Emilio Salgari
Jolanda la figlia del Corsaro Nero
Capitolo Primo
La taverna «El Toro»
Quella sera la taverna El Toro, contrariamente al solito, brulicava di persone, come se qualche importante avvenimento fosse avvenuto o stesse per succedere.
Quantunque non fosse una delle migliori di Maracaybo, frammiste a marinai, a facchini del porto, a meticci e ad indiani caraibi, si vedevano - cosa piuttosto insolita - delle persone appartenenti alla migliore società di quella ricca ed importante colonia spagnola: grossi piantatori, proprietari di raffinerie di zuccheri, armatori di navi, ufficiali della guarnigione e perfino qualche membro del governo.
La sala, piuttosto ampia, coi muri affumicati, dall'ampio camino, malamente illuminata da quelle incomode e famose lampade usate sul finire del sedicesimo secolo, ne era piena. Nessuno però beveva ed i tavolini, addossati alle pareti, alla rinfusa, erano deserti. Invece la grande tavola centrale di vecchio noce, lunga più di dieci metri, era circondata da una quadrupla fila di personaggi, che parevano in preda ad una vivissima agitazione e che scommettevano con un furore, che avrebbe meravigliato anche un moderno americano degli Stati dell'Unione.
«Venti piastre per Zambo!»
«Trenta per Valiente!»
«Valiente si prenderà una tale speronata che cadrà al primo colpo!»
«Sarà Zambo a cadere!»
«E voi, don Raffaele?»
«Punterò su Plata, è più robusto dell'uno e dell'altro e avrà la vittoria finale!»
«Canarios! Un poltrone quel Plata.»
«Come vorrete, don Alonzo, ma io aspetto il suo turno!»
«Basta!»
«Avanti i combattenti!»
«Chiusura! Chiusura!»
Un tocco di campana annunciò che le scommesse erano terminate, e ai clamori assordanti di prima successe un profondo silenzio.
Due uomini erano entrati nella sala per due porte diverse e si erano collocati alle due estremità del tavolo. Portavano fra le braccia due splendidi galli, uno tutto nero colle penne a riflessi azzurro-dorati; l'altro rosso a striature bianche e nere.
Erano due careadores ossia allevatori di galli combattenti, professione anche oggidì assai lucrosa e molto apprezzata nelle antiche colonie spagnole dell'America Meridionale.
In quell'epoca la passione per quello sport barbaro, aveva raggiunto un vero fanatismo e si può dire che non passava giorno senza che vi avvenissero combattimenti di galli. E non mancavano perfino i giudici di campo, il cui giudizio era inappellabile.
L'educazione dei galli battaglieri richiedeva però cure minuziose, quanto quelle dei bulldog destinati ad affrontare i tori, se non di più. Essi venivano abituati a misurarsi ancora quand'erano pulcini. Avevano un nutrimento speciale, composto per lo più di granoturco, il cui numero di granelli era stabilito per ogni pasto. Per dare agli speroni maggior forza ed impedire che potessero guastarsi, si proteggevano con guaine di cuoio foderate di lana.
Alla comparsa dei due galli, un entusiastico evviva era scoppiato fra gli spettatori:
«Bravo, Zambo!»
«Forza, Valiente!»
Il giudice di campo, un grosso raffinatore di zucchero, che doveva conoscere le regole complicate di quel turf, pesò minuziosamente i due volatili, misurò la loro alatura e la lunghezza degli speroni onde eguagliare le condizioni di combattimento, quindi una voce forte dichiarò che l'eguaglianza era perfetta e che tutto andava benissimo.
I due galli furono subito lasciati liberi, collocandoli alle due estremità della tavola.
Come abbiamo detto, erano entrambi bellissimi e di razza andalusa, la migliore e la più battagliera.
Zambo era più alto di qualche pollice del suo avversario, con un becco robusto, un po' arquato alla sua estremità come quello dei falconi, cogli artigli piuttosto corti ed invece assai acuminati. El Valiente appariva più robusto, più tozzo, con gambe più grosse e speroni più lunghi, il becco era invece più corto, ma più largo e aveva sulla testa una bella cresta d'un rosso quasi violaceo e gli occhi più brillanti, anzi più provocanti.
Appena messi in libertà, i due galli si rizzarono in tutta la loro altezza, starnazzando le ali ed arruffando le penne del collo e lanciarono quasi simultaneamente il loro grido di guerra e di sfida.
«Assisteremo ad una bella lotta» disse un ufficiale della guarnigione.
«Io ritengo invece che sarà breve» disse don Raffaele «e che la vittoria la deciderà Plata.»
«Silenzio!» gridarono tutti.
I due galli stavano per accostarsi, tenendo la testa bassa, quasi rasente alla superficie del tavolo, quando due passi pesanti ed uno strascinare di spadoni, li fece arrestare.
«Chi disturba la lotta?» chiede il giudice di campo, con stizza.
Tutti si erano voltati corrugando la fronte e brontolando.
Due uomini erano entrati nella taverna, aprendo fragorosamente la porta, non immaginandosi certo di disturbare quelle brave persone e tanto meno i due galli combattenti.
Erano due tipi di bravacci o di avventurieri, personaggi che si trovavano allora di frequente nelle colonie spagnole d'oltre Atlantico. D'aspetto piuttosto brigantesco, portavano vesti un po' sgualcite, cappellacci di feltro dalle tese ampie con piume di struzzo quasi senza barbe, alti stivali di cuoio giallo, a tromba molto larga, e posavano fieramente la sinistra su certi spadoni, che dovevano mettere i brividi indosso a più d'un tranquillo borghese di Maracaybo.
Uno era di statura molto alta, coi lineamenti piuttosto angolosi, coi capelli d'un biondo rossastro; l'altro invece più basso e più membruto, con barba nera ispida.
Tanto l'uno che l'altro poi avevano la pelle assai abbronzata, arsa dal sole e dai venti del mare.
Udendo gli spettatori a mormorare e vedendosi addosso tutti quegli sguardi un po' crucciati, i due avventurieri alzarono i loro spadoni e s'avviarono in punta dei piedi verso un tavolo situato nell'angolo più oscuro, ordinando ad un garzone, che era prontamente accorso, un boccale di Alicante.
«C'è numerosa compagnia qui» disse l'uomo più basso a mezza voce. «Troveremo forse in questa taverna quanto ci occorre.»
«Sii prudente, Carmaux.»
«Non temere, amburghese.»
«Toh!... Ecco un bellissimo spettacolo! Un combattimento di galli! Da un pezzo non ne vedevo.»
«Bisognerebbe abbordare qualcuno di quegli spettatori.»
«Basta che non sia un ufficiale.»
«Prenderò un borghese, Wan Stiller» disse Carmaux. «Al capitano poco importa, purché sia un maracaybino.»
«Guarda là quell'uomo panciuto, che mi ha l'aria di essere un qualche ricco piantatore o qualche raffinatore di zuccheri.»
«Che possa saperne qualche cosa, quell'uomo?»
«Tutti questi grossi piantatori e commercianti sono in relazione col governatore. E poi, chi non ricorda il Corsaro Nero qui? Ne abbiamo fatte di belle con quel valoroso gentiluomo.»
«Maledette guerre!» esclamò Carmaux «Se invece di tornare nel suo Piemonte, fosse rimasto qui, forse sarebbe ancora vivo.»
«Taci, Carmaux» disse l'amburghese. «Tu mi rattristi troppo. Mi sembra impossibile che sia morto. E se il capitano Morgan fosse stato male informato?»
«Egli lo ha saputo da un compatriota del Corsaro Nero, che ha assistito alla sua fine.»
«Dove l'hanno ucciso?»
«Sulle Alpi, mentre combatteva valorosamente contro i francesi che minacciavano d'invadere il Piemonte. Si dice però che quel prode la cercasse la morte.»
«Perché, Carmaux? Tu non me lo hai mai detto prima d'ora.»
«Non lo seppi che ieri dal signor Morgan.»
«Quale motivo lo spingeva a giuocare pazzamente la vita?» chiese l'amburghese.
«Il dolore d'aver perduta la moglie, la duchessa di Wan Guld, morta nel dare alla luce la bambina.»
«Povero signor di Ventimiglia! Così valoroso, così leale, così generoso... Verranno altri filibustieri, ma come lui no, mai.»
Uno scoppio fragoroso di grida li fece alzare entrambi. Gli spettatori che circondavano il tavolo parevano in preda ad una vera frenesia. Alcuni acclamavano, altri imprecavano, tutti si agitavano, sbracciandosi e pestando i piedi.
Carmaux e l'amburghese, vuotate d'un fiato le tazze, si erano accostati agli spettatori, mettendosi specialmente dietro al grasso piantatore o raffinatore di zucchero, che era quel señor Raffaele che voleva riservare le sue scommesse per il Plata.
I due galli, dopo una serie di finte e di salti, si erano attaccati con furore e Zambo aveva ricevuto un colpo di sperone sulla testa perdendo parte della sua bella cresta e anche un occhio.
«Bel colpo!» mormorò Carmaux, che pareva se n'intendesse.
Il careador si era subito impadronito del vinto, bagnandogli le ferite coll'acquavite, onde arrestarne almeno per qualche istante il sangue.
El Valiente, tronfio della vittoria riportata, cantava a piena gola, pavoneggiandosi e starnazzando le sue belle ali.
La lotta non era però che cominciata, perché Zambo non si poteva ancora considerare fuori combattimento. Anzi, malgrado fosse cieco di un occhio, poteva disputare a lungo la vittoria ed anche riuscire a strapparla all'avversario.
Si capisce che ormai il favorito era El Valiente che aveva dato un così bel saggio della sua bravura.
Perfino don Raffaele si era sentito tentare. Dopo un po' di esitazione aveva gridato:
«Cinquanta piastre sul Valiente. Chi tiene? chi...»
Un colpetto sulla spalla destra gl'interruppe la frase e lo fece voltare indietro.
Carmaux non aveva ancora alzata la mano.
«Che cosa volete, señor?» chiese il raffinatore o piantatore che fosse, aggrottando la fronte e mostrandosi un po' offeso per quella familiarità.
«Volete un consiglio?» disse Carmaux. «Puntate sul gallo ferito.»
«Siete forse un careador?»
«A voi poco deve importare se lo sia o no. Se volete, punto duecento piastre su quello...»
«Su Zambo?» chiese il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. «Avete del denaro che vi pesa troppo nelle tasche?»
«Niente affatto, anzi sono venuto qui per guadagnarne.»
«E puntate su Zambo?»
«Sì, e vedrete come, fra poco, concerà l'altro. Scommettete con me, señor.»
«Sia» disse il grasso piantatore, dopo qualche esitazione «Se perdo mi rifarò con Plata.»
«Scommettiamo insieme?»
«Accetto.»
«Trecento piastre per Zambo!» gridò Carmaux.
Tutti gli sguardi si erano fissati su quell'avventuriero, che scommetteva una somma relativamente grossa su un gallo ormai semi-sconfitto.
«Tengo io!» gridò il giudice di campo. «Avanti i combattenti.»
Un momento dopo i due campioni si ritrovavano l'uno di fronte all'altro.
Zambo, quantunque così mal conciato e sanguinante, assalì per primo, saltando molto in alto, ma anche questa volta sbagliò il colpo e fu respinto.
El valiente che si teneva pronto, s'alzò in tutta la sua altezza, poi con uno slancio improvviso si precipitò sull'avversario tentando di cadergli sul cranio per spaccarglielo con un buon colpo d'artiglio.
Zambo però, si era prontamente rimesso, si teneva in guardia colle ali pronte alla parata e la testa ritirata, e gli rispose con un colpo di becco così bene assestato, da strappargli di colpo uno dei due barbigli della gola.
«Bravo gallo! Gallo fino!» gridò il piantatore.
Aveva appena pronunciate queste parole, quando El Valiente che perdeva sangue in abbondanza, si precipitò sul rivale colla velocità e l'impeto del falcone.
I due volatili si videro per alcuni istanti dibattersi, uniti strettamente, poi rotolarsi sulla tavola, poi diventare immobili come se si fossero uccisi reciprocamente. Zambo era rimasto sotto l'avversario e non si scorgeva quasi più.
Don Raffaele si era voltato verso Carmaux, dicendogli con accento secco:
«Abbiamo perduto.»
«Chi ve lo dice?» chiese l'avventuriero. «Ah! Guardate! Trecento piastre sono già nelle nostre tasche, señor.»
Zambo non era affatto morto, anzi tutt'altro. Quando gli spettatori cominciavano a disperarsi, con una mossa improvvisa era sfuggito di sotto all'avversario e si era alzato, cantando a piena gola e piantando gli speroni nel corpo del vinto.
El Valiente era morto e giaceva inerte col cranio spaccato.
«Ebbene señor, che cosa ne dite?» chiese Carmaux, mentre attorno alla tavola scoppiava una salva d'imprecazioni all'indirizzo del vinto.
«Dico che voi avete avuto un colpo d'occhio ammirabile» rispose il piantatore, con accento lieto.
Carmaux ritirò le trecento piastre e ne fece due mucchi eguali, dicendo:
«Centocinquanta per ciascuno, señor. La partita non è stata cattiva.»
«No, v'ingannate» disse don Raffaele.
«E perché?»
«Non ho scommesso che cinquanta piastre.»
«Perdonate, ma noi abbiamo giuocato in società. Raccogliete le vostre piastre che sono state guadagnate lealmente contro il giudice di campo che ha puntato sul morto.»
«Siete molto ricco voi per essere così generoso?» chiese il piantatore guardandolo con molto stupore.
«Non ci tengo al denaro: ecco tutto» rispose Carmaux.
«Voglio farvi guadagnare anch'io, señor. Puntate sul gallo che porteranno ora.»
«Vedremo.»
Un altro careador era in quel momento entrato, deponendo sulla tavola un gallo di forme splendide, più alto di Zambo, con una coda magnifica e le penne tutte bianche a riflessi argentei.
Era El Plata.
«Che ne dite señor?» disse fon Raffaele, volgendosi verso Carmaux.
«Bellissimo senza dubbio» rispose l'avventuriero, che lo guardava attentamente.
«Puntate?»
«Sì, cinquecento piastre su Zambo.»
«Sul Plata volete dire.»
«Señor, cinquecento piastre per Zambo. Chi ci tiene?» gridò.
«È una follìa.»
«Scommettete con me?»
«Che sia invincibile quel Zambo?»
«Questa sera sì!»
«Siete il diavolo, voi?»
«Se non sono veramente Belzebù, sarò un suo prossimo parente» rispose Carmaux, ironicamente. «Orsù, ci tenete con me?»
«Sì, per la metà. El Plata, che era il mio favorito, a mare.»
Le scommesse erano finite ed il silenzio era tornato nell'ampia sala.
I due galli, appena trovatisi di fronte, si erano assaliti con furore, sbattendo le ali e strappandosi mazzetti di penne.
Parevano entrambi della stessa forza e Zambo, quantunque semi-cieco, non accordava tregua all'avversario.
Ben presto il sangue cominciò a macchiare la tavola. I due combattenti si erano già trafitti parecchie volte cogli speroni ed El Plata aveva la bella cresta violacea a brandelli.
Di tanto in tanto, come di comune accordo, s'arrestavano per riprendere lena e scuotere i grumi di sangue che li acciecavano, poi tornavano alla carica con maggior furia di prima. Al quinto attacco El Plata rimase sotto a Zambo.
Un coro d'imprecazioni rimbombò nella sala, giacché i più avevano scommesso per il nuovo gallo. El Plata però, con una scossa improvvisa riuscì a liberarsi dalla stretta, ma non riuscì a parare un colpo di becco dell'avversario che gli strappò un occhio.
«Così almeno sono pari» disse Carmaux. «L'uno e l'altro ne hanno perduto uno.»
Il careador si era precipitato verso El Plata. Gli fece ingoiare un sorso d'acquavite, gli lavò la testa colla spugna per sbarazzarlo dai grumi di sangue, gli sprizzò nell'orbita vuota un po' di succo di limone, poi tornò a lanciarlo sulla tavola, dicendo:
«Su, mio bravo.»
Aveva avuto troppa fretta. Il povero gallo, ancora stordito, non poté far fronte al fulmineo attacco del prode Zambo e cadde quasi subito colla testa spaccata da un furioso colpo di becco.
«Che cosa vi avevo detto, señor?» disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.
«Che voi siete uno stregone, od il migliore careador dell'America.»
«Con tutte queste piastre che abbiamo guadagnato, possiamo permetterci il lusso di vuotare una bottiglia di Xeres. Ve l'offro io, se non vi rincresce.»
«Lasciate a me questo onore.»
«Come volete, señor.»
Capitolo secondo
Il rapimento del piantatore
Mentre venivano portati due altri galli, durando quei combattimenti delle notti intere talvolta, Carmaux, Wan Stiller ed il grasso don Raffaele, seduti intorno ad un tavolo collocato in un angolo della sala, trincavano allegramente, come vecchi amici, dell'eccellente Xeres a due piastre la bottiglia.
Lo spagnolo, messo in buon umore dalle vincite fatte e da alcuni bicchieri, chiacchierava come una gazza, vantando le sue piantagioni, le sue raffinerie di zucchero, e facendo comprendere ai due avventurieri come egli fosse uno dei pezzi grossi della colonia.
Ad un tratto s'interruppe, chiedendo a bruciapelo a Carmaux, che continuava a riempirgli il bicchiere:
«Ma... señor mio, non siete della colonia voi?»
«No, anzi siamo giunti solamente questa sera.»
«Da dove?»
«Da Panama.»
«Siete venuti per cercare qui da occuparvi? Ho qualche posto sempre disponibile.»
«Siamo gente di mare, signore, noi e poi non abbiamo intenzione di fermarci a lungo qui.»
«Cercate qualche carico di zucchero?»
«No» disse Carmaux, abbassando la voce. «Siamo incaricati di una missione segreta per conto dell'illustrissimo signor presidente dell'Udienza reale di Panama.»
Don Raffaele sgranò tanto d'occhi e divenne leggermente pallido per l'emozione.
«Signori» balbettò. «Perché non me lo avete detto prima?»
«Silenzio e parlate a voce bassa. Noi dobbiamo fingerci avventurieri e nessuno deve sapere chi ci ha qui mandati» disse Carmaux con voce grave.
«Siete incaricati di qualche inchiesta sull'amministrazione della colonia?»
«No, di appurare una notizia che interessa assai l'illustrissimo signor presidente. Ah! Ora che ci penso, voi potreste dirci qualche cosa. Frequentate la casa del governatore?»
«Prendo parte a tutte le feste ed a tutti i ricevimenti signor...»
«Chiamatemi semplicemente Manco» disse Carmaux. «Dicevo che voi, che frequentate la casa del governatore, potreste darci qualche preziosa informazione.»
«Sono tutto a vostra disposizione. Chiedetemi.»
«Questo non è veramente il luogo» disse Carmaux, sbirciando gli spettatori. «Si tratta di cosa molto grave.»
«Venite a casa mia, señor Manco.»
«Le pareti talvolta hanno delle orecchie. Preferisco l'aria libera.»
«Le vie sono deserte a quest'ora.»
«Andiamo sulla calata, così noi saremo vicini alla nostra nave. Vi spiacerebbe, señor?»
«Sono ai vostri ordini per far piacere all'illustrissimo presidente. Gli parlerete di me?»
«Oh! Non dubitatene.»
Vuotarono la seconda bottiglia, pagarono il conto e uscirono, mentre un quarto gallo cadeva sulla tavola, colla testa traforata da uno degli speroni dell'avversario.
Carmaux e l'amburghese, quantunque avessero vuotato nientemeno che sei bottiglie, pareva che avessero mandato giù dell'acqua; il piantatore invece aveva le gambe malferme e si sentiva girare la testa.
«Sii pronto quando io ti darò il segnale» mormorò Carmaux agli orecchi dell'amburghese. «Sarà una buona presa.»
Wan Stiller fece col capo un cenno di assentimento.
Carmaux passò familiarmente un braccio sotto quello del grasso piantatore, per impedirgli di camminare a sghimbescio, e tutti e tre si diressero verso la spiaggia, attraversando viuzze strette e oscurissime, non sentendosi in quei tempi il bisogno dell'illuminazione delle strade.
Quando sboccarono sul largo viale di palme, che conduceva al porto, Carmaux che fino allora era rimasto silenzioso, scosse il piantatore che pareva fosse lì lì per addormentarsi, dicendogli:
«Possiamo parlare; non v'è nessuno qui.»
«Ah! Già... il presidente... il segreto...» borbottò don Raffaele aprendo gli occhi. «Eccellente quell'Alicante... un altro bicchiere, señor Manco.»
«Non siamo più nella taverna, mio caro signore» disse Carmaux. «Se vorrete vi torneremo e vuoteremo altre due o tre bottiglie.»
«Eccellente... squisito...»
«Basta, lo sappiamo, veniamo al fatto. Voi mi avete promesso di darmi le informazioni che desideravo e badate che vi è di mezzo l'illustrissimo signor presidente dell'Udienza reale di Panama e vi avverto che quell'uomo non ischerza.»
«Sono un suddito fedele.»
«Bene, bene, señor.»
«Parlate, che cosa desiderate? Io sono amico del governatore... molto amico...»
«Un amicone, lo sappiamo. Ditemi, e aprite bene gli orecchi, e pensate bene quello che dite. È vera la voce corsa che qui si trovi la figlia del cavaliere di Ventimiglia, il famoso Corsaro Nero? È vera? Il signor presidente dell'Udienza vorrebbe saperlo.»
«Che cosa può importargliene?» chiese don Raffaele, con stupore.
«Né io né voi dobbiamo saperlo. È vero o no?»
«È vero.»
«Quando è giunta?»
«Saranno quindici giorni. L'hanno catturata su una nave olandese, caduta in potere d'una nostra fregata, dopo un sanguinoso combattimento.»
«Che cosa veniva a fare qui, in America?»
«Si dice che venisse a raccogliere l'eredità di suo nonno, Wan Guld. Il duca possedeva vaste tenute qui e anche a Costarica, che non sono mai state vendute.»
«È vero che è prigioniera?»
«Sì.»
«Perché?» «Voi vi scordate, sembra, quanto male abbia fatto a Maracaybo ed a Gibraltar suo padre, il Corsaro Nero.»
«Per vendicarsi, dunque.»
«E per impedirle di entrare in possesso dei beni del duca. Rappresentano dei bei milioni, che il governatore conta di far passare nelle casse proprie ed in quelle del governo.»
«E se il Piemonte o l'Olanda reclamassero la sua libertà? Voi sapete che non è suddita spagnola.»
«Vengano a prenderla, se l'osano.»
«Dove si trova ora?»
«Questo lo ignoro» disse don Raffaele dopo un po' di esitazione.
«Voi non lo volete dire.»
«Non voglio compromettermi col governatore, señor Manco.»
«Diffidereste di noi?»
Don Raffaele si era fermato, poi aveva fatto un passo indietro, guardando con spavento quei due avventurieri e maledicendo in cuor suo i galli, le bottiglie e la sua imprudenza.
«Voi non mi avete ancora data alcuna prova di essere veramente quelli che mi avete detto.»
«Ve le daremo le prove quanto prima, quando sarete a bordo del nostro legno. Venite con noi, non abbiate timore.»
«Sia, purché passiamo sull'altro viale.»
«Vi sono i doganieri colà e non desideriamo di essere veduti da nessuno. Venite o...» disse Carmaux con accento minaccioso, mettendo la destra sull'impugnatura dello spadone.
Il povero piantatore impallidì orribilmente, poi, tutto d'un tratto si slanciò, con un'agilità che non si sarebbe mai supposta in quel corpo così grosso e rotondo, fra le aiuole che dividevano i due viali, gridando con quanta voce aveva in gola:
«Aiuto doganieri! M'assassinano!»
«Carmaux aveva mandato una rauca imprecazione.
«Birbante! Ci fa prendere! Addosso amburghese!»
In due salti furono alle spalle del fuggiasco. Bastò un pugno di Wan Stiller per farlo cadere mezzo intontito.
«Presto il bavaglio!»
Carmaux si slacciò d'un colpo la fascia di lana rossa che gli stringeva i fianchi, e ravvolse intorno al viso del piantatore, non lasciandogli scoperto che il naso onde non morisse asfissiato.
«Prendilo per le braccia, amburghese, e lesti alla scialuppa. Per satanasso! I doganieri!»
«Buttiamolo in mezzo alle aiuole, Carmaux» disse l'amburghese.
Afferrarono il disgraziato piantatore e lo lasciarono cadere in mezzo ad un cespuglio di macupi le cui larghe foglie erano più che sufficienti per nasconderlo.
Si erano appena allontanati di pochi passi, quando una voce imperiosa gridò:
«Alt o facciamo fuoco.»
Due uomini, due doganieri, erano balzati sul viale, dirigendosi velocemente verso i due avventurieri..
Uno era armato d'un archibugio, l'altro invece teneva in pugno un'alabarda.
«Siamo persone oneste» rispose Carmaux. «Dove andiamo? A prendere una boccata d'aria. Questo maledetto lago è così pieno di zanzare che non si può dormire.»
«Chi ha gridato: Aiuto doganieri?»
«Un uomo che fuggiva, inseguito da un altro.»
«Da quale parte?»
«Da quella.»
«Voi mentite; veniamo appunto di là e non abbiamo veduto nessuno a fuggire.»
«Mi sarò ingannato» rispose Carmaux, placidamente.
«M'avete un'aria sospetta, miei signori. Seguiteci al posto e consegnate, innanzi tutto, le vostre spade.»
«Signor doganiere» disse Carmaux, con accento d'uomo offeso. «Non si arrestano due tranquilli cittadini che possono essere dei gentiluomini. Noi contrabbandieri! Per la morte di Belzebù volete scherzare?»
«Al posto di dogana e fuori le spade» ripeté il doganiere, alzando l'archibugio. «Si vedrà poi chi siete. Presto o faccio fuoco: è l'ordine.»
«Folgore» disse Carmaux volgendosi verso l'amburghese e levando la spada come se si preparasse a consegnarla.
Appena l'ebbe in pugno, con una mossa fulminea si gettò da un lato, per non ricevere la scarica in pieno petto e vibrò al doganiere una puntata così terribile in mezzo al ventre, da passarlo da parte a parte.
Quasi nello stesso momento Wan Stiller, il quale certo si era messo in guardia per la parola pronunciata dal compagno che doveva avere un significato, si precipitava sul secondo doganiere, che era ben lungi dall'attendersi quell'improvviso attacco.
Con un rovescione spezzò netto il manico dell'alabarda, poi colla guardia della spada lo percosse tremendamente sul cranio, facendolo stramazzare al suolo mezzo accoppato.
I due spagnoli erano caduti l'uno sull'altro, senza aver avuto il tempo di mandare un grido.
«Bel colpo, Carmaux» disse l'amburghese.
«E di corsa. La fortuna non protegge due volte di seguito.»
Volsero uno sguardo all'intorno e non vedendo nessuno, balzarono fra le aiuole e presero il piantatore per le gambe e le braccia, correndo poi verso la riva.
Don Raffaele, mezzo soffocato e anche mezzo morto di spavento, non aveva opposta alcuna resistenza, anzi non aveva nemmeno approfittato dell'intervento dei due doganieri per cercare di fuggire.
Presso la riva si trovava una di quelle scialuppe strettissime, chiamate baleniere, fornita d'un piccolo albero con un'antenna e di timone.
Carmaux e Wan Stiller vi salirono, deposero il piantatore fra i due banchi di mezzo, gli legarono le gambe e le braccia, lo copersero con un pezzo di vela, poi presero i remi e sciolsero l'ormeggio.
«È mezzanotte» disse Carmaux, dando uno sguardo alle stelle, «e la via è lunga. Non vi giungeremo prima di domani sera.»
«Teniamoci sotto la riva: vi è la caravella che veglia al largo.»
«Passeremo egualmente» rispose Carmaux. «Non inquietarti.»
«Alziamo la vela?»
«Più tardi. Avanti e non fare troppo rumore.»
La baleniera partì velocissima e silenziosa, rasentando la gettata, per tenersi all'ombra che proiettavano i filari delle altissime palme che si prolungavano per un buon tratto.
Nel porto tutto era silenzio. Le navi, ancorate qua e là, colle antenne e le vele calate sul ponte, erano deserte.
Gli spagnoli si credevano troppo sicuri in Maracaybo, per prendersi la briga di tenere uomini di guardia. Dopo l'ultima scorreria dei filibustieri della Tortue, guidati dall'Olonese, dal Corsaro Nero e dal Basco, avvenuta molti anni prima, avevano innalzati forti, che si credevano inespugnabili ed un gran numero di formidabili batterie, che collegavano i loro tiri fra la costa e le isolette davanti alla città.
