Ma salterete anche voi!
- Bah!... Morire in mezzo al
rimbombo delle fumanti rovine è da
preferirsi alla morte ignominiosa,
che voi mi fareste subire dopo la
mia resa.
- Vi prometto salva la vita.
- Delle vostre promesse non so che
cosa farne, poiché so che cosa
valgono. Signore, sono le sei
pomeridiane ed io non ho ancora fatta
colazione. Mentre decidete sul da
farsi, andrò a mangiare un boccone
assieme al conte di Lerma ed a
suo nipote e faremo il possibile per
vuotare un bicchiere alla sua
salute, se la casa non salterà in aria
prima.
Ciò detto il Corsaro si
levò il cappello, salutandolo con perfetta
cortesia e rientrò lasciando
il tenente, i soldati e la folla più
stupiti e più imbarazzati
che mai.
- Venite, miei bravi, - disse il
Corsaro a Carmaux e a Wan Stiller. -
Credo che avremo il tempo
necessario per scambiare due chiacchiere.
- E quei due soldati? - chiese
Carmaux, che non era meno stupito degli
spagnoli per il sangue freddo e
l'audacia, assolutamente fenomenali
del comandante.
- Lasciamoli gridare se lo
vogliono.
- Andiamo a fare la cena della
morte adunque, mio capitano.
- Bah!... L'ultima nostra ora è
più lontana di quello che tu credi, -
rispose il Corsaro. - Aspetta che
calino le tenebre e tu vedrai quel
barilotto di polvere fare dei
miracoli.
Entrò nella stanza senza
spiegarsi di più, andò a tagliare le corde
che imprigionavano il conte di
Lerma ed il giovanotto e li invitò a
sedersi al desco improvvisato,
dicendo loro:
- Tenetemi compagnia, conte, ed
anche voi, giovanotto; conto però
sulla vostra parola di nulla
tentare contro di noi.
- Sarebbe impossibile intraprendere
qualche cosa, cavaliere, - rispose
il conte sorridendo. - Mio nipote
è inerme e poi so ormai quanto sia
pericolosa la vostra spada. E
così, che cosa fanno i miei
compatrioti?... Ho udito un baccano
assordante.
- Per ora si limitano ad
assediarci.
- Mi rincresce dirvelo, ma
temo, cavaliere, che finiranno
coll'abbattere la porta.
- Io credo il contrario, conte.
- Allora vi assedieranno e presto o
tardi vi costringeranno alla resa.
Vivaddio! Vi assicuro che mi
dispiacerebbe di vedere un uomo così
valoroso ed amabile come siete
voi, nelle mani del Governatore.
Quell'uomo non perdona ai
filibustieri.
- Wan Guld non mi avrà.
E' necessario che io viva per saldare un
vecchio conto che ho da regolare
con quel fiammingo.
- Lo conoscete?
- L'ho conosciuto per mia
sventura, - disse il Corsaro, con un
sospiro. - E stato un uomo
fatale per la mia famiglia e se sono
diventato filibustiere lo devo a
lui. Orsù, non parliamo più di ciò;
tutte le volte che penso a lui io
mi sento il sangue saturarsi d'odio
implacabile, e divento triste
come un funerale. Bevete, conte.
Carmaux, che cosa fanno gli
spagnoli?
- Stanno confabulando tra di
loro, comandante, - rispose il
filibustiere che tornava allora
dalla finestra. - Pare che non
sappiano decidersi ad assalirci.
- Lo faranno più tardi, ma
forse noi allora non saremo più qui. Veglia
sempre il negro?
- E' sul solaio.
- Wan Stiller, porta da bere a
quell'uomo.
Ciò detto il Corsaro
parve s'immergesse in profondi pensieri, pur
continuando a mangiare. Era
diventato più triste che mai, e
preoccupato, tanto da non udire
nemmeno più le parole che gli
rivolgeva il conte.
La cena terminò in silenzio,
senza che venisse interrotta. Pareva che
i soldati, malgrado la loro
rabbia ed il vivissimo desiderio che
avevano di appiccare e di bruciare
vivi i filibustieri, non sapessero
prendere alcuna decisione. Non già
che difettassero di coraggio, anzi,
tutt'altro, o che paventassero lo
scoppio del barile, poco importava
loro che la casa saltasse in aria;
temevano pel conte di Lerma e per
suo nipote, due persone
ragguardevoli della città e che volevano ad
ogni costo salvare.
Le tenebre erano già calate,
quando Carmaux avvertì il Corsaro che un
drappello di archibugieri,
rinforzato da una dozzina di alabardieri,
era giunto, occupando lo sbocco
della viuzza.
- Ciò significa che si
preparano ad intraprendere qualche cosa, -
rispose il Corsaro. - Chiama il
negro.
L'africano, dopo qualche minuto, si
trovò dinanzi a lui.
- Hai visitato accuratamente il
solaio? - gli chiese.
- Sì, padrone.
- Vi è nessun abbaino?
- No, ma ho sfondato una parte del
tetto e per di là possiamo passare.
- Non vi sono nemici?...
- Nemmeno uno, padrone.
- Sai dove possiamo discendere?...
- Sì, e dopo un breve
cammino.
In quel momento una scarica
formidabile rintronò nella viuzza, facendo
tremare tutti i vetri. Alcune
palle, attraversate le persiane delle
finestre, penetrarono nella casa,
foracchiando le volte delle stanze.
Il Corsaro era balzato in piedi
snudando con un rapido gesto la spada.
Quell'uomo, alcuni istanti prima
così calmo e compassato, sentendo
l'odore della polvere, si era
trasfigurato: i suoi occhi balenavano,
sulle smorte gote era
improvvisamente comparso un lieve rossore.
- Ah!... Cominciano!... - esclamò
con voce beffarda.
Poi, volgendosi verso il conte e
suo nipote, continuò:
- Io vi ho promessa salva la vita
e, qualunque cosa debba accadere,
manterrò la parola data;
voi dovete però obbedirmi e giurarmi che non
vi ribellerete.
- Parlate, cavaliere, - disse
il conte. - Mi rincresce che gli
assalitori siano miei compatrioti;
se non lo fossero vi assicuro che
combatterei ben volentieri al
vostro fianco.
- Voi dovete seguirmi, se non
volete saltare in aria.
- Sta per crollare la casa?
- Fra pochi minuti non rimarrà
dritta una sola muraglia.
- Volete rovinarmi? - strillò
il notaio.
- State zitto, avaraccio, - gridò
Carmaux che slegava il povero uomo.
- Vi si salva e ancora non siete
contento?
- Ma è la mia casa che non
voglio perdere.
- Vi farete indennizzare dal
Governatore.
Una seconda scarica rimbombò
nella viuzza ed alcune palle
attraversarono la stanza,
mandando in pezzi una lampada che vi si
trovava nel mezzo.
- Avanti, uomini del mare!... -
tuonò il Corsaro. - Carmaux, va' a dar
fuoco alla miccia...
- Sono pronto, comandante.
- Bada che il barile non scoppi
prima che abbiamo abbandonato la casa.
- La miccia è lunga,
signore, - rispose il filibustiere, scendendo la
scala a precipizio.
Il Corsaro, seguito dai quattro
prigionieri, da Wan Stiller e
dall'africano, salirono sul solaio,
mentre gli archibugi continuavano
le loro scariche, mirando
soprattutto alle finestre ed intimando, con
urla acute, la resa.
Le palle penetravano dovunque, con
certi miagolii da fare venire i
brividi al povero notaio;
scrostavano larghi tratti di parete e
rimbalzavano contro i mattoni; i
filibustieri però, e nemmeno il conte
di Lerma, uomo di guerra anch'esso,
se ne preoccupavano gran che.
Giunti sul solaio, l'africano
mostrò al Corsaro una larga apertura
irregolare che metteva sul tetto,
e che egli aveva fatta, servendosi
d'una trave strappata ad una
tramezzata.
- Avanti, - disse il Corsaro.
Ringuainò per un momento
la spada, s'aggrappò ai margini delle
squarciature ed in un istante si
issò sul tetto, girando all'intorno
un rapido sguardo.
Scorse subito, tre o quattro tetti
più innanzi, delle alte piante, dei
palmizi, uno dei quali cresceva
addosso ad una muraglia, spingendo le
sue splendide e gigantesche foglie
sopra le tegole.
- E' per di là che ci
caleremo? - chiese al negro, che lo aveva
raggiunto.
- Sì, padrone.
- Potremo uscire da quel giardino?
- Lo spero.
Il conte di Lerma, suo nipote, il
servo ed anche il notaio spinto in
alto dalle robuste braccia di Wan
Stiller, erano già tutti sul tetto,
quando Carmaux comparve, dicendo:
- Presto, signori; fra due minuti
la casa ci crollerà sotto i piedi.
- Sono rovinato! - piagnucolò
il notaio. - Chi mi risarcirà poi dei...
Wan Stiller gli troncò la
frase spingendolo ruvidamente innanzi.
- Venite o andrete in aria anche
voi, - gli disse.
Il Corsaro, assicuratosi che non
vi erano nemici, era già balzato su
di un altro tetto, seguito dal
conte di Lerma e da suo nipote.
Le scariche allora si succedevano
alle scariche e dei vortici di fumo
s'alzavano verso la viuzza,
disperdendosi lentamente pei tetti.
Pareva che gli archibugieri fossero
decisi a crivellare la casa del
notaio, prima di abbattere la
porta, sperando forse di costringere i
filibustieri alla resa.
Forse il timore che il Corsaro si
decidesse a mettere in esecuzione la
terribile minaccia, facendosi
seppellire fra le macerie assieme ai
quattro prigionieri, li
tratteneva ancora dal tentare un assalto
generale della casa.
I filibustieri, trascinando con
loro il notaio, che non poteva più
reggersi sulle gambe, giunsero
sull'orlo dell'ultima casa, presso il
palmizio.
Sotto si estendeva un vasto
giardino cinto da un alto muro, e che
pareva si prolungasse in direzione
della campagna.
- Io conosco questo giardino, -
disse il conte. - Esso appartiene al
mio amico Morales.
- Spero che non ci tradirete, -
disse il Corsaro.
- Al contrario, cavaliere. Non ho
ancora dimenticato che vi devo la
vita.
- Presto, scendiamo, - disse
Carmaux. - L'esplosione può lanciarci nel
vuoto.
Aveva appena terminato quelle
parole, quando vide un lampo gigantesco
seguito subito da un orribile
frastuono. I filibustieri ed i loro
compagni sentirono tremare sotto
i loro piedi il tetto, poi caddero
l'uno sull'altro, mentre intorno
piovevano pezzi di macigno, frammenti
di mobilia e brandelli di stoffe
fiammeggianti.
Una nube di fumo si estese sui
tetti, tutto offuscando per qualche
minuto, mentre verso la viuzza
si udivano crollare muraglie e
pavimenti fra urla di terrore e
bestemmie.
- Tuoni! - esclamò Carmaux,
che era stato spinto fino alla grondaia. -
Un metro più innanzi e
piombavo nel giardino come un sacco di stracci.
Il Corsaro Nero si era prontamente
alzato, barcollando tra il fumo che
lo avvolgeva.
- Siete tutti vivi? - chiese.
- Lo credo, - rispose Wan Stiller.
- Ma... qualcuno è qui,
immobile, - disse il conte. - Che sia stato
ucciso da qualche rottame?
- E' quel poltrone di notaio, -
rispose Wan Stiller. - Rassicuratevi
però, non è che
svenuto per lo spavento provato.
- Lasciamolo lì, - disse
Carmaux. - Si trarrà d'impiccio come potrà,
se il dolore d'aver perduta la sua
bicocca non lo farà morire.
- No, - rispose il Corsaro. - Vedo
alzarsi delle vampe tra il fumo, e,
lasciandolo qui, correrebbe
il pericolo di venire arrostito.
L'esplosione ha incendiate le case
vicine
- E' vero, - confermò il
conte. - Vedo un'abitazione che brucia.
- Approfittiamo della confusione
per prendere il largo, amici, - disse
il Corsaro. - Tu, Moko,
t'incaricherai del notaio.
Stava per cacciarsi in mezzo ad un
viale che conduceva al muro di
cinta, quando vide alcuni uomini,
armati di archibugi, precipitarsi
fuori da una macchia di cespugli,
gridando:
- Fermi, o facciamo fuoco!...
Il Corsaro aveva impugnata la
spada colla destra, mentre colla
sinistra aveva estratta una
pistola, deciso ad aprirsi il passo; il
conte lo fermò con un gesto
dicendo:
- Lasciate fare a me, cavaliere.
Poi, facendosi incontro a quegli
uomini, aggiunse - Dunque non si
conosce più l'amico del
vostro padrone?
- Il signor conte di Lerma!... -
esclamarono gli uomini, attoniti.
- Abbasso le armi, o mi lagnerò
col vostro padrone.
- Perdonate, signor conte, - disse
uno di quei servi, - noi ignoravamo
con chi avevamo da fare.
Avevamo udito uno scoppio spaventoso e
sapendo che, nelle vicinanze, dei
soldati assediavano dei corsari,
eravamo qui accorsi per impedire la
fuga di quei pericolosi banditi.
- I filibustieri sono ormai
fuggiti, quindi potete andarvene. Vi è
qualche porta nella cinta?
- Sì, signor conte.
- Aprite a me ed ai miei amici e
non occupatevi d'altro.
L'uomo che aveva parlato, con un
cenno congedò gli armati, poi si
diresse verso un viale laterale
e giunti dinanzi ad una porticina
ferrata, l'aprì.
I tre filibustieri ed il negro
uscirono all'aperto preceduti dal conte
e da suo nipote. Il servo, che
teneva fra le braccia il notaio sempre
svenuto, si era fermato assieme
a quello del proprietario del
giardino.
Il conte guidò i
filibustieri per un duecento passi, inoltrandosi in
una viuzza fiancheggiata solamente
da muraglie, poi disse:
- Cavaliere, voi mi avete salvata
la vita, sono lieto di avere potuto
rendervi anch'io questo piccolo
servigio. Uomini valorosi come voi non
devono morire sulla forca, ma
v'assicuro che il Governatore non vi
avrebbe risparmiato, se avesse
potuto avervi in mano. Seguite questa
viuzza che conduce in aperta
campagna e tornate a bordo della vostra
nave.
- Grazie, conte, - rispose il
Corsaro.
I due gentiluomini si strinsero
cordialmente la mano e si lasciarono
scoprendosi il capo.
- Ecco un brav'uomo, - disse
Carmaux. - Se torneremo a Maracaybo non
mancheremo di andarlo a trovare.
Il Corsaro si era messo
rapidamente in cammino preceduto
dall'africano, il quale conosceva,
forse meglio degli stessi spagnoli,
tutti i dintorni di Maracaybo.
Dieci minuti dopo, senza essere
stati disturbati, i tre filibustieri
erano fuori della città,
sul margine della foresta, in mezzo alla
quale si trovava la capanna
dell'incantatore di serpenti.
Guardando indietro videro alzarsi
fra le ultime case una nuvola di
fumo rossastro, sormontata da un
pennacchio di scintille che il vento
trasportava sopra il lago. Era la
casa del notaio che finiva di
consumarsi assieme forse a qualche
altra.
- Povero diavolo, - disse Carmaux.
- Morrà dal dispiacere: la casa e
la sua cantina! E' un colpo troppo
grosso per un avaraccio come lui!
Si arrestarono alcuni minuti sotto
la cupa ombra d'un gigantesco
simaruba, temendo che nei
dintorni si trovasse qualche banda di
spagnoli mandata ad esplorare le
campagne; poi, rassicurati dal
profondo silenzio che regnava
nella foresta, si cacciarono sotto le
piante marciando rapidamente.
Venti minuti bastarono per attraversare
la distanza che li separava dalla
capanna. Già non distavano che pochi
passi, quando ai loro orecchi
giunse un gemito.
Il Corsaro si era arrestato,
cercando di discernere qualche cosa fra
la profonda oscurità
proiettata dalle alte e fitte piante.
- Tuoni! - esclamò Carmaux.
- E' il nostro prigioniero che abbiamo
lasciato legato al tronco
dell'albero. Io mi ero dimenticato di quel
soldato!
- E' vero, - mormorò il
Corsaro.
Si avvicinò alla capanna e
scorse lo spagnolo ancora legato.
- Volete farmi morire di fame? -
chiese il poveraccio. - Allora
dovevate appiccarmi subito.
- E' venuto nessuno a ronzare
in questi dintorni? - gli chiese il
Corsaro.
- Non ho veduto che dei vampiri,
signore.
- Va' a prendere il cadavere di mio
fratello, - disse il Corsaro,
volgendosi verso 1'africano.
Poi avvicinandosi al soldato che
si era messo a tremare, temendo che
la sua ultima ora fosse per
scoccare, lo liberò dalle corde che lo
imprigionavano, dicendogli con voce
sorda:
- Io potrei vendicare su di te,
prima di tutti, la morte di colui che
andrò a seppellire in
fondo all'oceano, e dei suoi disgraziati
compagni che sono ancora
appesi sulla piazza di quella città
maledetta; ma ti ho promesso di
graziarti ed il Corsaro Nero mai ha
mancato alla parola data. Tu sei
libero; tu mi devi però giurare che
appena giunto in Maracaybo ti
recherai dal Governatore a dirgli a nome
mio, che io, questa notte, al
cospetto dei miei uomini schierati sul
ponte della mia "Folgore"
e della salma di colui che fu il Corsaro
Rosso, pronuncerò tale
giuramento da farlo fremere. Egli ha ucciso i
miei due fratelli e io distruggerò
lui e quanti portano il nome di Wan
Guld. Dirai a lui che io l'ho
giurato sul mare, su Dio e sull'inferno
e che presto ci rivedremo.
Poi, afferrando il prigioniero che
era rimasto stupito, e spingendolo
per le spalle, aggiunse.
- Va', e non volgerti indietro,
perché potrei pentirmi d'averti donata
la vita.
- Grazie, signore, - disse lo
spagnolo, fuggendo precipitosamente, per
paura di non uscire più vivo
dalla foresta.
Il Corsaro lo guardò
allontanarsi, poi quando lo vide sparire in mezzo
all'oscurità si volse verso
i suoi uomini, dicendo:
- Partiamo: il tempo stringe.
9.
UN GIURAMENTO TERRIBILE
Il piccolo drappello, guidato
dall'africano che conosceva a menadito
tutti i passaggi della foresta,
camminava rapidamente per giungere
presto sulla riva del golfo e
prendere il largo prima che l'alba
spuntasse.
Erano tutti inquieti per la nave
che doveva incrociare all'entrata del
lago, avendo appreso dal
prigioniero che il Governatore di Maracaybo
aveva mandato dei messi a
Gibraltar, per chiedere aiuto all'ammiraglio
Toledo.
Temeva che le navi di
questo, formanti una vera squadra,
formidabilmente armata e montata da
parecchie centinaia di valorosi
marinai, per la maggior parte
biscaglini, avessero già attraversato il
lago per piombare sulla "Folgore"
e distruggerla.
Il Corsaro non parlava, ma tradiva
la sua inquietudine. Di tratto in
tratto faceva cenno ai compagni di
arrestarsi e tendeva gli orecchi,
temendo di udire qualche lontana
detonazione, poi affrettava ancora
più la marcia già
rapidissima, mettendosi quasi in corsa.
Qualche altra volta invece
faceva come dei gesti d'impazienza,
specialmente quando si trovava
improvvisamente o dinanzi a qualche
gigante della foresta, caduto
per decrepitezza o atterrato dal
fulmine, o dinanzi a qualche
bacino d'acqua stagnante, ostacoli che
costringevano i filibustieri a fare
dei giri, perdendo del tempo che
per loro era diventato troppo
prezioso.
Fortunatamente l'africano
conosceva la boscaglia e faceva prendere
loro delle scorciatoie e dei
sentieruzzi, che permettevano di
procedere più speditamente e
di guadagnare via.
Alle due del mattino, Carmaux, che
camminava innanzi al negro, udì un
lontano fragore che indicava la
vicinanza del mare. Il suo udito acuto
aveva raccolto il rumore del
rompersi delle onde contro i paletuvieri
della spiaggia.
- Se tutto va bene, fra mezz'ora
noi saremo a bordo della nostra nave,
signore, - disse al Corsaro Nero
che lo aveva raggiunto.
Questi fece col capo un cenno
affermativo, ma non rispose.
Carmaux non si era ingannato. Il
rompersi delle onde diventava sempre
più distinto e si udivano
anche ad intervalli le grida fragorose delle
"bernacle", specie di
oche selvatiche, assai mattiniere, dalla schiena
variegata di nero e la testa
bianca, guazzanti presso la riva del
golfo.
Il Corsaro fece cenno di
affrettare ancora pochi minuti, e poco dopo
giungevano su di una spiaggia
bassa, ingombra di paletuvieri e che si
prolungava a perdita d'occhio verso
il nord ed il sud, formando delle
curve
capricciose.
Essendo il cielo coperto dalla
nebbia alzatasi dalle immense paludi
costeggianti il lago, l'oscurità
era profonda, ma il mare era qua e là
interrotto come da linee di
fuoco che s'incrociavano in tutte le
direzioni.
Le creste delle onde pareva che
mandassero scintille e la spuma che si
distendeva sulla spiaggia, in
forma di frangia, era cosparsa di
superbi bagliori fosforescenti.
Certi momenti, degli ampi
tratti di mare, poco prima neri come se
fossero d'inchiostro, tutto ad un
tratto s'illuminavano, come se una
lampada elettrica di grande
potenza fosse stata accesa in fondo al
mare.
- La fosforescenza! - esclamò
Wan Stiller.
- Il diavolo se la porti, - disse
Carmaux. - Si direbbe che i pesci si
sono alleati agli spagnuoli per
impedirci di prendere il largo.
- No, - rispose Wan Stiller con
voce misteriosa, additando il cadavere
che il negro portava. - Le onde
s'illuminano per ricevere il Corsaro
Rosso.
- E' vero, - mormorò
Carmaux.
Il Corsaro Nero guardava
intanto il mare, spingendo lontano lo
sguardo. Voleva, prima
d'imbarcarsi, accertarsi se la squadra
dell'ammiraglio Toledo navigava
sulle acque del lago.
Nulla scorgendo, guardò
verso il nord, e sul mare fiammeggiante
distinse una gran macchia nera,
che spiccava nettamente fra la
fosforescenza.
- La "Folgore" è
là, - disse. - Cercate la scialuppa e prendiamo il
largo.
Carmaux e Wan Stiller si
orizzontarono alla meglio, non sapendo su
quale punto della spiaggia si
trovavano, poi si allontanarono
frettolosamente salendo la costa
verso il nord e guardando
attentamente fra i paletuvieri, che
bagnavano le loro radici e le loro
foglie ingiallite nelle onde
luminose.
Percorso un chilometro, riuscirono
a scoprire il canotto, che la bassa
marea aveva lasciato fra le
piante. S'imbarcarono lestamente e lo
spinsero verso il luogo ove li
attendevano il capitano e il negro.
Collocarono il cadavere, avvolto
nel mantello nero, fra le due
panchine, nascondendogli il viso,
poi presero il largo arrancando con
vigore.
Il negro era seduto a prora,
tenendo fra le ginocchia il fucile del
prigioniero spagnolo, ed il
Corsaro si era seduto a poppa, di fronte
alla salma dell'appiccato.
Era ricaduto nella sua tetra
melanconia. Col capo stretto fra le mani
ed i gomiti appoggiati sulle
ginocchia, non staccava gli occhi un solo
istante dal cadavere, le cui
forme si disegnavano sotto il funebre
drappo.
Immerso nei suoi tristi pensieri,
pareva che avesse tutto dimenticato:
i suoi compagni, la sua nave
che sempre più spiccava sul mare
scintillante come un grande
cetaceo galleggiante su di una superficie
d'oro fuso, e la squadra
dell'ammiraglio Toledo.
Era diventato così immobile,
da credere che nemmeno più respirasse.
Intanto il canotto scivolava
rapidamente sulle onde, allontanandosi
sempre più dalla spiaggia.
L'acqua fiammeggiava attorno ad esso ed i
remi levavano spruzzi di spuma
iridescente, che talora parevano getti
di vere scintille.
Sotto i flutti, strani
molluschi ondeggiavano in gran numero,
giocherellando fra quell'orgia di
luce. Apparivano le grandi meduse;
le palegie simili a globi
luminosi danzanti ai soffi della brezza
notturna; le graziose melitee
irradianti bagliori di lava ardente e
colle loro strane appendici
foggiate come croci di Malta; le acalefe,
scintillanti come se fossero
incrostate di veri diamanti; le velelle
graziose, sprigionanti, da una
specie di crosta, dei lampi di luce
azzurra d'una infinita dolcezza, e
truppe di beroe dal corpo rotondo e
irto di pungiglioni irradianti
riflessi verdognoli.
Pesci d'ogni specie apparivano e
scomparivano, lasciandosi dietro
delle scie luminose, e polipi
d'ogni forma s'incrociavano in tutte le
direzioni, mescendo le loro luci
variopinte, mentre a fior d'acqua
nuotavano dei grossi lamantini,
in quei tempi ancora assai numerosi,
sollevando colle loro lunghe code
e colle loro pinne foggiate a
braccia ondate sfolgoranti.
La scialuppa, spinta innanzi
dalle vigorose braccia dei due
filibustieri, filava rapida su
quei flutti fiammeggianti, facendo
spruzzare in alto, sotto i colpi
dei remi, miriadi di punti luminosi.
La sua nera massa, al pari della
nave, spiccava nettamente fra tutti
quei bagliori, offrendo un ottimo
bersaglio ai cannoni della squadra
spagnola, se l'ammiraglio Toledo si
fosse trovato in quelle acque.
I due filibustieri, pure non
cessando di arrancare con lena disperata,
giravano all'intorno sguardi
inquieti, temendo sempre di vedere
apparire le temute navi nemiche.
Si affrettavano perché si
sentivano anche invadere da vaghe
superstizioni. Quel mare
fiammeggiante, quel morto che portavano nella
scialuppa, la presenza del Corsaro
Nero, di quel tetro e malinconico
personaggio che avevano sempre
veduto indossare quelle funebri vesti,
metteva indosso a loro delle paure
misteriose e non vedevano l'istante
di trovarsi a bordo della
"Folgore", fra i loro camerati.
Già non distavano che un
miglio dalla nave, la quale si avanzava
incontro a loro correndo piccole
bordate, quando un grido strano, che
pareva un acuto gemito terminante
in un lugubre singhiozzo, giunse ai
loro orecchi.
Entrambi si erano subito arrestati
girando intorno sguardi paurosi.
- Hai udito?... - chiese Wan
Stiller che si era sentito bagnare la
fronte da un sudore freddo.
- Sì, - rispose Carmaux con
voce malferma.
- Che sia stato qualche pesce?
- Non ho mai udito un pesce mandare
un grido simile.
- Chi vuoi che sia stato?
- Io non lo so, ma ti dico che sono
impressionato.
- Che sia il fratello del morto?
- Silenzio, camerata.
Guardavano entrambi il Corsaro
Nero, ma questi pareva che nulla avesse
udito, perché era sempre
immobile col capo stretto fra le mani e gli
occhi fissi sul cadavere del
fratello.
- Andiamo e che Dio ci assista, -
mormorò Carmaux, facendo segno a Wan
Stiller di riprendere i remi.
Poi, curvandosi presso il negro,
gli chiese:
- Hai udito quel grido, compare?
- Sì, - rispose l'africano.
- Chi credi che sia stato?
- Forse un lamantino.
- Uhm!... - brontolò
Carmaux. - Sarà stato un lamantino ma...
S'interruppe bruscamente ed
impallidì.
Proprio in quel momento dietro la
poppa della scialuppa, fra un
cerchio di spuma luminosa, una
forma oscura, ma indecisa, era
comparsa, sprofondando subito negli
abissi del golfo.
- Hai visto?... - chiese a Wan
Stiller, con voce strozzata.
- Sì, - rispose questi
battendo i denti.
- Una testa, è vero?
- Sì, Carmaux, d'un morto.
- E' il Corsaro Verde che ci segue
per attendere il Corsaro Rosso.
- Mi fai paura, Carmaux.
- Ed il Corsaro Nero, nulla ha
udito né visto?
- E' il fratello dei due morti!
- E tu, compare, non hai visto
nulla?
- Sì, una testa, - rispose
l'africano. - Di che?...
- D'un lamantino.
- Il diavolo porti via te ed i tuoi
lamantini, - brontolò Carmaux. -
Era una testa di morto, negro
senz'occhi.
In quell'istante una voce, partita
dalla nave, echeggiò sul mare.
- Ohé!... Del canotto! Chi
vive?...
- Il Corsaro Nero!... - urlò
Carmaux.
- Accosta!...
La "Folgore" s'avanzava
rapida come una rondine di mare, fendendo le
acque sfolgoranti col suo acuto
sperone. Pareva, tutta nera come era,
il leggendario vascello fantasma
dell'olandese maledetto, od il
vascello feretro navigante sul mare
ardente.
Lungo le murate si vedevano
schierati, immobili come statue, i
filibustieri formanti
l'equipaggio, tutti armati di fucili, e sul
cassero di poppa, dietro i due
cannoni da caccia, si scorgevano gli
artiglieri colle micce accese in
mano, mentre sul picco della randa
ondeggiava la grande bandiera nera
del Corsaro, con due lettere d'oro
bizzarramente incrociate da un
fregio inesplicabile.
La scialuppa abbordò
sotto l'anca di babordo, mentre il legno si
metteva attraverso il vento, e si
ormeggiò con una gomena gettata dai
marinai dalla coperta.
- Giù i paranchi!... - si
udì gridare una voce rauca. Due boscelli
muniti d'arpioni furono calati dal
pennone di maestra. Carmaux e Wan
Stiller li assicurarono ai banchi,
e la scialuppa, ad un fischio del
mastro dell'equipaggio, fu issata
a bordo assieme alle persone che la
montavano.
Quando il Corsaro Nero udì
la chiglia urtare contro la coperta della
nave, parve che si risvegliasse dai
suoi tetri pensieri.
Si guardò attorno come se
fosse stupito di trovarsi a bordo del suo
legno, poi si curvò presso
il cadavere, lo prese fra le braccia e lo
depose ai piedi dell'albero
maestro. Tutto l'equipaggio, schierato
lungo le murate, vedendo la salma,
s'era scoperto il capo.
Morgan, il comandante in seconda,
era sceso dal ponte di comando ed
era andato incontro al Corsaro
Nero.
- Sono ai vostri ordini, signore, -
gli disse.
- Fate ciò che sapete, - gli
rispose il Corsaro, scuotendo tristemente
il capo.
Attraversò lentamente la
tolda, salì sul ponte di comando e si arrestò
lassù immobile come una
statua, colle braccia incrociate sul petto.
Cominciava allora ad albeggiare
verso oriente. Là dove il cielo pareva
si confondesse col mare, una
pallida luce saliva tingendo le acque di
riflessi color dell'acciaio.
Pareva però che anche quella luce avesse
qualche cosa di tetro, poiché
non aveva la tinta rosea consueta; era
quasi grigia, ma d'un grigio ferreo
e quasi opaco.
Intanto la grande bandiera del
Corsaro era stata calata a mezz'asta in
segno di lutto ed i pennoni dei
pappafichi, che non portavano vele,
erano stati disposti in croce.
Il numeroso equipaggio della nave
corsara era salito tutto in coperta
schierandosi lungo le murate.
Quegli uomini dai volti abbronzati dai
venti del mare e dal fumo di cento
abbordaggi, erano tutti tristi e
guardavano con vago terrore la
salma del Corsaro Rosso che il mastro
dell'equipaggio aveva rinchiusa in
una grossa amaca insieme a due
palle di cannone.
La luce cresceva, ma il mare
sfolgoreggiava sempre intorno alla nave,
rumoreggiando sordamente contro i
neri fianchi e frangendosi contro
l'alta prora.
Quelle ondulazioni avevano in quel
momento degli strani sussurrii. Ora
parevano gemiti d'anime, ora rauchi
sospiri, ora flebili lamenti.
D'un tratto il tocco d'una campana
echeggiò sul quadro di poppa.
Tutto l'equipaggio si era
inginocchiato, mentre il mastro, aiutato da
tre marinai, aveva sollevata la
salma del povero Corsaro, deponendola
sulla murata di babordo.
Un funebre silenzio regnava
allora sul ponte della nave che era
rimasta immobile sulle acque
luminose; perfino il mare taceva e non
mormorava più.
Tutti gli occhi si erano
fissati sul Corsaro Nero, la cui figura
spiccava stranamente sulla linea
grigiastra dell'orizzonte.
Pareva che in quel momento, il
formidabile scorridore del gran golfo
avesse assunto forme gigantesche.
Ritto sul ponte di comando, colla
lunga piuma nera svolazzante alla
brezza mattutina, con un braccio
teso verso la salma del Corsaro
Rosso, sembrava che fosse lì lì per
scagliare qualche terribile
minaccia.
La sua voce metallica e robusta
ruppe improvvisamente il silenzio
funebre che regnava a bordo della
nave.
- Uomini del mare! - gridò,
- uditemi!... Io giuro su Dio, su queste
onde che ci sono fedeli compagne e
sulla mia anima, che io non avrò
bene sulla terra, finché
non avrò vendicato i fratelli miei spenti da
Wan Guld. Che le folgori
incendino la mia nave; che le onde
m'inghiottano assieme a voi;
che i due Corsari che dormono sotto
queste acque, negli abissi del gran
golfo, mi maledicano; che la mia
anima sia dannata in eterno, se io
non ucciderò Wan Guld e sterminerò
tutta la sua famiglia come egli ha
distrutto la mia!... Uomini del
mare!... Mi avete udito?...
- Sì! - risposero i
filibustieri, mentre un fremito di terrore passava
sui loro volti.
Il Corsaro Nero si era curvato
sulla passerella e guardava fisso le
onde luminose.
- In acqua la salma!... - gridò
con voce cupa.
Il mastro d'equipaggio ed i tre
marinai alzarono l'amaca contenente il
cadavere del povero Corsaro e la
lasciarono andare.
La salma precipitò fra le
onde, alzando un grande spruzzo che pareva
un getto di fiamme.
Tutti i filibustieri si erano
curvati sulle murate.
Attraverso l'acqua fosforescente
si vedeva nettamente il cadavere
scendere in fondo ai misteriosi
abissi del mare, con delle larghe
ondulazioni, poi tutto d'un tratto
scomparve.
In quell'istante, al largo, si
udì echeggiare ancora il grido
misterioso che aveva spaventato
Carmaux e Wan Stiller.
I due filibustieri, che stavano
sotto il ponte di comando, si
guardarono in viso pallidi come due
cenci lavati.
- E' il grido del Corsaro
Verde che avverte il Corsaro Rosso, -
mormorò Carmaux.
- Sì, - rispose Wan Stiller,
con voce soffocata. - I due fratelli si
sono incontrati in fondo al mare.
Un colpo di fischietto interruppe
bruscamente le loro parole.
- Bracciate a babordo! - gridò
il mastro. - All'orza la barra!...
La "Folgore" aveva
virato di bordo e volteggiava fra gl'isolotti del
lago, fuggendo verso il gran golfo,
le cui acque s'indoravano sotto i
primi raggi del sole, mentre la
fosforescenza si spegneva bruscamente.
10.
A BORDO DELLA FOLGORE
Gran numero d'uccelli di mare
volteggiavano al largo, accorrendo dalle
coste. Bande di corvi di mare,
uccellacci rapaci, grossi quanto un
gallo, svolazzavano in prossimità
delle spiagge, pronti a scagliarsi
sulle più piccole prede ed
a farle a brani ancora vive; mentre sulle
onde scorrazzavano battaglioni di
rincopi, dalle code forcute, le
penne nere sul dorso e candide
sotto il ventre e muniti di corti
becchi che li condannano a soffrire
dei lunghi digiuni, poiché se i
pesci non si gettassero quasi
spontaneamente nelle bocche di quei
disgraziati volatili, questi non
riuscirebbero ad afferrarli avendo la
mandibola inferiore assai più
lunga della superiore. Anche i fetonti,
che sono così comuni
nelle acque del gran golfo messicano, non
mancavano. Si vedevano sfiorare le
onde in lunghe file, lasciando
pendere le lunghe barbe delle code
ed imprimendo alle loro nere ali un
tremito convulso, assai bizzarro.
Spiavano i pesci volanti che
balzavano bruscamente fuori dalle acque,
solcando l'aria per cinquanta o
sessanta braccia, per poi ricadere e
ricominciare subito il loro gioco.
Mancavano invece assolutamente le
navi. Gli uomini di guardia, rimasti
in coperta, avevano un bel
guardare, ma nessun veliero si vedeva
solcare l'orizzonte in alcuna
direzione.
La paura d'incontrare i fieri
corsari della Tortue tratteneva le navi
spagnole entro i porti delle
Carache, dello Yucatán, del Venezuela e
delle grandi isole antillane, fino
a quando non si trovavano in numero
da formare una squadra. Solo le
navi ben armate e montate da numerosi
equipaggi osavano attraversare
ancora il Mar Caraybo od il Golfo del
Messico; sapendo già per
prova quanta fosse l'audacia di quegli
intrepidi schiumatori del mare,
che avevano spiegata la loro bandiera
sull'isolotto della Tortue.
Durante quella prima giornata
nulla era accaduto a bordo della
filibustiera, dopo il seppellimento
del povero Corsaro Rosso.
Il comandante non si era più
fatto vedere in coperta, né sul ponte di
comando. S'era chiuso nella sua
cabina, e più nessuno aveva avuto
nuove di lui, nemmeno Carmaux e Wan
Stiller.
Si era però saputo che
aveva condotto con sé l'africano o lo si era
sospettato, perché nemmeno
il negro era stato più veduto ricomparire,
né lo si era trovato in
alcun angolo della nave, nemmeno nella stiva.
Che cosa facessero nella cabina,
chiusi a chiave, nessuno avrebbe
potuto dirlo. Forse nemmeno il
secondo, perché Carmaux che aveva
voluto interrogarlo, per tutta
risposta aveva ricevuto una spinta,
unita ad un cenno quasi minaccioso
che voleva significare:
- Non occuparti di ciò che
non ti riguarda, se ti è cara la vita!
Calata la sera, mentre la
"Folgore" imbrogliava parte delle sue vele
per tema dei colpi improvvisi di
vento che sono così frequenti in quei
paraggi e che quasi sempre
cagionano delle disgrazie, Carmaux e Wan
Stiller, che ronzavano attorno al
quadro, videro finalmente sorgere
dal boccaporto di poppa la testa
lanuta dell'africano.
- Ecco il compare!... - esclamò
Carmaux. - Speriamo di sapere se il
comandante si trova ancora a bordo,
o se è andato a confabulare coi
suoi fratelli in fondo al mare.
Quel funebre uomo sarebbe capace di
questo.
- Lo credo, - disse Wan Stiller,
che conosceva le sue superstizioni. -
Io lo ritengo più uno
spirito del mare che un uomo di carne ed ossa
come noi.
- Ehi, compare, - disse Carmaux al
negro. - Era tempo che tu venissi a
salutare il compare bianco.
- E' il padrone che mi ha
trattenuto, - rispose l'africano.
- Grosse novità adunque? Che
cosa fa il comandante?
- E' più triste che mai.
- Non l'ho mai veduto allegro,
nemmeno alla Tortue, né l'ho visto mai
sorridere.
- Non ha fatto che parlare dei suoi
fratelli e di tremende vendette.
- Che manterrà, compare.
Il Corsaro Nero è un uomo che eseguirà alla
lettera il suo terribile
giuramento ed io non vorrei trovarmi nei
panni del Governatore di Maracaybo
e di tutti i suoi parenti. Wan Guld
deve covare un odio implacabile
contro il Corsaro Nero, ma quell'odio
gli sarà fatale.
- Ed il motivo di quell'odio lo si
conosce, compare bianco?
- Si dice che sia molto
vecchio e che Wan Guld avesse giurato di
vendicarsi dei tre corsari prima
ancora che venisse in America e che
offrisse i suoi servigi alla
Spagna.
- Quando si trovava in Europa?
- Sì.
- Si sarebbero conosciuti prima?
- Così si dice, poiché
mentre Wan Guld si faceva nominare Governatore
di Maracaybo, comparivano dinanzi
alla Tortue tre splendide navi
comandate dal Corsaro Nero, dal
Rosso e dal Verde. Erano quei corsari
tre begli uomini, coraggiosi
come leoni, e marinai arditi ed
intrepidi. Il Verde era il più
giovane ed il Nero il più attempato; ma
per il valore nessuno era
inferiore all'altro e nel maneggio delle
armi non avevano rivali in tutti i
filibustieri della Tortue. Quei tre
valenti dovevano in breve fare
tremare gli spagnoli in tutto il Golfo
del Messico. Non si contavano
le navi da loro predate e le città
espugnate; nessuno poteva resistere
alle loro tre navi, le più belle,
le più veloci e le meglio
armate di tutta la filibusteria.
- Lo credo, - rispose l'africano. -
Basta guardare questo vascello.
- Vennero però anche per
loro i giorni tristi, - prosegui Carmaux. -
Il Corsaro Verde, salpato colla
sola sua nave dalla Tortue per ignota
destinazione, cadeva nel bel
mezzo d'una squadra spagnola, veniva
vinto dopo una lotta titanica,
preso, condotto a Maracaybo e appiccato
da Wan Guld.
- Me lo ricordo, - disse il negro.
- Il suo cadavere però non fu
gettato a pascolo delle fiere.
- No, poiché il Corsaro
Nero, accompagnato da pochi fidi, riusciva di
notte a entrare in Maracaybo ed a
rapirlo per poi seppellirlo in mare.
- Sì, lo si seppe poi e si
dice che Wan Guld, per la rabbia di non
avere potuto prendere anche il
fratello, facesse fucilare le quattro
sentinelle incaricate di vegliare
sugli appiccati della "Plaza de
Granada".
- Ora è stata la volta
del Corsaro Rosso ed anche questo è stato
sepolto nei baratri del mar
Caraybo, ma il terzo fratello è il più
formidabile e finirà
coll'esterminare tutti i Wan Guld della terra.
- Andrà presto a
Maracaybo, compare. Mi ha chiesto tutte le
informazioni necessarie per
condurre contro la città una flotta
numerosa.
- Pietro Nau, il terribile
Olonese, è ancora alla Tortue ed è l'amico
del Corsaro Nero. Chi potrebbe
resistere a questi due uomini?... E
poi...
S'interruppe e, urtando il negro
e Wan Stiller che gli stava vicino,
ascoltandolo in silenzio, disse
loro:
- Guardatelo!... Non fa paura
quell'uomo? Sembra il dio del mare!...
Il filibustiere e l'africano
avevano alzato gli occhi verso il ponte
di comando.
Il Corsaro era là, tutto
vestito di nero come sempre, col suo ampio
cappello abbassato sulla fronte e
la grande piuma svolazzante.
Colla testa china sul petto, le
braccia incrociate, passeggiava
lentamente per il ponte, tutto solo
e senza produrre il minimo rumore.
Morgan, il luogotenente, vegliava
all'estremità del ponte, ma senza
osare interrogare il suo capitano.
- Sembra uno spettro, - mormorò
sotto voce Wan Stiller.
- E Morgan non sfigurerebbe come
suo compagno, - disse Carmaux.
- Se uno è tetro come la
notte, l'altro non è più allegro. Entrambi si
sono trovati. Toh!...
Un grido era echeggiato fra le
tenebre. Scendeva dall'alto della
crocetta dell'albero maestro,
ove si vedeva confusamente una forma
umana.
Quella voce aveva gridato per due
volte:
- Nave al largo, sottovento!
Il Corsaro Nero aveva interrotto
bruscamente la sua passeggiata.
Stette un istante immobile,
guardando verso sottovento, ma trovandosi
così basso, difficilmente
poteva scorgere una nave navigante a sei o
sette miglia di distanza.
Si volse verso Morgan che si era
pure curvato sul bordo dicendogli:
- Fate spegnere i fuochi.
I marinai di prora, ricevuto il
comando, s'affrettarono a coprire i
due grandi fanali accesi, l'uno a
babordo e l'altro a tribordo.
- Gabbiere, - riprese il
Corsaro, quando l'oscurità fu completa a
bordo della "Folgore", -
dove naviga quella nave?
- Verso il sud, comandante.
- Alla costa di Venezuela?
- Lo credo.
- A quale distanza?
- A cinque o sei miglia.
- Sei certo di non ingannarti?
- No: distinguo nettamente i suoi
fanali.
Il Corsaro si curvò sulla
passerella, quindi lanciò queste tre parole:
- Uomini in coperta!
In meno di mezzo minuto i
centoventi filibustieri che formavano
l'equipaggio della "Folgore"
erano tutti al posto di combattimento.
Gli uomini di manovra ai bracci
delle vele, i gabbieri in alto, i
migliori fucilieri sulle coffe
e sul cassero, gli altri lungo le
murate e gli artiglieri dietro ai
loro pezzi colle micce accese in
mano. L'ordine e la disciplina
che regnavano a bordo delle navi
filibustiere erano tali, che a
qualunque ora della notte ed in
qualsiasi frangente, tutti gli
uomini si trovavano al posto assegnato
con una rapidità prodigiosa,
sconosciuta perfino sulle navi da guerra
delle nazioni più
marinaresche.
Questi scorridori del mare,
piovuti nel Golfo del Messico da tutte le
parti dell'Europa, ed arruolati
tra le peggiori canaglie dei porti di
mare di Francia, d'Italia,
d'Olanda, della Germania e
dell'Inghilterra, dediti a tutti i
vizi, ma noncuranti della morte e
capaci dei più grandi
eroismi e delle più incredibili audacie, sulle
navi filibustiere, diventavano più
obbedienti degli agnelli, in attesa
di diventare tigri nei
combattimenti.
Sapevano bene che i loro capi non
avrebbero lasciata impunita nessuna
negligenza e che la più
piccola vigliaccheria o indisciplina
l'avrebbero fatta pagare con un
colpo di pistola nel cranio, o per lo
meno coll'abbandono su qualche
isola deserta.
Quando il Corsaro Nero vide tutti i
suoi uomini a posto, osservandoli
quasi uno per uno, si volse verso
Morgan, il quale attendeva i suoi
ordini.
- Credete che quella nave sia?... -
gli chiese.
- Spagnola, signore, - rispose il
secondo.
- Degli spagnoli!... - esclamò
il Corsaro con voce cupa. - Sarà una
notte fatale per loro e molti non
rivedranno il sole domani.
- Assaliremo quella nave stanotte,
signore?
- Sì, e la coleremo a
fondo. Laggiù dormono i miei fratelli, ma non
dormiranno soli.
- Sia, se così desiderate,
signore.
Balzò sulla murata,
tenendosi aggrappato ad un paterazzo e guardò
sottovento.
Fra le tenebre che coprivano
il mare rumoreggiante, due punti
luminosi, che non si potevano
confondere colle stelle brillanti
all'orizzonte, scorrevano quasi a
fior d'acqua.
- Sono a quattro miglia da noi, -
disse.
- E vanno sempre al sud? - chiese
il Corsaro.
- Verso Maracaybo.
- Sfortuna a loro. Date il comando
di virare di bordo e di tagliare la
via a quella nave.
- Farete portare in coperta cento
granate da gettare a mano, e farete
assicurare ogni cosa nelle corsie e
nelle cabine.
- Speroneremo la spagnola?
- Sì, se sarà
possibile.
- Perderemo i prigionieri, signore.
- Che m'importa di loro?
- Ma quella nave può
contenere delle ricchezze.
- Nella mia patria ho castelli
ancora e vaste terre.
- Parlavo per i nostri uomini.
- Per essi ho dell'oro. Fate virare
di bordo, signore.
Al primo comando, a bordo del
legno si udì echeggiare il fischietto
del mastro. Gli uomini della
manovra, con una rapidità fulminea e con
un accordo perfetto, bracciarono le
vele, mentre il timoniere cacciava
la ribolla all'orza.
La "Folgore" girò
di bordo quasi sul posto e spinta da una fresca
brezza che soffiava dal sud-est,
si slanciò sulla rotta del veliero
segnalato, lasciando a poppa una
lunga scia gorgogliante.
S'avanzava fra le tenebre,
leggera come un uccello, quasi senza
produrre rumore, come il
leggendario vascello fantasma.
Lungo le murate, i fucilieri,
immobili come statue e muti, spiavano la
nave nemica, stringendo i loro
lunghi fucili di grosso calibro, armi
formidabili nelle loro mani, perché
di rado mancavano il colpo, mentre
gli artiglieri, curvi sui loro
pezzi, soffiavano sulle micce, pronti a
scatenare uragani di mitraglia.
Il Corsaro Nero e Morgan non
avevano lasciato il ponte di comando.
Appoggiati sulla traversa della
passerella, l'uno presso all'altro,
non staccavano gli sguardi dai
due punti luminosi che solcavano le
tenebre a meno di tre miglia di
distanza.
Carmaux, Wan Stiller ed il negro,
tutti e tre a prora, sul castello,
chiacchieravano a bassa voce,
guardando ora la nave segnalata che
continuava tranquillamente la sua
rotta, ed ora il Corsaro Nero.
- Brutta notte, per quella gente,
- diceva Carmaux. - Io temo che il
comandante, con quella rabbia
che ha in cuore, non lascerà vivo un
solo spagnolo.
- Mi sembra però che quella
nave sia ben alta di bordo, - rispose Wan
Stiller che misurava l'altezza dei
fanali dal pelo dell'acqua. - Non
vorrei che fosse una nave di linea
che va a raggiungere la squadra
dell'ammiraglio Toledo.
- Peuh!... Non fa paura al
Corsaro Nero. Nessuna nave ha mai potuto
resistere alla "Folgore"
e poi ho udito il comandante parlare di
speronare.
- Tuoni d'Amburgo!... Se continua
così, una volta o l'altra anche la
"Folgore" perderà
la prora.
- E' a prova di scoglio, mio caro.
- Ma anche gli scogli talvolta si
rompono.
- Zitto!...
La voce del Corsaro Nero aveva
rotto improvvisamente il silenzio che
regnava a bordo della nave.
- Uomini di manovra!... In alto i
coltellacci e fuori gli scopamari!
Le vele supplementari che vengono
aggiunte alle estremità dei pennoni
di maestra e di trinchetto, dei
pappafichi e contropappafichi, furono
dai gabbieri subito spiegate.
- In caccia! - esclamò
Carmaux. - Pare che la spagnola fili molto
bene, per costringere la "Folgore"
a issare i coltellacci.
- Ti dico che abbiamo da fare con
una nave di linea, - ripeté Wan
Stiller. - Guarda come ha
l'alberatura alta.
- Tanto meglio!... Farà
caldo d'ambo le parti!...
In quell'istante una voce robusta
echeggiò sul mare. Veniva dalla nave
nemica ed il vento l'aveva portata
a bordo della filibustiera.
- Ohé!... Nave sospetta a
babordo!...
Sul ponte di comando della
filibustiera si vide il Corsaro Nero
curvarsi verso Morgan, come gli
mormorasse alcune parole, poi scese
sul cassero gridando:
- A me la barra!... Uomini del
mare, in caccia!...
Un solo miglio separava le due
navi, ma dovevano essere entrambe
dotate d'una straordinaria velocità
perché la distanza non pareva
scemare.
Era trascorsa una mezz'ora quando
sulla nave spagnola o creduta tale,
si vide un bagliore illuminare
rapidamente il ponte e parte
dell'alberatura, poi una
fragorosa detonazione si distese sui neri
flutti, perdendosi nei lontani
orizzonti, con un rimbombo cupo e
prolungato.
Un istante dopo un fischio, ben
noto ai filibustieri, si udì in aria,
poi uno sprizzo d'acqua balzò
alto più di venti braccia dalla poppa
della nave corsara.
Nessuna voce si alzò fra
l'equipaggio. Solo un sorriso sdegnoso
apparve sulle labbra del Corsaro
Nero, sprezzante saluto a quel primo
messaggero di morte.
La nave avversaria dopo quella
prima cannonata, che voleva essere un
minaccioso invito di non più
seguirla, aveva virato nuovamente di
bordo, mettendo la prora al sud,
accennando risolutamente a cacciarsi
nel Golfo di Maracaybo.
Il Corsaro Nero, accortosi di
quella nuova direzione, si volse verso
Morgan, che si teneva addossato
alla murata, confuso tra i paterazzi
di poppa e gli disse:
- A prora, signore.
- Devo cominciare il fuoco?
- Non ancora: è troppo
oscuro. Andate a disporre tutto per
l'abbordaggio.
- Abborderemo, signore?
- Lo si vedrà!
Morgan scese dal cassero, chiamò
il mastro e si diresse a prora, dove
quaranta uomini si tenevano
distesi sul castello colle sciabole
d'arrembaggio collocate dinanzi ed
i fucili in mano.
- In piedi, - comandò. -
Andate a preparare i grappini da lancio.
Poi, volgendosi verso gli
uomini che stavano riparati dietro le
murate,
aggiunse:
- Allestite le tramezzate e ponete
le brande sul capo di banda.
I quaranta uomini di prora si
misero silenziosamente al lavoro, senza
confusione, sotto gli sguardi
vigilanti del secondo.
Quegli uomini, se temevano il
Corsaro Nero, avevano non meno paura di
Morgan, un uomo inflessibile,
audace quanto il capo, coraggioso come
un leone e deciso a tutto.
D'origine inglese, era giunto
da poco in America; ma si era fatto
subito notare per il suo spirito
intraprendente e per la sua rara
energia ed audacia. Aveva già
fatte splendidamente le sue prove sotto
un corsaro famoso, il Mansfield,
ma doveva più tardi superare per
coraggio e per valore tutti i
più famosi filibustieri della Tortue,
colla celebre spedizione di
Panama e l'espugnazione, fino allora
creduta impossibile, di quella
città regina dell'Oceano Pacifico.
Dotato d'una robustezza eccezionale
e d'una forza portentosa, bello di
lineamenti e generoso d'animo, con
due occhi penetranti che avevano un
fascino misterioso, al pari del
Corsaro Nero, sapeva imporsi a quei
ruvidi uomini di mare e farsi
ubbidire con un semplice cenno della
mano.
Sotto la sua direzione, in
meno di venti minuti, due robuste
tramezzate furono innalzate da
babordo a tribordo, una dinanzi
all'albero di trinchetto e l'altra
dinanzi a quello maestro, composte
di travi e di botti ripiene di
ferraccio, destinate a proteggere il
cassero ed il castello, nel caso
che i nemici avessero fatto irruzione
sulla tolda. Cinquanta granate
da gettarsi a mano furono collocate
dietro le travi, quindi i grappini
d'abbordaggio furono disposti sulle
murate e sulle brande arrotolate
che dovevano servire da fuciliere.
Quando tutto fu pronto, Morgan
fece ricoverare gli uomini sul
castello, quindi si mise in
osservazione accanto al bompresso, con una
mano sull'impugnatura della
sciabola e l'altra sul calcio d'una
pistola che teneva nella fascia.
La nave avversaria non era allora
che a sei o settecento metri.
La "Folgore",
giustificando pienamente il suo nome, aveva guadagnata
via e si preparava a piombarle
addosso con un urto tremendo,
irresistibile.
La nave spagnola si poteva
distinguere nei suoi maggiori particolari,
quantunque la notte fosse oscura,
non essendovi la luna.
Come Wan Stiller aveva sospettato,
era una nave di linea, di aspetto
imponente, coi suoi bordi
altissimi, il suo cassero elevatissimo ed i
suoi tre alberi coperti di vele
fino ai contropappafichi.
Era un vero legno di battaglia,
forse formidabilmente armato e montato
da un numeroso e agguerrito
equipaggio, deciso ad una strenua difesa.
Qualunque altro Corsaro della
Tortue si sarebbe bene guardato di
assalirlo poiché anche
vincendo, ben poco avrebbe trovato da
saccheggiare, tenendoci più
quegl'intrepidi ladri di mare a dare
addosso alle navi mercantili od
ai galeoni carichi di tesori
provenienti dalle miniere del
Messico, dell'Yucatán e del Venezuela,
ma così non la pensava il
Corsaro Nero, uomo che non si curava delle
ricchezze.
Forse in quella nave vedeva un
potente alleato di Wan Guld, che più
tardi avrebbe potuto ostacolare i
suoi disegni e si preparava ad
assalirla prima che andasse a
rinforzare la squadra dell'ammiraglio
Toledo, od a difendere Maracaybo.
A cinquecento metri, la nave
spagnola, vedendosi ostinatamente
inseguita e più non
dubitando delle sinistre intenzioni del Corsaro,
sparò una seconda cannonata
con uno dei suoi più grossi pezzi da
caccia.
La palla questa volta non si
perdette in mare. Passò fra le vele di
parrocchetto e di gabbia e andò
a smozzare l'estremità del picco della
randa facendo cadere la nera
bandiera del filibustiere.
I due contro-mastri d'artiglieria
del cassero si volsero verso il
Corsaro Nero che stava sempre
alla barra, tenendo in una mano il
portavoce e chiesero:
- Dobbiamo cominciare, comandante?
- Non ancora - rispose il Corsaro.
Una terza cannonata rimbombò
sul mare, più forte delle altre due ed
una terza palla fischiò fra
gli attrezzi della nave corsara, sfondando
la murata poppiera, a tre soli
passi dal timone.
Un altro sorriso sardonico sfiorò
le labbra dell'audace filibustiere,
ma nessun comando uscì dalla
sua bocca.
La "Folgore" precipitava
la corsa, mostrando alla nave nemica il suo
alto sperone, il quale fendeva
il mare con un cupo gorgoglio,
impaziente di penetrare, con uno
squarcio immenso, nel ventre della
nave spagnola. Correva come un
nero uccello, armato d'un rostro
formidabile.
La vista di quel legno che pareva
sorto improvvisamente dal mare e che
s'avanzava tacito, senza
rispondere alle provocazioni, senza nemmeno
dar segno di essere montato da
un equipaggio, doveva produrre un
effetto sinistro sugli animi
superstiziosi dei marinai spagnoli.
Ad un tratto un clamore immenso
echeggiò fra le tenebre.
Sulla nave nemica si udivano urla
di terrore e comandi precipitati.
Una voce imperiosa coprì per
un istante quel tumulto, forse quella del
comandante.
- Bracciate a babordo!... Appoggia
la barra, tutta!...
- Fuoco di bordata!
Un fracasso spaventevole scoppia a
bordo del vascello di linea, mentre
lampi di fuoco illuminano la notte.
I sette pezzi di tribordo ed i due
cannoni da caccia della coperta
hanno vomitato contro la nave corsara
i loro proiettili. Le palle
fischiano tra i filibustieri, attraverso
vele, recidono corde, si
sprofondano nella carena o sfondano le
murate, ma non arrestano lo slancio
della "Folgore".
Guidata dal robusto braccio del
Corsaro Nero, piomba, con tutto impeto
sul grande vascello. Fortunatamente
per questo, un colpo di barra dato
a tempo dal pilota, lo salva da una
spaventevole catastrofe.
Spostato bruscamente dalla sua
linea, obliqua a babordo, sfugge
miracolosamente al colpo di sperone
che doveva cacciarlo a fondo col
fianco squarciato.
La "Folgore" passa là
dove, un istante prima, si trovava la poppa
della nave avversaria. La tocca col
suo fianco, urtandola bruscamente
con un cupo rimbombo che si
ripercuote nella profondità della stiva,
le spezza la boma della randa e
parte del coronamento, ma è tutto.
La nave corsara, mancato il colpo,
prosegue la sua corsa rapida e
scompare nelle tenebre senza aver
dato segno di essere montata da un
numeroso equipaggio e di essere
formidabilmente armata.
- Lampi d'Amburgo!... - esclamò
Wan Stiller che aveva trattenuto il
respiro in attesa del tremendo
urto. - Ciò si chiama per gli spagnoli
aver fortuna!
- Non avrei data una pipata di
tabacco per tutti gli uomini che
montano il vascello, - rispose
Carmaux. - Mi pareva di vederli già
scendere negli abissi del gran
golfo.
- Credi che il comandante ritenterà
il colpo?
- Gli spagnoli si terranno ora in
guardia e ci presenteranno la prora.
- E ci bombarderanno per bene. Se
fosse stato giorno, quella bordata
avrebbe potuto esserci fatale.
- Mentre invece non ci ha recato
che dei guasti insignificanti.
- Taci, Carmaux!...
- Che cosa succede?
Il Corsaro Nero aveva imboccato il
portavoce ed aveva gridato:
- Pronti a virare di bordo!...
- Si ritorna?... - si chiese Wan
Stiller.
- Per bacco!... Non lascerà
andare di certo la nave spagnola, -
rispose Carmaux.
- E mi pare che nemmeno il vascello
abbia intenzione d'andarsene.
Era vero. La nave spagnola,
invece di proseguire la marcia si era
arresta, mettendosi attraverso
al vento, come se fosse decisa ad
accettare la battaglia.
Però virava lentamente di
bordo, presentando lo sperone per evitare di
venire investita.
Anche la "Folgore" aveva
virato di bordo a due miglia di distanza;
invece però di ritornare
addosso all'avversaria stava descrivendo
attorno ad essa un grande cerchio,
pur tenendosi fuori portata delle
artiglierie.
- Comprendo, - disse Carmaux. -
Il nostro comandante vuol attendere
l'alba prima d'impegnare la lotta e
di spingersi all'abbordaggio.
- Ed impedire agli spagnoli di
proseguire la loro corsa verso
Maracaybo, - aggiunse Wan Stiller.
- Sì, è
precisamente così. Mio caro, prepariamoci ad una lotta
disperata e, come è costume
fra noi filibustieri, se io dovessi venire
tagliato in due da una palla di
cannone o ucciso sul ponte del
vascello nemico, nomino te erede
della mia modesta fortuna.
- Che ascende? - disse Wan Stiller,
ridendo.
- A due smeraldi che valgono
almeno cinquecento piastre l'uno e che
tengo cuciti nella fodera della mia
giacca.
- Vi è tanto da divertirsi
una settimana alla Tortue. Io nomino te mio
erede, ma ti avverto che non ho
che tre dobloni cuciti nella mia
cintura.
- Basteranno per vuotare sei
bottiglie di vino di Spagna alla tua
memoria, amico.
- Grazie, Carmaux, ora sono
tranquillo e posso attendere la morte con
tutta serenità.
La "Folgore" intanto
continuava la sua corsa attorno al vascello di
linea, il quale rimaneva sempre
fermo, limitandosi a presentare la
prora. Volteggiava rapida, come
un uccello fantastico, minacciando
sempre, senza però far
tuonare le sue artiglierie.
Il Corsaro Nero non aveva
abbandonata la barra. I suoi occhi, che
pareva divenissero luminosi come
quelli delle fiere notturne, non si
staccavano un solo istante dal
vascello di linea, come se cercasse
d'indovinare ciò che
succedeva a bordo o che aspettasse qualche falsa
manovra per vibrare la speronata
mortale.
Il suo equipaggio lo guardava con
superstizioso terrore. Quell'uomo
che maneggiava la sua nave come
se le avesse trasfusa la sua anima,
che la faceva volteggiare attorno
alla preda senza quasi cambiare
velatura col suo tetro aspetto
e colla sua immobilità, metteva un
certo sgomento anche fra quegli
arditi scorridori del mare.
Tutta la notte la nave corsara
continuò a girare attorno al vascello,
senza rispondere ai colpi di
cannone che di quando in quando le
venivano sparati contro, ma con
nessun successo. Quando però le stelle
cominciarono ad impallidire ed i
primi riflessi dell'alba tinsero le
acque del golfo, la voce del
Corsaro tornò a farsi udire.
- Uomini del mare!... - gridò.
- Ognuno al posto di combattimento!...
In alto la mia bandiera!...
La "Folgore" non girava
più attorno al vascello di linea; muoveva
diritta contro di lui, risoluta ad
abbordarlo.
La grande bandiera nera del
Corsaro era stata issata sul picco della
randa ed inchiodata affinché
nessuno potesse ammainarla, ciò che
significava vincere ad ogni costo o
morire, ma senza resa.
Gli artiglieri del cassero
avevano puntati i due cannoni da caccia,
mentre i filibustieri dalle murate
avevano passati i fucili fra gli
spazi delle brande, pronti a
tempestare il legno nemico.
Il Corsaro Nero si assicurò
se tutti erano al posto di combattimento,
poi guardò se i gabbieri
avevano riprese le loro posizioni sulle
coffe, sulle crocette e sui
pennoni, quindi lanciò il grido:
- Uomini del mare!... Non
vi trattengo più!... Viva la
filibusteria!...
Tre hurrà formidabili
echeggiarono a bordo della nave corsara
appoggiati dal rimbombo dei pezzi
da caccia.
Il vascello di linea si era
allora rimesso al vento e marciava
incontro alla filibustiera. Doveva
essere montato da uomini valorosi e
risoluti, perché
generalmente le navi spagnole cercavano di sfuggire
agli attacchi dei corsari della
Tortue, sapendo per prova con quali
formidabili avversari avevano da
fare.
A mille passi ricominciò il
cannoneggiamento con gran furore.
Correndo bordate, scaricava ora i
suoi pezzi di tribordo, coprendosi
di fumo e di fiamme.
Era un grande legno a tre ponti,
coll'alberatura a nave, altissimo di
bordo, e munito di quattordici
bocche da fuoco, una vera nave da
battaglia, forse distaccata per
qualche urgente bisogno dalla squadra
dell'ammiraglio Toledo.
Sul ponte di comando di poppa si
vedeva il comandante in grande
uniforme, colla sciabola in pugno,
circondato dai suoi luogotenenti,
mentre sulla tolda si scorgevano
numerosi marinai.
Col grande stendardo di Spagna
issato sull'alberetto di maestra, quel
forte vascello muoveva
intrepidamente incontro alla "Folgore",
tuonando terribilmente.
Il legno corsaro, quantunque
assai più piccolo, non si lasciava
intimorire da quella pioggia
di palle. Affrettava la marcia,
rispondendo coi suoi cannoni da
caccia, ed aspettando forse il momento
opportuno per scaricare i dodici
pezzi dei sabordi.
Le palle cadevano fitte sul ponte,
sfondando le murate, penetrando
nella stiva e nelle batterie,
maltrattando le manovre e facendo dei
vuoti fra i filibustieri di prora,
però non cedeva il passo e muoveva
con pari audacia all'abbordaggio.
A quattrocento metri i suoi
fucilieri vennero in aiuto dei due cannoni
del cassero, tempestando la tolda
della nave nemica.
Quel fuoco doveva in breve
diventare disastroso per gli spagnoli,
perché, come fu detto, i
filibustieri quasi mai mancavano ai loro
colpi, essendo stati prima
"bucanieri", ossia cacciatori di buoi
selvatici.
Le palle di quei grossi archibugi
facevano infatti strage ben di più
del fuoco dei cannoni. Gli
uomini del vascello cadevano a dozzine
lungo i bordi e cadevano gli
artiglieri dei pezzi da caccia del
cassero e gli ufficiali del ponte
di comando.
Bastarono dieci minuti perché
non ne restasse neppure uno.
Anche il comandante era caduto in
mezzo ai suoi luogotenenti, prima
ancora che le due navi si fossero
abbordate.