I due avventurieri s'avanzavano con prudenza, non essendo permesso di notte di entrare nel porto e nemmeno di uscirne. Sapevano che al di là delle isolette una grossa caravella incrociava per impedire entrate sospette o fughe.
Quando la scialuppa raggiunse l'estremità della gettata, Carmaux e Wan Stiller deposero i remi ed issarono una piccola vela latina che era tinta in nero, affinché non la si potesse scorgere fra le tenebre.
Il vento era favorevole, soffiando dal lago e poi anche al di là sulla gettata, l'ombra continuava essendo la costa coperta da paletuvieri foltissimi e da palme mauritie assai alte.
«Sempre sotto?» chiese Wan Stiller, che si era collocato a poppa, alla barra del timone mentre Carmaux teneva la scotta.
«Sì, per ora.»
«Vedi la caravella?»
«Sto cercandola.»
«Che navighi coi fanali spenti?»
«Senza dubbio.»
«Sarebbe un guaio se la trovassimo sulla nostra rotta.»
«Ah! Eccola laggiù che sta girando la punta di quell'isoletta. Governa diritto. Non ci scorgeranno.»
La baleniera, messasi al vento, cominciò a filare colla velocità di uno squalo, radendo sempre la spiaggia.
In quindici minuti raggiunse il promontorio che chiudeva verso settentrione il piccolo porto e che era guardato da un fortino costruito sulla cima d'una rupe, vi girò intorno senza che le sentinelle l'avessero scorta e si diresse verso il nord per attraversare lo stretto formato fra la penisoletta di Sinamaica da un lato e le isole di Tablazo e di Zapara dall'altro, onde raggiungere il golfo di Maracaybo.
Ormai non avevano più nulla da temere, potendo spacciarsi per pescatori o per canottieri.
«Gettiamo le nostre vesti e diventiamo marinai» disse Carmaux. «Nessuno sospetterà di noi.»
Aprì una cassa che si trovava sotto la prora ed estrasse delle grosse casacche di panno grigio, delle fascie di lana e dei berretti terminanti a punta con grosso fiocco azzurro.
Legato il timone e la scotta, in pochi istanti si trasformarono, poi gettarono lungo i bordi alcune reti, lasciando cadere in acqua i sugheri.
«Vediamo come sta ora l'amico» disse Carmaux, quand'ebbe finito.
Levò la tela che copriva il disgraziato piantatore, poi lo sbarazzò della sciarpa che gli chiudeva la bocca.
Don Raffaele respirò a lungo, senza però aprire gli occhi.
«Il sonno è stato più forte della paura» disse l'avventuriero ridendo. «Quello Xeres e quell'Alicante erano proprio di prima qualità. Il capitano Morgan sarà ben lieto di questa cattura e penserà lui a far sciogliere la lingua al nostro prigioniero.»
«Purché non muoia sul colpo, risvegliandosi nelle mani dei filibustieri» disse Wan Stiller.
«Prenderemo le nostre precauzioni onde non spaventarlo tutto d'un tratto.»
«Avrebbe fatto meglio a spiattellare tutto ciò che sapeva intorno alla figlia del cavaliere di Ventimiglia.»
«L'avrei rapito egualmente.»
«Che cosa vuol farne Morgan di un abitante di Maracaybo?»
«Mio caro, potrà avere da questo imbecille delle preziose informazioni sul numero dei soldati che occupano i forti e dei cannoni che li armano.»
«Dunque è risoluto ad assalire la piazza?»
«Ora più che mai!»
«Avremo un osso duro da rodere, mio caro Carmaux. Hai veduto che opere imponenti hanno innalzato gli spagnoli? Maracaybo non è più quella che era quando l'espugnammo col Corsaro Nero e con quel diavolo di Olonese.»
«Siamo in buon numero e non ci mancano le artiglierie. I milioni di piastre che ricaveremo compenseranno largamente i rischi d'una simile impresa.»
«Purché la flotta non venga scoperta.»
«La baia di Amnay è ben coperta e nessuno scorgerà le nostre navi. D'altronde i nostri stanno in guardia e non si lasceranno sfuggire i curiosi e gli spioni.»
Essendo il vento sempre favorevole e tendendo anzi a rinfrescare sempre più, avvicinandosi l'alba, la baleniera guadagnava via con crescente rapidità.
Graziosamente piegata sul tribordo, coll'estremità del pennone inferiore quasi a fior d'acqua, scivolava senza far rumore sulle tranquille acque dell'ampia laguna, lasciandosi a poppa una striscia di spuma fosforescente.
I due filibustieri tacevano, però si grattavano di quando in quando con furore.
Erano le zanzare, le jejeus e le zancudos tempraneros, che di tratto in tratto calavano in nuvole fitte sulla scialuppa, punzecchiando ferocemente e dolorosamente i due avventurieri.
Esse sono un vero flagello per quelle regioni e non lasciano tregua. In certe ore del giorno volteggiano le prime; di notte sono le seconde che si mettono in campagna e che montano la guardia, come dicono gl'indiani caraibi.
E come sono dolorose le loro punture! Tanto che i poveri indiani, che non sono vestiti, preferiscono affrontare un feroce giaguaro, piuttosto che imbattersi in una nuvola di zancudos.
Fortunatamente l'alba non era lontana. Le stelle cominciavano a scolorirsi e verso oriente una pallida striscia bianca con delicate sfumature rosa, cominciava a delinearsi al di sopra dei cupi ed immensi boschi della costa d'Altagracia e di La Rita.
Tablazo, una delle due isole che chiudono o meglio riparano la laguna dalle ondate del golfo, si disegnava già colle sue belle e ricche piantagioni di cacao e di canne da zucchero e coi suoi pittoreschi villaggi, fondati sui bassifondi e abitati dagl'indiani.
Quei villaggi, che allora s'incontravano dappertutto lungo le coste del golfo e della laguna di Maracaybo e che oggi sono piuttosto rari, davano un aspetto oltremodo grazioso a quella regione chiamata dai primi scopritori spagnoli Venezuela, ossia piccola Venezia.
Ogni villaggio era formato da una sola abitazione, lunga parecchie centinaia di metri, capace però di contenere qualche centinaio di famiglie o anche più.
Quelle lunghe case, situate a tre o quattrocento passi dalla riva e talvolta anche più lontano, viste in lontananza sembravano case galleggianti, invece erano costruite su solide palafitte, formate da pali di gajac tanto robusti da sfidare la scure e anche la sega e che rimanendo immersi si diceva acquistassero la durezza del ferro.
Sopra i pali quegli abili costruttori avevano formato un'immensa piattaforma di legno leggiero, di bombax ceiba o di cedro nero, poi con bambù intrecciati innalzavano le abitazioni, coprendole con foglie di cenea o di vihai che sostituivano abbastanza bene le tegole o le ardesie.
Non esistevano pareti, regnando tutto l'anno un calore intenso, quindi i naviganti potevano vedere, senza fatica, ciò che accadeva in quelle strane abitazioni, senza prendersi l'incomodo di entrarvi.
La laguna cominciava a popolarsi.
Dei canotti scavati nel tronco d'un cedro odoroso, montati da indiani quasi interamente nudi, scivolavano rapidamente sulle acque, lasciandosi dietro delle lunghe file di grosse zucche che le piccole ondate presto disperdevano; al largo alcune piccole caravelle veleggiavano lentamente, aspettando l'alta marea per approdare nei minuscoli porti dell'isoletta.
«Sotto o sopravvento?» chiese l'amburghese.
«Stringi sempre la costa» rispose Carmaux. «Passeremo fra Zapara e la costa.»
Capitolo terzo
La flotta dei filibustieri
Alle otto del mattino, la scialuppa superava di volata lo stretto formato dalla punta orientale dell'isola di Zapara e la costa di Capatarida, entrando nel golfo di Maracaybo.
Quantunque i due filibustieri avessero incontrate due grosse caravelle da guerra ed anche un galeone, nessuno li aveva disturbati, né avevano chiesto loro chi erano e dove si recavano.
Le reti che tenevano lungo i bordi, dovevano aver fatto supporre agli spagnoli che fossero dei tranquilli pescatori e perciò nessuno si era preso la briga di fermarli.
Appena giunti fuori dallo stretto, Carmaux e Wan Stiller misero la prora verso l'est, tenendosi un po' lontani dalla costa, essendo quella cosparsa di bassifondi, dai quali sorgevano ancora in buon numero dei villaggi di caraibi.
Anche in quel luogo si vedevano galleggiare moltissime grosse zucche, fra le quali nuotavano e giuocherellavano un bel numero di anitre e di gallinelle acquatiche, senza manifestare alcuna paura per quei galleggianti.
«Dimmi un po', Carmaux» disse Wan Stiller. «Servono a nutrire i pesci tutte quelle zucche? Ne sai qualche cosa tu?»
«No, servono a prendere gli uccelli acquatici, mio caro amburghese.»
«Scherzi?»
«Parlo da senno. Come tu sai tutti gli uccelli marini sono assai diffidenti e non si lasciano quasi mai accostare dalle scialuppe. I caraibi gettano dunque un gran numero di zucche che sono legate le une alle altre, con liane lunghissime, per abituare i volatili alla loro presenza. Quando credono giunto il buon momento, degli abili nuotatori si gettano in acqua, colla testa cacciata entro una zucca nella quale prima praticano alcune aperture per poter vedere liberamente.»
«Comprendo» disse Wan Stiller, ridendo. «Protetti dalla zucca s'avvicinano ai volatili e li tirano sott'acqua.»
«Precisamente» rispose Carmaux, «e ti posso dire anche che fanno delle caccie abbondanti e che non tornano mai ai loro villaggi senza portare, appesi alla cintura, otto o dieci volatili. Quando poi...»
Uno sternuto sonoro gl'interruppe la frase. Don Raffaele aveva aperti gli occhi, e faceva sforzi disperati per alzarsi e per rompere i legami che gli imprigionavano le mani ed i piedi.
«Buon giorno, señor» disse Carmaux. «Pare che fosse veramente di prima qualità, quell'Alicante.»
Il disgraziato piantatore lo guardò con due occhi strambuzzati, poi digrignando i denti, disse con voce rauca:
«Siete due malandrini.»
«Malandrini! Oibò! V'ingannate, señor» rispose Carmaux. «Siamo più galantuomini di quello che credete e potrete persuadervene frugando le vostre tasche, appena vi avremo sciolte le mani.
«Che cosa volete dunque da me? Perché m'avete rapito? Suppongo che non mi ripeterete la storiella del signor presidente dell'Udienza reale di Panama.»
«Veramente quel signore non c'entra più» disse Carmaux. «Vi condurremo però dinanzi ad una persona che è non meno potente e che del pari non scherza.»
«Chi è costui?»
«Un altissimo personaggio, che pare s'interessi assai della sorte della figlia del Corsaro Nero e che farà di tutto per salvarla.»
«Toglierla al governatore!... Eh, via, quell'uomo non se la lascerà sfuggire.»
«La vedremo, quando i cannoni smantelleranno le fortezze di Maracaybo» rispose Carmaux. «Venti anni or sono quegli stessi pezzi hanno spazzato via la guarnigione.»
Don Raffaele era diventato spaventosamente pallido.
«Sareste dei filibustieri, voi?» chiese con voce strozzata.
«Per servirvi, señor.»
«Misericordia!... Sono un uomo morto!...»
«Non mi sembra, almeno per ora» disse Carmaux, ironicamente.
«Chi è il vostro capo?»
«Morgan.»
«L'antico luogotenente del Corsaro Nero!... Il vincitore di Portobello?»
«Lo stesso.»
«Povero me!... Povero me!...» sospirò il disgraziato.
«Oh! Non spaventatevi tanto, señor» disse Carmaux. «Il capitano Morgan non ha mai mangiato alcuno e passa per un buon gentiluomo.»
«Sì, un gentiluomo che ha fatto massacrare tutti i frati e tutte le monache di Portobello.»
«Già, è l'inferno che ci ha vomitati» disse l'amburghese ridendo. «Così almeno dicono i vostri frati.
«Señor, lasciate andare le vostre collere, e accettate un crostino. Abbiamo qui un po' di biscotto, una bella anitra arrostita ieri mattina e anche un paio di bottiglie di vino spagnolo, che non varranno meno di quelle del taverniere.
«È poca cosa per un signore pari vostro, ma per il momento non abbiamo di meglio da offrirvi.»
Carmaux trasse dalla cassa le provviste, ne fece tre parti uguali e slegò le braccia al prigioniero, dicendo:
Don Raffaele, a cui la brezza marina aveva messo indosso un certo appetito, pur brontolando e roteando gli occhi, si mise a mangiare e non rifiutò un paio di bicchieri di Porto offertigli con gentilezza un po' ironica da Carmaux, né un eccellente sigaro di tabacco di S. Cristoforo regalatogli dall'amburghese.
A mezzodì la baleniera si trovava già nelle acque del golfo Caro, formato da una parte dalla costa venezuelana e dall'altra dalla penisola di Paraguana.
L'amburghese, che teneva sempre il timone e che si regolava su di una bussola tascabile, mise la prora verso il capo Cardon, che già si delineava vagamente sull'orizzonte.
Il golfo era deserto, poiché di rado le navi spagnole ardivano spingersi lontane dai porti ben difesi, se non erano in buon numero e per lo meno scortate da qualche nave d'alto bordo, per paura di venire catturate dai terribili corsari della Tortue.
La baleniera continuò tutto il giorno ad inoltrarsi verso settentrione, favorita da una brezza sempre fresca e dalle acque che erano appena mosse. Nel momento in cui il sole tramontava, giungeva dinanzi alla baia d'Amnay, rifugio in quell'epoca affatto disabitato e molto di rado frequentato dalle navi, che non vi cercavano un approdo se non in causa di qualche violentissima tempesta.
«Ci siamo» disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.
Il disgraziato piantatore, che dopo la colazione si era chiuso in un ostinato silenzio, sospirò a lungo, senza rispondere.
La scialuppa manovrò per alcuni minuti in mezzo ad alcune catene di scoglietti a fior d'acqua, poi si cacciò arditamente nella baia, alla cui estremità si vedevano delle masse oscure sormontate da alte alberature ed antenne.
«Che cosa sono? Delle navi?» chiese don Raffaele che erasi fatto smorto.
«È la flotta del capitano Morgan» rispose Carmaux.
«Una flotta?»
«Che farà buona prova contro i forti di Maracaybo.»
Dietro una punta rocciosa era comparsa improvvisamente una grossa fregata, che si trovava ancorata dinanzi alle altre navi, in modo da sbarrare l'entrata della baia,.
«Ohè!» gridò Carmaux, facendo portavoce colle mani.
«Chi vive?» gridò una voce alzatasi sul ponte della nave.
«Fratelli della Costa: Carmaux e Wan Stiller. Calate la scala!»
La baleniera accostò la nave sotto il tribordo e si ormeggiò all'estremità della scala di corda, che era stata subito gettata dagli uomini di guardia.
«Señor, coraggio» disse Carmaux, sciogliendo le corde che stringevano le gambe del piantatore.
«Sì, ne avrò per morire» disse don Raffaele con voce cupa.
Quantunque si sentisse tremare le gambe, si aggrappò alla scala e dopo una mezza dozzina di sospiri, gli uni più profondi degli altri, si trovò sulla nave ammiraglia della flotta corsara.
Alcuni uomini, armati fino ai denti e muniti di lanterne, accorsero subito circondandolo e guardando con viva curiosità.
«Il capitano?» chiese Carmaux.
«È nella sua cabina.»
«Fate chiaro. Venite, señor e non tremate tanto.»
Prese il piantatore per un braccio e, parte spingendolo e parte tirandolo, lo condusse nel quadro, introducendolo in un salotto che era illuminato da una lampada d'argento e che aveva le pareti coperte d'armi da fuoco e da taglio.
Un uomo di mezza età, di statura piuttosto bassa, ma robustissimo, dall'aspetto fiero, cogli occhi nerissimi e vivaci, stava seduto dinanzi ad un tavolo tenendo dinanzi a sé delle carte marine, che stava esaminando con profonda attenzione.
Vedendo entrare i due uomini s'alzò quasi di scatto, chiedendo:
«Che cosa mi porti, mio bravo Carmaux?»
«Un uomo, signore, che potrà dirvi quanto desiderate sapere sulla figlia del cavaliere di Ventimiglia.»
Una rapida emozione alterò per un istante i fieri lineamenti del terribile corsaro.
«È là, è vero?» chiese a Carmaux.
«Sì, capitano.»
«Nelle mani degli spagnoli?»
«Prigioniera del governatore.»
«Grazie, Carmaux: esci e lasciami solo con quest'uomo.»
Capitolo quarto
Morgan
Morgan, dopo la scomparsa del suo comandante, il Corsaro Nero, non aveva abbandonato il golfo del Messico, né i filibustieri della Tortue.
Dotato d'una forza d'animo straordinaria, d'un coraggio a tutta prova e di larghe vedute, non aveva tardato a farsi largo fra i Fratelli della Costa, i quali si erano ben presto accorti che quell'uomo avrebbe potuto condurli a grandi imprese.
Possessore ancora d'una discreta fortuna, raccolti gli avanzi dell'equipaggio della Folgore, si era subito messo in mare, accontentandosi dapprima di assalire le navi isolate, che commettevano l'imprudenza di solcare senza scorta, le acque di San Domingo e di Cuba.
Quella crociera, più pericolosa che fruttifera, durava daparecchi anni con varia fortuna, quando gli venne offerto il comando di una squadra composta di dodici navi fra grosse e piccole, con un equipaggio di settecento uomini, per tentare qualche grossa impresa a danno degli spagnoli.
Morgan non aspettava che l'occasione di aver forze sufficienti, per realizzare i suoi grandiosi progetti.
Salpò quindi dalla Tortue annunciando che va ad assalire Puerto del Principe, una delle più ricche e anche delle meglio difese città dell'isola di Cuba.
Un prigioniero spagnolo che era a bordo della sua flotta, con un coraggio temerario si gettò in acqua e, riuscito a prendere terra, corse ad avvertire il governatore di quella città del pericolo che la minacciava.
Il governatore aveva sottomano ottocento soldati valorosissimi e sapeva di poter contare sulla popolazione.
Marciò sui corsari ed impegnò un disperato combattimento, ma dopo quattro ore i suoi soldati volgono in fuga, lasciando sul campo di battaglia fra morti e feriti più di tre quarti di loro.
Lo stesso governatore era caduto.
Morgan, imbaldanzito della vittoria, assaltò la città e, nonostante la difesa opposta dagli abitanti, se ne impadronì e la saccheggiò con poco profitto però, perché gli abitanti avevano avuto tempo di nascondere nei boschi le loro migliori cose.
Saputo da una lettera che era stata intercettata, che un grosso corpo di spagnoli accorreva da Santiago per cacciarli dalla città, i filibustieri si guastarono col loro capo, che accusavano di averli condotti ad una impresa più pericolosa che fruttifera.
Una rissa nata fra i marinai francesi ed inglesi, che formavano gli equipaggi fece nascere una viva discordia. I primi si separarono da Morgan; i secondi invece, che disponevano di otto navi, giurarono di seguirlo ovunque egli volesse condurli.
Si parlava molto in quell'epoca dell'opulenza di Portobello, una delle più belle città dell'America centrale, che riceveva tesori immensi da Panama, ma che era anche una delle meglio fortificate e delle meglio guardate.
Nella mente audace di Morgan, nasce l'idea di piombare su quella città e di tentarne l'espugnazione.
Quel progetto sembrava così temerario che i filibustieri crollarono la testa quando li avvertì del suo disegno.
«Che importa» disse allora il fiero corsaro, «se piccolo è il nostro numero, quando grandi sono i nostri cuori?»
Come resistere a quell'uomo? E la squadra, fidando nell'abilità del suo ammiraglio, veleggiò verso Portobello. Era l'anno 1668.
Morgan approdò di notte a qualche miglio dalla città; lasciò un piccolo numero a guardia dei legni; fece salire il grosso sulle scialuppe ed i filibustieri s'accostarono silenziosamente ai forti.
Quattro marinai che servivano da perlustratori, s'impadronirono d'una sentinella spagnola e la portano a Morgan, il quale riuscì a ottenere le notizie che gli erano necessarie per predisporre l'assalto.
Poi la fece condurre sotto uno dei forti perché invitasse la guarnigione ad arrendersi, se non voleva essere tagliata a pezzi.
Portobello aveva due castelli, ritenuti da tutti inespugnabili, presidiati ognuno da trecento soldati e armati di un buon numero di cannoni. Morgan assaltò il primo, dopo un sanguinoso combattimento vi penetrò alla testa dei suoi, rinchiuse la guarnigione in un recinto, mise una miccia al magazzino delle polveri e fece saltare spagnoli e castello insieme!...
Lieti di quel primo ed insperato successo, i filibustieri corsero verso la città, per assalire il secondo ma vennero accolti da un fuoco così terribile, che cominciarono a dubitare dell'esito dell'ardita impresa.
Morgan fece uscire dai conventi e dalle chiese tutti i frati e tutte le monache e procuratesi dodici lunghe scale, li obbliga a piantarle essi medesimi nei fossati, servendosi di loro come di baluardo per proteggere i propri uomini.
Gli spagnoli, sordi alle grida strazianti dei monaci e delle monache, fermi nel volersi difendere, non cessarono il fuoco, e fecero una strage completa di quei miseri e di quelle disgraziate.
Nondimeno i filibustieri non si perdettero ancora d'animo, riuscirono a salire sulle mura, allontanando con granate i difensori e si impadronirono anche del secondo castello.
La lotta non era però ancora finita, poiché un terzo forte dominava la città ed era quello on cui si era rinchiuso il governatore.
Morgan intimò la resa, promettendo al presidio salva la vita. L'intimazione ebbe per risposta una salva di cannonate.
I filibustieri, che sono ormai risoluti a tutto, non ostante le perdite tremende che subivano, e l'eroica difesa del presidio, scalarono anche quelle mura colla sciabola alla mano e, incredibile a dirsi, riuscirono a prendere anche il terzo castello. Il governatore e tutti gli ufficiali vi avevano lasciata la vita. I superstiti furono risparmiati.
Così in un solo giorno quel terribile corsaro, senza artiglierie e con quattrocento soli uomini, riusciva a espugnare una delle più cospicue città dell'America, che era l'emporio maggiore delle colonie spagnole dopo Panama, in fatto di metalli preziosi.
Il bottino fu immenso; eppure Morgan ebbe ancora l'audacia di mandare due prigionieri al presidente dell'Udienza Reale di Panama, coll'incarico di chiedergli cento mila piastre per il riscatto della città!...
Quel presidente aveva millecinquecento uomini. Andò per scacciare i corsari e... fu battuto e costretto a tornarsene sulle rive dell'Oceano Pacifico!... Però, sperando di ricevere nuovi rinforzi, intimò a Morgan di lasciare la città.
Morgan gli rispose che se non la riscattava l'avrebbe incendiata e avrebbe ucciso tutti i prigionieri. E le centomila piastre furono mandate.
Il riposo non era fatto per l'allievo del Corsaro Nero.
Risvegliatasi in Europa la guerra contro la Spagna, nel 1669, chiese patente di corso al governatore della Giamaica, il quale non solo gliela accordò, ma gli offerse anche il comando di un vascello di trentasei cannoni, perché assalisse le colonie spagnole.
Morgan andò ad incrociare nelle acque di San Domingo, con la speranza di fare grossi bottini, ma la nave gli saltò in aria con trecento dei suoi uomini, ed egli si salvò per miracolo.
Il fuoco alle polveri era stato impiccato da alcuni francesi che aveva fatto incatenare, perché si erano messi ai servigi della Spagna a danno degl'inglesi.
Avendo però costoro un vascello poderoso come quello che gli era stato affidato dal governatore della Giamaica, Morgan coi marinai superstiti se ne impadronì e tornò trionfante alla Tortue per organizzare una grossa spedizione.
Già aveva radunati parecchi legni montati da ben novecento filibustieri e si preparava a rivolgersi verso le città del Venezuela che promettevano ricchi saccheggi, quando si sparse la voce che la figlia del suo antico capitano, del Corsaro Nero, era giunta nelle acque del Golfo del Messico e che gli spagnoli l'avevano catturata, per vendicarsi del male che aveva fatto suo padre, diciassette anni prima, ai possedimenti del grande Carlo V.
Come abbiamo già detto, Morgan non aveva più avuto notizie del terribile corsaro. Solo aveva molti anni prima ricevuto un anello che recava le armi intrecciate dei signori di Ventimiglia e di Roccabruna e dei duchi di Wan Guld, lo stemma della donna che amava e solo delle vaghe voci erano giunte, a lunghi intervalli, alla Tortue, sparse da filibustieri provenzali e savoiardi, che asserivano essersi quell'intrepido gentiluomo ritirato nei suoi castelli del Piemonte, dopo aver sposata la figlia del suo implacabile nemico.
Un marinaio olandese, che montava la nave catturata dagli spagnoli e nella quale si trovava la figlia del Corsaro Nero, sfuggito miracolosamente alla rabbia degli assalitori, aveva portato alla Tortue la notizia del suo arrivo in America e della sua cattura, provocando una enorme sensazione fra i filibustieri, che non avevano ancora scordato il fiero cavalier di Ventimiglia, che per tanti anni li aveva condotti alla vittoria.
Soprattutto Morgan, che conservava una vera venerazione per il suo antico capitano, era stato profondamente colpito. Fino allora aveva ignorato che il Corsaro Nero avesse avuto dal suo matrimonio una figlia e che fosse morto sulle Alpi in difesa del suo forte Piemonte e dei Duchi Savoiardi.
Fatto cercare il marinaio olandese e avuta la conferma che sulla nave catturata si trovava realmente la figlia del suo capitano, apprese che era stata condotta prigioniera a Maracaybo. Allora non ebbe più che una sola idea: andare a salvarla, a costo di devastare tutte le città spagnole del Venezuela.
La proposta, fatta ai filibustieri della squadra, gente ruvida e feroce se vogliamo, ma di gran cuore, era stata senz'altro accettata e le navi erano salpate, mettendo risolutamente la prora al sud.
Disgraziatamente una fiera tempesta le aveva assalite, prima di avvistare le coste venezuelane, disperdendole in varie direzioni, e di quindici, solamente otto erano riuscite a rifugiarsi nella baia di Amnay. Di là Morgan aveva inviati Wan Stiller e Carmaux, i due marinai fidati del Corsaro Nero, a Maracaybo per avere notizie più precise sulla sorte toccata alla figlia del gentiluomo piemontese o perché gli portasse qualche prigioniero che gli fornisce più dettagliate informazioni...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Uscito Carmaux, Morgan si era messo ad osservare con un certo interesse il piantatore, che si teneva appoggiato ad una parete, pallido come un cencio di bucato e tremante come se avesse la febbre terzana.
«Voi siete?» gli chiese finalmente, con voce secca.
«Don Raffaele Tocuyo, señor capitano.»
«È vero che la figlia del cavaliere di Ventimiglia, o meglio del Corsaro Nero, è prigioniera a Maracaybo?»
«L'ho udito a raccontare.»
«Dove si trova?»
«Nelle mani del governatore: l'ho già detto ai vostri uomini.»
«Narratemi quanto sapete.»
Il piantatore, con voce tremante, non si fece pregare e gli raccontò quanto aveva già detto ai due filibustieri che lo avevano fatto prigioniero.
«È tutto?» chiese Morgan, piantandogli addosso uno sguardo scrutatore.
«Lo giuro, capitano.»
«Non sapete dove si trova rinchiusa?»
«No, ve lo assicuro» rispose don Raffaele, dopo un po' di esitazione che non isfuggì al corsaro.
«Eppure un uomo che frequenta la casa del governatore, dovrebbe saperne di più.»
«Non sono il suo confidente.»
«È giovane la figlia del Corsaro?»
«Mi hanno detto che non deve avere più di sedici anni e che somiglia a suo padre.»
«Di quali forze dispone il governatore di Maracaybo?»
«Ah!... Signore...»
Morgan corrugò la fronte ed un lampo minaccioso brillò nei suoi occhi nerissimi.
«Non sono abituato a ripetere la medesima domanda» disse con voce breve e tagliente come la lama d'una spada.
Batté le mani e Carmaux e Wan Stiller, che dovevano essersi messi di guardia nella corsìa, furono pronti ad entrare.
«Conducete sul ponte quest'uomo» disse Morgan.
«Che cosa volete fare di me, signore?» chiese don Raffaele spaventato. «Io sono un povero uomo inoffensivo.»
«Lo saprete subito.»
I due filibustieri lo presero per le braccia e lo condussero in coperta. Morgan li aveva seguìti.
Gli uomini di guardia vedendo comparire il comandante erano accorsi portando parecchie lanterne.
«Un cappio dal pennone d'artimone» disse loro Morgan, a mezza voce.
Un marinaio salì sulle griselle, scomparendo in mezzo alla velatura.
«Parlerete ora?» chiese Morgan, volgendosi verso il prigioniero, che era stato collocato presso l'albero di mezzana.
Don Raffaele non rispose. Il buon sangue spagnolo si era ridestato in lui e non si sentiva l'animo di commettere un tradimento.
Ad un tratto vacillò e mandò un urlo terribile.
Un gherlino era sceso silenziosamente dall'alto e Carmaux, ad un cenno di Morgan, aveva gettato al collo del piantatore il cappio, dandogli una stretta.
«Issa!» gridò Morgan.
«No... no... dirò tutto!» urlò il piantatore, portandosi le mani al collo.
«Vedete che ho degli argomenti irresistibili» disse il corsaro, ridendo ironicamente.
«Vi sono seicento soldati» disse don Raffaele, precipitosamente.
«È vero che il forte della Barra lo si giudica imprendibile?»
«Così si dice.»
Morgan alzò le spalle.
«Anche quelli di Portobello si ritenevano inespugnabili, eppure li abbiamo presi» disse. «Voi mi assicurate che la figlia del cavalier di Ventimiglia è la?»
«Lo ripeto.»
«Voi tornerete questa notte istessa a Maracaybo con una lettera per il governatore. Badate che io saprò trovarvi e punirvi se non eseguirete ciò che vi dico. Qui una lanterna.»
Strappò da un libbriccino una pagina, si levò da una tasca una matita, s'appoggiò alla murata e scrisse alcune righe.
«Cacciatevi bene queste parole nel vostro cervello onde possiate ripeterle al governatore, nel caso che smarriste il biglietto» disse poi, rivolgendosi a don Raffaele.
«Al signor Governatore di Maracaybo.
«Vi accordo ventiquattr'ore per mettere in libertà ed inviarmi la figlia del cavaliere di Ventimiglia e della duchessa di Wan Guld, il cui padre fu un tempo governatore di Maracaybo e suddito spagnolo.
«Se non obbedite, spianerò la città e se occorre anche quella di Gibraltar.
«Rammentatevi di ciò che hanno saputo fare i filibustieri guidati dal Corsaro Nero, da Pietro l'Olonese e da Michele il Basco, diciott'anni or sono.
Morgan
«Almirante della squadra della Tortue.»
«Carmaux, fa preparare una scialuppa montata da otto uomini ed inalberare la bandiera bianca. Condurranno questo señor a Maracaybo.»
«Dobbiamo accompagnarli io e Wan Stiller?»
«Avete bisogno di riposo: restate a bordo. Andate señor e badate che la vostra pelle è ormai segnata. Sta in voi a salvarla.»
Ciò detto tornò nella sua cabina, mentre il povero piantatore scendeva nella scialuppa che era stata già calata in acqua.
Capitolo quinto
La presa di Maracaybo
Le ventiquattro ore erano trascorse senza che notizia alcuna fosse giunta alla flotta filibustiera, che non aveva lasciato il suo ancoraggio; peggio ancora, nemmeno la scialuppa aveva fatto ritorno, quantunque il mare si fosse mantenuto sempre calmo e il vento non avesse cessato di soffiare.
Una profonda commozione si era impadronita dei cinquecento corsari che equipaggiavano la flotta, temevano che gli spagnoli di Maracaybo non avessero rispettata la bandiera bianca inalberata sulla scialuppa, ciò che altre volte era accaduto.
Anche Morgan, di solito così calmo, cominciava a dar segni non dubbi d'una viva irritazione, passeggiando sulla coperta con passo agitato e la fronte corrugata.
Carmaux e Wan Stiller erano addirittura furiosi. «Sono stati presi ed impiccati» ripeteva il primo. «Non rispettano nemmeno i nostri parlamentari. Eppure siamo belligeranti patentati, essendo la Spagna in guerra colla Francia e coll'Inghilterra.»
«Il capitano li vendicherà, amico Carmaux» rispondeva l'amburghese.
«Raderemo Maracaybo al suolo. Questa volta non la risparmieremo, come quando ci siamo andati col Corsaro Nero e coll'Olonese.»
Altre dodici ore trascorsero in continue impazienze ed in attese vane. Già Morgan, d'accordo con Pierre le Picard,() suo secondo nel comando della squadra, si accingeva a dare il comando di salpare le àncore, quando agli ultimi raggi del sole fu scorto un piccolo canotto indiano montato da un solo uomo e che arrancava faticosamente, cercando d'imboccare la piccola baia.
Gli fu mandata incontro una scialuppa montata da dodici uomini, e venti minuti dopo quell'uomo si trovava a bordo della nave ammiraglia, dinanzi a Morgan.
Un grido di sorpresa e di rabbia era sfuggito a tutti i marinai, riconoscendo in lui uno degli otto filibustieri incaricati di scortare il piantatore.
«Dove sono i tuoi compagni?» chiese Morgan, dopo d'averlo lasciato vuotare una tazza di rum, tanto quel povero diavolo appariva sfinito dalla fatica.
«Impiccati, capitano» rispose il filibustiere. «Essi penzolano da sette forche erette sulla Plaza Maior di Maracaybo, nell'istesso luogo ove diciott'anni or sono fu preso il Corsaro Rosso, il fratello del signore di Ventimiglia.»
Un lampo terribile era guizzato negli occhi dell'Almirante della squadra.
«Impiccati! ...» gridò con voce terribile.
«Per ordine del governatore.»
«Malgrado la bandiera bianca?»
«Che hanno subito stracciata sotto i nostri occhi, dopo averci fatti sbarcare e averci accolti come parlamentari.»
«E non vi siete difesi?»
«Ci avevano prima invitati a deporre le armi, promettendo di rispettarci come messi di pace.»
«Miserabili!... E perché ti hanno risparmiato?»
«Perché vi recassi la risposta del governatore.»
«L'hai?»
«Eccola» disse il filibustiere levandosi dalla fascia di lana che gli cingeva i fianchi, un biglietto.
Morgan se ne impadronì vivamente, gettandovi sopra gli occhi.
Non conteneva che due righe:
«Aspetto a Maracaybo i filibustieri della Tortue per impiccarli tutti.
Il governatore della piazza».
Morgan stracciò con ira il biglietto, poi rivolgendosi al marinaio, chiese:
«Ti ha detto nulla della figlia del cavaliere di Ventimiglia?»
«Sì, che andate a prenderla, se ne avete il coraggio.»
«E la prenderemo» rispose Morgan.
Poi, con voce tuonante, in modo da poter essere udito anche dai marinai delle altre navi, gridò:
«Si salpino le àncore e si sciolgano le vele. Prima di domani sera Maracaybo sarà nostra.»
Un urlo immenso, alzatosi su tutte le navi, rispose:
«A Maracaybo!... A Maracaybo!...»
Mezz'ora dopo le otto navi lasciavano la baia, veleggiando verso il golfo. La Folgore - che era la nave di Morgan, così battezzata a ricordo della valorosa nave del Corsaro Nero - apriva la via.
Era la più grossa di tutte, una fregata a tre alberi, armata di trentasei cannoni di grosso calibro, fra cui alcuni pezzi da caccia e montata da ottanta uomini che nulla temevano.
Le altre, che erano quasi tutte caravelle predate agli spagnoli, ma armate di numerosi pezzi di cannone, di petriere e di grosse spingarde, la seguivano in una doppia colonna, tenendosi ad una distanza di cinque o seicento metri l'una dall'altra, onde aver campo sufficiente per manovrare senza correre il pericolo d'investirsi.
Tutte avevano i fanali spenti. Tuttavia, quantunque la luna mancasse, la notte era abbastanza chiara, essendo l'aria delle regioni tropicali ed equatoriali d'una purezza straordinaria.
Morgan, che si trovava sul ponte di comando, scrutava attentamente l'orizzonte, essendogli stato riferito giorni innanzi che tre grosse navi spagnole avevano lasciati i porti di Cuba per dargli la caccia e assalirlo prima che tentasse qualche altra impresa contro le città del continente.
Carmaux, che era il suo fido, si trovava con lui e scambiavano qualche parola.
«Mi viene però un dubbio, capitano» disse Carmaux.
«E quale?»
«Che il governatore, conoscendo lo scopo della nostra spedizione e sapendoci vicini, approfitti del nostro ritardo per far trasferire altrove la figlia del signor di Ventimiglia.»
Una ruga profonda si era disegnata sull'ampia fronte di Morgan.
«Se non ritrovassi quella fanciulla» disse con voce minacciosa, «non darei una piastra di tutte le pelli degli spagnoli di Maracaybo. Tu sai che so essere gentiluomo come il signor di Ventimiglia; ma anche tremendo ed implacabile come Pietro l'Olonese, che fu il più feroce e spietato filibustiere della Tortue.»
«Quel cane di governatore, che mi fu dipinto come un uomo avidissimo e che fu un tempo amico intimo del duca Wan Guld, il suocero del signor di Ventimiglia, sarebbe capace di farla scomparire.»
«Sventura a lui. Come il Corsaro Nero fu implacabile contro il duca, io non lo sarò meno col governatore di Maracaybo e lo perseguiterei fino alla morte. Ah! Se la figlia del nostro vecchio condottiero ci avesse avvertiti del suo arrivo in America, gli spagnoli non l'avrebbero presa. Tutti i più celebri filibustieri della Tortue si sarebbero tenuti onorati di scortarla e di proteggerla. È strano che non si sia ricordata che suo padre contava fra noi un numero così immenso di amici e di camerati devoti e che ignorasse che alla Tortue egli possiede ancora una villa e delle piantagioni che io solo amministro da diciassette anni.»
«Forse era sua intenzione di giungere fra noi improvvisamente e, senza l'incontro colla fregata spagnola che ha catturata la nave olandese, sarebbe già la regina della Tortue.»
«Ah!... Guarda Carmaux!...»
«Che cosa, capitano?»
«Dei fanali laggiù che navigano verso il nord.»
«Che siano i tre vascelli che sono incaricati di darci la caccia? Ho udito a raccontare che sono navi grosse, d'alto bordo, equipaggiate da biscaglini e capaci d'affrontare una squadra ben più numerosa della nostra. In guardia con quei lupi, capitano.»
«Quei fanali vanno verso il settentrione, quindi non li incontreremo sulla nostra rotta» rispose Morgan.
«Purché non facciano rotta falsa, per poi piombarci alle spalle quando saremo impegnati coi cannoni del forte della Barra a Maracaybo» disse Carmaux.
«Giungeranno troppo tardi. Va ad avvertire Pierre le Picard di stringere contro la costa e fa chiamare in coperta tutti gli uomini.»
Mentre venivano eseguiti i suoi ordini, Morgan seguiva attentamente cogli sguardi i sei punti luminosi che continuavano ad allontanarsi dal golfo di Maracaybo, anziché accorrere in difesa della città. Quando li vide scomparire sul fosco orizzonte, respirò liberamente e la ruga che si delineava sulla fronte, scomparve.
«Se torneranno, giungeranno a cose finite» mormorò. «Quando sorgerà l'alba, noi saremo sotto il forte della Barra e vedremo se gli spagnoli resisteranno a lungo.»
Le otto navi che formavano la squadra si erano ripiegate verso la costa, stringendo il vento il più possibile. Già l'isola di Zapara era in vista sulle sue spiagge non brillava nessun fuoco che annunciasse qualche sorveglianza da parte degli spagnoli.
Mancava qualche ora all'alba, quando la squadra, ancora da nessuno avvistata, entrava a gonfie vele nella laguna di Maracaybo, passando fra la penisoletta di Sinamaica e la punta occidentale di Tablayo.
Tutti gli uomini erano già ai loro posti di combattimento, dietro le brande accumulate sui bastingaggi o nelle batterie dietro ai pezzi, ed i comandanti sui ponti col portavoce in mano.
«Carmaux» disse Morgan che fissava il forte della Barra, già in vista. «Dà ordine ai nostri artiglieri di non far fuoco, anche se gli spagnoli ci bombardano.
Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando la squadra comparve improvvisamente nelle acque battute dal forte, disposta su una sola linea, colla Folgore nel centro.
L'allarme era stato già dato e l'intera guarnigione era uscita frettolosa dalle casematte per accorrere sugli spalti del castello. Quei soldati dovevano però essere ben sorpresi di vedersi piombare addosso, all'improvviso, quella squadra che non era stata fino allora segnalata nemmeno dalle caravelle incaricate della vigilanza della bocca della laguna.
Probabilmente il governatore, non credendo alla minaccia di Morgan, non si era preso nemmeno il fastidio di avvertire il comandante del forte di prepararsi alla difesa.
Gli spagnoli però non si perdettero d'animo ed accolsero la squadra con un furioso cannoneggiamento, credendo di affondarla facilmente o per lo meno di costringerla a tornare nel golfo.
Avevano però da fare con gente che non s'inquietava gran che delle cannonate.
Malgrado quella grandine di palle, le navi corsare continuavano tranquillamente ad accostarsi, senza prendersi la briga di rispondere.
Qualche albero e qualche pennone cadeva, qualche murata si sfasciava qualche filibustiere venivano mutilato o fulminato da quelle incessanti scariche, eppure nessuno osava trasgredire l'ordine dato da Morgan, tanto era ferrea la disciplina che regnava sui vascelli corsari.
Già la Folgore non si trovava che a due gomene dalla spiaggia e si preparava a calare in mare le scialuppe, quando tutto quel furioso cannoneggiamento come per incanto cessò.
Diradatosi il fumo che ondeggiava sugli spalti, gli equipaggi con loro grande stupore non scorsero più nessun uomo dietro alle artiglierie.
«Che cosa vuol dir ciò?» si chiese Morgan, che non aveva abbandonato per un solo istante il ponte di comando. «Che si arrendano? Eppure ritenevano questo forte inespugnabile. Pierre le Picard!...»
Il filibustiere che portava quel nome e che, come abbiamo detto, aveva il comando in seconda e che godeva fama di essere uno dei più intrepidi Fratelli della Costa, lasciò la ribolla del timone, raggiungendo il comandante.
«Che cosa ne pensi tu di questo improvviso silenzio?» gli chiese Morgan. «Che nasconda qualche sorpresa?»
«Vado ad assicurarmene» rispose il filibustiere, senza esitare. «Datemi quaranta uomini, tenetene pronti altri cento e do la scalata al forte.»
Le scialuppe erano state già calate in acqua. Il filibustiere scelse i suoi uomini e vogò verso terra, mentre le altre navi si preparavano a sbarcare parte dei loro equipaggi, onde appoggiarlo nell'ardimentosa impresa.
Morgan, che temeva una sorpresa, fa scaricare tutti i venti cannoni di tribordo, tempestando le difese avanzate del castello, ma nessuno rispose, né alcun soldato si mostrò.
I quaranta corsari della Folgore, sbarcati a terra, presero a scalare le rocce, armati solamente d'una pistola e d'una corta sciabola, lottando in celerità per giungere primi. Giunti sotto le mura scagliarono fra i merli alcune granate mandandole a scoppiare al di là delle cinte, poi montando gli uni sulle spalle degli altri, si arrampicarono sulla cinta esterna e la scalarono mandando urla terribili.
Non trovano altro che i cannoni e pochi fucili abbandonati dal nemico nella sua precipitosa ritirata. Il presidio, credendo di non poter arrestare i corsari e spaventato dal numero delle navi, si era ritirato precipitosamente in Maracaybo, accontentandosi di mettere una miccia accesa al magazzino delle polveri, perché con esse saltassero in aria anche i nemici.
Fortunatamente i corsari non erano ancora entrati nel forte quando lo scoppio avvenne.
Crollarono con immenso fracasso le casematte, le merlature e parte delle muraglie, aprendo qua e là delle enormi breccie, senza però danneggiare l'equipaggio della Folgore.
Udendo quel rombo spaventevole e vedendo innalzarsi quella colonna di fumo, i marinai delle altre navi si erano affrettati a prendere terra per accorrere in aiuto dei loro camerati che credevano di trovare malconci e anche alle prese cogli spagnoli, e furono invece accolti da altissime grida di vittoria.
Morgan, informato della ritirata del presidio, decise senz'altro d'investire la città, prima che i suoi abitanti potessero rifugiarsi nei boschi e mettere in salvo i loro tesori.
Lo scoppio del forte aveva già sparso il terrore fra quella disgraziata popolazione, che aveva già provati gli orrori del saccheggio, compiuto vent'anni prima dai filibustieri del Corsaro Nero, di Pietro l'Olonese e di Michele il Basco.
Invece di prepararsi alla difesa tutti gli abitanti si erano dati a fuga precipitosa nei boschi vicini, portando con sé quanto aveva di meglio, e anche fra i soldati della guarnigione regnava un panico, che la presenza del governatore e dei suoi ufficiali non bastava a dissipare.
Il nome di Morgan, l'espugnatore di Portobello, faceva titubare i più vecchi soldati, che pur avevano date tante prove di valore sui campi dell'Europa e che avevano conquistati e rovesciati imperi, come quelli degli Aztechi nel Messico e degli Incas nel Perù.
I filibustieri, lasciati pochi uomini a guardia della squadra e saliti sulle scialuppe, si accostarono velocemente alle banchine del porto. Morgan era alla loro testa con Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller.
Vedendoli sbarcare, gli spagnoli, che erano pure in buon numero e che avevano innalzate frettolosamente delle trincee, avevano aperto un violentissimo fuoco di moschetteria, mentre i due fortini che proteggevano la città dal lato di terra, facevano rombare i loro grossi cannoni. Era però ormai troppo tardi per arrestare quei filibustieri, che le possenti e numerose artiglierie del forte della Barra non avevano saputo trattenere né schiacciare.
I bucanieri, che si trovavano sempre in buon numero sulle navi corsare e che, in quell'epoca, erano i migliori bersaglieri del mondo, con scariche ben aggiustate, avevano ben presto costretto il presidio ad abbandonare le trincee ed a salvarsi con una fuga più che precipitosa.
Dieci minuti dopo, le bande di Morgan irrompevano nelle vie della disgraziata città, invadendo le case e uccidendo senza misericordia quanti tentavano di opporre resistenza.
Capitolo sesto
Don Raffaele
Mentre i filibustieri s'abbandonavano al saccheggio, Morgan con una cinquantina dei suoi marinai si era diretto verso il palazzo del governo, dove sperava di sorprendere ancora il governatore e dove supponeva di trovare qualche resistenza.
Non vi era invece più nessuno. Tutti erano fuggiti, lasciando il portone spalancato ed il ponte levatoio abbassato.
Solo sette forche, dalle quali pendevano i sette corsari che avevano accompagnato il piantatore, facevano triste mostra, proprio nel mezzo dell'ampia e deserta piazza.
Nello scorgerli, un urlo di rabbia era scoppiato fra il drappello di Morgan.
«Bruciamo il palazzo del governatore!... Vendetta, capitano, vendetta!... Trucidiamo tutti!...»
Pierre le Picard, che faceva parte del drappello, gridò:
«Portate qui due barili di polvere e facciamo saltare il palazzo!...»
Già degli uomini stavano per slanciarsi in varie direzioni, quando un comando breve ma energico di Morgan li arrestò.
«Sono io che comando qui!... Chi si muove è uomo morto!...»
Il filibustiere si era gettato fra la turba furibonda, colla spada nella destra e una pistola nella sinistra.
«Insensati!...» urlò. «Che cosa siamo venuti a far qui? E non pensate che forse in questo palazzo, in qualche antro segreto si trova la figlia di cavalier di Ventimiglia? Volete ucciderla per una stupida vendetta?»
A quelle parole l'ira furibonda dei filibustieri era improvvisamente sbollita. Chi poteva assicurare che il governatore, prima di fuggire, non avesse nascosta in qualche sotterraneo la fanciulla, per la cui salvezza avevano tentato quell'ardito colpo di mano?
«Invece di gridare come oche» disse l'almirante della flotta corsara, «cercate di fare quanti prigionieri potete. Qualcuno saprà dirci dove si trova la figlia del Corsaro Nero.
«Questo si chiama parlare d'oro» disse Carmaux che faceva parte del drappello. «Ehi, amburghese, dove sei?»
«Eccomi, compare» rispose Wan Stiller.
«In caccia, amico mio. Cerchiamo di prendere qualche pezzo grosso.»
Mentre Morgan entrava con parecchi dei suoi ufficiali nel palazzo del governo, per frugarlo da cima a fondo, e gli altri si disperdevano in varie direzioni per procurarsi dei prigionieri, Carmaux e l'amburghese, che conoscevano sufficientemente la città essendovi stati già due volte col Corsaro Nero molti anni prima, presero un viottolo che serpeggiava fra le muraglie di alcuni giardini.
«Dove mi conduci?» chiese l'amburghese, dopo aver percorso un centinaio di passi, senza aver incontrato alcuno. «Non è da questa parte che fuggono gli abitanti.»
«Voglio andare a fare una visita alla taverna El Toro» rispose Carmaux. «Scommetterei una piastra contro un doblone di Spagna che troveremo qualcuno da quelle parti.»
«I nostri non devono ancora essere giunti fino là.»
«Infatti non odo alcun colpo di fucile echeggiare verso la laguna.»
«Allunga il passo, amburghese.»
I filibustieri della squadra, che avevano appena allora cominciato il saccheggio, si trovavano ancora nei sobborghi, che si prolungavano dietro il forte della Barra e non erano giunti ancora nel cuore della città.
Da quella parte si udivano clamori spaventevoli, seguìti da qualche scarica di fucili e si vedevano alzarsi anche delle colonne di fumo. Nei giardini e nelle case adiacenti, regnava invece un silenzio assoluto. La popolazione doveva aver approfittato della breve resistenza opposta dalle truppe, per sgombrare precipitosamente, salvandosi nei boschi o sulle isole della laguna.
Carmaux e l'amburghese, di quando in quando scorgevano bensì qualche uomo o qualche donna attraversare velocemente i giardini, ma non si prendevano la briga di dare loro la caccia.
Correvano da dieci minuti, quando si trovarono su una piazzetta all'estremità della quale, dinanzi ad una porta, pendevano due enormi corna.
«La taverna» disse Carmaux.
«Sì, la riconosco dall'insegna» rispose l'amburghese.
«Pare che anche qui tutti abbiano sgombrato.»
«Taci!...»
«Che cos'hai?»
«Qualcuno s'avvicina.»
Presso la taverna s'apriva una via e da quella parte si udivano delle persone avanzarsi, correndo disperatamente.
«Attento amburghese» gridò Carmaux, slanciandosi da quella parte.
Aveva appena raggiunto l'angolo, quando un uomo gli cadde fra le braccia. Carmaux fu pronto a stringerselo al petto, gridandogli con voce minacciosa:
«Arrenditi!...»
Nel medesimo istante otto o dieci negri che correvano all'impazzata, carichi di pacchi voluminosi, urtarono l'amburghese così violentemente da mandarlo a gambe levate, prima ancora che avesse potuto alzare il moschetto.
«Tuoni d'Amburgo!...» aveva esclamato Wan Stiller. «Mi accoppano!...»
Udendo quella voce, l'uomo che era caduto fra le braccia di Carmaux aveva alzato il capo, lasciandosi sfuggire subito un grido d'angoscia.
«Sono morto!...»
Carmaux era scoppiato in una risata fragorosa.
«Ah!... Il piantatore!... Che bell'incontro!... Come state señor Raffaele?...»
Il disgraziato piantatore, sentendosi allentare la stretta, aveva fatto due passi indietro, ripetendo con voce strozzata:
«Sono morto!... Sono morto!...»
«È dunque una vera mania che avete di credervi sempre morto?» chiese Carmaux che non cessava di ridere. «Eppure mi sembra che scoppiate per troppa salute.»
«Toh!» esclamò in quel momento Wan Stiller, che si era alzato. «Chi vedo?... Il piantatore?... Buona presa, Carmaux!»
Don Raffaele, muto per il terrore, guardava or l'uno or l'altro, tirandosi i capelli.
«Ohimè!...» sospirò il piantatore. «Mi impiccherete per vendicare i vostri camerati, che il governatore ha fatto appendere alle forche della Plaza Mayor.»
«Non siete stato voi.»
«Lo so, però il vostro comandante potrebbe crederlo.»
«Bah!... Bah!...» fece Carmaux, che si divertiva immensamente e che faceva sforzi sovrumani per conservarsi serio. «Coraggio, signor mio; ecco là Wan Stiller che porta in trionfo quattro bottiglie, che devono essere state turate ai tempi di papà Noè. Perbacco!... Che fiuto che ha quell'amburghese!... Ha scoperto la cantina di colpo!...»
Carmaux aveva preso per un braccio ben stretto il piantatore, onde non gli scappasse, quando a breve distanza rimbombarono alcuni colpi di archibugio e da una via laterale sbucarono a corsa sfrenata parecchi abitanti, che portavano sulle spalle dei grossi involti contenenti probabilmente le loro ultime ricchezze.
«Misericordia!...» esclamò il piantatore. «Ci uccidono!...»
«Ragione di più per rifugiarci nella taverna» disse Carmaux. «Non si sa mai!... Una palla può deviare e fare scoppiare anche la vostra pancia.»
Lo spinse violentemente entro la taverna, dove l'amburghese stava decapitando, colla sua corta sciabola, le quattro bottiglie.
La sala era deserta, ma tutto era sotto sopra. La grande tavola dove avevano combattuto i galli giaceva colle gambe all'aria, i tavolini erano addossati alla rinfusa contro le pareti; gli sgabelli ingombravano il pavimento assieme a vasi e bottiglie infrante.
Pareva che il proprietario, prima di fuggire, avesse cercato di spezzare quanto non aveva potuto portare con sé.
«Purché sia rimasta salva la cantina, poco importa» disse Carmaux. «È così, amburghese?»
«Vero Alicante» rispose Wan Stiller, facendo schioccare la lingua da buon intenditore. «È proprio di quello che abbiamo bevuto la sera del combattimento dei gatti.
«Bada che gli altri non vengano a vuotarcele, perché non ho trovate che queste bottiglie. Quel mascalzone di taverniere ha fracassato tutto nella cantina. Imbecille!»
Riempì un bicchiere trovato per miracolo ancora intatto e lo offrì al piantatore, dicendogli:
«Elisir di lunga vita, signor spagnolo. È di quello, ve ne ricordate?»
Don Raffaele, che si sentiva tremare le gambe, lo vuotò d'un fiato borbottando un grazie.
«Un altro» disse Carmaux, mentre l'amburghese si metteva alle labbra una delle quattro bottiglie.
«Volete ubriacarmi una seconda volta per poi impiccarmi?» chiese don Raffaele.
«Ve l'ha detto qualcuno che il capitano Morgan ha decretato la vostra morte?» chiese Carmaux, con voce grave.
«Sono un moribondo, dunque?» urlò don Raffaele, diventando livido. «Vuole vendicare su di me la morte dei suoi sette marinai?»
Carmaux lo guardò per qualche istante in silenzio, aggrottando a più riprese la fronte, poi disse:
«Sta in voi salvarvi.»
«Che cosa devo fare? Ditemelo! Io sono ricco, posso pagare un grosso riscatto al vostro capitano...»
«Quello lo pagherete a noi, mio caro signore» disse Carmaux, «essendo stati noi a farvi prigioniero; ma per ora non è questione di danaro, bensì di pelle.»
«Spiegatevi meglio» disse don Raffaele, che cominciava a respirare più liberamente. «Non ho alcun desiderio di ballare un fandango all'estremità d'una corda.»
«Allora rispondete e pesate bene le vostre parole» disse Carmaux, che tutto d'un tratto era diventato minaccioso. «Dove è stata nascosta la signora di Ventimiglia?»
«Come!» esclamò il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. «Non l'avete ancora trovata?»
«No.»
«Eppure io non l'ho veduta a fuggire col governatore.»
«Ah! Ha preso il largo quel brav'uomo!» esclamò Wan Stiller con voce ironica.
«Assieme ai suoi ufficiali e su buoni cavalli» rispose don Raffaele. «A quest'ora deve essere ben lontano e sarete ben bravi se riuscirete a raggiungerlo.»
«E non vi era con lui la figlia del Corsaro Nero?»
«No.»
«Don Raffaele!» gridò Carmaux, picchiando sulla tavola un pugno così formidabile da far saltare le bottiglie. «Badate che giuocate la vostra vita.»