Rimanevano però gli uomini
delle batterie, ben più numerosi dei
marinai della coperta. La vittoria
era quindi ancora da disputarsi.
A venti metri l'una dall'altra,
le due navi virarono bruscamente di
bordo. Subito la voce del
Corsaro tuonò tra il rimbombo delle
artiglierie.
- Imbroglia la maestra e la gabbia,
controbraccia il trinchetto, tendi
al massimo la randa!...
La "Folgore" si spostò
bruscamente sotto un violento colpo di barra e
andò ad imbrogliare il suo
bompresso fra le sartie della mezzana del
vascello.
Il Corsaro era balzato giù
dal cassero colla spada nella destra e una
pistola nella sinistra.
- Uomini del mare! - aveva gridato.
- All'abbordaggio!...
11.
LA DUCHESSA FIAMMINGA
I filibustieri, vedendo il
loro comandante e Morgan lanciarsi
all'abbordaggio del vascello, il
quale non poteva ormai più sfuggire,
si erano precipitati dietro di loro
come un solo uomo.
Avevano gettati i fucili, armi
pressoché inutili in un combattimento
corpo a corpo, ed avevano
impugnate le sciabole d'arrembaggio e le
pistole, e si precipitavano
innanzi come un torrente impetuoso,
urlando a piena gola per spargere
maggiore terrore.
I grappini d'arrembaggio erano
stati prontamente gettati per meglio
accostare le due navi, ma i primi
filibustieri, giunti sull'albero di
bompresso, impazienti si erano
gettati sulle trinche e, aggrappandosi
ai fianchi, o calandosi giù
per la dolfiniera, si erano lasciati
cadere sulla tolda del vascello.
Colà però si
erano subito trovati dinanzi ad una resistenza
inaspettata. Dai boccaporti
salivano con furia gli spagnoli delle
batterie, colle armi in pugno.
Erano cento almeno, guidati da
alcuni ufficiali e dai mastri e
contromastri artiglieri.
In un lampo si spargono sul ponte,
salgono sul castello di prora,
piombando addosso ai primi
filibustieri, mentre altri si precipitano
sul cassero e scaricano, a
bruciapelo, i due cannoni da caccia,
infilando la tolda della
filibustiera con un uragano di mitraglia.
Il Corsaro Nero non esitò
più. Le due navi si trovavano allora bordo
contro bordo, essendo state strette
le funi dei grappini.
D'un balzo supera le murate e si
getta sulla tolda del vascello
urlando:
- A me filibustieri!
Morgan lo segue, poi dietro di lui
si precipitano i fucilieri, mentre
i gabbieri issati sulle coffe,
sulle crocette, sui pennoni e sulle
griselle scagliano granate in
mezzo agli spagnoli e fanno un fuoco
infernale coi fucili e colle
pistole.
La lotta diventa spaventosa,
terribile.
Il Corsaro Nero tre volte trascina
i suoi uomini all'assalto del
cassero sul quale si erano radunati
sessanta o settanta spagnoli, che
spazzano la tolda coi cannoni da
caccia, e tre volte viene respinto,
mentre Morgan non riesce a montare
sul cassero di prora.
D'ambo le parti si combatte con
pari furore. Gli spagnoli, che hanno
subito perdite disastrose per il
fuoco degli archibugieri e che sono
ormai inferiori di numero,
resistono eroicamente decisi a farsi
uccidere, piuttosto che arrendersi.
Le granate a mano, scagliate dai
gabbieri della nave corsara, fanno
strage fra le loro file, pure
non retrocedono. I morti ed i feriti
s'accumulano intorno a loro, ma il
grande stendardo di Spagna sventola
arditamente sulla cima
dell'alberetto di maestra, colla sua croce che
fiammeggia ai primi raggi del sole.
Quella resistenza non doveva però
durare a lungo. I filibustieri,
resi feroci per l'ostinazione dei
nemici, si scagliano un'ultima
volta all'assalto del castello del
cassero, guidati dai loro
comandanti che combattono in prima fila.
S'arrampicano sulle griselle per
calarsi già dai paterazzi dell'albero
di mezzana o attraverso le
sartie di poppa; s'aggrappano alle
bancazze, corrono sulle murate e
piombano da tutte le parti addosso
agli ultimi difensori del
disgraziato vascello.
Il Corsaro Nero spezza quella
muraglia di corpi umani e si caccia in
mezzo a quell'ultimo gruppo di
combattenti. Ha gettata la sciabola
d'arrembaggio ed impugnata una
spada.
La sua lama fischia come un
serpente, batte e ribatte i ferri che
tentano giungere al suo petto e
colpisce a destra, a manca e dinanzi.
Nessuno può resistere a quel
braccio, e nessuno può parare le sue
botte. Un varco gli si apre
dintorno e si trova in mezzo ad un cumulo
di cadaveri, coi piedi nel sangue
che scorre a rivi per il piano
inclinato del cassero.
Morgan in quel momento accorreva
con una banda di filibustieri. Aveva
espugnato il castello di prora e si
preparava a trucidare i pochi
superstiti, che difendevano col
furore della disperazione lo stendardo
del vascello, ondeggiante sul picco
della randa.
- Addosso a questi ultimi! - gridò.
Il Corsaro Nero lo trattenne,
gridando.
- Uomini del mare! Il Corsaro Nero
vince, ma non assassina!
Lo slancio dei filibustieri si
era arrestato e le armi, pronte a
colpire, si erano abbassate.
- Arrendetevi, - gridò il
Corsaro avanzandosi verso gli spagnoli
aggruppati intorno alla barra
del timone. - Sia salva la vita ai
valorosi.
Un contromastro, l'unico rimasto
vivo fra tutti i graduati, si fece
innanzi gettando la scure intrisa
di sangue.
- Siamo vinti, - disse con
voce rauca. - Fate di noi quello che
volete.
- Riprendete la vostra scure,
contromastro - rispose il Corsaro, con
nobiltà. - Uomini così
valorosi che difendono con tanto accanimento il
vessillo della patria lontana,
meritano la mia stima.
Poi guardò i
superstiti, senza occuparsi dello stupore del
contromastro, stupore naturale
poiché, in quelle lotte, di rado i
filibustieri accordavano
quartiere ai vinti e quasi mai la libertà
senza riscatto.
Di difensori del vascello di linea
non rimanevano che diciotto marinai
e quasi tutti feriti. Avevano
gettate le armi ed aspettavano, con cupa
rassegnazione, la loro sorte.
- Morgan, - disse il Corsaro, -
fate calare in acqua la grande
scialuppa con i viveri sufficienti
per una settimana.
- Lascerete liberi tutti gli
uomini? - chiese il luogotenente, con un
certo rammarico.
- Sì, signore. Amo premiare
il coraggio sfortunato.
Il quartier mastro, udendo quelle
parole, si era fatto innanzi,
dicendo:
- Grazie, comandante. Ricorderemo
sempre la generosità di colui che si
chiama il Corsaro Nero.
- Tacete e rispondetemi.
- Parlate, comandante.
- Da dove venivate?...
- Da Vera-Cruz.
- Dove eravate diretti?...
- A Maracaybo.
- Vi aspettava il Governatore? -
chiese il Corsaro, aggrottando la
fronte.
- Lo ignoro, signore. Solamente il
capitano avrebbe potuto rispondere.
- Avete ragione. A quale squadra
apparteneva la vostra nave?
- A quella dell'Ammiraglio Toledo.
- Avete nessun carico nella stiva?
- Palle e polvere.
- Andate: siete liberi.
Il contromastro, invece di
obbedire, lo guardò con un certo imbarazzo
che non sfuggì agli occhi
del Corsaro.
- Volete dire? - chiese questi.
- Che vi sono altre persone a
bordo, comandante.
- Dei prigionieri forse?
- No, delle donne e dei paggi.
- Dove sono?
- Nel quadro di poppa.
- Chi sono quelle donne?
- Il capitano non ce lo disse,
ma pare che fra di esse vi sia una
donna d'alto rango.
- E chi mai?
- Una duchessa, credo.
- Su questo vascello da guerra?...
- chiese il Corsaro con stupore. -
Dove l'avete imbarcata?
- A Vera-Cruz.
- Sta bene. Verrà con noi
alla Tortue e se vorrà la libertà, pagherà
il riscatto che fisserà il
mio equipaggio. Partite, valorosi difensori
del vostro patrio vessillo;
v'auguro di raggiungere felicemente la
costa.
- Grazie signore.
La grande scialuppa era stata
calata in mare e provveduta di viveri
per otto giorni, d'alcuni fucili e
d'un certo numero di cariche.
Il contromastro ed i suoi diciotto
marinai scesero nell'imbarcazione,
mentre il grande stendardo di
Spagna veniva abbassato dall'alberetto
di maestra contemporaneamente alla
bandiera ondeggiante sul picco
della randa e venivano issate
le nere bandiere del filibustiere,
salutate da due colpi di cannone.
Il Corsaro Nero era salito sulla
prora e guardava la grande scialuppa,
la quale si allontanava
rapidamente, dirigendosi verso il sud, ossia
là dove s'apriva la vasta
baia di Maracaybo.
Quando fu lontana, scese lentamente
in coperta, mormorando:
- E costoro sono gli uomini del
traditore!...
Guardò il suo equipaggio
che era occupato a trasportare i feriti
nell'infermeria di bordo ed a
chiudere i cadaveri entro le amache per
gettarli in mare e fece cenno a
Morgan di avvicinarsi.
- Dite ai miei uomini, - gli
disse, - che io rinuncio a loro favore
alla parte spettantemi dalla
vendita di questo vascello.
- Signore!... - esclamò il
luogotenente, stupito. - Questa nave vale
molte migliaia di piastre, voi lo
sapete.
- E che importa a me il danaro? -
rispose il Corsaro con disprezzo. -
Io faccio la guerra per miei motivi
personali e non per avidità di
ricchezze. D'altronde la mia parte
l'ho avuta.
- Non è vero, signore.
- Sì, i diciannove
prigionieri che, condotti alla Tortue, avrebbero
dovuto pagare il loro riscatto per
ottenere la libertà.
- Valevano ben poco, costoro.
Forse non avrebbero pagato un migliaio
di piastre.
- A me basta. Direte poi ai miei
uomini di fissare il riscatto per la
duchessa che si trova a bordo di
questo legno. Il Governatore di Vera-
Cruz o quello di Maracaybo
pagheranno se vorranno rivederla libera.
- I nostri uomini amano il denaro,
ma amano di più il loro comandante
e cederanno a voi anche i
prigionieri del quadro.
- Lo si vedrà, - rispose il
Corsaro alzando le spalle.
Stava dirigendosi verso poppa,
quando la porta del quadro si aprì
bruscamente ed una fanciulla
apparve, seguita da due donne e da due
paggi sfarzosamente vestiti.
Era una bella figura di giovane,
alta, slanciata, flessuosa, dalla
pelle delicatissima, d'un bianco
leggermente roseo, di quel roseo che
solo si scorge sulle fanciulle dei
paesi settentrionali, e soprattutto
in quelle appartenenti alle razze
anglo-sassoni ed iscotodanesi.
Aveva lunghi capelli d'un biondo
pallido, con riflessi più d'argento
che d'oro, che le scendevano sulle
spalle, raccolti in una grossa
treccia fermata da un grande nastro
azzurro adorno di perle; occhi dal
taglio perfetto, d'una tinta
indefinibile che avevano dei lampi
dell'acciaio brunito, sormontati da
sopracciglia finissime e che, cosa
davvero strana, invece di essere
bionde al pari dei capelli, erano
nere.
Quella fanciulla, perché
tale doveva essere, non avendo ancora le
forme sviluppate della donna,
indossava un elegante vestito di seta
azzurra, dal grande collare di
pizzo, come usavasi in quel tempo, ma
semplicissimo, senza ricami di oro
né d'argento; però al collo aveva
parecchi giri di perle grosse, che
dovevano costare parecchie migliaia
di piastre ed alle orecchie
due superbi smeraldi, pietre molto
ricercate in quell'epoca e molto
apprezzate.
Le due donne che la seguivano,
due cameriere senza dubbio, erano
invece due mulatte, belle del
pari, dalla pelle leggermente
abbronzata, di riflessi ramigni ed
erano pure mulatti i due paggi.
La giovanetta, vedendo il ponte
del vascello ingombro di morti e di
feriti, d'armi, di attrezzi
spezzati e di palle di cannone, e dovunque
macchiato di sangue, fece un
gesto di ribrezzo ed arretrò come se
volesse tornare nel quadro per
sottrarsi a quella vista orribile, ma
vedendo il Corsaro Nero che le
si era fermato a quattro passi di
distanza, gli chiese con
aria corrucciata, aggrottando le
sopracciglia:
- Che cosa è accaduto qui,
signore?
- Potete comprenderlo, signora, -
rispose il Corsaro, inchinandosi. -
Una battaglia tremenda, finita male
per gli spagnoli.
- E chi siete voi?
Il Corsaro gettò via la
spada insanguinata che non aveva ancora
deposta e levandosi galantemente
l'ampio cappello piumato, le disse
con squisita cortesia:
- Io sono, signora, un gentiluomo
d'oltremare.
- Ciò non mi spiega chi voi
siate, - diss'ella, un po' rabbonita dalla
gentilezza del Corsaro.
- Allora aggiungerò che io
sono il cavaliere Emilio di Roccanera,
signore di Valpenta e di
Ventimiglia, ma qui porto un nome ben
diverso.
- E quale, cavaliere?
- Sono il Corsaro Nero.
Udendo quel titolo, un fremito di
terrore era passato sul bel viso
della giovanetta e la tinta rosea
della sua pelle era repentinamente
scomparsa, diventando invece bianca
come l'alabastro.
- Il Corsaro Nero, - mormorò
guardandolo con due occhi smarriti. - Il
terribile Corsaro della Tortue, il
nemico formidabile degli spagnoli.
- Forse v'ingannate, signora. Gli
spagnoli posso combatterli, ma non
ho motivo per odiarli e ne diedi or
ora una prova ai superstiti di
questo vascello. Non vedete laggiù,
dove il mare si confonde col cielo
quel punto nero che sembra
perduto nello spazio? E' una scialuppa
montata da diciannove marinai
spagnoli che io rilasciai liberi, mentre
per diritto di guerra avrei potuto
trucidarli o tenerli prigionieri.
- Avrebbero mentito coloro che vi
dipingevano come il più terribile
Corsaro della Tortue?
- Forse, - rispose il filibustiere.
- E di me che cosa farete,
cavaliere?
- Una domanda, innanzi tutto.
- Parlate, signore.
- Voi siete?
- Fiamminga.
- Una duchessa, mi hanno detto.
- E' vero cavaliere, - rispose
ella, lasciandosi sfuggire un gesto di
malumore, come se le fosse
dispiaciuto che il Corsaro avesse ormai
saputo del suo alto grado sociale.
- Il vostro nome, se non vi
rincresce.
- E' necessario?...
- Bisogna che io sappia chi
voi siete, se volete riacquistare la
libertà.
- La libertà?... Ah!...
Sì, è vero, dimenticavo che io sono ormai
vostra prigioniera.
- Non mia, signora, ma della
filibusteria. Se si trattasse di me,
metterei a vostra disposizione la
mia migliore scialuppa ed i miei più
fidi marinai e vi farei sbarcare
nel porto più vicino, ma io non posso
sottrarmi alle leggi dei fratelli
della costa.
- Grazie, - diss'ella, con un
adorabile sorriso. - Mi sarebbe sembrato
strano che un gentiluomo dei
cavallereschi duchi di Savoia fosse
diventato un ladro di mare.
- La parola può essere
dura per i filibustieri, - diss'egli,
aggrottando la fronte. - Ladri di
mare!... Eh... Quanti vendicatori vi
sono fra di loro!... Forse che
Montbars, lo sterminatore, non faceva
la guerra per vendicare i poveri
indiani distrutti dall'insaziabile
avidità degli avventurieri
di Spagna? Chissà che un giorno non
possiate sapere anche il motivo
per cui un gentiluomo dei duchi di
Savoia sia qui venuto a
scorrazzare per le acque del gran golfo
americano... Il vostro nome,
signora?
- Honorata Willerman, duchessa di
Weltrendrem.
- Sta bene, signora. Ritiratevi
nel quadro ora, dovendo noi procedere
ad una triste funzione, al
seppellimento dei nostri caduti nella
lotta; ma questa sera vi attendo a
pranzo a bordo della mia nave.
- Grazie, cavaliere, -
diss'ella, porgendogli una candida mano,
piccola come quella d'una bimba e
dalle dita affusolate.
Fece un leggero inchino e si ritirò
lentamente, ma prima di rientrare
nel quadro si volse e vedendo che
il Corsaro Nero era rimasto immobile
al suo posto, col cappello
ancora in mano, gli sorrise un'ultima
volta.
Il filibustiere non si era mosso.
I suoi occhi, che erano diventati
tetri, erano sempre fissi sulla
porta del quadro, mentre la sua fronte
diventava più fosca.
Stette qualche minuto colà,
come se fosse assorto in qualche
tormentoso pensiero e come se i
suoi sguardi seguissero una fuggevole
visione, poi si scosse e crollando
il capo, mormorò:
- Follie!...
12.
LA PRIMA FIAMMA
Quel terribile combattimento fra
la nave corsara ed il vascello di
linea era stato disastroso per
entrambi gli equipaggi. Più di duecento
cadaveri ingombravano la tolda, il
castello di prora ed il cassero del
legno perduto, alcuni caduti sotto
lo scoppio micidiale delle granate
scagliate dai gabbieri dall'alto
delle coffe e dei pennoni, altri
fulminati a bruciapelo dalle
scariche di mitraglia o dai fucili e
dalle pistole, e altri caduti negli
ultimi assalti, all'arma bianca.
Centosessanta ne aveva perduti la
nave spagnola e quarantotto la nave
corsara oltre ventisei feriti
che erano stati trasportati
nell'infermeria della "Folgore".
Anche i due legni, durante il
cannoneggiamento, avevano sofferto non
poco. La "Folgore",
mercé la rapidità del suo attacco e le sue pronte
manovre, non aveva perduto che
dei pennoni facilmente ricambiabili,
essendo ben provvista di
attrezzi, ed aveva avuto le murate
danneggiate in più luoghi e
le manovre maltrattate; la spagnola invece
era stata ridotta a mal partito e
si trovava quasi nella impossibilità
di rimettersi alla vela.
Il suo timone era stato fracassato
da una palla di cannone; l'albero
maestro, offeso alla base dallo
scoppio d'una bomba, minacciava di
cadere al minimo sforzo delle
vele; la mezzana aveva perduto le sue
sartie e parte dei paterazzi ed
anche le sue murate avevano sofferto
assai.
Era però sempre una gran
bella nave, che, riparata, potevasi vendere
con grande profitto alla Tortue,
tanto più che aveva numerose bocche
da fuoco ed abbondanti
munizioni, cose molto ricercate dai
filibustieri che generalmente
difettavano delle une e delle altre.
Il Corsaro Nero, resosi conto delle
perdite subite e dei danni toccati
alle due navi, comandò di
sgombrare le tolde dai cadaveri e di
procedere prontamente alle
riparazioni più urgenti, premendogli di
abbandonare quei paraggi per
non venire assalito dalla squadra
dell'ammiraglio Toledo, trovandosi
ancora troppo vicino a Maracaybo.
La triste cerimonia dello
sgombero dei ponti fu fatta subito. I
cadaveri, uniti due a due nelle
amache, con una palla da cannone ai
piedi, vennero gettati negli
abissi del gran golfo, dopo essere stati
privati di tutti i valori che
avevano indosso, non avendone i pesci
proprio bisogno, come diceva
scherzando Carmaux al suo amico Wan
Stiller, entrambi sfuggiti
miracolosamente alla morte.
Terminato quel lugubre getto,
l'equipaggio, sotto la direzione dei
mastri e due contromastri,
sbarazzò la tolda dai rottami, lavò il
sangue con torrenti d'acqua e
procedette al ricambio degli attrezzi
guasti e delle manovre fisse e
correnti, danneggiate dalla mitraglia.
Fu però necessario
abbattere l'albero maestro del vascello di linea e
rinforzare vigorosamente quello di
mezzana e collocare, al posto del
timone, un remo di dimensioni
enormi non avendone trovato uno di
ricambio nel magazzino dei
carpentieri.
Con tutto ciò il vascello
non era ancora in condizione di navigare e
fu deciso che la "Folgore"
l'avrebbe preso a rimorchio, anche perché
il Corsaro non voleva dividere
l'ormai troppo scarso suo equipaggio.
Una grossa gomena fu gettata a
poppa della nave filibustiera e
assicurata alla prora del
vascello, e verso il tramonto i Corsari si
rimettevano alla vela, navigando
lentamente verso il nord, premurosi
di giungere al sicuro nella loro
formidabile isola.
Il Corsaro Nero, date le ultime
disposizioni per la notte, raccomandò
di raddoppiare gli uomini di
guardia, non sentendosi completamente
sicuro a così breve distanza
dalle coste venezuelane, dopo il furioso
cannoneggiamento del mattino, ed
ordinò al negro ed a Carmaux di
recarsi sul legno spagnolo, a
prendere la duchessa fiamminga.
Mentre i due uomini, scesi in
una imbarcazione già fatta calare in
acqua, si dirigevano verso la nave
che la "Folgore" rimorchiava, il
Corsaro Nero si era messo a
passeggiare per la tolda, con certe mosse
che indicavano come fosse in preda
ad una viva agitazione e ad una
profonda preoccupazione.
Contrariamente alle sue
abitudini, era irrequieto, nervoso;
interrompeva bruscamente la sua
passeggiata per arrestarsi, come se un
pensiero lo tormentasse:
s'avvicinava a Morgan che vegliava sul
castello di prora, come se avesse
avuto intenzione di fargli qualche
comunicazione, poi volgeva
invece bruscamente le spalle e
s'allontanava verso poppa.
Era però tetro come sempre,
forse anzi più cupo del solito. Tre volte
fu visto salire sul cassero di
poppa e guardare il vascello di linea,
facendo un gesto d'impazienza
e tre volte allontanarsi quasi
precipitosamente ed arrestarsi sul
castello di prora, cogli occhi
distrattamente fissi sulla luna
che sorgeva allora all'orizzonte,
cospargendo il mare di pagliuzze
d'argento.
Quando però udì sul
fianco della nave il cozzo sonoro della scialuppa
che ritornava dal vascello
spagnolo, abbandonò con precipitazione il
castello di prora e si fermò
sulla cima della scala abbassata a
babordo.
Honorata saliva, leggera come
un uccello, senza appoggiarsi alla
branca. Era vestita come al
mattino, ma sul capo portava una grande
sciarpa di seta variopinta,
ricamata in oro e adorna di fiocchi come i
serapé messicani.
Il Corsaro Nero l'attendeva col
cappello in mano e la sinistra
appoggiata alla guardia d'una lunga
spada.
- Vi ringrazio, signora, d'essere
venuta sulla mia nave, - le disse.
- E' voi che devo ringraziare,
cavaliere, d'avermi ricevuto sulla
vostra filibustiera, - rispose
ella, chinando graziosamente il capo. -
Non dimenticate che io sono una
prigioniera.
- La galanteria non è
sconosciuta anche fra i ladri di mare, - rispose
il Corsaro, con una leggera punta
d'ironia.
- Mi serbate rancore della parola
sfuggitami stamane?
Il Corsaro Nero non rispose e
la invitò con un cenno della mano a
seguirlo.
- Una domanda prima, cavaliere, -
diss'ella trattenendolo.
- Parlate.
- Non vi spiacerà che io
abbia condotto con me una delle mie donne?
- No, signora, credevo anzi che
venissero tutte e due.
Le offrì galantemente il
braccio e la condusse a poppa della nave,
facendola entrare nel salotto del
quadro.
Quel piccolo ambiente, situato
sotto il cassero, a livello della
tolda, era ammobiliato con una
eleganza così civettuola, da fare
stupire anche la giovane
duchessa, quantunque dovesse essere stata
abituata a vivere in mezzo ad un
lusso sfarzoso.
Si capiva che quel Corsaro, anche
scorrazzando il mare, non aveva
rinunciato a tutti gli agi
della vita ed alla eleganza dei suoi
castelli.
Le pareti di quel salotto erano
tappezzate di seta azzurra trapunta in
oro e adorne di grandi specchi di
Venezia; il pavimento spariva sotto
un soffice tappeto d'oriente e le
ampie finestre che davano sul mare,
divise da eleganti colonnette
scanellate, erano riparate da leggere
tende di mussola.
Negli angoli vi erano quattro
scaffali di argenterie; nel mezzo una
tavola riccamente imbandita e
coperta d'una candida tovaglia di
Fiandra ed all'intorno delle
comode poltroncine di velluto azzurro,
con grosse borchie di metallo.
Il Corsaro invitò la giovane
fiamminga e la mulatta che aveva condotta
seco, ad accomodarsi poi si
sedette di fronte a loro, mentre Moko,
l'erculeo negro, serviva la cena su
piatti d'argento che portavano nel
mezzo uno strano stemma, forse
quello del comandante, poiché
raffigurava una roccia sormontata
da quattro aquile e da un disegno
indecifrabile.
Il pasto, composto per lo più
di pesci freschi, cucinati squisitamente
in varie maniere dal cuoco di
bordo, di carni conservate, di dolci e
di frutta dei tropici, innaffiato
da scelti vini d'Italia e di Spagna,
fu terminato in silenzio, poiché
nessuna parola era uscita dalle
labbra del Corsaro Nero, né
la giovane fiamminga aveva osato trarlo
dalle sue preoccupazioni.
Dopo servita la cioccolata, secondo
l'usanza spagnola, entro chicchere
microscopiche di porcellana, il
comandante parve decidersi a rompere
il silenzio quasi cupo che regnava
nel salotto.
- Perdonate, signora, - disse,
guardando la giovane fiamminga; -
perdonate, se io mi sono mostrato
molto preoccupato durante il pasto e
vi ho fatto pessima compagnia, ma
quando cala la notte, una cupa
tristezza piomba sovente sulla mia
anima ed il mio pensiero scende nei
baratri del Gran Golfo, e vola
nei nebbiosi paesi che si bagnano nel
Mare del Nord. Che cosa volete?
Vi sono tanti tetri ricordi che
tormentano il mio cuore ed il mio
cervello!
- Voi! il più prode dei
corsari! - esclamò la giovane con stupore. -
Voi che scorrazzate il mare, che
avete una nave che vince i più grandi
vascelli, degli uomini audaci che
ad un vostro comando si fanno
uccidere, che avete prede e
ricchezze e che siete uno dei più
formidabili capi della
filibusteria?... Voi avete delle tristezze?
- Guardate l'abito che indosso e
pensate al nome che io porto. Tutto
ciò non ha qualche cosa di
funebre, signora?
- E' vero, - rispose la giovane
duchessa, colpita da quelle parole. -
Voi che scorrazzate il mare, che
avete una nave che vince i più grandi
vascelli, un nome che fa paura. A
Vera-Cruz dove passai qualche tempo
presso il marchese d'Heredijas,
ho udito raccontare sul vostro conto
tante strane storie da fare
rabbrividire.
- E quali, signora? - chiese il
Corsaro con un sorriso beffardo,
mentre i suoi occhi che erano
animati da una cupa fiamma, si fissavano
in quelli della giovane fiamminga,
come se avesse voluto leggerle fino
in fondo all anima.
- Ho udito raccontare che il
Corsaro Nero aveva attraversato
l'Atlantico assieme a due fratelli,
che indossavano l'uno un costume
verde e l'altro uno rosso, per
compiere una tremenda vendetta.
- Ah!... - fe' il Corsaro, la cui
fronte si rannuvolava.
- Mi hanno detto che eravate un
uomo sempre cupo e taciturno, che
quando le tempeste infuriavano
sulle Antille, uscivate nel mare a
dispetto delle onde e dei venti e
che scorrazzavate senza tema il Gran
Golfo, sfidando le ire della
natura, perché eravate protetto dagli
spiriti infernali.
- E poi?
- E poi che i due Corsari dalle
divise rossa e verde erano stati
impiccati da un uomo che era vostro
mortale nemico e che...
- Continuate, - disse il Corsaro
con voce sempre più cupa.
Invece di terminare la frase, la
giovane duchessa si era arrestata,
guardando con una certa
inquietudine, non esente da un vago terrore.
- Ebbene, perché
v'interrompete? - chiese egli.
- Non oso, - rispose ella,
esitando.
- Forse che io vi faccio paura,
signora?
- No, ma...
Poi alzandosi gli chiese
bruscamente:
- E' vero che voi evocate i morti?
In quell'istante, sul babordo della
nave, s'udì infrangersi una grande
ondata, il cui colpo si ripercosse
cupamente nelle profondità della
stiva, mentre alcuni spruzzi di
spuma balzavano fino sulle finestre
del salotto, bagnando le tende.
Il Corsaro si era alzato
precipitosamente, pallido come un cadavere.
Guardò la giovane con due
occhi che scintillavano come due carboni, ma
nei quali balenava una profonda
commozione, poi s'avvicinò ad una
delle finestre, l'aprì e si
curvò fuori.
Il mare era tranquillo e
scintillava tutto sotto i pallidi raggi
dell'astro notturno. La leggera
brezza, che gonfiava le vele della
"Folgore", non formava
su quell'immensa superficie che delle
leggerissime increspature.
Pure sul babordo si vedeva l'acqua
spumeggiare ancora contro il fianco
della nave come se una grande
ondata, sollevata da una forza
misteriosa o da qualche fenomeno
inesplicabile, si fosse rotta.
Il Corsaro Nero, immobile
innanzi alla finestra, colle braccia
incrociate come era sua abitudine,
continuava a guardare il mare senza
fare un moto e senza pronunciare
una parola. Si sarebbe detto che con
quei suoi occhi scintillanti
volesse investigare nelle profondità del
Mar Caraybo.
La duchessa gli si era
silenziosamente avvicinata, ma era anche essa
pallida ed in preda ad un
superstizioso terrore.
- Che cosa guardate, cavaliere? -
gli chiese dolcemente.
Il Corsaro parve che non l'avesse
udita, poiché non si mosse.
- A che cosa pensate? - tornò
a chiedergli.
- Mi chiedevo, - rispose con voce
lugubre, - se è possibile che i
morti, sepolti in fondo al
mare, possano abbandonare i profondi
baratri dove riposano e salire alla
superficie.
La giovane rabbrividì.
- Di quali morti volete parlare?...
- gli chiese dopo alcuni istanti
di silenzio.
- Di coloro che sono morti...
invendicati.
- Dei vostri fratelli forse?
- Forse, - rispose il Corsaro, con
un filo di voce.
Poi, tornando rapidamente verso la
tavola ed empiendo due bicchieri di
vino bianco, disse con un sorriso
forzato che contrastava col livido
aspetto del suo viso:
- Alla nostra salute, signora. La
notte è scesa da qualche ora e voi
dovete ritornare sul vostro
vascello.
- La notte è calma,
cavaliere, e nessun pericolo minaccia la scialuppa
che deve ricondurmi, - rispose
ella.
Lo sguardo del Corsaro, fino
allora così tetro, parve che si
rasserenasse tutto d'un colpo.
- Volete tenermi compagnia ancora,
signora? - le chiese.
- Se non vi rincresce.
- Anzi, signora. La vita è
dura sul mare, e simili distrazioni
succedono così di rado. Voi
però, se i miei sguardi non s'ingannano,
dovete avere un motivo recondito
per arrestarvi ancora.
- Può essere vero.
- Parlate: la tristezza che poco fa
m'aveva invaso, si è dileguata.
- Ditemi, cavaliere, è
vero adunque che voi avete lasciato il vostro
paese per venire a compiere una
tremenda vendetta?...
- Sì, o signora, ed
aggiungerò che io non avrò più bene né
sulla terra
né sul mare, finché
non l'avrò compiuta.
- Tanto adunque odiate quell'uomo?
- Tanto che per ucciderlo darei
tutto il mio sangue, fino all'ultima
goccia.
- Ma che cosa vi ha fatto?
- Ha distrutto la mia famiglia,
signora; ma io, due notti or sono, ho
pronunciato un terribile giuramento
e lo manterrò, dovessi percorrere
il mondo intero e frugare le
viscere della terra per raggiungere il
mio mortale nemico e tutti quelli
che hanno la sventura di portare il
suo nome.
- E quell'uomo è qui, in
America?...
- In una città del Grande
Golfo.
- Ma il suo nome?... - chiese la
giovane con estrema ansietà. - Posso
io forse conoscerlo?
Il Corsaro invece di rispondere la
guardò negli occhi.
- Vi preme saperlo?... - le chiese
dopo alcuni istanti di silenzio. -
Voi non appartenete alla
filibusteria e sarebbe forse pericoloso il
dirvelo.
- Oh!... Cavaliere!... - esclamò
ella impallidendo.
Il Corsaro scosse il capo come
se volesse scacciare un pensiero
importuno, poi alzandosi
bruscamente e mettendosi a passeggiare con
agitazione, le disse:
- E' tardi, signora. E'
necessario che voi torniate al vostro
vascello.
Si volse verso il negro che stava
immobile dinanzi alla porta come una
statua di basalto nero e gli
chiese:
- E' pronta la scialuppa?
- Sì, padrone, - rispose
l'africano.
- Chi la monta?
- Il compare bianco ed il suo
amico.
- Venite, signora.
La giovane fiamminga s'era gettata
sul capo la grande sciarpa di seta
e si era alzata.
Il Corsaro le porse il braccio
senza pronunciare sillaba e la condusse
in coperta. Durante quei pochi
passi, si fermò però due volte a
guardarla in viso e parve che
soffocasse un lieve sospiro.
- Addio, signora, - le disse,
quando giunsero presso la scala. Ella
gli porse la sua piccola mano e
sussultò sentendola tremare.
- Grazie della vostra ospitalità,
cavaliere, - mormorò la giovane.
Egli s'inchinò in
silenzio e le additò Carmaux e Wan Stiller che
l'attendevano ai piedi della scala.
La giovane scese, seguita dalla
mulatta, ma quando fu in fondo alzò il
capo e vide sopra di sé il
Corsaro Nero curvo sulla murata che la
seguiva collo sguardo.
Balzò nella scialuppa e si
sedette a poppa, a fianco della mulatta,
mentre Carmaux e Wan Stiller
afferravano i remi mettendosi ad
arrancare.
In poche battute la scialuppa
giunse sotto il fianco del vascello di
linea, il quale procedeva
lentamente sulla scia della "Folgore",
tratto a rimorchio.
La giovane fiamminga giunta a
bordo, invece di dirigersi verso il
quadro, salì sul castello
di prora e guardò attentamente verso il
legno filibustiero.
A poppa, presso il timone,
alla luce della luna, vide delinearsi
nettamente la nera figura del
Corsaro, colla sua lunga piuma
ondeggiante alla brezza notturna.
Era là, immobile, con un
piede sulla murata, colla sinistra appoggiata
alla guardia della sua formidabile
spada e la destra sul fianco, cogli
occhi fissi sulla prora della nave
spagnola.
- Guardalo! E' lui! - mormorò
la giovane, curvandosi verso la mulatta
che l'aveva seguita. - E' il
funebre gentiluomo d'oltremare!... Che
strano uomo!...
13.
FASCINI MISTERIOSI
La "Folgore" procedeva
lentamente verso settentrione, per giungere
sulle coste di Santo Domingo e di
là cacciarsi nell'ampio canale
aperto fra quell'isola e quella di
Cuba.
Ostacolata dalla grande corrente
equinoziale o Gulf-Stream che dopo
avere attraversato l'Atlantico
entra con grande impeto nel mare delle
Antille, correndo verso le
spiagge dell'America centrale, per poi
uscire, dopo un giro immenso, dal
Golfo del Messico, presso le isole
Bahama e le coste meridionali
della Florida; ed anche impedita dal
vascello di linea che era costretta
a rimorchiare, non avanzava che
con molto stento, essendo le brezze
leggere.
Fortunatamente il tempo si
manteneva sereno ed era questa una vera
fortuna; diversamente sarebbe
stata costretta ad abbandonare alla
furia delle onde la grossa
preda così a caro prezzo conquistata,
poiché gli uragani che
sconvolgono i mari delle Antille sono così
tremendi, da non potersi fare un
idea della loro potenza.
Quelle regioni che sembrerebbero
benedette dalla natura, quelle isole
opulente, d'una fertilità
prodigiosa, poste sotto un clima che non ha
confronti, e sotto un cielo che
per purezza nulla ha da invidiare a
quello tanto decantato
dell'Italia, a causa dei venti dominanti
dell'est e della corrente
equinoziale, vanno troppo di sovente
soggette a dei cataclismi
spaventosi, che in poche ore le sconvolgono.
Tempeste spaventevoli le colpiscono
di quando in quando, distruggendo
le ricche piantagioni, sradicando
intere foreste, abbattendo città e
villaggi; orribili maremoti alzano
talora bruscamente il mare e lo
precipitano con impeto
irresistibile verso le coste, spazzando via
quanto trovano e trascinando le
navi ancorate nei porti per le
devastate campagne; formidabili
convulsioni del suolo le scuotono
improvvisamente, seppellendo
talvolta fra le macerie migliaia di
persone.
La buona stella però
sorrideva ai filibustieri del Corsaro Nero,
perché come si disse, il
tempo si manteneva splendido, promettendo una
tranquilla navigazione fino alla
Tortue.
La "Folgore" veleggiava
placidamente su quelle acque di smeraldo,
terse quasi come un cristallo
e così trasparenti da permettere di
discernere, alla profondità
di cento braccia, il letto bianchissimo
del Golfo, cosparso di coralli.
La luce, rifrangendosi su
quelle sabbie bianche, rendeva le acque
ancor più limpide, a segno
da far venire le vertigini a chi, non
abituato, avesse voluto guardare
giù.
In mezzo a quella nitida
trasparenza, pesci strani si vedevano
guizzare in tutte le direzioni,
giocherellando, inseguendosi e
divorandosi, e non di rado si
vedevano anche sorgere dal fondo e
salire alla superficie, con un
poderoso colpo di coda, quei terribili
mangiatori di uomini chiamati
zigaene, squali molto affini ai non meno
feroci pesci-cani, lunghi
talvolta venti piedi, colla testa
raffigurante un martello, gli
occhi grossi, rotondi, quasi vitrei
piantati alle estremità e
la bocca enorme ed armata di lunghi denti
triangolari.
Due giorni dopo la presa del
vascello, essendosi alzato un vento
piuttosto forte e favorevolissimo,
la "Folgore" s'avventurava in quel
tratto di mare compreso fra la
Giamaica e la punta occidentale di
Haiti, muovendo rapidamente verso
le coste meridionali di Cuba.
Il Corsaro Nero, dopo essere
stato quasi sempre rinchiuso nella sua
cabina, udendo il pilota segnalare
le alte montagne della Giamaica,
era salito sul ponte.
Era però ancora in preda
a quell'inesplicabile inquietudine, che
l'aveva colto la sera stessa che
aveva invitato nel quadro la giovane
fiamminga.
Non stava un momento fermo.
Passeggiava nervosamente per la
passerella, sempre preoccupato,
senza scambiare una parola con
chicchessia, nemmeno col suo
luogotenente Morgan.
Si trattenne mezz'ora sul ponte,
guardando di tratto in tratto, ma
distrattamente, le montagne
della Giamaica che si disegnavano
nettamente sul luminoso orizzonte,
colle basi che parevano immerse nel
mare; poi discese sulla tolda
rimettendosi a passeggiare fra l'albero
di trinchetto e quello maestro,
colle ampie tese del suo feltro bene
abbassate sulla fronte.
Ad un tratto, come fosse stato
colto da qualche pensiero ed obbedisse
ad una tentazione irresistibile,
risalì sul ponte e ridiscese sul
cassero, fermandosi presso la
murata poppiera.
I suoi sguardi si fissarono subito
sulla prora del vascello spagnolo,
lontano appena sessanta passi,
tanto quanto era lunga la gomena che lo
traeva a rimorchio.
Trasalì e fece atto di
ritirarsi, ma s'arrestò subito, mentre il suo
volto, così cupo,
s'illuminava, ed il suo pallore si tramutava in una
tinta leggermente rosea, tinta però
che durò un solo istante.
Sulla prora del vascello spagnolo,
aveva veduto una forma bianca
appoggiata all'argano. Era la
giovane fiamminga, rinchiusa in un lungo
accappatoio bianco e coi biondi
capelli sciolti sulle spalle in
pittoresco disordine e che la
brezza marina, volta a volta,
scompigliava.
Teneva il capo volto verso la
filibusteria e gli occhi fissi sulla
poppa, o meglio sul Corsaro Nero.
Conservava una immobilità
assoluta, tenendo il mento appoggiato sulle
mani in una posa meditabonda.
Il Corsaro Nero non aveva fatto
alcun cenno, nemmeno di salutarla. Si
era aggrappato alla murata con ambo
le mani, come se avesse paura di
venire strappato di là e
teneva gli occhi fissi su quelli della
giovane.
Pareva che fosse stato
affascinato da quegli sguardi dal lampo
dell'acciaio, poiché si
sarebbe detto che non respirava nemmeno più.
Un tale incanto, strano per un
uomo della tempra del Corsaro, durò un
minuto, poi parve che venisse
bruscamente spezzato.
Il Corsaro, quasi si fosse pentito
di essersi lasciato vincere dagli
occhi della giovane, con un moto
improvviso aveva staccate le mani e
aveva fatto un passo indietro.
Guardò il timoniere che gli
stava a due passi di distanza, poi il
mare, e quindi la velatura della
sua nave e fece altri passi indietro
come se non sapesse decidersi a
perderla di vista, poi tornò a
guardare la giovane fiamminga.
Questa non si era mossa. Sempre
appoggiata all'argano, col mento sulla
destra, il biondo capo inclinato
innanzi, fissava sempre il Corsaro
coi suoi grandi occhi. Un lampo
vivido, irresistibile, si sprigionava
sempre dalle sue pupille che
parevano essere diventate d'una
immobilità vitrea.
Il comandante della "Folgore"
indietreggiava sempre, ma lentamente,
come fosse impotente a sottrarsi
a quel fascino. Era diventato più
pallido che mai e un fremito
scuoteva le sue membra.
Giunto all'estremità del
cassero salì sempre indietreggiando sul ponte
di comando dove si arrestò
alcuni momenti, poi continuò finché andò a
urtare contro Morgan, che stava
terminando il suo quarto di guardia.
- Ah!... Scusate, - gli disse con
fare imbarazzato, mentre un rapido
rossore gli coloriva le guance.
- Guardavate anche voi la tinta del
sole, signore? - gli chiese il
luogotenente.
- Cos'ha il sole?...
- Guardatelo.
Il Corsaro alzò gli
occhi e vide che l'astro diurno, poco prima
sfolgorante, aveva assunta una
tinta rossastra che lo faceva sembrare
una lastra di ferro incandescente.
Si volse verso i monti della
Giamaica e vide le loro cime spiccare con
maggiore nitidezza sul fondo del
cielo, come fossero illuminate da una
luce ben più viva di prima.
Una certa inquietudine si
manifestò subito sul viso del Corsaro ed i
suoi sguardi si volsero verso il
vascello spagnuolo, arrestandosi
ancora sulla giovane fiamminga,
la quale non aveva abbandonato
l'argano.
- Avremo un uragano, - disse poi
con voce sorda.
- Tutto lo indica, signore, -
rispose Morgan. - Non sentite
quest'odore nauseante alzarsi dal
mare?...
- Sì, e vedo che anche
l'aria comincia ad intorbidirsi. Questi sono i
sintomi dei tremendi uragani che
imperversano nelle Antille.
- E' vero, capitano.
- Dovremo perdere la nostra preda?
- Volete un consiglio, signore?
- Parlate, Morgan.
- Fate passare mezzo del nostro
equipaggio sul vascello spagnolo.
- Credo che abbiate ragione. Mi
rincrescerebbe per il mio equipaggio
che quella bella nave andasse a
finire in fondo al mare.
- La duchessa la lascerete là?
- La giovane fiamminga... - disse
il Corsaro aggrottando la fronte.
- Starà meglio sulla nostra
"Folgore", che sul vascello.
- Vi spiacerebbe che andasse a
picco? - chiese il capitano, voltandosi
bruscamente verso Morgan e
guardandolo fisso.
- Penso che quella duchessa può
valere parecchie migliaia di piastre.
- Ah!... E' vero... Deve pagare il
riscatto.
- Volete che la faccia
trasbordare, prima che le onde ce lo
impediscano?
Il Corsaro non rispose. Si era
messo a passeggiare per il ponte come
se fosse preoccupato da un grave
pensiero.
Continuò così alcuni
minuti, poi fermandosi improvvisamente dinanzi a
Morgan, gli chiese a bruciapelo:
- Credete voi che certe donne siano
fatali?...
- Che cosa volete dire?... - chiese
il luogotenente con stupore.
- Sareste voi capace d'amare una
donna senza paura?
- Perché no?
- Non credete che sia più
pericolosa una bella fanciulla che un
sanguinoso abbordaggio?
- Talvolta sì, ma sapete,
comandante, che cosa dicono i filibustieri
ed i bucanieri della Tortue, prima
di scegliersi una compagna tra le
donne che i governi di Francia
e d'Inghilterra mandano qui, per
procurare loro un marito?
- Non mi sono mai occupato dei
matrimoni dei nostri filibustieri, né
di quelli dei bucanieri.
- Dicono loro queste precise
parole: «Di ciò che hai fatto fin qui, o
donna, non ti domando conto e te
ne assolvo, ma dovrai rendermi
ragione di quello che farai d'ora
innanzi» e battono sulla canna del
loro fucile, aggiungendo: «ecco
chi mi vendicherà, e se fallirai tu,
non potrà fallire questo».
Il Corsaro Nero alzò le
spalle, dicendo:
- Eh! Io intendevo parlare di
donne ben diverse da quelle che ci
mandano a forza i governi
d'oltremare.
Si fermò un istante, quindi
indicando la giovane duchessa che era
ancora allo stesso posto, continuò:
- Che cosa dite di quella
fanciulla, luogotenente?
- Che è una delle più
splendide creature che si siano mai vedute in
questi mari delle grandi Antille.
- Non vi farebbe paura?...
- Quella fanciulla?... No di certo.
- Ed a me sì, luogotenente.
- A voi? A colui che si chiama il
Corsaro Nero? Volete scherzare,
comandante?
- No, - rispose il filibustiere.
- Leggo talvolta nel mio destino, e
poi una zingara del mio paese mi
predisse che la prima donna che io
avessi amata mi sarebbe stata
fatale.
- Ubbie, capitano.
- Ma che cosa direste se
aggiungessi che quella zingara aveva predetto
ai miei tre fratelli che uno
sarebbe morto in un assalto per opera di
un triste tradimento e gli altri
due appiccati? Voi sapete se quella
funebre predizione si è
avverata.
- E poi?...
- Che sarei morto in mare, lontano
dalla mia patria, per opera della
donna amata.
- "By God"!... - mormorò
Morgan, rabbrividendo. - Ma quella zingara
può ingannarsi sul quarto
fratello.
- No, - rispose il Corsaro con voce
tetra.
Scosse il capo, stette un istante
meditabondo, quindi aggiunse:
- E sia!...
Scese dal ponte di comando, andò
a prora dove aveva veduto l'africano
discorrere con Carmaux e Wan
Stiller e gridò loro:
- In acqua la gran scialuppa.
Conducete a bordo del mio legno la
duchessa di Weltendrem e il suo
seguito.
Mentre i due filibustieri e
l'africano s'affrettavano ad ubbidire,
Morgan sceglieva trenta marinai per
mandarli di rinforzo a quelli che
si trovavano già sul
vascello di linea, prevedendo che ben presto
sarebbe stato necessario il taglio
della gomena di rimorchio.
Un quarto d'ora dopo Carmaux ed i
suoi compagni erano di ritorno. La
duchessa fiamminga, le sue donne e
i due paggi salirono a bordo della
"Folgore", sulla cui
scala li attendeva il Corsaro.
- Avete qualche urgente
comunicazione da farmi, cavaliere? - chiese la
giovane, guardandolo negli occhi.
- Sì, signora, - rispose il
Corsaro, inchinandosi dinanzi a lei.
- E quale se non vi rincresce?
- Che saremo costretti ad
abbandonare il vascello alla sua sorte.
- Per qual motivo? Siamo forse
inseguiti?...
- No, è l'uragano che ci
minaccia e che mi costringe a fare tagliare
la gomena di rimorchio. Voi forse
non conoscete le furie tremende di
questo Gran Golfo, quando il vento
lo scuote.
- E vi preme non perdere la vostra
prigioniera, è vero, cavaliere? -
disse la fiamminga, sorridendo.
- La mia "Folgore" è
più sicura del vascello.
- Grazie della vostra gentilezza,
cavaliere.
- Non ringraziatemi, signora,
- rispose il Corsaro con aria
meditabonda. - Forse quest'uragano
può essere fatale a qualcuno.
- Fatale!... - esclamò la
duchessa con sorpresa. - E a chi?
- Lo si vedrà!
- Ma perché?...
- Tutto è nelle mani del
destino.
- Temete anche per la vostra nave?
Un sorriso apparve sulle labbra del
Corsaro.
- La mia "Folgore" è
tale legno da sfidare le folgori del cielo e le
ire del mare, ed io sono tale uomo
da guidarla attraverso le onde ed i
venti.
- Lo so, ma...
- E' inutile che insistiate
per avere una maggiore spiegazione,
signora. A questo penserà la
sorte.
Le additò il quadro di poppa
e levandosi il cappello continuò:
- Accettate l'ospitalità che
vi offro, signora. Io vo a sfidare la
morte ed il mio destino.
Si rimise il cappello in capo e
salì sul ponte di comando, mentre la
calma che fino allora regnava sul
mare si rompeva bruscamente, come se
dalle Piccole Antille venissero
cento trombe di vento.
Le scialuppe che avevano condotti a
bordo del vascello di linea i
trenta marinai, erano tornate e
l'equipaggio stava issandole sulle gru
della "Folgore".
Il Corsaro, salito sul ponte di
comando, dove già lo aveva preceduto
Morgan, s'era messo ad osservare il
cielo dalla parte di levante.
Una grande nuvola assai oscura, coi
margini tinti d'un rosso di fuoco,
saliva rapidamente sull'orizzonte,
spinta senza dubbio da un vento
irresistibile, mentre il sole,
quasi prossimo al tramonto, diventava
sempre più oscuro, come se
una nebbia si fosse frapposta fra la terra
ed i suoi raggi.
- Ad Haiti l'uragano di già
infuria, - disse il Corsaro a Morgan.
- E le Piccole Antille a quest'ora
sono forse devastate, - aggiunse il
luogotenente. - Fra un'ora anche
questo mare diverrà spaventoso.
- Che cosa fareste voi nel mio
caso?
- Cercherei un rifugio alla
Giamaica.
- La mia "Folgore"
fuggire dinanzi all'uragano!... - esclamò il
Corsaro con fierezza. - Oh!...
Mai!...
- Ma voi sapete, signore, quanto
siano formidabili gli uragani delle
Antille.
- Lo so, ed io sfiderò
anche questo. Sarà il vascello di linea che
andrà a cercare salvezza su
quelle coste, ma non la mia "Folgore". Chi
comanda i nostri uomini imbarcati
sulla nave spagnola?...
- Mastro Wan Horn.
- Un brav'uomo, che un giorno
diverrà un filibustiere di buona fama
. Saprà trarsi d'impiccio
senza perdere la preda.
Scese sul cassero, tenendo in mano
un portavoce e, salito sulla murata
poppiera, gridò con voce
tonante.
- Tagliate la gomena di
rimorchio!... Mastro Wan Horn, poggiate sulla
Giamaica!... Noi vi aspetteremo
alla Tortue!...
- Sta bene comandante, - rispose il
mastro, che si trovava sulla prora
del vascello, in attesa degli
ordini.
S'armò di una scure e con un
solo colpo recise la gomena di rimorchio,
poi, volgendosi verso i suoi
marinai, gridò levandosi il berretto:
- Alla grazia di Dio!...
Il vascello spiegò le sue
vele sul trinchetto e sulla mezzana, non
potendo più contare sul
maestro e virò di bordo, allontanandosi verso
la Giamaica, mentre la "Folgore"
s'inoltrava arditamente fra le coste
occidentali d'Haiti e quelle
meridionali di Cuba, nel cosiddetto
canale di Sopravvento.
L'uragano si avvicinava rapido.
La calma era stata bruscamente
spezzata da furiosi colpi di
vento, che venivano dalla parte delle
Piccole Antille, mentre le onde si
formavano rapidamente assumendo un
aspetto pauroso.
Pareva che il fondo del mare
ribollisse, poiché si vedevano formarsi
alla superficie come dei gorghi
spumeggianti, mentre sprazzi d'acqua
s'alzavano impetuosamente in
forma di colonne liquide, le quali poi
ricadevano con grande fracasso.
La nuvola nera intanto saliva
rapida, invadendo il cielo,
intercettando completamente la
luce crepuscolare, e le tenebre
piombavano sul mare tempestoso,
tingendo i flutti d'un colore quasi
nero, come se a quelle acque si
fossero mescolati torrenti di bitume.
Il Corsaro, sempre tranquillo e
sereno, non sembrava che si occupasse
dell'uragano. I suoi sguardi
seguivano invece il vascello di linea,
che si vedeva capeggiare fra le
onde e che stava per sparire sul fosco
orizzonte, in direzione della
Giamaica.
Forse era un po' inquieto per
quella nave, che sapeva trovarsi in
cattive condizioni, per potere
affrontare i tremendi colpi di vento
dell'uragano, ma non di certo per
la sua "Folgore".
Quando il vascello scomparve, scese
sul cassero e allontanò il pilota,
dicendo:
- A me la barra!... La mia
"Folgore" voglio guidarla io!...
14.
GLI URAGANI DELLE ANTILLE
L'uragano, devastate le Piccole
Antille, che sono le prime a ricevere
quei tremendi urti, facendo argine
alle onde dell'Atlantico, che i
venti di levante scagliano,
con foga irresistibile, contro il
continente americano e quindi
addosso a Portorico e ad Haiti, si
rovesciava allora nel canale di
Sopravvento, con quella foga ben nota
ai naviganti del Golfo del Messico
e del Mar Caraybo.
Alla luce chiara e brillante della
zona equatoriale era successa una
notte cupa, poiché nessun
lampo ancora la illuminava, una di quelle
notti che mettono paura ai più
audaci naviganti. Non si vedeva che la
spuma dei marosi, la quale pareva
fosse diventata fosforescente.
Un fulmine d'acqua e di vento
spazzava il mare, con impeto
irresistibile. Raffiche furiose si
succedevano le une alle altre, con
mille fischi e mille ruggiti
paurosi, facendo crepitare le vele della
nave e curvando perfino la solida
alberatura.
In aria si udiva un fracasso
strano che cresceva di momento in
momento. Pareva che mille carri
carichi di ferraglie corressero pel
cielo, tirati a corsa
precipitosa, o che dei pesanti convogli
filassero a tutto vapore sopra dei
ponti metallici.
Il mare era diventato orrendo. Le
onde, alte come montagne, correvano
da levante a ponente, rovesciandosi
le une addosso alle altre con cupi
muggiti e con scrosci formidabili,
schizzando in alto cortine di spuma
fosforescente. S'alzavano
tumultuosamente, come se subissero una
spinta immensa dal basso in alto,
poi tornavano a scendere, scavando
dei baratri così immensi,
che pareva dovessero toccare il fondo del
Golfo.
La "Folgore", colla
velatura ridotta a minime proporzioni, non avendo
conservato che i fiocchi e le due
vele di trinchetto e di maestra, con
tre mani di terzaruoli, aveva
impegnata valorosamente la lotta.
Pareva un fantastico uccello
che radesse le onde. Ora saliva
intrepidamente quelle montagne
mobili, scorrendo fra due fasce di
spuma gorgogliante, come se
volesse speronare la nera massa delle
nubi, ed ora scendeva fra
quelle pareti limpide, come se volesse
giungere fino nel fondo del mare.
Rollava disperatamente, tuffando
talora la estremità dei suoi pennoni
di trinchetto e di maestra nella
spuma, ma i suoi fianchi poderosi non
cedevano all'urto formidabile dei
cavalloni.
Attorno ad essa, perfino sulla
sua tolda, cadevano, ad intervalli,
rami d'alberi, frutta d'ogni
specie, canne da zucchero ed ammassi di
foglie che volteggiavano sulle ali
del turbine, strappate dai boschi e
dalle piantagioni della vicina
isola di Haiti, mentre veri zampilli
d'acqua precipitavano scrosciando
dalle tempestose nubi, scorrendo a
furia per il tavolato e
sfogandosi a gran pena attraverso gli
ombrinali.
Ben presto però alla notte
cupa successe una notte di fuoco. Lampi
abbaglianti rompevano le tenebre,
illuminando il mare e la nave d'una
luce livida, mentre fra le nubi
scrosciavano tremendi tuoni, come se
lassù si fosse impegnato un
duello fra cento pezzi d'artiglieria.
L'aria era diventata così
satura d'elettricità che centinaia di
scintille sprizzavano dalle gomene
della "Folgore", mentre il fuoco di
Sant'Elmo scintillava sulle punte
degli alberi, alla estremità dei
mostraventi.
L'uragano toccava allora la sua
massima intensità.
Il vento aveva acquistata una
velocità fulminea, forse di quaranta
metri al minuto secondo e
ruggiva tremendamente, sollevando vere
trombe d'acqua, che poi
travolgevano vertiginosamente, e vere cortine
che poi polverizzava.
I fiocchi della "Folgore",
strappati dal vento, erano stati portati
via e la vela di trinchetto,
sventrata di colpo, terminava di
sbrindellarsi, ma quella maestra
resisteva tenacemente.
La nave, travolta dai flutti e
dalle raffiche, fuggiva con una
velocità spaventosa, in
mezzo ai lampi ed alle trombe d'acqua.
Pareva che ad ogni istante
dovesse venire subissata e cacciata a
fondo; invece si risollevava
sempre, scuotendo i marosi che le
urlavano d'intorno e la spuma che
la copriva.
Il Corsaro Nero, ritto a
poppa, alla barra, la guidava con mano
sicura. Irremovibile fra le furie
del vento, impassibile fra l'acqua
che lo inondava, sfidava
intrepidamente la collera della natura cogli
occhi accesi ed il sorriso sulle
labbra.
La sua nera figura spiccava fra i
lampi, assumendo in certi momenti
proporzioni fantastiche.
Le folgori scherzavano a lui
intorno tracciando le loro linee di
fuoco; il vento lo investiva,
strappando pezzo a pezzo la lunga piuma
del suo cappello; la spuma
volta a volta lo copriva, tentando di
abbatterlo; i tuoni sempre più
formidabili l'assordavano, ma egli
rimaneva impavido al suo posto,
guidando sempre la sua nave attraverso
le onde e le raffiche.
Pareva un genio del mare,
sorto dagli abissi del Gran Golfo, per
misurare le proprie forze contro
quelle della natura scatenata.
I suoi marinai, come la notte
dell'abbordaggio, quando lanciava la
"Folgore" addosso al
vascello di linea, lo guardavano con
superstizioso terrore, e si
chiedevano se quell'uomo era veramente un
mortale al pari di loro od un
essere soprannaturale, che né le
mitraglie, né le spade, né
gli uragani potevano abbattere. Ad un
tratto, quando i marosi
irrompevano con maggior rabbia sui bordi del
veliero, si vide il Corsaro
scostarsi un istante dalla barra, come se
avesse voluto precipitarsi verso
la scaletta di babordo del cassero e
fare un gesto di sorpresa e
fors'anche di terrore.
Una donna era uscita allora
dal quadro e saliva sul cassero,
aggrappandosi alla branca della
scala con suprema energia, onde non
venire rovesciata dalle scosse
disordinate della nave.
Era tutta avvolta in un pesante
vestito di panno di Catalogna, però
aveva il capo scoperto ed il
vento faceva volteggiare in aria i
superbi capelli biondi!
- Signora! - gridò il
Corsaro, che aveva subito riconosciuta in quella
donna la giovane fiamminga. - Non
vedete che qui vi è la morte?
La duchessa non rispose, gli fece
un cenno della mano che pareva
volesse dire:
- Non mi fa paura.
- Ritiratevi, signora, - disse
il Corsaro, che era diventato più
pallido del solito.
Invece di obbedire la coraggiosa
fiamminga si issò sul cassero, lo
attraversò tenendosi
aggrappata alla barra della randa e si
rincantucciò fra la murata e
la poppa della grande scialuppa la quale
era stata calata dalle gru per
impedire alle onde di portarla via.
Il Corsaro le fece cenno di
ritirarsi, ma ella fece col capo un
energico gesto di diniego.
- Ma qui vi è la morte!... -
le ripeté. - Tornate nel quadro, signora!
- No, - rispose la fiamminga.
- Ma che cosa venite a fare qui?
- Ad ammirare il Corsaro Nero.
- Ed a farvi portar via dalle onde.
- Che importa a voi?...
- Ma io non voglio la vostra morte,
mi capite, signora! - gridò il
Corsaro, con un tono di voce,
nel quale si sentiva vibrare per la
prima volta un impeto appassionato.
La giovane sorrise, però non
si mosse. Rannicchiata in quel cantuccio,
colle mani strette attorno al
suo pesante vestito, coi capelli
svolazzanti, si lasciava bagnare
dall'acqua che irrompeva sul cassero,
senza staccare gli occhi dal
Corsaro.
Questi, avendo compreso che tutto
sarebbe stato inutile, e forse lieto
di vedersi quasi vicina quella
coraggiosa giovane, che era salita
lassù sfidando la morte, per
ammirare la sua audacia, non le aveva più
ripetuto l'ordine di abbandonare il
cassero. Quando l'uragano lasciava
alla sua nave un istante di
tregua, volgeva gli occhi verso la
duchessa e forse involontariamente
le sorrideva. Certo si ammiravamo
entrambi.
Tutte le volte che la guardava, i
suoi occhi s'incontravano subito in
quelli di lei, che avevano
acquistata una immobilità quasi vitrea,
come al mattino quand'ella si
trovava sulla prora del vascello di
linea.
Quegli occhi però, dai
quali emanava un fascino misterioso, mettevano
indosso all'intrepido filibustiere
un turbamento, che egli non sapeva
spiegarsi. Anche quando non la
guardava, sentiva che essa non lo
perdeva di vista un solo istante e
provava un desiderio irresistibile
di volgere il capo verso
quell'angolo della nave.
Vi fu anzi un momento, in cui
le onde si rovesciavano con maggior
impeto sulla "Folgore",
che ebbe paura di quello sguardo, poiché le
gridò:
- Non guardatemi così,
signora!... Giuochiamo la vita!
Quel fascino inesplicabile subito
cessò. La giovane chiuse gli occhi
ed abbassò il capo,
coprendosi il volto colle mani.
La "Folgore" si trovava
allora presso le sponde di Haiti. Alla luce
dei lampi eransi vedute
delinearsi delle alte coste fiancheggiate da
pericolose scogliere, contro le
quali poteva frantumarsi la nave. La
voce del Corsaro echeggiò
tosto fra i muggiti delle onde e gli urli
del ventaccio.
- Una vela di ricambio sul
trinchetto!... Fuori i fiocchi!
Il mare, quantunque il vento lo
spingesse verso le coste meridionali
di Cuba, era spaventoso anche
presso quelle di Haiti. Ondate di fondo,
alte quindici o sedici metri,
si formavano attorno alle scogliere,
provocando delle contro-ondate
terribili.
La "Folgore" però
non cedeva. La vela di ricambio era stata spiegata
sul pennone di trinchetto ed i
fiocchi erano stati ricollocati sul
bompresso, e filava sotto la costa
come uno "steamer" lanciato a tutto
vapore.
Di quando in quando i marosi la
rovesciavano impetuosamente, ora sul
babordo ed ora sul tribordo,
tuttavia il Corsaro con un vigoroso colpo
di barra la risollevava,
rimettendola sulla buona via.
Fortunatamente l'uragano, dopo
aver raggiunta la sua massima
intensità, accennava a
diminuire di violenza poiché ordinariamente
quelle tempeste tremende non durano
che poche ore.
Le nubi cominciavano qua e là
a rompersi, lasciando intravvedere
qualche stella ed il vento non
soffiava più colla violenza primiera.
Nondimeno il mare si manteneva
burrascosissimo e molte ore dovevano
trascorrere prima che quelle grandi
ondate, scagliate dall'Atlantico
entro il Grande Golfo, si
calmassero e si livellassero.
Tutta la notte, la nave corsara
lottò disperatamente contro i marosi,
che l'assalivano da tutte le
parti, riuscendo a superare
vittoriosamente il canale di
Sopravvento ed a sboccare in quel tratto
di mare compreso fra le Grosse
Antille e l'Isola di Bahama.
All'alba, quando il vento era
girato da levante a settentrione, la
"Folgore" si trovava
quasi di fronte al Capo Taitiano.
Il Corsaro Nero, che doveva essere
affranto da quella lunga lotta, e
che aveva le vesti inzuppate
d'acqua, quando poté discernere il
piccolo faro della cittadella del
Capo, rimise la ribolla del timone a
Morgan, poi si diresse verso la
grande scialuppa, presso la cui poppa
si trovava ancora rannicchiata la
giovane fiamminga e le disse:
- Venite, signora: vi ho ammirato
anch'io e credo che nessuna donna
avrebbe affrontata la morte
come avete fatto voi per vedere la mia
"Folgore" lottare
coll'uragano.
La giovane si era alzata,
scuotendosi di dosso l'acqua che le aveva
inzuppate le vesti non solo, ma
anche i capelli. Guardò il Corsaro
negli occhi, sorridendo poi gli
disse:
- Può darsi che nessuna
donna avrebbe osato salire in coperta, ma
posso dire che io sola ho veduto
il Corsaro Nero guidare la sua nave,
in mezzo ad uno dei più
tremendi uragani, ed ho ammirato la sua forza
e la sua audacia.
Il filibustiere non rispose. Era
rimasto dinanzi a lei guardandola con
due occhi ardenti mentre la
sua fronte pareva che fosse diventata
cupa.
- Siete una valorosa, - mormorò
poi, ma così sommessamente da venire
udito solamente da lei.
Poi sospirando aggiunse:
- Peccato che la triste profezia
della zingara faccia di voi una donna
fatale.
- Di quale profezia volete
parlare?... - chiese la giovane con
stupore.
Il Corsaro invece di rispondere
scosse tristamente il capo,
mormorando:
- Sono follie!
- Sareste superstizioso,
cavaliere?...
- Forse.
- Voi?
- Ehi!... Le predizioni talora
s'avverano, signora.
Guardò le onde che venivano
ad infrangersi contro i fianchi della nave
con cupi muggiti e mostrandole alla
giovane, disse con voce triste:
- Domandatelo a loro, se lo
potete... entrambi erano belli, giovani,
forti ed audaci e dormono sotto
quelle onde, in fondo al mare. La
funebre profezia si è
avverata e forse si avvererà anche la mia perché
sento che qui, nel cuore, una
fiamma s'alza gigante, senza che io la
possa ormai più spegnere.