«Lo so ed è per questo che io non cercherò d'ingannarvi.»
«Allora si trova ancora qui?»
«Ne sono più che certo.»
«O che sia stata uccisa?» chiese Carmaux impallidendo.
«Non credo, che il governatore abbia avuto il coraggio di lordarsi le mani del proprio sangue.»
«Che cosa dite?» chiesero ad una voce i due filibustieri.
Il piantatore si morse le labbra come se si fosse pentito di essersi lasciate sfuggire quelle parole, poi alzando le spalle disse:
«Io non ho giurato di mantenere il segreto e poi la mia vita si trova nelle vostre mani ed io ho il diritto di difenderla come meglio posso.»
Carmaux tracannò un sorso d'Alicante, poi incrociando le braccia e piantando gli occhi in viso al piantatore, disse:
«Don Raffaele, spiattellate. Di quale sangue parlavate?»
«Avrete la pazienza di ascoltarmi?»
Carmaux stava per rispondere, quando alcuni colpi di fucile rimbombarono sulla piazza e parecchie persone passarono correndo dinanzi alla taverna, gettandosi verso le vicine ortaglie.
Cinque o sei filibustieri, che avevano in mano gli archibugi ancora fumanti, vedendo l'insegna del Toro, si erano affacciati alla porta della taverna, urlando:
«Una cantina! Hurrà! Buchiamo le botti!»
Carmaux si slanciò verso di loro coll'archibugio in mano, gridando:
«Indietro, camerati!»
«Toh!» esclamò uno di quei corsari. «I due inseparabili!... Volete bere tutto voi?... Satanasso!... Lo spagnolo che ha fatto impiccare i nostri compagni!... Abbruciamolo vivo!...»
«È nostro prigioniero» gridò Carmaux.
«Fosse anche del diavolo, io non me ne andrò se prima non gli avrò bucato il ventre» disse un altro corsaro. «Largo, camerata! Quell'uomo appartiene alla giustizia dei Fratelli della Costa.»
Il povero don Raffaele, che era diventato paonazzo dal terrore, si era rifugiato dietro la tavola, cercando di farsi più piccino che poteva.
«Levatevi dai piedi!» urlò Carmaux, puntando risolutamente l'archibugio verso i filibustieri che si spingevano l'un l'altro per entrare. «Quest'uomo è una preda dell'almirante.»
Udendo quelle parole, i corsari si arrestarono titubanti, poi volsero le spalle allontanandosi di corsa, tanto era il terrore che esercitava Morgan anche su quell'accozzaglia di scorridori del mare, che pur non riconoscevano né leggi, né governo.
«Parlate, ora» disse Carmaux, tornando verso il piantatore. «Nessuno verrà più a disturbarci.»
Don Raffaele bevette d'un fiato un bicchiere d'Alicante, per riprendere coraggio, poi disse:
«L'istoria che io sto per narrarvi è un segreto che solo pochissimi spagnoli conoscono e che voi ignorate. Vorrei però sapere, prima di cominciarla, quale causa dell'odio implacabile che regnava fra il Corsaro Nero, signor di Ventimiglia, ed il duca Wan Guld, un tempo governatore di questa città.
«Voi che siete stati marinai e forse confidenti del terribile corsaro, che tanto male ha recato alle nostre colonie, dovete saperne qualche cosa e ciò schiarirebbe forse l'odio che il governatore attuale nutre ora per la giovine figlia di quello scorridore del mare.»
«Come!» esclamò Carmaux. «Il governatore odia la figlia del Corsaro Nero? Non è dunque solo l'interesse che lo ha spinto a farla prigioniera?»
«No, è odio di sangue» disse don Raffaele, con voce grave. «Se il duca è morto ha lasciato un vendicatore che non sarà meno implacabile di lui.»
«Che cosa mi narrate voi?» disse Carmaux, spaventato.
«Rispondete alla domanda che vi ho fatta, poi io mi spiegherò meglio.»
Capitolo settimo
Il monastero dei Carmelitani
Carmaux, che pareva in preda ad una vivissima agitazione, stette qualche istante silenzioso guardando il piantatore, poi disse:
«L'odio fra il Corsaro Nero ed il duca di Wan Guld risale circa a venticinque anni fa e non ebbe principio in America, bensì nelle Fiandre. I signori di Ventimiglia erano allora in quattro fratelli e combattevano fra le truppe dei duchi di Savoia, alleati della Francia, contro la Spagna. Belli tutti, valorosi, audaci, godevano fama d'essere i più nobili gentiluomini del Piemonte. Un giorno essi vennero assediati in una rocca fiamminga da un numero strabocchevole di spagnoli, assieme al loro reggimento che era comandato dal duca di Wan Guld. Resistevano tenacemente da alcune settimane, combattendo come leoni, quando una notte il nemico entrava nella rocca a tradimento e se ne impossessava, dopo d'aver ucciso uno dei quattro fratelli che era accorso a contrastargli il passo. Un uomo aveva venduta la rocca ed aveva aperte le porte: quel miserabile era il duca di Wan Guld.»
«Avevo udito a parlare vagamente di quella storia» disse don Raffaele. «Continuate.»
«Il duca, per sfuggire all'ira dei signori di Ventimiglia, aveva chiesto al governo spagnolo un posto nelle colonie dell'America ed era stato nominato governatore di questa città.»
«Era il prezzo del tradimento» disse l'amburghese, picchiando il pugno sulla tavola.
«Il duca» proseguì Carmaux, «credeva di essere stato dimenticato dai signori di Ventimiglia, ma s'ingannava. Non erano ancora trascorsi sei mesi da che aveva assunto il suo posto, quando comparvero alla Tortue tre navi, montate dai tre fratelli piemontesi. Erano il Corsaro Nero, il Verde ed il Rosso, i quali avevano giurato di non lasciar più pace al traditore e di vendicare il fratello assassinato nella rocca.»
«Conosco il seguito» disse don Raffaele. «Dopo varie vicende, il duca riusciva a catturare ed impiccare il Corsaro Verde e poi il Rosso, mentre il Nero, senza saperlo, s'innamorava della figlia del suo mortale nemico, che egli credeva fosse una principessa fiamminga.»
«Sì, è così» rispose Carmaux. «E quando il Corsaro Nero, che aveva giurato, sui cadaveri dei fratelli, di sterminare senza misericordia tutti coloro che portavano il nome del traditore, seppe che la fanciulla che amava era la figlia del duca, pur piangendo, l'abbandonò sola fra le onde in una scialuppa, quando la tempesta stava per scoppiare sul golfo del Messico. Dio però vegliava sulla fanciulla e la scialuppa, invece di venire assorbita dai gorghi, andava a naufragare sulle coste meridionali della Florida, abitate da una tribù di Caraibi, i quali, sedotti dalla bellezza meravigliosa della naufraga, invece di divorarla la proclamarono la loro regina.»
«Ed il Corsaro uccise il duca, è vero?» chiese don Raffaele.
«No, perché venuti all'abbordaggio alcuni mesi dopo, appunto nelle acque della Florida, il vecchio traditore, piuttosto di cadere vivo nelle mani del suo nemico, dava fuoco alle polveri inabissandosi colla propria nave fra i baratri del Golfo del Messico.»
«Il Corsaro era già a bordo di quella nave?»
«Sì, e anche noi» disse Carmaux, «avevamo già espugnato il vascello del duca, quando l'esplosione ci scaraventò in mare assieme al Corsaro. Salvatici su alcuni rottami, per una fortunata combinazione, due giorni dopo approdavamo sulle coste della Florida, dove venivamo fatti prigionieri dai sudditi della duchessa, la regina dei Caraibi. Se non ci mangiarono fu perché la figlia di Wan Guld ci aveva riconosciuti a tempo e perché non si era spenta ancora in lei l'affezione profonda che nutriva per il Corsaro.»
«E non si vendicò?» chiese don Raffaele.
«Tutt'altro, perché una sera s'imbarcarono insieme su una scialuppa e per molti anni non si seppe più nulla di loro. Più tardi un filibustiere italiano ci narrò come il Corsaro e la giovane duchessa erano stati raccolti al largo da una nave inglese in rotta per l'Europa e condotti in Piemonte, dove si erano sposati.
«La loro felicità, come forse avrete saputo anche voi, fu breve. Dieci mesi dopo, la duchessa moriva dando alla luce una bambina e l'anno seguente il Corsaro, che non poteva rassegnarsi alla perdita della sua compagna, si faceva uccidere sulle Alpi, combattendo contro i francesi che avevano invasa la Savoia e che minacciavano il Piemonte.»
«Sì, è così» disse don Raffaele. «Il governatore di Maracaybo era stato esattamente informato.»
«Perché s'interessava tanto del Corsaro?» chiese Carmaux con sorpresa.
«Perché aveva ricevuto da suo padre una terribile missione.»
«Quale?»
«Di vendicarlo.»
«Ma chi era dunque suo padre?»
«Il duca di Wan Guld.»
Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Carmaux e di Wan Stiller. Entrambi erano balzati in piedi, in preda ad una vivissima agitazione.
«Il duca ha lasciato un figlio!» avevano esclamato.
«Sì, un figlio avuto da una marchesa messicana ed a cui fu imposto il nome di conte di Medina e Torres; non potendo assumere quello del padre.»
«Ed è lui il governatore di Maracaybo?» chiese Carmaux.
«Sì, fu lui a far prigioniera Jolanda di Ventimiglia, la figlia del Corsaro Nero.» disse il piantatore «Dai suoi agenti, che aveva mandati in Italia per spiare il Corsaro e, possibilmente, anche per ucciderlo, ciò che sarebbe certo a quest'ora avvenuto, egli seppe che la giovane si era imbarcata su una nave olandese in rotta per l'America, onde entrare in possesso dei beni immensi lasciati dal duca».
«Mandò due navi poderose furono mandate a sorvegliare i passi delle Antille, coll'incarico di catturare il veliero olandese, temendo il conte di Medina che la figlia del Corsaro si recasse prima alla Tortue a chiedere l'appoggio dei filibustieri, per riavere i beni che il governo spagnolo, dietro istigazione del governatore di Maracaybo, aveva sequestrati.»
«E perché li aveva sequestrati?»
«Per vendicarsi del male che aveva fatto il Corsaro Nero alle colonie spagnole» disse don Raffaele.
«E chi amministra quei beni?» chiese Carmaux.
«Il bastardo del duca, il quale finirà poi per trattenerseli; e quei possessi, se non lo sapete, valgono una decina di milioni.»
«E non li ha mai reclamati la duchessa di Wan Guld, la moglie del Corsaro?»
«Certo, ma senza risultato.»
«Per cento milioni di aringhe salate!» esclamò Carmaux. «Ora comprendo, un po' meglio di prima, perché quel briccone di governatore ci teneva a fermare la figlia del Corsaro ed averla nelle sue mani. Mio caro don Raffaele, ecco una bella occasione per salvare la vostra pelle e anche le vostre sostanze. M'impegno io di farvele rispettare dai miei camerati, ma bisogna che voi ci fate trovare la fanciulla. «Se il governatore non l'ha condotta con sé...»
«Di questo son certo» disse il piantatore.
«Allora deve essere ancora qui. Dove? A voi il dircelo.»
Don Raffaele era rimasto silenzioso, colla fronte stretta fra le mani, come se pensasse profondamente. Ad un tratto si alzò dicendo:
«Sì, non può essere stata affidata che al capitano Valera.»
«Chi è costui?» chiese Carmaux.
«Un intimo amico del conte di Medina e un po' anche la sua anima dannata.»
«Dove abita?»
«Nel convento dei Carmelitani.»
«Non sarà fuggito?»
«Si sarà invece nascosto nei sotterranei che sono immensi e che si dice comunichino colla laguna.»
«Che uomo è?»
«Un valoroso, capace di difendere a lungo la preda affidatagli.»
«Non perdiamo tempo» disse Carmaux. «Se i sotterranei comunicano col lago, quel furfante potrebbe questa sera prendere il largo colla fanciulla.»
«Avvertiamo il capitano» disse Wan Stiller.
«E prendete con voi degli altri uomini» disse don Raffaele.
«Siamo già in troppi noi due» rispose Carmaux. «Sappiamo maneggiare la spada come veri gentiluomini, è vero Wan Stiller?»
«Siamo allievi del Corsaro Nero, la prima e la più famosa lama della Tortue» rispose l'amburghese.
«Su in cammino» disse Carmaux.
Vuotarono l'ultima bottiglia e uscirono.
Due filibustieri carichi di vasi di argento e di arredi sacri, che avevano probabilmente rubati in qualche chiesa vicina, passavano in quel momento dinanzi alla taverna.
«Ohe, camerati» gridò loro Carmaux. «Avvertite senza ritardo il capitano Morgan che siamo sulle tracce della figlia del Corsaro Nero e che non s'inquieti se tarderemo a tornare.»
«Buona fortuna, Carmaux» risposero i due corsari, allontanandosi velocemente.
«Guidateci don Raffaele e non dimenticatevi che la vostra vita sta nelle mani della signora di Ventimiglia.»
«Lo so» rispose il piantatore, con un sospiro che veniva proprio dal cuore, «e farò il possibile per salvarla.»
Si diresse verso una viuzza che doveva essere qualche scorciatoia, aperta fra una piantagione d'indaco e di canne da zucchero, facendo segno ai due filibustieri di seguirlo.
Dopo aver percorsi parecchi viottoli che separavano le ultime case della città dalle piantagioni e dalla laguna, don Raffaele si arrestò dinanzi ad un vecchio palazzo annerito dal tempo e che era sormontato da due torrette munite di campane.
«Il convento dei Carmelitani» disse.
«Sembra che sia stato lasciato dai suoi abitanti» disse Carmaux, che aveva osservato che la porta era aperta.
«Tutti sono fuggiti. Voi sapete che i corsari inglesi non risparmiano i nostri frati.»
«È vero» rispose Wan Stiller.
«Entriamo?» chiese il piantatore.
«Perbacco!» esclamò Carmaux. «Voglio vedere quel bravo capitano, se ci sarà ancora.»
«Sono certo che non è fuggito.»
Spinsero la porta ferrata che era socchiusa e si trovarono in una sala vastissima, in una specie di chiesa con alcuni altari e molte torce.
Quantunque i filibustieri di Morgan non fossero giunti fino là, vi regnava un gran disordine. Banchi e sedie erano stati gettati sossopra; gli altari erano stati frettolosamente spogliati di quanto avevano di più prezioso ed in terra si vedevano quadri d'immagini sacre e crocifissi.
«È vasto questo monastero?» chiese Carmaux.
«Assai» rispose don Raffaele. «Ritengo però inutile frugare le sale e le celle. Se il capitano si trova ancora qui, si sarà nascosto nei sotterranei.»
«Dove si trovano?»
Don Raffaele indicò un angolo della chiesa:
«Sotto quella pietra.»
«Che abbia dei compagni il vostro capitano?»
«Lo ignoro.»
«Ah! diavolo!» esclamò Carmaux. «Forse siamo stati imprudenti a non prendere con noi un rinforzo! Che cosa ne dici, amburghese?»
«Dico che siamo solidi e ben armati» rispose Wan Stiller, «e che non è questo il momento di rimandare l'impresa.»
«Tu parli come un libro stampato, compare. Giacché abbiamo cominciato, checché debba succedere, dobbiamo condurlo a termine.»
Raccolse da terra un grosso cero, subito imitato dall'amburghese, l'accese e si diresse verso l'angolo indicato dal piantatore.
«Spero, don Raffaele» disse, «che non ci attirerete in qualche agguato. Io andrò innanzi, ma il mio compagno vi terrà dietro colla spada in mano e vi avverto che quando vibra un colpo inchioda un uomo come uno scarafaggio.»
Il piantatore fece un cenno affermativo col capo e si asciugò il sudore che gli bagnava la fronte.
Entro una specie di nicchia si vedeva una pietra circolare, fornita d'un anello di ferro, che pareva l'ingresso di una tomba. Ed infatti si vedevano delle lettere incise sulla lastra e anche uno stemma, che rappresentava due leoni rampanti su una fascia diagonale.
«Qui» disse il piantatore con voce soffocata.
Carmaux passò la canna dell'archibugio nell'anello e aiutato dall'amburghese levò e rovesciò la pietra.
Un tanfo di muffa e d'aria corrotta sfuggì dal foro, facendo indietreggiare i due corsari.
«Un rifugio punto profumato» disse Carmaux. «Possibile che quel capitano si sia rifugiato qui dentro?»
«Sì» disse il piantatore.
«Da chi lo avete saputo voi?»
«Dal governatore e dal padre superiore del monastero.»
«Sapete molte cose voi, don Raffaele. È stata una vera fortuna l'avervi incontrato quella sera del combattimento dei galli.»
«O una disgrazia?»
«Per voi forse, non certo per noi» disse Carmaux ridendo. «Orsù scendiamo.»
Una scaletta di pietra a chiocciola conduceva nei sotterranei del monastero. Carmaux snudò la spada, accese anche la torcia dell'amburghese, poi scese coraggiosamente, badando dove metteva il piede.
Don Raffaele lo seguiva brontolando; Wan Stiller veniva per ultimo col moschetto armato.
Dopo quindici gradini, i due filibustieri ed il piantatore si trovarono in una specie di cripta, sulle cui pareti, semi-murate, si vedevano dei feretri di pietra con degli stemmi e delle iscrizioni.
«Sono i sepolcri del monastero?» chiese Carmaux, facendo una smorfia.
«Sì» rispose don Raffaele.
«Il luogo è veramente poco allegro. Dove andiamo ora?»
«Entrate in quella galleria; conduce, ne sono certo, al rifugio del capitano Valera.»
«Sarà solo colla figlia del Corsaro Nero?»
«Io non posso saperlo, ve lo dissi già.»
«Andiamo, compare» disse Carmaux, volgendosi verso l'amburghese. «Non voglio che quest'uomo creda che noi abbiamo paura.»
Alzò la torcia per meglio vedere dove metteva i piedi e s'inoltrò risolutamente nel corridoio, tenendo la punta della spada diritta innanzi a sé. Anche in quel corridoio si vedevano numerose tombe e anche dei monumenti, rappresentanti per lo più dei cavalieri spagnoli con corazze, spade ed elmetti.
Dopo qualche minuto giunsero dinanzi ad un cancello di ferro semiarruginito, che non era chiuso.
Al di là si vedeva una seconda cripta e all'estremità, Carmaux e Wan Stiller scorsero, con viva gioia, una sottile striscia di luce che si proiettava dall'umido e nero pavimento del sotterraneo.
«Ci siamo» mormorò Carmaux, spegnendo rapidamente le due torce.
«Ho mantenuta la mia promessa?» chiese don Raffaele.
«Da gentiluomo» rispose Carmaux. «È ben là che noi troveremo la figlia del Corsaro Nero?»
«Ne son certo.»
«Le hanno scelta una ben brutta prigione.»
«Bisognava sottrarla alle vostre ricerche.»
«Compare Wan Stiller, preparati a battagliare» disse Carmaux. «Il capitano non si arrenderà senza lotta.»
«Di questo non ne dubito» disse don Raffaele. «È un valoroso.»
S'avvicinarono cautamente a quella striscia di luce e s'accorsero che sfuggiva al disotto di una porta.
Carmaux accostò un occhio alla toppa che era abbastanza larga e guardò attentamente, rattenendo il respiro.
Al di là, vi era una stanza piuttosto vasta, colle pareti coperte da tavoloni di legno e arredata semplicemente, non essendovi che alcuni scaffali e delle vecchie poltrone a bracciuoli in pelle di Cordova. Due uomini stavano seduti dinanzi ad una tavola che si trovava nel mezzo e parevano intenti a finire una partita agli scacchi.
Uno aveva l'aspetto d'un gentiluomo e indossava anche l'elegante costume dei ricchi spagnoli, l'altro sembrava un soldato, avendo indosso la corazza ed in testa un mezzo elmetto d'acciaio con una piuma.
«Non sono che due» disse Carmaux sottovoce, volgendosi verso l'amburghese.
«È aperta la porta?»
«Mi sembra.»
«Spingi ed entriamo. E le torce?»
«La stanza è illuminata e non ne avremo bisogno.»
«Avanti dunque.»
Carmaux spinse violentemente la porta, che non doveva essere stata assicurata internamente e s'inoltrò colla spada in pugno, dicendo con voce un po' ironica: «Buona sera, signori!...»
Capitolo ottavo
Un duello terribile
I due giuocatori, vedendo entrare quei tre personaggi, di cui due armati di spada e d'archibugio, balzarono rapidamente in piedi, allontanando le sedie.
Colui che pareva un gentiluomo, era di statura piuttosto alta, magro come un biscaglino, colle gambe e le braccia estremamente lunghe e poteva avere una quarantina d'anni.
Il suo volto, dai lineamenti duri, angolosi, con due occhi grigi dal lampo vivido, non era affatto piacevole.
L'altro, che doveva essere un soldato, era invece piuttosto tozzo, basso di statura ed abbronzato come un indiano o per lo meno come un meticcio.
Aveva gli occhi nerissimi invece ed i lineamenti assai meno duri del compagno, quantunque avesse nell'insieme qualche cosa che ricordava il muso astuto e feroce del coguaro.
«Chi è di voi che si chiama il capitano Valera?» chiese Carmaux sempre ironico, scoprendosi con finta cortesia il capo.
«Sono io» rispose l'uomo magro squadrandolo dal capo alle piante. «E voi chi siete?»
«Vi preme saperlo?»
«Certo, prima di cacciarvi di qui a calci.»
«Ah!... È una cosa un po' difficile, mio signore» disse il filibustiere ridendo. «Ho dunque l'onore di dirvi che noi siamo due corsari agli ordini del capitano Morgan.»
Una bestemmia era sfuggita dalle labbra dello spagnolo.
«Chi vi ha guidati qui?»
Carmaux aveva gettato un rapido sguardo verso la porta e non vide che l'amburghese. Il prudente don Raffaele non aveva osato comparire dinanzi al capitano, che probabilmente lo conosceva.
«Siamo venuti di nostra iniziativa» disse, ritenendo inutile compromettere il piantatore.
«E che cosa volete?»
«Null'altro che la restituzione della signora di Ventimiglia, che il conte di Medina vi ha affidata.»
«Chi ve lo disse?» gridò il capitano, sfoderando rapidamente la spada.
«Adagio colle armi» disse Carmaux, facendo due passi innanzi, mentre l'amburghese alzava l'archibugio.
«Ci minacciate?»
«Siamo gente di guerra, mio caro signore. Basta! Abbiamo chiacchierato abbastanza e non abbiamo tempo da perdere. Consegnateci la figlia del Corsaro Nero.»
«Alcazar, a me!» urlò il capitano. «Cacciamo questi gaglioffi.»
Il soldato era già balzato innanzi snudando la spada, e con un urto improvviso aveva rovesciata la tavola, gettando a terra il candeliere.
Wan Stiller aveva fatto fuoco sul capitano, ma in causa dell'improvvisa oscurità aveva mancato il colpo.
«Mano alla spada, compare!» urlò Carmaux. «Ci piombano addosso.
«Don Raffaele, accendete una torcia!»
Nessuno rispose.
«Tuoni d'Amburgo!» gridò Wan Stiller, indietreggiando verso la porta, e menando colpi all'impazzata per impedire ai due spagnoli di accostarsi. «Il piantatore è scappato come una lepre!...»
«Tieni testa tu per qualche minuto?»
«Sì, compare.»
Carmaux, indietreggiando, aveva ritrovata la porta. Avendo lasciate le due torce nel corridoio, appoggiate alla parete, s'avanzò a tentoni per ritrovarle ed accenderle, avendo con sé l'acciarino e l'esca.
L'amburghese, che non correva più il pericolo di venire colpito dal compagno, tirava stoccate in tutte le direzioni e si copriva con mulinelli fulminei, urlando a squarciagola.
«Avanti, se l'osate!... Prendete questa, capitano!... A te, soldataccio, che tremi come un coniglio!... Tuoni d'Amburgo!... Vi faccio in cinquemila pezzi!...»
I due spagnoli, trincerati dietro la tavola, tiravano anch'essi colpi all'impazzata, per tener lontani gli avversari, e non facevano meno fracasso gridando:
«Ladri!...»
«Assassini!...»
«Fuori di qui, bricconi!...»
«Volete la figlia del Corsaro? Eccola colla punta d'acciaio.»
Mentre i tre uomini battagliavano contro le tenebre, senza osare fare un passo innanzi, Carmaux trovò finalmente le torce, ma non il piantatore, il quale aveva approfittato per darsela a gambe. Carmaux ne accese una.
«Vedremo ora come se la caveranno» disse.
Spalancò la porta e si precipitò nella sala sotterranea, urlando:
«Giù le armi o vi uccidiamo!»
Invece di abbassare le spade, i due spagnoli si posero in guardia, gridando:
«Avanzatevi, se l'osate!»
Carmaux piantò la torcia in una fessura del pavimento, e si fece innanzi, dicendo:
«A te il soldato, a me il capitano.»
«Sì» rispose l'amburghese.
Prima però d'incrociare la lama, Carmaux fece un ultimo tentativo.
«Siamo allievi del Corsaro Nero, che fu il più formidabile spadaccino della Tortue» disse. «Noi vi uccidiamo, questo è certo. Volete arrendervi e consegnarci la signora di Ventimiglia?»
«Il capitano Valera non si arrende ad un mascalzone pari tuo» rispose lo spagnolo. «Vedrai come ti scucirò il ventre.»
«Tuoni dell'aria!... A noi due!...»
Carmaux con un salto si era gettato verso la tavola, dietro la quale si tenevano i due spagnoli ed aveva incrociata la spada col capitano.
Wan Stiller, dal canto suo aveva girato l'ostacolo, piombando addosso al soldato, il quale era stato costretto a lasciare il riparo per non farsi prendere alle spalle.
I quattro duellanti mostravano di conoscere a fondo tutte le sottigliezze della scherma e di essere spadaccini di vaglia.
I due corsari però, avendo fatte le loro prime armi sotto il Corsaro Nero, che fu il più famoso schermitore del suo tempo, fino dai primi colpi avevano gettato un po' di timore negli animi dei due spagnoli, i quali si erano illusi di sbrigare presto la partita, non essendo generalmente i filibustieri che dei bravi tiratori d'archibugio.
Carmaux incalzava furiosamente il capitano, senza concedergli un istante di tregua. L'aveva costretto a lasciare il riparo ed a rompere tre o quattro volte, ed ora combattevano presso un angolo della sala.
Wan Stiller tempestava il soldato di botte. Già due volte l'aveva toccato, ma avendo lo spagnolo il petto coperto dalla corazza, non ne aveva avuto alcun danno.
Si capiva però che il suo avversario, assai meno destro del capitano, non poteva durarla a lungo e si vedeva che si esauriva rapidamente vibrando stoccate inutili.
«Ti arrendi?» chiese ad un certo momento l'amburghese, accorgendosi che non parava più colla rapidità di prima.
«Mai» rispose il soldato. «I Bardabo muoiono, ma non si arrendono.»
«Non vedi che sto per ucciderti, e che non ne puoi più?»
«Allora prendi questa!»
Il soldato che si trovava quasi addosso al muro, con uno scatto improvviso si era gettato sull'amburghese e, mentre gl'impegnava la spada guardia contro guardia, aveva allungata una gamba, tentando di dargli uno sgambetto e di farlo cadere.
«Ah!... Traditore!...» urlò l'amburghese. «Non è leale ciò. Muori dunque!...»
Si gettò bruscamente da una parte per disimpegnare meglio la lama, poi andò a fondo, spingendo il ferro con velocità fulminea.
La punta, entrata sotto l'ascella destra del soldato, che la corazza non difendeva, era scomparsa nel corpo del disgraziato.
«Toccato» brontolò lo spagnolo, con voce semi-spenta.
Si appoggiò alla parete, lasciandosi sfuggire la spada, stravolse gli occhi, mormorò qualche parola, poi stramazzò al suolo vomitando sangue.
«L'hai voluto» disse l'amburghese.
Poi si slanciò verso Carmaux, dicendo:
«Vengo in tuo aiuto, compare.»
Il capitano teneva ancora testa al filibustiere, ma si trovava quasi addosso al muro e appariva assai affaticato.
Aveva passata la spada dalla destra alla sinistra, per cercare di imbrogliare vieppiù Carmaux, il quale, non essendo mancino, non doveva trovare quel cambiamento di suo gusto.
«Pensate anche a me» disse Wan Stiller, piombandogli addosso.
«No, compare, non sarebbe leale» disse Carmaux. «Lascia a me sbrigare la faccenda.»
Il capitano, udendo quelle parole aveva fatto un ultimo salto indietro ed aveva abbassata la spada.
«Vi credevo un ladrone del mare» disse, «capace di assassinarmi anche a tradimento, e ritrovo invece in voi un gentiluomo. Al vostro posto, un altro non avrebbe rifiutato il concorso d'un compagno.»
«Il Corsaro Nero mi ha insegnato a essere leale» rispose Carmaux. «Vi arrendete?»
Il capitano prese la spada con ambe le mani, l'appoggiò su un ginocchio e la spezzò in due, dicendo:
«Sono vostro prigioniero.»
«Non sappiamo che cosa farne dei prigionieri» rispose Carmaux. «Morgan a quest'ora ne ha perfino troppi. Noi siamo venuti qui a cercare la figlia del Corsaro Nero»
«Mi è stata affidata dal governatore e senza un suo ordine io non posso cederla.»
«È fuggito dopo le prime cannonate e non sappiamo dove sia. Quindi non potrebbe, in questo momento, darvi il permesso.»
«È presa adunque la città?»
«È in nostra mano da tre ore.»
«Allora, signori, ogni resistenza da parte mia sarebbe inutile, da che tutti sono fuggiti, compreso il governatore.»
«Dov'è la signorina di Ventimiglia?»
Il capitano ebbe un'ultima esitazione, poi disse:
«Io ve la cederò, se voi mi promettete di ottenere dal vostro capitano il permesso di lasciare la città indisturbato.»
«Il signor Morgan ve lo accorderà» disse Carmaux. «Impegniamo la nostra parola.»
«Prendete la torcia e seguitemi.»
Wan Stiller obbedì. Lo spagnolo si trasse dalla cintura di pelle, che portava ai fianchi, una chiave e si diresse verso una porta che si vedeva all'estremità della sala sotterranea.
«Adagio, signore» disse Carmaux che era sempre diffidente. «Eravate soli qui?»
«Non vi è nessun altro» rispose il capitano. «Al fracasso sarebbero già accorsi e allora le sorti del duello sarebbero forse cambiate.»
«Infatti avete ragione» disse Carmaux.
Il capitano introdusse la chiave nella toppa e aprì la porta, avanzandosi in un'altra sala illuminata da un lampadario di stile veneziano, colle pareti rivestite di pannelli, il pavimento riparato da un tappeto assai fitto e arredata con una certa eleganza.
All'estremità si vedeva un'alcova, le cui tende rosse, con ricami d'oro sbiadito dal tempo e dall'umidità, erano abbassate.
«Signora» disse il capitano. «Vi prego d'alzarvi. Delle persone che hanno conosciuto vostro padre sono venute qui e vi aspettano.»
Un grido si udì dietro alle tende, un grido di stupore e anche di gioia; poi una fanciulla con una mossa fulminea erasi slanciata fuori dall'alcova, fissando i suoi occhi sui due filibustieri che si erano levati i berretti.
Era una bellissima fanciulla, di quindici o sedici anni, alta e flessibile come un giunco, dalla pelle pallidissima, quasi alabastrina, con la tinta che ricordava suo padre il Corsaro Nero; aveva due occhi grandi, d'un nero intenso, e lunghe ciglia che lasciavano cadere sul suo viso la loro ombra.
I suoi capelli, neri come l'ala di un corvo, li teneva sciolti sulle spalle, legati solamente presso la nuca da una piccola fila di perle.
Indossava una semplice cappa bianco, con guarnizioni di trine e un sottile ricamo d'oro sulle larghe maniche.
Vedendo i due corsari, si lasciò sfuggire un secondo grido e rimase colla bocca aperta, mostrando due file di denti piccoli come granelli di riso e più splendenti dell'opale.
«Signorina di Ventimiglia» disse Carmaux, inchinandosi goffamente e con un certo imbarazzo, «noi siamo due fedeli marinai di vostro padre, qui mandati dal suo antico luogotenente, il capitano Morgan...»
«Morgan!...» esclamò la fanciulla. «Morgan!... Il comandante in seconda della Folgore?»
«Sì, signorina. Avete udito a parlare di lui?»
«Mio padre è morto troppo presto perché me ne parlasse» disse la fanciulla con profonda tristezza, «ma, nelle sue memorie, ho trovato molte volte il nome di quel fedele e valoroso corsaro, che lo seguì sui mari e che lo aiutò a compiere le sue vendette. Dov'è ora?»
«Qui, in Maracaybo, signorina.»
«Morgan qui? Allora i filibustieri della Tortue hanno preso la città!»
«Da stamane.»
«E potrò vederlo?»
«Quando vorrete.»
«E voi, capitano, me lo permetterete?» chiese volgendosi verso lo spagnolo.
«Voi siete libera, signora, dal momento che il governatore è fuggito.»
«Ah!» fece la giovane, con accento un po' ironico. «Il conte di Medina è scappato dinanzi ai filibustieri della Tortue? Lo credevo più valoroso.»
«Meglio la fuga che la prigionia.»
«Già, per coloro che non sanno morire combattendo. Sicché io sono libera?»
«E sotto la nostra protezione, signorina» disse Carmaux.
«Voi siete...»
«Eravamo due devoti servitori di vostro padre, il Corsaro Nero.»
«I vostri nomi.»
«Carmaux e Wan Stiller.»
La giovane si passò una mano sulla fronte, come per risvegliare delle lontane memorie, poi disse:
«Carmaux... Wan Stiller... voi dovete aver accompagnato mio padre nella Florida... dopo l'esplosione del vascello di mio nonno il duca... Nelle memorie scritte e lasciate a me da mio padre io ho trovato molte volte i vostri nomi...»
Fece alcuni passi innanzi e tese le sue belle mani dalle dita affusolate verso i due filibustieri, dicendo:
«Una stretta, eroi del mare, fedeli compagni di mio padre nella sua triste vita avventurosa.»
I due corsari, confusi, impacciati, chiusero le due manine fra le loro dita ruvide e callose, borbottando qualche parola.
«Ed ora» disse la fanciulla «sono con voi, se il capitano non si oppone.»
Si gettò sulle spalle una lunga mantiglia di seta nera con pizzi di Venezia, prese un grazioso cappello di feltro oscuro adorno d'una piuma nera e si mise fra i due corsari, dicendo al capitano con accento ironico:
«I miei saluti al signor conte di Medina e Torres, e ditegli che se mi vorrà, bisognerà che venga a prendermi alla Tortue, se ne avrà il coraggio.»
Il capitano non rispose; ma appena Carmaux e Wan Stiller furono usciti colla fanciulla, disse:
«Stupidi!... Non mi avete ucciso!... Miei cari, avrete ben presto mie nuove. Ed ora cerchiamo di raggiungere il governatore, senza attendere il loro salvacondotto.»
Capitolo nono
Jolanda di Ventimiglia
Quando i due filibustieri e la figlia del Corsaro Nero uscirono dal convento dei Carmelitani, trovarono sulla porta don Raffaele.
L'onesto piantatore se l'era svignata, per paura che i due corsari avessero la peggio in quel combattimento e che il capitano Valera gli facesse pagare ben caro il tradimento, ma non aveva osato lanciarsi attraverso le vie della città, che erano percorse dagli uomini di Morgan, i quali potevano fargli passare un brutto quarto d'ora.
Si era perciò tenuto nascosto dietro la porta del monastero, in attesa che il capitano od i corsari comparissero, pronto a mettersi sotto la protezione dell'uno o degli altri.
«Ah!... Siete qui, don Raffaele?» disse Carmaux, scorgendolo raggomitolato dietro la porta. «Non avete dato una bella prova del vostro coraggio, lasciando noi soli alle prese coi vostri compatrioti.»
«Voi sapete che io non sono mai stato un uomo di guerra» rispose il piantatore. «Che cosa volete che facessi per voi, non possedendo nessuna arma per di più?
«Ah!... La signora di Ventimiglia!... Che uomini siete voi!... Riuscite in tutte le vostre imprese. Li avete uccisi gli altri?»
«Uno solo, il soldato» rispose Carmaux. «Basta, conduceteci al palazzo del governo per vie fuori di mano, se è possibile.»
«Attraverseremo le ortaglie» rispose don Raffaele.
«Vi fidate di costui?» chiese la fanciulla a Carmaux.
«È una nostra vecchia conoscenza» rispose il filibustiere, ridendo. «Non temete di quel coniglio.»
Si misero in cammino, inoltrandosi attraverso a delle piccole piantagioni d'indaco e di cotone, che si stendevano dietro i sobborghi.
Non si scorgeva nessuno. Spagnoli e schiavi negri erano fuggiti o erano stati già catturati dai filibustieri di Morgan, che avevano spinto fino là le loro scorrerie, a giudicarlo dalle porte sfondate o sgangherate delle abitazioni e dagli ammassi di mobili fracassati, che si scorgevano sulle vie e che dovevano essere stati gettati dalle finestre.
Dopo un lungo giro, il piccolo drappello giunse sulla Plaza Mayor, dove gran parte dei corsari di Morgan vi si erano radunati.
Montagne di barili, di balle di cotone, di botti di zucchero, di farina e di altre derrate, ingombravano la piazza, che pareva fosse stata tramutata in un immenso mercato.
Parecchie centinaia di prigionieri spagnoli, scelti fra le persone più cospicue della città, si trovavano ammassati in un angolo, guardati da drappelli di corsari, armati fino ai denti.
Vedendo comparire Carmaux e Wan Stiller colla fanciulla e col piantatore, parecchi filibustieri erano mossi loro incontro gridando:
«Buona presa, Carmaux?»
«Corna di toro!... Il vecchio marinaio ha scelta una vera perla!... Dove hai scovata quella bellezza, furbone?»
«E questi è il traditore che ha fatto impiccare i nostri camerati» urlarono parecchi, circondando don Raffaele. Facciamolo ballare con una buona corda al collo!...»
«Oh!... Canaglia, non scappi più.»
Venti mani si erano allungate verso il disgraziato piantatore, che pareva più morto che vivo, e stavano per afferrarlo, quando Carmaux si gettò in mezzo a loro colla spada in mano, urlando:
«Largo!... È preda mia e guai a chi la tocca!...»
«Impicchiamolo!... Lascia fare, camerata. Te lo pagheremo egualmente.»
«È del capitano» ribatté Carmaux. «Me lo ha già pagato. Sgombrate! E questa fanciulla è la figlia del Corsaro Nero»
Un grido di stupore ed insieme d'ammirazione sfuggì da tutti i petti. Tutti lasciarono cadere le spade e le sciabole, e si levarono i berretti ed i cappellacci.
«La signora di Ventimiglia!» esclamarono.
La fanciulla era rimasta impassibile, e guardava fieramente quei ruvidi uomini del mare, colle ciglia aggrottate.
Fece solamente un lieve cenno col capo, vedendo i filibustieri scoprirsi rispettosamente.
«Andiamo, signora» disse Carmaux, ringuainando la spada. «Il capitano ci aspetta.»
Il circolo si aperse. Carmaux e Wan Stiller si diressero verso il palazzo del governatore, dove Morgan aveva preso alloggio.
Anche colà i filibustieri avevano, secondo la loro abitudine, tutto devastato, colla speranza di trovare oro e denaro nascosti.
I mobili erano stati fracassati, le tappezzerie lacerate, i soffitti sfondati e sgretolati, e sollevate perfino le lastre di pietra dei pavimenti.
Carmaux, che conosceva il palazzo, avendo preso parte al saccheggio compiuto vent'anni prima dai filibustieri dell'Olonese, del Corsaro Nero e di Michele il Basco, condusse la fanciulla in una delle sale superiori, dicendole:
«Aspettatemi qui, signora, e tu Wan Stiller, mettiti di guardia alla porta e impedisci a tutti l'entrata. Vado a cercare il capitano.»
Morgan si trovava nell'ampia sala del Consiglio coi suoi ufficiali, tutti occupati a far chiudere in casse il denaro, l'oro e le pietre preziose, frutto del saccheggio.
Vedendo entrare Carmaux, che non aveva più veduto dal mattino, ma che era stato avvertito come si trovasse sulle traccie della figlia del Corsaro Nero, gli mosse sollecitamente incontro, chiedendogli premurosamente:
«Nulla, è vero?»
«L'abbiamo trovata.»
«Jolanda di Ventimiglia!...» esclamò Morgan trasalendo.
«È qui.»
«Tu sei un uomo meraviglioso, Carmaux. Avrai doppia parte nella ripartizione del bottino e altrettanto avrà l'amburghese.
«Conducimi da lei.»
«Un momento, mio capitano. Ho appreso un segreto sul conto del governatore di Maracaybo, che la figlia del Corsaro Nero probabilmente ignora, ma che voi dovete conoscere prima di vederla.»
Morgan lo condusse in un gabinetto attiguo alla sala, chiudendo la porta.
Quando Carmaux gli ebbe narrato tutto ciò che aveva appreso da don Raffaele, lo stupore dell'almirante non ebbe più limiti.
«Il conte di Medina, figlio di Wan Guld!» esclamò. «Ecco un nemico che se somiglia a suo padre, ci darà del filo da torcere e che bisogna che cada nelle nostre mani prima che noi lasciamo Maracaybo. Quella razza è implacabile nei suoi odii. Sai dove si è rifugiato?»
«Tutti lo ignorano, capitano.»
«Finché egli è libero, Jolanda di Ventimiglia avrà tutto da temere da lui, se è vero che suo padre lo ha incaricato di vendicarlo anche sui discendenti del Corsaro Nero.»
Rifletté un momento, poi disse:
«Dobbiamo recarci a Gibraltar senza perdere tempo. So che la squadra spagnola è stata veduta al largo di Puerto de Chimare e potrebbe, da un momento all'altro, giungere qui ed impedirci l'uscita dalla laguna. Darò ordine ai miei d'imbarcarsi oggi stesso, veleggeremo questa sera alla volta di Gibraltar. Conducimi dalla fanciulla, mio bravo Carmaux. Sono impaziente di vederla.»
Rientrarono nella sala del Consiglio. Morgan conferì per qualche minuto coi suoi ufficiali, dando gli ordini opportuni, onde prima che le tenebre scendessero, gli equipaggi, i prigionieri e le ricchezze accumulate si trovassero a bordo dei legni; poi seguì Carmaux entrando nel salotto dove si trovava la figlia del Corsaro Nero.
Appena si trovò in presenza della fanciulla, un grido gli sfuggì.
«Mi sembra di vedere in voi, signora» le disse inchinandosi galantemente «il fiero gentiluomo d'oltremare.»
«Siete voi il capitano Morgan?» chiese la fanciulla con voce armoniosa, fissando sul formidabile filibustiere, che empiva ormai già il mondo delle sue audaci imprese, i suoi grandi occhi neri.
«Sì» egli rispose, «Io ero il luogotenente di vostro padre, signora.»
«Morgan» disse Jolanda, senza staccare un solo istante i suoi sguardi dal fiero scorridore del mare. «Quante volte ho trovato questo nome nelle memorie lasciate da mio padre! Sapete che io ho lasciato l'Europa, per venire a chiedere la vostra protezione?»
«Contro chi, signora?» chiese il filibustiere.
«Contro il conte di Medina, che mi nega i diritti indiscutibili che io ho sull'eredità di mia madre, la duchessa Honorata Wan Guld.»
«Se voi, signora, prima di salpare dai porti dell'Europa, mi aveste avvertito delle vostre intenzioni, avrei lasciata la Tortue con una flotta imponente per venirvi ad incontrare all'entrata del golfo del Messico. Sarebbe bastata la notizia che la figlia del Corsaro Nero veniva a chiedere la protezione dei Fratelli della Costa, perché tutti i filibustieri della Tortue si mettessero in mare. Vostro padre, o signora, quantunque sia scomparso da molti anni, conta ancora più amici che i più famosi corsari, me compreso.»
«Sì» disse la fanciulla con un sospiro. «Mio padre aveva qui, fra gli eroi del mare, ancora molti devoti camerati.»
«Signora» disse Morgan con impeto. «Vi hanno usata qualche villania gli spagnoli? Parlate e, parola di Morgan, voi ne avrete pronta vendetta.»
Jolanda lo guardò a lungo in silenzio, quasi sorridendo, poi disse: «No.»
«Nemmeno il governatore?»
«No.»
«Eppure io so che meditava di farvi sparire.»
«Farni sparire?»
«Sì, signora.»
«Per qual motivo?» chiese la fanciulla con stupore.
«Ve lo dirò in un altro momento.»
«Queste parole mi sorprendono. So che il governatore insisteva perché rinunciassi in favore del governo spagnolo ai miei diritti sulle vaste possessioni che appartenevano a mia madre, dopo la morte del duca, mio nonno.»
«E avete rinunciato?»
«Oh, mai!...»
«Non vi ha minacciato?»
La fanciulla parve riflettere qualche istante, poi disse:
«Mi ha parlato di vendetta, che egli era stato incaricato di compiere.»
«Miserabile!» gridò Morgan. «Il giaguaro voleva ingannarvi, prima di divorarvi.»
«Dite?» chiese Jolanda.
«Signora, si dice che il governatore sia fuggito a Gibraltar. In questo momento i miei uomini stanno imbarcandosi per andarlo a trovare, non potendo essere io tranquillo finché quell'uomo non sarà in mia mano. Vi offro sulla mia nave, che porta il nome glorioso e temuto della invincibile Folgore che comandava vostro padre, un posto. Mi seguirete voi? Sarete sotto la protezione della bandiera dei Fratelli della Costa e nessuno potrà giungere fino a voi, se prima non ci avranno distrutti dal primo all'ultimo. Accettate?»
«Ho fede nella lealtà dei filibustieri, compagni di mio padre» rispose la fanciulla. «Capitano Morgan, io appartengo alla filibusteria.»
«Venite, signora, e si provino gli spagnoli a strapparvi agli scorridori del mare della Tortue.»
Capitolo decimo
Il sacco di Gibraltar
La sera stessa, la flotta corsara abbandonava Maracaybo, non lasciando in città che una piccola partita di filibustieri, incaricati di scovare gli abitanti, che dovevano trovarsi ancora in buon numero nascosti nei boschi dei dintorni, e di sorvegliare l'entrata della laguna, onde le navi spagnole già segnalate non chiudessero il passo.
Morgan sperava, come già avevano fatto diciassette anni prima il Corsaro Nero, l'Olonese ed il Basco, di sorprendere Gibraltar e di averla in sua mano senza troppa resistenza.
Sapeva che la città era risorta più bella e più ricca, in quel periodo di calma relativamente lungo e che gli spagnoli l'avevano fortificata. Era quindi quasi certo che il conte di Medina avesse trovato colà un rifugio, non essendovene altri di considerevoli, in quell'epoca, in tutta la vasta laguna di Maracaybo.
A mezzanotte, la flotta, forte di sette navi, avendone lasciata una ai filibustieri rimasti a terra, si trovava già in mezzo al lago, avendo il vento favorevole e muoveva velocemente verso la baia de la Mochila, sulle cui rive sorgeva la città!
Morgan, come al solito, guidava in persona la sua nave, essendo più pratico di quei bassifondi. Era d'altronde un uomo a cui bastava qualche ora di riposo per rimettersi completamente, tanto era gagliarda la sua fibra.
Carmaux e Wan Stiller, che erano, si può dire, i suoi aiutanti di campo e che godevano la sua completa fiducia, gli tenevano compagnia, fumando dei grossi sigari spagnoli e chiacchierando fra di loro.
La notte, abbastanza chiara, quantunque la luna mancasse, permetteva alla flotta di tenersi al largo dalle numerose isole che ingombravano allora, molto più di adesso, la laguna. I piloti d'altronde, seguivano perfettamente la rotta della nave ammiraglia, mantenendosi su una sola linea, non essendo tutti pratici di quelle acque, che nascondevano banchi e bassifondi in gran numero.
Cominciava ad albeggiare, quando la flotta giunse in vista delle coste verdeggianti de la Mochila. Qualche lume si discerneva sull'orizzonte, ancora piuttosto fosco, annunciante l'entrata del piccolo porto di Gibraltar.
«Carmaux» disse Morgan, che non aveva lasciato, durante tutta la notte, la ribolla del timore. «Ti ricordi ancora del porto?»
«Sì, mio capitano, quantunque siano trascorsi ormai tanti anni.»
«Dobbiamo governare a levante?»
«Con una quarta a greco.»
«Il tuo piantatore ti ha detto di quali mezzi di difesa può disporre la guarnigione?»
«Quel povero diavolo da ieri mi sembra assolutamente imbecillito e non ha saputo dirmi nulla.»
«L'hai imbarcato con noi?»
«Si trova nella mia cabina. È stato a pregarmi d'imbarcarlo, mentre io avrei fatto a meno di quel poltrone, che non ha ormai più alcun valore per noi.»
«Forse t'inganni, mio bravo Carmaux. Può diventare ancora un uomo prezioso, essendo uno dei notabili di Maracaybo e conoscendo il governatore. Ho più fiducia in lui, che in tutti gli altri prigionieri.»
«Colla paura che lo ha preso, mi pare che non valga più d'un negro. Si è fisso in capo che quel capitano Valera si sia accorto che è stato lui a guidare me e Wan Stiller al monastero e trema continuamente per la sua pelle.»
«Lo lasceremo andare senza riscatto.»
«Se avrà il coraggio di andarsene» disse l'amburghese, ridendo.
«Va a svegliarlo» disse Morgan.
Wan Stiller vuotò la pipa e pochi istanti dopo tornava in coperta, spingendosi innanzi il piantatore.
Il povero uomo pareva che fosse diventato veramente un imbecille. Si vedeva perfino troppo evidentemente che non era mai stato un uomo di guerra.
«Io ho ancora un vecchio conto da saldare con voi» gli disse Morgan, quando se lo vide dinanzi. «Direttamente od indirettamente voi foste la causa dell'impiccagione dei marinai che vi scortavano Non ve l'ho perdonato, come forse speravate.»
«Ah, signore» gemette il povero diavolo. «Voi credete ancora che...»
«Basta: ho bisogno di voi.»
«Ancora? Allora uccidetemi.»
«Vi farò impiccare, se lo desiderate, ma più tardi. Conoscete Gibraltar?»
«Sì, signore.»
«Vi mando colà come mio parlamentario.»
«Io sono un povero piantatore, senza influenza alcuna.»
«Ve la procureremo noi l'influenza che vi manca» disse Morgan, con accento secco «appoggiata dai novantasei cannoni della nostra squadra.»
«E se mi uccidessero invece?»
«Sapremo vendicarvi.»
«Magro compenso» brontolò don Raffaele. «Se mi trova non mi risparmierà!»
«Chi?»
«Il capitano Valera.»
«Tanta paura avete di quell'uomo?»
«È l'anima dannata del conte di Medina.»
«È impossibile che voi lo troviate a Gibraltar» disse Carmaux. «Io sono certo che è rimasto nascosto nei sotterranei del monastero...»
«Uhm!» fece il piantatore, crollando il capo. «Non lo conoscete.»
«Orsù, finitela colle vostre paure» disse Morgan. «Voi porterete al governatore di Gibraltar un mio messaggio, che ho già scritto, col quale invito la guarnigione e la popolazione a consegnarmi il conte di Medina, sotto pena, in caso di rifiuto, di distruggere la città da cima a fondo. E voi sapete che Morgan ha sempre mantenute le sue promesse.»
«E se non fosse ancora giunto, signore?» chiese don Raffaele.
«M'indicheranno dove si è rifugiato. Io d'altronde sono convinto che egli si trova già in quella città. Carmaux, fa' armare una scialuppa con dodici filibustieri, onde conducano quest'uomo a terra. Non siamo che a sei miglia dalla costa, e se alle dieci non riceveremo risposta, parola di Morgan, la popolazione si ricorderà per lunghi anni di me e dei filibustieri delle Tortue. A voi la lettera e v'auguro buona fortuna, don Raffaele.»
«E se anche il governatore di Gibraltar facesse impiccare i vostri uomini?» chiese il piantatore.
«Ci saremo noi a proteggerli colle nostre artiglierie. D'altronde, sbarcherete solo voi. Andate.»
Il filibustiere mise la nave attraverso il vento, onde permettere di calare in mare la scialuppa, poi, quando la vide allontanarsi, segnalò alle navi della squadra di stringere la fila e di entrare in porto.
Cosa appena credibile: gli spagnoli di Gibraltar, pur sapendo che i corsari si erano impadroniti di Maracaybo ed avendo già provati gli orrori del saccheggio commessi dall'Olonese, non aveva presa misura alcuna per opporre una lunga difesa, sicché alle sette del mattino le sette navi di Morgan poterono entrare tranquillamente nella piccola baia e gettare le àncore dinanzi alle mura ed ai fortini che si prolungavano lungo le rive della laguna.
La scialuppa, dopo d'aver sbarcato don Raffaele, era tornata a bordo della Folgore, senza essere stata disturbata, però pareva che gli spagnoli, quantunque molto meno numerosi di quelli di Maracaybo, si preparassero alla difesa, vedendoli piazzare le artiglierie di fronte alla squadra e coronare le cime degli spalti e le merlature dei castelli.
Morgan, dopo aver fatto disporre i suoi corsari ai posti di combattimento e d'aver fatto calare in acqua, bene armate con petrieri, tutte le scialuppe, si era seduto tranquillamente su un mucchio di cordami, sull'alto castello di prora della sua nave, aspettando la risposta del governatore.
Jolanda di Ventimiglia, che aveva lasciata la sua cabina, appena ricevuto l'annuncio che la flotta si preparava ad assalire la città, si teneva presso di lui, appoggiata alla murata di babordo, guardando, senza manifestare alcun timore, le artiglierie nemiche che minacciavano la squadra.
Aveva indossato un elegante vestito di seta nera con ricami e trine, il colore preferito da suo padre, che faceva risaltare doppiamente il pallore alabastrino del suo viso.
Non portava nessun gioiello. Solo una fila di perle azzurre, che dovevano avere un valore immenso per la loro tinta, era annodata intorno alla lunga capigliatura nera che portava sciolta sulle spalle.
Pareva che non facesse attenzione al formidabile corsaro, mentre invece, di quando in quando, di sfuggita, i suoi occhioni neri si fissavano rapidamente su di lui.
Quasi come sentisse la penetrazione di quegli sguardi, anche il filibustiere usciva bruscamente dalla sua apparente tranquillità e alzava il capo, girandolo verso la fanciulla.
Era già una mezz'ora che la flotta aveva gettate le àncore, senza che gli spagnoli nulla avessero tentato, quando un colpo di cannone rimbombò sulla più alta cima dei castelli, seguíto dal ben noto fischio rauco del proiettile.
La palla andò a spaccare la dolfiniera del bompresso e scheggiò la cima della polena, passando poi fra Morgan e la fanciulla.
«Ci salutano, capitano» disse Jolanda, volgendosi verso il filibustiere, che era balzato in piedi, pallidissimo.
«Ho tremato per voi» disse Morgan, gettandosi prontamente dinanzi alla fanciulla, per farle scudo col proprio corpo. «Discendete: gli spagnoli ci mirano.»
«Non vi spaventate, capitano» rispose Jolanda. «Mio padre non temeva certo le palle nemiche.»
«Qui fra poco cadrà piombo e ferro, signora. Vi prego, ritiratevi.»
Un altro colpo di canone era partito da uno degli spalti e la palla era passata sopra le loro teste, mandando in ischegge l'argano prodiero.
Morgan aveva afferrata la fanciulla per un braccio, traendola sulla tolda.
«Gli spagnoli pagheranno cari questi due colpi di cannone, sparati forse più contro di voi che su di me. Essi sanno di certo, a quest'ora, che voi siete con noi. Nella vostra cabina, signora di Ventimiglia.»
«Quando assalirete la città, mi avvertirete?» chiese la fanciulla.
«Ecco il buon sangue del Corsaro Nero» disse Morgan, guardandola con ammirazione. «Voi siete degna d'essere la figlia del più prode campione della filibusteria.»
La condusse fino al quadro di poppa, mentre le navi della squadra facevano tuonare i cannoni e le scialuppe s'empivano di combattenti per assalire i castelli.
«A noi, ora» disse Morgan, salendo sul ponte di comando. «Rispondete alla mia intimazione col ferro, e ferro e fuoco avrete, finché vorrete. Artiglieri!... Fuoco di bordata!»
Le sette navi avevano già cominciato a rispondere, con un crescendo spaventevole, tempestando gli spalti e le merlature dei castelli con uragani di bombe, mentre le scialuppe prendevano rapidamente il largo, montate da duecento bucanieri, che erano i bersaglieri della flotta.