Sia!... Si compia il fatale destino se così
è scritto: il mare non
mi fa paura e dove dormono i fratelli miei
potrò trovar posto anch'io,
ma più tardi, quando il traditore mi avrà
preceduto.
Alzò le spalle, fece con
ambe le mani un gesto di minaccia, poi scese
dal cassero lasciando la giovane
fiamminga più stupita che mai, per
quelle parole che non poteva ancora
comprendere.
Tre giorni dopo, quando il mare
era ormai diventato tranquillo, la
"Folgore", spinta da
venti favorevoli, giungeva in vista della Tortue,
il formidabile nido dei
filibustieri del Gran Golfo.
15.
LA FILIBUSTERIA
Nel 1625, mentre la Francia e
l'Inghilterra tentavano, con guerre
incessanti, di domare la possanza
ormai formidabile della Spagna, due
vascelli, francese l'uno ed
inglese l'altro, montati da intrepidi
corsari recatisi nel mare delle
Antille per danneggiare i commerci
fiorenti delle colonie
spagnole, gettavano l'ancora, quasi
contemporaneamente, dinanzi ad
un'isoletta chiamata di San Cristoforo,
abitata solamente da qualche tribù
di Caribbi.
I francesi erano capitanati da
un gentiluomo normanno, chiamato
d'Enanbue, e gl'inglesi dal
cavaliere Tommaso Warner.
Trovata l'isola fertile e gli
abitanti docili, i corsari vi si
stabilivano placidamente,
dividendosi fraternamente quel brano di
terra e fondando due piccole
colonie. Da cinque anni quei pochi uomini
vivevano tranquilli coltivando il
suolo, avendo ormai rinunciato a
corseggiare il mare, quando un
brutto giorno, comparsa improvvisamente
una squadra spagnola,
distruggeva buona parte dei coloni unitamente
alle abitazioni, considerando gli
spagnoli tutte le isole del Golfo
del Messico come di loro assoluta
proprietà.
Alcuni di quei coloni, sfuggiti
alla rabbia spagnola, riuscivano a
salvarsi su di un altra isoletta
chiamata la Tortue (Tartaruga) perché
veduta ad una certa distanza
rassomigliava un po' a quei rettili,
situata a settentrione di San
Domingo, quasi di fronte alla penisola
di Samana, e fornita d'un comodo
porto, facile a difendersi.
Quei pochi corsari furono i
creatori di quella razza formidabile di
filibustieri che doveva, in breve,
far stupire il mondo intero colle
sue straordinarie, incredibili
imprese.
Mentre alcuni si dedicavano
alla coltivazione del tabacco, che
riusciva eccellente su quel
terreno vergine, altri, smaniosi di
vendicarsi della distruzione delle
due piccole colonie, si mettevano a
corseggiare il mare a danno degli
spagnoli, montando dei semplici
canotti.
La Tortue divenne presto un centro
importante, essendo accorsi molti
avventurieri francesi ed inglesi
dalla vicina San Domingo e
dall'Europa, colà mandati
specialmente da armatori normanni.
Quella gente, composta
specialmente di spostati, di soldati e di
marinai avidi di bottino, colà
attirati dalla smania di far fortuna e
di mettere le mani sulle ricche
miniere dalle quali la Spagna traeva
fiumi d'oro, non trovando in
quell'isoletta quanto avevano sperato, si
mettevano a scorrazzare arditamente
il mare, tanto più che le loro
nazioni erano in continua guerra
col colosso iberico.
I coloni spagnoli di San Domingo,
vedendo i loro commerci danneggiati,
pensarono bene di sbarazzarsi
subito di quei ladroni e colto il
momento in cui la Tortue era
rimasta quasi senza guarnigione,
mandarono grandi forze ad
assalirla. La presa fu facile e quanti
filibustieri caddero nelle mani
degli spagnoli, furono trucidati o
impiccati.
I filibustieri che si trovavano in
mare a corseggiare, appena appresa
la strage fatta, giurarono di
vendicarsi, e sotto il comando di
Willes, dopo una lotta
disperata, riconquistarono la loro isola,
uccidendo tutto il presidio, ma
fra i coloni sorsero allora aspri
dissidi, essendo i francesi più
numerosi degli inglesi, sicché ne
approfittarono gli spagnoli per
piombare un'altra volta sulla Tortue,
e cacciarne gli abitanti, che
furono costretti a riparare nei boschi
di San Domingo.
Come i primi coloni di San
Cristoforo erano stati i creatori della
filibusteria, i fuggiaschi della
Tortue furono i fondatori della
bucaneria. Seccare e affumicare
le pelli degli animali uccisi,
esprimevasi dai Caribbi col
vocabolo di "bucan" e da questo venne il
titolo di bucanieri.
Quegli uomini, che dovevano
diventare più tardi i più valorosi alleati
dei filibustieri, vivevano come
i selvaggi sotto misere capanne
improvvisate con pochi rami.
Per vestito non avevano che una
camicia di grossa tela, lorda sempre
di sangue, un paio di calzoni
grossolani, una larga cintura sostenente
una corta sciabola e due
coltellacci, scarpe di pelle di maiale ed un
cappellaccio.
Non avevano che una sola
ambizione: possedere un buon fucile ed una
muta numerosa di grossi cani.
Uniti due a due, per potersi
scambievolmente aiutare, non avendo
famiglia, all'alba partivano
per la caccia, affrontando
coraggiosamente i buoi selvaggi che
erano numerosissimi nelle selve di
San Domingo, e non tornavano che
alla sera carichi ognuno di una pelle
e d'un pezzo di carne per pasto.
Per colazione si accontentavano di
succhiare la midolla d'uno degli
ossi maggiori.
Uniti in confederazione,
cominciarono a dar noia agli spagnoli i quali
si posero a perseguitarli come
bestie feroci, e non riuscendo a
distruggerli, con grandi battute
sterminarono tutti i buoi selvatici,
riducendo quei poveri cacciatori
nell'impossibilità di vivere.
Fu allora che i bucanieri ed i
filibustieri si unirono col titolo di
fratelli della Costa e fecero
ritorno alla Tortue, ma in preda ad un
desiderio insaziabile di vendicarsi
degli spagnoli.
Quei valenti cacciatori che mai
mancavano ai loro colpi, tanto erano
abili bersaglieri, portarono un
aiuto potente alla filibusteria, la
quale prese tosto uno sviluppo
immenso.
La Tortue prosperò
rapidamente e divenne il covo di tutti gli
avventurieri di Francia,
d'Olanda, dell'Inghilterra e di altre
nazioni, specialmente sotto la
direzione di Beltrando d'Orgeron,
mandatovi dal governo francese come
governatore.
Essendo ancora scoppiata la
guerra colla Spagna, i filibustieri
cominciarono le loro prime audaci
imprese, assalendo, con coraggio
disperato, tutte le navi spagnole
che potevano sorprendere.
Dapprima non avevano che delle
misere scialuppe, entro le quali appena
potevano muoversi, ma più
tardi ebbero navi eccellenti prese ai loro
eterni nemici.
Non possedendo cannoni, erano i
bucanieri che si incaricavano di
pareggiare le forze ed essendo,
come fu detto, infallibili
bersaglieri, bastavano poche
scariche per distruggere gli equipaggi
spagnoli. La loro audacia era poi
tale, che osavano affrontare i più
grossi vascelli, montando
all'abbordaggio con vero furore. Né la
mitraglia, né le palle, né
le più ostinate resistenze li trattenevano.
Erano dei veri demoni, e come tali
li credevano in buona fede gli
spagnoli, ritenendoli esseri
infernali.
Di rado accordavano quartiere
ai vinti, come d'altronde non lo
concedevano i loro avversari.
Non serbavano che le persone di
distinzione per ricavare poi
dei grossi riscatti, ma gli altri li
cacciavano in acqua. Erano lotte
di sterminio d'ambo le parti, senza
generosità.
Quei ladroni di mare però
avevano leggi che rispettavano
rigorosamente, forse meglio dei
loro connazionali. Avevano eguali
diritti e solamente nelle
divisioni dei bottini i capi avevano una
parte maggiore.
Appena venduto il frutto delle loro
scorrerie, prelevavano prima i
premi destinati ai più
valorosi ed ai feriti. Così concedevano una
certa somma a coloro che per primi
balzavano sul legno abbordato ed a
chi strappava la bandiera nemica;
avevano ricompense pure coloro che,
in circostanze pericolose,
riuscivano a procurasi notizie sulle mosse
o sulle forze degli spagnoli.
Concedevano inoltre un regalo di
seicento piastre a chi
nell'assalto perdeva il braccio destro;
cinquecento era valutato il
braccio sinistro, quattrocento una gamba
ed ai feriti assegnavano una
piastra al giorno per due mesi.
A bordo delle navi corsare, poi,
avevano leggi severe che li tenevano
in freno. Punivano colla morte
coloro che abbandonavano il loro posto
durante i combattimenti: era
proibito bere vino o liquori dopo le otto
della sera, ora fissata pel
coprifuoco; erano proibiti i duelli, gli
alterchi, i giuochi d'ogni
specie e punivano colla morte coloro che
avessero, di nascosto, condotta
sulla nave una donna, fosse pure la
loro moglie.
I traditori venivano abbandonati
su isole deserte e del pari coloro
che nelle divisioni dei bottini si
fossero appropriati del più piccolo
oggetto; ma si narra che rarissimi
fossero i casi, poiché quei corsari
erano d'una onestà a tutta
prova.
Divenuti padroni di parecchie
navi, i filibustieri si fecero più
audaci e non trovando più
velieri da predare, avendo gli spagnoli
cessato ogni commercio fra le
loro isole, cominciarono le grandi
imprese.
Montbars fu il primo dei loro
condottieri salito in gran fama. Questo
gentiluomo languedochese accorse in
America per vendicare i poveri
indiani sterminati dai primi
conquistatori spagnoli; al pari di tanti
altri accesosi d'un odio violento
contro la Spagna, per le atrocità
commesse dal Cortez nel Messico
e dal Pizzarro ed Almagro nel Perù,
divenne così tremendo da
venire chiamato lo Sterminatore.
Ora alla testa dei filibustieri ed
ora coi bucanieri, portò la strage
sulle coste di San Domingo e di
Cuba, trucidando un gran numero di
spagnoli.
Dopo di lui salirono in fama
Pierre-le-Grand, un francese di Dieppe.
Quest'audace marinaio, incontrato
un vascello di linea spagnolo
navigante presso il capo Tiburon,
quantunque non avesse che ventotto
uomini, lo assaltò dopo aver
fatto forare il proprio legno calandolo a
fondo per togliere ai suoi marinai
ogni speranza di fuggire.
Fu tale la sorpresa degli
spagnoli nel vedere salire dal mare quegli
uomini, che si arresero dopo una
breve resistenza, credendo d'aver da
fare con spiriti marini.
Lewis Scott invece, con poche
squadre di filibustieri, va ad assalire
San Francesco di Campeche, città
ben munita e la prende e la pone a
sacco; John Davis con novanta soli
uomini va a prendere Nicaragua, poi
Santo Agostino della Florida;
Braccio di ferro, un normanno, perde la
sua nave presso le bocche
dell'Orenoco a causa d'un fulmine che gli
incendia la Santa Barbara,
resiste fieramente agli assalti dei
selvaggi, poi un giorno, veduta
approdare una nave spagnola, con pochi
uomini l'assalta di sorpresa.
Altri però, più famosi e più audaci
vennero più tardi.
Pierre Nau, detto l'Olonese,
diventa il terrore degli spagnoli, e dopo
più di cento vittorie
finisce miseramente la sua lunga carriera nel
ventre dei selvaggi del Darien,
dopo essere passato sulla graticola.
Grammont, gentiluomo francese,
gli succedette nella celebrità,
assaltando con poche squadre di
filibustieri e di bucanieri Maracaybo,
poi Porto Cavallo, sostenendo
con quaranta compagni l'assalto di
trecento spagnoli, poi Vera-Cruz,
in unione di Wan Horn e di Laurent,
due altri famosi corsari.
Il più famoso di tutti però
doveva diventare Morgan, il luogotenente
del Corsaro Nero. Messosi alla
testa di una grossa partita di
filibustieri inglesi, comincia la
sua brillante carriera colla presa
di Puerto del Prince nell'isola di
Cuba; riuniti nove bastimenti va ad
assalire e saccheggiare Portobello,
malgrado la resistenza terribile
degli spagnoli ed il fuoco
infernale dei loro cannoni, poi ancora
Maracaybo, e finalmente
attraversato l'istmo, dopo immense peripezie e
lotte sanguinose, Panama, che
incendia dopo aver fatto un bottino di
444 mila libbre d'argento
massiccio.
Sharb, Harris e Samwkins, tre
audaci, riuniti in società, saccheggiano
Santa Maria, poi memori
della celebre spedizione di Morgan,
attraversano a loro volta l'istmo
compiendo miracoli d'audacia, e,
sgominando dovunque le forze
spagnole quattro volte superiori alle
loro, vanno ad annidarsi
nell'Oceano Pacifico dove, possessori di
alcuni vascelli, distruggono,
dopo nove ore di terribile lotta, la
squadra spagnola, che si era
difesa con valore disperato, fanno
tremare Panama, corseggiano le
coste di Messico e del Perù prendendo
d'assalto Ylo e Serena, e tornano
alle Antille passando per lo stretto
di Magellano.
Altri ancora ne successero, del
pari audaci, ma forse meno fortunati,
quali Montabon, il Basco, Jonqué,
Cichel, Dronage, Grogner, Davis,
Tusley Wilmet, i quali
continuarono le meravigliose imprese dei primi
filibustieri, corseggiando nelle
Antille e nell'Oceano Pacifico,
finché la Tortue, perduta
la sua importanza, decadde e con essa
decaddero pure i filibustieri,
sciogliendosi.
Alcuni andarono a piantare una
colonia nelle Bermude e per alcuni anni
fecero ancora parlare di loro e
tremare i coloni delle Grandi e delle
Piccole Antille, ma ben presto si
sciolsero anche quelle ultime bande
e quella razza d'uomini
formidabili finì collo scomparire
completamente.
16.
ALLA TORTUE
Quando la "Folgore" gettò
l'ancora nel sicuro porto, al di là dello
stretto canale che lo metteva
al coperto da qualsiasi improvvisa
sorpresa da parte delle squadre
spagnole, i filibustieri della Tortue
erano in piena baldoria,
essendo gran parte di essi reduci dalle
scorrerie fatte sulle coste di San
Domingo e di Cuba, dove avevano
fatte ricche prede sotto la
condotta dell'Olonese e di Michele il
Basco.
Dinanzi alla gettata e sulla
spiaggia, sotto vaste tende all'ombra
fresca delle palme, quei
terribili predatori banchettavano
allegramente, consumando, con una
prodigalità da nababbi, la loro
parte di bottino.
Tigri sul mare, quegli uomini
diventavano a terra i più allegri di
tutti gli abitanti delle Antille,
e, cosa davvero strana, fors'anco i
più cortesi poiché
alle loro feste non mancavano di invitare i
disgraziati spagnoli, che avevano
tratti prigionieri colla speranza di
lauti riscatti ed anche le
prigioniere, verso le quali si comportavano
da veri gentiluomini,
ingegnandosi, con ogni specie di cortesie, di
far loro dimenticare la loro triste
condizione. Diciamo triste, poiché
i filibustieri, se i riscatti
chiesti non giungevano, ricorrevano di
frequente a mezzi crudeli per
ottenerli, mandando ai governatori
spagnoli qualche testa di
prigioniero per costringerli ad affrettarsi.
Ancoratasi la nave, tutti quei
corsari interruppero i loro banchetti,
le danze ed i giuochi, per
salutare con fragorosi evviva il ritorno
del Corsaro Nero, che godeva fra
di loro una popolarità pari forse a
quella del famoso Olonese.
Nessuno ignorava l'ardita sua
impresa, per strappare al governatore di
Maracaybo, vivo o morto, il
povero Corsaro Rosso, e conoscendo per
prova la sua audacia, forse si
erano illusi di vederli ritornare
entrambi.
Vedendo però scendere a
mezz'asta la bandiera nera, segno di lutto,
tutte quelle rumorose
manifestazioni cessarono come per incanto; poi
quegli uomini si radunarono
silenziosamente sulla gettata, ansiosi di
avere notizie dei due Corsari e
della spedizione.
Il cavaliere di Roccanera,
dall'alto del ponte di comando, aveva
veduto tutto. Chiamò Morgan
che stava facendo calare in acqua alcune
scialuppe e gli disse,
indicando i filibustieri ammassati sulla
sponda.
- Andate a dire a costoro che il
Corsaro Rosso ha avuto onorata
sepoltura fra le acque del Gran
Golfo, ma che suo fratello è ritornato
vivo per preparare la vendetta
che...
S'interruppe per alcuni istanti;
poi, cambiando tono, aggiunse:
- Farete avvertire l'Olonese che
questa sera andrò a trovarlo, poi
andrete a recare i miei saluti al
governatore. Più tardi rivedrò anche
lui.
Ciò detto attese che fossero
ammainate le vele e portate a terra le
gomene d'ormeggio, poi, dopo una
mezz'ora, scese nel quadro dove si
trovava la giovane fiamminga, già
pronta per sbarcare.
- Signora, - le disse, - una
scialuppa vi attende per condurvi a
terra.
- Sono pronta ad ubbidire,
cavaliere, - rispose ella, - sono vostra
prigioniera e non mi opporrò
ai vostri ordini.
- No, signora, voi non siete più
prigioniera.
- E perché, signore?... Io
non ho ancora pagato il mio riscatto.
- E stato già versato nella
cassa dell'equipaggio.
- Da chi? - chiese la duchessa
con stupore. - Io non ho ancora
avvertito 1l marchese di
Heredias, né il governatore di Maracaybo
della mia prigionia.
- E' vero, ma qualcuno si è
incaricato di pagare il vostro riscatto, -
rispose il Corsaro, sorridendo.
- Voi forse?
- Ebbene, e se fossi stato io?...
- chiese il Corsaro, guardandola
negli occhi.
La giovane fiamminga rimase un
istante silenziosa, poi disse con voce
commossa:
- Ecco una generosità che
non credevo di trovare presso i filibustieri
della Tortue, ma che non mi
sorprende se colui che l'ha commessa si
chiama il Corsaro Nero.
- E perché, signora?
- Perché voi siete ben
diverso dagli altri. Ho avuto il tempo, in
questi pochi giorni che son rimasta
a bordo della vostra nave, di
poter apprezzare la gentilezza,
la generosità e l'audacia del
cavaliere di Roccanera, signore di
Ventimiglia e di Valpenta. Vi prego
di dirmi a quanto fu fissato il mio
riscatto.
- Vi preme pagare il vostro
debito? Forse che siete ansiosa di
lasciare la Tortue?...
- No. V'ingannate e quando
sarà giunto il momento di abbandonare
quest'isola forse mi rincrescerà
più di quanto possiate immaginare,
cavaliere, e credetelo, serberò
viva riconoscenza al Corsaro Nero e
forse mai lo dimenticherò.
- Signora! - esclamò il
Corsaro, mentre un vivo lampo illuminava i
suoi occhi.
Aveva fatto un passo rapido
presso la giovinetta, ma subito si era
arrestato, dicendo con voce triste:
- Forse allora io sarò
diventato il più spietato nemico dei vostri
amici e avrò fatto
nascere nel vostro cuore chissà quale avversione
profonda per me.
Fece il giro del salotto a
passi concitati, quindi fermandosi
bruscamente dinanzi alla
giovinetta, le chiese a bruciapelo:
- Conoscete il governatore di
Maracaybo?...
La duchessa, udendo quelle
parole, trasalì, mentre i suoi sguardi
tradivano un'estrema ansietà.
- Si, - rispose con un tremito
nella voce. - Perché mi fate questa
domanda?
- Supponete che ve l'abbia fatta
per pura curiosità.
- Oh Dio!...
- Che cosa avete, signora? -
chiese il Corsaro, con stupore. - Voi
siete pallida ed agitata.
Invece di rispondere, la giovane
fiamminga tornò a chiedergli con
maggior forza:
- Ma perché questa domanda?
Il Corsaro stava per rispondere,
quando si udirono dei passi sulla
scaletta. Era Morgan che scendeva
nel quadro, già di ritorno dalla sua
missione.
- Comandante, - diss'egli entrando.
- Pietro Nau vi aspetta nella sua
abitazione, per farvi delle
comunicazioni urgenti. Credo che, durante
la vostra assenza, abbia maturati
i vostri progetti e che tutto sia
pronto per la spedizione.
- Ah! - esclamò il
Corsaro, mentre un cupo lampo gli balenava negli
sguardi. - Di già?... Non
credevo che la vendetta dovesse essere così
pronta.
Si volse verso la giovane
fiamminga, che pareva fosse ancora in preda
a quella strana agitazione,
dicendole:
- Signora, permettete che vi offra
ospitalità nella mia casa, che
metto tutta a vostra
disposizione. Moko, Carmaux e Wan Stiller vi
condurranno colà e
rimarranno ai vostri ordini.
- Ma cavaliere... una parola
ancora... - balbettò la duchessa.
- Sì, vi comprendo, ma del
riscatto ne parleremo più tardi.
Poi, senza ascoltare altro, uscì
frettolosamente, seguito da Morgan,
attraversò la coperta e
scese in una scialuppa montata da sei marinai,
che lo attendeva a babordo della
nave.
Si sedette a poppa, prendendo
la barra del timone, però invece di
dirigere l'imbarcazione verso la
gettata, sulla quale i filibustieri
avevano ripreso le loro orgie, mise
la prora verso un piccolo seno che
s'allargava ad est del porto,
inoltrandosi in un bosco di palme dalle
foglie gigantesche e dall'alto ed
elegante fusto.
Sceso sulla spiaggia, fece cenno
ai suoi uomini di tornare a bordo e
s'inoltrò solo sotto le
piante, prendendo un sentieruzzo appena
visibile.
Era ridiventato pensieroso, come
era sua abitudine quando si trovava
solo, ma pareva che i suoi
pensieri fossero tormentosi, perché di
tratto in tratto s'arrestava, o
faceva colla destra un gesto ora
d'impazienza ed ora di minaccia, e
le sue labbra si agitavano come se
parlasse fra sé. Si era
internato assai nel bosco, quando una voce
allegra, che aveva un accento
leggermente beffardo, lo strappò dalle
sue meditazioni.
- Vorrei essere mangiato dai
Caraibi se io non ero certo di trovarti
cavaliere. L'allegria che regna
alla Tortue ti fa adunque paura,
perché tu venga a casa mia
prendendo la via dei boschi? Che tetro
filibustiere!... Sembri un
funerale!...
Il Corsaro aveva alzato vivamente
il capo, mentre per abitudine aveva
portata la destra sulla guardia
della spada.
Un uomo di statura piuttosto bassa,
vigoroso, dai lineamenti ruvidi,
dagli sguardi penetranti, vestito
come un semplice marinaio, e armato
d'un paio di pistole e di una
sciabola d'arrembaggio, era uscito da un
gruppo di bananiere chiudendogli il
passo.
- Ah! Sei tu, Pietro? - chiese il
Corsaro
- Sono l'Olonese in carne ed ossa.
Quell'uomo era infatti il famoso
filibustiere, il più formidabile
scorridore del mare ed il più
spietato nemico degli spagnoli.
Questo Corsaro, che, come fu
detto, doveva terminare la sua splendida
carriera sotto i denti degli
antropofagi del Darien, e che doveva far
spargere tanto sangue agli
spagnoli, non aveva in quell'epoca che
trentacinque anni, ma era diventato
già celebre.
Nativo dell'Olonne, nel
Poitou, era prima stato marinaio
contrabbandiere sulle coste
della Spagna. Sorpreso una notte dai
doganieri, aveva perduta la barca;
suo fratello era rimasto ucciso a
colpi di fucile ed era stato
lui stesso così gravemente ferito da
rimanere lungo tempo fra la vita e
la morte.
Guarito, ma in preda alla più
spaventevole miseria, si era venduto
come schiavo a Montbars, lo
Sterminatore, per quaranta scudi, onde
aiutare la sua vecchia madre.
Dapprima aveva fatto il bucaniere
in qualità d'arruolato, ossia di
servo, poi era passato
filibustiere, ed avendo mostrato di possedere
un coraggio eccezionale ed una
forza d'animo straordinaria, aveva
finalmente potuto ottenere un
piccolo vascello dal governatore della
Tortue.
Con quel legno, quell'uomo audace
aveva operato prodigi, causando
danni enormi alle colonie spagnole,
vigorosamente spalleggiato dai tre
Corsari, il Nero, il Rosso ed il
Verde.
Un brutto giorno però,
spinto da una tempesta sulle coste del
Campeche, aveva fatto naufragio,
quasi sotto gli occhi degli spagnoli.
Tutti i suoi compagni gli erano
stati trucidati, ma egli era riuscito
a salvarsi immergendosi fino al
collo nel fango d'una savana ed
imbrattandosi perfino il volto per
non farsi scoprire.
Uscito ancora vivo da quella
palude, invece di fuggire, aveva avuta
ancora l'audacia di avvicinarsi
a Campeche, travestito da soldato
spagnolo, di entrarvi per studiarla
meglio, guadagnati alcuni schiavi,
con una barca rubata, aveva poscia
fatto ritorno alla Tortue, quando
da tutti lo si era creduto già
morto.
Un altro si sarebbe ben
guardato dal ritentare la fortuna, ma
l'Olonese invece si era affrettato
a riprendere il mare con soli due
piccoli legni, e con ventotto
uomini si era tosto diretto su Los Cayos
di Cuba, piazza allora assai
commerciale.
Alcuni pescatori spagnoli,
accortisi della sua presenza, avvertono il
governatore della piazza, il quale
manda contro i due legni corsari
una fregata montata da novanta
uomini e quattro velieri minori con
equipaggi valorosi, ed un
negro che doveva incaricarsi
dell'impiccagione dei filibustieri.
Dinanzi a tante forze l'Olonese
non si spaventa. Attende l'alba,
abborda ai due lati la fregata ed i
suoi ventotto uomini, nonostante
il valore disperato degli
spagnoli, montano all'abbordaggio e
trucidano tutti, il negro compreso.
Ciò fatto s'avanza contro
gli altri quattro legni e li espugna,
gettando in acqua gli uomini che li
montavano.
Tale era l'uomo, che più
tardi doveva compiere ben altre e più
meravigliose imprese, col quale
stava per abboccarsi il Corsaro Nero.
- Vieni nella mia casa, - disse
l'Olonese, dopo d'aver stretta la mano
al capitano della "Folgore".
- Attendevo con impazienza il tuo
ritorno.
- E io ero impaziente di vederti,
- disse il Corsaro. - Sai che sono
entrato in Maracaybo?
- Tu!... - esclamò
l'Olonese, stupito.
- E come vuoi che facessi per
rapire il cadavere di mio fratello?
- Credevo che tu ti fossi servito
d'intermediari.
- No, tu sai che preferisco far le
cose da me.
- Bada che la tua audacia non ti
costi un dì o l'altro la vita. Hai
veduto come sono finiti i tuoi
fratelli.
- Taci, Pietro.
- Oh!... Ma li vendicheremo,
cavaliere, e presto.
- Ti sei finalmente deciso?... -
chiese il Corsaro, con animazione.
- Ho fatto di più! Ho
preparata la spedizione.
- Ah! E' vero quanto mi dici?...
- Sulla mia fede di ladrone, come
mi chiamano gli spagnoli, - disse
l'Olonese, ridendo.
- Di quante navi disponi?...
- Di otto navi, compresa la tua
"Folgore" e di seicento uomini fra
filibustieri e bucanieri. Noi
comanderemo i primi e Michele il Basco i
secondi.
- Viene anche il Basco?...
- Mi ha chiesto di far parte della
spedizione ed io mi sono affrettato
ad accettarlo. Egli è un
soldato, tu lo sai, avendo guerreggiato negli
eserciti europei e può
renderci grandi servigi, e poi è ricco.
- Ti necessita denaro?
- Ho consumato tutto quello
che ho ricavato dall'ultimo vascello
predato presso Maracaybo, di
ritorno dalla spedizione di Los Cayos.
- Conta, per parte mia, su
diecimila piastre.
- Per le sabbie d'Olonne!... Hai
una miniera inesauribile nelle tue
terre d'oltremare?...
- Te ne avrei date di più,
se non avessi dovuto pagare stamane un
grosso riscatto.
- Un riscatto!... Tu!... E per
chi?...
- Per una gran dama caduta in mia
mano. Il riscatto spettava al mio
equipaggio e l'ho versato.
- Chi può essere costei?...
Qualche spagnola?...
- No, una duchessa fiamminga,
che però è imparentata di certo col
Governatore di Vera-Cruz.
- Fiamminga!... - esclamò
l'Olonese, che era diventato pensieroso. -
Anche il tuo mortale nemico è
fiammingo.
- E che cosa vorresti
concludere? - chiese il Corsaro, che era
diventato pallido.
- Pensavo che potrebbe essere
imparentata anche con Wan Guld.
- Dio non lo voglia! -
esclamò il Corsaro, con voce quasi
inintelligibile. - No, non è
possibile.
L'Olonese si era fermato sotto
un macchione di maot, alberi
somiglianti a quelli del cotone e
che hanno delle foglie mostruose, e
si era messo a guardare
attentamente il compagno.
- Perché mi guardi? - chiese
questi.
- Pensavo alla tua duchessa
fiamminga e mi chiedevo il motivo della
tua improvvisa agitazione. Sai che
tu sei livido?...
- Quel sospetto m'aveva fatto
affluire tutto il sangue al cuore.
- Quale?
- Quello che essa potesse essere
imparentata con Wan Guld.
- E che cosa importerebbe a te, se
lo fosse?
- Ho giurato di sterminare tutti i
Wan Guld della terra e tutti i loro
parenti.
- Ebbene, la si ucciderebbe e tutto
sarebbe finito.
- Lei!... Oh no!... - esclamò
il Corsaro, con terrore.
- Allora vuol dire... - disse
l'Olonese, esitando.
- Che cosa?...
- Per le sabbie d'Olonne!... Vuol
dire che tu ami la tua prigioniera.
- - Taci, Pietro.
- Perché devo tacere? Forse
che per i filibustieri è vergogna l'amare
una donna?
- No, ma sento per istinto che
questa fanciulla mi sarà fatale,
Pietro.
- E' troppo tardi.
- Allora la si abbandona al suo
destino.
- Tu l'ami assai?
- Alla follia.
- Ed essa ti ama?
- Lo credo.
- Una bella coppia in fede mia!...
Il Signor di Roccanera non poteva
imparentarsi che con una bella
donna di alto bordo!... Ecco una
fortuna rara in America, e ben
più rara per un filibustiere. Orsù,
andiamo a vuotare un bicchiere alla
salute della tua duchessa, amico.
17.
LA VILLA DEL CORSARO NERO
L'abitazione del celebre
filibustiere era una modesta casetta di
legno, costruita alla buona, col
tetto coperto di foglie secche, come
usavano gl'indiani delle Grandi
Antille, ma abbastanza comoda e
ammobiliata con un certo lusso,
amando quei fieri e ruvidi uomini
l'eleganza e lo sfarzo.
Si trovava a mezzo miglio
dalla cittadella, sul margine della
boscaglia in un luogo ameno e
tranquillo, fra l'ombra delle grandi
palme, le quali conservavano una
frescura deliziosa.
L'Olonese introdusse il Corsaro
Nero in una stanza a pianterreno, le
cui finestre erano riparate da
stuoie di nipa, lo fece accomodare su
di un seggiolone di bambù,
poi fece portare da uno dei suoi arruolati
parecchie bottiglie di vino di
Spagna, provenienti probabilmente dal
saccheggio di qualche nave nemica
e ne sturò una, riempiendo due
grandi bicchieri.
- Alla tua salute, cavaliere, e
agli occhi della tua dama, - disse,
toccando.
- Preferisco che tu beva al felice
esito della nostra spedizione, -
rispose il Corsaro.
- Riuscirà pienamente,
amico, e ti prometto di darti nelle mani
l'uccisore dei tuoi due fratelli.
- Dei tre, Pietro.
- Oh! Oh! - esclamò
l'Olonese. - Io so, ed al pari di me lo sanno
tutti i filibustieri, che Wan Guld
ti ha ucciso il Corsaro Verde ed il
Rosso, ma che ve ne fosse un altro
lo ignoravo.
- Sì, tre, - ripeté
il Corsaro, con voce cupa.
- Per le sabbie d'Olonne!... E
quell'uomo vive ancora?...
- Ma morrà presto, Pietro.
- Lo spero, ed io sarò
pronto ad aiutarvi con tutte le mie forze:
Udiamo innanzi a tutto: lo conosci
bene quel Wan Guld?...
- Lo conosco meglio degli spagnoli
che ora serve.
- Che uomo è?
- Un vecchio soldato che ha
guerreggiato a lungo nelle Fiandre e che
porta uno dei più grandi
nomi della nobiltà fiamminga. Un tempo era un
valoroso condottiero di bande e
forse, a quest'ora, avrebbe potuto
aggiungere altri titoli a quello
che porta, se l'oro spagnolo non lo
avesse fatto diventare un
traditore.
- E' vecchio?
- Deve avere ora cinquant'anni.
- Ma pare che abbia ancora una
fibra dura. Si dice che sia il più
valoroso governatore che abbia la
Spagna in queste colonie.
- E' astuto come una volpe,
energico come Montbars, e valoroso.
- Allora in Maracaybo dobbiamo
aspettarci una resistenza disperata.
- Certo, Pietro, ma chi potrà
resistere all'assalto di seicento
filibustieri? Tu sai quanto valgono
i nostri uomini.
- Per le sabbie dell'Olonne! -
esclamò il filibustiere. - L'ho veduto
io come si sono battuti i ventotto
uomini che affrontarono con me la
squadra di Los Cayos. E poi tu
conosci ormai Maracaybo e saprai già
quale sarà il lato debole
della piazza.
- Ti guiderò io, Pietro.
- Ti trattiene nessun impegno qui?
- Nessuno.
- Nemmeno la tua fiamminga?
- Mi aspetterà, ne sono
certo, - disse il Corsaro con un sorriso.
- Dove l'hai ospitata?
- Nella mia villa.
- E tu dove andrai se la tua casa è
occupata?...
- Rimarrò con te.
- Ecco una fortuna che non
m'aspettavo. Così concerteremo meglio la
spedizione, assieme al Basco che
verrà a pranzare con me.
- Grazie, Pietro. Partiremo
adunque?
- Domani all'alba. E' completo il
tuo equipaggio?
- Mi mancano sessanta uomini,
essendo stato costretto a mandarne una
trentina sul vascello di linea
catturato a Maracaybo ed avendone
perduti altrettanti nella lotta.
- Bah!... Sarà facile
trovarne altrettanti. Tutti ambiscono di
navigare con te e di montare la tua
"Folgore".
- Sì, quantunque io goda
fama di essere uno spirito del mare.
- Per le sabbie dell'Olonne!...
Sei sempre funebre come un
fantasma!... Però non lo
sarai di certo con la tua duchessa.
- Forse, - rispose il Corsaro.
Si era alzato, dirigendosi verso la
porta.
- Te ne vai di già?... -
chiese l'Olonese.
- Sì, ho qualche affare
da sbrigare, ma questa sera, un po' tardi
forse, mi troverò qui.
Addio, Pietro.
- Addio, e bada che gli occhi della
fiamminga non ti streghino.
Il Corsaro era già
lontano. Aveva preso un altro sentiero,
inoltrandosi nel bosco che si
estendeva dietro la cittadella,
occupando buona parte dell'isola.
Superbe palme dette massimiliane,
gigantesche mauritie dalle
grandi foglie frastagliate e disposte a
ventaglio, intrecciavano le loro
fronde con quelle degli "jupati" e
delle "bossù"
dalle foglie rigide come se fossero di zinco, mentre
sotto quei colossi della specie
delle palme crescevano a profusione,
senza coltura, le agave preziose
che danno quel liquido, piccante e
dolciastro, conosciuto sulle rive
del golfo messicano col nome di
aguamiele e di "mezcal"
se fermentato, crespi di vaniglia selvatica,
di pepe lungo e di pimento.
Il Corsaro Nero, però,
sempre assorto nei suoi pensieri, non si
arrestava a guardare quella
splendida vegetazione. Affrettava sempre
il passo, come se fosse impaziente
di giungere in qualche luogo.
Mezz'ora dopo egli si arrestava
bruscamente sul margine d'una
piantagione di canne alte, dalla
tinta giallo-rossiccia, che avevano,
sotto i raggi del sole prossimo al
tramonto, dei riflessi di porpora,
dalle foglie lunghe e cadenti
verso il suolo, strette attorno ad un
fusto sottile che terminava in un
bellissimo pennacchio bianco adorno
d'una frangia delicata e che aveva
delle tinte varianti fra il ceruleo
ed il biondo. Era una piantagione
di canne da zucchero, già giunte a
completa maturazione.
Il Corsaro sostò un
istante, poi si cacciò fra quei fusti,
attraversando quel tratto di
terreno coltivato e tornò a fermarsi
dall'altra parte dinanzi ad una
graziosa abitazione che si ergeva fra
alcuni gruppi di palmizi, i quali
la ombreggiavano interamente.
Era una casettina a due
piani, somigliante a quelle che si
costruiscono anche oggidì
nel Messico, colle pareti dipinte in rosso,
adorne di quadretti di
porcellana, disposti a disegni ed il tetto
coperto da una grande terrazza
piena di vasi di fiori.
Una smisurata "cuiera",
gigantesca pianta da zucche che ha foglie
larghissime e numerosissime e che
produce delle grosse frutta lucenti,
d'un verde pallido, di forma
sferica, grosse come poponi e che vuotate
servono da vasi ai poveri indiani,
l'avvolgeva interamente, coprendo
persino le finestre e la terrazza.
Dinanzi alla porta di quella
abitazione, Moko, il colosso africano,
stava seduto, fumando una vecchia
pipa, regalo forse del suo amico il
compare bianco.
Il Corsaro stette un istante
immobile, guardando prima le finestre,
poi la terrazza, fece col capo un
gesto d'impazienza, poi si diresse
verso l'africano che si era
prontamente alzato.
- Dove sono Carmaux e Wan Stiller?
- gli chiese.
- Sono andati al porto, per vedere
se c'erano degli ordini da parte
vostra, - rispose il negro.
- Che cosa fa la duchessa?
- E' nel giardino.
- Sola?...
- Colle sue donne e coi paggi.
- Che cosa sta facendo?...
- Sta preparando la tavola per voi.
- Per me?... - chiese il Corsaro,
mentre la fronte gli si rischiarava
rapidamente, come se un vigoroso
colpo di vento avesse disperse le
nubi che la offuscavano.
- Era certa che sareste venuto a
cenare con lei.
- Veramente m'aspettano altrove,
però preferisco la mia casa e la
compagnia sua a quella dei
filibustieri, - mormorò.
S'inoltrò sotto la porta,
infilando una specie di corridoio, adorno di
vasi di fiori esalanti delicati
profumi e uscì dall'altra parte della
casa, entrando in un giardino
spazioso e cintato di mura così alte e
solide, da metterlo al sicuro
contro qualsiasi scalata.
Se la casa era graziosa, il
giardino era pittoresco. Bellissimi viali
formati da doppie file di
banani, i quali colle loro grandi foglie
dalla tinta verde cupo mantenevano
là sotto una deliziosa frescura e
già carichi di frutta
lucenti e in forma di grappoli enormi, si
estendevano in tutte le parti,
dividendo il terreno in tante aiuole,
dove crescevano i più
splendidi fiori dei tropici.
Qua e là, negli angoli,
torreggiavano delle splendide "persea" che
producono delle frutta verdi,
grosse come un limone e la cui polpa
condita con "xéres"
e zucchero è buonissima; delle "passiflore" che
danno delle frutta squisite,
grosse come uova di anitre e che
contengono una sostanza
gelatinosa di sapore gratissimo; delle
graziose "cumarù"
dai fiori porporini esalanti un profumo
delicatissimo, e dei cavoli
palmisti già irti delle loro mandorle
colossali, poiché
raggiungono la lunghezza di sessanta e perfino
ottanta centimetri.
Il Corsaro infilò un
viale e s'appressò, senza far rumore, ad una
specie di capannuccia, formata da
una "cuiera" grande quanto quella
che avvolgeva la casa e situata
sotto la fitta ombra d'una "jupati"
dell'Orenoco, meravigliosa palma
le cui foglie raggiungono la
incredibile lunghezza di cinquanta
piedi, ossia di undici metri e più.
Degli sprazzi di luce brillavano
attraverso le foglie della cuiera e
si udivano echeggiare delle risa
argentine.
Il Corsaro si era arrestato a breve
distanza, guardando fra il folto
fogliame.
Una tavola, coperta d'una
candida tovaglia di Fiandra, era stata
preparata sotto quel pittoresco
ricovero.
Grandi mazzi di fiori, dai profumi
deliziosi, erano stati disposti
attorno a due doppieri, con
gusto artistico, ed attorno a delle
piramidi di frutta squisite, di
ananassi, di banani, di noci di cocco
verdi e di "aphuna",
specie di grosse pesche che si mangiano cucinate
in acqua collo zucchero.
La giovane duchessa stava
accomodando i fiori e le frutta, aiutata
dalle due meticce.
Aveva indossata una toeletta
azzurra come il cielo, con pizzi di
Bruxelles, che faceva spiccare
doppiamente la bianchezza della pelle,
e maggiormente risaltare i biondi
capelli che teneva raccolti in una
grossa treccia, pendente sulle
spalle. Non portava indosso nessun
gioiello, contrariamente
all'abitudine delle ispano-americane, tra le
quali era forse lungamente vissuta,
ma aveva il niveo collo cinto da
una doppia fila di grosse perle
fermate con uno smeraldo.
Il Corsaro Nero si era fermato a
guardarla. I suoi occhi, animati da
una viva fiamma, la osservavano
attentamente, seguendo le più piccole
mosse di lei. Pareva che fosse
stato abbagliato da quella nordica
bellezza, poiché non osava
quasi più respirare, per tema di rompere
quell'incanto.
Ad un tratto fece un gesto,
urtando le foglie d'un piccolo palmizio
che cresceva accanto alla
capannuccia.
La giovane fiamminga, udendo
stormire le foglie, si volse e vide il
Corsaro. Un leggero rossore
tinse tosto le sue gote, mentre le sue
labbra si schiudevano ad un
sorriso, mostrando i suoi piccoli denti,
scintillanti come le perle che
portava al collo.
- Ah!... Voi, cavaliere!... -
esclamò allegramente.
Poi, mentre il Corsaro si levava
galantemente il cappello, facendo un
grazioso inchino, aggiunse:
- V'aspettavo... guardate: la
tavola è pronta per la cena.
- M'aspettavate, Honorata? -
chiese il Corsaro, deponendo un bacio
sulla mano che ella le porgeva.
- La vedete, cavaliere. Ecco
qui un pezzo di lamantino, una
schidionata d'uccelli e dei pesci
di mare che altro non attendono che
di venir mangiati. Ho sorvegliato
io stessa la cottura, sapete?
- Voi duchessa?
- E perché vi stupisce?...
Le donne fiamminghe usano preparare colle
loro mani i cibi agli ospiti ed ai
mariti.
- E m'aspettavate?
- Sì, cavaliere.
- Pure, non vi avevo detto che
avrei avuto l'invidiabile fortuna di
cenare con voi.
- E' vero, ma il cuore delle
donne talvolta indovina l'intenzione
degli uomini, ed il mio diceva che
voi sareste venuto questa sera, -
diss'ella, tornando ad arrossire.
- Signora - disse il Corsaro, -
avevo promesso ad uno dei miei amici
di attendermi a cena, ma vivaddio
può aspettarmi finché vorrà, perché
non rinuncerò al piacere di
passare la serata con voi. Chissà! Forse
sarà l'ultima volta che noi
ci vedremo.
- Che cosa dite, cavaliere? -
chiese la giovane, trasalendo. - Forse
che il Corsaro Nero ha fretta di
riprendere il mare?... Ritorna appena
ora da un'ardita spedizione e
vuol già correre in cerca di nuove
avventure?... Non sa dunque che sul
mare può attenderlo la morte?...
- Lo so, signora, ma il destino mi
spinge ancora lontano e vi andrò.
- E nulla potrà
trattenervi?... - chiese ella con voce tremula.
- Nulla, - rispose egli con un
sospiro.
- Nessuna affezione?
- No.
- Nessuna amicizia? - domandò
la giovane, con crescente ansietà.
Il Corsaro, che era ridiventato
cupo, stava per pronunciare qualche
altra risposta negativa, ma si
trattenne, ed offrendo alla giovane una
sedia, disse:
- Accomodatevi, signora, la cena
si raffredderà e mi rincrescerebbe
non far onore a questi cibi,
preparati dalle vostre belle mani.
Si sedettero l'una di fronte
all'altro, mentre le due meticce
cominciavano a servire. Il Corsaro
era diventato amabilissimo, e, pur
mangiando, parlava volentieri,
sfoggiando molto spirito e molta
cortesia. Usava alla giovane
duchessa delle gentilezze di perfetto
gentiluomo, la informava sugli usi
e sui costumi dei filibustieri e
dei bucanieri, delle loro
prodigiose gesta, delle loro straordinarie
avventure; le narrava storie di
battaglie, d'abbordaggi, di naufragi,
d'antropofagi ma senza mai fare
la minima allusione alla nuova
spedizione che stava per
intraprendere in compagnia dell'Olonese e del
Basco.
La giovane fiamminga lo ascoltava
sorridendogli ed ammirando il suo
spirito, la sua insolita
loquacità e la sua amabilità, senza mai
staccargli gli occhi dal viso.
Pareva però preoccupata da un costante
pensiero e da una curiosità
invincibile, perché rispondendogli tornava
sempre sull'argomento della
spedizione.
Le tenebre erano calate da due
ore e la luna era sorta dietro le
boscaglie quando il Corsaro si
alzò. Solamente in quel momento si era
ricordato che l'Olonese ed il
Basco lo aspettavano e che prima
dell'alba doveva completare
l'equipaggio della "Folgore".
- Come il tempo vola presso di
voi, signora! - disse. - Quale
misterioso fascino possedete, per
farmi dimenticare che avevo ancora
dei gravi affari da terminare?...
Credevo che fossero appena otto ore
e sono invece le dieci.
- Credo che sia stato il
piacere di riposarvi un po' nella vostra
casa, dopo tante scorrerie sul
mare, cavaliere, - disse la duchessa.
- O i vostri begli occhi e la
vostra piacevole compagnia, invece?
- In tal caso, cavaliere, sarà
stata la vostra compagnia che mi avrà
fatto passare alcune ore
deliziose... e chissà se ne godremo ancora
assieme, in questo poetico
giardino, lontani dal mare e dagli uomini,
- aggiunse ella, con una profonda
amarezza.
- Talora la guerra uccide, ma
talvolta la fortuna risparmia.
- La guerra!... ed il mare, non
lo contate voi? La vostra "Folgore"
non vincerà sempre le onde
del Gran Golfo.
- La mia nave non teme la tempesta,
quando sono io che la guido.
- E così, tornate presto sul
mare?
- Domani all'alba, signora.
- Appena sbarcato pensate a
fuggire; si direbbe che la terra vi faccia
paura.
- Io amo il mare, duchessa, e poi
non sarà rimanendo qui che potrò
incontrare il mio mortale nemico.
- Avete sempre lui fisso nel
pensiero!...
- Sempre, e quel pensiero non si
spegnerà che colla mia vita.
- E per andarlo a combattere che
partite?...
- Forse.
- E andrete?... - chiese la
giovane, con un'ansietà che non sfuggi al
Corsaro.
- Non ve lo posso dire, signora.
Io non posso tradire i segreti della
filibusteria. Non devo
dimenticare che voi, fino a pochi giorni or
sono, eravate ospite degli
spagnoli di Vera-Cruz e che avete
conoscenze anche a Maracaybo.
La giovane fiamminga aggrottò
la fronte, guardando il Corsaro cogli
occhi oscuri.
- Diffidate di me? - chiese, con
tono di dolce rimprovero.
- No, signora. Dio mi guardi dal
sospettare di voi, ma io debbo
obbedire alle leggi della
filibusteria.
- Mi sarebbe assai rincresciuto
che il Corsaro Nero avesse potuto
dubitare di me. L'ho conosciuto
troppo leale e troppo gentiluomo.
- Grazie della vostra buona
opinione, signora.
Si era messo il cappello in capo e
s'era gettato il ferraiuolo sul
braccio, ma pareva che non
trovasse il momento per decidersi ad
andarsene. Era rimasto in piedi
dinanzi alla giovane cogli occhi fissi
su di lei ed il volto melanconico.
- Voi avete qualche cosa da dirmi,
è vero, cavaliere? - chiese la
duchessa.
- Sì, signora.
- E' una cosa così grave da
imbarazzarvi?
- Forse.
- Parlate, cavaliere.
- Vorrei chiedervi se durante la
mia assenza voi lascerete l'isola.
- E se così facessi?... -
chiese la giovane.
- Mi rincrescerebbe, signora, se al
mio ritorno non vi trovassi più
- Ah!... E perché,
cavaliere? - chiese ella, sorridendo ed arrossendo
ad un tempo.
- Io non lo so il perché,
ma sento che sarei così felice se potessi
passare un'altra sera come questa,
assieme a voi. Mi compenserebbe di
tante sofferenze che dai lontani
paesi d'oltremare trascino con me
sulle acque americane.
- Ebbene, cavaliere, se a voi
rincrescerebbe di non trovarmi, vi
confesso che anch'io non sarei
lieta se non dovessi mai più rivedere
il Corsaro Nero, - disse la
giovane duchessa abbassando il capo sul
seno e chiudendo gli occhi.
- Allora voi mi attenderete?... -
chiese il Corsaro con impeto.
- Farei di più, se me lo
permetteste.
- Parlate, signora.
- Vi chiederei ancora una volta
ospitalità, a bordo della vostra
Folgore.
Il Corsaro si era lasciato sfuggire
un moto di gioia, ma di improvviso
divenne tetro.
- No... è impossibile, -
disse poi con fermezza.
- Vi sarei forse d'impaccio?
- No, ma non è permesso ai
filibustieri, allorché intraprendono una
spedizione, di condurre con loro
alcuna donna. E' bensì vero che la
"Folgore" è mia,
che io sono padrone assoluto a bordo del mio legno ed
a nessuno soggetto, pure...
- Continuate, - disse la duchessa,
che era diventata triste.
- Io non lo so il perché,
signora, ma io avrei paura di vedervi ancora
a bordo della mia nave. E' il
presentimento d'una disgrazia che io non
posso prevedere o qualche cosa
di peggio?... Vedete: voi mi avete
fatta quella domanda ed il mio
cuore, invece di sussultare, ha provato
una fitta crudele e poi,
guardatemi: non sono pallido più del solito
io?...
- E' vero! - esclamò la
duchessa con ispavento. - Dio mio!... Che
questa spedizione vi possa essere
fatale?...
- Chi può leggere
nell'avvenire?... Signora, lasciatemi partire. In
questo momento io soffro, senza
poterne indovinare il motivo. Addio,
signora, e se dovessi inabissarmi
colla mia nave nei baratri del Gran
Golfo o morire sulla breccia con
una palla od un ferro nel petto, non
dimenticate troppo presto il
Corsaro Nero!
Ciò detto uscì a
rapidi passi, senza volgersi indietro, come se avesse
avuto timore a trattenersi ancora
colà, e, attraversato il giardino ed
il corridoio, si cacciò
nel bosco dirigendosi verso l'abitazione
dell'Olonese.
18.
L'ODIO DEL CORSARO NERO
All'indomani, appena sorto il
sole, coll'alta marea, fra il rullare
dei tamburi, il suono dei pifferi,
i colpi di fucile dei bucanieri
della Tortue e gli hurrà
strepitosi dei filibustieri delle navi
ancorate, la spedizione usciva
dal porto, sotto il comando
dell'Olonese, del Corsaro Nero e di
Michele il Basco.
Si componeva di otto navi fra
grandi e piccole, armate di ottantasei
cannoni, dei quali sedici imbarcati
sul vascello dell'Olonese e dodici
sulla "Folgore", e di
seicentocinquanta uomini fra filibustieri e
bucanieri.
La "Folgore", essendo
il veliero più veloce, navigava in testa alla
squadra, dovendo servire da
esploratore.
Sul corno della maestra ondeggiava
la bandiera nera a fregi d'oro del
suo comandante e sulla cima
dell'alberetto il gran nastro rosso delle
navi da combattimento; dietro
venivano gli altri legni su una doppia
linea, ma distanziati tanto da
poter manovrare liberamente senza
pericolo di urtarsi o di tagliarsi
reciprocamente la via.
La squadra, uscita al largo,
si diresse verso occidente, per
raggiungere il canale di
Sopravvento, per poi sboccare nel Mare
Caraybo.
Il tempo era splendido, il mare
tranquillo ed il vento favorevole,
soffiando dal nord-est, sicché
tutto faceva sperare una tranquilla e
rapida navigazione fino a
Maracaybo, tanto più che i filibustieri
erano stati avvertiti che la
flotta dell'ammiraglio Toledo si trovava
in quell'epoca sulle coste
dell'Yucatán, in rotta pei porti del
Messico.
Dopo due giorni, la squadra,
senza aver fatto alcun incontro, stava
per doppiare il Capo
dell'Engano, quando dalla "Folgore", che
veleggiava sempre in testa, fu
dato il segnale della presenza d'una
nave nemica, veleggiante verso le
coste di San Domingo.
L'Olonese, che era stato nominato
comandante supremo, ordinò tosto a
tutte le navi di mettersi in
panna e di raggiungere colla sua la
"Folgore", la quale già
si preparava a mettersi in caccia.
Al di là del capo, un
vascello che portava sul picco della randa il
grande stendardo di Spagna e
sull'alberetto di maestra il lungo nastro
delle navi da guerra,
veleggiava lungo la costa, come se cercasse
qualche rifugio, avendo forse già
scorta la poderosa squadra dei
filibustieri.
L'Olonese avrebbe potuto farlo
circondare dalle sue otto navi e
costringerlo alla resa, o farlo
affondare con una sola bordata, ma
quei fieri corsari avevano
delle magnanimità incomprensibili, per
essere ladri di mare, e davvero
ammirabili.
Assalire un nemico con forze
superiori lo reputavano una
vigliaccheria, indegna d'uomini
forti come si credevano, e con
ragione, e sdegnavano di abusare
della loro possanza.
L'Olonese fece segnalare al Corsaro
Nero di mettersi in panna al pari
delle altre navi e mosse
arditamente incontro al vascello spagnolo,
intimandogli la resa incondizionata
o la lotta, e facendo gridare dai
suoi uomini di prora che qualunque
fosse stato l'esito della pugna, la
sua squadra non si sarebbe mossa.
Il vascello, che si reputava già
perduto, non potendo avere la menoma
speranza di uscire vittorioso
contro le forze così schiaccianti, non
si fece ripetere due volte
l'intimazione, pure, invece di ammainare lo
stendardo, il suo comandante lo
fece inchiodare sul corno e come
risposta scaricò contro la
nave nemica i suoi otto cannoni di
tribordo, facendo così
comprendere che non si sarebbe arreso se non
dopo un'ostinata resistenza.
La battaglia si era impegnata
d'ambe le parti con grande vigore. La
nave spagnola aveva sedici
cannoni, ma soli sessanta uomini
d'equipaggio; 1'0lonese aveva
altrettante bocche da fuoco e un numero
doppio di uomini fra i quali molti
bucanieri, formidabili bersaglieri,
che decidevano presto le sorti
della pugna coll'infallibilità dei loro
grossi fucili.
La squadra, dal canto suo, si
era messa in panna, obbediente agli
ordini del fiero filibustiere di
non intervenire. I soli equipaggi,
schierati sulle tolde,
assistevano, come tranquilli spettatori, alla
lotta, ben prevedendo però
che il vascello spagnolo avrebbe finito per
soccombere in quella pugna impari
per la sproporzione di forze.
Gli spagnoli, quantunque così
poco numerosi, si difendevano con vigore
supremo. Le loro artiglierie
tuonavano furiosamente, tentando di
disalberare e di rasare come un
pontone la nave corsara, che cercava
di abbordarli. Alternavano scariche
di mitraglia e palle e sviavano di
bordo per presentare la prora,
onde non farsi speronare e ritardare
più che era possibile il
contatto, essendosi di già accorti della
preponderanza numerica degli
avversari.
L'Olonese, reso furioso da quella
resistenza ed impaziente di finirla
tentava tutti i mezzi per
abbordarli, ma non ne veniva a capo ed era
costretto a riprendere il largo per
non farsi sterminare gli uomini da
quella grandine di mitraglia.
Quel duello formidabile fra le
artiglierie delle due navi durò, con
grave danno delle alberature e
delle vele, tre lunghe ore, senza che
il grande stendardo di Spagna
venisse ammainato. Sei volte i
filibustieri erano montati
all'abbordaggio ed altrettante volte erano
stati respinti da quei sessanta
valorosi, ma alla settima riuscirono a
porre i piedi sulla tolda della
nave nemica ed a calare la bandiera.
Quella vittoria, di lieto augurio
per la grande impresa, fu salutata
dai filibustieri della squadra
con fragorosi hurrà, tanto più che,
durante quel combattimento, la
"Folgore", spintasi entro una
insenatura, era riuscita a
scovare un altro legno spagnolo armato di
otto cannoni ed a catturarlo dopo
breve resistenza.
Visitate le due navi predate, si
constatò che la maggiore aveva un
carico prezioso, parte in merci
di grande valore e parte in verghe
d'argento; e la seconda, di
polvere e di fucili destinati alla
guarnigione spagnola di San
Domingo.
Sbarcati i due equipaggi sulla
costa, non volendo tenere a bordo
prigionieri, ed accomodati i
guasti subiti dalle alberature, la
squadra, sul cadere del giorno,
si rimetteva alla vela dirigendosi
verso la Giamaica.
La "Folgore" aveva
ripreso il suo posto all'avanguardia essendo, come
fu detto, la miglior veliera,
mantenendosi ad una distanza di quattro
o cinque miglia.
Al Corsaro Nero premeva di
esplorare il mare a grande distanza, per
tema che qualche nave spagnola
potesse accorgersi della direzione di
quella poderosa squadra, e
corresse a darne l'annuncio al governatore
di Maracaybo o all'ammiraglio
Toledo.
Per essere certo del fatto suo,
non abbandonava quasi mai il ponte di
comando, accontentandosi di
dormire in coperta, avvolto nel suo
ferraiuolo e coricato su un
seggiolone di bambù.
Tre giorni dopo la presa dei due
vascelli, la "Folgore", avvistate le
coste della Giamaica, faceva
l'incontro del vascello di linea che
aveva abbordato presso Maracaybo
e che durante la tempesta aveva
cercato un rifugio alla base di
quella isola.
Era ancora privo dell'albero
maestro, però il suo equipaggio aveva
rinforzati gli alberi di mezzana
e di trinchetto, spiegate tutte le
vele di ricambio trovate a bordo
e s'affrettava a guadagnare la
Tortue, per tema di venire sorpreso
da qualche nave spagnola.
Il Corsaro Nero, informatosi della
salute dei feriti, che aveva fatti
ricoverare nelle corsie del
vascello, proseguì la sua rotta verso il
sud, ansioso di giungere
all'entrata del Golfo di Maracaybo.
Quella traversata del Mar Caraybo
si compì senza incidenti, essendosi
il mare mantenuto costantemente
tranquillo, e la notte del
quattordicesimo giorno da che la
squadra aveva lasciata la Tortue, il
Corsaro avvistava la punta di
Paraguana, indicata da un piccolo faro
destinato ad avvertire i naviganti
della bocca del piccolo Golfo.
- Finalmente!... - esclamò
il filibustiere, mentre una cupa fiamma gli
animava lo sguardo. - Domani
forse l'assassino dei miei fratelli non
sarà più fra il
numero dei viventi.
Chiamò Morgan, che era
allora salito in coperta pel suo quarto di
guardia, dicendogli:
- Che nessun lume venga acceso
a bordo questa notte, tale essendo
1'ordine dato dall'Olonese. Gli
spagnoli non devono accorgersi della
presenza della squadra o domani
non troveremo nella città una sola
piastra.
- Dovremo fermarci qui all'entrata
del Golfo?...
- No, tutta la squadra si avanzerà
verso la bocca del lago e domani,
all'alba, piomberemo
improvvisamente su Maracaybo.
- Prenderanno terra i nostri
uomini?
- Sì, assieme ai bucanieri
dell'Olonese. Mentre la flotta bombarderà i
forti dal lato del mare, noi li
assaliremo dalla parte di terra, onde
impedire al governatore di fuggire
a Gibraltar. Che all'alba tutte le
scialuppe da sbarco siano pronte e
armate di spingarde.
- Va bene, signore.
- D'altronde, - aggiunse il
Corsaro, - sarò sul ponte anch'io; scendo
nel quadro a indossare la corazza
di combattimento.
Lasciò il ponte e scese nel
salotto per passare nella sua cabina.
Stava per aprire la porta
della sua stanzetta, quando un profumo
delicatissimo, a lui ben noto,
giunse improvvisamente fino a lui.
- E' strano!... - esclamò,
arrestandosi stupito. - Se non fossi certo
di avere lasciata la fiamminga alla
Tortue, giurerei che è venuta qui.
Si guardò intorno, ma
l'oscurità era completa, essendo stati spenti
tutti i lumi; pure gli parve di
vedere, in un angolo del salotto,
appoggiata ad una delle ampie
finestre che guardavano sul mare, una
forma biancastra.
Il Corsaro era coraggioso; però
al pari di tutti gli uomini di quei
tempi era pure un po'
superstizioso e nello scorgere quell'ombra,
immobile in quell'angolo, si sentì
bagnare la fronte da alcune stille
di sudore freddo.
- Che sia 1'ombra del Corsaro
Rosso?... - mormorò, retrocedendo verso
la parte opposta. - Che venga a
ricordarmi il giuramento pronunziato
quella notte, su queste
acque?... Forse che la sua anima ha
abbandonati gli abissi del Golfo,
dove riposava?...
Subito però ebbe quasi
vergogna di aver avuto, lui così fiero e
coraggioso, un istante di
superstiziosa paura e, snudata la
misericordia che portava alla
cintola, si fece innanzi, dicendo:
- Chi siete voi?... Parlate o vi
uccido.
- Io, cavaliere, - rispose una
voce dolce che fece trasalire il cuore
del Corsaro.
- Voi!... - esclamò egli fra
lo stupore e la gioia. - Voi, signora?...
Voi qui, sulla mia "Folgore",
mentre vi credevo alla Tortue? Sono io
forse?...
- No, cavaliere, - rispose la
giovane fiamminga.
Il Corsaro si era precipitato
innanzi, lasciando cadere la
misericordia ed aveva tese le
braccia verso la duchessa, mentre le sue
labbra le sfioravano rapidamente i
pizzi dell'alto collare.
- Voi qui!... - ripeté con
una voce che aveva un tremito. - Ma da dove
siete uscita voi?... Come vi
trovate sul mio vascello?
- Non lo so... - rispose la
duchessa, con accento imbarazzato.
- Via, parlate, signora.
- Ebbene... ho voluto seguirvi.
- Allora voi mi amate?... Ditemelo;
è vero, signora?...
- Sì, - mormorò ella
con un filo di voce.
- Grazie... ora posso sfidare la
morte senza paura.
Aveva estratto l'acciarino e
l'esca ed aveva acceso un doppiere
collocandolo però in un
angolo del salotto, in modo che la luce non si
proiettasse sulle acque del mare.
La giovane fiamminga non aveva
abbandonata la finestra. Tutta
rinchiusa in un ampio
accappatoio bianco adorno di pizzi, colle
braccia strette al seno, come
se volesse comprimere i palpiti
precipitati del cuore ed il
vezzoso capo inclinato su di una spalla,
guardava, con quei grandi occhi
scintillanti, il Corsaro che gli stava
ritto dinanzi, non più
pallido né più tetro e meditabondo, poiché un
sorriso di felicità
infinita si delineava sulle labbra del fiero uomo
di mare.
Si guardarono in silenzio per
alcuni istanti, come se fossero ancora
stupiti di quella confessione
di reciproca affezione, lungamente
sospirata da entrambi forse, ma
non così presto attesa: poi il
Corsaro, prendendo la giovanetta
per una mano e facendola sedere su
d'una sedia, presso il doppiere, le
disse:
- Ora mi direte, signora, per
opera di quale miracolo voi vi trovate
qui, mentre io vi ho lasciata alla
Tortue, nella mia casa. Io stento
ancora a credere a tanta felicità.
- Ve lo dirò, cavaliere,
quando voi mi avrete data la vostra parola di
perdonare ai miei complici.
- Ai vostri complici?
- Comprenderete che da sola non
avrei potuto imbarcarmi di nascosto
sulla vostra nave e starmene
rinchiusa quattordici giorni in una
cabina.
- Nulla potrei rifiutare a
voi, signora; e coloro che hanno
disobbedito ai miei ordini, ma
che nello stesso tempo mi hanno
preparata una così deliziosa
sorpresa, sono già perdonati. I loro
nomi, signora.
- Wan Stiller, Carmaux ed il negro.
- Ah!... Essi!... - esclamò
il Corsaro. - Avrei dovuto sospettarlo!...
Ma come avete potuto ottenere la
loro cooperazione?... I filibustieri
che disobbediscono ai comandi dei
loro capi, si fucilano, signora.
- Erano convinti di non fare un
dispiacere al loro comandante, perché
si erano accorti che voi,
cavaliere, segretamente mi amavate.
- E come hanno fatto ad
imbarcarvi?...
- Vestita da marinaio, di notte,
assieme ad essi, affinché nessuno
potesse accorgersi della mia
presenza.
- E vi hanno nascosta in una di
queste cabine? - chiese il Corsaro,
sorridendo.
- In quella attigua alla vostra.
- E quei bricconi, dove si sono
cacciati?...
- Sono sempre rimasti nascosti
nella stiva, però venivano a trovarmi
di frequente per portarmi dei
viveri che sottraevano alla dispensa del
cuciniere.
- I volponi!... Quanta affezione
in questi ruvidi uomini!... Sfidano
la morte per veder felici i loro
capi, eppure... chissà quanto potrà
durare questa felicità! -
aggiunse poi, con accento quasi triste.
- E perché, cavaliere?... -
chiese la giovane con inquietudine.
- Perché fra due ore l'alba
sorgerà ed io dovrò lasciarvi.
- Così presto?... Ci
siamo appena veduti che già pensate di
allontanarvi!... - esclamò
la fiamminga, con doloroso stupore.
- Appena il sole spunterà
sull'orizzonte, in questo golfo si
combatterà una delle più
tremende lotte che abbiano impegnati i
corsari della Tortue. Ottanta
bocche da fuoco tuoneranno senza tregua
contro i forti che difendono il mio
mortale nemico e seicento uomini
si slanceranno all'assalto, decisi
a vincere od a morire; ed io, lo
potete immaginare, sarò alla
loro testa per guidarli alla vittoria.
- Ed a sfidare la morte!... -
esclamò la duchessa con terrore. - Se
una palla vi colpisse?...