La fregata di Morgan specialmente, avvampava come un cratere in piena eruzione, tirando delle tremende fiancate, che aprivano degli squarci considerevoli nelle muraglie non troppo resistenti della città.
La nave, non ostante la sua mole, trabalzava sotto quelle formidabili scariche, come se fosse lì lì per aprirsi, ed il rombo si ripercuoteva con tale intensità nella stiva e nelle corsìe, che gli artiglieri non riuscivano a comprendersi.
Gli spagnoli avevano dapprima risposto con molto vigore, ma dopo alcune scariche, cominciarono a rallentare.
Vedendo avanzarsi le scialuppe, volsero contro quelle le loro artiglierie, sparando a mitraglia, ma i filibustieri avevano dei piloti così destri, che assai di rado gli equipaggi, che le montavano, venivano colpiti. I pezzi avevano appena fatto fuoco, che le imbarcazioni viravano con fulminea velocità, gettandosi fuori dal campo di tiro.
L'abilità di quegli uomini e soprattutto l'esattezza matematica del fuoco dei bucanieri, i quali di rado mancavano ai loro colpi, non tardarono a sconcertare i difensori ed a persuaderli che la resistenza era ormai vana.
Ed infatti le prime baleniere erano appena sotto le muraglie, che si videro gli spagnoli sgombrare rapidamente gli spalti e le merlature e fuggire all'impazzata verso la città, senza nemmeno inchiodare le loro artiglierie.
Anche gli abitanti, erano già scappati, per mettersi in salvo nelle foreste foltissime, che circondavano il lago; troppo tardi però per sfuggire ai filibustieri, una partita dei quali si era gettata verso le savane, per tagliare loro il passo.
In meno di mezz'ora, i terribili scorridori del golfo del Messico si erano resi padroni della città, dei castelli, delle artiglierie e dei magazzini delle armi.
Furibondi per la resistenza trovata e anche per le perdite subìte, che erano state più considerevoli che nell'impresa di Maracaybo, quei predoni si erano abbandonati al saccheggio.
Morgan, come aveva già fatto a Maracaybo, si era subito precipitato del palazzo del governo, colla speranza di sorprendervi il conte di Medina, ma vi era giunto quando ormai tutti erano fuggiti.
«È una vera sfortuna» disse Carmaux a Wan Stiller. «Anche qui giungiamo quando quelli che cerchiamo hanno già sloggiato. Che quel dannato conte sia un diavolo simile a suo padre? Te ne ricordi, amburghese, come il duca di Wan Guld sfuggì al Corsaro Nero, quando cercammo di catturarlo prima a Maracaybo e poi qui?»
«Tuoni d'Amburgo!» esclamò Wan Stiller. «Si direbbe che la medesima istoria si ripete senza nessuna variante. Dove sarà fuggito quel maledetto conte?»
«Non siamo ancora certi che si sia rifugiato qui.»
«Se potessimo trovare don Raffaele.»
«Ci pensavo in questo istante. Quel sornione, che finge non saper mai nulla, finisce sempre col conoscere mille cose.»
«Purché non l'abbiano impiccato! Tu sai che i governatori spagnoli non sono mai stati troppo teneri pei loro amministrati.»
«Mi rincrescerebbe» disse Carmaux, «se avesse fatta una tale fine. Non la meritava.»
«Orsù, che cosa facciamo? È inutile ostinarsi a rimanere qui, ora che gli uccelli sono scappati. Lasciamo agli altri l'incarico di frugare le cantine ed i solai. Il governatore ed i suoi ufficiali non saranno stati così sciocchi da nascondersi in questo palazzo. Cerchiamo anche noi di saccheggiare qualche casa.»
«Preferisco una cantina» disse Carmaux. «Mi ripugna rubare, e poi il Corsaro Nero ci ha compensati a sufficienza, per aver bisogno di qualche mezzo migliaio di piastre.»
«Invecchi, compare» disse l'amburghese, ridendo.
«È per questo che preferisco ora la bottiglia.»
«Vada per la cantina, dunque. Non ne mancheranno a Gibraltar.»
I due filibustieri si presero sotto braccio e s'allontanarono, senza più occuparsi dei loro camerati che si preparavano a far scontare orribilmente, a quei disgraziati abitanti, la breve resistenza opposta.
Avevano già percorse tre o quattro vie, tenendosi lontani dalle case, per non ricevere sul capo i mobili che venivano lanciati dalle finestre, assordati dagli spari che echeggiavano in tutte le direzioni e dalle urla strazianti degli abitanti, che venivano terrorizzati in tutti i modi e anche tormentati, onde confessassero i luoghi ove avevano nascosti i loro tesori, quando su una piazza s'imbatterono in un gruppo di filibustieri che schiamazzavano a piena gola.
«È preso!... È preso!...»
«Getta una corda su quel palmizio!...»
«Non ci scappi più.»
«Facciamo dondolare la botte!...»
«E spilliamola per vedere se è piena di vino o di sangue!...»
«Chi hanno preso?» chiese l'amburghese.
«Il governatore di Maracaybo forse!» esclamò Carmaux.
«Accorriamo, compare!...»
I filibustieri, che pareva si divertissero come una banda di collegiali in vacanza, avevano formato circolo intorno ad uno dei palmizi che ombreggiavano la piazza, ed uno di loro erasi arrampicato fino alla cima, gettando ai compagni una fune, che terminava in un nodo scorsoio.
«Ohè!... Issa la botte!...» avevano gridato quelli che stavano abbasso.
Un urlo straziante, che fece balzare innanzi, con maggior velocità, Carmaux e Wan Stiller, si udì, poi un corpaccio grosso veramente come una botte s'alzò fra quel gruppo d'uomini, agitando pazzamente le braccia e le gambe.
Era l'impiccato, che veniva tirato in aria.
«Tuoni d'Amburgo!» urlò Wan Stiller, sguainando la sua draghinassa. «Don Raffaele!».
In pochi slanci furono addosso ai filibustieri che ridevano a crepapelle, vedendo le smorfie che faceva il povero piantatore e sfondarono impetuosamente il circolo, mandandone parecchi a gambe levate.
«Ferma!... Ferma!...» tuonò Carmaux, alzando minacciosamente la sua spada.
L'amburghese, che era molto più alto del compagno, con un colpo di draghinassa aveva tagliata la corda ed aveva ricevuto fra le braccia don Raffaele, che era già diventato paonazzo e che aveva cacciato fuori mezzo palmo di lingua.
L'atto di Wan Stiller e l'aria minacciosa di Carmaux, avevano prodotto un effetto così profondo sui corsari, che nessuno si era mosso per impedire che il povero piantatore venisse salvato. Solo uno di loro, forse più seccato degli altri di essere privato di quel divertimento, s'alzò dinanzi a Carmaux, dicendogli con accento irritato:
«Hai proprio giurato di proteggere sempre quel pappagallo? Per la seconda volta ce lo strappi dalle mani e cominciamo a perdere la pazienza.»
«Saresti capace di ripetere queste parole in presenza del capitano Morgan?» gli chiese Carmaux, muovendogli incontro.
Il corsaro fece una smorfia, che fece scoppiare dalle risa i suoi compagni.
«Andatevene dunque» disse Carmaux. «E l'ordine.»
Poi i filibustieri, che sapevano che con Morgan non vi era da scherzare, e l'amburghese e Carmaux godevano la piena confidenza del capo, si sbandarono in varie direzioni, lasciandoli soli.
«Come va don Raffaele?» chiese Carmaux al piantatore, a cui l'amburghese faceva inghiottire alcuni sorsi d'aguardiente.
«È meglio che mi uccidiate, signori» rispose il disgraziato. «Ormai sono un uomo finito.»
«Con tutta quella polpa che avete indosso! Eh via, don Raffaele! State meglio di noi.»
«Se non mi uccidete voi, lo faranno gli altri.»
«No, perché noi vi proteggiamo. Avete veduto il conte di Medina?»
«No, e credo che non sia venuto qui, ne sono certo. Perderete inutilmente il vostro tempo, se vorrete cercarlo.»
«E il governatore della città?»
«Fuggito anche lui, signore, dopo le prime cannonate e dopo d'avermi fatto anche bastonare.»
«Voi? E perché?»
«Perché gli ho portata la lettera del capitano Morgan. Ho le ossa tutte rotte. Maledetti galli!... Senza quella lotta, non mi avreste preso e non avrei dovuto sopportare tante disgrazie.»
«Vi abbiamo fatto guadagnare un bel gruzzolo di piastre e vi lagnate ancora» disse Wan Stiller, ridendo. «Ecco la riconoscenza degli uomini!...»
«Venite, don Raffaele» disse Carmaux. «Vi faremo passare lo spavento con un paio di bottiglie d'Alicante, di quello che tanto vi piace. Il mio camerata saprà scovare qualche cantina.»
Capitolo undicesimo
Fra il forte e la squadra spagnola
Per sei settimane, i filibustieri di Morgan si fermarono in quella disgraziata città, tormentando gli abitanti per far loro confessare dove tenevano nascosti i loro tesori e frugando i boschi e le savane, colla speranza di scoprire il governatore di Maracaybo.()
La taglia di cinquemila piastre promessa da Morgan a chi riusciva a prenderlo, era stato uno dei motivi principali per cui i filibustieri si erano accaniti contro la popolazione, sperando di strappare qualche confessione sul rifugio scelto dal conte di Medina, ma tutto era stato vano.
La notizia recata da alcuni corsari lasciati in Maracaybo, che gli spagnoli avevano rioccupato e riattato il forte della Barra e che tre grosse fregate, al comando d'un ammiraglio, erano improvvisamente comparse all'entrata della laguna, coll'incarico di distruggere la squadra corsara, decise finalmente i filibustieri a lasciare Gibraltar, dove d'altronde non vi era ormai più nulla da saccheggiare.
Non soddisfatti però del bottino accumulato, si fecero promettere dagli abitanti un riscatto di cinquantamila piastre, che doveva essere pagato a Maracaybo, minacciando in caso di rifiuto di tornare per incendiare e distruggere da capo a fondo la città.
Lo stesso giorno i corsari salpavano, portando con sé i notabili che dovevano rimanere in ostaggio come garanzia del versamento promesso.
Erano però tutti inquieti per le notizie ricevute dai loro camerati di Maracaybo e anche Morgan pareva che fosse un po' scosso.
Non li preoccupava il riattamento e l'armamento del forte della Barra, bensì l'arrivo della squadra spagnola, composta di navi d'alto bordo, armate ognuna di sessanta cannoni e montate da forti equipaggi.
Che cosa avrebbe potuto fare la squadra, composta quasi tutta di caravelle relativamente piccole, assai vecchie e malamente armate? Solo la fregata di Morgan avrebbe potuto impegnare la lotta e anche quella con nessuna probabilità di vittoria.
«Che cosa farete, signor Morgan?» chiese Jolanda, quando il filibustiere scese nel quadro per informarla della gravità della situazione.
«Non lo so ancora» rispose il filibustiere «ma noi non ci arrenderemo di certo e ci difenderemo finché rimarrà sulle nostre navi un solo uomo ed una sola carica di polvere.»
«Se vi prendessero, che cosa vi farebbero gli spagnoli?»
«Ci impiccherebbero, senza misericordia.»
«E quale sarebbe la mia sorte?»
Morgan guardò la fanciulla, che gli aveva rivolta quella domanda con una voce assolutamente tranquilla, come se la cosa quasi non la riguardasse.
«Signora,» disse il filibustiere «non siete ancora nelle loro mani, e per impossessarsi di voi, bisognerebbe che passassero prima sul corpo di noi tutti.»
«E se gli spagnoli l'avessero piuttosto con me che con voi? Sapete a che cosa pensavo in questo momento?»
«A chi?»
«Al conte di Medina.»
«Al governatore di Maracaybo?»
«Io sono quasi certa che sia stato lui a far giungere la squadra spagnola per riavermi in sua mano.»
«Ciò è possibile, signora. Quell'uomo ha infatti molto interesse a tenervi prigioniera. Ci tiene ai milioni di vostro nonno; se così non fosse non avrebbe mandato due fregate alle piccole Antille, per aspettare la nave che vi conduceva in America.»
«È il governo spagnolo che vuole privarmi dell'eredità materna, o lui?»
«Lui, signora.»
«Non ha diritti da vantare sulle possessioni lasciate dal duca, mio avo.»
«Ne siete ben certa?» chiese Morgan. «Non vi ha detto nulla, quando vi condussero in sua presenza?»
«Mi ha solamente invitata a firmare la rinuncia dei miei beni posseduti nel Venezuela ed a Panama» rispose Jolanda.
«Con quale pretesto?»
«Che mi erano stati sequestrati dal vice re di Panama, per risarcire le popolazioni danneggiate dalle scorrerie fatte da mio padre e dai suoi saccheggi.»
«Miserabile!» esclamò Morgan. «Tutti, gli spagnoli compresi, non ignoravano che vostro padre non volle mai una sola piastra fruttata dalle imprese dei corsari. Egli possedeva nella sua patria castelli e terre sufficienti per non averne bisogno, e lasciava la sua parte, che gli spettava per diritto di conquista, ai suoi marinai.
«Non avete alcun sospetto di chi possa essere quel conte?»
«Perché mi fate questa domanda, signor Morgan?» chiese la fanciulla con sorpresa.
«Desideravo saperlo.»
«È uno spagnolo, che forse odiava mio padre più degli altri.»
Morgan tacque per qualche istante, facendo il giro del salotto, poi chiese:
«Quando vostro padre morì da eroe sulle Alpi, combattendo contro lo straniero, chi s'incaricò di voi?»
«Una mia lontana parente.»
«Non vi siete mai accorta che attorno a voi si esercitasse una certa sorveglianza?»
Jolanda, a quella domanda era rimasta muta, interrogando cogli sguardi il corsaro.
Ad un tratto si batté la fronte colla mano, dicendo:
«Fritz...»
«Fritz!...» esclamò Morgan. «Chi era costui?»
«Un fiammingo, venuto non so da dove, che la mia parente aveva preso ai suoi servigi e che non mi lasciava un solo istante.»
«Vecchio o giovane?»
«Aveva allora trent'anni.»
«Quando lasciaste l'Europa, vi accompagnò?»
«Sì, capitano.»
«Che cosa è avvenuto di quell'uomo?»
«Non lo so. Scomparve dopo l'abbordaggio dato alla nave olandese che mi conduceva in America. È morto nel combattimento o fu fatto prigioniero, io non lo so.»
«Ecco il traditore» disse Morgan.
«Perché?»
«Deve essere stato lui ad informare il governatore di Maracaybo della vostra partenza per l'America.»
«Voi dunque credete?...»
«Io dico che quell'uomo ve lo aveva messo a fianco il conte di Medina.»
«Tanto interesse aveva il governatore a sorvegliarmi?»
«Più di quello che credete, signora» disse Morgan. «Un giorno ne saprete di più. Se però gli spagnoli pensano di riprendervi, ora che siete sotto la protezione dei Fratelli della Costa, s'ingannano. Ah!... Vengono a chiudermi il passo con tre vascelli d'alto bordo!... Ebbene, noi la vedremo. Vivete tranquilla, signora di Ventimiglia. L'antico luogotenente di vostro padre, mette la sua spada a vostra disposizione.»
Morgan, così parlando, cosa strana, si era animato, ciò che accadeva ben di rado in un uomo del suo carattere, piuttosto chiuso e freddo.
Lasciò il quadro e risalì in coperta, più preoccupato però di quello che realmente sembrasse.
Le navi della squadra veleggiavano in gruppo, come se temessero da un momento all'altro la comparsa dei tre formidabili vascelli spagnoli, che ormai sapevano lancianti sulle loro tracce.
Stringevano soprattutto il vento, per tenersi ben presso la fregata di Morgan, come uno stormo di pulcini che non si sentono sicuri che presso la chioccia.
Gibraltar da parecchie ore era ormai scomparsa ed il vento le spingeva rapidamente verso Maracaybo.
«Ebbene, capitano?» chiese Carmaux, abbordando Morgan che passeggiava sul ponte di comando.
«Che cosa vuoi, vecchio mio?»
«Come ce la caveremo?»
«Ti ricordi di Puerto Limon?» chiese ad un tratto Morgan, fermandosi dinanzi a lui.
«Come fosse ieri, comandante.»
«Come ha fatto il Corsaro Nero a sbarazzarsi delle navi spagnole, che gli chiudevano il passo?»
«Ha preparato un buon brulotto pieno di zolfo e di pece e lo ha mandato contro di loro.»
«E il risultato?»
«Una nave incendiata e l'altra in pericolo.»
«E noi faremo lo stesso» rispose Morgan. «Vi è la Caramada, che non vale cinquemila piastre, compresi i suoi dodici cannoni.
«La trasformeremo in un brulotto e la scaraventeremo contro le navi spagnole. Tutto finirà bene, mio vecchio Carmaux: lo vedrai.»
«Abbiamo la figlia del Corsaro Nero e non possiamo ridarla nelle mani degli spagnoli. Io sono pronto a dare la mia vecchia pelle per quella fanciulla.»
«Ed io a dannare anche la mia anima» rispose Morgan, con accento così caldo che fece alzare il capo al vecchio marinaio. Poi, quasi si fosse pentito di aver detto troppo, aggiunse con un accento freddo: «Faremo quello che potremo.» E riprese la sua passeggiata, con un passo però più agitato di prima, borbottando: «Sì, quello che potremo.»
Alla mezzanotte, la squadra, che aveva avuto il vento sempre favorevole, giungeva dinanzi a Maracaybo, accolta con grida di giubilo dalla piccola guarnigione che vi aveva lasciata.
Disgraziatamente le notizie recate a bordo da essi erano poco incoraggianti. Il forte della Barra era stato munito formidabilmente di nuove artiglierie, durante quelle sei settimane e occupato da una forte guarnigione, e le navi spagnole non avevano lasciati i loro ancoraggi in attesa di dare ai corsari una terribile e decisiva battaglia.
La via era chiusa, per riguadagnare il mare dei Caraibi, e una lotta era impossibile ad evitarsi.
Morgan, che non si sentiva in grado di assalire le grosse navi spagnole, prese nondimeno e senza esitare il suo partito, colla speranza di spaventare i nemici e deciderli a lasciarlo andare.
Fece scendere in una scialuppa alcuni prigionieri, scelti fra i più influenti e la stessa notte li mandò all'ammiraglio spagnolo, intimandogli di lasciargli sgombra la ritirata, se voleva evitare la distruzione della città ed il massacro di tutti gli ostaggi che aveva a bordo.
L'alba non era spuntata, che i messaggieri tornavano scoraggiati a bordo, recando la notizia che l'ammiraglio avrebbe pagato il riscatto chiesto con delle palle di cannone e che si sarebbe ritirato solamente dopo la restituzione del bottino preso nelle due città e di tutti i prigionieri, gli schiavi negri compresi e soprattutto della signora Jolanda di Ventimiglia.
Udendo quelle pretese, soprattutto l'ultima, un terribile scoppio d'ira si era manifestato fra gli equipaggi della squadra. Tutto, piuttosto che rendere la figlia del Corsaro Nero; questo era stato il grido che era echeggiato su tutte le navi.
Morgan aveva subito chiamato a bordo della Folgore i vari comandanti, dicendo loro:
«Volete voi accettare la vostra libertà, col sacrificio del vostro bottino e della signora di Ventimiglia, o difendervi?»
La risposta, a nome di tutti, la diede Pierre le Picard, che, dopo Morgan, era quello che godeva maggior influenza fra i filibustieri.
«Preferiamo farci uccidere dal primo all'ultimo, piuttosto che rendere la figlia del Corsaro Nero. I Fratelli della Costa mai si macchieranno d'una simile viltà.»
Avendo però riflettuto meglio alle forze imponenti di cui disponeva l'ammiraglio spagnolo, decisero di mandargli altri messaggeri, coll'incarico di dirgli che avrebbero abbandonato Maracaybo senza distruggerla, che abbandonavano il pensiero di esigere un riscatto e che si offrivano di mettere in libertà tutti gli ostaggi e metà degli schiavi e dei prigionieri di Gibraltar.
Non vedendo giungere risposta alcuna e sospettando che gli spagnoli cercassero di guadagnar tempo, per avere qualche altra nave di rinforzo, Morgan decise di agire senza ritardo e di sorprendere la flotta avversaria.
Aveva già messi gli occhi sulla Caramada, che era una delle più grosse, ma anche delle più vecchie navi della squadra, e che poteva prestarsi ottimamente per farne un brulotto fiammeggiante da lanciare fra le navi spagnole.
Fece asportare quanto poteva avere valore, poi fece riempire la nave di zolfo, di pece, di bitume, di grassi e di legnami resinosi, onde, da un momento all'altro, prendesse fuoco da prora a poppa, poi fece collocare sulla coperta dei fantocci con cappellacci alla filibustiera, che volevano rappresentare uomini, e piantare sulla ribolla del timone il grande stendardo d'Inghilterra, onde far credere agli spagnoli che quella fosse la nave ammiraglia.
Sei giorni furono impiegati in quei preparativi, durante i quali l'ammiraglio spagnolo, che si credeva ormai sicuro di tenere in suo potere i corsari, non diede segno di vita, mentre avrebbe potuto facilmente piombare sulla squadra, sgominarla e affondarla senza troppa fatica.
Verso il tramonto del settimo giorno, Morgan, dopo d'aver fatto giurare ai suoi uomini di non chiedere grazia fino all'ultimo sospiro, diede il segnale della partenza.
La nave-brulotto, che era montata da un pugno d'uomini scelti fra i più valorosi, apriva la marcia con tutte le vele sciolte, per meglio mascherare i fantocci della coperta.
La seguiva a breve distanza la fregata di Morgan, poi venivano le altre navi su due colonne.
Una profonda ansietà regnava su tutti i ponti, poiché nessuno ignorava che se il colpo non riusciva era la fine di tutti.
Morgan, al momento di muoversi, era sceso nel quadro dove Jolanda si trovava.
«Signora» le disse con una certa emozione. «Noi stiamo per giuocare una partita disperata, forse la più tremenda di quante io ne abbia impegnate cogli spagnoli. Checché succeda non lasciate il quadro. Se la nave affonderà all'ultimo momento mi troverete al vostro fianco.»
«Signor Morgan» rispose la fanciulla, alzando su di lui i suoi begli occhi, «voi potreste risparmiare questa battaglia che può costare tante vite umane. Me soprattutto che gli spagnoli vogliono: cedetemi a loro. Sono una donna e non mi faranno alcun male.»
«Mai, signora. I filibustieri sono pronti a dare la loro vita per la figlia di colui che fu il più grande eroe del mare. E poi, signora, correreste più pericoli voi che noi.»
«Io?...» chiese Jolanda con stupore. «Sono i miei possessi che vogliono e non già la mia vita. Se li prendano dunque e dirò, come mio padre, che ho in Piemonte abbastanza terre e castelli, per farne a meno di quelli che possedeva qui mio nonno.»
«Se si trattasse solamente di questo, signora» disse Morgan, «non avrei esitato, col vostro consenso, ad aprire trattative coll'ammiraglio spagnolo, ma c'è ben d'altro che voi ignorate. Volete un consiglio? Guardatevi dal governatore di Maracaybo, dal conte di Medina, perché quell'uomo cercherà di farvi tutto il male possibile.»
«Per quale motivo? Io non l'ho mai veduto prima del mio arrivo in America.»
«È un segreto, che per ora non vi posso svelare. Addio signora, e se le palle mi risparmieranno, ci rivedremo dopo la battaglia. Ecco il cannone che comincia a tuonare. Pregate per le nostre armi.»
Ciò detto, Morgan si slanciò verso la scala, che metteva sul ponte, gridando:
«Pronti per l'abbordaggio, miei prodi!...»
Il brulotto non si trovava allora che a mille passi dalle navi spagnole, le quali stavano salpando le àncore, per dare addosso alla squadra.
Erano tre grosse fregate di sessanta cannoni ciascuna, dai bordi altissimi ed il castello pure assai alto, già pieno d'armati.
Le navi filibustiere, eccettuata la fregata di Morgan, facevano una ben meschina figura, di fronte a quei poderosi colossi.
Pareva però che gli spagnoli, confidando nelle proprie forze, non avessero troppa fretta di muoversi, né di aprire il fuoco.
La sola nave ammiraglia era stata lesta a salpare le àncore, e si dirigeva verso il brulotto per tagliargli il passo.
Cosa appena credibile: invece di far tuonare i suoi sessanta cannoni, che sarebbero stati più che sufficienti per mandarlo a fondo in pochi minuti, tanto più che, come abbiamo detto, Morgan aveva resa la Caramada un puro scheletro, gli muoveva addosso per abbordarlo!...()
Era quello che desideravano i filibustieri, i quali stentavano a credere d'aver tanta fortuna.
«Tuoni d'Amburgo!...» esclamò Wan Stiller, che dal castello della Folgore seguiva attentamente la marcia del brulotto. «Quegli spagnoli sono pazzi!...»
«Fanno a meraviglia il nostro giuoco, compare» disse Carmaux, che gli stava presso. «Fra poco vedremo un bel fuoco!...»
La distanza fra il brulotto e la nave ammiraglia scemava a vista d'occhio, e nessuna cannonata partiva ancora dall'enorme nave.
Solo le altre due cominciavano a sparare qualche colpo sulla squadra, maltrattandola abbastanza gravemente.
I marinai della Caramada, nascosti dietro le murate, colle torce accese, aspettavano in silenzio.
Ad un tratto il pilota, che stava semi-coperto sotto il grande stendardo inglese, vedendo la nave ammiraglia di traverso, con un colpo di ribolla le cacciò il bompresso fra le sartìe, urlando:
«Fuoco!... Date fuoco!... E gettate gli arponi d'arrembaggio!...»
I dieci o dodici uomini, che montavano la Caramada, scagliarono le torce fra i cumuli di zolfo, di bitume e di pece, che si trovavano dispersi per la coperta fra il legname resinoso, che ingombrava la stiva, lanciarono poscia i grappini d'abbordaggio fra le griselle della fregata; quindi, approfittando dello stupore degli spagnoli, si gettarono in acqua, raggiungendo a nuoto la scialuppa che si trovava dietro la poppa e recidendo la fune che la tratteneva.
Una fiammata immensa, prodotta dall'esplosione di alcuni barili di polvere, nascosti fra le materie infiammabili, s'alzò sulla Caramada, investendo la velatura ed il sartiame della nave ammiraglia e costringendo gli uomini che si trovavano sulle murate, pronti a respingere il temuto abbordaggio, a fuggire.
Una luce intensa illuminava il mare e le navi. Il brulotto ardeva come uno zolfanello e con lui l'ammiraglia, la cui alberatura era ormai tutta in fiamme.
Un urlo immenso era echeggiato fra i filibustieri:
«Avanti, Fratelli della Costa!... Addosso!...»
Mentre le navi minori investivano l'ammiraglia, cannoneggiandola furiosamente, per impedire agli spagnoli di spegnere l'incendio, Morgan si era gettato addosso ad un'altra nave, la più grossa della squadra, tempestandola coi suoi quaranta cannoni.
La terza aveva già ai fianchi le due navi della riserva, che erano le meglio armate dopo la Folgore, e montate per la maggior parte da bucanieri, quegli impareggiabili tiratori, che non avevano rivali al mondo e che con ogni palla uccidevano.
Capitolo dodicesimo
«All'abbordaggio, figli del mare!»
La battaglia si era impegnata con furore d'ambe le parti, fra grandi clamori e un rimbombo assordante, essendovi su tutte quelle navi più di trecento pezzi d'artiglieria.
I filibustieri, incoraggiati dal primo successo, combattevano col solito valore, mirando soprattutto a distruggere l'ufficialità e facendo un fuoco infernale sui ponti, sui casseri e sui castelli, per sgombrarli e tentare un fulmineo abbordaggio.
La nave ammiraglia, tutta avvolta dalle fiamme, era ormai perduta e bruciava assieme al brulotto, che le era rimasto impiccicato al fianco.
I filibustieri delle piccole navi non avevano trovata alcuna resistenza, poiché il fuoco era avvampato così rapidamente, che la maggior parte degli spagnoli, che montavano la fregata, erano rimasti arsi dal primo scoppio e soffocati dal fumo intenso e nauseante, che si sprigionava dalla stiva della Caramada.
Per compassione avevano salvato i pochi superstiti, compreso l'ammiraglio, che era stato raccolto da una scialuppa, nel momento in cui stava per annegare.
Tuttavia la vittoria non era ancora guadagnata, poiché le due altre navi si difendevano terribilmente, mettendo a dura prova il valore dei corsari. Due volte Morgan aveva tentato di abbordare la nave che aveva assalito e ne era sempre stato respinto, con grande perdita d'uomini.