- La vita degli uomini è
nelle mani di Dio, signora.
- Ma voi mi giurerete di essere
prudente.
- Sarà impossibile. Pensate
che sono due anni che io attendo l'istante
per punire quell'infame.
- Che cosa può aver fatto
quell'uomo, perché voi nutriate verso di lui
odio così implacabile?...
- Mi ha ucciso tre fratelli,
ve lo dissi, e commise un infame
tradimento.
- Quale?...
Il Corsaro non rispose. Si era
messo a passeggiare pel salotto, colla
fronte aggrottata, lo sguardo
torvo e le labbra contratte. Ad un
tratto s'arrestò,
retrocesse lentamente verso la giovane, che lo
osservava con una viva angoscia
dipinta sul viso e sedendosi accanto a
lei disse:
- Ascoltatemi e giudicherete se il
mio odio sia giustificato.
«Sono trascorsi dieci anni da
quell'epoca, ma ricordo tutto come fosse
ieri.
Era scoppiata la guerra del
1686 fra la Francia e la Spagna, pel
possesso delle Fiandre. Luigi
Quattordicesimo, assetato di gloria, nel
fiore della sua potenza, volendo
schiacciare il suo formidabile
avversario, che tante vittorie
aveva già riportate sulle truppe
francesi, aveva invase arditamente
le provincie che il terribile duca
d'Alba aveva conquistate e domate
col ferro e col fuoco.
«In quell'epoca,
esercitando Luigi Quattordicesimo una grande
influenza sul Piemonte, aveva
chiesto soccorso al duca Vittorio Amedeo
Secondo, il quale non aveva potuto
rifiutarsi dal mandargli tre dei
suoi più agguerriti
reggimenti: quelli d'Aosta, di Nizza e della
Marina.
«In quest'ultimo, in qualità
d'ufficiali, servivamo io ed i miei tre
fratelli, il maggiore dei quali
non contava che trentadue anni ed il
minore che doveva più tardi
diventare il Corsaro Verde, solamente
venti.
«Recatisi nelle Fiandre,
i nostri reggimenti si erano già
valorosamente battuti più
volte al passaggio della Schelda, a Gand, a
Tournay, coprendosi ovunque di
gloria.
«Le armi alleate dovunque
avevano trionfato, respingendo gli spagnoli
verso Anversa, quando un bel
giorno, o meglio un brutto giorno, una
parte del nostro reggimento
Marina, essendosi spinto verso le bocche
della Schelda per occupare una
rocca abbandonata dal nemico, si trovò
improvvisamente assalito da tale
numero di spagnoli, da essere
costretto ad asserragliarsi più
che in fretta entro le mura, salvando
a grande stento le artiglierie.
«Fra i difensori c'eravamo
noi quattro.
«Tagliati fuori dall'esercito
francese, accerchiati da tutte le parti
da un nemico dieci volte più
numeroso e risoluto a riconquistare la
rocca, che per lui era di grande
importanza, essendo la chiave d'uno
dei principali bracci della
Schelda, non avevamo altra alternativa che
di arrenderci o morire. Di resa
nessuno ne parlava, anzi avevamo
giurato di farci seppellire sotto
le rovine, piuttosto di abbassare la
gloriosa bandiera dei prodi duchi
di Savoia.
«Al comando del reggimento,
Luigi Quattordicesimo aveva, non saprei
per quale motivo, destinato un
vecchio duca fiammingo, che si diceva
godesse fama di valoroso ed
esperimentato guerriero. Essendosi trovato
colle nostre compagnie, il giorno
in cui eravamo stati sorpresi, aveva
assunta la direzione della difesa.
«La lotta era cominciata con
pari furore d'ambo le parti.
«Ogni giorno le artiglierie
nemiche ci rovinavano i bastioni, e tutte
le mattine eravamo in grado di
resistere, poiché alla notte riparavamo
frettolosamente i guasti.
«Per quindici giorni e
quindici notti gli assalti si succedettero con
gravi perdite d'ambo le
parti. Ad ogni intimazione di resa
rispondevamo a colpi di cannone.
«Mio fratello maggiore era
diventato l'anima della difesa. Prode,
gagliardo, destro nel maneggio
di tutte le armi, dirigeva le
artiglierie e le fanterie, sempre
primo negli attacchi, ultimo nelle
ritirate.
«Il valore di quel bel
guerriero aveva fatto nascere nel cuore del
comandante fiammingo una sorda
gelosia, che doveva più tardi avere per
noi tutti fatali conseguenze.
«Quel miserabile,
dimenticando che aveva giurato fedeltà alla bandiera
del duca e che macchiava uno dei
più bei nomi dell'aristocrazia
fiamminga segretamente
s'accordava cogli spagnoli per farli entrare
nella rocca a tradimento. Una
carica di governatore nelle colonie
d'America ed una grossa somma
di denaro dovevano essere il prezzo
dell'ignominioso patto. Una notte,
seguito da alcuni fiamminghi suoi
parenti, apriva una delle
pusterle, lasciando il passo ai nemici che
si erano furtivamente avvicinati
alla rocca.
«Mio fratello maggiore, che
vegliava poco lontano con alcuni soldati,
accortosi dell'entrata degli
spagnoli, si precipita incontro a loro
dando l'allarme, ma il traditore
lo aspettava dietro l'angolo di un
bastione con due pistole in mano.
«Mio fratello cadde ferito a
morte ed i nemici entrarono furiosamente
in città. Combattemmo per
le vie, nelle case, ma invano. La rocca
cadde e noi potemmo appena
salvarci con pochi fidi e con una
precipitosa ritirata a Coutray.
«Ditemi signora, avreste voi
perdonato a quell'uomo?».
- No, - rispose la duchessa.
- E non perdonammo noi infatti.
Avevamo giurato di uccidere il
traditore e di vendicare nostro
fratello, e cessata la guerra lo
cercammo a lungo, nelle Fiandre
prima ed in Spagna poi.
«Saputo che era stato
nominato governatore di una delle più forti
città delle colonie
d'America, io ed i miei fratelli minori, armati di
tre legni, salpammo pel Gran
Golfo, divorati da un desiderio
insaziabile di punire, presto o
tardi, il traditore.
«Diventammo corsari. Il
Corsaro Verde, più impetuoso e meno esperto,
volle tentare la sorte, cadde
invece nelle mani del nostro mortale
nemico e fu ignominiosamente
appiccato come un volgare ladrone; poi
tentò la sorte il Corsaro
Rosso e non ebbe miglior fortuna. I miei due
fratelli, da me sottratti alla
forca, riposano in mare ove attendono
la mia vendetta, e se Dio m'aiuta,
fra due ore, il traditore sarà
nelle mie mani».
- E che cosa farete di lui?
- Lo appiccherò, signora,
- rispose freddamente il Corsaro. - Poi
sterminerò quanti hanno la
sventura di portare il suo nome. Egli ha
distrutta la mia famiglia; io
distruggerò la sua. L'ho giurato la
notte che il Corsaro Rosso scendeva
negli abissi del mare e manterrò
la parola.
- Ma dove ci troviamo noi? Qual è
la città che governa quell'uomo.
- Lo saprete presto.
- Ma il suo nome? - chiese la
duchessa, con angoscia.
- Vi preme saperlo?...
La giovane fiamminga aveva portato
alla fronte un fazzoletto di seta.
Forse quella bella fronte, in quel
momento, era coperta di stille di
freddo sudore.
- Non so, - disse, con voce
rotta. - In mia gioventù, mi parve aver
udito raccontare, da alcuni uomini
d'armi che servivano mio padre una
storia che somiglia a quella che
voi mi avete or ora narrata.
- E' impossibile, - disse il
Corsaro. - Voi non siete mai stata in
Piemonte.
- No, mai; ma vi prego, ditemi il
nome di quell'uomo.
- Ebbene, ve lo dirò: egli è
il duca Wan Guld...
Nel medesimo istante un colpo di
cannone si udì rombare fragorosamente
sul mare.
Il Corsaro Nero si era slanciato
fuori del salotto, gridando:
- L'alba!...
La giovane fiamminga non aveva
fatto alcun moto per trattenerlo. Aveva
portato ambe le mani al capo, con
un gesto di disperazione, poi era
piombata sul tappeto, senza mandare
un solo grido, come se fosse stata
improvvisamente fulminata.
19.
L'ASSALTO DI MARACAYBO
Quel colpo di cannone era stato
sparato dalla nave dell'Olonese, la
quale era passata all'avanguardia,
mettendosi in panna a due miglia da
Maracaybo, dinanzi al forte
situato su di un'altura e che assieme a
due isole difendeva la città.
Alcuni filibustieri, che erano
già stati nel Golfo di Maracaybo col
Corsaro Verde e col Rosso, avevano
consigliato l'Olonese di sbarcare
colà i bucanieri, per
prendere fra due fuochi il forte che dominava
l'entrata del lago, ed il
filibustiere si era affrettato a dare il
segnale delle operazioni
guerresche.
Con rapidità prodigiosa,
tutte le scialuppe delle dieci navi erano
state calate in mare e i
bucanieri e i filibustieri destinati a
sbarcare vi si erano affollati,
portando con loro i fucili e le
sciabole d'abbordaggio.
Quando il Corsaro Nero giunse sul
ponte, Morgan aveva già fatto
scendere nelle scialuppe
sessanta uomini, scelti tra i più
intraprendenti ed i più
robusti.
- Comandante, - disse rivolgendosi
al Corsaro Nero, - non vi è un
istante da perdere. Fra pochi
minuti gli uomini da sbarco cominceranno
l'attacco del forte ed i nostri
filibustieri devono essere i primi a
montare all'assalto.
- Ha mandato qualche ordine
l'Olonese?...
- Sì, signore. Ha
comandato alla flotta di non esporsi al fuoco del
forte.
- Sta bene, affido a voi il comando
della mia "Folgore".
Indossò rapidamente la
corazza di combattimento, che un mastro gli
aveva recata, e scese nella grande
scialuppa che lo aspettava sotto la
scala di babordo, montata da trenta
uomini e armata d'un petriere.
Cominciava ad albeggiare,
bisognava quindi affrettarsi a sbarcare,
prima che gli spagnoli del forte
potessero radunare ingenti forze.
Tutte le scialuppe, cariche
d'uomini, solcavano rapidamente le acque,
puntando verso una spiaggia boscosa
che si alzava ripida, tramutandosi
in una collinetta, e sulla cui
cima si vedeva giganteggiare il forte,
una solida rocca armata di
sedici cannoni di grosso calibro e,
probabilmente, ben munita di
difensori.
Gli spagnoli, messi sull'allarme
dal primo colpo di cannone fatto
sparare dall'Olonese, si erano
affrettati a lanciare alcune bande di
soldati giù pei declivi del
colle, onde contrastare il passo ai
filibustieri, e ad aprire un
fuoco violentissimo colle loro grosse
artiglierie.
Le bombe grandinavano, battendo lo
specchio d'acqua occupato dalle
scialuppe e facendo balzare
alti spruzzi di acqua; i filibustieri
erano però così
valenti che di rado si lasciavano colpire.
Con manovre fulminee, con virate di
bordo vertiginose, non lasciavano
tempo ai nemici di prenderli di
mira.
Le tre scialuppe, montate
dall'Olonese, dal Corsaro Nero e da Michele
il Basco, erano passate in prima
linea ed essendo montate dai più
robusti rematori, procedevano
rapide, per giungere a terra prima che i
drappelli spagnoli, che già
scendevano attraverso i boschi, potessero
prendere posizione sulle sponde.
Le navi corsare erano rimaste
indietro, per non esporsi al fuoco dei
sedici grossi pezzi del forte, ma
la "Folgore", comandata da Morgan,
si era avanzata fino a mille passi
dalla spiaggia e proteggeva lo
sbarco, tirando coi suoi due
cannoni da caccia.
In quindici minuti, non ostante
quel furioso cannoneggiamento, le
prime scialuppe approdano. I
filibustieri ed i bucanieri che le
montano, senza attendere i
compagni, sbarcano precipitosamente e si
scagliano attraverso la boscaglia
coi loro capi, per respingere i
drappelli spagnoli che si erano
imboscati sul pendio della collina.
- All'assalto, miei prodi!... -
urla l'Olonese.
- Su, uomini del mare!... - tuona
il Corsaro Nero, che si avanza colla
spada nella destra ed una pistola
nella sinistra.
Gli spagnoli, messi in
imboscata, cominciarono a far piovere sugli
assalitori una grandine di palle,
però con poco profitto a causa degli
alberi e dei fitti cespugli che
coprono i pendii del colle.
Anche i cannoni del forte tuonano
con fragore assordante, scagliando
in tutte le direzioni i loro
grossi proiettili. Gli alberi si
schiantano e rovinano al suolo con
fracasso; i rami piombano a destra
ed a sinistra e la mitraglia fa
piovere addosso agli assalitori nembi
di foglie e di frutta; nulla
però può arrestare lo slancio dei
formidabili filibustieri e dei
bucanieri della Tortue.
Si scagliano innanzi come una
tromba devastatrice, piombano addosso ai
drappelli spagnoli, assalendoli
con le sciabole d'abbordaggio, e li
fanno a pezzi, malgrado l'ostinata
resistenza.
Pochi nemici scampano
all'eccidio, poiché quasi tutti avevano
preferito cadere con le armi in
pugno, piuttosto di cedere il campo ed
arrendersi.
- Assaliamo il forte!... - urla
l'Olonese.
Incoraggiati da quel primo
successo, i corsari si slanciano su pel
colle, procurando di tenersi
nascosti in mezzo alla fitta vegetazione.
Erano più di cinquecento,
essendo stati raggiunti dai compagni, pure
l'impresa non era facile, essendo
sprovvisti di scale. Per di più la
guarnigione spagnola, composta di
duecentocinquanta valorosi soldati,
si difendeva con grande vigore,
non accennando a cedere. Essendo il
forte situato in una posizione
assai elevata, i cannoni avevano ancora
buon gioco e fulminavano i
boschi con uragani di mitraglia,
minacciando di sterminare gli
assalitori.
L'Olonese e il Corsaro Nero,
prevedendo una resistenza disperata, si
erano arrestati per consigliarsi.
- Perderemo troppa gente, - disse
l'Olonese. - Bisogna trovare un
mezzo per aprire una buona breccia
o ci faremo schiacciare.
- Non ve n'è che uno, -
rispose il Corsaro.
- Parla, spicciati.
- Tentare di far scoppiare una mina
alla base dei bastioni.
- Credo che sia il modo migliore,
ma chi oserà affrontare un simile
pericolo!
- Io, - disse una voce dietro di
loro.
Si volsero e videro Carmaux seguito
dall'inseparabile Wan Stiller e
dal compare negro.
- Ah!... Sei tu, briccone?... -
chiese il Corsaro. - Che cosa fai qui?
- Vi seguivo, comandante. Mi
avete perdonato, quindi non avevo più
timore di farmi fucilare.
- No, non ti si fucilerà,
però andrai a far scoppiare la mina.
- Ai vostri ordini, comandante.
Tra un quarto d'ora apriremo una
breccia.
Poi rivolgendosi verso i suoi due
amici:
- Ehi, Wan Stiller, vieni, - gli
disse, - e tu Moko va' a prendere
trenta libbre di polvere ed una
buona miccia.
- Spero di rivederti ancora
vivo, - disse il Corsaro con voce
commossa.
- Grazie dell'augurio, comandante,
- rispose Carmaux, allontanandosi
precipitosamente.
Intanto i filibustieri ed i
bucanieri continuavano ad inoltrarsi
attraverso gli alberi, tentando,
con dei colpi ben aggiustati, di
allontanare gli spagnoli dai merli
e di abbattere gli artiglieri.
Il presidio, nondimeno, resisteva
con ostinazione ammirabile, facendo
un fuoco infernale. Il forte
sembrava un cratere in piena eruzione.
Gigantesche nuvole di fumo
s'alzavano su tutti i bastioni, traforate
dai getti di fuoco dei sedici
grossi cannoni.
Palle e nembi di mitraglia
scendevano rasente al suolo, massacrando le
piante e lacerando i cespugli in
mezzo ai quali si tenevano nascosti i
filibustieri, in attesa del
momento opportuno per slanciarsi
all'assalto.
D'improvviso sulla cima del colle
si udì un formidabile scoppio, che
si ripercosse lungamente sotto
i boschi e sul mare. Una fiamma
gigantesca fu veduta alzarsi su un
fianco del forte, poi una pioggia
di rottami cadde impetuosamentee
sugli alberi, schiantando centinaia
di rami e storpiando ed uccidendo
non pochi assalitori.
In mezzo alle grida degli spagnoli,
al rimbombo delle artiglierie ed
al tuonare dei fucili, si udì
echeggiare la voce metallica del Corsaro
Nero.
- Su, all'attacco, uomini del
mare!...
I filibustieri ed i bucanieri,
vedendolo slanciarli sul terreno
scoperto, si precipitano dietro di
lui assieme all'Olonese. Superano
le ultime alture senza arrestarsi,
attraversano correndo la spianata
ed irrompono contro il forte.
La mina fatta scoppiare da Carmaux
e dai suoi amici aveva aperta una
breccia in uno dei bastioni
principali. Il Corsaro Nero vi si era già
slanciato dentro, superando i
rottami ed i cannoni travolti dallo
scoppio e la sua formidabile
spada s'affannava a respingere i primi
avversari, colà accorsi a
difendere il passo.
I corsari si gettano dietro di lui
colle sciabole d'arrembaggio in
pugno, urlano a piena gola per
spargere maggior terrore, rovesciano
col loro impeto irresistibile i
primi spagnoli ed irrompono, come un
torrente che straripa, entro il
forte.
I duecentocinquanta uomini che
lo difendono non possono resistere a
tanta furia. Cercano di
trincerarsi dietro gli spalti, ma vengono
ricacciati; tentano di
raggrupparsi nel piazzale per impedire che il
grande stendardo di Spagna venga
ammainato e colà pure vengono
sgominati, inseguiti lungo i
bastioni interni e cadono tutti piuttosto
che arrendersi.
Il Corsaro Nero, vista calare la
bandiera, s'affrettò a rivolgersi
contro la città ormai
indifesa. Radunati cento uomini, scese di corsa
il colle ed irruppe nelle vie già
deserte di Maracaybo.
Tutti erano fuggiti, uomini,
donne e fanciulli, riparando nei boschi
per salvare gli oggetti più
preziosi; ma che importa al Corsaro Nero?
Non era per saccheggiare la città
che aveva organizzata la spedizione,
bensì per avere nelle mani
il traditore.
Egli trascinava i suoi uomini in
una corsa vertiginosa, ansioso di
giungere al palazzo di Wan Guld.
Anche la "Plaza de Granada"
era deserta, ed il portone del palazzo del
Governatore aperto e senza guardie.
- Mi sarebbe sfuggito? - si chiese
il Corsaro, coi denti stretti. -
Dovessi però inseguirlo fin
entro il continente, non lo abbandonerò.
Vedendo il portone aperto, i
filibustieri che lo avevano seguito si
erano arrestati temendo qualche
tradimento. Il Corsaro però aveva
continuato ad avanzare con
prudenza, sospettando anche lui qualche
sorpresa.
Stava per varcare la soglia ed
entrare nel cortile, quando si sentì
fermare da una robusta mano, che
gli si era posata su di una spalla e
da una voce che diceva:
- Non voi, mio comandante. Se
permettete, entrerò prima io.
Il Corsaro si era fermato colla
fronte aggrottata e si vide dinanzi
Carmaux, nero per la polvere,
colle vesti stracciate, il viso
insanguinato, ma più vivo
che mai.
- Ancora tu!... - esclamò.
- Credevo che la mina non ti avesse
risparmiato. - Ho la pelle dura,
mio capitano, ed al pari di me devono
averla l'amburghese e l'africano
poiché mi seguono. - Avanti adunque!
Carmaux ed i suoi compagni, che lo
avevano già raggiunto, neri di
polvere come lui e non meno
stracciati, si precipitarono entro il
cortile colle sciabole
d'arrembaggio e le pistole in pugno, seguiti
dal Corsaro e da tutti gli altri
filibustieri. Non vi era nessuno.
Soldati, staffieri, scudieri,
servi, schiavi, tutti erano fuggiti
dietro gli abitanti cercando
anche essi un rifugio nei fitti boschi
della costa. Fu trovato solamente
un cavallo, sdraiato al suolo con
una gamba rotta.
- Hanno sloggiato, - disse Carmaux.
- Bisogna collocare sul portone un
cartello con sopra scritto: palazzo
da affittare.
- Saliamo, - disse il Corsaro, con
voce sibilante.
I filibustieri si rovesciarono
sugli scaloni e salirono ai piani
superiori; ma anche là
tutte le porte erano aperte, le stanze e le
sale deserte, i mobili tutti
sottosopra, i forzieri spalancati e
vuoti. Tutto annunziava una
precipitosa ritirata. Ad un tratto si
udirono echeggiare, in una stanza,
delle grida. Il Corsaro, che aveva
percorse tutte le sale di corsa,
si diresse da quella parte e vide
Carmaux e Wan Stiller che
stavano trascinando a forza un soldato
spagnolo, alto, allampanato, secco
come un chiodo.
- Lo riconoscete, comandante? -
gridò Carmaux, spingendo violentemente
il disgraziato prigioniero.
Il soldato spagnolo, vedendosi
dinanzi il Corsaro, si levò il casco
d'acciaio adorno d'una piuma
spennacchiata e molto frusta, e, curvando
la sua lunga e magra schiena,
disse, con voce tranquilla:
- Vi aspettavo, signore, e son ben
lieto di rivedervi.
- Come! - esclamò il
Corsaro. - Ancora voi?...
- Sì, lo spagnolo della
foresta, - rispose l'uomo allampanato,
sorridendo. - Non avete voluto
appiccarmi e perciò sono ancora vivo.
- Tu la pagherai per tutti,
furfante! - gridò il Corsaro.
- Avrei forse avuto torto ad
aspettarvi? Sarebbe stato meglio, in tal
caso, che avessi preso il largo
dietro agli altri.
- Tu mi aspettavi?
- Chi mi avrebbe impedito di
fuggire?
- E' vero, e perché sei
rimasto?
- Perché volevo vedere
ancora colui che mi ha generosamente salvata la
vita, la notte che ero caduto nelle
sue mani.
- Tira innanzi.
- Poi, perché volevo rendere
un piccolo servizio al Corsaro Nero.
- Tu!
- Eh! eh! - fe' lo spagnolo,
sorridendo. - Vi stupisce?
- Sì... lo confesso.
- Sappiate allora che il
governatore, quando seppe che io ero caduto
nelle vostre mani e che voi non mi
avevate appeso ad un ramo con una
corda al collo, per ricompensa
mi fece dare venticinque legnate.
Capite!... Bastonare me, don
Bartolomeo dei Barboza e dei Camargua,
discendente da una delle più
vecchie nobiltà della Catalogna!...
"Carramba"!!
- Finiscila.
- Ho giurato di vendicarmi di quel
fiammingo, che tratta i soldati
spagnoli come se fossero cani
ed i nobili come fossero schiavi
indiani, e vi ho aspettato. Voi
siete venuto qui per ucciderlo, ma
egli, quando ha veduto cadere il
forte in vostra mano, è fuggito.
- Ah!... E' fuggito?
- Sì, però io so
dove, e vi condurrò sulle sue tracce.
- Non m'inganni tu? Bada che se tu
menti, farò scorticare il tuo magro
corpo.
- Non sono nelle vostre mani? -
disse il soldato.
- E' vero.
- Potete quindi farmi scorticare
con vostro comodo.
- Allora parla. Dov'è
fuggito Wan Guld?
- Nella foresta.
- Dove vuole andare?
- A Gibraltar.
- Seguendo la costa?
- Sì, comandante.
- Conosci la via tu?
- Meglio degli uomini che
l'accompagnano.
- Quanti ne ha con sé?
- Un capitano e sette soldati
fidatissimi. Per marciare attraverso ai
fitti boschi della costa bisogna
essere in pochi.
- E gli altri soldati, dove sono?
- Si sono dispersi.
- Sta bene, - disse il Corsaro. -
Noi inseguiremo quell'infame Wan
Guld, e noi non gli daremo tregua
né giorno né notte. Ha dei cavalli
con sé?
- Sì, ma dovrà
lasciarli poiché a nulla gli servirebbero.
- Aspettami qui.
Il Corsaro Nero si appressò
ad una scrivania, sulla quale vi era della
carta, alcune penne ed un ricco
calamaio di bronzo.
Prese un foglietto e scrisse
rapidamente queste poche righe «Mio caro
Pietro,
«Inseguo Wan Guld attraverso
le foreste con Carmaux, Wan Stiller ed il
mio africano. Disponi della mia
nave e dei miei uomini; quando il
saccheggio sarà finito,
vieni a raggiungermi a Gibraltar. Colà vi sono
dei tesori da raccogliere,
maggiori di quelli che troverai in
Maracaybo.
Il Corsaro Nero».
Chiuse la lettera, la consegnò
ad un mastro d'equipaggio, poi congedò
i filibustieri che lo avevano
seguito, dicendo:
- Ci rivedremo a Gibraltar, miei
valorosi. - Quindi volgendosi verso
Carmaux, Wan Stiller, l'africano ed
il prigioniero, disse:
- Andiamo ora a dare la caccia al
mortal nemico.
- Ho portato con me una corda
nuova per appiccarlo, comandante, -
rispose Carmaux. - L'ho provata
ieri sera e vi assicuro che funzionerà
a meraviglia, senza tema che si
rompa.
20.
LA CACCIA AL GOVERNATORE DI
MARACAYBO
Mentre i filibustieri ed i
bucanieri del Basco e dell'Olonese, entrati
in Maracaybo senza incontrare la
minima resistenza, s'abbandonavano al
saccheggio più sfrenato,
riservandosi più tardi di andar a scovare nei
boschi gli abitanti, per privarli
anche di quello che avevano cercato
di salvare, il Corsaro Nero ed i
suoi quattro compagni, dopo essersi
armati di fucili e provvisti di
viveri, si erano messi animosamente in
caccia, dietro le tracce del
governatore.
Appena usciti dalla città,
si erano gettati in mezzo alle grandi
boscaglie fiancheggianti il
vastissimo lago di Maracaybo, prendendo un
sentieruzzo appena praticabile,
che non doveva andare molto lontano,
così almeno aveva detto il
vendicativo catalano.
Le prime tracce erano state
subito scoperte. Erano le impronte
lasciate da otto cavalli sul suolo
umido della foresta e da due piedi
umani, ossia di otto cavalieri e
di un pedone, numero corrispondente
esattamente a quello detto dal
prigioniero spagnolo.
- Lo vedete!... - aveva esclamato
il catalano, con aria trionfante. -
Per di qui è passato il
governatore col suo capitano ed i sette
soldati, uno dei quali era
partito senza cavallo, essendo caduto il
suo nel momento della fuga,
rompendosi le gambe.
- Lo abbiamo veduto - rispose il
Corsaro. - Credi che abbiano molto
vantaggio su di noi?
- Forse cinque ore.
- E' già molto, ma siamo
tutti buoni camminatori.
- Lo credo, non sperate però
di raggiungerli né oggi, né domani. Forse
voi non conoscete ancora le
foreste del Venezuela e vedrete quante
inaspettate sorprese ci preparano.
- E chi ce le preparerà
queste sorprese?
- Gli animali feroci ed i selvaggi.
- Non ci fanno paura né gli
uni né gli altri.
- I caraibi sono fieri.
- Non lo saranno meno col
Governatore.
- Sono suoi alleati e non vostri.
- Che si faccia guardare le spalle
da quei selvaggi?
- E' probabile, capitano.
- Non m'inquieto. I selvaggi non mi
hanno mai fatto paura.
- Meglio per voi. Andiamo,
"caballeros": ecco la grande foresta.
Il sentiero era bruscamente cessato
dinanzi ad una macchia enorme, ad
una vera muraglia di verzura e di
tronchi colossali, la quale pareva
che non presentasse alcun passaggio
per degli uomini a cavallo.
Nessuno può formarsi
un'idea della lussureggiante vegetazione del
suolo umido e caldo delle
regioni sud-americane e specialmente dei
bacini dei fiumi giganti.
Quel terreno vergine,
continuamente fertilizzato dalle foglie e dalle
frutta, che da secoli e
secoli si ammonticchiano, è coperto
costantemente da tali ammassi di
vegetali, che forse in nessun'altra
regione del mondo se ne vedono
di eguali, poiché colà le più umili
piante assumono proporzioni
gigantesche.
Il Corsaro Nero e lo spagnolo si
erano arrestati dinanzi alla macchia
enorme, ascoltando con profonda
attenzione, mentre i due filibustieri
ed il negro scrutavano il folto
fogliame degli alberi vicini ed i
cespugli, temendo qualche sorpresa.
- Dove saranno passati? - chiese
il Corsaro allo spagnolo. - Non vedo
alcuna apertura dinanzi a questo
ammasso di alberi e di liane.
- Uhm!... - mormorò il
catalano. - Il diavolo non se li sarà portati
via, almeno così spero. Mi
rincrescerebbe per le venticinque bastonate
che mi bruciano ancora il dorso.
- Ed i loro cavalli non avranno
avute le ali, suppongo, - disse il
Corsaro.
- Il governatore è astuto ed
avrà cercato di far perdere le sue
tracce. Si ode alcun rumore dalla
macchia?...
- Sì, - disse Carmaux. -
Laggiù mi pare d'udire dell'acqua a scorrere.
- Allora ho trovato, - disse il
catalano.
- Che cosa? - chiese il Corsaro.
- Seguitemi, "caballeros".
Il soldato tornò indietro,
guardando il suolo e ritrovate le orme dei
cavalli, le seguì
inoltrandosi fra gruppi di cari, sorta di palme dal
fusto spinoso che danno certe
frutta somiglianti alle nostre castagne,
raccolte in grandi grappoli.
Procedendo con precauzione per
non lasciare le sue vesti su quelle
lunghe ed acute spine, giunse ben
presto dove Carmaux aveva udito il
mormorio d'un corso d'acqua.
Guardò ancora a terra,
cercando di discernere fra le foglie e le erbe
le orme dei quadrupedi, poi
allungò il passo e non si arrestò che
sulla riva d'un fiumiciattolo
largo due o tre metri, e dalle acque
nerastre.
- Ah!... ah!... - esclamò
allegramente. - Lo avevo detto che il
vecchio è furbo.
- E che cosa vuoi concludere? -
chiese il Corsaro, che cominciava ad
impazientirsi.
- Che per cacciarsi nella grande
foresta e far perdere le sue tracce è
sceso in questo fiumicello.
- E' profonda l'acqua?
Il catalano immerse la sua spada e
cercò il fondo.
- Non vi sono che trentacinque o
quaranta centimetri di acqua.
- Vi saranno dei serpenti?...
- No, sono certo di questo.
- Allora entriamo anche noi in
acqua ed affrettiamo il passo. Vedremo
fin dove si saranno serviti dei
cavalli.
Entrarono tutti e cinque nel
fiumicello, lo spagnolo prima e il negro
ultimo, essendo incaricato di
vegliare alle spalle; si misero in
marcia rimescolando quelle acque
oscure, fangose, ripiene di foglie
secche e che esalavano dei miasmi
pericolosi, prodotti dai vegetali in
decomposizione.
Quel piccolo corso d'acqua era
ingombro d'ogni specie di piante
acquatiche, e che erano state in
più luoghi calpestate e lacerate.
Vi erano cespugli di "mucumucù",
specie di aroidi leggere, che si
tagliano facilmente, essendo i
loro fusti composti quasi interamente
d'una midolla spugnosa; gruppi di
legno cannone, dai fusti lisci, a
riflessi argentei e che servono a
formare delle zattere leggerissime;
gambi sarmentosi di robinie,
specie di liane che contengono un succo
lattiginoso, che ha la proprietà
sorprendente di ubriacare i pesci, se
viene mescolato alle acque dei
fiumi o dei laghetti, e parecchie altre
che rendevano faticoso il cammino.
Un silenzio quasi perfetto regnava
sotto le cupe volte dei grandi
vegetali, curvanti i loro rami sul
piccolo corso d'acqua. Solamente di
tratto in tratto, ad
intervalli regolari, si udiva echeggiare
bruscamente come uno squillo di
campana, il quale faceva alzare
vivamente il capo a Carmaux ed a
Wan Stiller, tanto era naturale.
Quello squillo che aveva una
vibrazione argentina, e che si propagava
nitido, destando tutti gli echi
della grande foresta vergine, non
proveniva da una campana; lo
mandava un uccello che si teneva nascosto
fra le fitte fronde di qualche
albero, dal "campanaro", così chiamato
dagli spagnoli, un volatile grosso
come un piccolo colombo, tutto
bianco ed il cui grido si ode ad
una distanza di ben tre miglia.
La piccola carovana, sempre in
silenzio, continuava a procedere
rapida, curiosa di sapere fin dove
il Governatore e la sua scorta
avevano potuto utilizzare i
cavalli, passando sotto ammassi di verzura
che s'intrecciano così
strettamente, da intercettare quasi
completamente la luce del sole,
quando verso la riva sinistra si udì
improvvisamente echeggiare una
detonazione abbastanza violenta,
seguita da una pioggia di piccoli
proiettili, i quali caddero nel
fiumiciattolo, producendo un rumore
analogo al cadere della gragnuola.
- Tuoni d'Amburgo!... - esclamò
Wan Stiller, che si era istintivamente
curvato. - Chi ci mitraglia?
Anche il Corsaro si era abbassato,
armando precipitosamente il fucile,
mentre i suoi filibustieri erano
vivamente retrocessi. Solamente il
catalano non si era mosso, e
guardava tranquillamente le piante che
ingombravano le due rive.
- Ci assalgono?... - chiese il
Corsaro.
- Non vedo nessuno, - rispose il
catalano, ridendo.
- E quella detonazione?... Non
l'hai udita tu?...
- Sì, capitano.
- E non t'inquieti?...
- Vedete bene che io rido invece.
Un secondo scoppio, più
forte del primo, si udì questa volta in alto e
un altra pioggia di proiettili
cadde in acqua.
- E' una bomba!... - esclamò
Carmaux retrocedendo.
- Sì, ma vegetale, - rispose
il catalano. - So di che cosa si tratta.
Piegò verso la riva destra e
mostrò ai compagni una pianta, che pareva
appartenesse alla specie delle
euforbiacee, alta venticinque o trenta
metri coi rami coperti di spine e
le foglie larghe venti o trenta
centimetri. Alle sue estremità
pendevano certe frutta un po' rotonde,
avvolte in una corteccia che
sembrava legnosa .
- State attenti, - diss'egli. - Le
frutta sono appassite.
Non aveva ancora finito di parlare
che uno di quei globi scoppiò con
grande fracasso, lanciando a
destra e a sinistra una pioggia di
granelli.
- Non fanno male, - disse il
catalano, vedendo Carmaux e Wan Stiller
balzare indietro. - Sono
semplicemente dei semi. Quando il frutto si
lascia appassire, la corteccia
legnosa acquista una forte resistenza e
fermentando, dopo un certo
tempo, scoppia, lanciando a notevole
distanza i semi contenuti nei
sedici scompartimenti interni.
- Sono almeno buone da mangiarsi
quelle frutta?
- Contengono una sostanza
lattiginosa, mangiata solamente dalle
scimmie, - rispose il catalano.
- Al diavolo anche gli alberi
bombe!... - esclamò Carmaux. - Credevo
che fossero spagnoli del
governatore che ci mitragliassero.
- Avanti, - disse il Corsaro. - Non
dimenticate che siamo in caccia.
Ripresero la marcia nelle acque
del fiumicello, e, percorsi due o
trecento passi, scorsero
dinanzi a sé delle masse nerastre
semisommerse che ostacolavano la
corrente.
- Hai veduto qualche albero
granata, questa volta? - chiese Carmaux.
- Qualche cosa di meglio. O
m'inganno assai o quelle masse sono i
cavalli del governatore e della sua
scorta.
- Adagio, - disse il Corsaro. - I
cavalieri possono essere accampati
nei dintorni.
- Lo dubito, - rispose il catalano.
- Il governatore sa di aver da far
con voi e avrà sospettato un
accanito inseguimento.
- Sia pure, ma siamo prudenti.
Armarono i fucili, si misero l'uno
dietro l'altro in fila indiana per
non farsi sterminare tutti da una
scarica improvvisa, e s'avanzarono
silenziosamente, tenendosi curvi
e cercando di celarsi sotto i rami
degli alberi, incrociantisi sopra
il fiumicello.
Ogni dieci o dodici passi,
però, il catalano si arrestava per
ascoltare con grande attenzione
e per scrutare le fronde e le liane
che ingombravano le due rive,
temendo sempre qualche sorpresa.
Procedendo così, con mille
precauzioni, giunsero là dove giacevano
quelle masse oscure. Non si erano
ingannati: erano i cadaveri di otto
cavalli, caduti l'uno accanto
all'altro e semi immersi nelle acque
nere del fiumicello.
Il catalano ne rimosse uno,
aiutato dall'africano, e vide che era
stato scannato con un colpo di
navaja.
- Li conosco, - diss'egli. - Sono i
cavalli del governatore.
- Dove saranno fuggiti i
cavalieri?... - chiese il Corsaro.
- Si saranno cacciati nella
foresta.
- Vedi nessuna apertura?...
- No, ma... ah!... i furbi!...
- Cos'hai?...
Vedete questo ramo spezzato, da
cui cola ancora qualche goccia di
linfa?
- Ebbene?...
- Guardate lassù, due altri
ve ne sono pure stati rotti.
- Vedo.
- Ecco, i furbi si sono issati su
questi rami e si sono calati al di
là della macchia. Non ci
resta che imitare la manovra.
- Cosa facile per noi marinai, -
disse Carmaux. - Ohè!... Issatevi!...
Il catalano allungò le sue
braccia smisurate e magre come zampe di
ragno e si issò su di un
grosso ramo, seguito da tutti gli altri, con
un accordo ammirabile.
Da quel primo ramo passò
su di un secondo che si allungava
orizzontalmente, poi su di un
terzo, che apparteneva ad un altro
albero, e continuò così
quella marcia aerea per trenta o quaranta
metri osservando sempre
attentamente i ramicelli e le foglie vicine.
Giunto in mezzo ad una rete di
liane, si lasciò cadere bruscamente al
suolo, mandando un grido di
trionfo.
- Ehi, catalano!... - esclamò
Carmaux. - Hai trovato qualche ciottolo
d'oro? Si dice che abbondano in
questo paese.
- E' una misericordia, invece; per
noi può avere l'egual valore se non
di più. Buona, nel cuore del
Governatore.
Il Corsaro Nero si era pure
lasciato cadere al suolo ed aveva raccolto
un pugnale dalla lama corta,
rabescata e dalla punta sottile come un
ago.
- Deve averlo perduto il capitano
che accompagnava il governatore, -
disse il catalano. - Gliel'ho
veduto nella cintola.
- Allora hanno preso terra qui, -
disse il Corsaro
- Ecco là il sentiero aperto
nella boscaglia dalle loro scuri. So che
tutti ne avevano una, appesa
all'arcione dei loro cavalli.
- Benissimo, - disse Carmaux. - Ci
faranno risparmiare della fatica e
procedere più speditamente.
- Silenzio, - esclamò il
Corsaro. - Si ode nulla?...
- Assolutamente nulla, - rispose
il catalano, dopo d'aver ascoltato
alcuni istanti.
- Ciò vuol dire che sono
lontani. Se ci fossero vicini si udrebbero
distintamente i colpi delle loro
scuri.
- Devono avere un vantaggio di
quattro o cinque ore.
- E' molto; speriamo nondimeno di
poterle guadagnare.
Si erano cacciati entro quella
specie di sentiero, aperto dai
fuggiaschi nel mezzo della
foresta vergine. Non era possibile
ingannarsi, perché i rami
recisi non si erano ancora appassiti e si
trovavano in grande numero sparsi
al suolo.
Il catalano ed i filibustieri
si erano messi a correre per
avvantaggiarsi: ad un tratto la
loro rapida marcia fu arrestata da un
ostacolo imprevisto, e che il
negro, il quale era a piedi nudi, e
Carmaux e Wan Stiller che non
portavano stivali lunghi, non potevano
affrontare se non con grandi
precauzioni.
Quell'ostacolo era costituito da
una vasta zona di spine "ansara", la
quale si estendeva fitta fitta fra
i tronchi colossali della foresta.
Quelle piante spinose crescono in
gran numero in mezzo alle selve
vergini del Venezuela e delle
Guiane, e rendono le marce quasi
impossibili per gli uomini che non
hanno le gambe riparate da uose di
grosso cuoio e da solidi stivali,
essendo le loro punte così acute da
trapassare qualsiasi panno non
solo, ma talvolta perfino le suole
delle scarpe.
- Tuoni d'Amburgo!... - esclamò
Wan Stiller, che per primo si era
impegnato fra quelle spine. - E' la
via dell'inferno questa? Usciremo
di qui scorticati come S.
Bartolomeo.
- Ventre di pesce-cane!... -
urlò Carmaux, che era balzato subito
indietro. - Diverremo tutti zoppi
se saremo costretti ad attraversare
questi triboli! I maghi della
foresta dovevano mettere un cartello
colla scritta: è vietato il
passaggio.
- Bah! Ne troveremo un altro, -
disse il catalano. - Disgraziatamente
è troppo tardi.
- Siamo costretti a fermarci? -
chiese il Corsaro.
- Guardate!...
La luce scemava allora
bruscamente, quasi di colpo e un'oscurità
profonda precipitava sulla foresta,
invadendo tutti i recessi.
- Si arresteranno anche essi? -
chiese il Corsaro colla fronte
aggrottata.
- Sì, finché si
alzerà la luna.
- Spunta?...
- A mezzanotte.
- Accampiamoci.
21.
NELLA FORESTA VERGINE
Il piccolo drappello aveva scelto,
per attendere il sorgere della
luna, uno spazio occupato dalle
enormi radici d'un "summameira", un
albero dal fusto colossale che
doveva torreggiare su tutti i vegetali
della foresta.
Questi alberi, che toccano
sovente i sessanta ed anche i settanta
metri d'altezza, sono sorretti da
speroni naturali formati da radici
d'uno spessore straordinario,
assai nodose e perfettamente
simmetriche, le quali,
scostandosi dalla base, formano una serie di
arcate assai bizzarre, sotto cui
possono trovare comodo rifugio una
ventina e più di persone.
Era una specie di nascondiglio
fortificato, che metteva il Corsaro ed
i suoi compagni al sicuro da
ogni improvviso assalto, sia da parte
delle fiere, che degli uomini.
Accomodatisi alla meglio sotto il
gigante della foresta e rosicchiati
alcuni biscotti con un pezzo di
prosciutto, si accordarono di dormire
fino al momento di riprendere la
caccia, dividendo le quattro ore che
rimanevano in altrettanti quarti
di guardia, non essendo prudente
abbandonarsi tutti fra le braccia
di Morfeo, in mezzo alla foresta
vergine.
Rovistate le erbe per tema
che nascondessero qualche serpente
pericoloso, essendocene moltissimi
di velenosi nelle foreste del
Venezuela, misero subito a
profitto l'ottimo consiglio, allungandosi
placidamente fra le foglie cadute
dal colosso, mentre l'africano e
Carmaux montavano di guardia per
vegliare sulla sicurezza di tutti.
Il crepuscolo, che dura
solamente qualche minuto in quelle regioni
equatoriali, era già sparito
e una oscurità profondissima era piombata
sulla grande foresta facendo
tacere di colpo gli uccelli ed i
quadrumani.
Un silenzio assoluto, pauroso,
regnò per alcuni istanti, come se tutti
gli abitanti da piuma e da pelo
fossero improvvisamente scomparsi o
morti, ma ad un tratto un
concerto strano, indiavolato, echeggiò
bruscamente fra quella oscurità,
facendo traballare Carmaux che non
era affatto abituato a passare le
notti in mezzo alle foreste vergini.
Pareva che una banda di cani avesse
preso posto fra i rami degli
alberi, perché in alto
si udivano dei latrati, dei guaiti e dei
brontolii prolungati, accompagnati
da cigolii ancor più strani e che
sembravano prodotti da migliaia di
pulegge giranti.
- Ventre di pesce-cane! - esclamò
Carmaux, guardando in aria. Che cosa
succede lassù? - Si
direbbe che i cani di questo paese hanno le ali
come gli uccelli e le unghie come i
gatti. Come hanno fatto a salire
sugli alberi?... Sapresti dirmelo,
compare sacco di carbone?
Il negro, invece di rispondere, si
mise a ridere in silenzio.
- E questi che cosa sono?... -
continuò Carmaux. - Si direbbe che
cento marinai facciano cigolare
tutti i buscelli d'una nave, per fare
non so quale manovra indiavolata.
Che siano delle scimmie, compare?...
- No, compare bianco, - rispose
il negro. - Sono delle rane, tutte
rane.
- Che cantano in questo modo?
- Sì, compare.
- E questi che cosa sono?...
Odi?... Pare che un migliaio di fabbri
stiano battendo tutte le pentole di
rame di compare Belzebù.
- Sono ranocchi.
- Ventre di pesce-cane!... Se me
lo dicesse un altro, direi che vuole
burlarsi di me o che è
diventato matto. E questo è un ranocchio di
nuova specie?
Una specie di miagolio potente,
seguito da una specie di ululato, era
rintronato improvvisamente
nell'immensa foresta vergine, facendo
tacere di colpo i concerti
formidabili e scordati dei ranocchi.
Il negro aveva alzato vivamente
il capo ed aveva raccolto il fucile
che teneva a fianco, ma con un
gesto così precipitoso, che denotava
una viva apprensione.
- Pare che questo messere che urla
così forte non sia un ranocchio, è
vero compare sacco di carbone?
- Oh no! - esclamò
l'africano, con un tremito nella voce.
- Che cos'è dunque?
- Un giaguaro.
- Fulmini di Biscaglia!... Il
formidabile predatore?
- Si, compare.
- Preferisco trovarmi dinanzi a tre
uomini risoluti a sbudellarmi,
piuttosto che aver da fare con
quel carnivoro. Si dice che valga le
tigri dell'India.
- Ed i leoni dell'Africa, compare.
- Per centomila pesci-cani!...
- Cos'hai?
- Penso che se veniamo assaliti non
potremo far uso delle nostre armi
da fuoco.
- E perché?
- Se udissero gli spari,
il Governatore e la sua scorta
sospetterebbero subito di essere
seguiti e si affretterebbero a
prendere il largo.
- Oh! Vorresti tu affrontare un
giaguaro coi coltelli?
- Adopreremo le sciabole.
- Vorrei vederti alla prova.
- Non augurarmela, compare sacco di
carbone.
Un secondo miagolio, più
potente del primo e più vicino, echeggiò, in
mezzo alla tenebrosa boscaglia,
facendo sussultare il negro.
- Diavolo!... - brontolò
Carmaux, che cominciava a diventare inquieto.
- La faccenda diventa seria.
In quell'istante vide il Corsaro
Nero sbarazzarsi del mantello che gli
serviva di coperta ed alzarsi.
- Un giaguaro?... - chiese con voce
tranquilla.
- Si, comandante.
- E' lontano?...
- No, e quel che è peggio,
pare che si diriga da questa parte.
- Qualunque cosa succeda, non fate
uso delle armi da fuoco.
- Quel predone ci divorerà.
- Ah!... Lo credi, Carmaux?... Lo
vedremo.
Si levò il mantello, lo
piegò con una certa cura, se lo avvolse
attorno al braccio sinistro poi
sguainò la spada e s'alzò lestamente.
- Dove l'hai udito?... - chiese.
- Da quella parte, comandante.
- Lo aspetteremo.
- Devo svegliare il catalano e Wan
Stiller?
- E' inutile; basteremo noi. Fate
silenzio e ravvivate il fuoco.
Tendendo gli orecchi, si udiva
in mezzo agli alberi quel "ron ron"
particolare dei gatti e dei
giaguari, e scrosciare di quando in quando
le foglie secche. Il predatore
doveva essersi già accorto della
presenza di quegli uomini e
s'avvicinava cautamente, sperando forse di
piombare improvvisamente su
qualcuno di loro e di rapirlo.
Il Corsaro, immobile presso il
fuoco, colla spada in pugno, ascoltava
attentamente e teneva gli sguardi
fissi sulle macchie vicine, pronto a
prevenire l'assalto fulmineo della
fiera. Carmaux ed il negro gli si
erano messi dietro, l'uno
armato della sciabola d'arrembaggio e
l'altro del fucile, ma che
teneva impugnato per la canna onde
servirsene come mazza.
Lo scrosciare delle foglie
continuava dalla parte ove la foresta era
più folta ed anche il "ron
ron" s'avvicinava, però lentamente. Si
capiva che il giaguaro s'avvicinava
con prudenza.
Ad un tratto ogni rumore cessò.
Il Corsaro si era curvato innanzi per
meglio ascoltare, ma invano;
nel rialzarsi, i suoi sguardi
s'incontrarono con due punti
luminosi che luccicavano sotto un
cespuglio assai fitto. Erano
immobili ed avevano un lampo verdastro e
fosforescente.
- Eccolo là, comandante, -
mormorò Carmaux.
- Lo vedo, - rispose il Corsaro,
con voce sempre tranquilla.
- Si prepara ad assalirci.
- Lo aspetto.
- Che diavolo d'uomo, - borbottò
il filibustiere. - Non avrebbe paura
di compare Belzebù e di
tutti i suoi caduti compari.
Il giaguaro si era fermato a trenta
passi dall'accampamento, distanza
ben breve per simili carnivori che
sono dotati d'uno slancio poderoso,
pari e forse maggiore di quello
delle tigri, tuttavia non si decideva
ad assalire. Lo inquietava il fuoco
che ardeva ai piedi dell'albero, o
l'attitudine risoluta del
Corsaro?... Rimase sotto quel fitto
cespuglio un minuto, senza
staccare gli occhi dall'avversario,
conservando una immobilità
minacciosa, poi quei due punti luminosi
scomparvero bruscamente.
Per qualche istante si udirono
agitarsi le fronde e scrosciare le
foglie, poi ogni rumore cessò.
- Se n'è andato, - disse
Carmaux, sospirando. - Che i caimani lo
mangino in tre bocconi.
- Sarà forse lui che mangerà
i caimani, compare, - disse il negro.
Il Corsaro stette alcuni minuti
fermo al suo posto, senza abbassare la
spada, poi, non udendo più
nulla, ringuainò tranquillamente l'arma,
spiegò il mantello, se
lo mise intorno e si coricò ai piedi
dell'albero, dicendo semplicemente:
- Se ritorna, chiamatemi.
Carmaux e l'africano si ritrassero
dietro al fuoco e ripresero la loro
guardia, tendendo però
continuamente gli orecchi e guardando da tutte
le parti, essendo poco persuasi
che il feroce predatore si fosse
definitivamente allontanato.
Alle 10 svegliarono Wan Stiller ed
il catalano, li avvertirono della
vicinanza del carnivoro, e
s'affrettarono a coricarsi accanto al
Corsaro, il quale già
dormiva placidamente, come se si fosse trovato
nella cabina della sua "Folgore".
Quel secondo quarto di guardia
passò più tranquillo del primo
quantunque Wan Stiller ed il
suo compagno avessero udito più volte
echeggiare nella cupa foresta il
miagolio del giaguaro.
A mezzanotte, essendosi alzata la
luna, il Corsaro, che si era già
levato, diede il segnale della
partenza, sperando, con una rapida
marcia, di poter raggiungere
all'indomani il suo mortale nemico.
L'astro notturno splendeva
superbamente in un cielo purissimo versando
la sua pallida luce sulla
grande foresta, ma ben pochi raggi
riuscivano a penetrare attraverso
la fitta volta delle foglie giganti.
Nondimeno qualche cosa ci si
vedeva sotto la boscaglia permettendo ai
filibustieri di procedere
abbastanza speditamente e di vedere gli
ostacoli che intercettavano il
passaggio.
Il sentiero aperto dalla scorta
del Governatore era stato smarrito,
però non si preoccupavano.
Sapevano ormai che egli marciava verso il
sud per riparare a Gibraltar,
ed essi seguivano quella direzione
orientandosi colle bussole, certi
che un momento o l'altro l'avrebbero
raggiunto.
Camminavano da circa un quarto
d'ora, aprendosi faticosamente il passo
fra i rami, le liane e le radici
mostruose che ingombravano il suolo
quando il catalano, che
marciava in testa al drappello, s'arrestò
bruscamente.
- Che cos'hai? - chiese il Corsaro
che veniva dietro.
- Ho che è la terza volta in
venti passi che mi giunge all'orecchio un
certo rumore sospetto.
- E quale?...
- Si direbbe che qualcuno cammini
parallelamente a noi, al di là di
questi fitti macchioni.
- Che cos'hai udito?...
- Rompersi dei rami e scrosciare le
foglie.
- Che qualcuno ci segua? - chiese
il Corsaro.
- E chi?... Nessuno oserebbe
marciare di notte, in mezzo a queste
foreste vergini, soprattutto a
quest'ora, - rispose il catalano.
- Che sia qualcuno della scorta del
Governatore?
- Uhm!... Devono essere lontani
costoro.
- Allora sarà qualche
indiano.
- Forse, ma io dubito che sia un
indiano. Eh!... avete udito?
- Sì, - confermarono i
filibustieri e l'africano.
- Qualcuno ha spezzato un ramo a
pochi passi da noi, - disse il
catalano.
- Se le macchie non fossero così
folte, si potrebbe andar a vedere chi
è costui che ci segue, -
disse il Corsaro, che aveva già snudata la
spada.
- Proviamo, signore?
- Lasceremmo le vesti fra quelle
spine "ansara"; ammiro però il tuo
coraggio.
- Grazie, - rispose lo spagnolo. -
Queste parole dette da voi valgono
molto. Che cosa dobbiamo fare?
- Continuare la marcia e colle
spade in pugno. Non voglio che si
adoperino i fucili.
- Avanti, adunque.
Il drappello si rimise in
cammino, procedendo con prudenza e senza
fretta.
Erano giunti ad uno stretto
passaggio, aperto fra altissime palme
legate e rilegate fra di loro da
una rete di liane, quando tutto d'un
tratto una massa pesante piombò
sullo spagnolo che camminava dinanzi a
tutti, atterrandolo di colpo.
L'assalto era stato così
improvviso, che i filibustieri dapprima
credettero che fosse rovinato
addosso al disgraziato prigioniero
qualche ramo enorme; però
una specie di ruggito rauco, lanciato da
quella massa, fece loro comprendere
che si trattava d'una fiera.
Il catalano, cadendo, aveva
mandato un urlo di terrore, poi si era
subito voltato tentando di
sbarazzarsi da quella massa, che lo teneva
come inchiodato fra le erbe,
impedendogli di rialzarsi.
- Aiuto! - gridò, - il
giaguaro mi sbrana.
Il Corsaro, passato il primo
istante di stupore, si era subito
lanciato in soccorso del povero
uomo, colla spada alzata. Rapido come
il lampo, allungò il braccio
armato e lo cacciò nel corpo della fiera;
questa, sentendosi ferire,
abbandonò il catalano e si volse verso il
nuovo avversario, tentando di
scagliarsi addosso.
Il Corsaro si era lestamente
ritirato, mostrando la punta scintillante
della spada, mentre con un gesto
rapido avvolgeva il mantello attorno
al braccio sinistro.
L'animale ebbe un istante di
esitazione, poi balzò innanzi con
coraggio disperato. Trovato sul
suo slancio Wan Stiller, lo atterrò,
poi si volse contro Carmaux che
stava presso il compagno, tentando di
abbatterlo con un poderoso colpo di
zampa.
Fortunatamente il Corsaro non era
rimasto inoperoso. Vedendo i suoi
filibustieri in pericolo, per la
seconda volta si era scagliato sulla
belva, tempestandola di colpi di
spada, non osando avvicinarsi troppo
per non venire afferrato e sbranato
da quegli artigli.
La fiera indietreggiava
ruggendo, cercando di prendere campo per
riprendere lo slancio, però
il Corsaro le stava addosso.
Spaventata e forse gravemente
ferita, si volse di botto e con un gran
salto si slanciò fra i rami
d'un albero vicino, dove s'imboscò fra le
grandi foglie, mandando delle note
acute che suonavano come degli
"uh!... uh!..." assai
prolungati.
- Indietro! - aveva gridato il
Corsaro temendo che fosse per piombare
addosso a loro.
- Tuoni d'Amburgo! - gridò
Wan Stiller, che erasi subito rialzato
senza aver riportata la minima
graffiatura. - Bisognerà fucilarla per
calmarle la fame!...
- No, che nessuno faccia fuoco, -
rispose il Corsaro.
- Io stavo per fracassarle la
testa, - disse una voce dietro di lui.
- Sei ancora vivo!... - esclamò
il Corsaro.
- E devo ringraziare la corazza di
pelle di bufalo che porto sotto la
casacca, signor mio, - disse il
catalano. - Senza di quella m'avrebbe
aperto il petto con un solo colpo
di zampa.
- Attenzione! - gridò in
quell'istante Carmaux. - Quel dannato animale
sta per slanciarsi.
Aveva appena terminate quelle
parole che la fiera si precipitava su di
loro descrivendo una parabola di
sei o sette metri. Cadde quasi ai
piedi del Corsaro, ma le mancò
il tempo di scagliarsi innanzi una
seconda volta.
La spada del formidabile scorridore
del mare le era entrata nel petto
inchiodandola al suolo, mentre
l'africano le fracassava il cranio col
calcio del suo pesante fucile.
- Vattene al diavolo!... - gridò
Carmaux, vibrandole un poderoso
calcio, per assicurarsi che questa
era proprio morta. - Che pazza di
bestia era questa?
- Ora lo sapremo, - disse il
catalano, afferrandola per la lunga coda
e trascinandola verso un piccolo
spazio illuminato dalla luna.
- Non è pesante, pure che
coraggio e che artigli!... Quando saremo a
Gibraltar andrò ad accendere
un cero alla madonna della Guadalupa per
avermi protetto.
22.
LA SAVANA TREMANTE,
L'animale che con tanta audacia
li aveva assaliti, nelle forme
richiamava alla mente le leonesse
dell'Africa; era però di mole molto
minore, non dovendo avere una
lunghezza maggiore di un metro e
quindici o venti centimetri, né
un'altezza superiore ai settanta,
misurata dalla spalla.
Aveva la testa rotonda, il corpo
allungato, ma robusto, una coda lunga
più di mezzo metro, artigli
lunghi ed acuti, il pelame fitto ma corto,
di colore rosso giallognolo, che
diventava più oscuro sul dorso mentre
era chiaro, quasi bianco, sotto il
ventre e grigio sul cranio.
Il catalano ed il Corsaro, con una
sola occhiata avevano subito capito
che si trattava d'uno di
quegli animali chiamati dagli ispano-
americani "mizgli" o
meglio ancora coguari o puma, ed anche leoni
d'America.
Queste fiere, che sono sparse
in buon numero anche oggidì, tanto
nell'America meridionale, che
settentrionale, quantunque siano di
statura relativamente piccola,
sono formidabili essendo feroci e
coraggiose.
Ordinariamente si tengono nei
boschi dove fanno grandi distruzioni di
scimmie, potendo arrampicarsi
con tutta facilità sugli alberi più
alti; talvolta osano avvicinarsi
ai luoghi abitati, ed allora
producono danni enormi,
scannando pecore, vitelli, buoi e perfino
cavalli.
In una sola notte sono capaci di
uccidere cinquanta capi di bestiame,
limitandosi a bere il sangue
caldo che fanno sgorgare dalle vene del
collo delle vittime. Se non sono
affamati, sfuggono l'uomo, sapendo
per prova che non sempre
riportano vittoria; solo se spinti dalla
necessità lo assaltano con
coraggio disperato.
Anche feriti si rivoltano contro
gli avversari senza contarli.
Talvolta vivono in branchi per
meglio cacciare gli animali delle
foreste, però per lo più
s'incontrano isolati, anche perché le femmine
non hanno grande fiducia nei
compagni, correndo il pericolo di vedersi
mangiare i piccini. D'altronde
anch'esse i primi nati li divorano,
nondimeno col tempo diventano madri
amorose e difendono accanitamente
la loro prole.
- Ventre di pesce-cane!... -
esclamò Carmaux. - Sono piccoli, ma hanno
maggior coraggio di certi leoni,
questi animali.
- Non so come non mi abbia aperta
la gola, - rispose il catalano. - Si
dice che sono destri nel recidere
la vena jugulare per bere il sangue
dei disgraziati che abbattono.
- Destri o no, ripartiamo, - disse
il Corsaro. - Questo coguaro ci ha
fatto perdere del tempo prezioso.
- Le nostre gambe sono leste,
comandante.
- Lo so, Carmaux; non
scordiamo che Wan Guld ha parecchie ore di
vantaggio su di noi. In marcia,
amici.
Lasciarono il cadavere del coguaro
e si rimisero in cammino attraverso
la sconfinata foresta, riprendendo
la faticosa manovra del taglio
delle liane e delle radici che
impedivano loro il passo.
Si erano allora impegnati in
mezzo ad un terreno imbevuto di acqua,
dove gli alberi più piccoli
avevano acquistate dimensioni enormi.
Pareva che camminassero su di una
spugna immensa, perché colla sola
pressione dei piedi schizzavano
fuori, da centomila pori invisibili,
dei getti d'acqua.
Forse in mezzo alla foresta si
nascondeva qualche savana e chissà,
forse qualcuno di quei bacini
traditori, chiamati savane tremanti, col
fondo costituito di sabbie mobili,
che inghiottono qualunque essere
osi affrontarle.
Il catalano, già
pratico di quella regione, era diventato
eccessivamente prudente. Tastava di
frequente il suolo con un ramo che
aveva tagliato, guardava dinanzi
a sé per vedere se la foresta
continuava e di tratto in
tratto dispensava legnate a destra e a
manca. Temeva le sabbie mobili,
ma si guardava anche dai rettili, i
quali si trovano in gran numero nei
terreni umidi delle selve vergini.
Con quella oscurità, poteva
porre i piedi su qualche "urulù", serpente
a strisce bianche, adorno d'una
croce sul capo ed il cui morso produce
la paralisi del membro offeso,
o su di un "cobra cipo" o serpente
liane, così chiamato perché
è verde e sottile come una vera liana, in
modo da poterlo facilmente
confondere, oppure su qualche serpente
corallo dal morso senza rimedio.
Ad un certo momento il catalano
s'arrestò.
- Un altro coguaro? - chiese
Carmaux, che gli stava dietro.
- Non oso inoltrarmi se prima non
spunta il sole, - rispose.
- Che cosa temi? - chiese il
Corsaro.
- Il terreno mi sfugge sotto i
piedi, signore. Ciò indica che noi
siamo vicini a qualche savana.
- Qualche savana tremante forse?
- Lo temo.
- Perderemo del tempo prezioso.
- Fra mezz'ora spunterà
l'alba e poi credete che anche i fuggiaschi
non incontrino degli ostacoli?
- Non dico il contrario.
Aspetteremo il sorgere del sole.
Si sdraiarono ai piedi d'un albero
ed attesero con impazienza che
quelle fitte tenebre cominciassero
a diradarsi.
La grande foresta, poco prima
silenziosa, risuonava allora di mille
strani fragori. Migliaia di
batraci, rospi, rane-pipa e "parraneca"
facevano udire le loro voci,
formando un baccano assordante.
Si udivano abbaiamenti, muggiti
interminabili, strida prolungate, come
se centomila carrucole fossero in
movimento, gorgoglii che sembravano
prodotti da centinaia di ammalati
occupati a umettarsi le gole con
gargarismi, poi un
martellamento furioso, come se eserciti di
falegnami si celassero sotto i
boschi, quindi degli stridii che pareva
provenissero da centinaia di seghe
a vapore.
Di tratto in tratto invece, sugli
alberi, si udiva improvvisamente uno
scoppio di fischi acuti, i quali
facevano alzare improvvisamente il
capo ai filibustieri.
Erano mandati da certe lucertole
di dimensioni piccole, ma dotate di
polmoni così potenti da
gareggiare, per forza di voce, colle nostre
locomotive.
Già gli astri
cominciavano ad impallidire e l'alba a diradare le
tenebre quando in lontananza si udì
echeggiare una debole detonazione
che non si poteva confondere colle
grida dei batraci.
Il Corsaro si era bruscamente
alzato.
- Un colpo di fucile? - chiese,
guardando il catalano, il quale si era
pure levato.
- Sembra, - rispose questi.
- Sparato dagli uomini che
inseguiamo?...
- Lo suppongo.
- Allora non devono essere lontani.
- Potete ingannarvi, signore.
Sotto queste volte di verzura l'eco si
ripercuote ad incredibile distanza.
- Comincia a far chiaro; possiamo
quindi ripartire, se non siete
stanchi.
- Bah!... Riposeremo più
tardi, - disse Carmaux.
La luce dell'alba cominciava a
filtrare fra le foglie giganti degli
alberi, diradando rapidamente le
tenebre e svegliando gli abitanti
della foresta.
I tucani dal becco enorme, grosso
quanto il loro intero corpo e così
fragile che costringe quei poveri
volatili a gettare il cibo in alto
aspettando che cada per
ingollarlo, cominciavano a svolazzare sulle
più alte cime degli alberi,
mandando le loro grida sgradevoli che
somigliano al cigolare di una ruota
male unta; gli "onorati", nascosti
nel più fitto delle
piante, lanciavano a piena gola le loro note
baritonali do... mi... sol...
do..., i "cassichi" bisbigliavano
dondolandosi sui loro strani
nidi in forma di borse, sospesi ai
flessibili rami dei manghi o
all'estremità delle foglie immense dei
"maot" mentre i
graziosi uccelli mosca volavano di fiore in fiore,
come gioielli alati, facendo
scintillare ai primi raggi del sole le
loro piume verdi, turchine o nere a
riflessi d'oro e di rame.
Qualche coppia di scimmie,
uscita dal nascondiglio, cominciava ad
apparire, stiracchiandosi le membra
e sbadigliando col muso rivolto al
sole.
Erano per lo più dei
"barrigudo", quadrumani alti sessanta od ottanta
centimetri, con una coda lunga
più dell'intero corpo, con pelame
morbido, nero cupo sul dorso e
grigiastro sul ventre ed una specie di
criniera sulle spalle.
Alcuni si dondolavano appesi per
la coda, mandando le loro grida che
sembravano volessero dire
"escke, escke", altri invece, vedendo
passare il piccolo drappello,
s'affrettavano a salutarlo con boccacce,
scagliando frutta e foglie, essendo
maligni e impudenti.
In mezzo alle foglie delle palme
si scorgeva anche qualche banda di
minuscoli quadrumani, di "mico",
i più graziosi di tutti, essendo così
piccini da poter star comodamente
nella tasca di una giacca.
Salivano e scendevano con vivacità
i rami, cercando gli insetti che
costituiscono il loro cibo,
appena però scorgevano gli uomini si
mettevano premurosamente in salvo,
sulle fronde più alte, e di lassù
stavano a guardarli coi loro occhi
intelligenti ed espressivi.