I sessanta cannoni della spagnola, abilmente manovrati, avevano anzi causato alla Folgore tali danni, da temere che da un momento all'altro affondasse o per lo meno perdesse la sua intera alberatura.
Eppure, dall'espugnazione di quella grossa fregata dipendeva la vittoria, essendo i filibustieri ancora troppo inferiori di forze per tener fronte a tutte e due.
Morgan, che vedeva sfuggirsi di mano tutte le speranze che aveva concepite e vedeva la sua squadra in pericolo di venire dispersa e ricacciata verso Maracaybo, fece un supremo appello ai suoi uomini.
«A me i più valorosi!...» urlò, impugnando colla destra la spada e colla sinistra la pistola. «Cento piastre a chi metterà i piedi sulla fregata!... Carmaux!... Abborda!...»
Il francese, che si trovava alla ribolla con Wan Stiller, con un brusco colpo di barra gettò la Folgore addosso alla fregata, mentre i gabbieri dalle coffe e dalle gabbie gettavano i grappini d'abbordaggio.
La spagnola però era così alta di bordo, che le murate della Folgore si trovavano appena a livello degli sportelli della batteria.
I corsari, tuttavia, incoraggiati da Morgan e da Pierre le Picard, che pei primi si erano aggrappati alle bancazze, tentando di issarsi fino ai bastingaggi, dopo d'aver scagliate parecchie bombe sulla fregata spagnola, per allontanarne i difensori, si erano slanciati all'arrembaggio, con urla tremende, tenendo fra i denti le loro corte sciabole, colle quali solevano combattere nelle pugne corpo a corpo.
Disgraziatamente gli spagnoli affacciati al parapetto della loro nave avevano buon gioco a fucilarli mentre si arrampicavano.
Il momento era terribile e lo scoraggiamento cominciava ad impossessarsi di quei forti e rubidi uomini del mare, quando improvvisamente una voce metallica ed imperiosa, che ricordava i comandi taglienti del Corsaro Nero, si levò sul ponte della Folgore, dominando il rimbombo delle artiglierie e le urla dei combattenti:
«Su, uomini del mare!... All'abbordaggio!...»
Tutti si erano voltati, dimenticando per un istante che gli spagnoli stavano sopra di loro e che li fucilavano.
Jolanda di Ventimiglia, tutta vestita di nero, come usava suo padre, con una lunga piuma pure nera infissa nei capelli ed una spada nella destra, era comparsa sul ponte della Folgore, fra il fumo delle artiglierie, e additava ai corsari la fregata.
«Su, uomini del mare!...» ripeté, con quell'accento che sapeva ritrovare suo padre nei momenti più terribili. «All'abbordaggio! La figlia del Corsaro Nero vi guarda!...»
Un clamore spaventevole aveva risposto alla fanciulla. «All'abbordaggio!... All'abbordaggio!...»
E quegli uomini, che stavano per cedere, si erano inerpicati su per le bancazze e su per le sartìe, come una legione di demonî, urlando a squarciagola:
«Morte!... Morte agli spagnoli!...»
Un uomo solo, che si teneva sospeso allo sportello d'un sabordo della batteria, era rimasto immobile, fissando i suoi sguardi sull'eroica fanciulla, che colla sua presenza stava per decidere della vittoria. Era Morgan.
Quella contemplazione però non ebbe che la durata di pochi istanti.
Udendo sopra la sua testa il fragore delle spade e delle sciabole, si inerpicò su per lo sportello, aggrappandosi alle sartìe dell'albero maestro, e gridando con voce tuonante:
«Su, su, figli del mare!... La figlia del Corsaro Nero vi guarda!...»
I filibustieri erano già sulla coperta della fregata e si erano rovesciati addosso all'equipaggio spagnolo, con tale impeto, da ricacciarlo parte a poppa e parte a prora, in completo disordine.
Il comandante della fregata, vedendo la nave ormai perduta, si era lasciato uccidere e anche gli ufficiali erano per la maggior parte caduti al primo urto.
L'arrivo di Morgan e di Pierre le Picard, con un nuovo drappello di filibustieri, persuase gli spagnoli a gettare le armi e chiedere quartiere.
L'equipaggio della terza fregata, vedendo ammainare, dall'albero maestro della compagna, il grande stendardo di Spagna e vedendo la nave ammiraglia affondare, fra un vortice di fiamme e di scintille e fra l'orrendo fragore delle santebarbare, prese rapidamente il suo partito, onde non venire a sua volta assalita e presa.
Con due tremende bordate, eseguite dai suoi sessanta cannoni, respinse le navi più piccole della squadra filibustiera, che le si stringevano addosso, maltrattandole più o meno gravemente quasi tutte, poi, spiegate rapidamente tutte le vele, prese la fuga in direzione del forte della Barra.
Sia per partito preso, affinché i corsari non s'impadronissero più tardi delle artiglierie, od imperizia dei suoi piloti, urtò così poderosamente contro le scogliere dell'isolotto, da spaccarsi a metà e da colare a fondo in pochi minuti, lasciando appena il tempo all'equipaggio di guadagnare terra e di rifugiarsi nel forte.
Un urlo formidabile, un urlo di vittoria, sprigionatosi da quasi quattrocento petti, aveva salutata la fuga dell'ultima nave.
Mai, fino allora, i filibustieri avevano ottenuto un trionfo così completo. Miracoli molti e prodigi di valore quasi incredibili, ne avevano compiuti in cento altre lotte, ma non come quelli.
Morgan, appena fatti rinchiudere i prigionieri spagnoli nelle batterie e collocare alle porte delle polveriere uomini fidati, onde evitare qualche tradimento, era sceso sulla sua nave, dove Jolanda di Ventimiglia si trovava sempre, calma, sorridente, colla spada ancora in pugno.
«Signora» le disse, mentre i suoi occhi, ordinariamente freddi, s'accendevano d'un lampo strano. «È a voi che noi dobbiamo la fortuna di aver vinto una delle più terribili battaglie che ricordi la storia dei filibustieri della Tortue. Senza la vostra improvvisa comparsa e quel grido, che imitava così bene la voce squillante di vostro padre, l'invincibile Corsaro Nero, forse a quest'ora la mia flotta sarebbe stata distrutta e noi tutti saremmo in fondo al mare.»
«Io!...» esclamò la fanciulla sorridendo. «Mi sono rammentata della frase che mio padre lanciava, quando spingeva i suoi uomini all'abbordaggio e l'ho pronunciata. Una cosa che qualunque altra donna avrebbe potuto fare.»
«No, signora» rispose Morgan, con insolito calore. «Un'altra donna non avrebbe avuto il coraggio di esporsi al fuoco d'una così grossa fregata e si sarebbe guardata dal lasciare la sua cabina. Solo voi, nelle cui vene scorre il sangue del più grande eroe del mare, avreste potuto fare ciò che avete fatto. Abbiate, signora, la riconoscenza mia e quella dei miei uomini.»
Poi, volgendosi verso i filibustieri, che dall'alto delle murate della fregata spagnola o del cassero e dal castello della Folgore contemplavano muti la fanciulla, gridò:
«Salutate l'eroina del mare!»
Un urlo entusiastico, che si ripeté su tutti i legni, che erano accorsi attorno alla fregata di Morgan, s'alzò fra quei quattrocento uomini:
«Viva la figlia del Corsaro Nero!... Evviva l'eroina del mare!...»
Quei ruvidi uomini, che da un istante all'altro sembravano impazziti, agitavano i cappelli e scaricavano in aria le armi, fra urrah strepitosi, che dovevano giungere fino agli orecchi della guarnigione del forte della Barra.
La fanciulla, profondamente commossa, fece colla mano un cenno di saluto; poi, aiutata da Morgan, scese la scaletta del ponte, ritornando nel quadro, mentre i tre urrah di rigore squarciavano l'aria ed i cannoni della vinta fregata tuonavano, con orrendo frastuono, in onore della valorosa italiana.
«Tuoni d'Amburgo!» esclamò Wan Stiller, che si trovava sotto il ponte di comando, insieme all'inseparabile suo compare ed a don Raffaele. «Si direbbe che io ho gli occhi umidi!...»
«Ed io li ho davvero» rispose Carmaux. «Ah!... la brava fanciulla!... E quel grido!... Mi pareva che noi fossimo tornati ai tempi in cui il Corsaro Nero comandava l'abbordaggio dal castello della vecchia Folgore.»
«Sì, una bella e valorosa fanciulla» borbottò il piantatore. «Peccato che non si trovasse sul ponte della fregata dei miei compatrioti.»
«Che cosa avete da mormorare, don Raffaele?» chiese Carmaux, che aveva realmente gli occhi umidi.
«Dicevo che se quella fanciulla non fosse uscita dalla sua cabina, non so se voi avreste vinta la fregata» rispose il piantatore con un sospiro.
«Non dico il contrario. Si difendevano bene i vostri compatrioti, parola di Carmaux. Ci hanno ammazzati quindici o venti uomini e feriti quasi altrettanti.»
«E non siete ancora fuori dalla laguna. Il forte della Barra è stato rialzato più formidabile di prima e non vi lascierà passare, senza bombardarvi per bene.»
«È vero» disse Wan Stiller, guardando le imponenti opere di difesa che munivano l'isolotto e che in sole sei settimane gli spagnoli avevano costruite. «Quello sarà un osso ben duro da rodere.»
«E che ci darà dei grossi fastidi» aggiunse Carmaux. «Eppure bisognerà andarcene al più presto. Pierre le Picard ha saputo da un pilota, caduto in nostra mano, che queste tre fregate facevano parte di una squadra di sei vascelli incaricata di sterminarci.
«Prima ancora che gli altri giungano, dobbiamo sgombrare. Non si è due volte fortunati. Ah!...»
«Che cos'hai compare?» chiese Wan Stille.
«Don Raffaele, devo darvi una notizia che non so se vi farà piacere o dispiacere.»
«Quale?»
«Sapete chi ho veduto fra i difensori della fregata?»
«Non saprei.»
«Il capitano Valera.»
L'emozione che provò il povero uomo nell'apprendere quella notizia fu tale, che cadde fra le braccia dell'amburghese che gli stava dietro.
«Ohe, don Raffaele!» gridò il filibustiere, rimettendolo in equilibrio, «che cosa vi piglia?»
«È morto?» chiese il piantatore, che era diventato livido.
«No, si trova fra i prigionieri» rispose Carmaux.
«Allora sono un uomo finito.»
Il fischietto del mastro d'equipaggio, che chiamava i filibustieri a raccolta, interruppe la loro conversazione.
Morgan, dopo un breve consiglio tenuto coi comandanti delle navi, che si erano radunati nel quadro della Folgore, aveva dato ordine ai mastri di far alzare le vele e di muovere, senza ritardo, verso il forte della Barra per tentare di espugnarlo, o per lo meno di guadagnare il mar dei Caraibi, onde evitare il pericolo di farsi rinchiudere nella laguna dalle altre tre fregate, che potevano comparire da un momento all'altro.
Gli equipaggi delle due navi più maltrattate e che erano diventate quasi inservibili, furono imbarcati sulla nave spagnola e, alla mezzanotte, la squadra, aggiustati alla meglio i danni riportati dalle alberature, muoveva risolutamente verso il forte, per tentare l'ultimo colpo.
Già entusiasmati dal primo successo, i filibustieri si tenevano quasi sicuri di riuscire anche nella seconda impresa, sicché si fecero sotto il forte, senza nemmeno degnarsi di rispondere al fuoco intenso degli spagnoli e, giunti dinanzi alle scogliere, misero in acqua le scialuppe e presero terra in numero di trecento, assalendo vigorosamente le torri e le trincee.
Avevano però fatto troppo affidamento sulle loro forze e come aveva già detto Wan Stiller, trovarono un osso troppo duro per i loro denti.
Nonostante l'impetuosità dei loro attacchi e la moltitudine di bombe che lanciavano a mano sugli spalti, due ore dopo erano costretti a ripiegare più che in fretta, lasciando un numero considerevole di morti e portando con sé molti feriti.
La sconfitta inaspettata, turbò profondamente quei formidabili uomini, che si reputavano invincibili e anche lo stesso Morgan, il quale cominciava a dubitare di poterla spuntare.
Egli tornò col grosso della squadra, aveva fatto ritorno a Maracaybo, per vedere di prendere, d'accordo coi capi delle navi, qualche decisione disperata.
Prevalse dapprima l'idea di impressionare la guarnigione del forte, mandando al governatore alcuni prigionieri, coll'incarico di chiedergli un forte riscatto se voleva che risparmiassero la città. E così fu fatto.
Ottenuto un formale rifiuto, Morgan si rivolse agli abitanti i quali, per non vedersi completamente rovinati, si decisero, facendo uno sforzo supremo, a pagarlo.
Con quelle migliaia di piastre non miglioravano affatto la posizione dei filibustieri, i quali si vedevano sempre nell'impossibilità di lasciare la laguna e sopra il capo la minaccia di veder comparire il resto della squadra spagnola.
Decisero di scendere a patti, chiesero al comandante del forte che li lasciasse uscire, offrendogli in cambio la libertà di tutti i prigionieri, che si trovavano come ostaggi a bordo delle navi filibustiere, minacciando, in caso di rifiuto, d'impiccarli tutti agli alberi ed assicurandolo poi che, dopo, passerebbero egualmente sotto il forte.
La risposta fu tutt'altro che quella sperata, poiché il governatore fece loro dire da un suo messo, che se gli abitanti di Maracaybo avessero impedito l'ingresso ai pirati, come egli era risoluto d'impedirne l'uscita, non si sarebbero trovati in quelle tristi condizioni e che li impiccassero pure.
Morgan non era inumano e d'altronde non voleva offrire alla figlia del Corsaro Nero un così triste e feroce spettacolo. Aumentando però il pericolo e cominciando a mancare i viveri in Maracaybo, decise di tentare nuovamente la sorte.
Fece dividere fra i filibustieri le duecento cinquantamila piastre ricavate dal saccheggio nelle due città, parte in oro, parte in argento ed in pietre preziose, gli schiavi negri e le merci preziose che erano in grande quantità; poi, sopra piccoli legni, fece passare dietro le boscaglie del forte della Barra duecento dei suoi uomini, come se si preparassero ad assalire gli spagnoli da quella parte.
Appena però calarono le tenebre, li fece rimbarcare nascostamente sui legni.
Gli spagnoli, ingannati da quella manovra, sospettando che i filibustieri assalissero il forte dalla parte di terra, erano stati solleciti a piazzare da quella parte la maggior parte delle loro artiglierie, per schiacciarli facilmente.
Quell'inganno doveva essere la salvezza dei corsari. Infatti, col favor delle tenebre, la stessa notte, la squadra lasciava tacitamente la laguna, coi fanali spenti, imboccando audacemente lo stretto della Barra.
Quando gli spagnoli s'accorsero dello strattagemma, era troppo tardi per impedire ai loro odiati nemici l'uscita, ed invano fecero tuonare le loro artiglierie.
Appena giunto fuori di tiro, Morgan fece sbarcare la maggior parte dei prigionieri, per non avere le navi troppo ingombre, e, salutato il forte con una salva, si spingeva in alto mare senz'altre molestie.
Ancora una volta la fortuna aveva arriso a quell'audace filibustiere.
Capitolo tredicesimo
Fra il fuoco e le onde
Da due giorni, la squadra dei filibustieri aveva lasciate le acque di Maracaybo, navigando di conserva per essere pronta a dare battaglia alle tre fregate spagnole, che dovevano battere quel mare e che non avevano ancora preso parte al combattimento, quando la sera del terzo, mentre si trovava a una cinquantina di miglia dall'isola d'Oruba, s'alzò improvvisamente sull'orizzonte una nuvola nerissima, che non prometteva nulla di buono,.
L'atmosfera già da qualche ora aveva acquistata una trasparenza straordinaria, segno infallibile d'un prossimo uragano, ed il mare, quantunque apparisse tranquillo, esalava un odore strano, come se le acque si fossero improvvisamente corrotte.
Era la stagione degli uragani e dei tremendi maremoti, o razzi di mare, prodotti dai furiosi venti di ponente e che di frequente sconvolgono le Antille, grandi e piccole, causando disastri immensi.
Al sentire quell'odore caratteristico e al vedere il sole tramontare più rosso del solito, una certa inquietudine si era impadronita di tutti gli equipaggi della squadra che conoscevano per prova la violenza delle tempeste del mar dei Caraibi e dell'immenso golfo del Messico.
«Si prepara di certo una brutta notte» disse Carmaux a Wan Stiller, che guardava attentamente le prime stelle alzarsi sull'orizzonte, e che apparivano più grandi del consueto.
«Cattivo odore» rispose l'amburghese, fiutando a più riprese l'aria.
«Odor di bufera, compare.»
«Il capitano Morgan ha avuta una buona idea di farci passare su questa fregata. È molto più solida della sua Folgore, che ha il cassero sconquassato e l'alberatura danneggiata.»
«Si direbbe che presentiva la bufera» disse Carmaux.
«Abbiamo però una mina nella stiva.»
«Una mina?»
«I prigionieri spagnoli, che potrebbero approfittare della tempesta per giuocarci qualche brutto tiro.
«Se io fossi stato il capitano, li avrei sbarcati assieme agli altri. Già temo che non caverà da essi grossi riscatti.»
«Vi sono fra loro dei pezzi grossi, amico Carmaux.»
«Il capitano Valera forse?»
«Ah!»
«Che hai, amburghese?»
«Hai mai chiesto a costui come è riuscito ad imbarcarsi sulla squadra spagnola, mentre noi l'avevamo lasciato nei sotterranei del convento? Non hai trovato strana la sua presenza su questa nave?»
«Infatti, è vero» disse Carmaux, che era stato colpito dalla riflessione dell'amburghese. «Perché quell'uomo invece di mettersi in salvo si è unito alla squadra? Che si trovasse sulla fregata anche il governatore?...»
«Di cui era l'anima dannata e l'amico intimo, come disse don Raffaele» aggiunse Wan Stiller. «Vorrei vederci un po' chiaro in questa faccenda.»
«Ed io non meno di te, amburghese» disse Carmaux.
«E il diavolo ce lo ha mandato qui, dove si trova la figlia del Corsaro Nero!»
«Teniamolo d'occhio, compare. Il nemico peggiore per la signora di Ventimiglia, dopo il conte di Medina, è quello.»
Uno scricchiolìo si era fatto udire in alto. Le vele di pappafico e di contrapappafico giravano, sbattendo fortemente, sotto le prime raffiche.
Morgan era comparso in quel momento sul ponte, con Pierre le Picard e la signorina di Ventimiglia.
«Tempesta» disse volgendosi verso la fanciulla, che guardava verso ponente, dove la nuvola s'alzava rapidissima, tinta dagli ultimi riflessi del tramonto. «Non avrete paura, signora?»
«Sono la figlia d'un uomo di mare» rispose Jolanda, con voce tranquilla.
«Per quanto violenta sia, noi potremo reggere alle onde e alla furia dei venti» disse Morgan. «Sono le piccole navi della squadra che si troveranno a mal partito e non potranno seguirci. Pierre le Picard, prendi tutte le disposizioni necessarie per far fronte all'uragano. Non lasciamoci sorprendere. Temo qualche razzo di mare.»
«Che cos'è?» chiese Jolanda.
«È un'onda mostruosa che si solleva improvvisamente, nell'epoca delle grandi maree, ed alla quale difficilmente le navi possono resistere. Fra il luglio e l'ottobre si ripete ogni anno due o tre volte e cagiona sempre danni immensi, specialmente sulle spiagge delle isole. Talvolta quel cavallone s'alza, quando il mare è quasi tranquillo, s'avvicina alle coste così lento che niuno crederebbe potesse causare incomodo alcuno. Quando però giunge a quattro o cinquecento passi, s'alza fulmineo, come sollevato da una forza misteriosa e piomba così tremendo, che spazza via città e borgate e trascina le navi, ancorate nelle rade, attraverso le campagne dove le lascia in secco. Qualche volta invece compare durante gli uragani e allora è più tremendo.»
Un rombo formidabile, che si ripercosse lungamente nel seno della nuvola nera e che parve lo scoppio simultaneo d'una mezza dozzina di grossi pezzi d'artiglieria, interruppe la loro conversazione.
Quasi subito si udirono per l'aria dei lunghi fischi stridenti, come se mille correnti s'incrociassero, provenienti da varie direzioni, e l'alberatura della fregata fu scossa dalla cima degli alberetti ai travi inferiori.
Fra i fragori delle prime ondate, i fischi del vento e le note stridule dei mastri e dei contro-mastri, si udì la voce di Carmaux a gridare:
«Attenti alle gabbie e che la fortuna ci protegga!»
Il mare montava a vista d'occhio, mentre la nuvola nera copriva tutta la vôlta celeste, con rapidità fantastica, intercettando la luce degli astri.
Sulle acque del mar dei Caraibi era piombata una profonda oscurità, che i due grossi fanali di poppa della fregata non riuscivano a rompere.
Da ponente, i fischi continuavano a succedersi, seguìti da raffiche sempre più impetuose, che facevano crepitare le vele. Le onde vi facevano eco, muggendo sordamente.
«Sai che cosa mi ricorda questa notte?» chiese Carmaux, che stava alla ribolla, essendo uno dei migliori piloti della squadra filibustiera.
«Lo indovino» rispose l'amburghese, che lo aiutava in quella gravosa manovra. «La notte in cui il Corsaro Nero abbandonava fra le onde, sola, su una scialuppa, la madre della signora Jolanda, la figlia di quel maledetto duca.»
«Sì, amburghese» rispose Carmaux, con voce commossa. «Anche allora il mare montava e la tempesta ci minacciava. Chi avrebbe detto che un giorno, il Corsaro avrebbe ritrovata la fanciulla che pur tanto aveva amata, regina d'una tribù di antropofaghi caraibi e che l'avrebbe sposata?»
«E come piangeva quella notte il Corsaro!...»
Un muggito spaventevole, che si fece udire al largo, soffocò le ultime parole dell'amburghese.
«È il razzo di mare che si forma» disse Carmaux. «Che cosa accadrà delle piccole navi della squadra? Badiamo che non ci piombi di traverso.»
La fregata teneva testa alle onde, che già l'assalivano con furore e la scuotevano poderosamente, non ostante la sua mole relativamente enorme.
I gabbieri avevano già ammainato tutte le vele basse, non conservando che le gabbie ed i fiocchi, pure l'alberatura subiva ancora scosse violentissime, quando le raffiche la investivano.
Le altre navi cominciavano già a disperdersi. Si vedevano i loro fanali brillare in varie direzioni, alcuni verso il sud, altri verso levante, come se fuggissero dinanzi all'uragano. Morgan d'altronde, a mezzo di razzi, aveva loro segnalato di rifugiarsi dove meglio credevano, ben comprendendo che non avrebbero potuto seguirlo nella sua rotta.
A mezzanotte tutte erano scomparse. Certo avevano cercato di rifugiarsi verso le numerose isole che coprono le spiagge venezuelane, dove potevano trovare ottime rade.
La fregata però non aveva ancora deviato dalla sua rotta, e proseguiva verso il settentrione per raggiungere, se non la Tortue, almeno la Giamaica, dove non poteva correre pericolo alcuno, essendo colonia inglese ed aperta alle navi filibustiere che avevano ottenuto patenti di corsa contro gli spagnoli.
Il mare diventava sempre più spaventoso e le raffiche aumentavano di violenza. Il vento di ponente si scatenava, acquistando la forza prodigiosa che suole raggiungere nelle grandi tempeste, allorquando riesce a spostare perfino i grossi cannoni da trentadue delle batterie esposte alla sua furia.
Tuoni assordanti rimbombavano in seno alla nube nera, con un crescendo terribile, coprendo sovente la voce dei mastri e dei contro-mastri, mentre lampi abbaglianti si succedevano senza posa.
Morgan, quantunque prevedesse che la bufera avrebbe ben presto raggiunta la massima violenza, mostrava una calma ed una tranquillità d'animo ammirabile. Se era un formidabile uomo di guerra, era pure uno dei più valenti marinai dell'epoca.
Ritto sul ponte di comando, col portavoce in mano, impartiva gli ordini senza che si sentisse nel suo accento alcuna vibrazione che dimostrasse la menoma apprensione.
Jolanda, che si era rifiutata di scendere nella sua cabina, stava presso di lui, aggrappata alle traverse dal ponte, sfidando intrepidamente gli spruzzi delle onde che giungevano talvolta fino a quel punto elevatissimo della fregata, e guardando con curiosità, esente da qualsiasi timore, i baratri che si formavano fra i cavalloni ed entro i quali la grossa nave affondava con mille paurosi scricchiolii.
«Non avete paura?» le chiedeva sovente Morgan.
«Sono la figlia d'un uomo di mare» rispondeva ella, sorridendo. «Su questi mari mio padre ha sfidato gli uragani. Perché non debbo sfidarli anch'io?»
Verso le due del mattino, un clamore assordante s'alzò in mezzo alle onde. Pareva che migliaia e migliaia di persone urlassero tutte insieme e che invocassero soccorso.
Morgan era diventato un po' pallido, e la sua fronte si era aggrottata.
«Che cos'è?» chiese Jolanda.
«Il razzo di mare che si forma» rispose il filibustiere.
A un tratto, parve che il cielo s'incendiasse da levante a ponente. Alla notte tenebrosa successe una vera notte di fuoco.
Le onde parevano avvampare, come se nel loro seno si fossero aperti centinaia di vulcani sottomarini.
I lampi si succedevano ai lampi, e così vividi e intensi, che i marinai si sentivano abbacinati. Una vera pioggia di folgori cadeva sul mare e se ne vedevano perfino di quelle a due ed anche a tre branche.
L'equipaggio della fregata guardava con terrore quello spettacolo, cogli occhi socchiusi. Anche Jolanda, per la prima volta, sembrava scossa.
«Signor Morgan!...» esclamava. «Che cosa succede?»
«Attraversiamo una meteora di fuoco, signora. Scendete nel quadro!... Scendete!...»
In quel momento si udì una voce a gridare:
«Lassù, sul mostravento del maestro!...»
Tutti apersero gli occhi, guardando sulla cima dell'alberatura.
Una sfera, non più grossa di un arancio, che pareva incandescente e proiettava una luce azzurrognola, girava intorno al mostravento del contrapappafico, come se cercasse di posarsi sulla punta della banderuola.()
D'improvviso, scoppiò con una detonazione secca, che parve prodotta dal frangersi d'una granata, poi una lingua di fuoco serpeggiò lungo l'albero, avvolgendo le sartìe ed i paterazzi e raggiunse la gran gabbia, spandendo all'intorno un acuto odore di zolfo.
Un urlo di spavento si era alzato fra i filibustieri della fregata.
«Al fuoco!... Al fuoco!...»
La gran gabbia si era incendiata e le fiamme, alimentate dal vento, si erano allungate verso la vela latina dell'albero di trinchetto.
Morgan stava per slanciarsi giù dal ponte di comando, seco trascinando la figlia del Corsaro, quando udì Pierre le Picard a urlare:
«Anche la latina ha preso fuoco ed il razzo di mare romba al largo!...»
Morgan soffocò a stento una imprecazione, per non allarmare la fanciulla. Non poté però trattenere un grido di furore.
«È la maledizione che piomba su noi!»
Riacquistando però prontamente il suo sangue freddo, aiutò Jolanda a scendere la scala, che le onde volta a volta attraversavano.
«Signora» le disse con voce un po' commossa, guardandola negli occhi. «Morgan non è uomo da lasciarsi abbattere; abbiate fiducia in me.»
«Non ho paura» rispose Jolanda. «So che uomo siete.»
«Lasciate il ponte, signora. Siamo fra le onde ed il fuoco, ed i pericoli non si possono sempre prevedere.»
«Vi obbedisco, capitano Morgan.»
«Wan Stiller, a te la signora!...» gridò il filibustiere, vedendo passare l'amburghese con dei buglioli in mano.
Guardò la fanciulla che si allontanava, stretta al braccio del filibustiere, sempre tranquilla, come se nessun pericolo la minacciasse, poi si slanciò attraverso la tolda, dove regnava una viva confusione, gridando con voce stentorea:
«Alle pompe!...»
La fregata si era messa alla cappa, colle sue vele della mezzana, per fuggire dinanzi all'uragano che la investiva con forza terribile, trascinandola verso levante. L'albero maestro ed il trinchetto erano entrambi in fiamme.