Di passo in passo che i
filibustieri s'inoltravano, gli alberi e le
macchie si diradavano, come se non
trovassero di loro gradimento quel
terreno saturo d'acqua e di natura
probabilmente argillosa.
Le splendide palme erano già
scomparse e non si vedevano che gruppi di
"imbauda", specie di
piccoli salici, che muoiono durante la stagione
piovosa, per ricomparire nella
stagione secca; delle "iriartree
pinciute", strani alberi
che hanno il tronco assai rigonfio nella
parte inferiore, sostenuto, per
un'altezza di due o tre metri, da
sette od otto robuste radici e
che a venticinque metri d'altezza
portano delle grandi foglie
dentellate, ricadenti all'ingiro come un
enorme ombrello.
Ben presto però anche
quegli ultimi alberi scomparvero per dar luogo
ad ammassi di "calupo",
piante dalle cui frutta tagliate a pezzi e
lasciate un po' a fermentare si
ricava una bevanda rinfrescante, ed i
giganteschi bambù alti
quindici e perfino venti metri e così grossi da
non potersi abbracciare.
Il catalano stava per cacciarsi là
in mezzo, quando si volse verso i
filibustieri, dicendo loro:
- Prima che abbandoniamo la
foresta, spero che gradirete una buona
tazza di latte.
- Toh! - esclamò Carmaux
allegramente. - Hai scoperto qualche mandria?
In tal caso possiamo regalarci
anche delle bistecche.
- Niente bistecche per ora, poiché
non mangeremo nessuna mucca.
- E chi darà il latte
adunque?
- "L'arbol del leche".
- Andiamo a mungere l'albero del
latte.
Il catalano si fece dare da Carmaux
una fiaschetta, s'avvicinò ad un
albero dalle foglie ampie, dal
tronco grosso, liscio, alto più di
venti metri, sorretto da robuste
radici che pareva non avessero posto
sufficiente sotto terra, uscendo,
e con un colpo del suo spadone lo
incise profondamente. Un istante
dopo da quella ferita si vide
sgorgare un liquido bianco,
denso, che somigliava perfettamente al
latte e che ne aveva anche il
gusto.
Tutti si dissetarono, gustandolo
molto, poi ripresero subito le mosse
cacciandosi in mezzo ai bambù,
assordati da un fischiare acuto ed
incessante prodotto dalle
lucertole.
Il terreno diventava sempre
meno consistente. L'acqua trapelava
dappertutto sotto i piedi dei
filibustieri, formando delle pozze che
s'allargavano rapidamente.
Delle bande d'uccelli acquatici
indicavano le vicinanze di una grande
palude e d'una savana. Si vedevano
stormi di beccaccini, di "anhinga",
volatili che hanno il collo tanto
lungo e sottile che fece dare loro
il nome di uccelli serpenti, la
testa piccolissima, il becco diritto
ed acuto e le penne setose a
riflessi d'argento; di "ani delle
savane", i più piccoli
della specie, essendo un po' meno grossi delle
gazze, colle penne d'un verde
oscuro contornate da un lembo violaceo
oscuro.
Già lo spagnolo cominciava a
rallentare il passo, per tema che il
terreno gli mancasse sotto i piedi,
quando un grido rauco e prolungato
si fece udire un po' innanzi,
seguito da un tonfo e da un gorgoglio.
- L'acqua!... - esclamò.
- Ma oltre l'acqua mi pare
che vi sia qualche animale, - disse
Carmaux. - Non hai udito?...
- Sì, il grido d'un
giaguaro.
- Brutto incontro, - brontolò
Carmaux.
Si erano fermati, appoggiando i
piedi su di alcuni bambù atterrati,
onde non affondare nella melma, ed
avevano sguainate le sciabole e le
spade.
L'urlo della fiera non era più
echeggiato; si udivano però dei
brontolii sommessi che
indicavano come il giaguaro fosse tutt'altro
che soddisfatto.
- Forse l'animale sta pescando, -
disse il catalano.
- I pesci?... - chiese Carmaux con
tono incredulo.
- Vi sorprende?...
- Che io sappia i giaguari non
posseggono degli ami.
- Hanno però le unghie e la
coda.
- La coda?... Ed a che cosa può
servire?...
- Per attirare i pesci.
- Sarei curioso di sapere in
qual modo. Forse che vi attaccano
all'estremità dei
vermicelli?...
- Niente affatto. Si limitano
a lasciarla pendere, sfiorando
dolcemente l'acqua coi lunghi peli.
- E poi?
- Il resto lo si spiega. Le raje
spinose, o le piraia ed i gimnoti
credendo di trovare una buona
preda accorrono ed è allora che il
giaguaro, con un lesto colpo di
zampa li afferra, mancando di rado i
curiosi che osano mostrarsi alla
superficie.
- Lo vedo, - disse in quel
momento l'africano, il quale essendo più
alto di tutti poteva guardare più
lontano.
- Chi?... - chiese il Corsaro.
- Il giaguaro, - rispose il negro.
- Che cosa fa?...
- E' sulla riva della savana.
- Solo?
- Pare che spii qualche cosa.
- E' lontano?
- Cinquanta o sessanta metri.
- Andiamo a vederlo, - disse il
Corsaro, con accento risoluto.
- Siate prudente, signore, -
consigliò il catalano.
- Se non ci chiuderà il
passo non saremo noi ad assalirlo.
Avviciniamoci in silenzio.
Scesero dai bambù e,
tenendosi celati dietro i fusti d'un macchione di
legno cannone, si misero ad
avanzare in profondo silenzio, colle
sciabole e le spade sguainate.
Percorsi venti passi, giunsero
sulla riva d'una vasta palude, la quale
pareva che si estendesse per un
lungo tratto in mezzo alla foresta
vergine.
Era una savana, ossia un bacino
melmoso formato dagli scoli di tutta
la foresta. Le sue acque, quasi
nere pel corrompersi di migliaia e
migliaia di vegetali, esalavano dei
miasmi deleteri pericolosi per gli
uomini, producendo delle febbri
terribili.
Piante acquatiche d'ogni specie
crescevano per ogni dove. Erano
cespugli di "mucumucù",
dalle larghe foglie galleggianti; gruppi di
"arum" le cui foglie
in forma di cuore sorgono sulla cima d'un
peduncolo, ed i "murici"
che si arrestano a fior d'acqua. Si vedevano
però anche le splendide
"vittorie regie", le più grandi fra le piante
acquatiche, misurando le loro
foglie perfino un metro e mezzo di
circonferenza. Sembravano tondi
mostruosi, con quei loro margini
rialzati, ma difesi da una vera
armatura di spine lunghe ed acute.
In mezzo a quelle foglie giganti,
spiccavano i superbi fiori di quelle
piante acquatiche, fiori che
sembravano di velluto bianco, a striature
purpuree con delle gradazioni rosee
d'una bellezza più unica che rara.
I filibustieri avevano appena dato
uno sguardo alla savana, quando
udirono dinanzi a loro, ad una
distanza brevissima, risuonare un sordo
brontolio.
- Il giaguaro, - esclamò il
catalano.
- Dov'è? - chiesero tutti.
- Eccolo là, sulla riva, in
agguato.
23.
L'ASSALTO DEL GIAGUARO
A cinquanta passi da loro, sul
margine d'una macchia di legno di
cannone, un superbo animale,
rassomigliante nelle forme ad una tigre,
di dimensioni però un po più
piccole, stava in agguato presso la riva
della savana, in
quell'attitudine che prendono i gatti quando
attendono i sorci.
Misurava quasi due metri di
lunghezza, doveva essere quindi uno dei
più grandi della specie, con
una coda di ottanta e più centimetri, un
collo breve e grosso come quello
d'un giovane toro, zampe robuste,
muscolose, armate di formidabili
artigli.
Il suo pelame era d'una bellezza
straordinaria, fitto e morbido, di
colore giallo rossiccio, a macchie
nere orlate di rosso, più piccole
sui fianchi e più grandi e
più spesse sul dorso, dove formavano una
grossa striscia.
Ci volle poca fatica pei
filibustieri a riconoscere in quell'animale
un giaguaro, il più
formidabile predatore delle due Americhe, più
pericoloso dei coguari e forse
anche dei mostruosi orsi grigi delle
Montagne Rocciose.
Queste fiere, che s'incontrano
dovunque, dalla Patagonia agli Stati
Uniti, rappresentano nelle due
Americhe le tigri e sono temibili
quanto queste, possedendone
l'agilità, la forza e la ferocia.
Abitano per lo più le
foreste umide e le rive delle savane e dei fiumi
giganti, specialmente del Rio
della Plata, delle Amazzoni e
dell'Orenoco, amando, cosa strana
nei felini, l'acqua.
Le stragi che fanno queste fiere
sono terribili; essendo dotate d'un
appetito fenomenale, assalgono
indistintamente tutti gli esseri che
incontrano. Le scimmie non
hanno scampo, poiché i giaguari
s'arrampicano facilmente sugli
alberi, né più né meno dei gatti; i
bovini e gli equini delle
fattorie possono ben difendersi a colpi di
corna od a calci, ma soccombono
presto poiché i sanguinari predatori
piombano addosso a loro con un
salto fulmineo spezzando la colonna
vertebrale con un solo colpo di
zampa. Nemmeno le testuggini sfuggono,
sebbene siano difese da gusci di
grande resistenza. Le unghie potenti
di quelle fiere perforano le
doppie corazze delle tartarughe "arrua"
ed estraggono la carne saporita.
Nutrono poi un'avversione
profonda pei cani, se pur invece non
apprezzano molto le loro carni,
e per prenderli osano entrare nei
villaggi indiani anche in pieno
giorno.
Anche gli uomini non vengono
risparmiati e molti poveri indiani ogni
anno pagano un largo tributo a
quei formidabili animali. Anche se
solamente feriti quasi sempre
soccombono a causa delle tremende
lacerature che producono gli
artigli di quelle fiere, non essendo
acuti.
Il giaguaro che stava in agguato
sulla riva della savana pareva che
non si fosse accorto della
vicinanza dei filibustieri, non avendo dato
indizio di essere inquieto.
Teneva gli occhi fissi sulle acque
nerastre della grande palude, come
se spiasse qualche preda che si
teneva nascosta sotto le larghe
foglie delle "vittorie regie".
S'era accovacciato in mezzo ai
legni cannone, non del tutto però,
perché si teneva come
sospeso, pronto a scattare.
I suoi baffi irti si muovevano
leggermente, dando indizio di
impazienza o di collera, e la
sua lunga coda sfiorava mollemente le
foglie dei fusti, senza produrre il
minimo rumore.
- Che cosa attende? - chiese il
Corsaro, che pareva avesse dimenticato
Wan Guld e la sua scorta.
- Spia qualche preda, - rispose il
catalano.
- Qualche testuggine forse?...
- No, - disse l'africano. - E' un
avversario degno di lui che attende.
Guardate là, sotto le
foglie delle "vittorie" non vedete sporgere un
muso?...
- Compare sacco di carbone ha
ragione, - disse Carmaux. - Vedo sotto
le foglie qualche cosa che si
muove.
- E' l'estremità del muso
d'un "jacarè", compare, - rispose il negro.
- D'un caimano? - chiese il
Corsaro.
- Sì, padrone.
- Osano assalire perfino quei
formidabili rettili?
- Sì signore, - disse il
catalano. - Se stiamo zitti, assisteremo ad
una terribile lotta.
- Speriamo che non sia cosa lunga.
- Sono due avversari poco pazienti
e quando si trovano l'uno di fronte
all'altro non lesineranno i
morsi. Ah!... Ecco che lo "jacarè" si
mostra.
Le foglie delle "vittorie"
si erano bruscamente allontanate e due
mascelle enormi, armate di lunghi
denti triangolari, erano comparse,
allungandosi verso la riva.
Il giaguaro, vedendo il caimano
accostarsi, si era alzato, facendo una
mossa indietro. Non doveva però
averla fatta per paura di quelle
mascelle, bensì
coll'evidente intenzione di attirare a terra
l'avversario per privarlo di uno
dei suoi principali mezzi di difesa,
ossia dell'agilità,
essendo quei rettili assai impacciati quando si
trovano fuori dell'acqua.
Il caimano, ingannato da quella
mossa, credendo forse che il giaguaro
avesse paura, con un poderoso
colpo di coda, che troncò di netto le
foglie delle vittorie dai loro
gambi spinosi e che sollevò una grande
ondata, si slanciò
innanzi, mettendo piede sulla riva, dove subito
s'arrestò mostrando le
terribili mascelle aperte.
Era un grande "jacarè",
lungo quasi cinque metri, col dorso coperto di
piante acquatiche che gli erano
cresciute fra il fango, che gli si era
incastrato sulle scaglie ossee.
Scosse l'acqua che lo inondava,
lanciando intorno una miriade di
spruzzi, poi si piantò
sulle brevi zampe posteriori e mandò un grido
che rassomigliava al vagito d'un
bambino, forse un grido di sfida.
Il giaguaro, invece di assalirlo,
aveva fatto un altro salto indietro,
e si tenne raccolto su sé
stesso, pronto a scagliarsi.
Il re delle foreste e il re delle
savane si guardarono per alcuni
istanti in silenzio, coi loro
occhi giallastri che avevano un lampo
feroce, poi il primo fece udire
un brontolio d'impazienza e si
raccorciò soffiando come un
gatto in collera.
Il caimano, niente spaventato e
consapevole della propria forza
prodigiosa e della robustezza dei
denti, salì risolutamente la sponda
agitando la pesante coda a destra e
a manca.
Era il momento atteso dal furbo
giaguaro. Vedendo che l'avversario era
ormai a terra, spiccò un
gran salto in aria e gli piombò addosso, ma i
suoi artigli, quantunque solidi
come l'acciaio, incontrarono le
scaglie ossee del rettile,
quelle piastre così solide da non
permettere ad una palla di fucile
di attraversarle.
Furioso per non essere riuscito
in quel primo assalto, si volse con
rapidità prodigiosa,
avventò un colpo d'artiglio alla testa
dell'avversario strappandogli un
occhio, poi con un secondo volteggio
balzò nuovamente a terra,
dieci passi più innanzi.
Il rettile aveva mandato un lungo
muggito di rabbia e di dolore.
Privo d un occhio come era, non
poteva più far fronte vantaggiosamente
al pericoloso nemico e cercava di
guadagnare la savana, vibrando
furiosi colpi di coda, i quali
sollevavano spruzzi di fango.
Il giaguaro che si teneva in
guardia, per la seconda volta si slanciò
innanzi, cadendogli addosso; però
non cercò di riprovare le unghie
sulla impenetrabile corazza.
Si curvò innanzi e con
un colpo d'artiglio ben assestato scucì il
fianco destro del rettile,
strappandogli contemporaneamente dei brani
d'interiora.
La ferita doveva essere
mortale, però il rettile possedeva ancora
troppa vitalità per darsi
per vinto. Con uno scrollo irresistibile si
sbarazzò del nemico,
facendolo capitombolare malamente in mezzo ai
fusti di legno cannone, poi gli si
avventò sopra per tagliarlo in due
con un buon colpo dei suoi
innumerevoli denti.
Disgraziatamente per lui, avendo
un occhio solo, non poté prendere
esattamente le sue mire, ed invece
di triturare l'avversario, ciò che
gli sarebbe riuscito facile, non
gli abboccò che la coda.
Un urlo feroce, terribile,
lanciato dal giaguaro, avvertì i
filibustieri che quell'appendice
era stata mozzata di colpo.
- Povera bestia! - esclamò
Carmaux. - Farà una ben brutta figura senza
coda.
- Si prende però la
rivincita, - disse il catalano.
Infatti il sanguinario predatore si
era rivoltato contro il rettile,
con furore disperato. Fu
veduto aggrapparglisi al muso,
lacerandoglielo ferocemente, a
rischio di perdere le zampe, e lavorare
di artigli con rapidità
prodigiosa.
Il povero "jacarè"
grondante di sangue, orribilmente mutilato ed
acciecato, retrocedeva sempre per
riguadagnare la savana. La sua coda
vibrava colpi formidabili e le
sue mascelle si rinchiudevano con
fracasso, senza riuscire a
sbarazzarsi della fiera che continuava a
dilaniarlo.
Ad un tratto entrambi caddero in
acqua. Per alcuni istanti furono
veduti dibattersi fra un monte di
spuma che il sangue arrossava, poi
uno di loro ricomparve presso la
riva.
Era il giaguaro ridotto in uno
stato deplorevole. Dal suo pelame
grondava ad un tempo sangue ed
acqua. La coda lasciata fra i denti del
rettile, una zampa pareva spezzata
ed il dorso era scorticato.
Salì faticosamente la
riva, arrestandosi di tratto in tratto a
guardare le acque della savana,
con due occhi che mandavano lampi
feroci, raggiunse la macchia dei
legni cannone e scomparve agli occhi
dei filibustieri, mandando un
ultimo miagolio di minaccia.
- Credo che abbia avuto il suo
conto, - disse Carmaux.
- Sì, però lo
"jacarè" è morto e domani, quando tornerà
a galla
servirà di colazione al
giaguaro, - rispose il catalano.
- Se l'è guadagnata a caro
prezzo.
- Bah!... Hanno la pelle dura
quelle fiere, e guarirà.
- La coda non gli spunterà
di certo.
- Bastano i denti e gli artigli.
Il Corsaro Nero si era rimesso in
cammino costeggiando le rive della
savana. Passando là dove
era avvenuta la terribile lotta fra il re
delle foreste americane ed il re
dei fiumi e delle paludi, Carmaux
vide a terra uno degli occhi
perduti dal rettile.
- Peuh.!... - esclamò. -
Come è brutto!... Anche spegnendosi ha
conservato un lampo d'odio e di
bramosia feroce.
I filibustieri s'affrettavano.
Essendo le rive della savana ingombre
solo di fusti di legno cannone e di
"mucumucù", piante facilissime ad
abbattersi, la marcia riusciva
più lesta che attraverso l'intricata
foresta.
Dovevano però ben guardarsi
dai rettili, che si trovavano numerosi nei
dintorni delle savane,
specialmente dagli "jacarè", serpenti che
sfuggono facilmente agli sguardi,
avendo la pelle color delle foglie
secche e che nondimeno sono forse i
più pericolosi di tutti, essendo i
loro morsi senza rimedio.
Fortunatamente pareva che quei
pericolosi abitanti dei luoghi umidi
mancassero. Abbondavano invece
straordinariamente i volatili, i quali
volteggiavano in bande numerose al
di sopra delle piante acquatiche ed
attorno ai fusti di legno cannone.
Oltre agli uccelli di palude si
vedevano bellissimi fagiani di fiume,
dalle penne screziate e dalle
lunghe code, chiamati "ciganas", degli
stormi di pappagalli chiassosi,
verdi gli uni, gialli e rossi gli
altri; dei superbi "canindè",
grossi pappagalli somiglianti alle
"cacatoes", colle ali
turchine ed il petto giallo, e nuvoli di "tico-
tico", uccelletti che
s'avvicinavano alle passere.
Anche qualche truppa di scimmie
appariva sulle rive della savana,
proveniente dalla foresta. Erano
dei "cebo barbabianca" dal pelame
lungo e morbido come la seta, di
colore nero e grigio, con una lunga
barba candidissima che dava loro
l'aspetto di vecchioni.
Le madri seguivano i maschi,
portando sulle spalle i piccini, appena
però vedevano i
filibustieri si affrettavano a darsela a gambe,
lasciando ai maschi la cura di
proteggere la ritirata.
A mezzodì il Corsaro,
vedendo i suoi uomini affranti da quella lunga
marcia che durava da dieci ore e
quasi senza interruzione, diede il
segnale della fermata, accordando
un riposo ben guadagnato.
Volendo risparmiare i pochi viveri
che avevano portato con loro e che
potevano diventare preziosissimi
nella grande foresta, si misero
subito in cerca di selvaggina e di
frutta.
L'amburghese ed il negro
s'occuparono degli alberi e furono tanto
fortunati da scoprire, poco
lontano dalle rive della savana, una
"bacaba", palma
bellissima, che produce dei fiori d'una tinta cremisi,
e che incidendola dà una
specie di vino; ed una "jabuticabeira",
albero alto sei o sette metri,
dal fogliame verde cupo e che produce
delle frutta grosse come i nostri
aranci lisci, d'una bella tinta
giallo viva e che attorno ad
un enorme nocciolo hanno una polpa
delicata ed assai saporita.
Carmaux ed il catalano invece
s'incaricarono della selvaggina, dovendo
provvedere anche al pasto serale.
Avendo osservato che sulle rive
della savana non si vedevano che
uccelli, difficili ad uccidersi,
non possedendo del piombo minuto,
decisero di accostarsi alla
grande foresta sperando di abbattere
qualche "kariaku",
animali somiglianti ai caprioli, o qualche
"pecari", specie di
cinghiale.
Dopo d'aver detto ai compagni
di preparare intanto il fuoco,
s'allontanarono con passo celere,
sapendo che il Corsaro non avrebbe
atteso molto, premendogli troppo
di sorprendere Wan Guld e la sua
scorta.
In quindici minuti attraversarono i
folti cespugli dei legni cannone e
dei "mucumucù" e
si trovarono sul margine della foresta vergine in
mezzo ad un agglomeramento di
grossi cedri, di palmizi d'ogni specie,
di cactus spinosi, di grandi
"helianthus" e di splendide "salvie
fulgens" cariche di fiori
d'una impareggiabile tinta cremisina.
Il catalano si era arrestato,
tendendo gli orecchi per raccogliere
qualche rumore, che indicasse
la vicinanza di qualche capo di
selvaggina, ma un silenzio quasi
assoluto regnava sotto quelle fitte
volte di verzura.
- Temo che saremo costretti a
mettere le mani sulle nostre riserve, -
disse, crollando il capo. - Forse
ci troviamo nei dominii del giaguaro
e la selvaggina già da tempo
avrà preso il largo.
- Pare impossibile che in queste
selve non si possa trovare almeno un
gatto.
- Anzi avete veduto che non
mancano: che gattacci però!
- Se incontriamo il giaguaro lo
uccideremo.
- Non è cattiva del
tutto la carne di quelle fiere, specialmente
condita coi cavoli rossi.
- Allora lo uccideremo.
- Ah!... Ah!... - esclamò
il catalano, che aveva alzato vivamente il
capo. - Credo che uccideremo
qualche cosa di meglio.
- Hai veduto un capriolo, catalano
del mio cuore?...
- Guardate lassù, non vedete
volare un grosso uccello?...
Carmaux alzò gli occhi e
vide infatti un uccellaccio nero volare fra i
rami e le foglie degli alberi.
- E' quello il capriolo che mi
prometti?...
- Quello là è un
"gule-gule". Toh, guardate, eccone un secondo e
laggiù se ne vedono degli
altri.
- Uccidili con una palla, se
sei capace, - disse Carmaux,
ironicamente. - E poi non ho
fiducia dei tuoi "gule-gule".
- Non pretendo di abbatterli; anzi
tutt'altro, ma se non lo sapete, vi
dirò che ci indicheranno
dove troveremo della selvaggina eccellente.
- E quale?...
- Dei cinghiali.
- Ventre di pesce-martello!...
Come assaggerei volentieri una
costoletta ed un prosciutto di
cinghiale!... Spiegami però che cosa
c'entrano i tuoi "gule-gule"
con quegli animali.
- Quegli uccelli, che sono dotati
d'una vista acutissima, scoprono da
lontano i cinghiali e s'affrettano
a raggiungerli per empirsi il
ventre...
- Di carne di cinghiale!...
- Mai più, dei vermi,
degli scorpioni, delle scolopendre che gli
animali scoprono nel sollevare la
terra col loro grugno, onde cercare
le radici ed i bulbi di cui sono
ghiotti.
- Anche le scolopendre divorano?...
- Certo.
- E non muoiono?
- Si dice che i "gule-gule"
siano refrattari all'azione velenosa di
quegli insetti.
- Ho capito. Seguiamo i volatili
prima che scompaiano e prepariamo i
fucili. Toh!... E non ci udranno
gli spagnoli?
- Allora il Corsaro digiuni.
- Tu parli come un libro stampato,
catalano mio. Meglio che ci odano e
che riempiamo il ventre o ci
verranno meno le forze per continuare
l'inseguimento.
- Zitto!...
- I cinghiali?...
- Non lo so; qualche animale si
avvicina a noi. Non sentite muoversi
le foglie dinanzi a noi?
- Sì, odo.
- Aspettiamo e teniamoci pronti a
far fuoco.
24.
LE DISGRAZIE DI CARMAUX
Le foglie delle piante si udivano
muoversi con una certa precauzione a
circa quaranta passi dai due
cacciatori, i quali si erano affrettati a
nascondersi dietro il tronco d'un
grosso simaruba.
I rami scricchiolavano qua e là,
come se l'animale che si avvicinava
fosse indeciso sulla via da
prendere, però s'avvicinava sempre.
Ad un tratto Carmaux vide aprirsi
un cespuglio e balzare in mezzo ad
un piccolo spazio aperto un
animale lungo quasi mezzo metro, dal
pelame nero rossiccio, basso di
gambe e fornito d'una coda assai ricca
di peli.
Carmaux non sapeva a che specie
appartenesse e se fosse mangiabile o
no; vedendolo però fermo,
a soli trenta passi, spianò rapidamente il
fucile e fece fuoco.
L'animale cadde, poi subito si
risollevò, con una vivacità che
indicava come non fosse stato
gravemente ferito e si allontanò,
cacciandosi in mezzo ai cespugli e
alle radici.
- Ventre di tutti i pesci-cani
dell'oceano!... - esclamò il
filibustiere. - L'ho mancato!...
Eh!... caro mio, non credo però che
correrai molto
Si precipitò innanzi,
senza perdere tempo a ricaricare l'arma,
slanciandosi animosamente sulle
tracce dell'animale, senza ascoltare
il catalano che gli gridava dietro:
- Badate al vostro naso!
L'animale fuggiva a tutte gambe,
cercando probabilmente di giungere al
suo covo. Carmaux, però,
era lesto e lo inseguiva da vicino, colla
sciabola d'arrembaggio in mano,
pronto a tagliarlo in due.
- Ah! brigante - urlava. - Puoi
fuggire anche a casa del diavolo io ti
raggiungerò!
Il povero animale non
s'arrestava; perdeva però le forze. Delle
macchie di sangue, che si
vedevano sull'erba e sulle foglie,
indicavano che la palla del
filibustiere lo aveva toccato.
Ad un certo momento, esausto
da quella corsa e dalla perdita del
sangue, s'arrestò presso il
tronco d'un albero. Carmaux, credendo di
averlo ormai in mano, gli si
precipitò addosso. D'improvviso fu
investito da un puzzo così
orrendo, che cadde all'indietro come se
fosse stato soffocato di colpo.
- Morte di tutti i pesci-cani
dell'Oceano! - si udì urlare. -
All'inferno quella carogna! Che
scoppi!
Poi una serie di sternuti lo prese,
impedendogli di proseguire le sue
invettive.
Il catalano accorreva in suo
aiuto per soccorrerlo. Giunto a dieci
passi da lui s'arrestò,
turandosi il naso con ambo le mani.
- "Carramba"! - disse. -
Ve lo avevo detto, "caballero", di fermarvi.
Eccovi profumato per una
settimana. Io non mi sento l'anima di
giungere fino a voi.
- Ehi, amico! - gridò
Carmaux. - Che io sia appestato? Mi sento venir
male come se provassi il mal di
mare.
- Fuggite e cambiate aria.
- Mi sembra di crepare. Cosa è
successo?
- Muovetevi, vi dico. Fuggite
da quell'odore insopportabile che ha
appestati i cespugli.
Carmaux si alzò a fatica e
s'allontanò cercando di dirigersi verso il
catalano. Questi, appena lo
vide muovergli incontro, fu lesto a
frapporre una certa distanza.
- Mille pesci-cani! Hai paura? -
chiese Carmaux. - Allora io ho il
colera!
- No, caballero, ma profumerete
anche me.
- Come potrò tornare
all'accampamento? Farò fuggire tutti, anche il
comandante.
- Bisognerà che vi lasciate
affumicare, - disse il catalano, che
frenava a grande stento le risa.
- Come un'aringa?
- Né più né
meno, "caballero".
- Dimmi un po' amico, cos'è
accaduto? E' stata quella bestia a
sprigionare quest'orribile odore
d'aglio marcio, che mi rivolta lo
stomaco? Sai che mi sembra che il
cranio scoppi?
- Vi credo.
- E' stato quell'animale?
- Sì, "caballero".
- Cos'era adunque?
- Lo chiamano il "surrilho".
E' una specie di puzzola, certamente la
peggiore di tutta la specie,
nessuno potendo resistere al suo odore,
nemmeno i cani.
- E da dove sprigiona quel profumo
del diavolo?
- Da alcune glandolette che
tiene sotto la coda. Vi ha colpito il
liquido?
- No, poiché era un po'
lontano.
- Siete stato fortunato. Se le
vostre vesti avessero ricevuto una sola
goccia di quel liquido oleoso,
avreste dovuto continuare il viaggio
nudo come babbo Adamo.
- Tuttavia puzzo peggio d'un
letamaio.
- Vi affumicheremo, vi ho detto.
- All'inferno tutti i "surrilho"
della terra! Mi poteva toccare di
peggio? Bella figura che faremo al
nostro ritorno!... Ci aspettavano
con della selvaggina ed invece
rimorchio un carico di profumo
infernale!...
Lo spagnolo non rispondeva; rideva
invece a crepapelle, udendo i
lamenti del filibustiere e
procurava di tenersi sempre lontano, in
attesa che l'aria purificasse un
po' quel disgraziato cacciatore.
Presso l'accampamento trovarono Wan
Stiller, il quale era andato loro
incontro, credendoli occupati a
trascinare un capo di selvaggina
troppo pesante per le loro forze.
Sentendo l'odore che tramandava
Carmaux fuggì a tutte gambe,
turandosi il naso.
- Tutti mi sfuggono ora, come
se avessi il colera indosso - disse
Carmaux. - Finirò col
gettarmi nella savana.
- Non fareste niente, - disse il
catalano. - Fermatevi li ed aspettate
il mio ritorno od appesterete tutti
noi.
Carmaux fece un gesto di
rassegnazione e si sedette malinconicamente
ai piedi d'un albero, emettendo un
sospirone.
Dopo aver informato il Corsaro
della comica avventura, il catalano si
recò nella foresta assieme
all'africano e fece raccolta di certe erbe
verdi, somiglianti a quelle
sarmentose del pepe, e le depose a venti
passi da Carmaux, poi vi diede
fuoco.
- Lasciatevi affumicare per bene da
queste, - disse fuggendo e ridendo
ad un tempo. - Vi aspetto a
colazione.
Carmaux, rassegnato, andò
a esporsi al fumo densissimo che si
sprigionava da quelle piante,
risoluto a non togliersi di là, fino a
che non avesse perduto l'odore
orrendo che lo impregnava.
Quei sarmenti, ardendo,
tramandavano un odore così acre, che gli occhi
del povero filibustiere piangevano
copiosamente come se il catalano vi
avesse mescolato delle bacche di
vero pepe. Nondimeno egli resisteva
con grande filosofia, lasciandosi
affumicare come un'aringa.
Mezz'ora dopo, non sentendo più
che debolmente l'odore sprigionato
dalle glandole del "surrilho",
decise di togliersi di là, dirigendosi
verso l'accampamento, dove i
compagni erano occupati a dividersi una
grossa testuggine, che avevano
sorpresa sulle rive della savana.
- E' permesso?... - chiese egli. -
Con tutto quel fumo spero d'essermi
purificato.
- Avanzati, - rispose il Corsaro.
- Abituati all'acre odore del
catrame, possiamo tollerare anche
quello che tramandi tu, ma spero che
in seguito ti guarderai dal
"surrilho".
- Per centomila pesci-cani!... Se
ne vedrò uno ancora, scapperò tre
miglia più lontano, ve lo
prometto, comandante. Me la prenderò
piuttosto coi coguari e coi
giaguari.
- Eravate almeno nel più
fitto della foresta, quando avete fatto
fuoco?...
- Spero che la detonazione non si
sarà propagata molto, - rispose il
catalano.
- Mi spiacerebbe che i
fuggiaschi potessero sospettare di essere
inseguiti.
- Io credo invece che ne abbiano la
certezza, capitano.
- E da che cosa lo arguisci?...
- Dalla loro rapida marcia. A
quest'ora, noi dovremmo averli già
raggiunti.
- Vi è forse un motivo
molto urgente che spinge Wan Guld ad
affrettarsi.
- E quale, signore?...
- Il timore che l'Olonese piombi su
Gibraltar.
- Vorrà tentare l'assalto di
quella piazza? - chiese il catalano, con
inquietudine.
- Forse... vedremo, - rispose il
Corsaro evasivamente.
- Se ciò dovesse
avvenire, io non combatterò mai contro i miei
compatrioti, signore, - disse il
catalano con voce commossa. - Un
soldato non può alzare le
sue armi contro una città, sulle cui mura
sventola la bandiera del proprio
paese. Finché si tratta di Wan Guld,
un fiammingo, sono pronto ad
aiutarvi, ma non farò niente di più.
Preferirei mi appiccaste.
- Ammiro il tuo attaccamento verso
la tua patria, - rispose il Corsaro
Nero. - Quando noi avremo raggiunto
Wan Guld, io ti lascerò libero di
recarti a difendere Gibraltar, se
lo vorrai.
- Grazie "caballero":
fino allora sono a vostra disposizione.
- Allora ripartiamo o non potremo
più raggiungerlo.
Raccolsero le loro armi, i
pochi viveri che ancora possedevano e
ripresero la marcia, seguendo le
sponde della savana, le quali
continuavano a mantenersi sgombre
di piante d'alto fusto.
Il calore era intenso, tanto più
che in quel luogo non vi era ombra,
pure i filibustieri, abituati alle
alte temperature del Golfo del
Messico e del Mare Caraybo, non
soffrivano molto. Tuttavia fumavano
come zolfatare e tale era
l'abbondanza di sudore che usciva da tutti i
loro pori, che dopo pochi passi
avevano i vestiti inzuppati.
Per di più le acque
della savana, colpite in pieno dai raggi
implacabili di quel sole,
mandavano dei riflessi accecanti, i quali
colpivano dolorosamente gli
occhi di tutti, mentre dei miasmi
pericolosi s'alzavano sotto
forma d'una leggera nebbia, miasmi che
potevano diventare fatali causando
la terribile febbre dei boschi.
Fortunatamente, verso le quattro
pomeridiane, si scorse l'estremità
opposta della savana, la quale
si cacciava in mezzo alla grande
foresta a forma d'un collo di
bottiglia.
I filibustieri ed il catalano,
che marciavano con molta lena,
quantunque fossero assai
trafelati, stavano per piegare verso la
foresta, quando il negro che veniva
ultimo additò loro qualche cosa di
rosso che si manteneva a fior d'un
pantano verdastro che si allungava
verso la savana.
- Un uccello?... - chiese Carmaux.
- Mi sembra piuttosto un berretto
spagnolo, - disse il catalano. - Non
vedete che vi è anche un
ciuffo di piume nere?...
- Chi può averlo gettato in
quel pantano?... - chiese il Corsaro.
- Credo che si tratti di qualche
cosa di peggio, signore, - disse il
catalano. - O m'inganno assai o
quel fango è costituito da certe
sabbie che afferrano sempre e che
non rendono mai.
- Che cosa vuoi dire?...
- Che forse sotto quel
berretto vi è un disgraziato che è stato
inghiottito vivo dal fango.
- Andiamo a vedere.
Deviarono dal loro cammino e si
diressero verso quel bacino fangoso,
che aveva un'estensione di tre o
quattrocento metri su altrettanti di
larghezza e che pareva un lembo di
savana semi-disseccata, e videro
che si trattava veramente d'uno di
quei berretti di seta variegata di
rosso e giallo, adorno d'una
piuma, assai usata dagli spagnoli. Era
rimasto adagiato sul fango, nel
centro d'una escavazione che aveva la
forma di un imbuto, e lì
presso si vedevano sorgere come cinque
piccoli piuoli d'una tinta tale che
fece fremere i filibustieri.
- Le dita di una mano!... - avevano
esclamato Carmaux e Wan Stiller.
- Ve lo avevo detto "caballero",
che sotto quel berretto si trovava un
cadavere, - disse il catalano con
accento triste.
- Chi può essere quel
disgraziato che la savana ha inghiottito?... -
chiese il Corsaro.
- Un soldato della scorta del
governatore, - rispose il catalano. -
Quel berretto io l'ho veduto in
capo a Juan Barrero.
- Wan Guld è adunque passato
di qui?...
- Eccone una triste conferma,
signore...
- Che sia caduto nel fango
accidentalmente?...
- Lo credo.
- Orrenda morte!...
- La più terribile,
signore. Venire assorbiti vivi da quel fango
tenace e puzzolente, dev'essere una
fine spaventevole.
- Orsù, lasciamo i morti e
pensiamo ai vivi, - disse il Corsaro
dirigendosi verso la foresta. -
Noi siamo ormai certi di essere sulle
tracce dei fuggiaschi.
Stava per invitare i compagni
ad affrettarsi, quando un sibilo
prolungato con certe modulazioni
strane, echeggiato verso la parte più
folta della foresta, lo arrestò.
- Che cos'è questo?... -
chiese volgendosi verso il catalano.
- Non saprei, - rispose questi,
lanciando uno sguardo inquieto verso
gli alberi giganti.
- Qualche uccello che canta in quel
modo?...
- Non ho mai udito questo fischio,
signore.
- E tu, Moko, - chiese il Corsaro
volgendosi verso l'africano.
- Nemmeno io, capitano.
- Che sia un segnale?
- Lo temo, - rispose il catalano.
- Dei tuoi compatrioti che
inseguiamo?...
- Uhm? - fe' lo spagnolo crollando
il capo.
- Non lo credi?...
- No, signore. Temo invece che
ben presto avremo da fare con gli
indiani.
- Indiani liberi e vostri alleati?
- chiese il Corsaro, aggrottando la
fronte.
- Lanciati addosso dal Governatore.
- Allora deve sapere che noi lo
inseguiamo.
- Può averlo sospettato.
- Bah!... Se si tratta di indiani,
li fugheremo facilmente.
- Sono pericolosi nella foresta
vergine, forse più dei bianchi. Le
loro imboscate difficilmente si
evitano.
- Cercheremo di non lasciarci
sorprendere. Armate i fucili e non
risparmiate le cariche. Il
Governatore ormai sa che noi gli stiamo
alle calcagna, poco importa quindi
che oda le nostre moschettate.
- Andiamo adunque a vedere gli
indiani di questo paese, - disse
Carmaux. - Non saranno più
belli degli altri di certo, né più cattivi.
- Guardatevene, "caballero",
- disse il catalano. - Gli uomini rossi
del Venezuela sono antropofaghi e
sarebbero ben contenti di mettervi
arrosto.
- Ventre di pesce-cane!... Wan
Stiller, amico mio, difendiamo per bene
le nostre costolette.
25.
GLI ANTROPOFAGHI DELLA FORESTA
VERGINE
Si erano allora addentrati nella
foresta, impegnandosi fra miriadi di
palmizi, di bacaba vinifere, di
ceropia, chiamate anche alberi
candelabri per la stranissima
disposizione dei loro rami; di "cari",
specie di palme dal fusto
spinoso che rendono difficilissimo e
pericoloso l'accesso fra le loro
macchie; di "miriti", altre palme, di
dimensioni enormi e con le foglie
disposte a ventaglio, e di "sipò",
liane grosse e robuste che
gl'indiani adoperano nella costruzione
delle loro capanne.
Temendo una sorpresa, s'avanzavano
con grande prudenza, tendendo gli
orecchi e guardando attentamente le
macchie più fitte entro le quali
potevano celarsi gli indiani.
Il segnale non si era più
udito, tutto indicava però che degli uomini
erano passati per di là.
Gli uccelli erano scomparsi e del pari le
scimmie, spaventate senza dubbio
dalla presenza dei loro eterni
nemici, gl'indiani, i quali fanno
agli uni ed alle altre una caccia
accanita, essendo ghiotti delle
loro carni.
Per di più si vedevano qua
e là dei rami spezzati di recente, delle
foglie smosse, delle liane
troncate solo da poco tempo, e che
perdevano ancora delle gocce di
linfa.
Marciavano da due ore, sempre
con mille precauzioni, cercando di
mantenere la loro direzione verso
il sud, quando si udirono ad una
certa distanza alcune modulazioni,
che parevano mandate da uno di quei
flauti di bambù usati dagli
indiani.
Il Corsaro, con un gesto, aveva
arrestato i compagni.
- E' un segnale, è vero?...
- chiese al catalano.
- Sì, signore, - rispose
questi. - Non possiamo ingannarci.
- Gli indiani devono essere vicini.
- Forse più di quanto
crediate. Siamo in mezzo a delle macchie
foltissime che si prestano per un
agguato.
- Che cosa mi consigli di
fare?... Attendere che si mostrino o
continuare la marcia?
- Se vedono arrestarci, possono
credere che noi abbiamo paura.
Andiamo, signore, e non risparmiamo
i primi che si faranno innanzi.
Le modulazioni del flauto si
fecero udire più vicine. Pareva che
uscissero da un macchione di
palme "cari", piante che formavano un
ostacolo insuperabile coi loro
tronchi irti di spine lunghe ed acute.
- Wan Stiller, - disse il Corsaro,
volgendosi verso l'amburghese, -
cerca di far tacere quel suonatore
misterioso.
Il marinaio, che era un valente
bersagliere, essendo stato parecchi
anni bucaniere, puntò il
fucile verso la macchia, cercando di scorgere
l'indiano che suonava o di scoprire
un qualche luogo ove le foglie si
muovevano, poi fece partire il
colpo, ma a casaccio.
La strepitosa detonazione fu
seguita da un grido, che tosto si cambiò
in uno scroscio di risa.
- Morte del diavolo!... - esclamò
Carmaux. - Hai mancato il colpo.
- Tuoni d'Amburgo!... - gridò
Stiller, con stizza. - Se avessi potuto
vedere un pezzettino del suo
cranio, non so se quel cane riderebbe
ancora.
- Non importa, - disse il Corsaro.
- Ora sanno che noi siamo armati di
fucili e diverranno più
prudenti. Avanti, uomini del mare!...
La foresta era diventata cupa e
selvaggia. Un vero caos d'alberi, di
foglie gigantesche, di liane e di
radici mostruose, si offriva dinanzi
agli sguardi dei filibustieri,
confusamente, perché i raggi del sole
non riuscivano a penetrare
attraverso la fitta volta di verzura.
Nondimeno un calore intenso e
umido, come di serra calda, regnava
sotto i colossi della flora
equatoriale, facendo sudare
prodigiosamente i coraggiosi uomini
che volevano attraversare quella
immensa foresta.
Con le dita sui grilletti dei
fucili, gli occhi bene aperti e gli
orecchi tesi, il catalano, i
marinai, il Corsaro, ed il negro si
inoltravano cautamente, tenendosi
l'uno dietro l'altro.
Guardavano le macchie, i cespugli,
le immense foglie, gli ammassi di
radici ed i festoni formati dalle
liane, pronti a scaricare le armi
sul primo indiano che avesse osato
mostrarsi.
Dopo quei segnali, più
nessun rumore aveva turbato il profondo e
pauroso silenzio, che regnava
nella foresta vergine; pure né il
Corsaro, né i suoi
compagni si credevano al sicuro da un improvviso
attacco, anzi tutt'altro.
Sentivano per istinto che quei nemici, che
avevano tanta cura di non
mostrarsi, non dovevano trovarsi lontani.
Erano giunti in un passaggio più
intricato degli altri e più oscuro
quando si vide il catalano
abbassarsi bruscamente, poi gettarsi
prontamente dietro un tronco di un
albero.
Un sibilo leggero s'era udito
in aria, poi una sottile canna
attraversò le fronde degli
alberi, conficcandosi in un ramo che si
trovava all'altezza di un uomo.
- Una freccia!... - gridò lo
spagnolo. - Attenti!
Carmaux, che si trovava dietro
di lui, fece rimbombare il suo
moschettone.
La detonazione non s'era ancora
spenta, quando in mezzo a quei fitti
macchioni echeggiò un urlo
acuto, prolungato, un urlo di dolore.
- Ventre di pesce-cane!... Ti ho
colto! - urlò Carmaux.
- Badate! - tuonò in
quell'istante il catalano.
Quattro o cinque frecce, lunghe
un buon metro, passarono sibilando
sopra i filibustieri, nel momento
che questi si precipitavano a terra.
- Là, in quel macchione! -
gridò Carmaux.
Wan Stiller, il negro ed il
catalano scaricarono le loro armi formando
una sola detonazione, nessun altro
grido però si udì echeggiare.
Attraverso gli alberi si udirono
nondimeno rompersi impetuosamente dei
rami, scrosciare le foglie secche,
poi ogni rumore cessò.
- Pare che ne abbiano avuto
abbastanza, - disse Wan Stiller.
- Silenzio, tenetevi dietro gli
alberi, - disse il catalano.
- Temi che ci assalgano ancora? -
gli chiese il Corsaro.
- Ho udito anche sulla nostra
destra agitarsi le foglie.
- E' dunque una vera imboscata?
- Lo sospetto, signore.
- Se Wan Guld crede che gli
indiani possano arrestarci, s'inganna
assai. Andremo innanzi a dispetto
di tutti gli ostacoli.
- Non abbandoniamo questi alberi
protettori, signore. Forse le frecce
dei Caraibi sono avvelenate.
- Davvero?...
- Usano avvelenarle al pari
dei selvaggi dell'Orenoco e delle
Amazzoni.
- Non possiamo però rimanere
qui eternamente.
- Lo so, tuttavia non possiamo
esporci ai loro colpi.
- Padrone, - disse in quel momento
il negro, - volete che vada a
frugare le macchie?
- No, poiché ti esporresti
ad una morte certa.
- Silenzio, comandante, - disse
Carmaux. - Udite.
Alcune note cavate da un
flauto echeggiarono nel più folto della
foresta. Erano suoni tristi e
monotoni e così acuti che si dovevano
udire a grandi distanze.
- Che cosa vorranno significare? -
chiese il Corsaro, che cominciava
ad impazientirsi. - Sarà un
segnale di raccolta o d'assalto?
- Comandante, - disse Carmaux - mi
permettete un consiglio?
- Parla.
- Snidiamo questi noiosi indiani
incendiando la foresta.
- E bruceremo vivi anche noi. Chi
spegnerebbe poi il fuoco?
- Marciamo sparando archibugiate a
destra ed a manca, - suggerì Wan
Stiller.
- Credo che tu abbia avuto una
buona idea, - rispose il Corsaro. -
Marceremo con la musica in testa.
Orsù, fuoco d'ambo i lati, miei
bravi, e lasciate a me la cura di
forzare il passo.
Il Corsaro si mise in prima
linea, tenendo la spada nella destra ed
una pistola nella sinistra, e
dietro di lui a due a due si collocarono
i filibustieri, il catalano ed il
negro.
Appena abbandonati i tronchi
protettori, Carmaux e Moko scaricarono i
fucili uno a destra e l'altro
a sinistra, poi, dopo un breve
intervallo, il catalano e Wan
Stiller. Ricaricate prontamente le armi,
ripresero quella musica infernale
senza risparmio di munizioni. Il
Corsaro intanto apriva la via
tagliando le liane e le foglie che
impedivano il passo, pronto però
a bruciare le cariche delle sue
pistole alla prima comparsa degli
indiani.
Quel rombare furioso parve che
producesse un certo effetto sui
misteriosi nemici, nessuno avendo
osato di mostrarsi. Qualche freccia,
però, cadde a breve
distanza e passò sopra il drappello senza colpire
alcuno.
Già credevano di essere
sfuggiti all'agguato, quando un albero enorme
venne a cadere, con orribile
fracasso, quasi dinanzi a loro sbarrando
la via.
- Tuoni d'Amburgo! - esclamò
Wan Stiller, che per poco non era rimasto
schiacciato. - Se cadeva mezzo
secondo più tardi faceva di tutti noi
una marmellata.
Non avevano terminato di parlare
che s'udirono alzarsi urla furibonde,
poi alcune frecce solcarono
l'aria, piantandosi profondamente nei
tronchi degli alberi.
Il Corsaro ed i suoi uomini si
erano gettati prontamente a terra,
dietro all'albero caduto, il quale
fino ad un certo punto poteva
servire di trincea.
- Speriamo che questa volta si
mostrino, - disse Carmaux. - Non ho
ancora avuto il piacere di vedere
in viso uno di questi ostinati
indiani.
- Tenetevi dispersi, - disse il
Corsaro. - Se ci vedono così uniti,
dirigeranno su di noi una grandine
di frecce.
I suoi uomini stavano per
disperdersi dietro l'enorme albero, per non
offrire un solo punto di mira
ai nemici, quando si udirono alcuni
flauti suonare a breve distanza.
- Gli indiani si avvicinano - disse
Wan Stiller.
- Tenetevi pronti a riceverli con
una scarica, - comandò il Corsaro.
- No, aspettate signore, - disse
il catalano, che da qualche istante
ascoltava attentamente le note
tristi di quegli strumenti.
- Questa non è la marcia di
guerra.
- Che cosa vuoi dire? - chiese il
Corsaro.
- Aspettate, signore.
Si era alzato guardando dall'altra
parte dell'albero.
- Un parlamentario, - esclamò.
- "Carramba"!... E' il "piaye" della
tribù che si avanza.
- Lo stregone, signore, - disse il
catalano.
- Un "piaye".
I filibustieri si erano prontamente
alzati, tenendo però in mano i
fucili non fidandosi di quegli
antropofaghi.
Un indiano era uscito da uno
di quei folti macchioni e s'avanzava
verso di loro, seguito da due
suonatori di flauto.
Era un uomo un po' attempato, di
statura media, come lo sono quasi
tutti gli indiani del Venezuela,
con larghe spalle, muscoli robusti e
la pelle d un giallo roccioso,
reso forse un po' scuro dall'abitudine
che hanno quei selvaggi di
stropicciarsi il corpo con una manteca
d'olio di pesce o di noce di cocco
e di oriana, per preservarsi contro
le atroci punture delle zanzare.
Il suo viso, tondo ed aperto,
dall'espressione più melanconica che
feroce, era sprovvisto di barba,
usando essi strapparsela, mentre
aveva il capo coperto da una lunga
capigliatura nerissima dai riflessi
azzurro-cupi.
Come "piaye" della tribù,
oltre ad una specie di gonnellino di cotone
azzurro, portava su di sé
un vero carico di ornamenti: collane di
conchigliette, anelli di spine
di pesce pazientemente lavorati,
braccialetti d'osso e di
artigli e denti di giaguari, becchi di
tucani, pezzi di cristallo di monte
e braccialetti d'oro massiccio. In
testa, poi, aveva un diadema di
lunghe penne di pappagalli "caninde",
di "arà" e di
fagiani di fiume, ed attraverso il setto nasale,
espressamente bucato, una spina di
pesce, lunga tre o quattro pollici.
Gli altri due avevano pure
gonnellino e ornamenti, ma in minore copia,
e portavano invece dei lunghi archi
di legno del ferro, un mazzo di
frecce con le punte di osso o di
selce e la "batu", mazza formidabile,
lunga oltre un metro, piatta, a
spigoli rialzati e dipinta a scacchi
dai più vivi colori.
Il "piaye" s'avvicinò
fino a cinquanta passi dall'albero, fece cenno
ai due suonatori di flauto di
stare zitti, poi gridò con voce
stentorea, in un cattivo spagnolo:
- Che gli uomini bianchi mi
odano!...
- Gli uomini bianchi t'ascoltano, -
rispose il catalano.
- Questo è il territorio
degli Arawaki; chi ha dato agli uomini
bianchi il permesso di violare le
nostre foreste?
- Noi non abbiamo nessuna
intenzione di violare le selve degli
Arawaki, - rispose il catalano. -
Noi le attraversiamo semplicemente
per giungere nei territori degli
uomini bianchi, che si trovano nel
sud della baia di Maracaybo, senza
fare la guerra agli uomini rossi
dei quali ci dichiariamo amici.
- L'amicizia degli uomini bianchi
non è fatta per gli Arawaki, perché
è stata già fatale
agli uomini rossi della costa. Queste selve sono
nostre; tornate quindi ai vostri
paesi o noi vi mangeremo tutti.
- Diavolo!... - esclamò
Carmaux. - Parlano di metterci sulla
graticola, se ho compreso bene.
- Noi non siamo uomini bianchi
appartenenti a quelli che hanno
conquistato la costa e ridotto in
schiavitù i Caraybi. Invece siamo
loro nemici ed attraversiamo queste
foreste per inseguire alcuni di
loro che sono fuggiti, - disse il
Corsaro Nero, mostrandosi.
- Sei il capo tu?... - chiese il
"piaye".
- Sì, il capo degli uomini
bianchi che m'accompagnano.
- Ed insegui degli altri uomini
bianchi?
- Sì, per ucciderli. Sono
passati di qui?...
- Sì, li abbiamo veduti, ma
non andranno lontano perché li mangeremo.
- Ed io ti aiuterò ad
ucciderli.
- Tu li odii dunque? - chiese il
"piaye".
- Sono miei nemici.
- Andrete ad ucciderli sulla
costa se lo vorrete, ma non sul
territorio degli Arawaki. Uomini
bianchi, ritornate o noi vi faremo la
guerra.
- Ti ho detto che noi non siamo
nemici degli uomini rossi. Noi
rispetteremo la tua tribù,
le tue "carbèt" ed i tuoi raccolti.
- Uomini bianchi, ritornate, -
ripeté il "piaye" con maggior forza.
- Ascoltami ancora.
- Ho detto tornate o vi faremo
guerra e vi mangeremo.
- Basta. Noi attraverseremo le tue
foreste a dispetto della tua tribù.
- Ve lo impediremo.
- Abbiamo le armi che mandano tuoni
e fulmini.
- E noi le nostre frecce.
- Abbiamo le sciabole che tagliano
e le spade che forano.
- E noi le nostre "batu"
che fracassano il cranio più solido.
- Sei forse l'alleato degli
uomini che inseguiamo? - chiese il
Corsaro.
- No, poiché mangeremo anche
quelli.
- E' la guerra che tu vuoi?...
- Sì, se non tornate
indietro.
- Uomini del mare! - gridò
il Corsaro, balzando giù dall'albero con la
spada in pugno, - mostriamo a
questi indiani che noi non abbiamo
paura, avanti!
Il "piaye", vedendoli
avanzare con i fucili armati spianati, si era
allontanato precipitosamente,
assieme ai due suonatori di flauto,
cacciandosi nelle macchie.
Il Corsaro Nero aveva impedito ai
suoi uomini di fargli fuoco addosso,
non volendo essere il primo a
provocare la lotta; ma s'avanzava
intrepidamente attraverso la selva,
pronto a sostenere l'assalto delle
orde degli Arawaki.
Era tornato il formidabile
filibustiere della Tortue, che aveva già
dato tante prove d'un coraggio
straordinario.
Con la spada nella destra ed una
pistola nella sinistra, guidava il
piccolo drappello, aprendo il
passo attraverso la foresta, pronto a
cominciare la lotta.
Ben presto qualche freccia cominciò
a sibilare attraverso i rami. Wan
Stiller e Carmaux risposero tosto
con due colpi di fucile, sparati
però a casaccio, avendo
cessato gli indiani di mostrarsi, malgrado le
smargiassate del "piaye".
Bruciando cariche, a destra ed a
manca, ad intervalli d'un minuto, il
piccolo drappello superò
felicemente la parte più folta della foresta,
bersagliato solo da qualche freccia
o da qualche giavellotto, e giunse
in una piccola radura, nel cui
centro gli scoli del terreno avevano
formato un piccolo stagno.
Essendo il sole già prossimo
al tramonto e non avendo più veduto alcun
indiano, né ricevute
altre frecce, il Corsaro Nero comandò di
accamparsi.
- Se vorranno assalirci, li
aspetteremo qui, - disse ai compagni. - La
radura è abbastanza
vasta per poterli distinguere appena si
mostreranno.
- Non potevamo scegliere un posto
migliore, - disse il catalano. -
Gl'indiani sono pericolosi in
mezzo alle macchie, però non osano
assalire nei terreni scoperti, e
poi, preparerò l'accampamento in modo
che non possano farlo.
- Vuoi costruire una trincea? -
chiese Carmaux. - Sarebbe una faccenda
troppo lunga, amico catalano.
- Basterà una barriera di
fuoco.
- La salteranno. Non sono già
coguari o giaguari da aver paura di
pochi tizzoni.
- E questi, - disse il catalano,
mostrando un pugno di bacche rotonde.
- Del pimento, e del più
forte. Durante la marcia ho fatto la mia
raccolta ed ho le tasche piene.
- Buono da mangiarsi con la carne,
quantunque abbruci troppo la gola.
- Servirà per gli indiani.
- In qual modo?
- Lo getteremo sui fuochi.
- Hanno paura del crepitio di
quelle bacche?
- No, bensì del fumo che
sprigionano. Se vorranno varcare la barriera
di fuoco, si sentiranno bruciare
gli occhi e diventeranno ciechi per
un paio d'ore.
- Ventre di pesce-cane, tu ne sai
una più del diavolo!
- Me l'hanno insegnato i Caraybi
questo comodo mezzo per tener lontani
i nemici, e vedrete che riuscirà
se gli Arawaki vorranno assalirci.
Orsù, facciamo raccolta
di legna e aspettiamoli con tutta
tranquillità.
26.
L'IMBOSCATA DEGLI ARAWAKI
Cenato in fretta, con un pezzo di
testuggine che avevano serbata dal
mattino e con pochi biscotti, i
filibustieri perlustrarono dapprima i
dintorni, per vedere se si
trovavano degli indiani imboscati, poi
batterono le erbe per fugare i
serpenti, quindi accesero intorno al
campo dei fuochi, sui quali
gettarono alcune manate di pimento, ottimo
rimedio contro le zanzare, ma
anche contro gli assalti degli uomini e
delle fiere.
Temendo, e con ragione, di non
passare la notte tranquilla, decisero
di vigilare prima i due marinai ed
il negro, poi il Corsaro ed il
catalano.
Questi ultimi, dopo aver
cambiate la cariche per essere sicuri dei
loro colpi, s'affrettarono a
coricarsi, mentre Carmaux ed i suoi
compagni si disponevano
all'ingiro, dietro al cerchio di fuoco,
tenendo i fucili sulle ginocchia.
La grande foresta era diventata
silenziosa, ma di una calma poco
rassicurante per gli uomini di
guardia, cui era noto già per
esperienza che gli indiani
preferiscono gli attacchi notturni a quelli
diurni, avendo troppo paura della
precisione delle armi da fuoco, e
poiché le tenebre
permettono d'avvicinarsi con maggior facilità,
specialmente nelle selve.
Carmaux, soprattutto, avrebbe
preferito udire i miagolii dei giaguari
ed i ruggiti dei coguari. La
presenza di quei carnivori sarebbe stato
almeno un indizio sicuro
dell'assenza dei nemici dalla pelle rossa.
Vegliavano da un paio d'ore cogli
occhi fissi sulle macchie vicine,
gettando di quando in quando
sui fuochi qualche manata di pimento,
quando l'africano, il cui udito
doveva essere acutissimo, notò un
lieve rumore di foglie mosse.
- Hai udito, compare bianco?...
- mormorò egli, allungandosi verso
Carmaux, che era occupato a
gustare, con una beatitudine invidiabile,
un pezzo di sigaro che aveva
trovato in una delle sue tasche.
- Nulla, compare sacco di carbone,
- rispose il filibustiere. - Niente
ranocchi che abbaiano questa sera e
niente rospi che martellano come i
calafati.
- Un ramo si è mosso laggiù;
il tuo compare negro lo ha udito.
- Allora il tuo compare bianco è
sordo.
- Toh! Odi?... un ramo si è
spezzato.
- Io nulla ho udito; se è
vero quanto dici, vuol dire che qualcuno
cerca d'avvicinarsi a noi.
- Sì, compare.
- Chi sarà poi?... Mio
compare sacco di carbone non ha gli occhi dei
gatti per caso? Sarebbe una gran
bella cosa.
- Non vedo nulla, pure sento
qualcuno avvicinarsi.
- Il mio fucile è pronto.
Taci ed ascoltiamo.
- Gettati a terra, compare bianco,
o le frecce ti colpiranno.
- Accetto il tuo consiglio,
considerato che non ho nessuna voglia di
crepare con il ventre pieno di
veleno.
Si allungarono tutti e due fra le
erbe, facendo segno a Wan Stiller,
che si trovava dall'altra parte,
di imitarli e stettero in ascolto,
coi fucili in mano.
Qualcuno o più uomini
dovevano avvicinarsi. In mezzo ad una fitta
macchia che si trovava lontana
cinquanta passi, si vedevano, di quando
in quando, delle foglie agitarsi
leggermente, e si sentiva qualche
ramo crepitare.
Si capiva che i nemici prendevano
le loro precauzioni per giungere a
tiro di freccia senza farsi
scoprire.
Il negro ed i filibustieri quasi
interamente nascosti fra le erbe non
si muovevano, aspettando che si
mostrassero per far fuoco. Ad un
tratto però un improvviso
pensiero fece trabalzare Carmaux.
- Compare, - disse, - credi che
siano ancora lontani?
- Gl'indiani?...
- Sì, dimmelo presto.
- Sono ancora in mezzo alla
macchia, ma se continuano ad avvicinarsi,
fra un minuto giungeranno sul
margine.
- Ho il tempo necessario, Wan
Stiller, gettami la tua giacca ed il
berretto.
L'amburghese s'affrettò ad
obbedire, pensando, e con ragione, che se
Carmaux gli aveva chiesti quegli
indumenti, doveva avere qualche
progetto.
Il filibustiere si era alzato per
sbarazzarsi anch'egli della propria
casacca. Allungò le mani
intorno, afferrò alcuni rami, li incrociò
alla meglio, poi li coprì
colle giacche e vi mise sopra le berrette.
- Ecco fatto - disse, coricandosi.
- Mio compare è furbo, -
disse il negro, ridendo.
- Se non improvvisavo quei due
fantocci, gl'indiani potevano scagliare
le loro frecce contro il Corsaro
ed il catalano. Ora sono riparati e
non correranno più alcun
pericolo.
- Zitto compare, vengono.
- Sono pronto. Ehi, Wan Stiller,
un'altra manata di pimento.
L'amburghese stava per alzarsi,
poi subito si abbassò. Alcuni sibili
si erano uditi, e tre o quattro
frecce erano andate a conficcarsi nei
fantocci improvvisati.
- Veleno sprecato che non farà
effetto, miei cari - mormorò Carmaux. -
Aspetto che vi mostriate per farvi
assaggiare i miei dolci di piombo.
Gli indiani, vedendo che nessuno
aveva dato segno di vita, scagliarono
altre sette od otto frecce,
tornando a colpire i fantocci, poi uno di
loro, il più audace senza
dubbio, balzò fuori della macchia, brandendo
la sua terribile mazza.
Carmaux aveva alzato il fucile
prendendolo di mira. Stava per far
partire il colpo, quando in mezzo
alla gran foresta ad una distanza di
qualche miglio, si udirono
echeggiare improvvisamente quattro spari,
seguiti da urla formidabili.
L'indiano aveva fatto un fulmineo
fronte indietro, rientrando nella
macchia, prima che Carmaux avesse
avuto il tempo di riprenderlo di
mira. Il Corsaro ed il catalano,
svegliati bruscamente da quei colpi
di fucile e da quelle urla, si
erano alzati precipitosamente, credendo
che il campo fosse stato assalito
dagli indiani.
- Dove sono? - chiese il Corsaro
slanciandosi innanzi.
- Chi, signore? - chiese Carmaux.
- Gli indiani.
- Scomparsi, comandante, e prima
ancora di aver fatto loro assaggiare
i dolci del mio fucile.
- E queste grida e queste
detonazioni?... Odi?... Altri tre spari!
- In mezzo alla boscaglia si
combatte, - disse il catalano. -
Gl'indiani hanno assalito degli
uomini bianchi, signore.
- Il Governatore e la sua scorta?
- Lo credo.
- Mi rincrescerebbe che lo
uccidessero loro.
- Anche a me perché non
posso restituire le bastonate ad un morto,
ma...
- Taci!...
Altri due spari, più
lontani, erano echeggiati, seguiti da urla
furibonde mandate probabilmente da
una grossa tribù d'indiani, poi un
quinto colpo isolato, quindi più
nulla.
- La lotta è finita, -
disse il catalano, che aveva ascoltato con una
certa apprensione. - Per il
governatore non mi muoverei, per gli altri
che sono miei compatrioti...
- Vorresti sapere che cosa è
successo di loro, è vero? - chiese il
Corsaro.
- Sì, comandante.
- Ed a me premerebbe sapere se
a quest'ora il mio mortale nemico è
vivo o morto, - rispose il
filibustiere con voce cupa. - Saresti
capace di guidarci?
- La notte è oscura,
signore, però...
- Continua.
- Possiamo accendere alcuni rami
gommiferi.
- Ed attirare su di noi
l'attenzione degli indiani.
- E' vero, signore.
- Colle nostre bussole possiamo
però dirigerci.
- E' impossibile, signore,
affrontare i centomila ostacoli che offre
questa selva così fitta,
pure...
- Tira innanzi.
- Vi sono delle "cucujo"
laggiù e possono servire. Concedetemi cinque
minuti di tempo. A me, Moko!...
Si levò il berretto ed
insieme al negro si diresse verso un gruppo di
alberi in mezzo ai quali si
vedevano brillare dei grossi punti
luminosi, a luce verdastra, che
volteggiavano fantasticamente fra le
tenebre.
- Che cosa vuol fare
quell'indemoniato catalano? - si chiese Carmaux,
che non riusciva a comprendere
l'idea del furbo spagnolo. - Le
"cucujo"... Che cosa
saranno? Ehi, amburghese, tieni pronto il fucile,
onde non cadano in qualche
imboscata.
- Non temere, camerata. Seguo
attentamente tutti e due e sono pronto a
difenderli.
Il catalano, giunto presso gli
alberi, fu veduto spiccare salti a
destra ed a manca, come se desse la
caccia a quei punti luminosi.
Due minuti dopo era di ritorno al
campo, tenendo il berretto coperto
con ambe le mani.
- Ora possiamo metterci in marcia,
signore, - disse al Corsaro.
- Ed in qual modo?... - chiese
questi.
Il catalano cacciò una mano
nel berretto ed estrasse un insetto, il
quale irradiava una bella luce
verde pallida, che si espandeva ad una
discreta distanza.
- Leghiamoci due di queste cucujo
alle gambe, come fanno gli indiani,
e la luce che emettono ci
permetterà di discernere non solo le liane e
le radici che ingombreranno la
via, ma anche i pericolosi serpenti,
che si nascondono fra le foglie.
Chi ha del filo?
- Un marinaio ne ha sempre, -
disse Carmaux. - Mi incarico io di
legare queste "cucujo".
- Badate di non stringerle troppo.
- Non temere, catalano. D'altronde
hai la riserva, giacché vedo che il
tuo berretto è pieno.
Il filibustiere, aiutato da Wan
Stiller, prese delicatamente le
"cucujo" e le legò
a due a due, alle caviglie dei suoi compagni
procurando di non strozzarle.
Quell'operazione, non molto facile,
richiese una buona mezz'ora, ma
finalmente tutti furono provvisti di
quei bizzarri fanaletti viventi.
- Ingegnosa idea, - disse il
Corsaro.
- Messa in pratica dagl'indiani, -
rispose il catalano. - Con queste
lucciole noi potremo evitare gli
ostacoli che ingombrano la foresta.
- Siete pronti?...
- Tutti, - rispose Carmaux.
- Avanti e procurate di non far
rumore.
Si misero in marcia, l'uno dietro
all'altro, procedendo di buon passo
e tenendo gli occhi fissi al suolo,
per vedere dove posavano i piedi.
Le "cucujo" servivano
a meraviglia, permettendo di distinguere le
liane striscianti e le radici che
serpeggiavano fra un albero e
l'altro, non solo, ma perfino gli
insetti notturni.
Quelle lucciole che sono le più
splendide di tutte ed anche le più
grandi, tramandano una luce così
viva, che permette di leggere
comodamente ad una distanza di
trentatré e perfino trentacinque
centimetri, tanta è la
potenza dei loro organi luminosi.
Quando sono piccine irradiano una
luce azzurrognola, e, diventando
adulte, quella tinta si tramuta
in un verde pallido d'uno splendido
effetto. Anche le uova che le
femmine depongono sono leggermente
luminose.
Sono stati fatti degli
studi curiosi su queste "pyrophorus
noctilucus", come vengono
chiamate dagli scienziati, per conoscere
quali siano gli organi che
producono quella luce così viva, e si è
trovato che consistono in tre
piccole placche situate due nella parte
anteriore del torace e l'altra
nell'addome e che la sostanza
generatrice è un albuminoide
solubile nell'acqua e che si coagula col
calore.
Anche strappati all'insetto,
quegli organi conservano la loro facoltà
luminosa per qualche tempo, e
anche seccati e polverizzati diventano
luminosi bagnandoli con un po' di
acqua pura.
I filibustieri continuavano la
loro rapida marcia cacciandosi senza
esitare in mezzo ai cespugli o
passando sotto i fitti festoni di
liane, scivolando fra le enormi
radici che formavano delle vere reti
inestricabili, o scavalcando i
tronchi degli alberi caduti per
decrepitezza od abbattuti dalle
folgori.
I colpi di fucile erano cessati,
si udivano però in lontananza delle
grida che dovevano essere mandate
da qualche tribù d'indiani. Ora
tacevano poi echeggiavano più
acute, per poi spegnersi nuovamente. Ad
intervalli si udivano anche dei
flauti suonare e dei rumori sordi
prodotti forse da qualche specie di
tamburello.
Pareva che la battaglia fosse
finita e che la tribù si fosse accampata
in qualche oscuro angolo
dell'immensa foresta, forse per festeggiare
la vittoria o per radunarsi a
qualche mostruoso banchetto, essendo
abituati, in quell'epoca,
gl'indiani del Venezuela, e specialmente i
Caraybi e gli Arawaki, a divorare
i prigionieri ed anche i nemici
morti combattendo.
Il catalano affrettava sempre,
spinto dal desiderio di conoscere la
sorte toccata ai suoi compatrioti.
Del Governatore non si preoccupava,
anzi forse, in fondo al cuore, non
gli sarebbe dispiaciuto di trovarlo
ucciso o peggio ancora, già
arrostito, ma dei suoi camerati era altra
cosa e precipitava la marcia,
sperando di poter giungere in loro
soccorso, temendo che qualcuno
fosse caduto vivo nelle mani di quegli
antropofagi.
Già le grida erano poco
lontane, quando Carmaux, che camminava a
fianco del catalano, mentre alzava
gli occhi per evitare una liana
inciampò in una massa,
cadendo a terra così malamente da schiacciare
le cucujo che teneva legate alle
caviglie dei piedi.
- Corpo d'un cannone!... -
esclamò, rialzandosi lentamente. - Che
cos'è questo!... Lampi!...
Un morto!...
- Un morto!... - esclamarono il
catalano ed il Corsaro, curvandosi
verso il suolo.
- Guardate!...
Un indiano d'alta statura, col
capo adorno di piuma di arà e le anche
coperte da un sottanino azzurro
cupo, giaceva fra le foglie secche e
le radici. Aveva la testa spaccata
da un colpo di spada, a quanto
pareva, ed il petto bucato forse
da una palla. Doveva essere stato
ucciso di recente, uscendogli
ancora dalla ferita del sangue.
- Forse qui è avvenuto lo
scontro, - disse il catalano.
- Sì, - confermò Wan
Stiller. - Vedo là alcune mazze e sui tronchi
degli alberi numerose frecce ancora
infitte.
- Vediamo se vi è qualcuno
dei miei camerati, - disse il catalano, con
una certa emozione.
- Tempo perduto, - disse
Carmaux. - Se qualcuno è stato ucciso, a
quest'ora sarà dietro a
cucinarsi.
- Qualche ferito può essersi
nascosto.
- Cercate, - disse il Corsaro.
Il catalano, il negro e Wan
Stiller frugarono le macchie vicine,
chiamando anche sottovoce, senza
però ottenere alcuna risposta.
Trovarono invece in mezzo ad un
cespuglio un altro indiano il quale
aveva ricevuto due palle in
direzione del cuore, poi alcune mazze,
qualche arco ed un fascio di
frecce.
Convinti che nessun essere
vivente si trovava colà, ripresero il
cammino. Le grida della tribù
si udivano allora assai vicine e, con
una rapida marcia, i
filibustieri calcolavano di giungere
all'accampamento degli antropofagi
in meno di un quarto d'ora.
Sembrava veramente che gli Arawaki
festeggiassero la vittoria, poiché
confusi colle grida, si sentivano
sempre alcuni flauti suonare delle
arie allegre.
Già i filibustieri avevano
attraversata la parte più fitta della
foresta, quando scorsero,
attraverso il fogliame, una luce vivissima,
che si proiettava in alto.
- Gl'indiani? - chiese il Corsaro
arrestandosi.
- Sì, - disse il catalano.
- Accampati attorno al fuoco?...
- Sì, ma che cosa si
cucinerà su quel fuoco? - disse il catalano, con
emozione.
- Qualche prigioniero, forse?...
- Lo temo, signore.
- Canaglie, - mormorò il
Corsaro, il quale provò involontariamente un
brivido. - Venite, amici, andiamo a
vedere se Wan Guld è sfuggito alla
morte, o se ha trovato la punizione
dei suoi delitti.
27.
FRA LE FRECCE E GLI ARTIGLI
Quando i filibustieri giunsero
dietro gli alberi che circondavano il
campo indiano, una scena atroce si
offerse tosto ai loro sguardi.
Due dozzine di Arawaki, seduti
intorno ad un braciere gigantesco,
attendevano ansiosamente il momento
di satollarsi a crepapancia, con
un arrosto, che finiva di cucinarsi
su di un lunghissimo spiedo. Se si
fosse trattato d'un enorme pezzo di
selvaggina, d'un tapiro intero, o
d'un giaguaro, i filibustieri non
si sarebbero di certo inquietati, ma
quell'arrosto consisteva in due
cadaveri umani, in due bianchi,
probabilmente due spagnoli della
scorta di Wan Guld.
I due disgraziati che stavano per
venire assorbiti dagli intestini di
quegli abominevoli selvaggi, erano
già arrosolati e le loro carni
cominciavano a crepitare,
spandendo all'intorno un odore nauseante,
che faceva dilatare le narici dei
mostruosi banchettanti.
- Fulmini dell'inferno!... -
esclamò Carmaux, rabbrividendo.
- Sembra impossibile che vi siano
delle persone che si nutrono dei
loro simili! Puah!... Che
animalacci!...
- Puoi distinguere quei due
disgraziati? - chiese il Corsaro al
catalano.
- Sì, signore, - rispose
questi con voce soffocata.
- Appartenevano alla scorta di Wan
Guld?...
- Sì, sono due soldati,
sono certo di non ingannarmi, quantunque il
fuoco abbia distrutto le loro
barbe.
- Che cosa mi consigli di fare?...
- Signore, - mormorò
il catalano guardando con due occhi
supplichevoli.
- Vorresti strapparli a quei
mostri e dare loro onorevole
sepoltura?...
- Vi creerei dei pericolosi
imbarazzi, signore. Gli Arawaki ci
darebbero poi la caccia.
- Bah!... Non temo quei selvaggi, -
disse il Corsaro, con fierezza. -
D'altronde non sono che due
dozzine.
- Forse ne attendono degli altri.
E' impossibile che essi soli siano
capaci di divorare due uomini.
- Ebbene, prima che i loro
compagni giungano, noi avremo sepolti i
tuoi camerati. Ehi, Carmaux, e
tu Wan Stiller che siete abili
bersaglieri, non mancate ai vostri
colpi.
- Io abbatterò quel gigante
che sta gettando sull'arrosto quelle erbe
aromatiche, - rispose Carmaux.
- Ed io, - disse l'amburghese,
- fracasserò la testa a quello che
tiene in mano quella specie di
forca della quale si serve per voltare
l'arrosto.
- Fuoco! - comandò il
Corsaro.
Due colpi di fucile rimbombarono,
rompendo bruscamente il silenzio che
allora regnava nella foresta
vergine. L'indiano gigante cadde sopra
l'arrosto, mentre l'altro, che
brandiva la forca, si rovesciava
all'indietro col cranio fracassato.
I loro compagni erano balzati
precipitosamente in piedi, tenendo in
pugno le mazze e gli archi, però
erano così stupiti per quella scarica
improvvisa e così micidiale,
che non pensarono subito all'offesa. Il
catalano e Moko furono pronti
ad approfittarne, scaricando i loro
fucili in mezzo al gruppo.
Vedendo cadere due altri compagni,
gli Arawaki non ne vollero sapere
di più e si diedero
alla fuga, senza più curarsi dell'arrosto,
salvandosi precipitosamente in
mezzo alle macchie.
I filibustieri stavano per
precipitarsi innanzi, quando in lontananza
udirono alzarsi clamori furibondi.
- Lesti!... - gridò il
Corsaro, - gettate i cadaveri in mezzo a
qualche cespuglio se ci mancherà
il tempo di seppellirli. A questo
penseremo più tardi.
- L'odore di carne abbruciata li
tradirà, - disse Wan Stiller.
- Si farà quello che si
potrà.
Il catalano si era slanciato
innanzi e con una scossa vigorosa aveva
rovesciato lo spiedo, mentre Wan
Stiller a furia di calci disperdeva i
tizzoni. Intanto Moko e Carmaux,
impadronitisi di due mazze, scavavano
frettolosamente una buca nel
terreno umido e molle della foresta,
mentre il Corsaro si poneva in
sentinella sui margini del macchione.
Le grida degli indiani si
avvicinavano rapidamente. La tribù, che
doveva essersi precipitata sulle
tracce di Wan Guld, udendo quegli
spari echeggiare dietro le sue
spalle, accorreva in aiuto degli uomini
che si erano incaricati di
preparare la mostruosa cena.
Il Corsaro che si era spinto
più innanzi, temendo una sorpresa di
coloro che erano fuggiti, udendo
rompersi dei rami a breve distanza,
tornò precipitosamente verso
i compagni, dicendo:
- Fuggiamo o fra cinque minuti
avremo addosso l'intera tribù.
- E' fatto, comandante, - disse
Carmaux, che spingeva coi piedi la
terra, onde coprire i due cadaveri.
- Signore, - disse il catalano,
volgendosi verso il Corsaro, - se noi
fuggiamo verremo inseguiti.
Nascondiamoci lassù, - disse, indicando un
albero enorme, che da solo formava
una piccola foresta. - In mezzo a
quel fogliame non verremo scoperti.
- Sei furbo, compare, - disse
Carmaux. - A riva i gabbieri.
Il catalano ed i filibustieri,
preceduti da Moko, si slanciarono verso
quel colosso della flora
tropicale, aiutandosi l'un l'altro per
raggiungere presto i rami.
Quell'albero era un "summameira
(eriodendron summauma)", uno dei più
grandi che crescono nelle foreste
delle Guiane e del Venezuela, dai
rami numerosissimi, lunghi
assai, nodosi, coperti d'una corteccia
biancastra, e dal fogliame molto
fitto. Essendo queste piante, come
già fu detto, sorrette alla
base da un gran numero di sproni naturali
formati dalle radici, i
filibustieri poterono giungere, senza troppa
difficoltà, ai primi rami
e di là innalzarsi fino a cinquanta metri
dal suolo.
Carmaux stava per accomodarsi sulla
biforcazione d'un ramo, quando udì
questo oscillare vivamente, come
se qualcuno si fosse rifugiato
all'altra estremità.
- Sei tu, Wan Stiller?... -
chiese. - Vuoi farmi capitombolare?... Ti
avverto che siamo a tale altezza da
fracassarci le ossa.
- Che cosa vuoi dire?... - chiese
il Corsaro, che gli stava sopra. -
Wan Stiller è dinanzi a me.
- Chi è dunque che mi
fa oscillare? Che qualche Arawako si sia
rifugiato quassù?
Si guardò intorno ed a dieci
passi di distanza, in mezzo ad un ammasso
di foglie, radunate quasi
all'estremità del ramo, vide brillare due
punti luminosi d'un giallo
verdastro.
- Per le sabbie d'Olonne, come
dice Nau!... - esclamò Carmaux. - Con
quale animale ci troviamo in
compagnia?... Ehi, catalano, guarda un
po' se puoi dirmi a chi
appartengono quei brutti occhi che mi fissano.
- Degli occhi!... - esclamò
lo spagnolo. - Vi è qualche bestia su
quest'albero?...
- Sì, - disse il Corsaro. -
Pare che siamo in cattiva compagnia.
- E gl'indiani stanno per giungere,
- disse Wan Stiller.
- Vedo anch'io un paio d'occhi, -
rispose il catalano, che si era
alzato, - ma non saprei dire
se appartengono a un coguaro o a un
giaguaro.
- Ad un giaguaro!... - esclamò
Carmaux, rabbrividendo. - Non ci
mancherebbe altro che mi
piombasse addosso e che mi facesse
capitombolare sulle teste degli
Arawaki.
- Silenzio, - disse il Corsaro. -
Essi vengono!...
- E quell'animale che mi è
così vicino?... - disse Carmaux, che
cominciava a diventare inquieto.
- Forse non oserà assalirci.
Non muoverti o ci tradirai.
- Ebbene, mi lascerò
mangiare pur di salvare voi, comandante.
- Non inquietarti, Carmaux. Ho la
spada in mano.
- Zitto!... Eccoli!... - disse il
catalano.
Gl'indiani giungevano urlando
come ossessi. Erano un'ottantina e
fors'anche di più, tutti
armati di mazze, di archi ed alcuni di certe
specie di giavellotti.
Essi piombarono come una banda
di belve sullo spazio scoperto dove
finivano di bruciare i tizzoni
dispersi da Wan Stiller, ma quando
invece dei due bianchi che
credevano di trovare già cucinati, videro i
cadaveri dei loro compagni,
un'espressione di rabbia spaventevole
seguì quella scoperta
inaspettata.
Vociferavano come indemoniati,
percuotevano furiosamente i tronchi
degli alberi con le loro
formidabili mazze, facendo un frastuono
assordante e non sapendo con chi
prendersela, lanciavano frecce in
tutte le direzioni, saettando i
cespugli e le grandi foglie dei
palmizi con grande pericolo dei
filibustieri che si trovavano così
vicini.
Sfogato il primo impeto di
rabbia, cominciarono a sparpagliarsi,
mettendosi a frugare i dintorni
con la speranza di scoprire gli
uccisori dei loro compagni e
di regalarsi un nuovo arrosto, che
supplisse quello così
misteriosamente scomparso.
I filibustieri, nascosti fra il
folto fogliame del "summameira", non
fiatavano, lasciando che gli
antropofaghi sfogassero la loro collera.
Si preoccupavano invece più
del maledetto animale che aveva cercato un
rifugio sui rami dell'albero
gigante, soprattutto Carmaux che si
trovava così vicino e
che vedeva brillare sempre, in mezzo alle
foglie, quegli occhi gialli
verdastri. Quel coguaro o giaguaro che
fosse, fino allora non si era
mosso, non vi era però da fidarsi e
poteva da un istante all'altro
precipitarsi sul disgraziato
filibustiere, richiamando in tal
modo l'attenzione degli indiani.
- Dannato animale! - mormorò
Carmaux, che si agitava sul ramo. - Non
mi perde di vista un solo
istante!... Ehi, catalano, dimmi un po'
entro quali budelle dovrò
finire, se si decide a saltarmi addosso.
- Tacete, o gli indiani ci
udranno, - rispondeva il catalano che gli
stava sotto.
- Al diavolo anche l'arrosto
umano! Era meglio lasciare che quei
selvaggi se lo divorassero in
pace. Già, anche sepolti non
masticheranno più tabacco,
né bistecche! Se poi...
Uno scricchiolio che veniva
dall'estremità del ramo gl'interruppe la
frase. Guardò con occhi
smarriti l'animale e lo vide agitarsi come se
cominciasse ad essere stanco della
sua non troppo comoda posizione.
- Capitano, - mormorò
Carmaux, - credo che si prepari a mangiarmi.
- Non muoverti, - rispose il
Corsaro. - Ti ho detto che ho la spada in
mano.
- Sono certo che non mancherete il
colpo, ma...
- Zitto: vi sono due indiani che
ronzano sotto di noi.
- Ehm! Come getterei volentieri
sulle loro teste quell'animalaccio del
malanno.
Guardò verso l'estremità
del ramo e vide la fiera ritta sulle quattro
zampe come se si preparasse a
spiccare un salto.
- Che se ne vada? - pensò,
respirando. - Sarebbe ora che si decidesse
a lasciare il posto.
Guardò giù e vide
confusamente due ombre che giravano attorno
all'albero, fermandosi ad
esaminare gli alti sproni, sotto i quali
potevano comodamente celarsi
parecchie persone.
- Finirà male, - mormorò.
I due indiani s'intrattennero
alcuni minuti alla base del colosso, poi
si allontanarono cacciandosi in
mezzo ai cespugli. I loro compagni
dovevano già trovarsi
molto innanzi, cominciando le loro grida a
diventare fioche.
Il Corsaro attese alcuni minuti,
poi non udendo più nulla, convinto
che gli Arawaki si fossero
definitivamente allontanati, disse a
Carmaux:
- Prova a scuotere il ramo.
- Che cosa volete fare, comandante?
- Sbarazzarti di quella pericolosa
compagnia. Ehi, Wan Stiller, sta'
pronto a colpire con la tua
sciabola.
- Ci sono anch'io, padrone, -
disse Moko, che si era rizzato sul ramo
che occupava, stringendo per la
canna il suo pesante fucile. - Con un
buon colpo di mazza getterò
giù quella bestia.
Carmaux, completamente rassicurato,
vedendosi intorno tanti difensori,
si mise a saltare furiosamente,
scuotendo il fogliame.
L'animale, comprendendo forse
che l'avevano con lui, fece udire un
sordo miagolio, poi si mise a
soffiare come un gatto in collera.
- Forza, Carmaux, - disse il
catalano. - Se non si muove, ciò indica
che ha più paura di te.
Scuoti forte e gettalo giù.
Il filibustiere s'aggrappò
ad un ramo superiore e raddoppiò i salti.
L'animale, rifugiato all'estremità
del fogliame, oscillava a destra ed
a manca, manifestando il poco
piacere che provava per quella danza di
nuovo genere, con miagolii e soffi
più acuti.
Si udivano le sue unghie stridere
sul ramo cercando un nuovo appoggio
e si vedevano i suoi occhi
dilatarsi per la paura.
Ad un tratto, temendo forse di
fare un brutto capitombolo, prese un
partito disperato. Si raccolse su
se stesso, poi balzò su di un ramo
che gli stava sotto, passando
sopra la testa del catalano e cercò di
guadagnare il tronco per slanciarsi
poi a terra.
L'africano vedendolo passare,
gli vibrò al volo un colpo col calcio
del fucile, colpendolo in pieno e
facendolo precipitare al suolo senza
vita.
- Morto? - chiese Carmaux.
- Non ha avuto nemmeno il tempo di
mandare un grido, - rispose Moko,
ridendo.
- Era un giaguaro?... Mi pare un
po' piccolo per essere uno di quei
sanguinari predoni.
- Hai avuto paura per nulla,
compare, - disse l'africano. - Bastava
una legnata per accopparlo.
- Che cos'era, adunque?...
- Un "maracaya".
- Ne so meno di prima.
- Un animale che somiglia bensì
al giaguaro, ma che non è altro che un
grosso gatto, - disse il catalano.
- E' un predatore di scimmie e di
uccelli, che non osa prendersela
con gli uomini.
- Ah!... brigante!... - esclamò
Carmaux. - Se l'avessi saputo prima,
l'avrei preso per la coda, ma
mi vendicherò della paura che mi ha
fatto provare. Dopo tutto, i gatti
bene arrostiti non sono cattivi.
- Oh! Il mangiagatti!...
- Te lo farò assaggiare,
catalano del mio cuore, e vedremo se farai
smorfie.
- Forse no, tanto più che
siamo a corto di viveri e che la foresta che
dovremo attraversare sarà
ben povera di selvaggina.
- Perché? - chiese il
Corsaro.
- E' la foresta paludosa, signore,
la più difficile da attraversare.
- E' vasta?...
- Si spinge fino presso Gibraltar.
- Impiegheremo molto ad
attraversarla? Non vorrei giungere a Gibraltar
dopo l'Olonese.
- In quattro o cinque giorni spero
che riusciremo ad attraversarla.
- Giungeremo in tempo, - disse
il Corsaro, come parlando fra se
stesso. - Credo che sia
un'imprudenza rimetterci in marcia...
- Gli indiani non sono ancora
abbastanza lontani, signore. Vi
consiglierei di passare la notte su
quest'albero.
- Ma intanto Wan Guld s'allontana.
- Nella foresta paludosa lo
raggiungeremo, signore, ne sono certo.
- Ho paura che egli possa giungere
a Gibraltar prima di me, e che mi
sfugga una seconda volta.
- A Gibraltar ci sarò
anch'io, signore, e non lo perderò di vista. Non
ho dimenticato le venticinque
legnate che mi ha fatto dare.
- Tu a Gibraltar!... Cosa vuoi
dire?
- Che vi entrerò prima di
voi e perciò lo sorveglierò.
- E perché prima di noi?...
- Signore, sono uno spagnolo, -
disse il catalano, con tono grave. -
Spero che voi mi permetterete
di farmi uccidere a fianco dei miei
camerati e che non mi costringerete
a battermi fra le vostre file
contro lo stendardo di Spagna.
- Ah!... Tu vuoi difendere
Gibraltar?
- Prendere parte alla sua difesa,
comandante.
- Hai premura di lasciare
questo mondo? Gli spagnoli di Gibraltar
morranno tutti.
- Ebbene, sia, ma morranno con le
armi in pugno, attorno alla gloriosa
bandiera della patria lontana, -
disse il catalano con voce commossa.
- E' vero, sei un valoroso, -
rispose il Corsaro con un sospiro.
- Sì, andrai prima di noi a
combattere a fianco dei tuoi camerati. Wan
Guld è un fiammingo, ma
Gibraltar è spagnola.
28.
I SUCCHIATORI DI SANGUE
La notte fu tranquilla, tanto
tranquilla che i filibustieri poterono
dormire placidamente alcune ore,
sdraiati sulla biforcazione degli
enormi rami del "summameira".
Non vi fu che un allarme causato
dal passaggio d'una piccola banda di
Arawaki, componenti forse la
retroguardia della tribù; però nemmeno
costoro s'accorsero della presenza
dei filibustieri e passarono oltre,
proseguendo la loro marcia verso il
nord.
Appena il sole spuntò, il
Corsaro, dopo d'aver ascoltato a lungo,
rassicurato dal profondo silenzio
che regnava nella foresta, dava il
comando di scendere per riprendere
la marcia.
Primo pensiero di Carmaux appena fu
a terra fu quello di mettersi in
cerca del "maracaya",
che gli aveva fatto passare un così brutto
quarto d'ora fra i rami dell'albero
gigante, e lo trovò presso un
cespuglio tutto fracassato dalla
caduta e col capo spaccato dal calcio
del fucile di Moko.
Era un animale che aveva il
pelame somigliante a quello dei giaguari
ed anche le forme, con la testa
assai più piccola, la coda piuttosto
corta ed il corpo lungo appena
ottanta centimetri.
- Canaglia!... - esclamò,
afferrandolo per la coda e gettandoselo
sulle spalle. - Se avessi saputo
prima che era così piccolo, gli
allungavo un tal calcio da
farlo saltare in aria. Ma bah!... Mi
vendicherò mettendolo
arrosto e mangiandolo.
- Affrettiamoci, - disse il
Corsaro. - Abbiamo perduto troppo tempo
con quei selvaggi.
Il catalano consultò la
bussola datagli da Wan Stiller, poi si mise in
cammino aprendosi il passo fra le
liane, le radici ed i cespugli.
La foresta era sempre fitta,
composta per la maggior parte di palme
"miriti" dai tronchi
enormi, irti di spine acute che laceravano gli
abiti ai filibustieri, e di
"cecropia", ossia di piante "candelabri".
Di tratto in tratto si vedeva anche
qualche splendida "jupati", altra
specie di palma con le foglie
piumate, così immense, da raggiungere
l'incredibile lunghezza di
quindici metri, mentre il tronco è così
corto che appena si innalza di
qualche metro!...
Oppure si vedeva qualche gruppo
di "bossù", chiamato anche
"manicaria", dalle
foglie rigide come se fossero di zinco, ed anche
queste lunghe dieci, perfino
undici metri, serrate, diritte e
dentellate a mo' di sega, e
di "papumbe", specie di palme che
producono dei grappoli di frutta
eccellenti.
Scarseggiavano invece gli
uccelli e mancavano assolutamente le
scimmie. Era molto se si vedeva
qualche coppia di pappagalli dalle
penne variopinte, e qualche
solitario tucano dal becco rosso e giallo,
ed il petto coperto da una fine
lanuggine d'un rosso fuoco, o si udiva
echeggiare il grido stridulo di
qualche "tanagra", bell'uccello dalle
penne azzurre ed il ventre
arancio-rossastro.
Dopo tre ore di marcia forzata,
senza aver incontrato nessuna traccia
d'uomo, i filibustieri
s'accorsero che la foresta accennava a
cambiare. Le palme si
diradavano per lasciare posto alle ariartree
panciute, le piante amanti
dell'acqua; a boschetti di legno cannone; a
bombax, alberi dal legno poroso,
molle e bianco che sembra un
formaggio e perciò chiamati
anche formaggieri; a gruppi di mangli che
producono delle frutta succose,
che sanno di terebentina; ad ammassi
di orchidee, di passiflore, di
felci epifite e di aroidee, le cui
radici aeree pendevano
perpendicolarmente, ed a macchioni di splendide
bromelie dai ricchi rami carichi di
fiori scarlatti.
Il terreno, fino allora asciutto,
s'impregnava rapidamente d'acqua,
mentre l'aria diventava satura
d'umidità. La foresta secca si
tramutava in foresta umida, ben
più pericolosa della prima, perché
sotto quelle piante si cela la
febbre dei boschi, quella febbre che è
fatale anche agli indiani già
acclimatati.
Un silenzio profondo regnava sotto
quei vegetali, come se quella
esuberanza di umidità avesse
fatto fuggire uccelli ed animali. Non un
grido di scimmia, non il canto di
un volatile qualsiasi, non il
ruggito d'un coguaro od il miagolio
d'un giaguaro.
Quel silenzio aveva qualche cosa
di triste, di pauroso, che faceva
un'impressione strana anche sui
forti animi dei filibustieri della
Tortue.
- Per mille pesci-cani!... -
esclamò Carmaux. - Pare di attraversare
un immenso cimitero.
- Ma un cimitero allagato -
aggiunse Wan Stiller. - Sento che questa
umidità mi penetra nelle
ossa.
- Che sia il principio di un
attacco di febbre paludosa?
- Non ci mancherebbe altro, -
disse il catalano. - Chi viene colpito,
non uscirà vivo da questa
brutta foresta.
- Bah!... Ho la pelle dura, -
rispose l'amburghese. - Le paludi
dell'Yucatán mi hanno
corazzato e tu sai che quelle producono il
"vomito prieto" (la
febbre gialla). Non sono le febbri che mi fanno
paura, bensì la mancanza di
selvaggina.
- Specialmente ora che siamo
così a corto di viveri, - aggiunse
l'africano.
- Ehi, compare sacco di
carbone!... - esclamò Carmaux. - Hai
dimenticato il mio gatto?... Eppure
è abbastanza visibile.
- Durerà poco, compare, -
rispose il negro. - Se non lo mangiamo oggi,
domani quest'umidità
calda lo avrà ridotto in tale stato di
putrefazione, da doverlo gettare
via.
- Bah!... Troveremo qualche cosa
d'altro da porre sotto i denti.
- Tu non conosci queste foreste
umide.
- Abbatteremo degli uccelli.
- Non ve ne sono.
- Dei quadrupedi.
- Nemmeno.
- Cercheremo delle frutta.
- Sono tutte piante infruttifere.
- Troveremo almeno qualche caimano.
- Non vi sono savane. Non vedrai
che dei serpenti.
- Mangeremo quelli.
- Ah!... compare!...
- Per mille pesci-cani... In
mancanza d'altro metteremo quelli ad
arrosto e li faremo passare per
anguille.
- Puah!...
- Oh!... Il negro
schizzinoso!... - esclamò Carmaux. - Ti vedremo
quando avrai fame.
Così chiacchierando
continuavano a marciare di buon passo attraverso
quei terreni umidissimi, sopra
i quali ondeggiava di frequente una
nebbiola carica di miasmi
pericolosi.
Il caldo era intenso anche sotto le
piante, un caldo snervante che
faceva sudare prodigiosamente i
filibustieri. Il sudore zampillava da
tutti i pori, inzuppando le loro
vesti e guastando perfino le loro
armi, tanto che Carmaux non
osava più contare sulla carica del suo
fucile.
Larghi stagni di quando in quando
tagliavano la via, ripieni di
un'acqua nera e puzzolente ed
ingombri di piante acquatiche, dei veri
"agoa redonda", come li
chiamavano i coloni spagnoli; talvolta invece
erano costretti a fermarsi
dinanzi a qualche "igarapè", ossia ad un
canale naturale, comunicante con
qualche corso d'acqua, perdendo molto
tempo per cercare un guado non
fidandosi di quelle sabbie traditrici
che potevano inghiottirli.
Su quelle rive mancavano gli
uccelli acquatici e abbondavano invece i
rettili, in attesa della notte per
dare la caccia ai ranocchi ed ai
rospi. Si vedevano aggomitolati
sotto i cespugli o distesi in mezzo
alle foglie a scaldarsi al sole,
i velenosissimi "jararacà" dalla
piccola testa depressa; i piccoli
"cobracipo"; i caniana", quei voraci
bevitori di latte che per
procurarselo usano introdursi nelle capanne
per succhiare le poppe delle
indiane lattanti, e non pochi serpenti
coralli che producono una morte
quasi fulminante e contro il cui morso
non vi è rimedio, trovandosi
impotente perfino l'infusione del "calupo
diavolo", che generalmente
è un rimedio efficace contro il veleno
degli altri rettili.
I filibustieri, che provavano una
ripugnanza invincibile per quei
brutti rettili, non escluso
Carmaux, si guardavano bene dal
disturbarli e facevano attenzione
dove posavano i piedi, per evitare
qualche morso mortale.
A mezzodì, affranti da
quella lunga marcia, si arrestavano senza aver
scoperto le tracce di Wan Guld e
della sua scorta.
Non possedendo che poche libbre di
biscotti, si decisero ad arrostire
il maracaya e, quantunque
fosse assai coriaceo e puzzasse di
selvatico, bene o male lo fecero
passare. Carmaux però si ostinò a
dichiararlo eccellente, contro
il parere di tutti e ne fece una
scorpacciata.
Alle tre, essendo un po' cessato il
calore infernale che regnava sotto
quella foresta, riprendevano le
mosse attraverso le paludi infestate
di miriadi di zanzare, le quali si
gettavano contro i filibustieri con
vero furore, facendo sagrare
Carmaux e Wan Stiller.
In mezzo a quelle acque
stagnanti, ingombre di piante acquatiche,
dalle foglie giallastre che si
corrompevano sotto i raggi infuocati
del sole esalando odori
sgradevoli, si vedeva talvolta sorgere la
testa di qualche serpente di acqua
o apparire, ma per subito tuffarsi,
qualche testuggine "careto"
dalla corazza bruno oscura, chiazzata di
macchie rossastre irregolari.
Mancavano invece sempre i
volatili acquatici, come se non avessero
potuto sopportare quelle esalazioni
pericolose.
Affondando talvolta in terreni
pantanosi, o passando sopra alberi
atterrati, o aprendosi il passo
attraverso i boschetti di legno
cannone che servivano di rifugio a
nubi di zanzare, i filibustieri,
guidati dall'infaticabile catalano,
procedevano sempre, spinti da un
vivo desiderio di lasciare presto
quella triste foresta.
Di frequente s'arrestavano per
tendere gli orecchi, sperando sempre di
raccogliere qualche rumore che
indicasse la vicinanza di Wan Guld e
della sua scorta, ma sempre con
esito negativo. Un silenzio profondo
regnava sotto quegli alberi ed in
mezzo ai boschetti.
Verso sera, però, fecero
una scoperta, che se da una parte li
rattristò, d'altro canto li
rese soddisfatti, essendo quella una prova
che si trovavano ancora sulle
tracce dei fuggiaschi.
Stavano cercando un posto
adatto per accamparsi, quando videro
l'africano, che si era un po'
allontanato con la speranza di trovare
qualche pianta fruttifera,
ritornare frettolosamente con gli occhi
smarriti e la pelle del viso
cinerea, ossia pallida.
- Che cos'hai, compare sacco di
carbone? - chiese Carmaux, armando
frettolosamente il fucile. - Sei
inseguito da qualche giaguaro?
- No... là!... là!...
un morto... un bianco! - rispose il negro.
- Un bianco!... - esclamò il
Corsaro. - Uno spagnolo vuoi dire?...
- Sì, padrone. Ci sono
caduto addosso e l'ho sentito freddo come un
serpente.
- Che sia quella canaglia di Wan
Guld? - disse Carmaux.
- Andiamo a vedere, - disse il
Corsaro. - Guidaci, Moko.
L'africano si cacciò in
mezzo ad una macchia di calupo, piante che
producono delle frutta che
tagliate a pezzi danno una bevanda
rinfrescante e dopo venti o trenta
passi s'arrestava alla base d'un
simaruba, il quale si ergeva
solitario col suo carico di fiori.
Colà i filibustieri
videro, non senza un fremito d'orrore, un uomo
disteso sul dorso, con le braccia
strette sul petto, le gambe seminude
ed i piedi già spolpati o
da qualche serpente o dalle formiche
termiti.
Aveva il viso giallo cereo
imbrattato di sangue, uscitogli da una
piccola piaga che si scorgeva
presso la tempia destra, la barba lunga
ed arruffata e le labbra contratte
che mettevano a nudo i denti. Gli
occhi erano già scomparsi e
al loro posto non si vedevano che due
buchi sanguinanti
Non vi era da ingannarsi sul suo
vero essere, poiché indossava una
corazza di pelle di Cordova ad
arabeschi, calzoni corti a righe gialle
e nere come usavano gli spagnoli,
e poco discosti stavano un mezzo
elmetto d'acciaio adorno di una
piuma bianca ed una lunga spada.
Il catalano, che pareva in preda
ad una viva emozione, si era curvato
su quel disgraziato, poi s'era
risollevato prontamente, esclamando:
- Pedro Herrera!... Pover'uomo!...
In quale stato lo ritrovo!...
- Era uno di coloro che seguivano
Wan Guld? - chiese il Corsaro
- Sì, signore, un valoroso
soldato ed un bravo camerata.
- Che sia stato ucciso dagli
indiani?...
- Ferito sì, poiché
vedo sul fianco destro un buco che mette ancora
qualche goccia di sangue, ma il suo
assassino è stato un pipistrello.
- Che cosa vuoi dire?...
- Che questo povero soldato è
stato dissanguato da un vorace vampiro.
Non vedete questo piccolo segno che
ha presso la tempia e che ha dato
tanto sangue?
- Sì, lo vedo.
- Forse Herrera era stato
abbandonato dai compagni, a causa della
ferita che gli impediva di seguirli
nella loro precipitosa fuga, ed un
vampiro, approfittando della sua
stanchezza o del suo svenimento, l'ha
dissanguato.
- Allora Wan Guld è passato
di qui?
- Eccone la prova.
- Da quanto tempo credi che questo
soldato sia morto?
- Forse da stamane. Se fosse morto
da ieri sera, le formiche termiti
l'avrebbero a quest'ora
completamente spolpato.
- Ah!... Ci sono vicini!... -
esclamò il Corsaro, con voce cupa. - A
mezzanotte ripartiremo e domani tu
avrai restituito a Wan Guld le
venticinque legnate ed io avrò
purgato la terra da quell'infame
traditore e vendicato i miei
fratelli.
- Lo spero, signore.
- Cercate di riposare meglio che
potete, perché non ci arresteremo, se
non quando avremo raggiunto Wan
Guld.
- Diavolo! - mormorò
Carmaux. - Il comandante ci farà trottare come
cavalli.
- Ha fretta di vendicarsi, amico, -
disse Wan Stiller.
- E di rivedere le sua "Folgore".
- E la sua giovane duchessa?
- E' probabile, Wan Stiller.
- Dormiamo, Carmaux.
- Dormire!... Non hai udito il
catalano parlare di uccelli che
dissanguano?... Fulmini!... Se a
mezzanotte ci trovassimo tutti
insanguinati?... Con questa idea
non potrò dormire tranquillo.
- Il catalano ha voluto burlarsi di
noi, Carmaux.
- No, Wan Stiller. Ho udito anch'io
parlare di vampiri.
- E che cosa sono?...
- Dei brutti uccellacci, pare. Ehi,
catalano, vedi nulla in aria?...
- Sì, le stelle, - rispose
lo spagnolo.
- Ti domando se vedi dei vampiri.
- E' troppo presto. Lasciano i loro
nascondigli solo quando gli uomini
e gli animali russano sonoramente.
- Che bestie sono? - chiese Wan
Stiller.
- Dei grossi pipistrelli dal muso
lungo e sporgente, con gli orecchi
grandi, di pelame morbido,
rosso-bruno sul dorso e giallo-bruno sul
ventre e con delle ali che misurano
quaranta e più centimetri.
- E dici che succhiano il sangue?
- Sì, e lo fanno così
delicatamente, che non ve ne accorgereste,
possedendo una tromba così
sottile da rompere la pelle senza produrre
alcun dolore. - Che ve ne siano
qui?...
- E' probabile.
- E se uno piombasse su di noi?...
- Bah!... Una sola notte non
basta per dissanguarmi e tutto si
limiterebbe ad una cavata di
sangue, più utile che dannosa, in questi
climi. E' bensì vero che
le ferite che producono sono lunghe a
guarire.
- Però il tuo amico con
quella cavata di sangue è andato all'altro
mondo, - disse Carmaux.
- Chissà quanto ne aveva
perduto prima dalla ferita. Buonanotte,
"caballeros", alla
mezzanotte si riparte.
Carmaux si lasciò cadere in
mezzo alle erbe, ma prima di chiudere gli
occhi guardò a lungo fra i
rami del simaruba, per accertarsi che non
vi si nascondesse qualche avido
succhiatore di sangue.
29.
LA FUGA DEL TRADITORE
La luna era appena sorta sopra le
alte foreste, che già il Corsaro era
in piedi, pronto a riprendere
quell'ostinata caccia contro Wan Guld e
la sua scorta.
Scosse il catalano, il negro ed
i due filibustieri, e si ripose in
marcia senza aver pronunciato una
parola, ma con passo così lesto che
i suoi compagni stentavano a
seguirlo.
Pareva che fosse proprio deciso a
non sostare senza aver raggiunto il
suo mortale nemico; però
ben presto nuovi ostacoli lo costrinsero non
solo a rallentare quella marcia
indiavolata, ma anche ad arrestarsi.
Bacini d'acqua che raccoglievano
tutti gli scoli della foresta,
terreni pantanosi, brughiere
fittissime e corsi d'acqua s'incontravano
a ogni tratto, obbligandoli a
cercare dei passaggi o a descrivere dei
lunghi giri, o a trovare dei
guadi, o ad abbattere delle piante per
improvvisare dei ponti.
I suoi uomini facevano sforzi
sovrumani per aiutarlo, nondimeno
cominciavano ad essere esausti da
quelle lunghe marce che duravano già
da quasi dieci giorni, dalle
notti insonni ed anche in causa dello
scarso nutrimento.
All'alba non ne potevano più
e furono costretti a pregarlo di
accordare loro un po' di riposo,
non potendo più reggersi in piedi ed
essendo anche affamati, giacché
i biscotti erano stati consumati ed il
gatto di Carmaux era stato digerito
da quindici ore.
Si misero in cerca di selvaggina
e di alberi fruttiferi; quella
foresta paludosa però
sembrava che non potesse offrire né l'una né
l'altra. Non s'udivano né
cicalecci di pappagalli, né grida di
scimmie, né si vedeva
alcuna pianta che portasse qualche frutto
mangiabile.
Tuttavia il catalano, che si era
diretto verso una vicina palude
assieme a Moko, fu ancora
tanto fortunato da poter prendere colle
mani, non senza però aver
riportato dei morsi crudeli, una "praira",
pesce che abbonda nelle acque
morte, colla bocca armata di acuti denti
e dal groppone nero, mentre il
suo compagno riusciva ad afferrare un
"cascudo", altro pesce
lungo un piede, dalle squame durissime, nere
sopra e rossicce sotto.
Quel magro pasto, assolutamente
insufficiente per saziare tutti, fu
presto divorato, poi, dopo
qualche ora di riposo, si rimisero in
caccia attraverso quella triste
foresta, che pareva non dovesse finire
mai.
Cercavano di mantenere la
direzione sud-est, per avvicinarsi
all'estremità del lago di
Maracaybo trovandosi colà la forte
cittadella di Gibraltar; erano
però sempre costretti a deviare, in
causa di quelle continue paludi e
dei terreni fangosi.
Per tutta la mattinata andarono
avanti senza aver scoperto le tracce
dei fuggiaschi e senza aver udito
alcun grido, né alcuna detonazione.
Verso le quattro pomeridiane,
dopo un riposo d'un paio d'ore,
scoprivano sulle rive d'un
fiumiciattolo gli avanzi d'un fuoco le cui
ceneri erano ancora calde.
Era stato acceso da qualche
cacciatore indiano o dai fuggiaschi? Era
impossibile saperlo, non avendo
potuto trovare alcuna traccia di
piedi, essendo colà il
terreno asciutto e coperto di foglie, nondimeno
quella scoperta li rianimò
tutti, essendo convinti che in quel luogo
si fosse arrestato Wan Guld.
La notte li sorprese senza che
null'altro avessero trovato. Sentivano
però per istinto che i
fuggiaschi non dovevano essere lontani
Quella sera quei poveri diavoli si
videro costretti a coricarsi senza
cena, non avendo trovato
assolutamente nulla.
- Ventre di pesce-cane! - esclamò
Carmaux, che cercava di ingannare la
fame masticando alcune foglie d'un
sapore zuccherino. - Se la continua
così, giungeremo a
Gibraltar in tale stato da farci mettere subito in
un ospedale.
La notte fu la più cattiva
di tutte quelle passate in mezzo ai boschi
del lago di Maracaybo. Oltre le
sofferenze della fame, si aggiunsero
le torture loro inflitte da sciami
immensi di zanzare ferocissime, le
quali non permisero a quei
disgraziati di chiudere gli occhi un solo
istante.
Quando verso il mezzodì
dell'indomani si rimisero in cammino erano più
stanchi della sera innanzi.
Carmaux dichiarava che non avrebbe potuto
resistere due ore ancora, se
non trovava per lo meno un gatto
selvatico da mettere ad arrostire o
una mezza dozzina di rospi. Wan
Stiller avrebbe preferito una
schidionata di pappagalli o una scimmia,
ma non si vedevano né gli
uni né le altre in quella selva maledetta.
Camminavano, o meglio si
trascinavano da quattro ore, seguendo il
Corsaro che procedeva sempre
lesto, come se possedesse un vigore
sovrumano, quando a breve distanza
udirono echeggiare uno sparo.
Il Corsaro si era subito arrestato,
mandando un grido.
- Finalmente! - aveva esclamato,
snudando la spada con gesto risoluto.
- Tuoni d'Amburgo! - gridò
Wan Stiller. - Pare che questa volta ci
siamo vicini.
- Speriamo che non ci scappino più,
- rispose Carmaux. - Li legheremo
come salami, onde impedire loro
di farci correre un'altra intera
settimana.
- Questo colpo di fucile non è
stato sparato che a mezzo miglio da
noi, - disse il catalano.
- Sì, - rispose il Corsaro.
- Fra un quarto d'ora spero di aver nelle
mani l'assassino dei miei fratelli.
- Volete un consiglio, signore? -
disse il catalano.
- Parla.
- Cerchiamo di tendere loro un
agguato.
- Ossia?...
- Di aspettarli in qualche
fitta macchia, per costringerli ad
arrendersi senza impegnare una
lotta sanguinosa. Devono essere sette
od otto, mentre noi non siamo che
cinque ed esausti di forze.
- Non saranno di certo più
gagliardi di noi, tuttavia accetto il tuo
consiglio. Piomberemo loro
addosso d'improvviso, in modo da non
lasciare il tempo di difendersi.
Preparate le armi e seguitemi senza
far rumore.
Cambiarono le cariche dei fucili
e delle pistole per non mancare ai
colpi, nel caso che fossero
costretti ad impegnare la lotta; indi si
misero a strisciare in mezzo ai
cespugli, alle radici e le liane,
cercando di non far scrosciare le
foglie secche, né di spezzare i
rami.
La foresta paludosa pareva che
fosse terminata. Ricominciavano gli
alberi annosi, bomba, arcaaba,
palme d'ogni specie, simaruba,
mauritie, jupati, bussù e
tante altre splendidissime, adorne di foglie
di dimensioni esagerate e cariche
di fiori e di frutta, di cui alcune
eccellenti a mangiarsi.
Alcuni uccelli si ricominciavano a
vedere, pappagalli, arà, canindè,
tucani, mentre in distanza si
udivano echeggiare le grida formidabili
d'una banda di scimmie urlanti,
facendo andare in bestia Carmaux, il
quale rivedeva l'abbondanza senza
poter approfittarne, essendo stato
severamente proibito di far fuoco,
per non allarmare il governatore e
la sua scorta.
- Mi rifarò più
tardi, - brontolava, - ed abbatterò tanta selvaggina
da mangiarne per dodici ore di
fila.
Il Corsaro pareva che non si fosse
accorto di quel cambiamento, tutto
occupato nella sua vendetta.
Egli strisciava come un serpente o
balzava sopra gli ostacoli come una
tigre, cogli occhi fissi dinanzi a
sé per scoprire il suo
mortale nemico.
Non si voltava nemmeno per vedere
se i suoi compagni lo seguivano,
come se fosse stato convinto
d'impegnare e di vincere la lotta, anche
da solo, contro l'intera scorta del
traditore.
Non produceva il più minimo
rumore. Passava sugli strati delle foglie
senza farle crepitare; apriva
i rami senza quasi curvarli;
sgattaiolava fra i festoni
delle liane senza quasi muoverle e
strisciava, meglio d'un rettile,
fra le radici. Né le lunghe fatiche,
né le privazioni avevano
esaurito quell'organismo meraviglioso.
Ad un tratto però fu visto
arrestarsi, colla sinistra armata di
pistola tesa innanzi e la
spada in alto, come se si preparasse a
scagliarsi avanti con impeto
irresistibile.
Due voci umane si udivano in mezzo
ad un boschetto di calupi.
- Diego, - diceva una voce fioca,
come se fosse per spegnersi. - Un
sorso d'acqua ancora, uno solo...
prima che chiuda gli occhi.
- Non posso, - rispondeva un'altra,
rantolosa. - Non lo posso, Pedro.
- Ed essi sono lontani, -
rispondeva la prima.
- E per noi è finita...
Pedro... Quei cani d'indiani... mi hanno
ferito a morte.
- Ed io... ho la febbre... che mi
uccide...
- Quando... torneranno... non ci
troveranno... più.
- Il lago è... vicino... e
l'indiano... sa dov'è... una barca...
ah!... Chi
vive?...
Il Corsaro Nero si era
slanciato in mezzo alla macchia colla spada
alzata, pronto a colpire.
Due soldati, pallidi, disfatti,
coperti di soli cenci, stavano distesi
ai piedi d'un grand'albero.
Vedendo apparire quell'uomo armato, con
uno sforzo supremo si erano
alzati sulle ginocchia, cercando di
afferrare i loro fucili che
tenevano a qualche passo da loro, però
erano subito ricaduti, come se le
forze loro fossero improvvisamente
mancate.
- Chi si muove è uomo
morto!... - aveva gridato il Corsaro, con voce
minacciosa.
Uno dei due soldati si era
risollevato, dicendo con un sorriso
forzato:
- Eh, "caballero"!... Non
ucciderete che dei moribondi!
In quel momento il catalano si
era pure slanciato in mezzo alla
macchia seguito dall'africano e
dai due filibustieri. Due grida gli
sfuggirono:
- Pedro!... Diego!... Poveri
camerati!...
- Il catalano!... - esclamarono i
due soldati.
- Sono io, amici e...
- Silenzio, - disse il Corsaro. -
Ditemi, dov'è Wan Guld?
- Il Governatore?... - chiese
colui che si chiamava Pedro. - E'
partito da tre ore.
- Solo?
- Con un indiano che ci ha servito
di guida e i due ufficiali.
- Sarà lontano?... Parlate
se volete che non vi uccida.
- Non devono aver fatta molta
strada.
- E' aspettato sulle rive del
lago?...
- No, però l'indiano sa dove
trovare una barca.
- Amici, - disse il Corsaro.
- Bisogna ripartire o Wan Guld ci
sfuggirà!
- Signore, - disse il catalano,
- volete che abbandoni i miei
camerati?... Il lago è
vicino, la mia missione quindi è finita e per
non abbandonare questi disgraziati
rinuncio alla mia vendetta.
- Ti comprendo, - rispose il
Corsaro. - Sei libero di fare ciò che
vorrai, ma credo che il tuo
soccorso sarà inutile.
- Forse posso salvarli, signore.
- Lascio a te Moko. Io ed i miei
due filibustieri bastiamo per dare la
caccia a Wan Guld.
- Ci rivedremo a Gibraltar,
signore, ve lo prometto.
- Hanno dei viveri i tuoi
camerati?...
- Alcuni biscotti, signore, -
risposero i due soldati.
- Bastano, - disse Carmaux.
- E del latte, - aggiunse il
catalano che aveva gettato un rapido
sguardo sull'albero alla cui base
giacevano i due spagnoli della
scorta.
- Non domando di più pel
momento, - rispose Carmaux.
Il catalano colla "navaja"
aveva fatta una profonda incisione sul
tronco di quella pianta, che non
era veramente un albero del latte ma
una "massaranduba", una
specie quasi simile e che secerne una linfa
bianca e densa, molto nutritiva,
che ha pure il sapore del latte,
della quale però non si deve
abusare, producendo sovente dei disturbi
qualche volta gravi.
Riempì le fiaschette dei
filibustieri, diede loro alcuni biscotti, poi
disse:
- Partite, "caballeros",
o Wan Guld vi sfuggirà ancora. Spero che ci
rivedremo a Gibraltar.
- Addio, - rispose il Corsaro,
rimettendosi in marcia. - Ti aspetto
laggiù.
Wan Stiller e Carmaux che si erano
un po' rinvigoriti, vuotando mezza
fiaschetta e divorando
frettolosamente alcuni biscotti, si erano
lanciati dietro di lui, facendo
appello a tutte le loro forze per non
rimanere indietro.
Il Corsaro si affrettava per
guadagnare le tre ore di vantaggio che
avevano i fuggiaschi e per poter
giungere sulle rive del lago, prima
che calassero le tenebre. Erano già
le cinque del pomeriggio, il tempo
era quindi brevissimo.
Fortunatamente la foresta si
diradava sempre. Gli alberi non erano più
uniti e collegati tra di loro
dalle liane, bensì raggruppati in
macchioni isolati, sicché
i filibustieri potevano procedere
speditamente, senza essere
obbligati a perdere un tempo prezioso
nell'aprirsi il passo fra i
vegetali.
La vicinanza del lago già si
tradiva. L'aria era diventata più fresca
e satura di emanazioni saline, e
degli uccelli acquatici, per lo più
qualche coppia di bernacle,
uccelli che si trovano in gran numero
sulle rive del Golfo di Maracaybo,
si mostravano.
Il Corsaro accelerava sempre,
timoroso di giungere troppo tardi
addosso ai fuggiaschi. Non
marciava più, correva, mettendo a dura
prova le gambe di Carmaux e di Wan
Stiller.
Alle sette, nel momento in cui il
sole stava per tramontare, vedendo
che i suoi compagni rimanevano
indietro, accordò loro un riposo d'un
quarto d ora, durante il quale
vuotarono le loro fiaschette, mandando
giù un paio di biscotti.
Il Corsaro però non stette
fermo. Mentre Wan Stiller e Carmaux
riposavano, frugò i
dintorni, sperando di trovare le tracce dei
fuggiaschi, e s'allontano verso il
sud credendo forse di udire, in
quella direzione, qualche sparo
o qualche rumore che indicassero la
vicinanza del traditore
- Partiamo, amici, un ultimo sforzo
ancora e Wan Guld cadrà finalmente
nelle mie mani, - disse, appena fu
tornato. - Domani potrete riposare
a vostro agio.
- Andiamo, - disse Carmaux,
alzandosi con grande fatica. - Le rive del
lago devono essere vicine.
Ripresero le mosse, ricacciandosi
in mezzo ai macchioni. Le tenebre
cominciavano allora a calare e
qualche urlo di belva si faceva udire
nelle parti più folte della
foresta.
Marciavano da venti minuti,
ansando e sbuffando, essendo tutti
esausti, quando udirono dinanzi a
loro dei cupi muggiti, che parevano
prodotti da onde che si
frangevano sulla riva. Quasi nel medesimo
istante, fra gli alberi videro
brillare una luce.
- Il golfo!... - esclamò
Carmaux.
- E quel fuoco indica
l'accampamento dei fuggiaschi, - urlò il
Corsaro. - Le armi in mano,
uomini del mare!... L'assassino dei miei
fratelli è mio!...
Si erano messi a correre verso quel
fuoco, che pareva ardesse sul
margine della foresta. In pochi
salti il Corsaro, che precedeva i due
filibustieri, superò la
distanza e piombò in mezzo allo spazio
illuminato, colla formidabile
spada in pugno, pronto ad uccidere, ma
invece fu veduto arrestarsi,
mentre un urlo di furore gli irrompeva
dalle labbra.
Attorno a quel fuoco non vi era
nessuno. Si vedevano bensì le tracce
d'una recente fermata, gli avanzi
di una scimmia arrostita, dei pezzi
di biscotto ed una fiaschetta
spezzata, però coloro che si erano colà
accampati erano già partiti.
- Fulmini dell'inferno!... Troppo
tardi!... - urlò il Corsaro con voce
terribile.
- No, signore!... gridò
Carmaux che lo aveva raggiunto. - Forse sono
ancora a portata delle nostre
palle!... Là!... Là!... Sulla
spiaggia!...
Il Corsaro aveva volto gli sguardi
da quella parte. A duecento metri
la foresta cessava bruscamente
e si estendeva una spiaggia bassa,
sulla quale rotolavano,
gorgogliando, le onde del lago.
Agli ultimi bagliori del
crepuscolo, Carmaux aveva scorto un canotto
indiano prendere frettolosamente
il largo, piegando verso il sud,
ossia in direzione di Gibraltar.
I tre filibustieri si erano
precipitati sulla spiaggia, armando
rapidamente i fucili.
- Wan Guld!... - urlò il
Corsaro. - Fermati o sei un vile!...
Uno dei quattro uomini che
montavano il canotto s'alzò ed un lampo
balenò dinanzi a lui. Il
Corsaro udì il fischio di una palla che si
perdeva fra i rami dei vicini
alberi.
- Ah!... Traditore!... - urlò
il Corsaro, al colmo della rabbia. -
Fuoco su coloro!...
Wan Stiller e Carmaux si erano
inginocchiati sulla sabbia puntando i
fucili. Un istante dopo due
detonazioni rimbombavano.
Al largo si udì echeggiare
un grido e si vide qualcuno cadere; pure il
canotto, invece di arrestarsi,
s'allontanò con maggior rapidità,
dirigendosi verso le sponde
meridionali del lago e confondendosi fra
le tenebre, che allora
scendevano con quella rapidità fulminea
particolare delle regioni
equatoriali.
Il Corsaro, ebbro di furore,
stava per slanciarsi lungo la spiaggia
con la speranza di trovare qualche
canotto, quando Carmaux lo arrestò,
dicendogli: - Guardate, capitano!
- Che cosa vuoi? - chiese il
Corsaro.
- Vi è un'altra scialuppa
arenata sulla sabbia.
- Ah!... Wan Guld è mio!...
- urlò il cavaliere.
A venti passi da loro, entro
una piccola cala che la marea aveva
allora lasciata asciutta, si
trovava uno di quei canotti indiani
scavati nel tronco d'un cedro,
scialuppe che sembrerebbero pesanti a
prima vista, ma che, ben
manovrate, sfidano invece, senza tema di
rimanere indietro, le migliori
imbarcazioni.
Il Corsaro ed i suoi due
compagni si erano precipitati verso quella
piccola cala, e con un colpo
vigoroso, avevano spinto in mare il
canotto.
- Vi sono i remi?... - chiese il
Corsaro.
- Sì, capitano, - rispose
Carmaux. - In caccia, miei bravi!... Wan
Guld non ci sfugge più!...
- Forza di muscoli, Wan
Stiller! - gridò il biscaglino. - I
filibustieri non hanno rivali nel
remo!...
- Oh!... Uno... due!... - rispose
l'amburghese, curvandosi sul remo.
La scialuppa uscì dalla
cala e si slanciò nelle acque del golfo, con
la rapidità d'una freccia,
sulle tracce del governatore di Maracaybo.
30.
LA CARAVELLA SPAGNOLA
La scialuppa, montata da Wan Guld,
era ormai lontana almeno mille
passi, nondimeno i corsari
erano uomini da non perdersi di animo,
sapendo specialmente che un solo
rematore era capace di competere con
loro in quella faticosa manovra,
cioè l'indiano. I due ufficiali ed il
Governatore, abituati solamente a
maneggiare le armi, dovevano essere
di poco giovamento.
Quantunque fossero stanchi per
quelle lunghe marce ed affamati, Wan
Stiller e Carmaux avevano
subito messo in opera la loro possente
muscolatura, imprimendo al
canotto una celerità prodigiosa. Il
Corsaro, seduto a prora, con
l'archibugio fra le mani, li eccitava
senza posa con la voce, gridando:
- Forza, miei bravi!... Wan Guld
non ci sfuggirà più ed io sarò
vendicato!... Ricordatevi del
Corsaro Rosso e del Corsaro Verde!...
Il canotto balzava sulle larghe
ondate del lago, procedendo sempre più
rapido, frangendo
impetuosamente, con l'acuta prora, le creste
spumeggianti.
Carmaux e Wan Stiller arrancavano
con furore, senza perdere una
battuta, tendendo i muscoli,
puntando i piedi. Erano certi di
guadagnare sulla scialuppa
avversaria, pur non rallentavano la lena,
temendo che qualche avvenimento
imprevisto permettesse al governatore
di sottrarsi ancora una volta a
quell'accanito inseguimento.
Arrancavano da cinque minuti,
quando a prora avvenne un urto.
- Tuoni!... - urlò Carmaux.
- Un bassofondo?...
Il Corsaro si era curvato ed avendo
scorto dinanzi al canotto una
massa nera, aveva allungato
prontamente la destra per afferrarla,
prima che scomparisse sotto la
chiglia.
- Un cadavere! - esclamò.
Facendo uno sforzo issò quel
corpo umano e lo guardò: era quello d'un
capitano spagnolo, il quale
aveva la testa spaccata da una palla
d'archibugio.
- E uno dei compagni di Wan Guld,
- disse, lasciandolo ricadere in
acqua.
- L'hanno gettato nel lago per
render più leggera la loro scialuppa, -
aggiunse Carmaux, senza
abbandonare il remo. - Forza, Wan Stiller!...
Quei furfanti non devono essere
lontani!...
- Eccoli!... - gridò in
quell'istante il Corsaro.
Seicento o settecento metri più
innanzi aveva scorto una scia
luminosa, la quale diventava, di
momento in momento, più splendente.
Doveva essere prodotta dalla
scialuppa attraversante un tratto d'acqua
saturo di uova di pesci o di
nottiluche.
- Si scorgono, capitano? -
chiesero Carmaux e Wan Stiller, ad una
voce.
- Sì, vedo la scialuppa
all'estremità della scia fosforescente, -
rispose il Corsaro.
- Guadagniamo?...
- Sempre.
- Forza, Wan Stiller!...
- Arranca a tutta lena, Carmaux!
- Allunga la battuta!...
Faticheremo meno e correremo di più.
- Silenzio, - disse il Corsaro. -
Non sprecate le vostre forze in
chiacchiere. Avanti, miei prodi!...
Scorgo il mio nemico.
Egli si era alzato tenendo in mano
l'archibugio e fra le tre ombre che
scorgeva sulla scialuppa, cercava
di discernere l'odiato duca.
Ad un tratto puntò l'arma
e si sdraiò sulla prora per avere un punto
d'appoggio; poi, dopo aver mirato
per alcuni istanti, fece fuoco. La
detonazione si distese al
largo, però non si udì alcun grido che
annunciasse che la palla aveva
colpito qualcuno.
- Mancato, capitano? - chiese
Carmaux.
- Lo credo, - rispose il Corsaro
coi denti stretti.
- Allunga, Wan Stiller!...
- Mi spezzo i muscoli, Carmaux, -
rispose l'amburghese, che soffiava
come una foca.
La scialuppa di Wan Guld perdeva
spazio sempre, nonostante gli sforzi
prodigiosi dell'indiano. Se
questi avesse avuto per compagno un
rematore della propria razza,
forse sarebbe riuscito a mantenere la
distanza fino all'alba, essendo
le Pelli rosse dell'America
meridionale dei canottieri
insuperabili; invece, male assecondato
dall'ufficiale spagnolo e dal
Governatore, doveva in breve perdere
sempre più la via.
Ormai la scialuppa si distingueva
benissimo, anche perché attraversava
una zona d'acqua fosforescente.
L'indiano era a poppa ed arrancava con
due remi, mentre il Governatore
ed il suo compagno lo secondavano
meglio che potevano, uno a bordo e
l'altro a tribordo.
A quattrocento passi il Corsaro si
alzò una seconda volta armando
l'archibugio e gridò con
voce tuonante:
- Arrendetevi o faccio fuoco!...
Nessuno rispose, anzi la
scialuppa nemica virò bruscamente di bordo
dirigendosi non più al
largo, bensì verso le paludi della costa, forse
per cercare un rifugio nel rio
Catatumbo, che non doveva essere molto
lontano.
- Arrenditi, assassino dei fratelli
miei!... - urlò ancora il Corsaro.
Anche questa volta non ottenne
risposta.
- Allora muori, cane!... - tuonò
il Corsaro.
Puntò l'archibugio e
mirò Wan Guld che si trovava a soli
trecentocinquanta passi;
l'ondulazione però che era diventata
fortissima a causa dei colpi
precipitati dei remi, gli impediva di
mirare con qualche speranza di
buona riuscita.
Tre volte abbassò l'arma e
tre volte la rialzò, puntandola verso la
scialuppa. Alla quarta fece fuoco.
Lo sparo fu seguito da un urlo ed
un uomo cadde in acqua.
- Colpito?... - gridarono Carmaux e
Wan Stiller.
Il Corsaro rispose con
un'imprecazione.
L'uomo che era caduto non era il
Governatore; era l'indiano.
- L'inferno lo protegge adunque? -
chiese il Corsaro, con furore. -
Avanti, miei bravi!... Lo
prenderemo vivo!...
La scialuppa non si era arrestata;
priva ormai dell'indiano non doveva
però correre molto tempo
ancora.
Non era che questione di minuti,
poiché Carmaux e Wan Stiller erano in
grado di arrancare per parecchie
ore, prima di cedere.
Il Governatore ed il suo compagno,
comprendendo di non poter lottare
contro i filibustieri, si erano
diretti verso un'alta isoletta che
distava da loro cinque o seicento
metri, sia con l'intenzione di
sbarcare, sia per passarvi dietro
e mettersi al riparo dai colpi del
loro formidabile avversario.
- Carmaux, - disse il Corsaro, -
obbliquano verso l'isolotto.
- Vogliono prendere terra
adunque?...
- Lo sospetto.
- Allora non ci sfuggiranno più.
Lampi!...
- Fulmini!... - gridò Wan
Stiller.
- Cosa avete?...
In quell'istante si udì una
voce gridare:
- Chi vive?...
- Spagna!... - urlarono il
Governatore ed il suo compagno.
Il Corsaro si era voltato. Una
massa enorme era improvvisamente
comparsa dietro un promontorio
dell'isolotto, che si avanzava nel
lago. Era un vascello di grandi
dimensioni, e che a tutte vele
spiegate veniva incontro alle due
scialuppe.
- Maledizione!... - urlò il
Corsaro.
- Che sia una delle nostre navi? -
chiese Carmaux.
Il Corsaro non rispose. Curvo sulla
prora della scialuppa, con le mani
raggrinzite attorno
all'archibugio, coi lineamenti alterati dalla
collera, guardava con due occhi
che scintillavano come quelli d'una
tigre la grossa nave che si
trovava già vicina alla scialuppa del
governatore.
- E' una caravella spagnola!... -
urlò ad un tratto. - Sia dannato
quel cane, che ancora una volta mi
sfugge!...
- E che ci farà appiccare, -
aggiunse Carmaux.
- Ah!... Non ancora, miei
bravi, - rispose il Corsaro. - Lesti,
arrancate verso l'isolotto prima
che quel legno ci scarichi addosso i
suoi cannoni e ci sfondi la
scialuppa.
- Lampi!...
- E tuoni!... - aggiunse
l'amburghese, curvandosi sul remo.
Il canotto aveva virato di
bordo sul posto e si era diretto verso
l'isolotto, il quale non distava
che tre o quattrocento passi. Avendo
scorto una linea di scogli,
Carmaux ed il suo compagno manovrarono in
modo da mettersi al riparo dietro
quelli, onde non farsi fulminare da
una scarica di mitraglia.
Intanto il governatore ed il
suo compagno si erano issati a bordo
della caravella ed avevano
probabilmente informato tosto il comandante
del pericolo corso, poiché
un istante dopo si videro i marinai
bracciare precipitosamente le vele.
- Lesti, miei bravi!... - gridò
il Corsaro, a cui nulla era sfuggito.
- Gli spagnoli si preparano a darci
la caccia.
- Non siamo che a cento passi dalla
spiaggia, - rispose Carmaux.
In quell'istante a bordo della
nave balenò un lampo ed i tre
filibustieri udirono fischiare in
aria un nembo di mitraglia, i cui
proiettili andarono a sgretolare la
cima d'uno scoglio.
- Presto!... Presto!... - gridò
il Corsaro.
La caravella aveva allora
sorpassato la lingua di terra e si preparava
a virare di bordo, mentre i suoi
marinai mettevano in acqua tre o
quattro scialuppe per dare la
caccia ai fuggiaschi.
Carmaux e Wan Stiller,
tenendosi sempre al riparo degli scogli,
raddoppiarono gli sforzi e pochi
istanti dopo si arenavano a tre o
quattro passi dalla spiaggia.
Il Corsaro fu pronto a
slanciarsi in acqua, portando con sé gli
archibugi, e a guadagnare i primi
alberi, mettendosi al riparo dietro
ai tronchi. Carmaux e Wan Stiller,
vedendo brillare una miccia sulla
prora della caravella, si
lasciarono cadere dietro il bordo esterno
della scialuppa, coricandosi sulla
sabbia.
Quella manovra li salvò.
Un istante dopo un altro nembo di mitraglia
spazzava la spiaggia, massacrando
i cespugli e le foglie delle palme,
mentre una palla di tre
libbre, scagliata da un piccolo pezzo
d'artiglieria che si trovava
sull'alto cassero, fracassava la poppa
della scialuppa.
- Approfittate! - gridò il
Corsaro.
I due filibustieri, scampati
miracolosamente a quella doppia scarica,
si arrampicarono rapidamente sulla
spiaggia e si cacciarono in mezzo
agli alberi, salutati da una mezza
dozzina di archibugiate.
- Siete feriti, miei bravi? -
chiese il Corsaro.
- Costoro non sono filibustieri
per non mancare ai colpi, - disse
Carmaux.
- Seguitemi e senza perdere tempo.
I tre uomini, senza più
preoccuparsi dei colpi d'archibugio dei
marinai delle scialuppe,
s'inoltrarono rapidamente sotto le fitte
piante, per cercare un rifugio.
Quell'isolotto, che doveva
trovarsi dinanzi alla foce del rio
Catatumbo, piccolo corso d'acqua
che si scarica nel lago al di sotto
del Suana, e che scorre in mezzo
ad una regione ricca di laghi e di
paludi, poteva avere un circuito di
un chilometro.
S'alzava in forma di cono,
toccando un'altezza di trecento o
quattrocento metri ed era coperto
da una folta vegetazione, composta
per la maggior parte di
bellissimi cedri, di alberi di cotone, di
euforbie irte di spine e di palme
di varie specie.
I tre corsari, giunti alle falde
del cono, senza aver incontrato alcun
essere vivente, s'arrestarono un
momento per riprender lena, essendo
completamente sfiniti, poi si
cacciarono in mezzo ai cespugli spinosi
e sotto le piante che crescevano
fittissime sui pendii, decisi di
raggiungere la cima per poter
sorvegliare le mosse dei nemici e
deliberare, senza venire sorpresi,
sul da farsi.
Ci vollero due ore di aspro lavoro,
essendo stati costretti ad aprirsi
il passo a colpi di sciabola fra
quegli ammassi di vegetali; però
finalmente poterono giungere
sulla vetta, la quale si rizzava quasi
nuda, non avendo intorno che pochi
cespugli e delle rocce. Essendo
sorta allora la luna, poterono
distinguere benissimo la caravella.
Essa si era ancorata a trecento
passi dalla spiaggia, mentre le tre
scialuppe si erano arrestate
nel luogo ove era stata fracassata la
piroga indiana.
I marinai erano già
sbarcati, però non avevano osato inoltrarsi sotto
i vegetali, per tema forse di
cadere in qualche imboscata, e si erano
accampati sulla sponda, attorno ad
alcuni fuochi, accesi forse per non
farsi succhiare vivi dalle
miriadi di feroci zanzare che
volteggiavano, in nubi sterminanti,
sulle coste del lago.
- Aspetteranno l'alba per darci la
caccia, - disse Carmaux.
- Sì, - rispose il Corsaro,
con voce sorda.
- Fulmini! La fortuna protegge
troppo quel furfante di Governatore!
- O il demonio?
- Sia l'una o l'altro, ecco la
seconda volta che egli ci sfugge di
mano. - - Non solo, ma che sta
per averci in mano sua, - aggiunse
l'amburghese. -
- Ah! questo lo si vedrà,
- disse Carmaux. - Siamo ancora liberi ed
abbiamo le nostre armi.
- E che cosa vorresti fare, se
tutto l'equipaggio della caravella
muovesse all'assalto di questo
cono? - chiese Wan Stiller.
- Anche a Maracaybo gli spagnoli
hanno assalito la casa di quel povero
notaio, eppure abbiamo trovato
il modo di andarcene senza venire
disturbati.
- Sì, - disse il Corsaro
Nero. - Questa però non è la casa del notaio,
e non vi è qui un conte di
Lerma per aiutarci.
- Che siamo destinati a terminare i
nostri giorni sulla forca? Ah! Se
l' Olonese venisse in nostro
soccorso!
- Egli sarà occupato a
saccheggiare ancora Maracaybo, - rispose il
Corsaro. - Io credo che per il
momento non dobbiamo pensare a lui.
- E che cosa sperate, rimanendo
qui?
- Non lo so nemmeno io, Carmaux.
- Sentiamo, comandante; credete
che l'Olonese si fermerà molto tempo
ancora a Maracaybo?
- Dovrebbe essere già
qui: tu sai però che egli è avido e si sarà
fermato per inseguire gli spagnoli
che si sono rifugiati nei boschi.
- Voi gli avete dato un
appuntamento.
- Sì, alla foce del Suana
od a quella del Catatumbo, - rispose il
Corsaro. - Allora abbiamo la
speranza che egli un giorno o l'altro
venga qui.
- E quando?
- Eh! per mille tuoni! Non si
fermerà dei mesi a Maracaybo!... Egli ha
tutto l'interesse di affrettarsi
per sorprendere Gibraltar.
- Lo so.
- Dunque verrà e forse
presto.
- E saremo noi ancora vivi e
liberi? Credi tu che Wan Guld ci lasci
tranquilli sulla cima di questo
cono? No, mio caro: egli ci stringerà
da tutte le parti e tutto tenterà
per averci in sua mano, prima
dell'arrivo dei filibustieri.
Egli mi odia troppo per lasciarmi
tranquillo, e forse a quest'ora
sta facendo appendere, a qualche
pennone, il laccio che dovrà
appiccarmi.
- Non gli è dunque
bastata la morte del Corsaro Verde e quella del
Corsaro Rosso? E' un cane idrofobo,
quel miserabile vecchio?
- No, non gli è bastata, -
rispose il Corsaro con voce cupa. - Egli
vuole la distruzione completa
della mia famiglia; però non mi ha
ancora in sua mano e non dispero di
vendicare i miei fratelli. Sì,
forse l'Olonese non è
lontano e se potessimo resistere alcuni giorni,
chissà! Forse Wan Guld
potrebbe pagare i suoi tradimenti ed i suoi
delitti.
- Che cosa si deve fare, capitano?
- chiesero i due filibustieri.
- Resisteremo più a lungo
che potremo.
- Qui? - chiese Carmaux.
- Sì, su questa cima.
- Bisognerebbe trincerarsi.
- E chi ce lo impedirà?
Abbiamo quattro ore di tempo prima che spunti
l'alba.
- Tuoni!... Wan Stiller, amico
mio, non c'è tempo da perdere. Gli
spagnoli, appena sorto il sole,
verranno certamente a scovarci.
- Sono pronto, - rispose
l'amburghese.
- A noi, mio caro, - disse
Carmaux. - Mentre voi, capitano, vigilate,
noi alzeremo delle trincee che
metteranno a dura prova le mani ed i
dorsi dei nostri avversari. Vieni,
amburghese mio!
La cima della collina era sparsa
di grossi macigni, staccatisi certo
da una rupe che si alzava proprio
al culmine, a guisa di osservatorio.
I due filibustieri si misero a
rotolare i più grossi, formando una
specie di trincea circolare, bassa
sì, ma sufficiente per riparare un
uomo coricato o inginocchiato.
Quel lavoro assai faticoso durò
due ore, però i risultati furono
splendidi, perché dietro
quella specie di muricciolo massiccio i
filibustieri potevano opporre una
lunga resistenza e senza tema di
venire colpiti dalle palle degli
avversari.
Carmaux e Wan Stiller non erano
ancora soddisfatti. Se quell'ostacolo
era sufficiente a difenderli, era
incapace d'impedire un assalto
improvviso. Per ottenere
completamente il loro scopo scesero nella
foresta, ed improvvisata, con
alcuni rami, una specie di barella,
portarono sulla cima del cono
degli ammassi di piante spinose,
costruendo una siepe, la quale
poteva diventare pericolosa anche per
le mani e le gambe dei nemici.
- Ecco una piccola fortezza che
darà da fare anche a Wan Guld, se
vorrà venire a scovarci, -
disse Carmaux, stropicciandosi allegramente
le mani.
- Manca però una cosa, che
è necessaria ad una guarnigione per quanto
sia poco numerosa, - notò
l'amburghese.
- Che cosa vuoi dire?
- Che qui non vi è la
dispensa del notaio di Maracaybo, amico Carmaux.
- Mille fulmini! Dimenticavamo di
non possedere nemmeno un biscotto da
sgretolare.
- Come già saprai, noi
non possiamo convertire questi sassi in
altrettanti pani.
- Batteremo il bosco, amico Wan
Stiller. Se gli spagnoli ci lasciano
tranquilli, noi andremo in cerca di
provviste.
Alzò il capo verso la
rupe, dove il Corsaro Nero s'era messo in
osservazione per spiare le mosse
degli spagnoli, chiedendogli:
- Si muovono, capitano?
- Non ancora.
- Allora approfittiamo per andare a
caccia.
- Andate pure, veglio io.
- In caso di pericolo datecene
avviso con un colpo d'archibugio.
- Siamo d'accordo.
- Vieni, Wan Stiller, - disse
Carmaux. - Andiamo a saccheggiare gli
alberi e cercheremo anche di
abbattere qualche capo di selvaggina.
I due filibustieri presero la
barella, che era servita loro per
trasportare lassù le spine e
scesero il cono, cacciandosi sotto i
boschi.
La loro assenza durò fino
all'alba, però tornarono carichi come muli.
Avendo trovato un pezzo di terra
dissodato, forse da qualche indiano
venuto dalla vicina spiaggia,
avevano saccheggiato le piante
fruttifere che colà erano
state piantate. Portavano dei cocchi, degli
aranci, due cavoli palmisti che
potevano surrogare il pane, ed una
grossa testuggine palustre che
avevano sorpresa presso un laghetto.
Economizzando le provviste, vi
era da vivere per lo meno quattro
giorni.
Oltre alle frutta ed al rettile,
avevano poi fatto una scoperta
importante, che poteva essere
loro di molto giovamento per mettere i
nemici fuori combattimento, almeno
per un certo tempo.
- Ah! ah! - esclamò Carmaux,
che pareva in preda ad una irrefrenabile
allegria. - Mio caro amburghese,
noi faremo fare delle brutte boccacce
al Governatore ed ai suoi
marinai, se salterà loro il ticchio di
assediarci regolarmente. Vivaddio!
In questi climi la sete vien presto
e non andranno certo a bere sulla
caravella, né si porteranno dietro
delle botti d'acqua. Ah! Ah!
Sono furbi gl'indiani! Il "niku" farà
miracoli!
- Sei proprio certo di quello che
dici? - chiese Wan Stiller. - Io non
ho molta fiducia.
- Tuoni! L'ho provato io, e se non
sono crepato dai dolori, è stato un
vero miracolo.
- Verranno poi a bere gli spagnoli?
- Hai veduto altri laghetti in
questi dintorni?
- No, Carmaux.
- Allora saranno costretti a
dissetarsi in quello che noi abbiamo
scoperto.
- Sarei curioso di vedere gli
effetti del tuo "niku".
- A suo tempo ti offrirò
lo spettacolo di una banda di uomini
straziati da atroci dolori di
ventre.
- E quando avveleneremo le acque?
- Appena avremo la certezza che i
nostri nemici muovono all'assalto
della collina.
In quel momento il Corsaro,
abbandonata la cima della rupe, che gli
era servita da osservatorio,
scese nel piccolo campo trincerato,
dicendo:
- Le scialuppe hanno circondata
l'isola.
- Si preparano a bloccarci? -
chiese Carmaux.
- E rigorosamente.
- Noi però siamo pronti a
sostenere l'assedio, capitano. Dietro a
queste rocce ed a queste spine,
potremo resistere lungamente, forse
fino all'arrivo dell'Olonese e dei
filibustieri.
- Sì, se gli spagnoli ci
lasceranno il tempo. Ho veduto sbarcare più
di quaranta uomini.
- Ahi!... - fe' Carmaux con una
smorfia. - Sono troppi, però conto sul
"niku".
- Che cosa è questo "niku"?
- chiese il Corsaro.
- Volete seguirmi, capitano?...
Prima che gli spagnoli giungano qui,
saranno necessarie almeno tre o
quattro ore ed a noi può bastarne una
sola.
- Che cosa vuoi fare?
- Lo vedrete mio capitano. Venite,
Wan Stiller rimarrà a guardia della
nostra rocca.
Si armarono dei loro archibugi e
scesero la collina cacciandosi in
mezzo ai boschi di cedri, di
palmizi, di simaruba e di alberi del
cotone, ed aprendosi il passo
attraverso a miriadi di liane.
Scesero così circa
centocinquanta metri, fugando colla loro presenza
bande di pappagalluzzi ciarlieri e
qualche coppia di scimmie rosse, e
giunsero ben presto al bacino che
Carmaux aveva pomposamente chiamato
laghetto, mentre invece non era
che un semplice stagno, avente un
circuito di forse trecento passi.
Era un serbatoio naturale, poco
profondo a quanto pareva ed occupato
da un gran numero di piante
acquatiche, specialmente di "mucumucù", le
quali formavano dei veri boschetti.
Sulle rive di quel bacino, Carmaux
fece notare al Corsaro delle masse
di certi gambi sarmentosi,
dalla corteccia brunastra e che
somigliavano a liane.
Crescevano in numero straordinario,
aggrovigliati gli uni agli altri
come se fossero serpenti o piante di
pepe, prive di sostegno.
- Ecco i vegetali che
procureranno agli spagnoli delle coliche
terribili, - disse il filibustiere.
- Ed in qual modo? - chiese il
Corsaro, con curiosità.
- Lo vedrete, capitano.
Così dicendo il marinaio
aveva snudata la sciabola d'abbordaggio e si
era messo a tagliare parecchi
di quei gambi sarmentosi, che gli
indiani del Venezuela e delle
Guiane chiamano "niku", ed i naturalisti
"robinie", ed aveva
formato parecchi fasci che poi depose su di una
roccia, che scendeva nello stagno
quasi a picco.
Quand'ebbe radunati trenta o
quaranta fasci, andò a recidere due
lunghi e solidi rami e ne porse uno
al Corsaro, dicendogli:
- Battete queste piante, capitano.
- Ma che cosa vuoi fare,
adunque?...
- Avvelenare le acque del bacino,
mio capitano.
- Con questa specie di liane?...
- Sì, signore.
- Tu sei pazzo, Carmaux.
- Niente affatto, mio capitano.
Il "niku" ubriaca i pesci e agli
uomini produce delle coliche
tremende.
- Ubriaca i pesci?... Eh va?...
Quali storie mi racconti, Carmaux?...
- Non sapete adunque come fanno i
Caraybi, quando vogliono prendere i
pesci?...
- Si servono delle reti.
- No, capitano. Lasciano colare,
nei laghetti, il succo di queste
piante e poco dopo gli
abitanti delle acque vengono a galla,
contorcendosi disordinatamente e
lasciandosi prendere colla miglior
grazia del mondo.
- E tu dici che agli uomini produce
delle coliche?...
- Sì, capitano, e siccome
su questo cono non vi sono altri bacini né
sorgenti, gli spagnoli che
vorranno assediarci saranno costretti a
venire qui a bere.
- Sei furbo, Carmaux. Ubriachiamo
adunque l'acqua del serbatoio.
Diedero mano ai bastoni e si
misero a picchiare con gran vigore,
schiacciando i gambi sarmentosi,
dai quali usciva un succo abbondante
che colava a poco a poco nel
laghetto.
Le acque si colorirono ben presto,
prima di bianco, come se si fossero
mescolate a del latte, poi presero
una splendida tinta madreperlacea,
la quale, però, non tardò
a dileguarsi. Ad operazione finita, la
limpidezza del bacino era
ritornata e nessuno avrebbe di certo
sospettato che quel liquido,
così promettente, nascondesse una
sostanza, se non pericolosa,
certamente poco gradevole.
I due filibustieri, precipitati
nel laghetto gli avanzi dei gambi
sarmentosi, stavano per
allontanarsi, quando videro contorcersi
numerosi pesci.
I poveretti, ubriachi dal
"niku", si dibattevano disperatamente,
cercando di sfuggire a quelle acque
che non facevano più per loro, e
parecchi si dirigevano verso le
rive come se preferissero una lenta
asfissia sulle sabbie,
all'esaltazione, probabilmente dolorosa, che
procurava loro il succo di quelle
strane piante.
Carmaux, che ci teneva ad
ingrossare le provviste, onde non correre
pericoli di dover più tardi
soffrire la fame, si slanciò verso la riva
e con poche randellate poté
impadronirsi di due grosse raje spinose,
di un "piraja" e d'un
"pemecru".
- Ecco quanto ci occorreva!... -
gridò, lanciandosi verso il capitano,
che si era cacciato sotto le
piante.
- Ed anche questo!... - gridò
una voce.
Uno sparo rintronò.
Carmaux non mandò né
un grido né un gemito; cadde in mezzo ad una
macchia di legno di cannone, e
rimase immobile, come se la palla lo
avesse fulminato.
31.
L'ASSALTO AL CONO
Il Corsaro, udendo quello sparo,
era tornato rapidamente indietro,
credendo che il marinaio avesse
fatto fuoco contro qualche animale,
non sospettando minimamente che
gli spagnoli della caravella fossero
già giunti sui fianchi del
cono. Non vedendolo, si mise a gridare
ripetutamente:
- Carmaux!... Carmaux!... Dove
sei?...
Un sibilo leggero, che pareva
mandato da un serpente e che egli ben
conosceva, fu la sola risposta
che ottenne. Invece di slanciarsi
innanzi si gettò
prontamente dietro il grosso tronco d'un simaruba e
guardò attentamente dinanzi
a sé.
Solamente allora s'accorse che
sul margine d'un folto gruppo di
palmizi ondeggiava ancora una
leggera nuvoletta di fumo, la quale
andava disperdendosi lentamente,
non soffiando, in quella piccola
radura, alcun alito d'aria.
- Hanno sparato da quella parte,
- mormorò. - Ma dove si è nascosto
Carmaux? Se mi ha segnalata la sua
presenza, non deve essere lontano e
forse è sfuggito
all'agguato. Ah! Gli spagnoli sono giunti già qui?
Ebbene, signori miei, la vedremo.
Tenendosi sempre nascosto dietro
al tronco del simaruba, il quale lo
metteva al coperto dalle palle
nemiche, si mise in ginocchio e guardò
con precauzione attraverso alle
erbe che in quel luogo erano
altissime. Dalla parte del bosco,
dove il colpo era stato sparato,
nulla vide; però a
quindici passi dal simaruba, in direzione d'un
gruppo di cespugli, notò fra
le erbe un leggero movimento.
- Qualcuno striscia verso di me, -
mormorò. - Sarà Carmaux, o qualche
spagnolo che cerca di
sorprenderci? L'archibugio però è armato e non
manco che di rado ai miei colpi.
Stette immobile alcuni istanti, con
un orecchio appoggiato al suolo e
udì un leggero fruscio che il suolo
trasmetteva nettamente. Certo di
non essersi ingannato, si rizzò lungo
il tronco del simaruba e lanciò
un rapido sguardo fra le erbe.
- Ah! - mormorò, respirando.
Carmaux non si trovava che a
quindici passi dall'albero e si avanzava
con mille precauzioni,
strisciando fra le erbe. Un serpente non
avrebbe prodotto maggior rumore,
né avrebbe proceduto con tanta
astuzia, per sfuggire un pericolo o
per sorprendere qualche preda.
- Il furbo, - disse il Corsaro.
- Ecco un uomo che si trarrà sempre
d'impiccio e che metterà
sempre in salvo la pelle. E lo spagnolo che
ha fatto fuoco su di lui, è
scomparso sotto terra?...
Intanto Carmaux continuava ad
avanzare, dirigendosi verso il simaruba
e procurando di non mostrare la
minima parte del suo corpo, per tema
di venire preso una seconda volta a
colpi di fucile.
Il brav'uomo non aveva abbandonato
il suo archibugio, anzi, nemmeno i
suoi pesci, sui quali certamente
contava per regalarsi una squisita
colazione. Diamine! Non voleva aver
faticato per nulla!...
Scorgendo il Corsaro, lasciò
da parte ogni prudenza e, rialzatosi
bruscamente, in due salti lo
raggiunse, mettendosi al riparo dietro al
simaruba.
- Sei ferito? - gli chiese il
Corsaro.
- Quanto lo siete voi, - rispose,
ridendo.
- Non ti hanno adunque colpito?
- Lo avranno sperato, essendomi
lasciato cadere fra i cespugli, come
se m'avessero spezzato il cuore
o fracassata la testa; come però
vedete, sono più vivo di
prima. Ah! Ah! I bricconi credevano di
mandarmi all'altro mondo come
se fossi uno stupido indiano! Uh!
Carmaux è un po' furbo!
- E dov'è andato l'uomo che
ti ha sparato addosso?
- E' fuggito di certo, udendo
la vostra voce; io ho guardato
attentamente presso la macchia ma
senza risultato.
- Era un uomo solo?
- Uno solo.
- Uno spagnolo?
- Un marinaio.
- Credete che ci spii?
- E' probabile; però dubito
che osi mostrarsi, sapendo ora che siamo
in due.
- Torniamo sulla vetta, Carmaux;
sono inquieto per Wan Stiller.
- E se ci prendono alle spalle?
Quell'uomo poteva avere dei compagni
nascosti nel bosco.
- Apriremo gli occhi e non
lasceremo il grilletto dei fucili. Avanti,
mio bravo.
Lasciarono il simaruba e
retrocedendo rapidamente, coi fucili in mano,
anzi puntati verso il margine del
bosco, raggiunsero alcuni macchioni
di fitti cespugli, cacciandovisi
sotto.
Giunti colà s'arrestarono
per vedere se i nemici si decidevano a
mostrarsi, poi, non comparendo
alcuno, né udendo rumori, proseguirono
sollecitamente la loro marcia,
arrampicandosi sui fianchi dirupati e
selvosi del cono.
Venti minuti furono sufficienti per
attraversare la distanza che li
separava dal loro piccolo campo
trincerato.
Wan Stiller, che vegliava sulla
cima della rupe, fu lesto a correre
loro incontro, dicendo:
- Ho udito un colpo di fucile;
siete stato voi a sparare, capitano?
- No, - rispose il Corsaro. - Hai
veduto nessuno?
- Nemmeno un moscerino, signore,
però ho scorta una banda di marinai
lasciare la costa e scomparire
sotto gli alberi.
- E' sempre ancorata la caravella?
- Non ha lasciato il suo posto.
- E le scialuppe?
- Bloccano l'isola.
- Hai veduto se Wan Guld faceva
parte della banda?
- Ho scorto un vecchio dalla lunga
barba bianca.
- E' lui! - esclamò il
Corsaro, coi denti stretti. - Venga pure quel
miserabile. Vedremo se la fortuna
lo proteggerà anche contro la palla
del mio archibugio.
- Capitano, credete che giungano
presto qui? - chiese Carmaux, il
quale si era messo a raccogliere
dei rami secchi.
- Forse non oseranno assalirci di
giorno ed aspetteranno la notte.
- Allora noi possiamo preparare la
colazione e rimetterci in forze. Vi
confesso che non so più dove
siano andati a finire i miei intestini.
Ehi! Wan Stiller! Prepara
queste due splendide raje spinose; ti
prometto un arrosto così
squisito da leccarti perfino le dita.
- E se gli spagnoli vengono?... -
chiese l'amburghese, che non era
molto tranquillo.
- Bah!... Con una mano mangeremo e
coll'altra ci batteremo; a noi le
raje e ad essi il piombo. Vedremo
poi chi farà miglior digestione.
Mentre il Corsaro si rimetteva in
osservazione sulla rupe, i due
filibustieri accesero il fuoco e
misero ad arrostire i pesci, dopo
d'averli privati delle lunghe e
pericolose spine.
Un quarto d'ora dopo Carmaux
annunciava, con tono trionfante, che la
colazione era pronta, mentre gli
spagnoli non erano ancora comparsi. I
tre filibustieri si erano appena
seduti ed avevano mangiato il primo
boccone, quando sul mare si udì
rombare uno sparo formidabile.
- Il cannone!... - esclamò
Carmaux.
Non aveva ancora chiusa la bocca,
quando il culmine della roccia che
aveva servito da osservatorio,
frantumato da una palla di grosso
calibro, franò con grande
fracasso.
- Lampi!... - urlò Carmaux,
balzando precipitosamente in piedi.
- E tuoni!... - aggiunse Wan
Stiller.
Il Corsaro si era già
slanciato verso il margine della vetta, per
vedere da dove era partito quel
colpo di cannone.
- Mille antropofaghi!... - gridò
Carmaux. - Che non si possa mangiare
tranquilli in questo dannato lago
di Maracaybo?... Il diavolo si porti
all'inferno Wan Guld e tutti coloro
che gli ubbidiscono!... Ecco la
colazione andata in fumo!...
Due raje così deliziose tutte
schiacciate!...
- Ti rifarai più tardi colla
testuggine, Carmaux.
- Sì, se gli spagnoli ci
lasceranno il tempo, - disse il Corsaro Nero,
che era ritornato verso di loro. -
Essi salgono attraverso i boschi e
la caravella si prepara a
bombardarci.
- Vogliono polverizzarci? - chiese
Carmaux.
- No, schiacciarci come le due
raje, - disse Wan Stiller.
- Fortunatamente noi siamo
delle raje che possono diventare assai
pericolose, mio caro. Si vedono gli
spagnoli, capitano?...
- Non distano che cinque o seicento
passi.
- Lampi!...
- Cos'hai?...
- Un'idea, capitano.
- Gettala fuori.
- Giacché la caravella si
prepara a bombardare noi, a nostra volta
bombardiamo gli spagnoli.
- Hai trovato qualche cannone,
Carmaux!... O un colpo di sole ti ha
scombussolato il cervello!...
- Né l'uno, né
l'altro, capitano. Si tratta semplicemente di far
rotolare attraverso i boschi
questi macigni. Il pendio è ripido e
questi grossi proiettili non si
arresteranno di certo a mezza via.
- L'idea è buona e la
metteremo in esecuzione al momento opportuno. Ed
ora, miei bravi, dividiamoci e
sorvegliamo ognuno la nostra parte.
Badate di tenervi lontani
dalla rupe o vi prenderete qualche
scheggione sul capo.
- Ne ho avuto abbastanza di quelle
che mi sono cadute sul dorso, -
disse Carmaux, cacciandosi in tasca
un paio di manghi.
- Andiamo un po' a vedere che cosa
vogliono fare quei seccatori; farò
pagare a loro le mie raje.
Si divisero ed andarono a
imboscarsi dietro gli ultimi cespugli che
circondavano la vetta del cono,
in attesa del nemico, per aprire il
fuoco.
I marinai della caravella,
stimolati forse dalla speranza di qualche
grossa ricompensa promessa
dal Governatore, si arrampicavano
animosamente sui fianchi
scoscesi del cono, aprendosi il passo
attraverso i fitti cespugli. I
filibustieri non potevano ancora
scorgerli, però li udivano
parlare e tagliare le liane o le radici che
ostacolavano la loro avanzata.
Pareva che salissero da due soli
lati per essere in buon numero e
pronti a far fronte a qualsiasi
sorpresa. Un drappello doveva già aver
girato il laghetto; l'altro,
invece, sembrava che avesse presa una
profonda valletta, una specie di
"cañon", come la chiamano gli
spagnuoli.
Il Corsaro Nero, accertatosi della
loro direzione, decise senz'altro
di approfittare del progetto di
Carmaux, per respingere coloro che si
trovavano impegnati nella stretta
gola.
- Venite, miei bravi, - disse ai
suoi due compagni. - Occupiamoci per
ora del drappello che minaccia
di sorprenderci alle spalle; poi
penseremo a quello che ha preso la
via del laghetto.
- In quanto a quello spero che
s'incaricherà il "niku" di metterlo
fuori di combattimento, - disse
Carmaux. - Un po' di sete che abbiano
quei marinai e li vedremo fuggire,
tenendosi il ventre.
- Dobbiamo aprire il bombardamento?
- chiese l'amburghese, rotolando
un masso del peso di mezzo
quintale.
- Gettate, - rispose il Corsaro.
I due filibustieri non si fecero
ripetere l'ordine e si misero a
spingere verso la china, con una
rapidità prodigiosa, una diecina di
macigni, procurando di far prendere
loro la direzione del "cañon".
Quella valanga formidabile
precipitò attraverso il bosco col fracasso
d'un uragano, saltando,
rimbalzando, fracassando sul suo passaggio
giovani alberi e cespugli.
Non erano trascorsi cinque minuti
secondi, quando in fondo alla
valletta si udirono echeggiare
improvvisamente urla di spavento, poi
rimbombare alcuni colpi di fucile.
- Eh!... Eh!... - esclamò
Carmaux, con voce trionfante. - Pare che
qualcuno sia stato toccato!...
- Vedo laggiù degli uomini
che scendono precipitosamente, - disse Wan
Stiller, il quale era salito su di
una roccia.
- Io credo che ne abbiano avuto
abbastanza.
- Un'altra scarica, amburghese.
- Sono pronto, Carmaux.
Altri dieci o dodici macigni furono
rovesciati, uno dopo l'altro, giù
per la china. Quella seconda
valanga rovinò con pari fracasso nella
valletta, massacrando i vegetali,
e la si vide scendere rimbalzando,
fino in fondo al "cañon",
seco trascinando, nella sua corsa
vertiginosa, altri massi ed un gran
numero di giovani alberi divelti o
spezzati. I marinai della
caravella furono veduti arrampicarsi su
declivi della valle onde non
farsi schiacciare da quella tempesta di
sassi, quindi scomparire
frettolosamente sotto gli alberi.
- Pel momento costoro non ci
daranno noia, - disse Carmaux,
stropicciandosi allegramente le
mani. - La loro parte l'hanno avuta.
- Agli altri ora, - disse il
Corsaro.
- Se non sono stati colti dalle
coliche, - aggiunse Wan Stiller.
- Non si vedono salire.
- State zitti.
Il Corsaro si spinse verso l'orlo
della piccola spianata che coronava
la cima del cono e stette in
ascolto per qualche minuto.
- Nulla? - chiese Carmaux, che era
impaziente.
- Non si ode alcun rumore, -
rispose il Corsaro.
- Che abbiano bevuto il "niku"?
- O che si avanzino strisciando
come serpenti?... - disse Wan Stiller.
- Badiamo che non ci fulminino con
una scarica a bruciapelo.
- Forse si saranno arrestati per
paura di venire schiacciati dalle
nostre artiglierie, - disse
Carmaux. - I nostri cannoni sono forse più
pericolosi di quelli della
caravella, quantunque più economici.
- Prova a fare fuoco a quelle
piante, - ordinò il Corsaro, volgendosi
verso l'amburghese. - Se
rispondono, sapremo come regolarci.
Wan Stiller si diresse verso
l'orlo della spianata, s'accovacciò
dietro un cespuglio e sparò
una archibugiata in mezzo alla foresta.
La detonazione si ripercosse
lungamente sotto gli alberi, senza però
alcun seguito. I tre filibustieri
attesero alcuni minuti, tendendo gli
orecchi e scrutando il fitto
fogliame, poi fecero una scarica generale
mirando in diversi luoghi.
Anche questa volta nessuno rispose,
né si udì alcun grido. Cosa era
avvenuto, adunque, del secondo
drappello che era stato veduto salire
costeggiando il laghetto?...
- Amerei meglio una scarica
furiosa, - disse Carmaux.
- Questo silenzio mi preoccupa e
mi fa sospettare qualche brutta
sorpresa. Che cosa facciamo,
capitano?
- Scendiamo, Carmaux, - rispose
il Corsaro, che era diventato
inquieto.
- E se gli spagnoli sono
imboscati ed approfittano per prendere
d'assalto il nostro campo?
- Rimarrà qui Wan
Stiller. Voglio sapere che cosa fanno i nostri
avversari.
- Volete saperlo, capitano? -
disse l'amburghese, che si era spinto
innanzi.
- Li vedi?...
- Ne scorgo sette od otto che si
dimenano come deliranti o come pazzi.
- Dove?...
- Laggiù, presso il
laghetto.
- Ah!... Ah!.., - esclamò
Carmaux ridendo. - Hanno assaggiato il
"niku"!... Bisognerebbe
mandar loro qualche calmante.
- Sotto forma di palla, è
vero? - chiese Wan Stiller.
- No, lasciateli tranquilli, -
disse il Corsaro. - Serbiamo le nostre
munizioni pel momento decisivo, e
poi è inutile uccidere delle persone
che non possono offenderci. Giacché
il primo attacco è andato a vuoto,
approfittiamo di questa tregua
per rinforzare il nostro campo. La
nostra salvezza sta tutta nella
resistenza.
- Approfitteremo per fare anche
colazione, - disse Carmaux. - Abbiamo
ancora la testuggine, un "piraja"
ed un "pemecru".
- Economizziamo le provviste,
Carmaux. L'assedio può prolungarsi per
qualche settimana e fors'anche di
più. L'Olonese può rimanere lungo
tempo a Maracaybo, e tu sai che
non possiamo contare ormai che su di
lui, per uscire da questa grave
situazione.
- Ci accontenteremo del "piraja",
signore.
- Vada pel "piraja".
Mentre il marinaio riaccendeva il
fuoco, aiutato dall'amburghese, il
Corsaro s'arrampicò sulla
rupe per vedere che cosa succedeva sulle
spiagge dell'isolotto.
La caravella non aveva abbandonato
il suo ancoraggio, però sul suo
ponte si vedeva un movimento
insolito.
Pareva che degli uomini si
affaccendassero attorno ad un cannone che
era stato piazzato sul cassero e
puntato in alto, come se dovessero
riaprire il fuoco contro la vetta
del cono.
Le quattro scialuppe
stazionavano intorno all'isola, navigando
lentamente lungo la spiaggia, per
impedire agli assediati qualsiasi
tentativo di fuga, timore
assolutamente infondato, non avendo i
filibustieri alcun canotto a
loro disposizione, né potendo
attraversare a nuoto la
distanza grandissima che separava l'isola
dalla foce del Catatumbo.
Dei due drappelli che avevano
tentata l'ascensione del cono, pareva
che né l'uno né
l'altro avesse fatto ritorno alla costa, poiché sulla
spiaggia non si vedeva alcun gruppo
di persone.
- Che si siano accampati sotto i
boschi, in attesa d'una occasione
propizia per slanciarsi
all'assalto? - mormorò il Corsaro. - Temo che
il "niku" ed i sassi di
Carmaux non abbiano dati che dei magri
risultati. E Pietro non si vede
ancora! Se fra un paio di giorni non
giungerà qui, temo di dover
cadere nelle mani di quel dannato vecchio.
Ridiscese lentamente
dall'osservatorio, e raggiunse i suoi due
compagni informandoli delle sue
preoccupazioni e dei suoi timori.
- La faccenda minaccia di
diventare assai seria, - disse Carmaux. -
Che questa sera tentino un assalto
generale, capitano?
- Lo temo, - rispose il Corsaro.
- Come potremo noi far fronte a
tanti uomini?
- Non lo so, Carmaux.
- Se tentassimo di forzare il
blocco?
- E poi?
- Ed impadronirci di una delle
quattro scialuppe?
- Io credo che tu abbia avuto una
buona idea, Carmaux, - rispose il
Corsaro dopo qualche istante di
riflessione. - Il progetto non sarà
certo facile da attuare, pure lo
ritengo possibile.
- Quando tenteremo il colpo?
- Questa sera, prima del levarsi
della luna.
- Quale distanza credete che vi sia
fra quest'isola e la foce del
Catatumbo
- Non più di sei miglia.
- Un'ora e forse meno di voga
forzata.
- E la caravella non ci darà
la caccia? - chiese Wan Stiller.
- Certamente, - rispose il
Corsaro, - ma io so che ci sono numerosi
banchi di sabbia dinanzi al
Catatumbo e se vorrà avanzare troppo,
correrà il pericolo di
arenarsi.
- A questa sera, adunque, - disse
Carmaux.
- Sì, se non ci avranno
presi od uccisi.
- Capitano, il "piraja" è
arrostito a puntino.
32.
NELLE MANI DI WAN GULD
Durante quella lunga giornata,
né Wan Guld, né i marinai della
caravella diedero segni di vita.
Pareva che fossero ormai tanto sicuri
di catturare, presto o tardi, i
tre filibustieri annidati sulla cima
del cono, da ritenere assolutamente
superfluo un assalto.
Certamente volevano costringerli
alla resa per fame e per sete,
premendo al governatore di aver
vivo nelle mani il formidabile
filibustiere per poi appiccarlo,
come aveva già fatto dei due
disgraziati fratelli sulla plaza di
Maracaybo.
Carmaux e Wan Stiller però
si erano accertati della presenza dei
marinai. Essendosi avventurati, con
mille precauzioni, sotto i boschi,
avevano potuto scorgere
attraverso il fogliame numerosi gruppi
d'uomini accampati alle falde del
cono. Non ne avevano però veduto
nemmeno uno presso le rive del
laghetto, segno evidente che gli
assedianti avevano ormai provata la
bontà di quelle acque sature di
"niku".
Giunta la sera, i tre
filibustieri fecero i loro preparativi di
partenza, decisi a forzare le
linee, piuttosto che attendere nel loro
piccolo campo trincerato una
morte lenta o per fame o per sete,
essendo state loro chiuse le vie
per poter rinnovare le provviste.
Verso le 11, dopo d'aver
ispezionati i margini della piccola
piattaforma e di essersi
assicurati che i nemici non avevano
abbandonati i loro accampamenti,
caricatisi dei pochi viveri che
possedevano e divise le
munizioni che ancora rimanevano, circa una
trentina di colpi ciascuno,
lasciavano silenziosamente il piccolo
recinto fortificato, scendendo in
direzione del laghetto.
Prima di mettersi in marcia,
avevano rilevate esattamente le posizioni
occupate dai drappelli spagnoli,
onde non cadere improvvisamente in
mezzo ad uno di quei piccoli
accampamenti e dare l'allarme, cosa che
volevano assolutamente evitare,
per non mandare a male l'ardito
progetto, il solo che avrebbe
potuto sottrarli all'odio implacabile
del vecchio governatore.
Vi potevano essere bensì
delle sentinelle staccate, però speravano
colla fitta oscurità che
regnava nella foresta di poterle, con molta
prudenza e con un po' d'astuzia,
evitare.
Strisciando come rettili ed
assai lentamente, per non far rotolare
qualche sasso, dopo dieci minuti
giungevano sotto i grandi alberi,
dove l'oscurità era
assoluta. Sostarono alcuni istanti per ascoltare,
poi, non udendo alcun rumore e
vedendo ancora brillare sulle falde del
cono i fuochi degli accampamenti,
si rimisero in cammino adagio,
tastando prima il terreno colle
mani onde non far scrosciare le foglie
secche o evitare una caduta in
qualche fenditura o in qualche
burroncello.
Erano già scesi a trecento
metri, quando Carmaux, che strisciava
innanzi a tutti, si fermò
bruscamente, tenendosi nascosto dietro il
tronco d'un albero.
- Cos'hai? - gli chiese sottovoce
il Corsaro, che lo aveva raggiunto.
- Ho udito un ramo spezzarsi, -
mormorò il marinaio, con un filo di
voce.
- Presso di noi?...
- A breve distanza.
- Che sia stato qualche animale?
- Non lo so.
- O che vi sia qualche sentinella?
- L'oscurità è troppo
fitta per vedere qualche cosa, capitano.
- Fermiamoci per qualche minuto.
Si sdraiarono tutti e tre in mezzo
alle erbe ed alle radici e stettero
in ascolto, trattenendo il respiro.
Dopo alcuni istanti d'angosciosa
aspettativa, udirono a breve distanza
due persone che bisbigliavano fra
loro.
- L'ora è vicina - diceva
una voce.
- Sono tutti pronti? - chiedeva
l'altra.
- Forse hanno già
abbandonati gli accampamenti, Diego.
- Vedo però brillare ancora
i fuochi.
- Non si devono spegnere per far
credere ai filibustieri che nessuno
di noi ha intenzione di muoversi.
- E' furbo il Governatore!
- E' un uomo di guerra, Diego.
- Credi che riusciremo a prenderli?
- Li sorprenderemo, te lo assicuro.
- Però si difenderanno
terribilmente. Il Corsaro Nero vale da solo
venti uomini, Sebastiano..
- Ma noi siamo in sessanta e
poi vi è il conte che è una lama
formidabile.
- Ciò non basterà per
quell'indiavolato Corsaro. Temo che molti di noi
faranno partenza per l'altro mondo.
- I superstiti però faranno
più tardi baldoria. Diecimila piastre, da
bere e da mangiare!...
- Una bella somma in fede mia,
Sebastiano. "Carrai"! Il Governatore lo
vuole proprio morto.
- No, Diego, lo vuole vivo.
- Per appiccarlo più tardi.
- Di questo non dubitare. Eh!...
Hai udito, Diego?
- Sì, i compagni si sono
messi in marcia.
- Avanti anche noi; le diecimila
piastre sono lassù!
Il Corsaro Nero ed i suoi due
compagni non si erano mossi. Confusi fra
le erbe, le radici ed i festoni
delle liane, avevano conservata una
immobilità assoluta,
alzando però i fucili, pronti a scaricarli, in
caso di pericolo.
Aguzzando gli sguardi, scorsero
confusamente i due marinai avanzarsi
lentamente, scostando con
precauzione le fronde e le liane che
impedivano loro il passo. Già
li avevano oltrepassati di alcuni passi,
quando uno dei due si fermò
dicendo:
- Ehi, Diego, hai udito nulla?...
- No, camerata...
- A me parve di aver udito come un
sospiro.
- Bah?... Sarà stato qualche
insetto.
- O qualche serpente?
- Ragione di più per
allontanarci. Vieni, camerata, io non voglio
essere uno degli ultimi a prender
parte alla lotta.
Dopo quel breve scambio di parole i
due marinai continuarono la loro
marcia, scomparendo sotto la cupa
ombra dei vegetali.
I tre filibustieri attesero qualche
minuto per tema che i due spagnoli
tornassero indietro, o che si
fossero fermati a breve distanza, poi il
Corsaro si rizzò sulle
ginocchia guardandosi attorno.
- Tuoni!... - mormorò
Carmaux, respirando liberamente.
- Comincio a credere che la fortuna
ci protegga.
- Io non avrei dato una
piastra per la nostra pelle, - disse Wan
Stiller. - Uno di quei due mi è
passato così vicino, che per poco mi
calpestava.
- Abbiamo fatto bene a lasciare il
nostro campo. Sessanta uomini!...
Chi avrebbe potuto reggere a simile
assalto?
- Brutta scoperta per loro,
Carmaux, quando non troveranno che delle
spine e dei sassi.
- Porteranno quelli al Governatore.
- Avanti, - disse in
quell'istante il Corsaro. - E' necessario
giungere alla spiaggia prima che
gli spagnoli possano accorgersi della
nostra fuga. Dato l'allarme,
non potremmo più sorprendere le
scialuppe.
Certi ormai di non incontrare
altri ostacoli, né di correre il
pericolo di venire scoperti, i tre
filibustieri discesero verso il
laghetto, poi presero il
versante opposto, cacciandosi in quella
specie di "cañon"
che avevano tempestato di macigni, volendo
raggiungere la spiaggia
meridionale dell'isolotto onde trovarsi
lontani dalla caravella.
La discesa fu eseguita senza
cattivi incontri e, prima della
mezzanotte, sbucavano sulla
spiaggia.
Dinanzi a loro, semi-arenata
all'estremità d'un piccolo promontorio,
si trovava una delle quattro
scialuppe. Il suo equipaggio, composto di
due soli uomini, aveva preso terra
e dormiva accanto ad un fuoco semi-
spento, tanto era sicuro di non
venire disturbato sapendo che la
collina era stata circondata
dai marinai della caravella e che i
filibustieri si trovavano assediati
sulla cima.
- L'impresa sarà facile, -
mormorò il Corsaro. - Se quei due non si
svegliano, prenderemo il largo
senza allarmi e potremo giungere alla
foce del Catatumbo.
- Non uccideremo quei due marinai?
- chiese Carmaux.
- E' inutile, - rispose il Corsaro.
- Non ci daranno impiccio, almeno
lo spero.
- E le scialuppe, dove sono? -
chiese l'amburghese.
- Ne vedo una arenata presso
quello scoglio, a cinquecento passi da
noi, - rispose Carmaux.
- Presto, imbarchiamoci, -
comandò il Corsaro. - Fra qualche minuto
gli spagnoli si accorgeranno della
nostra fuga.
Si avventurarono, camminando
sulla punta dei piedi, sul piccolo
promontorio, passando accanto ai
due marinai, i quali russavano
placidamente. Con una leggera
scossa spinsero in acqua la scialuppa e
vi balzarono dentro, afferrando i
remi.
Si erano allontanati di cinquanta o
sessanta passi e già cominciavano
a sperare di poter prendere il
largo senza essere disturbati, quando
verso la cima del cono
rimbombarono improvvisamente parecchie
scariche, seguite da urla acute.
Gli spagnoli, giunti sull'ultima
spianata, dovevano essersi
slanciati all'assalto del piccolo campo,
convinti di prendere i tre
filibustieri.
Udendo quelle scariche
rintronare sulla montagna, i due marinai si
erano bruscamente svegliati.
Vedendo che la scialuppa erasi
allontanata e che degli uomini la
montavano, si slanciarono verso la
spiaggia coi fucili in mano
urlando:
- Fermi!... Chi siete voi?...
Invece di rispondere, Carmaux e
Wan Stiller si curvarono sui remi,
arrancando disperatamente.
- All'armi!... - gridarono i due
marinai, accortisi, ma troppo tardi,
del tiro birbone giocato dai
filibustieri.
Poi due colpi di fucile
rintronarono.
- Il diavolo vi porti!... - gridò
Carmaux, mentre una palla gli
spaccava di colpo il remo, a
tre soli pollici dal bordo della
scialuppa.
- Prendi un altro remo, Carmaux, -
disse il Corsaro.
- Lampi!... - gridò Wan
Stiller.
- Cos'hai?
- La scialuppa che si trovava
arenata sullo scoglio ci dà la caccia,
capitano.
- Occupatevi dei remi voi e
lasciate a me la cura di tenerla lontana a
colpi di fucile, - rispose il
Corsaro.
Intanto sulla vetta della
collina si udivano sempre rimbombare gli
spari. Probabilmente gli spagnoli,
trovandosi dinanzi a quelle trincee
di spine e di sassi, si erano
fermati, per tema d'un agguato.
La scialuppa, sotto la spinta
dei quattro remi, vigorosamente
manovrati dai due filibustieri,
s'allontanava rapida dall'isola,
dirigendosi verso la foce del
Catatumbo, lontana solamente cinque o
sei miglia. La distanza da
attraversare era considerevole, però se gli
uomini rimasti a guardia della
caravella non si accorgevano di ciò che
succedeva sulle spiagge meridionali
dell'isolotto, vi era possibilità
di poter sfuggire all'inseguimento.
La scialuppa degli spagnoli si
era arrestata presso il piccolo
promontorio, per imbarcare i
due marinai che urlavano come
indemoniati, e di quel ritardo
avevano approfittato i filibustieri per
guadagnare altri cento metri.
Disgraziatamente l'allarme oramai
era stato udito anche sulle sponde
settentrionali dell'isolotto. Gli
spari dei due marinai non erano
stati confusi con quelli che
rimbombavano sulla cima del cono e ben
presto se ne accorsero i
fuggiaschi.
Non si erano ancora allontanati
di mille metri, quando videro
accorrere le altre due scialuppe,
una delle quali, grande assai, era
armata d'una piccola colubrina da
sbarco.
- Siamo perduti!... - aveva
esclamato involontariamente il Corsaro. -
Amici: prepariamoci a vendere cara
la vita.
- Mille tuoni!... - esclamò
Carmaux. - Che la fortuna si sia stancata
così presto?... Ebbene
sia!... Ma prima di morire, ne manderemo
parecchi all altro mondo.
Aveva abbandonato il remo ed
impugnato l'archibugio. Le scialuppe,
precedute da quella più
grossa che era montata da una dozzina
d'uomini, non si trovavano che a
trecento passi e s'avanzavano con
furia.
- Arrendetevi, o vi mandiamo a
picco! - gridò una voce.
- No, - rispose il Corsaro, con
voce tuonante. - Gli uomini del mare
muoiono, ma non si arrendono!
- Il Governatore vi promette salva
la vita.
- Ecco la mia risposta!
Il Corsaro aveva puntato
rapidamente l'archibugio ed aveva fatto fuoco
abbattendo uno dei rematori.
Un urlo di furore s'alzò fra
gli equipaggi delle tre scialuppe.
- Fuoco! - s'udi gridare.
La piccola colubrina avvampò
con grande strepito. Un istante dopo la
scialuppa dei fuggiaschi
s'inclinava a prora, imbarcando acqua a
torrenti.
- A nuoto! - urlò il
Corsaro, lasciando andare l'archibugio.
I due filibustieri scaricarono i
fucili contro la grossa imbarcazione,
poi si gettarono in acqua, mentre
la scialuppa, la cui prora era stata
fracassata dalla palla del
piccolo pezzo di artiglieria, si
capovolgeva.
- Le sciabole fra i denti e
pronti per l'abbordaggio!... - urlò il
Corsaro con furore. - Morremo sul
ponte della scialuppa.
Tenendosi faticosamente a galla
a causa del peso dell'acqua
introdottasi nei loro lunghi
stivali a tromba, i tre filibustieri si
misero a nuotare disperatamente
incontro all'imbarcazione decisi di
tentare una lotta suprema prima di
arrendersi o di venire uccisi.
Gli spagnoli, ai quali premeva
di certo di prenderli vivi perché in
caso contrario sarebbe stato loro
ben facile mandarli sott'acqua con
una sola scarica, con pochi colpi
di remo piombarono in mezzo a loro,
urtandoli così malamente
colla prora della grande scialuppa, da
rovesciarli l'uno addosso
all'altro.
Subito venti mani si tuffarono,
afferrando strettamente le braccia dei
tre filibustieri, e li trassero
a bordo, disarmandoli e legandoli
strettamente prima che avessero
potuto rimettersi da quell'urto che li
aveva mandati a bere sott'acqua.
Quando il Corsaro poté
rendersi conto di quanto era avvenuto, si
trovava coricato a poppa della
scialuppa, colle mani strettamente
legate dietro il dorso, mentre i
suoi due compagni erano stati deposti
sotto i banchi di prora.
Un uomo, che indossava un elegante
costume da cavaliere castigliano,
gli stava accanto, tenendo in mano
la barra del timone.
Vedendolo, il Corsaro aveva mandata
una esclamazione di stupore.
- Voi!... Conte!...
- Io, cavaliere, - rispose il
castigliano, sorridendo.
- Non avrei mai più
creduto che il conte di Lerma si fosse scordato
così presto di essere
stato salvato da me, mentre avrei potuto
ucciderlo nella casa del notaio di
Maracaybo, - disse il Corsaro, con
amarezza.
- E che cosa vi induce a credere,
signor di Ventimiglia, che io abbia
scordato il giorno in cui ebbi
la fortuna di fare la vostra
conoscenza? - chiese il conte,
sottovoce.
- Mi pare che voi m'abbiate fatto
prigioniero, se non mi inganno.
- E' così?
- E che mi conduciate dal duca
fiammingo.
- E perciò?
- Avete dimenticato che Wan Guld ha
appiccato i miei due fratelli?
- No, cavaliere.
- Ignorate forse l'odio tremendo
che esiste fra me e quell'uomo?
- Nemmeno questo.
- E che egli m'appiccherà?...
- Bah?...
- Non lo credete?
- Che il duca ne abbia desiderio,
lo credo, però vi scordate che vi
sono anch'io. Aggiungerò, se
lo ignorate, che la caravella è mia e che
i marinai ubbidiscono a me solo.
- Wan Guld è il
governatore di Maracaybo e tutti gli spagnoli devono
obbedirgli.
- Vedete che io l'ho accontentato
facendovi prendere, ma poi? - disse
il conte, sottovoce, con un
sorriso misterioso. - Gibraltar e
Maracaybo sono lontani, cavaliere,
vi mostrerò presto come il conte di
Lerma giocherà il fiammingo.
Silenzio per ora.
In quell'istante la scialuppa,
scortata dalle altre due imbarcazioni,
era giunta presso la caravella.
Ad un cenno del conte i suoi
marinai afferrarono i tre filibustieri e
li trasportarono a bordo del
veliero, mentre una voce diceva con tono
trionfante:
- Finalmente, anche l'ultimo è
in mano mia!
33.
LA PROMESSA D'UN GENTILUOMO
CASTIGLIANO
Un uomo scese rapidamente dal
cassero di poppa e si fermò dinanzi al
Corsaro Nero, che era stato
sbarazzato dai suoi legami.
Era un vecchio d'aspetto imponente,
con una lunga barba bianca, con le
larghe spalle, petto ampio, un
uomo dotato di una robustezza
eccezionale, malgrado i suoi
cinquantacinque o sessanta anni.
Aveva l'aspetto d'uno di quei
vecchi dogi della repubblica veneta che
guidavano alla vittoria le galere
della regina dei mari contro i
formidabili corsari della
mezzaluna.
Come quei prodi vegliardi,
indossava una splendida corazza d'acciaio
cesellato, portava al fianco una
lunga spada che sapeva ancora
maneggiare con supremo vigore,
ed alla cintura aveva un pugnale col
manico d'oro.
Il resto del costume era spagnolo,
con ampie maniche a sbuffo di seta
nera, maglia pure di seta di
egual colore e lunghi stivali a tromba,
di pelle gialla, con speroni
d'argento.
Egli guardò per alcuni
istanti ed in silenzio il Corsaro, con due
occhi che avevano ancora un lampo
ardente, poi disse con voce lenta,
misurata:
- Vedete bene, cavaliere, che la
fortuna stava dalla mia parte. Avevo
giurato di appiccarvi tutti e
manterrò la parola.
Il Corsaro, udendo quelle parole,
alzò vivamente il capo, e gettando
su di lui uno sguardo di supremo
disprezzo, disse:
- I traditori hanno fortuna in
questa vita, però lo si vedrà
nell'altra. Assassino dei miei
fratelli: compi la tua opera. La morte
non fa paura ai signori di
Ventimiglia.
- Voi avete voluto misurarvi con
me, - riprese il vecchio, con tono
freddo. - Avete perduta la partita
e pagherete.
- Ebbene, fatemi appiccare,
traditore!
- Non così presto.
- Cosa aspettate adunque?
- Non è ancora tempo.
Avrei preferito appendervi a Maracaybo, ma
giacché vi sono i vostri in
quella città, offrirò lo spettacolo a
quelli di Gibraltar.
- Miserabile!... Non t'è
bastata la morte dei miei fratelli?...
Un lampo feroce guizzò negli
occhi del vecchio duca.
- No, - disse poi, a mezza
voce. - Voi siete un testimonio troppo
pericoloso di ciò che è
avvenuto nelle Fiandre, per lasciarvi la vita,
e poi, se io non vi uccidessi,
domani o un altro giorno sopprimereste
me. Forse non vi odio quanto voi
credete: mi difendo, ecco tutto, o
meglio mi sbarazzo di un
avversario che non mi lascerebbe vivere
tranquillo.
- Allora uccidetemi, perché
se io dovessi sfuggirvi di mano,
riprenderei domani stesso la lotta
contro di voi.
- Lo so, - disse il vecchio, dopo
alcuni istanti di riflessione. -
Eppure, volendo, potreste ancora
sfuggire alla morte ignominiosa che
vi aspetta nella vostra qualità
di filibustiere.
- V'ho detto che la morte non mi fa
paura, - disse il Corsaro, con
suprema fierezza.
- Conosco il coraggio dei signori
di Ventimiglia, - rispose il duca,
mentre una nube gli offuscava la
fronte. - Sì, ho avuto campo qui ed
altrove di apprezzare il loro
indomito valore ed il loro disprezzo per
la morte.
Fece alcuni passi per il ponte
della caravella collo sguardo tetro ed
il capo chino, poi, tornando
bruscamente verso il Corsaro, riprese:
- Voi non lo credete, cavaliere,
eppure sono stanco della tremenda
lotta che voi avete impegnata
contro di me e sarei ben lieto se
dovesse finalmente cessare.
- Sì, - disse il Corsaro
Nero, con ironia. - E per terminarla, mi
appiccate!...
Il duca alzò vivamente
il capo e guardando fisso il Corsaro, gli
chiese a bruciapelo:
- E se io vi lasciassi libero, che
cosa fareste dopo?
- Riprenderei con maggior
accanimento la lotta, per vendicare i miei
fratelli, - rispose il signore di
Ventimiglia.
- Allora mi costringete ad
uccidervi. Vi avrei donata la vita per
calmare i rimorsi che talvolta
prendono il cuore, se voi aveste
acconsentito a rinunciare per
sempre alle vostre vendette e tornarvene
in Europa; so però che voi
non accettereste mai tali condizioni perciò
vi appiccherò, come ho
appiccato il Corsaro Rosso ed il Verde.
- E come avete assassinato, nelle
Fiandre, mio fratello primogenito.
- Tacete!... - gridò il
duca, con voce angosciata. - Perché rammentare
il passato? Lasciate che dorma per
sempre.
- Compite la vostra triste
opera di traditore e di assassino, -
continuò il Corsaro. -
Sopprimete pure anche l'ultimo signore di
Ventimiglia, ma vi avverto che con
questo la lotta non sarà terminata,
poiché un altro,
ugualmente formidabile ed audace, raccoglierà il
giuramento del Corsaro Nero e non
vi accorderà quartiere, fino al
giorno in cui cadrete nelle sue
mani.
- E chi sarà costui? -
chiese il duca con accento di terrore.
- L'Olonese.
- Ebbene, appiccherò anche
costui.
- Purché non sia lui ad
appiccare presto voi. Pietro muove su
Gibraltar e fra pochi giorni egli
vi avrà in sua mano.
- Lo credete? - chiese il duca,
con ironia. - Gibraltar non è
Maracaybo e la potenza dei
filibustieri si spezzerà contro le poderose
forze della Spagna. Venga l'Olonese
ed avrà il suo conto.
Poi volgendosi verso i marinai,
disse:
- Conducete i prigionieri nella
stiva e si vegli rigorosamente su di
loro. Voi avete guadagnato il
premio che vi ho promesso e l'avrete a
Gibraltar.
Ciò detto, volse le
spalle al Corsaro e si diresse verso poppa per
scendere nel quadro. Era già
giunto presso la scala, quando il conte
di Lerma lo arrestò,
dicendo:
- Signor duca, siete risoluto ad
appiccare il Corsaro?
- Sì, - rispose il vecchio,
con tono risoluto. - Egli è un corsaro,
egli è un nemico della
Spagna, egli ha guidato, coll'Olonese, la
spedizione contro Maracaybo e
morrà.
- E' un valoroso gentiluomo, signor
duca.
- Cosa importa?...
- Rincresce veder morire simili
uomini.
- E' un nemico, signor conte.
- Pure io non lo ucciderei.
- E perché?
- Voi sapete, signor duca, che
corre voce che vostra figlia sia stata
catturata dai filibustieri della
Tortue.
- E' vero, - disse il vecchio,
con un sospiro. - Però non abbiamo
avuto ancora la conferma che la
nave che montava sia stata predata.
- E se la voce fosse invece vera?
Il vecchio guardò il conte
con uno sguardo pieno d'angoscia.
- Avete saputo qualche cosa voi? -
chiese, con ansia indicibile.
- No, signor duca. Penso però
che se vostra figlia fosse realmente
caduta nelle mani dei filibustieri,
si potrebbe scambiarla col Corsaro
Nero.
- No, signore, - rispose il
vecchio, con tono risoluto. - Con una
grossa somma io potrei riscattare
egualmente mia figlia, nel caso che
essa potesse venire riconosciuta,
ciò che io dubito, avendo prese
tutte le precauzioni perché
navigasse incognita; mentre liberando il
Corsaro, io non sarei sicuro della
mia vita. La lunga lotta che ho
dovuto sostenere contro di lui e
contro i suoi fratelli mi ha stremato
ed è ora che debba
cessare. Signor conte, fate imbarcare il vostro
equipaggio, poi fate vela per
Gibraltar.
Il conte di Lerma s'inchinò
senza rispondere e si diresse a poppa,
mormorando fra sé:
- Il gentiluomo manterrà la
promessa.
Le scialuppe cominciavano allora
a portare a bordo gli uomini che
avevano preso parte all'attacco del
cono, con quell'esito che ormai i
lettori sanno.
Quando l'ultimo marinaio fu
imbarcato, il conte ordinò di spiegare le
vele; però, prima di far
salpare l'ancora, indugiò parecchie ore,
avendo fatto credere al duca, che
si era impazientito di quel ritardo,
che la caravella si era arenata su
di un banco di sabbia e che quindi
si doveva attendere l'alta marea
per poter riprendere le mosse.
Fu solamente verso le quattro
pomeridiane che il veliero poté lasciare
l'ancoraggio.
La caravella, dopo aver
bordeggiato lungo la spiaggia dell'isolotto,
manovrò in modo da
accostarsi alla foce del Catatumbo, dinanzi alla
quale rimase quasi in panna, a
circa tre miglia dalla costa.
Una calma quasi assoluta regnava in
quella parte del vastissimo lago a
causa anche della grande curva
che descriveva in quel luogo la
spiaggia.
Il duca, che era salito più
volte in coperta, impaziente di giungere a
Gibraltar, aveva ordinato al conte
di spingere la caravella al largo o
almeno di farla rimorchiare
dalle scialuppe, senza però nulla
ottenere, essendogli stato
risposto che l'equipaggio era stanchissimo
e che i bassifondi impedivano di
manovrare liberamente.
Verso le sette della sera la
brezza cominciò finalmente a soffiare ed
il veliero poté riprendere
le mosse, senza però scostarsi molto dalla
spiaggia.
Il conte di Lerma, dopo aver
cenato in compagnia del duca, si era
messo alla barra del timone con a
fianco il pilota, chiacchierando
sommessamente con questi. Pareva
che avesse da dare lunghe istruzioni
sulla manovra notturna, per non
dare dentro ai numerosi bassifondi
che, dalla foce del Catatumbo, si
estendono fino a Santa Rosa, piccola
località che si trova a
poche ore da Gibraltar.
Quella conversazione, un po'
misteriosa, durò fino alle dieci di sera,
cioè fino a quando il
duca si fu ritirato nella sua cabina per
riposare, poi il conte
abbandonò la barra ed approfittando
dell'oscurità scese nel
quadro, senza essere scorto dall'equipaggio,
passando poi nella stiva.
- A noi, ora, - mormorò.
- Il conte di Lerma pagherà il suo debito,
poi accadrà ciò che
vorrà!
Accese una lanterna cieca che
aveva nascosta nella larga tromba d'uno
dei suoi stivali, poi passò
sotto il quadro proiettando la luce su
alcune persone che pareva
sonnecchiassero tranquillamente.
- Cavaliere, - disse, sottovoce.
Uno di quegli uomini s'alzò
a sedere, quantunque avesse le braccia
strettamente legate.
- Chi viene ad importunarmi? -
chiese con stizza.
- Sono io, signore.
- Ah!... Voi conte, - disse il
Corsaro. - Venite a tenermi compagnia,
forse?...
- Vengo a far di meglio, cavaliere,
- rispose il castigliano.
- Volete dire?...
- Che vengo a pagare il mio debito.
- Non vi comprendo.
- "Carrai"!... - disse
il conte, sorridendo. - Avete dimenticato
l'allegra avventura nella casa del
notaio?
- No, conte. Allora vi
rammenterete pure voi che quel giorno mi
risparmiaste la vita.
- E' vero.
- Ora vengo a mantenere la
promessa fattavi. Oggi non sono più io in
pericolo, bensì voi,
quindi spetta a me rendervi un favore che
certamente apprezzerete.
- Spiegatevi meglio, conte.
- Vengo a salvarvi, signore.
- A salvarmi!... - esclamò
il Corsaro, con stupore. - E non avete
pensato al duca?...
- Dorme, cavaliere.
- Domani sarà sveglio.
- E così? - chiese con voce
tranquilla.
- Se la prenderà con voi, vi
farà imprigionare e poi appiccare in vece
mia. Avete pensato a questo,
conte?... Voi sapete che Wan Guld non
scherza.
- E voi credete, cavaliere, che
egli possa sospettare di me?... Il
fiammingo è astuto, lo so,
credo però che non oserà incolparmi.
D'altronde la caravella è
mia, l'equipaggio mi è devoto e se vorrà
tentare qualche cosa contro di me,
perderà il tempo ed il fiato.
Credetelo, il duca non è
troppo amato qui, per la sua alterigia e per
le sue crudeltà, ed i miei
compatrioti lo soffrono malvolentieri.
Forse farò male a
liberarvi, specialmente in questo momento, in cui
l'Olonese sta per piombare su
Gibraltar, ma io sono un gentiluomo
innanzi tutto e devo mantenere le
mie promesse. Voi mi avete salvata
la vita, io ora salverò la
vostra e saremo pari. Se più tardi il
destino ci farà incontrare
a Gibraltar voi farete il vostro dovere di
Corsaro, io quello di spagnolo e
ci batteremo come due accaniti
nemici.
- Non come due accaniti nemici,
conte.
- Allora ci batteremo come due
gentiluomini che militano sotto diverse
bandiere, - disse il castigliano,
con nobiltà.
- Sia, conte.
- Partite cavaliere. Ecco qui una
scure che vi servirà per rompere le
traverse di legno del babordo ed
eccovi un paio di pugnali per
difendervi contro le fiere, quando
sarete a terra. Una delle scialuppe
segue la caravella a rimorchio;
raggiungetela coi vostri compagni,
tagliate la fune ed arrancate verso
la costa. Né io, né il pilota,
vedremo nulla. Addio, cavaliere:
spero di rivedervi sotto le mura di
Gibraltar e d'incrociare ancora la
spada con voi.
Ciò detto il conte gli
recise i legami, gli diede le armi, gli strinse
la mano e s'allontanò a
rapidi passi, scomparendo su per la scala del
quadro.
Il Corsaro rimase alcuni istanti
immobile, come se fosse immerso in
profondi pensieri o fosse ancora
stupito dell'atto magnanimo del
castigliano, poi, quando non udì
alcun rumore, scosse Wan Stiller e
Carmaux, dicendo:
- Partiamo amici.
- Partiamo! - esclamò
Carmaux, sbarrando gli occhi. - Per dove,
capitano?... Siamo legati come
salami e volete andarvene?...
Il Corsaro prese un pugnale e
con pochi colpi tagliò le corde che
imprigionavano i suoi due compagni.
- Tuoni! - esclamò Carmaux.
- E lampi! - aggiunse l'amburghese.
- Noi siamo liberi? Cos'è
accaduto, signore? Che quel furfante di
governatore sia diventato
improvvisamente così generoso da lasciarci
andare?
- Silenzio, seguitemi!
Il Corsaro aveva impugnata la scure
e si era diretto verso uno dei
babordi, il più largo di
tutti e che era difeso da grosse sbarre di
legno. Approfittando del momento
in cui i marinai di guardia facevano
del fracasso, dovendo virare di
bordo, con quattro colpi poderosi
sfondò due traverse,
ottenendo uno spazio sufficiente per lasciar
passare un uomo.
- Badate di non farvi sorprendere,
- disse ai due filibustieri. - Se
vi preme la vita siate prudenti.
Passò attraverso il babordo e si
lasciò penzolare nel
vuoto, tenendosi attaccato alla traversa
inferiore. Il bordo era così
basso che si trovò immerso fino alle
reni.
Attese che un'ondata venisse ad
infrangersi contro il fianco del
veliero, poi si lasciò
andare, mettendosi subito a nuotare lungo il
bordo onde non farsi scorgere dai
marinai di guardia. Un istante dopo
Carmaux e l'amburghese lo
raggiungevano, tenendo fra i denti i pugnali
del castigliano.
Lasciarono che la caravella
passasse, poi vedendo la scialuppa, la
quale era attaccata alla poppa
con una funicella assai lunga, in
quattro bracciate la raggiunsero
ed aiutandosi l'un l'altro per
mantenerla in equilibrio, vi
salirono entro.
Stavano per afferrare i remi,
quando la funicella, che univa la
scialuppa della caravella, cadde in
mare, tagliata da una mano amica.
Il Corsaro alzò gli occhi
verso la poppa del veliero e sul cassero
scorse una forma umana, che gli
fece colla mano un gesto d'addio.
- Ecco un cuore nobile, - mormorò,
riconoscendo il castigliano. - Dio
lo protegga dalla collera di Wan
Guld.
La caravella, con tutte le sue vele
spiegate, aveva proseguita la sua
corsa verso Gibraltar, senza che un
grido solo si fosse alzato fra gli
uomini di guardia. La si vide
ancora per alcuni minuti correre
bordate, poi scomparve dietro un
gruppo d'isolette boscose.
- Tuoni, - esclamò Carmaux,
rompendo il silenzio che regnava nella
scialuppa. - Io non so ancora se
sia sveglio o se sia lo zimbello d'un
sogno. Trovarsi legati nella
cala d'una caravella con tutte le
probabilità di venire
appiccati allo spuntar del sole, ed essere
invece ancora liberi, non è
cosa facilmente credibile. Che cosa dunque
è avvenuto, mio capitano?
Chi ci ha forniti i mezzi per sfuggire a
quel vecchio antropofago?
- Il conte di Lerma, - rispose il
Corsaro.
- Ah!... il bravo gentiluomo! Se
lo incontreremo a Gibraltar lo
risparmieremo, è vero Wan
Stiller?
- Lo tratteremo come un fratello
della costa, - rispose l'amburghese.
- Ora andiamo, capitano?
Il Corsaro non rispose. Egli si
era bruscamente alzato e guardava
attentamente verso il settentrione,
interrogando ansiosamente la linea
dell'orizzonte.
- Amici, - disse, con una certa
emozione. - Non scorgete nulla laggiù?
I due filibustieri si erano levati
in piedi, guardando nella direzione
indicata. Là dove la
linea dell'orizzonte pareva che si confondesse
colle acque del vasto lago, dei
punti luminosi, simili a piccolissime
stelle, si vedevano scintillare.
Un uomo di terra li avrebbe forse
scambiati per astri prossimi al
tramonto, ma un uomo di mare non
poteva ingannarsi.
- Dei fuochi brillano laggiù,
- disse Carmaux.
- E sono fuochi di legni
avanzantisi sul lago, - aggiunse
l'amburghese.
- Che sia Pietro che muove su
Gibraltar? - si chiese il Corsaro,
mentre un lampo vivido gli
balenava negli sguardi. - Ah! se fosse
vero, potrei ancora vendicarmi
dell'uccisore dei miei fratelli.
- Sì, capitano, - disse
Carmaux. - Quei punti luminosi sono fanali di
barche e di bastimenti. E'
l'Olonese che si avanza, ne sono certo.
- Presto, alla spiaggia ed
accendiamo un falò onde vengano a
raccoglierci.
Carmaux e Wan Stiller afferrarono i
remi, e si misero ad arrancare con
gran vigore, spingendo la
scialuppa verso la costa, la quale non era
lontana più di tre o quattro
miglia.
Mezz'ora dopo i tre corsari
prendevano terra entro una calanca
abbastanza vasta per poter
ricevere una mezza dozzina di piccoli
velieri, e che si trovava ad una
trentina di miglia da Gibraltar.
Arenata la scialuppa, fecero
raccolta di rami secchi e foglie ed
accesero un falò
gigantesco, capace di essere scorto a quindici
chilometri.
I punti luminosi allora erano
vicinissimi e continuavano ad avanzarsi
rapidamente.
- Amici, - gridò il Corsaro,
che era salito su d'una roccia. - E' la
flottiglia dell'Olonese.
34.
L'OLONESE
Verso le due del mattino quattro
grosse barche, attirate da quel fuoco
che continuava ad ardere sulla
spiaggia, entravano nella calanca,
gettando gli ancorotti.
Erano montate da centoventi
corsari, guidati dall'Olonese e formavano
l'avanguardia della flottiglia
incaricata di espugnare Gibraltar.
Il famoso filibustiere rimase
assai sorpreso nel vedersi comparire
improvvisamente dinanzi il Corsaro,
non avendo sperato di poterlo
rivedere così presto. Lo
credevano ancora nei grandi boschi o fra le
paludi dell'interno, occupato a
dare la caccia al governatore, ed
aveva anzi perduta la speranza di
averlo a compagno nell'espugnazione
della poderosa cittadella.
Quand'ebbe apprese le straordinarie
avventure toccate all'amico ed ai
suoi compagni, disse:
- Mio povero cavaliere, tu non
hai fortuna con quel dannato vecchio,
ma per le sabbie d'Olonne! questa
volta io spero di poterlo catturare,
poiché cercheremo di
circondare Gibraltar in modo da impedirgli di
prendere il largo. Noi lo
appiccheremo sull'alberetto della tua
"Folgore", te lo
prometto.
- Io dubito, Pietro, di poterlo
trovare a Gibraltar, - rispose il
Corsaro. - Egli sa che noi
muoviamo verso la città, decisi ad
espugnarla; sa che io lo cercherò
di casa in casa, per vendicare i
miei poveri fratelli e per questo
temo di non trovarlo colà.
- Non l'hai tu veduto dirigersi
verso Gibraltar, colla caravella del
Conte?
- Sì, Pietro, però
tu sai quanto egli sia astuto. Può più tardi aver
cambiato rotta, onde non farsi
prendere fra le mura della città.
- E' vero, - disse l'Olonese,
che era diventato pensieroso. - Quel
dannato duca è più
furbo di noi e forse può aver evitato Gibraltar per
mettersi in salvo sulle coste
orientali del lago.
- Io ho saputo che egli ha parenti
e ricchi possessi nell'Honduras, a
Porto Cavallo, e potrebbe aver
cercato di uscire dal lago per
rifugiarsi colà.
- Vedi, Pietro, come la fortuna
protegge quel vecchio!
- Si stancherà, cavaliere.
Eh!... Se io un giorno potessi avere la
certezza che egli si fosse
rifugiato a Porto Cavallo, non esiterei ad
andarlo a scovare. Quella città
merita una visita e sono certo che
tutti i filibustieri della Tortue
mi seguirebbero per mettere le mani
sulle incalcolabili ricchezze che
vi si trovano. Se noi non lo
troveremo a Gibraltar, penseremo
poi sul da farsi. Io ti ho promesso
di aiutarti, e tu sai che
l'Olonese non ha mai mancato alla sua
parola.
- Grazie, vi conto. Dov'è la
mia "Folgore"?
- L'ho mandata all'uscita del
Golfo, assieme alle due navi di Harris
onde impedire ai vascelli di linea
spagnoli di importunarci.
- Quanti uomini hai condotti con
te?
- Centoventi, ma questa sera
giungerà il Basco con altri quattrocento
e domani mattina daremo l'assalto a
Gibraltar.
- Speri di riuscire?
- Ne ho la convinzione,
quantunque abbia saputo che gli spagnoli,
radunati ottocento uomini risoluti,
abbiano rese impraticabili le vie
della montagna che conducono alla
città, ed abbiano alzato numerose
batterie. Avremo un osso duro da
rodere e che ci farà perdere molta
gente, noi però riusciremo,
amico.
- Sono pronto a seguirti, Pietro.
- Contavo sul tuo poderoso braccio
e sul tuo valore, cavaliere. Vieni
a bordo della mia barcaccia, a
cenare, poi va' a riposarti. Credo tu
ne abbia bisogno.
Il Corsaro che si manteneva in
piedi per un miracolo di energia, lo
seguì, mentre i
filibustieri sbarcavano sulla spiaggia, accampandosi
sul margine del bosco, in attesa
del Basco e dei suoi compagni.
Quella giornata non doveva però
andare perduta perché buona parte di
quella gente instancabile si era
messa quasi subito in marcia per
esplorare le vicinanze, onde
piombare addosso alla forte cittadella
spagnola, possibilmente, di
sorpresa. Arditi esploratori si erano
spinti molto innanzi, fino già
in vista dei poderosi forti di
Gibraltar; per rendersi un
concetto chiaro delle misure difensive
prese dai nemici, ed altri
avevano osato perfino di interrogare
alcuni, fingendosi pescatori colà
naufragati.
Quelle audaci perlustrazioni
avevano però dato dei risultati tali da
non incoraggiare gli intrepidi
scorridori del mare, quantunque fossero
abituati a superare le più
tremende prove.
Dappertutto avevano trovate le
vie tagliate da trincee armate di
cannoni, la campagna inondata ed
enormi palizzate irte di spine. Di
più avevano saputo che il
comandante della cittadella, uno dei più
valenti e dei più coraggiosi
soldati che in quel tempo la Spagna
avesse in America, aveva fatto
giurare ai suoi soldati che si
sarebbero fatti uccidere fino
all'ultimo, piuttosto d'ammainare lo
stendardo della patria.
Dinanzi a così cattive
informazioni, una certa ansietà si era fatta
strada anche nei cuori dei più
fieri corsari, temendo che quella
spedizione terminasse in un
disastro.
L'Olonese, informato subito di
quanto avevano narrato i perlustratori,
non si era perduto d'animo, e
alla sera, radunati tutti i capi,
pronunciò quelle famose
parole tramandateci dalla storia e che
dimostrano quanta confidenza
egli avesse in se stesso e quanto
contasse sui suoi corsari.
- E' d'uopo, uomini del mare, che
domani combattiamo da forti, -
disse. - Perdendo, oltre alla vita,
perderemo i nostri tesori, che pur
ci costano tante pene e tanto
sangue. Abbiamo vinti nemici ben più
numerosi di quelli che sono
rinchiusi in Gibraltar, e maggiori
ricchezze guadagneremo colà.
Guardate il vostro capo e ne seguirete
l'esempio.
Alla mezzanotte le barcacce di
Michele il Basco, montate da circa
quattrocento uomini, giungevano su
quella spiaggia.
Tutti i filibustieri dell'Olonese
avevano già levato il campo, pronti
a partire per Gibraltar, presso i
cui forti contavano di giungere al
mattino, non volendo cimentarsi in
un assalto notturno.
Appena i quattrocento uomini
del Basco furono sbarcati, si
incolonnarono, ed il piccolo
esercito, guidato dai tre capi, si mise
tosto in marcia attraverso le
foreste, dopo di aver lasciato una
ventina d'uomini a guardia delle
scialuppe.
Carmaux e Wan Stiller, ben
riposati e ben pasciuti, si erano messi
dietro al Corsaro, non volendo
mancare all'assalto ed essendo ansiosi
di prendere Wan Guld.
- Amico Stiller, - diceva
l'allegro filibustiere, - speriamo questa
volta di mettere le zampe su
quel furfante e di consegnarlo al
comandante.
- Appena espugnati i forti
correremo in città per impedirgli di
prendere il largo, Carmaux. So
che il comandante ha dato ordine a
cinquanta uomini di precipitarsi
subito nei boschi per tagliare la via
ai fuggiaschi.
- E poi vi è il catalano che
non lo perderà di vista.
- Credi che sia già entrato
a Gibraltar?
- Ne sono certo. Quel diavolo
d'uomo lo ritroveremo, se non si farà
uccidere.
In quell'istante si senti battere
sulle spalle, mentre una voce ben
nota gli diceva.
- E' vero, compare.
Carmaux e Wan Stiller si volsero
vivamente e videro l'africano.
- Tu compare sacco di carbone!...
- esclamò Carmaux. - Da dove sei
sbucato?...
- Sono dieci ore che vi cerco,
correndo lungo la spiaggia come un
cavallo. E' vero che il
vecchio governatore vi aveva fatti
prigionieri?
- Chi te l'ha detto?
- L'ho udito raccontare da alcuni
filibustieri
- E' vero, ma come vedi, gli siamo
sfuggiti di mano coll'aiuto di quel
bravo conte di Lerma.
- Del nobile castigliano che
avevamo fatto prigioniero nella casa del
notaio di Maracaybo?...
- Sì, compare. E dei due
feriti che ti avevamo lasciati, cosa è
avvenuto?...
- Sono morti ieri mattina, -
rispose il negro.
- Poveri diavoli!... Ed il
catalano?...
- A quest'ora deve essere già
a Gibraltar.
- Opporrà una resistenza
accanita la città, compare!...
- Temo che questa sera un buon
numero dei nostri non ceneranno. Il
comandante della piazza è un
uomo che si difenderà con furore e che ha
tagliate tutte le vie, piantonando
dovunque trincee e batterie.
- Speriamo di non essere nel numero
dei morti e d'appiccare invece Wan
Guld.
Intanto le quattro lunghe colonne
s'inoltravano tacitamente attraverso
le folte foreste, che in
quell'epoca contornavano Gibraltar, facendosi
precedere da piccole bande di
esploratori, composte per lo più da
bucanieri.
Ormai tutti sapevano che gli
spagnoli, avvertiti dell'avvicinarsi dei
loro implacabili nemici, li
attendevano ed era probabile che il
vecchio comandante della
cittadella avesse preparato degli agguati,
per decimarli, prima che tentassero
l'assalto dei forti.
Alcuni colpi di fucile,
echeggiati in testa alle piccole bande,
avvertirono le colonne d'assalto
che la città non era lontana.
L'Olonese, il Corsaro Nero ed
il Basco, credendo si trattasse di
qualche imboscata, s'affrettarono a
raggiungere gli esploratori con un
centinaio d'uomini; ma furono tosto
informati che non si trattava d'un
vero attacco da parte degli
spagnoli, bensì d'un semplice scambio di
fucilate fra avamposti.
L'Olonese, vedendosi ormai
scoperto, comandò alle colonne di
arrestarsi in attesa dell'alba,
volendo prima accertarsi dei mezzi di
difesa di cui disponevano gli
avversari e della qualità del terreno,
avendo notato che questo accennava
a diventare pantanoso.
Alzandosi sulla destra una collina
boscosa, s'affrettò a farne la
salita in compagnia del Corsaro
Nero, certo di poter dominare parte
del paese circostante.
Quando giunsero sulla vetta,
cominciava ad albeggiare.
Una luce bianca, che diventava
rapidamente rossa verso le sponde
orientali del lago, invadeva il
cielo e tingeva le acque di riflessi
rosei, annunciando una splendida
giornata.
L'Olonese ed il Corsaro avevano
subito volti gli sguardi verso una
montagna che stava loro di fronte,
sulla quale si ergevano due grandi
forti merlati, sormontati dallo
stendardo di Spagna; mentre dietro a
loro si estendevano gruppi di
abitazioni dalle bianche pareti ed
attruppamenti di tettoie e di
capanne.
L'Olonese aveva aggrottata la
fronte.
- Per le sabbie d'Olonne!... -
esclamò. - Sarà un affare serio
espugnare quei due forti, senza
artiglierie e senza scale. Bisognerà
fare prodigi di valore, o noi
prenderemo tale battuta da farci levare
la voglia, per molto tempo,
d'inquietare gli spagnoli.
- Tanto più che la via
della montagna è stata resa impraticabile,
Pietro, - disse il Corsaro. - E'
stata rotta e vedo invece delle
batterie e delle palizzate che
saremo costretti ad espugnare sotto il
fuoco dei cannoni dei forti.
- E quel pantano che ci sta dinanzi
e che costringerà i nostri uomini
a costruire dei ponti volanti, lo
vedi?...
- Sì, Pietro.
- Se fosse possibile girarlo, e
gettarci nella pianura, ma che!... La
pianura è stata inondata!...
Guarda come l'acqua si avanza rapida!...
- Abbiamo da fare con un comandante
che conosce tutte le astuzie della
guerra, Pietro.
- Lo vedo.
- Cosa pensi di fare?
- Tentare la sorte, cavaliere. A
Gibraltar vi sono maggiori tesori di
quelli che aveva Maracaybo, e
faremo una grossa raccolta. Che cosa si
direbbe di noi se retrocedessimo?
Non si avrebbe più fiducia né
dell'Olonese, né del
Corsaro, né di Michele il Basco.
- E' vero, Pietro, e la nostra
fama di corsari audaci ed invincibili
sarebbe finita; e poi pensa che
tra quei forti vi è il mio mortale
nemico.
- Sì, e io voglio farlo
prigioniero. A te ed al Basco affido la
partita più grossa dei
filibustieri e v'incaricherete di far loro
attraversare la palude per forzare
la via della montagna; io giro sul
margine estremo e, tenendomi al
riparo delle piante, tenterò di
giungere inosservato sotto le mura
del primo forte.
- E le scale, Pietro?
- Ho il mio piano. Incaricati di
tenere occupati gli spagnoli e lascia
fare il resto a me. Se fra tre ore
Gibraltar non sarà in nostra mano,
io non sarò più
l'Olonese. Abbracciamoci, cavaliere, poiché chissà se
ci rivedremo ancora vivi.
I due formidabili corsari si
strinsero affettuosamente l'un l'altro;
poi, ai primi raggi del sole
nascente, scesero rapidamente la collina.
I filibustieri si erano accampati
momentaneamente sul margine della
foresta, dinanzi alla palude che
aveva loro impedito di avanzarsi ed
alla cui estremità, sopra un
poggio isolato, avevano scorto un piccolo
ridotto difeso da due cannoni.
Carmaux e Wan Stiller, unitamente
ad alcuni altri, avevano cercato di
provare la solidità di quel
fango, ma si erano subito accorti che non
vi era da fidarsi, poiché
cedeva sotto i piedi, minacciando
d'inghiottire coloro che avessero
osato affrontarlo.
Quell'ostacolo imprevisto e che
ritenevano insuperabile, oltre gli
altri che dovevano affrontare nella
pianura e poi sulla montagna,
prima di giungere sotto i due
forti, aveva raffreddato l'entusiasmo di
non pochi, tuttavia nessuno aveva
osato parlare di ritirata.
Il ritorno dei due famosi
corsari e la loro decisione d'impegnare
senza ritardo la battaglia, aveva
però rincorati i più, avendo in quei
capi una cieca fiducia.
- Coraggio, uomini del mare! -
aveva gridato l'Olonese. - Dietro a
quei forti vi sono maggiori
tesori da predare che a Maracaybo.
Mostriamo ai nostri implacabili
nemici che siamo sempre invincibili.
Diede il comando di formare due
colonne, raccomandò a ognuno di non
indietreggiare dinanzi ad alcun
ostacolo, poi ordinò di avanzare
audacemente.
Il Corsaro Nero si mise alla testa
della truppa più numerosa, in
compagnia del Basco, mentre
l'Olonese coi suoi s'avanzava lungo il
margine del bosco, per superare
la pianura inondata e giungere
inosservato sotto i forti.
35.
LA PRESA DI GIBRALTAR
La colonna, che il Corsaro
Nero ed il Basco dovevano condurre
attraverso la palude difesa
dalla batteria, era composta di
trecentottanta uomini armati di
una corta sciabola e di qualche
pistola con solo trenta cariche,
non avendo creduto necessario di
armarsi di fucili, armi che
reputavano di ben poca utilità contro i
forti e d'imbarazzo nei
combattimenti a corpo a corpo.
Erano però trecentottanta
demoni risoluti a tutto, pronti a
precipitarsi con furia
irresistibile contro qualsiasi ostacolo, certi
di uscire vincitori.
Al comando dei capi si misero
subito in marcia, portando ognuno dei
fasci di legna e dei grossi rami
d'albero da gettare nella palude per
rendere le sabbie accessibili.
Erano appena giunti sull'orlo di
quel vasto pantano, quando si vide la
batteria spagnola, che si trovava
all'opposta estremità, fiammeggiare,
lanciando fra i canneti un uragano
di mitraglia. Era un avvertimento
pericoloso non però
sufficiente per arrestare quei fieri scorridori
del mare.
Il Corsaro Nero ed il Basco avevano
lanciato il formidabile grido di
guerra:
- Avanti, uomini del mare!...
I filibustieri si erano
precipitati nella palude, gettando fasci di
legna e tronchi d'albero per
prepararsi la strada, senza preoccuparsi
del fuoco della batteria nemica
che diventava di minuto in minuto più
accelerato, facendo schizzare
dovunque acqua e fango, sotto una
pioggia incessante di mitraglia.
La marcia attraverso quel pantano
diventava sempre più pericolosa, di
passo in passo che i filibustieri
si allontanavano dal margine della
foresta.
Il ponte, formato dai tronchi e
dai fasci di legna, non bastava a
tutti. A destra e a sinistra,
degli uomini capitombolavano,
sprofondando fino alla cintola,
senza essere più capaci di uscirne se
non venivano soccorsi dai
compagni, e per colmo di sventura i
materiali che avevano portato
con loro per formarsi una via
praticabile, non erano sufficienti
per attraversare l'intera palude.
Quei valorosi erano costretti, di
tratto in tratto, sempre sotto il
fuoco della batteria, a immergersi
nel fango per risollevare i tronchi
ed i fasci e portarli più
innanzi, lavoro estremamente faticoso non
solo, ma anche pericoloso, data la
natura del fondo.
Il fuoco degli spagnoli intanto
cresceva. La mitraglia fischiava fra i
canneti recidendoli, sollevava
miriadi di spruzzi d'acqua limacciosa e
colpiva gli uomini delle prime
file, senza che questi potessero in
modo alcuno rispondere a quelle
scariche mortali, non possedendo che
delle pistole dal tiro limitato.
Il Corsaro Nero ed il Basco, in
mezzo a quel trambusto, conservavano
un ammirabile sangue freddo.
Incoraggiavano tutti colla voce e
coll'esempio, facevano animo ai
feriti, passavano ora dinanzi ed ora
indietro per sollecitare i
portatori dei tronchi e dei fasci ed
indicavano i luoghi più
coperti di canneti, onde non esporre i loro
uomini al fuoco incessante della
batteria.
I filibustieri, quantunque
cominciassero a dubitare della riuscita di
quella difficile impresa, che
chiamavano una vera pazzia, non si
perdevano d'animo e lavoravano con
lena accanita, certi che se fossero
riusciti a varcare quel
pantano, avrebbero facilmente vinta la
batteria.
La mitraglia però faceva
sempre strage fra le prime file. Più di
dodici corsari colpiti a morte
erano spariti sotto il fango della
palude ed oltre venti feriti si
dibattevano in mezzo ai tronchi degli
alberi ed ai fasci di legna,
pure quei valorosi non si lamentavano,
no!... Incoraggiavano invece i
compagni ad avanzare, rifiutando i loro
aiuti, onde non perdessero tempo ed
urlando con furore:
- Avanti, compagni!...
Vendicateci!...
Quella tenacia, quell'audacia ed
il valore dei capi, dovevano
finalmente trionfare contro gli
ostacoli e contro la resistenza degli
spagnoli. Superato 1'ultimo
tratto, dopo nuove perdite ed immense
fatiche, i filibustieri
giunsero finalmente sul suolo solido.
Organizzarsi prontamente e
lanciarsi come un uragano all'assalto della
batteria, fu l'affare d'un solo
istante.
Nessuno più poteva resistere
a quei terribili uomini assetati di
vendetta nessuna batteria, per
quanto formidabilmente armata e
disperatamente difesa, poteva
ributtarli.
Colle sciabole nella destra e le
pistole nella sinistra, i corsari
irruppero sui terrapieni del
ridotto.
Una scarica di mitraglia getta
a terra i primi; gli altri montano
all'assalto come furie scatenate,
massacrano i cannonieri sui loro
pezzi, investono i soldati messi
a guardia del posto, li opprimono,
nonostante la loro accanita
resistenza.
Un "urrah" formidabile
annunzia alle bande dell'Olonese che il primo,
e forse più difficile
ostacolo, è stato superato.
La loro gioia doveva però
essere di breve durata. Il Corsaro ed il
Basco, che si erano affrettati a
scendere nella pianura per studiare
la via da tenere, si erano
subito accorti che un altro ostacolo
sbarrava loro il passo della
montagna.
Al di là d'un piccolo bosco
avevano veduto ondeggiare in alto il
grande stendardo di Spagna e quella
bandiera annunziava la presenza di
qualche forte o di qualche ridotto.
- Per la morte di tutti i
baschi!... - urlò Michele, furioso. - Ancora
un osso duro da rodere! Quel
dannato comandante di Gibraltar vuol
proprio sterminarci? Cosa dice,
cavaliere?
- Penso che questo non è il
momento di andare indietro.
- Abbiamo subito già delle
perdite crudeli.
- Lo so.
- Ed i nostri uomini sono sfiniti.
- Accorderemo loro un po' di
riposo, poi andremo ad assalire anche
questa batteria.
- Credi che sia una batteria?
- Lo suppongo.
- E l'Olonese, che sia riuscito a
giungere presso i forti?...
- Non abbiamo udito detonazioni
verso la montagna, dunque egli deve
aver raggiunti felicemente i boschi
senza aver incontrato ostacoli.
- Sempre fortunato quell'uomo!...
- Speriamo di esserlo anche noi,
Michele.
- Che cosa facciamo ora?...
- Manderemo alcuni uomini ad
esplorare il bosco.
- Andiamo cavaliere. Non bisogna
lasciar raffreddare i nostri uomini.
Risalirono il poggio che si
trovava a ridosso della foresta e
incaricarono alcuni uomini audaci
di spingersi presso la batteria.
Mentre gli esploratori
s'allontanavano frettolosamente, seguiti a
breve distanza da un drappello di
bucanieri, incaricati di proteggerli
contro le imboscate, il Corsaro
Nero ed il Basco facevano trasportare
i feriti al di là della
palude, onde metterli in salvo nel caso di una
ritirata precipitosa, facevano
gettare altri fasci ed altri tronchi
d'albero, per assicurarsi una via
dietro le spalle.
Avevano appena finito di gettare il
nuovo ponte, quando si videro
giungere gli esploratori ed i
bucanieri.
Le notizie che recavano non
erano troppo buone. Il bosco era stato
sgombrato dagli spagnoli, però
nella pianura avevano veduto una
formidabile batteria difesa da
numerose bocche da fuoco e da buon
nerbo di truppe e che bisognava
assolutamente assalire, se si voleva
giungere sulla via della
montagna. Invece nessuna nuova recavano
dell'Olonese e delle sue bande non
avendo udito echeggiare spari in
alcuna direzione.
- In marcia, uomini del
mare!... - gridò il Corsaro, snudando la
spada. - Se abbiamo espugnata la
prima batteria, non indietreggeremo
davanti alla seconda.
I corsari, premurosi di giungere
sotto i forti di Gibraltar, non si
fecero ripetere due volte il
comando. Lasciato un drappello a guardia
dei feriti, si cacciarono
risolutamente sotto gli alberi marciando
rapidamente colla speranza di
sorprendere i nemici.
La traversata della foresta si
compì facilmente, non avendo incontrata
resistenza, quando però
giunsero nella pianura si arrestarono
indecisi, tanto loro sembrava
formidabile la batteria rizzata dai
nemici. Non era un semplice
terrapieno, era un vero ridotto difeso da
fossati, da palizzate e da muri a
secco armati di otto cannoni.
Anche il Corsaro Nero ed il Basco
erano diventati titubanti
- Ecco un osso ben duro da rodere,
- disse Michele al Corsaro. - Non
sarà facile attraversare la
pianura sotto il fuoco di questi pezzi.
- Eppure non possiamo più
tornare indietro, ora che l'Olonese è forse
presso i forti. Si direbbe che noi
abbiamo paura, Michele.
- Avessimo almeno qualche cannone.
- Gli spagnoli hanno
inchiodati quelli della batteria da noi
conquistata. Orsù
all'assalto!...
Senza guardare se era o no seguito
dagli altri, l'ardito Corsaro si
slanciò attraverso la
pianura correndo verso il ridotto.
I filibustieri, dapprima
esitarono, poi vedendo che dietro al Corsaro
si erano pure lanciati il Basco,
Wan Stiller, Carmaux e l'africano, si
precipitarono innanzi
incoraggiandosi con clamori assordanti.
Gli spagnoli del ridotto li
lasciarono accostare fino a mille passi,
poi diedero fuoco ai loro pezzi.
L'effetto di quella scarica fu
disastroso. Le prime file dei corsari
furono rovesciate, mentre le
altre, atterrite e scoraggiate,
retrocedevano precipitosamente,
nonostante le grida dei capi.
Qualche drappello tentò
ancora di riorganizzarsi, ma una seconda
scarica lo costrinse a seguire
il grosso, il quale ripiegava
confusamente verso il bosco per poi
ripassare la palude.
Il Corsaro Nero non li aveva però
seguiti. Raccolti intorno a sé dieci
o dodici uomini fra i quali
Carmaux, Wan Stiller e l'africano, si era
gettato in mezzo ad alcune macchie
che fiancheggiavano il margine
della pianura e con una marcia
rapida aveva potuto oltrepassare il
raggio di tiro del ridotto
giungendo felicemente ai piedi della
montagna.
Si era appena cacciato nei
boschi, quando in alto udì rombare le
grosse artiglierie dei due forti di
Gibraltar ed echeggiare le urla
dei filibustieri.
- Amici!... - gridò. -
L'Olonese si prepara ad assalire la città.
Avanti, miei valorosi!...
- Andiamo a prendere parte
all'altra festa, - disse Carmaux. -
Speriamo che sia più animata
ed anche più fortunata.
Quantunque fossero tutti stanchi,
si misero a salire animosamente la
montagna, aprendosi faticosamente
il passo fra i cespugli e gli
sterpi. Sulla cima si udivano
intanto tuonare con furore le grosse
artiglierie dei due forti. Gli
spagnoli dovevano aver scoperte le
bande dell'Olonese, e si
preparavano a difendersi disperatamente.
Alle cannonate, i filibustieri
del famoso Corsaro rispondevano con
clamori assordanti, forse per far
credere ai nemici di essere ben più
numerosi di quello che
realmente erano. Non avendo fucili per
rispondere, cercavano
d'impressionare i difensori dei forti con le
loro urla.
Le palle dei grossi cannoni
cadevano ovunque, perfino alla base della
montagna. Quei grossi
proiettili di ferro segnalavano il loro
passaggio con schianti fragorosi,
abbattendo piante secolari, le quali
cadevano con grande fracasso.
Il Corsaro Nero ed i suoi
compagni s'affrettavano per raggiungere
1'0lonese, prima che questi
cominciasse l'assalto dei due forti.
Avendo trovato un sentiero aperto
fra gli alberi, in meno di mezz'ora
si trovarono presso la cima, dove
s'incontrarono colla retroguardia
dell'Olonese.
- Dov'è il capo? - chiese il
Corsaro Nero.
- Sul margine del bosco, -
risposero.
- E' cominciato l'attacco?
- Si attende il momento propizio,
prima di esporci.
- Guidatemi da lui.
Due filibustieri si staccarono
dalla banda e facendolo passare in
mezzo a fitti cespugli, lo
condussero agli avamposti dove si trovava
l'Olonese con alcuni sotto-capi.
- Per le sabbie d'Olonne! - esclamò
il filibustiere, con voce allegra.
- Ecco un rinforzo, che mi giunge
in buon tempo.
- Un magro rinforzo, Pietro, -
rispose il Corsaro. - Ti ho condotto
solamente dodici uomini.
- Dodici!... E gli altri? - chiese
il filibustiere, impallidendo.
- Sono stati respinti nella palude,
dopo d'aver subito delle gravi
perdite.
- Mille fulmini!... Ed io che
contavo su costoro!
- Forse hanno ritentato
l'attacco della seconda batteria od hanno
trovato un'altra via. Poco fa udivo
i cannoni rombare nella pianura.
- Non importa. Cominceremo intanto
l'assalto del forte più grande.
- E come daremo la scalata?... Non
possiedi scale.
- E' vero, ma spero di costringere
gli spagnoli ad uscire.
- In quale modo?
- Simulando una fuga precipitosa. I
miei corsari sono avvertiti.
- Allora attacchiamo.
- Filibustieri della Tortue! - urlò
l'Olonese. - All'attacco!...
Le bande dei corsari, che fino
allora si erano tenute nascoste sotto
gli alberi ed i cespugli, per
ripararsi dalle scariche tremende dei
cannoni dei due forti, al comando
del loro capo si precipitarono verso
la spianata.
L'Olonese ed il Corsaro Nero si
erano messi alla loro testa e
s'avanzavano correndo, onde non
far subire ai loro uomini perdite
troppo crudeli.
Gli spagnoli del forte più
prossimo, che era il più importante e il
meglio armato, vedendoli apparire,
sparavano a mitraglia per spazzare
la spianata, ma era forse troppo
tardi. Malgrado molti cadessero, i
corsari in pochi istanti
giunsero sotto le mura e sotto le torri,
tentando di arrampicarsi su per le
scarpate e facendo fuoco colle
pistole per allontanare dagli
spalti i difensori.
Alcuni erano già
riusciti, nonostante la difesa disperata della
guarnigione, a salire, quando si
udì echeggiare la voce tuonante
dell'Olonese:
- Uomini del mare! In ritirata!...
I corsari, che si trovavano già
impossibilitati a salire sulle torri e
sui bastioni per mancanza di
scale ed anche per la fiera resistenza
che opponevano gli spagnoli,
s'affrettarono ad abbandonare l'impresa
fuggendo confusamente verso il
bosco vicino, tenendo però salde le
armi in pugno.
I difensori del forte, credendo di
sterminarli facilmente, invece di
mitragliare coi cannoni,
abbassarono rapidamente i ponti levatoi e si
precipitarono imprudentemente
all'aperto per dare loro addosso. Era
quello che aspettava l'Olonese.
I corsari, vedendosi inseguiti,
tutto d'un tratto volsero la fronte
assalendo furiosamente i nemici.
Gli spagnoli che non
s'aspettavano quel vertiginoso contrattacco,
sorpresi da tanta furia,
retrocessero confusamente, poi s'arrestarono
per tema che i corsari
approfittassero della loro ritirata per entrare
nel forte.
Una battaglia tremenda,
sanguinosissima, s'impegnò da ambo le parti
sulla spianata e dinanzi ai
bastioni. Corsari e spagnoli lottavano con
pari furore a colpi di spada, di
sciabola e di pistola, mentre quelli
rimasti sugli spalti facevano
grandinare nembi di mitraglia che
mietevano amici e nemici alla
rinfusa.
Già gli spagnoli, due
volte più numerosi, stavano per cacciare i
filibustieri e salvare Gibraltar,
quando sul campo della lotta si
videro irrompere le bande di
Michele il Basco, il quale era riuscito
ad aprirsi una via attraverso i
boschi della montagna.
Quei trecento e più uomini,
giunti in così buon punto, decisero le
sorti della mischia.
Gli spagnoli, incalzati da tutte
le parti, furono respinti entro il
forte, ma assieme a loro entrarono
pure i filibustieri, coll'Olonese,
il Corsaro Nero ed il Basco usciti
miracolosamente illesi.
Quantunque respinti, anche entro
il forte gli spagnoli opponevano una
fiera resistenza, decisi a farsi
sterminare, piuttosto che ammainare
il grande stendardo di Spagna.
Il Corsaro Nero, entrato fra i
primi, si era scagliato in un ampio
cortile, dove un duecento e più
spagnoli combattevano con accanimento
disperato, cercando di rigettare
gli avversari e di aprirsi il passo
attraverso le loro file, per
accorrere alla difesa di Gibraltar.
Già più d'un
archibugiere era caduto sotto la formidabile spada del
terribile filibustiere, quando
si vide precipitare addosso un uomo
coperto di ricche vesti e col
capo ricoperto da un ampio feltro
grigio, adorno d'una lunga piuma di
struzzo.
- Badate, cavaliere!... - gridò
quel gentiluomo, alzando la sua lunga
e scintillante spada. - Io vi
uccido!...
Il Corsaro, che si era allora
sbarazzato, a gran fatica, di un
capitano degli archibugieri, il
quale finiva di spirare ai suoi piedi,
si volse rapidamente e mandò
un grido di stupore.
- Voi, conte!...
- Io, cavaliere, - rispose il
castigliano, salutando colla spada. -
Difendetevi, signore, poiché
l'amicizia non sta più fra noi; voi
combattete per la filibusteria
ed io mi batto per la bandiera della
vecchia Castiglia.
- Lasciatemi passare, conte, -
rispose il Corsaro, cercando di
gettarsi contro un gruppo di
spagnoli, che facevano fronte ai suoi
uomini.
- No, signor mio, - disse il
castigliano, con tono reciso. - O voi
ucciderete me od io ucciderò
voi.
- Vi prego, conte, lasciatemi
passare!... Non costringetemi ad
incrociare il ferro, con voi. Se
volete battervi vi sono delle
centinaia di filibustieri
dietro di me. Io ho un debito di
riconoscenza verso di voi.
- No, mio signore: siamo pari.
Prima che la bandiera venga abbassata,
il conte di Lerma sarà
morto come il governatore di questo forte e
tutti i suoi prodi ufficiali.
Ciò detto si scagliò
contro il Corsaro, incalzandolo con furia.
Il signore di Ventimiglia, che
conosceva la propria superiorità sul
castigliano ed a cui rincresceva
dover uccidere quel leale e generoso
gentiluomo, fece due passi
indietro, gridando ancora:
- Vi prego, non costringetemi ad
uccidervi!...
- E sia!... - esclamò il
conte, sorridendo. - A noi, signor di
Ventimiglia!
Mentre attorno a loro la lotta
ferveva con crescente furore fra urla,
imprecazioni, gemiti di feriti e
detonazioni di archibugi e di
pistole, si assalirono
reciprocamente coll'animo deliberato di
uccidere o di farsi uccidere.
Il conte attaccava con grande
impeto, raddoppiando le stoccate e
coprendo il Corsaro in uno
scintillio di colpi, che venivano
prontamente ribattuti. Entrambi,
oltre le spade, avevano estratti
anche i pugnali, per meglio
parare le botte. Si avanzavano,
retrocedevano, s'incalzavano con
nuova lena, tenendosi in piedi con
grandi stenti a causa del sangue
che scorreva per il cortile.
Ad un tratto il Corsaro, che aveva
rinunciato all'idea di uccidere il
nobile castigliano, con una
battuta di terza, seguita da un rapido
semicerchio, fece balzare la spada
del conte, giuoco che gli era già
riuscito nella casa del notaio.
Disgraziatamente pel castigliano,
accanto a lui rantolava il capitano
degli archibugieri, che poco
prima era caduto sotto i colpi del
Corsaro. Precipitarsi addosso a
lui, strappargli la spada che ancora
stringeva fra le dita
rattrappite dalla morte e gettarsi nuovamente
addosso all'avversario, fu
l'affare d'un solo istante. Nel medesimo
tempo un soldato spagnuolo era
accorso in suo aiuto.
Il Corsaro, costretto a far
fronte a quei due avversari, non esitò
più. Con una stoccata
fulminea abbatté il soldato, poi volgendosi
contro il Conte che lo
assaliva di fianco, andò a fondo a corpo
perduto.
Il castigliano, che non
s'aspettava quel doppio colpo, ricevette la
botta in mezzo al petto e la spada
del filibustiere gli uscì dietro il
dorso.
- Conte! - gridò il signor
di Ventimiglia, prendendolo fra le braccia,
prima che cadesse. - Triste
vittoria per me questa, ma voi l'avete
voluta.
Il castigliano, che era diventato
pallido come un morto e che aveva
chiusi gli occhi, li riaprì
fissandoli sul Corsaro, poi gli disse con
un mesto
sorriso:
- Così voleva... il
destino... cavaliere... Almeno... non vedrò...
ammainare... lo stendardo... della
vecchia Castiglia.
- Carmaux... Wan Stiller!...
Soccorso! - gridò il Corsaro.
- E' inutile... cavaliere... -
rispose il conte, con voce semispenta.
- Io... sono... uomo... morto...
Addio mio gentiluomo... ad...
Uno sbocco di sangue gli spense la
frase. Chiuse gli occhi, cercò di
sorridere un'ultima volta, poi
esalò l'ultimo respiro.
Il Corsaro, più commosso di
quanto avrebbe creduto, depose lentamente
al suolo il cadavere del nobile e
fiero castigliano, gli baciò la
fronte che era ancora
tiepida, raccolse sospirando la spada
sanguinante, e si scagliò
nella mischia, urlando con una voce che
aveva un singhiozzo strozzato:
- A me, uomini del mare!...
La lotta ferveva ancora con estremo
furore entro il forte.
Sugli spalti, sulle torri, nei
corridoi, nelle camerate e perfino
nelle casematte, gli spagnoli
combattevano colla rabbia che infonde la
disperazione. Il vecchio e
valoroso comandante di Gibraltar e tutti i
suoi ufficiali erano stati
uccisi, ma gli altri non s'arrendevano
ancora.
La strage durò un'ora,
durante la quale quasi tutti i difensori
caddero attorno alla bandiera
della patria lontana, piuttosto che
cedere le armi.
Mentre i filibustieri dell'Olonese
occupavano il forte, il Basco con
un'altra grossa sortita assaliva
l'altro che era poco lontano,
costringendo i difensori alla resa,
dopo d'aver promesso loro salva la
vita.
Alle due, quell'aspra battaglia
cominciata al mattino era terminata,
ma quattrocento spagnoli e
centoventi filibustieri giacevano estinti,
parte nei boschi e parte intorno al
forte, così ostinatamente difeso
dal vecchio Governatore di
Gibraltar.
36.
IL GIURAMENTO DEL CORSARO NERO
Mentre i filibustieri, avidi di
saccheggio, si rovesciavano come una
fiumana impetuosa sulla città
ormai indifesa, per impedire che tutta
la popolazione fuggisse nei
boschi, portando seco le cose più
preziose, il Corsaro Nero,
Carmaux, Wan Stiller e Moko rimuovevano i
cadaveri ammonticchiati
nell'interno del forte, colla speranza di
trovare fra di loro anche il
Governatore di Maracaybo, l'odiato Wan
Guld.
Orribili scene si presentavano ad
ogni passo, dinanzi ai loro occhi.
Vi erano mucchi di morti dovunque,
orribilmente deformati da colpi di
sciabola e di spada, e colle
braccia tronche, o coi petti squarciati,
o col cranio spaccato, orrende
ferite dalle quali sfuggivano ancora
getti di sangue che correvano
giù per gli spalti o per le gradinate
delle casematte, formando delle
pozze esalanti acri odori.
Si vedevano alcuni che avevano
ancora conficcate nelle carni le armi
che li avevano spenti; altri che
stringevano ancora gli avversari, coi
denti confitti nella gola di
questo o di quello ed altri ancora che
stringevano, con un ultimo
spasimo, la spada o la sciabola che li
aveva vendicati. Di quando in
quando, in mezzo a quei cadaveri,
s'alzava un gemito e qualche
ferito, rimuovendo a grande stento i
vicini, mostrava il suo volto
pallido, o lordo di sangue, chiedendo
con voce fioca un sorso d'acqua.
Il Corsaro, che nessun odio
conservava contro gli spagnoli, quando
udiva qualche ferito,
s'affrettava a sbarazzarlo dai morti che lo
circondavano ed aiutato da Moko e
dai due filibustieri lo portava
altrove, incaricando l'uno o
l'altro di prodigargli le prime cure.
Avevano già rimossi tutti
quei disgraziati, quando giunti in un angolo
del cortile interno, dove si
vedeva un altro gruppo di cadaveri
composto di spagnoli e di corsari,
udirono alzarsi una voce che a loro
pareva nota.
- Per mille pesci-cani!... -
esclamò Carmaux, - io ho udito ancora
questa voce leggermente nasale!...
- Anch'io - confermò Wan
Stiller.
- Che sia del mio compatriota
Darlas?
- No, - disse il Corsaro. - E' la
voce d'uno spagnolo.
- "Agua, caballeros.!...
Agua.!..." - si udiva chiedere, sotto quel
gruppo di morti.
- Tuoni d'Amburgo!... - esclamò
Wan Stiller. - E' la voce del
catalano!...
Il Corsaro e Carmaux si
erano slanciati innanzi, rimuovendo
rapidamente i cadaveri. Una testa
imbrattata di sangue, poi due
braccia lunghe e magre comparvero,
quindi un corpo lunghissimo coperto
da una corazza di pelle, del pari
imbrattata di sangue e di spruzzi di
materia cerebrale.
- "Carrai"!... - esclamò
quell'uomo, vedendo il Corsaro e Carmaux. -
Ecco davvero una bella fortuna che
giunge inaspettata.
- Tu!... - esclamò il
Corsaro.
- Ehi!... catalano del mio cuore! -
gridò Carmaux, lietamente. - Sono
ben contento, compare, di
rivederti ancora vivo. Spero che non
t'avranno guastato troppo il tuo
magro corpo.
- Dove sei ferito? - gli chiese il
Corsaro, aiutandolo ad alzarsi.
- Mi hanno dato un colpo di
sciabola su d'una spalla ed un altro sul
viso, ma sia detto senza
offendervi, il Corsaro che mi ha conciato in
tal modo, l'ho infilzato come
un capriolo. Vi giuro però,
"caballeros", che sono
lieto di rivedervi vivi.
- Credi che siano pericolose le tue
ferite?
- No, signore. Mi hanno però
causato un dolore così vivo, da farmi
cadere svenuto. Da bere, signore,
un sorso solo...
- Prendi, compare, - disse
Carmaux, porgendogli una fiaschetta piena
d'acqua mescolata a
dell'"aguardiente". - Questa ti rinvigorirà.
Il catalano, che si sentiva rodere
dalla febbre, la vuotò avidamente,
poi guardando il Corsaro Nero gli
disse:
- Voi cercavate il Governatore di
Maracaybo, è vero?
- Sì, - rispose il Corsaro.
- L'hai veduto?
- Eh!... Signore, voi avete
perduta l'occasione d'impiccarlo ed io di
rendergli venticinque legnate.
- Cosa vuoi dire? - chiese il
Corsaro, con voce sibilante.
- Che quel furfante, prevedendo
forse la vostra vittoria, non è
approdato qui.
- Dov'è andato dunque?
- Da uno dei suoi soldati che lo
accompagnavano e che qui venne, ho
saputo che Wan Guld si è
fatto condurre, dalla caravella del conte di
Lerma, sulle coste orientali del
lago, per sfuggire alla crociera
delle vostre navi e che è
andato ad imbarcarsi a Coro, dove sapeva
trovarsi un veliero spagnolo.
- E dove andrà?
- A Porto Cavallo, dove ha le sue
possessioni e dei parenti.
- Sei certo di questo?
- Certissimo, signore.
- Morte e dannazione! - urlò
il Corsaro, con voce terribile. -
Sfuggirmi ancora, quando credevo
di averlo raggiunto! Sia! Fugga pure
anche all'inferno, ma il Corsaro
Nero andrà a scovarlo anche laggiù!
Dovessi dar fondo alla mia
ricchezza, andrò a trovarlo anche sulle
coste dell'Honduras, lo giuro su
Dio!
- Ed io vi accompagnerò,
signore, se non vi dispiace, - disse il
catalano.
- Sì, tu verrai, giacché
il nostro odio per quell'uomo è eguale. Una
domanda ancora.
- Parlate, signore.
- Credi che sia possibile
inseguirlo?
- A quest'ora si sarà
imbarcato e, prima che voi possiate giungere a
Maracaybo, la sua nave avrà
raggiunte le coste di Nicaragua.
- Sia pure, fugga, ma quando
saremo tornati alla Tortue, organizzerò
tale spedizione che mai ne avranno
veduta una eguale nel Golfo del
Messico. Carmaux, Wan Stiller,
incaricatevi di questo uomo: l'affido
alle vostre cure, e tu Moko
seguimi in città. Bisogna che veda
l'Olonese.
La città che i corsari
avevano invasa, senza quasi trovare resistenza,
offriva uno spettacolo non meno
desolante dell'interno del forte.
Il saccheggio ferveva in tutte
le case. Dovunque si udivano ancora
urla d uomini, pianti di donne,
strilli di fanciulli, bestemmie, grida
feroci, colpi d arma da fuoco.
Torme di cittadini fuggivano per le
vie, cercando di salvare le cose
più preziose, inseguiti dai
corsari e dai bucanieri. Risse sanguinose
scoppiavano ovunque fra i
saccheggiatori ed i disgraziati abitanti, e
dei cadaveri venivano
precipitati dalle finestre a sfracellarsi sul
selciato.
Talvolta s'alzavano anche delle
urla strazianti, emesse probabilmente
dai notabili della città
sotto i tormenti inflitti loro dai corsari
per costringerli a confessare dove
avevano nascoste le loro ricchezze,
poiché quei tremendi
scorridori del mare, pur di avere dell'oro, non
si arrestavano dinanzi mezzi più
estremi.
Alcune case, già vuotate,
ardevano, spandendo all'intorno una luce
sinistra e lanciando in alto
nembi di scintille, col pericolo
d'incendiare l'intera città.
Il Corsaro, abituato a quelle
scene che aveva già veduto ripetersi
nelle Fiandre, non s'impressionava,
pure s'affrettava a passare oltre,
facendo un gesto di disgusto.
Giunto sulla piazza centrale, in
mezzo ad una banda di filibustieri
che avevano colà
radunati numerosi cittadini, vide l'Olonese
affaccendato a far pesare l'oro che
i suoi uomini continuavano ad
accumulare, giungendo da tutte le
parti.
- Per le sabbie d'Olonne... -
esclamò il filibustiere, scorgendolo. -
Credevo che tu fossi già
partito da Gibraltar od occupato ad appiccare
Wan Guld. Toh!... Non mi sembri
contento, cavaliere.
- E' vero, - rispose il Corsaro.
- Quali nuove adunque?
- Wan Guld a quest'ora naviga verso
le coste di Nicaragua.
- Lui!... Fuggito ancora!... E'
il diavolo costui? Per le sabbie
d'Olonne!... E' vero quanto mi
dici?...
- Sì, Pietro. Egli va a
rifugiarsi nell'Honduras.
- E tu che pensi di fare?
- Venivo a dirti che io
ritorno alla Tortue per riorganizzare una
spedizione.
- Senza di me!... Ah!... Cavaliere!
- Verrai?
- Te lo prometto. Fra qualche
giorno partiremo ed appena tornati alla
Tortue raduneremo una nuova
flotta per andare a scovare quel vecchio
birbante.
- Grazie, Pietro, conto su te.
Tre giorni dopo i filibustieri,
terminato il saccheggio, si
imbarcavano sulle numerose
scialuppe mandate loro dalla squadra, la
quale non aveva lasciata
l'estremità del lago.
Portavano con loro oltre duecento
prigionieri dai quali contavano
ricavare presto o tardi dei buoni
riscatti, grandi quantità di viveri,
di merci e oro pel valore
enorme di duecentosessantamila piastre,
somma che in poche settimane doveva
venire interamente consumata alla
Tortue, in banchetti ed in feste.
La traversata del lago si compì
senza incidenti, e all'indomani i
corsari salivano a bordo dei loro
legni veleggiando verso Maracaybo,
essendo loro intenzione
visitare nuovamente quella città per
taglieggiarla una seconda volta se
era possibile.
Il Corsaro Nero ed i suoi compagni
avevano preso imbarco sulla nave
dell'Olonese, la "Folgore"
essendo stata mandata alla uscita del
golfo, per impedire una sorpresa
da parte delle squadre spagnole, le
quali veleggiavano lungo le
coste del gran Golfo onde proteggere le
numerose piazze marittime del
Messico, dell'Yucatán, dell'Honduras, di
Nicaragua e di Costa-Rica.
Carmaux e Wan Stiller non avevano
dimenticato di condurre con loro
anche il catalano, le cui ferite
erano state riconosciute di nessuna
gravità.
Come i filibustieri avevano
sospettato, gli abitanti di Maracaybo
erano entrati in città,
colla speranza che le navi corsare non
avrebbero gettata l'ancora una
seconda volta in quel porto, sicché
quei disgraziati, che avevano
subito un completo saccheggio e che si
trovavano nell'impossibilità
di opporre la minima resistenza, si
videro obbligati a fare un
nuovo versamento di trentamila piastre,
sotto pena di nuove rapine e d'un
incendio generale.
Non ancora contenti, quegli avidi
approfittarono della nuova fermata
per mettere a ruba le chiese,
privandole degli arredi sacri, dei
quadri, dei crocifissi e perfino
delle campane, onde provvedere a una
cappella che contavano d'innalzare
alla Tortue!...
Nel pomeriggio dello stesso giorno
però la squadra corsara abbandonava
definitivamente quei paraggi,
veleggiando frettolosamente verso
l'uscita del golfo.
Il tempo era diventato minaccioso e
tutti avevano fretta di lasciare
quelle coste pericolose.
Dalla parte della Sierra di Santa
Maria, dei neri nuvoloni s'alzavano,
minacciando d'oscurare il sole
prossimo al tramonto e di estendersi
sul mare, mentre la brezza si
tramutava in vento forte.
Morgan, scorto il segnale e veduti
i fanali della squadra, aveva messa
la prora verso l'entrata del Golfo.
In quattro bordate la rapida nave
del Corsaro accostò la
scialuppa ed imbarcò il suo comandante ed i
suoi amici.
Appena il Corsaro mise piede sul
ponte, un urlo immenso lo accolse.
- Viva il nostro comandante!
Il Corsaro, seguito da Carmaux e
da Wan Stiller, che sorreggevano il
catalano, attraversò la
sua nave fra due ali di marinai, e mosse
rapidamente verso una bianca figura
che era apparsa sulla scala del
quadro.
Una esclamazione di gioia era
uscita dalle labbra del fiero uomo:
- Voi, Honorata!...
- Io, cavaliere, - rispose
la giovane fiamminga, muovendogli
rapidamente incontro. - Quale
felicità nel rivedervi ancora vivo!
In quell'istante un lampo
abbagliante ruppe la profonda oscurità che
regnava sul mare, seguito da un
lontano rullio. A quell'improvvisa
luce che aveva mostrate le
adorabili sembianze della giovane
fiamminga, un grido era sfuggito
dalle labbra del catalano.
- Lei!... La figlia di Wan Guld
qui!... Gran Dio!...
Il Corsaro, che stava per
precipitarsi incontro alla duchessa, si era
arrestato, poi volgendosi
impetuosamente verso il catalano che
guardava la giovane con due occhi
smarriti, gli chiese con un tono di
voce che pareva più nulla
avesse di umano:
- Hai detto?... Parla... o
t'uccido!...
Il catalano non rispose. Curvo
innanzi, guardava in silenzio la
giovane che retrocedeva
lentamente, barcollando, come se avesse
ricevuto un colpo di pugnale al
cuore.
Per alcuni istanti un profondo
silenzio regnò sul ponte della nave,
rotto solo dai cupi muggiti
delle onde. I centoventi uomini
dell'equipaggio non fiatavano più
concentrando la loro attenzione ora
sulla giovane che continuava a
indietreggiare ed ora sul Corsaro, che
teneva il pugno teso verso il
catalano.
Tutti presentivano una tremenda
tragedia.
- Parla! - ripeté ad un
tratto il Corsaro, con voce strangolata. -
Parla!...
- Costei... è la figlia di
Wan Guld, - disse il catalano, rompendo il
silenzio che regnava sulla nave.
- La conoscevi?
- Sì.,.
- Giura che è lei...
- Giuro...
Un vero ruggito era uscito
dalle labbra del Corsaro Nero a
quell'affermazione solenne. Fu
veduto ripiegarsi lentamente su sé
stesso, come fosse stato percosso
da un colpo di mazza, fin quasi a
toccare il ponte, ma ad un tratto
si rialzò con uno scatto di tigre.
La sua voce rauca echeggiò
fra i fragori delle onde.
- Ho giurato, la notte che io
solcavo queste acque, portando con me il
cadavere del Corsaro Rosso. Sia
maledetta quella notte fatale che mi
uccide la donna che amo!...
- Comandante, - disse Morgan,
avvicinandosi.
- Silenzio, - urlò il
Corsaro con uno scoppio di pianto. - Qui
comandano i fratelli miei!
Un brivido di superstizioso
terrore aveva fatte vibrare le membra
dell'equipaggio. Tutti gli occhi
si erano volti verso il mare, che
scintillava, come la notte in
cui il Corsaro aveva pronunciato il
terribile giuramento, credendo
di veder sorgere, fra i flutti
tempestosi, i cadaveri dei due
Corsari che erano colà stati sepolti
negli abissi.
La giovane fiamminga continuava
intanto a indietreggiare, colle mani
strette attorno ai capelli che il
vento scompigliava ed il Corsaro la
seguiva passo passo, cogli occhi
sfolgoranti. Entrambi non parlavano,
come se la loro voce fosse
repentinamente spenta.
I filibustieri, muti, immobili,
terrorizzati da quella scena, li
seguivano cogli sguardi. Anche
Morgan non aveva più osato accostarsi
al comandante.
Ad un tratto la giovane giunse
sull'orlo della scaletta che conduceva
nel quadro. S'arrestò un
istante, facendo con ambo le mani un gesto di
muta disperazione, poi scese a
ritroso, sempre seguita dal Corsaro.
Quando giunsero nel salotto, la
giovane duchessa s'arrestò nuovamente,
poi parve che l'energia che fino
allora l'aveva sostenuta, tutto d'un
tratto le mancasse, poiché
si lasciò cadere di peso su di una sedia.
Il Corsaro, chiusa la porta, le
aveva gridato, con voce rotta dai
singhiozzi:
- Disgraziata!...
- Sì, - mormorò la
giovane, con voce semispenta. - Disgraziata!...
Successe un breve silenzio, rotto
solamente dai singhiozzi sordi della
fiamminga.
- Maledizione al giuramento!... -
riprese il Corsaro con un impeto di
disperazione. - Voi.. La figlia
di Wan Guld, di colui a cui io ho
giurato odio eterno!... Figlia del
traditore che ha assassinati i miei
fratelli!... Dio!... Dio!... E'
spaventevole!...
S'interruppe nuovamente, poi
continuò con esaltazione:
- Ma non sapete voi dunque che io
ho giurato di sterminare tutti
coloro che avrebbero avuto la
sfortuna di appartenere alla famiglia
del mio mortale nemico? Io l'ho
giurato la notte in cui abbandonavo
fra le onde il cadavere del
mio terzo fratello, spento da vostro
padre, e Dio, il mare, i miei
uomini sono stati testimoni di quel
fatale giuramento, che ora costerà
la vita alla sola fanciulla che io
abbia amata, perché voi...
signora... morrete!...
- Ebbene, - diss'ella. -
Uccidetemi! Il destino ha voluto che mio
padre divenisse traditore e
assassino... uccidetemi, ma voi, colle
vostre mani. Morrò felice,
colpita dall'uomo che immensamente amo.
- Io!... - esclamò il
Corsaro, indietreggiando con spavento. - Io!...
No... no... colpire voi.... No, non
v'ucciderò... guardate!
Aveva afferrata la giovane per un
braccio e l'aveva trascinata verso
l'ampia finestra che guardava sul
tribordo.
Il mare scintillava allora, come
se getti di bronzo fuso o di zolfo
liquido scorressero sotto le onde,
mentre sul fosco orizzonte, gravido
di nubi, balenava di tratto in
tratto qualche lampo.
- Guardate, - disse il Corsaro
con maggior esaltazione. - Il mare
scintilla, come la notte che ho
lasciato cadere nel seno di questi
flutti i cadaveri dei miei
fratelli, le vittime di vostro padre. Essi
sono lì, mi spiano, guardano
la mia nave... vedo i loro occhi fissi su
di me... chiedono vendetta...
vedo i loro cadaveri oscillare fra le
onde, perché sono tornati
a galla e vogliono che io adempia il mio
giuramento. Fratelli! Sì...
sarete vendicati... ma io ho amata questa
donna... vegliate su di lei... io
l'ho amata!... Io l'ho amata!...
Uno scoppio di pianto aveva
spenta la sua voce, che in quel momento
pareva quella d'un pazzo o d'un
delirante. Si era curvato sulla
finestra e guardava le onde che
s'accavallavano, muggendo sordamente.
Forse nella sua disperazione gli
sembrava di vedere emergere i corpi
ischeletriti del Corsaro Rosso e
del Corsaro Verde.
Ad un tratto si volse verso la
giovane, che gli era sfuggita di mano.
Ogni traccia di dolore era
scomparsa dal suo volto. Il Corsaro Nero
diventava ancora il terribile
scorridore del mare, dall'odio
implacabile.
- Preparatevi a morire, signora,
- le disse con voce lugubre. -
Pregate Dio ed i miei fratelli di
proteggervi. Vi attendo sul ponte.
Lasciò il salotto con
passo fermo, senza volgersi, salì la scala,
attraversò la tolda e s'issò
sul ponte di comando.
Gli uomini dell'equipaggio non si
erano mossi. Solamente il timoniere,
ritto sul cassero, guidava la
"Folgore" verso il nord, seguendo le
navi filibustiere, i cui fanali
brillavano in lontananza.
- Signore, - disse il Corsaro,
avvicinandosi a Morgan. - Fate
preparare un canotto e calatelo in
mare.
- Che cosa volete fare, comandante?
- chiese il secondo.
- Mantenere il mio giuramento,
- rispose il Corsaro, con voce
semispenta.
- Chi scenderà nella
scialuppa?...
- La figlia del traditore.
- Signore!...
- Silenzio: i miei fratelli ci
guardano. Obbedite!... Qui, su questo
legno, comanda il Corsaro Nero!...
Nessuno però si era mosso
per obbedirlo: quell'equipaggio, formato di
uomini fieri quanto il loro
capo, che avevano combattuto cento
battaglie con un coraggio
disperato, in quel supremo momento si
sentivano come inchiodati sulle
tavole del vascello, da un terrore
invincibile.
La voce del Corsaro Nero, che era
diventata stridula, risuonò di nuovo
sul ponte di comando, con un tono
gravido di minaccia.
- Obbedite, uomini del mare!...
Il mastro d'equipaggio uscì
dalle file, facendo cenno ad alcuni uomini
di seguirlo e calò in mare,
sotto la scala di tribordo, una scialuppa,
facendovi gettare entro dei viveri,
avendo ormai compreso ciò che
voleva fare il Corsaro della
disgraziata figlia di Wan Guld.
Aveva appena terminato, quando
si vide uscire dal quadro la giovane
fiamminga.
Era ancora vestita di bianco ed
aveva i biondi capelli sciolti sulle
spalle. All'equipaggio parve un
fantasma.
La giovane attraversò la
tolda della nave senza pronunciare una parola
e come se sfiorasse appena appena
il tavolato. Camminava però diritta,
risoluta senza esitazioni.
Quando giunse presso la
scaletta, dove il mastro d'equipaggio le
indicava la scialuppa, che le onde
spingevano contro i fianchi della
nave, facendo risuonare sordamente
coi suoi colpi la stiva, s'arrestò
un istante, poi si volse verso
poppa guardando il Corsaro, la cui nera
figura spiccava sinistramente sul
fondo del cielo illuminato da vividi
lampi.
Guardò per alcuni secondi
il fiero nemico di suo padre, che si
manteneva ritto sul ponte di
comando, colle braccia strettamente
incrociate, gli fece colla mano un
gesto d'addio, poi scese rapida la
scala e balzò nella
scialuppa.
Il mastro aveva ritirata la corda
senza che il Corsaro avesse fatto un
gesto per trattenerlo.
Un grido era sfuggito dalle labbra
dell'intero equipaggio.
- Salvatela!...
Il Corsaro non rispose. Si era
curvato sulla murata e guardava la
scialuppa che le onde spingevano
rapidamente al largo, facendola
oscillare spaventosamente.
Soffiava forte il vento allora e
nella profondità del cielo guizzavano
vividi lampi, mentre allo
scrosciare delle onde si univa il rombo dei
tuoni.
La scialuppa s'allontanava sempre.
A prora si vedeva spiccare la
bianca figura della giovane
fiamminga. Teneva le braccia tese verso la
"Folgore" ed i suoi occhi
parevano fissi sul Corsaro.
Tutto l'equipaggio si era
precipitato a tribordo e la seguiva cogli
sguardi; ma nessuno parlava.
Tutti avevano compreso che qualsiasi
tentativo per smuovere il
vendicatore sarebbe stato inutile.
Intanto la scialuppa s'allontanava
sempre. La si vedeva spiccare come
un grosso punto nero sulle onde
che la fosforescenza ed i lampi
rendevano scintillanti. Ora si
alzava sulle creste, ora spariva negli
abissi, poi ritornava a mostrarsi
come se un essere misterioso la
proteggesse.
Per alcuni minuti ancora la si
poté scorgere, poi scomparve sul
tenebroso orizzonte, che dense
nubi, nere come se fossero sature
d'inchiostro, avvolgevano.
Quando i filibustieri volsero gli
sguardi atterriti verso il ponte di
comando, videro il Corsaro
piegarsi lentamente su se stesso, poi
lasciarsi cadere su di un cumulo
di cordami e nascondere il volto fra
le mani. Fra i gemiti del vento ed
il fragore delle onde si udivano,
ad intervalli, dei sordi
singhiozzi.
Carmaux si era avvicinato a Wan
Stiller e, indicandogli il ponte di
comando, gli disse con voce triste:
- Guarda lassù: il Corsaro
Nero piange!...