I paterazzi, le sartìe, le manovre correnti, i pennoni e le coffe bruciavano come fiammiferi, essendo imbevuti di catrame e le vele lasciavano cadere sulla coperta lembi di tela accesa e scintille in gran numero.
L'alberatura poteva considerarsi come perduta, pericolo gravissimo in mezzo ad una bufera, che poteva durare molte ore. Senza le vele la nave era priva d'ogni stabilità.
Al comando di Morgan, i corsari avevano messe in opera la pompa di prora e quella di poppa, ma la manovra era tutt'altro che facile, colle onde che ad ogni istante invadevano la coperta, minacciando di spazzare via gli uomini, che si erano collocati alle traverse.
I getti, d'altronde, non potevano avere grande efficacia in alto. Gli attrezzi, anche bagnati, bruciavano egualmente e, lasciando cadere ad ogni istante od un pezzo di pennone infiammato, od un lembo di tela ardente, od un paterazzo, esponevano gli uomini ad un continuo pericolo.
Per di più, essendo il vento instabile, vi era la probabilità che anche l'albero di mezzana prendesse fuoco.
Tuttavia quei fieri uomini, abituati da lunga pezza a tutti i pericoli, lottavano disperatamente. Alcuni avevano già assalito i due alberi colle scuri, per farli cadere in mare, quando Morgan, vedendo che non bastavano, diede l'ordine di chiamare in coperta i prigionieri spagnoli, che si trovavano racchiusi nella stiva e che, vedendo quei bagliori sinistri, urlavano spaventosamente.
Erano una trentina, fra cui il capitano Valera e don Raffaele.
Udendo però quel comando, Carmaux aveva fatto un salto.
«Ecco un'imprudenza che noi possiamo pagare cara» aveva detto a Wan Stiller, che lo aveva raggiunto. «Dei nemici in coperta, quando il fuoco è a bordo!... Compare, apri gli occhi!...»
«Credo che tu abbia torto» rispose l'amburghese. «La loro pelle vale la nostra e ci terranno a salvarla.»
«Gli altri sì, ma ve n'è uno che sarebbe ben lieto di mandarci tutti in fondo al mare. Apri gli occhi, compare.»
«Di chi sospetti?»
«Del capitano Valera.»
Un urlo scoppiato a prora li fece rabbrividire.
«Largo!... Cade il maestro!...»
Una turba di gente passò a corsa sfrenata fra di loro, spingendoli verso le murate. Erano gli uomini delle pompe, che si salvavano sul cassero, non ostante le grida ed i sagrati di Pierre le Picard e di Morgan.
Nel medesimo istante si udirono i gabbieri del bompresso ad urlare:
«Bada, pilota!... Il razzo monta!...»
Capitolo quattordicesimo
Il razzo di mare
Uno sgomento inenarrabile si era impadronito dei sessanta uomini che formavano l'equipaggio della fregata, all'annuncio dato dai gabbieri, che il temuto razzo di mare stava per montare ed irrompere contro la fregata.
L'incendio dell'attrezzatura dunque non era un pericolo abbastanza grave, perché vi si mescolasse la furia delle onde? Mancava ancora quel tremendo cavallone, terrore dei naviganti del Golfo del Messico e del Mare dei Caraibi, per mettere a più dura prova la sorte, già molto precaria, della nave?
«Siamo perduti!» aveva esclamato involontariamente Carmaux, che si era precipitato verso il cassero, dove si trovavano Morgan e Pierre le Picard.
La fregata, investita da onde spaventevoli, che montavano sopra i bordi con muggiti assordanti, e quasi priva di vele, trabalzava allora disordinatamente, rovesciandosi ora sul babordo ed ora sul tribordo.
L'albero maestro, già privo dei paterazzi e delle sartìe, tutto fiammeggiante dalla base alla cima come una torcia colossale, oscillava in avanti ed indietro con mille lugubri scricchiolii, lasciando cadere in coperta ora un pezzo di pennone ed ora un frammento di coffa o di crocetta.
Una vera pioggia di tizzoni ardenti rimbalzava in coperta, minacciando di dar fuoco al catrame, sparso fra le connessure delle tavole e di bruciare le imbarcazioni, che erano state levate dalle gru onde i cavalloni non le portassero via.
Morgan, che conservava il suo solito sangue freddo, aveva dato ordine di abbandonare le pompe, diventate ormai inutili. Non si preoccupava che del razzo di mare, che poteva subissare di colpo la fregata.
«Quattro uomini alla ribolla del timone!» aveva urlato. «Attenti, a virare!... Salvate la mezzana!»
Uno scroscio orribile aveva fatto seguito alle sue parole. l'albero maestro, già carbonizzato alla base e privo dei paterazzi, delle sartìe e delle griselle, dopo aver oscillato alcuni istanti, descrivendo un arco di fuoco, era caduto attraverso la fregata fracassando le impagliettature e rovesciando in mare un cannone da caccia della coperta.
Il rimbombo era stato tale, che Morgan e Pierre le Picard, per un momento aveva temuto che anche i corbetti di tribordo avessero ceduto.
Fortunatamente sopraggiunse un'onda violenta era sopraggiunta che dopo aver spento, con mille sibili, le antenne fiammeggianti ed i rimasugli della velatura, portò via l'albero, permettendo alla nave di risollevarsi.
Era tempo. Il razzo di mare stava per rovesciarsi sulla fregata con impeto irresistibile.
Si era formato, o meglio, era apparso a cinque o sei gomene dalla prora e s'avanzava con mille muggiti, come una immensa muraglia liquida, la cui altezza non poteva misurarsi.
Sulla cima, una frangia di spuma che rifletteva i bagliori delle fiamme, avvolgenti ancora l'albero di trinchetto, s'arricciava e si rompeva sotto le incessanti e poderose sferzate del vento.
I marinai della fregata, vedendolo avanzarsi, si erano rifugiati precipitosamente sul cassero, che era la parte più alta e quindi la meno esposta.
«Aggrappatevi e tenetevi fermi!...» tuonò Morgan. «Wan Stiller!... Carmaux!... Nel quadro e impedite l'uscita alla fanciulla!...»
Aveva appena pronunciate quelle parole ed i due filibustieri erano scomparsi nel quadro, chiudendo la porta, quando la mostruosa onda si rovesciò con un muggito così potente da soffocare i tuoni del cielo.
La nave, investita a prora da quell'enorme massa liquida, si rizzò bruscamente, quasi verticalmente, poi piombò in un abisso che pareva non avesse fondo, con mille scricchiolii. Pareva che i madieri ed i corbetti si spezzassero e che tutti i puntelli del frapponte cadessero.
Un colpo di mare la avvolse da prora a poppa, tutto spezzando e, frantumando le murate, uscì sopra il cassero, sbattendo in tutte le direzioni gli uomini che l'occupavano.
Quando la fregata tornò a galla, il razzo era già passato e s'allontanava verso il sud con un rombo spaventevole, ed una profonda oscurità avvolgeva il mare.
Il cavallone, che si era rovesciato sulla tolda, aveva schiantato l'albero di trinchetto e l'aveva portato via, come fosse stato un fuscello di paglia, spegnendo contemporaneamente l'incendio.
Anche parecchi uomini, fra cui non pochi prigionieri spagnoli, erano pure scomparsi, travolti e spinti fuori dai bordi da quel torrente d'acqua, che si era infranto contro il cassero, dopo aver spazzato il castello e la tolda.
La nave era sfuggita al colpo datole dal razzo, ma in quali condizioni si trovava!... Si poteva ormai considerare come un rottame, destinato, presto o tardi, a diventare preda dei flutti.
Dei suoi alberi non rimaneva che quello di mezzana, perché anche il bompresso, che primo aveva ricevuto l'urto, era stato strappato di colpo; le sue murate erano state sventrate in tutta la loro lunghezza; le scialuppe erano scomparse e perfino il timone era ormai così sgangherato da non poter più servire a nulla. E, per colmo di disgrazia, la tempesta continuava ad infuriare e non era improbabile che un nuovo razzo si formasse e tornasse a piombarle addosso.
«È finita o sta per finire?» chiese Pierre le Picard a Morgan che si era spinto fino sul castello di prora, per rendersi conto dei danni subiti dalla fregata.
«Il disastro non poteva essere maggiore» rispose il filibustiere. «La nave è perduta e non vale più d'una zattera. Se si trattasse di noi soli, poco m'importerebbe. Ne abbiamo viste di peggiori e ce la siamo sempre cavata con fortuna.»
« Ti preoccupi per la figlia del Corsaro?»
«Sì» rispose Morgan.
«La salveremo a dispetto delle onde e dei venti» disse Pierre le Picard. «Dove supponi che siamo?»
«Il vento ci ha spinti sempre verso levante, e, tenendo conto della velocità che imprimeva alla fregata, io ritengo che noi ci troviamo all'altezza dell'isola della Tortuga.»
«Che corsa!... Dove andremo a dar di cozzo noi, o dove cercheremo un rifugio?»
«Certo contro le isole della Nueva Esparta» rispose Morgan.
«Ci sono spagnoli su quelle isole?»
«Lo ignoro.»
«Sarebbe meglio evitarle.»
«Faremo il possibile.»
«Se potessimo cacciarci nel golfo di Paria?»
«È quello che tenteremo, per non farci sorprendere, in così miserando stato, da qualche nave spagnola. Aspettiamo che l'uragano si calmi, poi vedremo.»
Pareva invece che la tempesta non avesse, almeno per il momento, alcun desiderio di andarsene altrove.
Il vento continuava ad infuriare sempre da ponente, trascinando la fregata verso levante, essendo rimasta spiegata la grande vela latina sull'albero di mezzana.
Anche il mare non accennava a calmarsi e le onde si seguivano, sempre altissime, scrollando incessantemente la povera nave e percuotendo poderosamente i malfermi fianchi.
L'equipaggio però, vedendo che nessuna via d'acqua si era aperta nello scafo e che nessun altro razzo di mare li minacciava, aveva ripreso animo e aveva messo un po' d'ordine sulla tolda, sgombrandola dai rottami e dagli avanzi dei pennoni e dei cordami.
Alcuni marinai tentarono di saldare alla meglio il timone, ma dovettero rinunciarvi, a causa dell'incessante irrompere delle onde.
Al mattino, quando la luce riapparve, i filibustieri si contarono. Quattordici dei loro e sei prigionieri spagnoli erano scomparsi durante la notte, strappati dal razzo di mare.
«Fosse stato almeno inghiottito anche il capitano Valera» disse Carmaux, che presenziava all'appello fatto da Pierre le Picard.
«Invece è là che ci guarda ridendo» rispose Wan Stiller. «Si direbbe che egli ha indovinato il tuo desiderio.»
«E don Raffaele?»
«È ancora vivo.»
«Che batosta però per la fregata!...»
«E delle altre navi che cosa sarà accaduto?»
«Se il razzo le ha raggiunte in alto mare le avrà sommerse di colpo» rispose Carmaux. «Non erano in grado, eccettuata forse la Folgore, di resistere a tale cavallone.»
«Dovremo dunque lasciarci trasportare dall'uragano, finché troveremo qualche scogliera o qualche spiaggia che ci arresti?» si chiese Wan Stiller, che pareva preoccupato. «Fosse almeno una spiaggia deserta!...»
« Tu temi gli spagnoli che, è vero, compare?»
«Hanno grosse colonie nel Venezuela e potrebbero scorgerci, e darci la caccia. Che cosa ne dite, don Raffaele?» chiese, scorgendo presso di sé il piantatore.
«Se vi prendono vi impiccheranno e che vi ritoglieranno la figlia del Corsaro» rispose il piantatore con maligna compiacenza.
«In quanto all'impiccarci, credo che non abbiano delle funi abbastanza resistenti per noi» disse l'amburghese. «Siamo ancora in buon numero e abbiamo a bordo polvere e palle in abbondanza.»
«Palle sì, ma polvere... vorrei un po' vedervi a caricare i cannoni.»
«Che cosa dite, don Raffaele?» chiese Carmaux, corrugando la fronte.
«Io non so che cosa il razzo di mare abbia sfondato, vi posso solamente dire che ho veduto entrare dell'acqua nel frapponte, presso la santabarbara e che i depositi di polvere devono essere sommersi.»
«Tuoni d'Amburgo!» gridò Wan Stiller. «È impossibile. Noi non abbiamo urtato in alcun luogo.»
«Eppure qualcosa ha urtato e sfondato i madieri» disse lo spagnolo. «Andate un po' ad assicurarvi.»
Carmaux e l'amburghese non l'ascoltavano più. Stavano per scendere la scala che metteva nel frapponte, quando udirono fra i fischi furiosi del vento ed i muggiti crescenti delle onde, un rotolare cupo, accompagnato da colpi sordi, come se degli arieti percuotessero furiosamente la nave.
«È acqua che entra?» si chiese Wan Stiller, fermandosi, mentre Carmaux staccava una delle lampade che illuminavano la camera comune dell'equipaggio.
«Si direbbe che rotolino dei cannoni » rispose il francese, diventando pallido. «Che i pezzi della batteria abbiano spezzati i freni?»
«O che qualcuno li abbia invece tagliati?»
Scesero a precipizio la scala ed entrarono nel frapponte, dove s'arrestarono, mandando un urlo di furore.
Quattro pezzi della batteria, spezzate le funi che li trattenevano ai sabordi, correvano all'impazzata per il frapponte, a seconda che la fregata si piegava sul babordo o sul tribordo.
Quelle masse di bronzo, andavano e venivano con cupo fragore, che non si udiva sopra coperta a causa degli ululati del vento e dei muggiti delle onde, e investivano i fianchi del legno con foga irresistibile, schiantando i puntali e fracassando a poco a poco i bagli, i corbetti ed i madieri.
Già uno squarcio si era aperto all'estremità opposta del frapponte, in prossimità della Santa Barbara e vi penetravano attraverso grossi fiotti d'acqua, che correvano come torrenti verso poppa, colando nella sentina e nei depositi.
«Qui è stato commesso un tradimento» disse Carmaux. «È impossibile che il rollìo abbia potuto spezzare dei paranchi di quella robustezza.»
«Da chi?»
«Da chi? Dai prigionieri spagnoli. Qualcuno deve aver approfittato dell'incendio dell'alberatura, per scendere qui inosservato e tagliare le funi. Hanno scelti i cannoni prossimi al deposito delle polveri per inondarci le munizioni.»
«Se non riusciamo ad arrestarli finiranno per sfondare i fianchi della fregata.»
«Diamo l'allarme, compare!»
Si erano slanciati entrambi su per la scala, avvertendo Pierre le Picard del grave pericolo che correva la nave.
Una rauca imprecazione era sfuggita al filibustiere.
«Non bastavano la perdita dell'alberatura ed il razzo che ci ha sconquassati!...» esclamò. «A me, marinai!»
Quindici o venti corsari erano accorsi, muniti di aspe e di manovelle, e si erano introdotti con precauzione nel frapponte, portando parecchi fanali.
Quei quattro pezzi parevano dotati di vita. Si arrestavano un momento, mostrando le gole nere, poi riprendevano la corsa tutti insieme, scorrendo velocemente sopra le loro ruote massicce, con un fragore di ferraccio.
Di quando in quando, qualcuno andava a dare di cozzo contro uno dei pezzi collocati dietro i sabordi, girava su sé stesso, poi tornava ad avventarsi in direzione opposta, senza che si potesse prevedere dove sarebbe andato a vibrare un nuovo colpo.
«È il nostro colpo di grazia!» aveva esclamato Pierre le Picard. «Se non riusciamo a frenarli, spezzeranno i paranchi degli altri e allora sarà la fine per la fregata.
«Coraggio, camerati! Ci va di mezzo la salvezza di tutti!... Cento piastre a chi ne ferma uno!...»
Poi, per incitare i suoi uomini che titubavano, temendo di venire travolti da quei pesantissimi pezzi, strappò ad un marinaio un'aspa e si slanciò risolutamente nel frapponte, subito seguíto da Carmaux e da Wan Stiller.
L'impresa a cui si accingevano era però così difficile e così pericolosa, che i loro compagni si sentirono correre per le ossa un brivido di terrore. Avrebbero amato meglio lanciarsi all'abbordaggio d'un legno, tre volte più grosso della fregata e zeppo di nemici, piuttosto che arrestare quei mostri di bronzo.
Un violento colpo di mare, che sollevò la nave da prora a poppa, aveva rimessi in movimento i quattro pezzi.
Vedendoli indietreggiare all'impazzata verso il quadro, Pierre le Picard ed i suoi due compagni si slanciarono verso il più vicino, gettando fra le ruote dell'affusto le loro aspe e balzando subito da un lato per non venire travolti.
Il pezzo girò su se stesso fracassando gli ostacoli come fossero paglie, poi prese la corsa verso la murata di babordo, sotto un colpo di rollìo, passando appena ad un passo da Carmaux, e andò a dar di cozzo contro un cannone della batteria, con tale violenza da spezzare di colpo i freni che lo trattenevano.
Quasi nel medesimo istante un altro se ne staccava verso l'estremità poppiera del frapponte.
Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller avevano avuto appena il tempo di mettersi in salvo, verso la camera di prora, dove già si erano rifugiati i loro compagni.
I sei pezzi attraversarono con rapidità vertiginosa il frapponte e abbatterono di colpo la tramezzata di prora e l'estremità inferiore della scala, poi ripartirono in senso inverso, urtando gli altri pezzi e staccandone altri tre.
«Siamo perduti!...» aveva esclamato Pierre le Picard. «Fra dieci minuti tutti i venti pezzi della batteria saranno in moto e sfonderanno i fanchi della fregata.»
Volerli arrestare era ormai una follìa. Sarebbero state necessarie delle granate, per scagliarle fra gli affusti e far saltare i pezzi; ma disgraziatamente si trovavano nella Santa Barbara già inondata.
«Non possiamo far nulla dunque?» chiese Carmaux, che si strappava i capelli.
«Prepariamoci a colare a picco» rispose Pierre le Picard. «La fregata è perduta.»
Risalirono in coperta, cupi e scoraggiati.
«Morgan» disse Pierre le Picard, avvicinandosi al capitano. «Tutto è finito.»
«Dunque, è vero?»
«Sì, i pezzi non si possono più frenare ed i fianchi cominciano a cedere.»
«Maledizione!...» esclamò Morgan, stringendo le pugna.
I suoi sguardi si erano fissati sui prigionieri spagnoli che stavano raggruppati sul cassero.
«Sono stati loro!» disse con voce minacciosa.
«Impicchiamoli tutti» disse Pierre le Picard.
«Sì, impicchiamoli!...» gridarono sette od otto marinai, che avevano udita la proposta del filibustiere. Morte ai traditori!»
Morgan stava per aprire la bocca e dare forse quell'ordine crudele, quando una voce dolce, ma nel medesimo tempo ferma, si fece udire dietro di loro.
«Voi non lo farete, capitano Morgan. I filibustieri che hanno combattuto con mio padre, non devono mutarsi ora in carnefici.»
Jolanda era comparsa dietro i due comandanti, facendosi largo fra i marinai, che si erano stretti attorno a loro e che già allungavano le mani verso un mucchio di cordami.
«Voi, signora?» disse Morgan, trasalendo.
«Giungo in tempo per impedire una inutile crudeltà.»
«Hanno tagliati i freni dei pezzi, signora, e per colpa loro, noi fra poco forse affonderemo» disse Pierre le Picard.
«I filibustieri sono gente di guerra e non già dei carnefici» disse Jolanda. «Quali prove d'altronde avete per condannare quei disgraziati? No, capitano Morgan, non darete mai il vostro consenso, almeno fino a che io sarò fra voi. La figlia di colui che voi chiamavate il gentiluomo d'oltremare, non può assistere freddamente a simili crudeltà.»
«Avete ragione» disse Morgan. «Il luogotenente del Corsaro Nero non offrirà mai un simile spettacolo alla signora di Ventimiglia.»
«Grazie, capitano» rispose la fanciulla. «Fieri e prodi sì, i filibustieri, ma anche magnanimi.»
Nessuno aveva osato ribattere parola, tanto ormai era l'ascendente che esercitava su quei ruvidi e battaglieri uomini del mare, la dolce figura della figlia del gentiluomo piemontese.
«Signor Morgan» disse la fanciulla. «È dunque perduta la nave? Ditemelo francamente. La figlia del Corsaro Nero non deve aver paura.»
«Spero che resisterà, se la tempesta si calma» rispose il filibustiere. «Anche se i pezzi sfondassero la batteria superiore, il pericolo non sarà immediato.
«Non dobbiamo essere lontani dalle isole della Nueva Esparta. Non vi nascondo, signora, che tuttavia non mi faccio soverchie illusioni e che la nave potrebbe affondare, prima di avvistare quelle terre. Non temete però. Abbiamo qui tanto legname da poter costruire dieci zattere ed è ciò che noi faremo, appena le onde si saranno un po' calmate.»
«Ho piena fiducia in voi, capitano Morgan.»
«Siete ammirabile, signora.»
«Perché?» chiese la fanciulla sorridendo.
«Una tranquillità simile non si troverà mai in nessuna donna. Quale buon sangue aveva il Corsaro Nero!...»
Capitolo quindicesimo
Una sorpresa in alto mare
Durante tutta la giornata, la tempesta continuò ad imperversare senza un momento di tregua, malmenando la povera fregata, ed i pezzi non cessarono di sgangherarle i fianchi, sfondando parecchi madieri e tutte le tramezzate.
Non fu che verso sera, che il mare cominciò a calmarsi e che il vento cessò di soffiare da ponente, girando verso il settentrione.
In quelle dodici ore la nave si era ridotta in uno stato veramente miserando. Galleggiava ancora, ma era mezza piena d'acqua, entrata dagli squarci aperti dagli urti formidabili di tutti quei pezzi, che nessuno aveva più osato fermare.
Tutte le murate, eccettuata quella poppiera del cassero, erano scomparse e solo ancora resisteva, per un vero miracolo, l'albero di mezzana; ma non poteva essere di alcuna utilità, poiché nessuno avrebbe osato spiegare alcuna vela per il timore di vederlo rovinare.
«È finita» disse Carmaux, che guardava desolato la tolda della nave, ingombra di rottami. «Se non sarà questa notte, domani, questa povera carcassa si inabisserà, a meno che troviamo qualche scogliera o qualche costa su cui arenarla.»
«Che cosa dice il signor Morgan?» chiese don Raffaele che gli stava presso.
«Dice che ha intenzione di far costruire delle zattere.»
«Quando?»
«Questa notte.»
«Entra ancora acqua?»
«La fregata beve senza tregua» disse Carmaux.
«Allora anche la figlia del Corsaro è in pericolo» disse don Raffaele. «Non valeva la pena di assalire Maracaybo, per poi lasciarsela prendere dal mare.»
«Vi ho detto che si costruiranno delle zattere e... Oh!... Là, là!... Non ci mancherebbe altro!... Se ci scorgono la finiremo prima. Furie dell'inferno!...»
«Che cosa avete?»
Carmaux non rispose. Curvo innanzi, sull'orlo estremo del castello di prora, guardava attentamente verso il settentrione.
«Che cosa cercate dunque?» chiese don Raffaele. «Io non vedo che dell'acqua nera.»
«Aspettate un po', deve esservi ancora mare agitato lassù. Aspettiamo che ricomparisca.»
«Ma chi?»
Invece di rispondere Carmaux scese a precipizio la scala che metteva sulla coperta e si diresse correndo verso il cassero, dove Morgan cercava di far collocare una specie di timone, formato con un pennone, alla cui estremità, che doveva immergersi, aveva fatto inchiodare due ceppi d'àncora, onde poterlo far funzionare come un remo gigantesco.
«Capitano» disse il filibustiere, con voce agitata. «Vi è una nave in vista.»
«Dove?» chiese Morgan, traendolo da una parte.
«Viene dal settentrione. Ho scorto or ora i suoi fanali.»
«Sei certo di non esserti ingannato?» chiese il comandante, dopo aver gettato un rapido sguardo nella direzione indicata dal filibustiere, senza scorgere nulla
«Ho la vista buona.»
«Seguimi sulla coffa. Di lassù vedremo meglio.»
Salirono le griselle di babordo dell'albero di mezzana e, giunti sulla cima del primo travo, scorsero infatti verso il nord due punti luminosi, che spiccavano nettamente sul tenebroso orizzonte.
«Sì, una nave» disse Morgan. «Non deve trovarsi che a cinque o sei miglia da noi e ci si presenta di prua.»
«Non vi pare però che quei lumi siano immobili?» chiese Carmaux, dopo di aver osservato con maggior attenzione.
«Forse t'inganni» rispose il capitano. «Tuttavia non mi sembra che quella nave cammini troppo, quantunque abbia il vento in favore.»
«Che sia una delle nostre?»
«Che viene dal nord, ossia da Cuba o da San Domingo? Uhm!... Non può essere che una spagnola, diretta a qualche porto del Venezuela, o a la Guayra od a Cumana.»
«Se potessimo abbordarla e lasciare questa carcassa, ormai destinata a sparire? Sono certo che i nostri uomini non esiterebbero, trattandosi di salvare la pelle.»
Morgan aveva guardato Carmaux, come fosse stato colpito da quell'audace idea.
«E perché no?» disse poi, quasi parlando fra sé. «Abbordarla in silenzio, invadere bruscamente il ponte, assalire l'equipaggio colla sciabola, giacché la polvere quasi ci manca? Forse che Braccio di Ferro non ha fatto altrettanto, quando la sua nave, rotta dalla tempesta, stava per inabissarsi?»
Scese in coperta e chiamò attorno a sé i suoi marinai. Aveva preso risolutamente il suo partito.
«Una nave, che ritengo sia spagnola, sta per attraversarci la rotta. Preferite attendere qui, su questo rottame, la morte che non sarà lunga a venire o tentare la sorte? Siamo ancora in sessanta e con tale numero altri filibustieri hanno compiuti dei prodigi straordinarii. Se voi vorrete io cercherò di guidarvi ancora alla vittoria. Chi si rifiuta esca dalle file.»
Nessuno si era mosso, anzi tutti avevano estratte le loro corte sciabole, come se la nave da assalire fosse ormai a pochi passi.
«Verrete tutti?» chiese Morgan.
«Sì, tutti» risposero ad una voce i corsari.
«Che nessuno accenda un lume, che nessuno mandi un grido ed io rispondo del successo» disse Morgan. «La nave non è che a cinque o sei miglia, cerchiamo di raggiungerla e chi ha un po' di polvere la tenga in serbo per gli ultimi colpi.»
L'impresa non era certamente facile e poteva terminare in una completa catastrofe, ma i filibustieri non erano uomini da esitare sulle loro decisioni e quella tenacia costituiva probabilmente la loro forza.
Potendo disporre solo dell'albero di mezzana e che per di più era pericolante, pensarono a tutta prima di assicurarlo, onde poter spiegare la latina poppiera, ciò che fecero rapidamente, non mancando a bordo né paterazzi né sartìe di ricambio.
Issarono quindi un palo a prora, al posto del trinchetto, per sciogliere al vento una gabbia, e fissarono un pennone al posto del bompresso.
Il timone, bene o male, già funzionava e poteva bastare per guidare il rottame per un tratto relativamente così breve.
Dopo che il mare si era calmato, anche i cannoni avevano cessato le loro sarabande, quindi essi potevano accostarsi, col favor delle tenebre, alla nave, senza che alcun rumore li tradisse.
Alle undici di notte la fregata era sotto vela e si dirigeva lentamente verso i due punti luminosi, che erano ormai perfettamente visibili anche agli uomini della coperta.
Pareva però che la spagnola, in quell'ora consumata dai corsari nei loro preparativi, non avesse guadagnato gran che. Era stata anch'essa gravemente danneggiata dalla bufera, che doveva aver battuto tutto il mare dei Caraibi e fors'anche il golfo del Messico, oppure le mancava il vento?.
Quella semi-immobilità preoccupava non poco i corsari, quantunque a loro giovasse perché in tal modo potevano accostarla prima che sfuggisse.
«Che cosa ne pensi, Carmaux?» chiese Wan Stiller, vedendo il compagno grattarsi furiosamente la testa.
«Io penso che quel legno deve avere le gambe rotte per non poter camminare. Se le avesse sane, a quest'ora dovrebbe essere già qui.»
«Che abbia perduto il timone? Vedo parecchi lumicini brillare sul cassero.»
«Anch'io li ho osservati e tu, compare, potresti avere ragione. Quei lumi rischiarano probabilmente i carpentieri, occupati a compiere qualche urgente riparazione. Purché giungiamo prima che abbiano finito!...»
«Non siamo che a tre o quattro miglia, e Morgan dirige il rottame, in modo da tagliare la strada alla nave spagnola.
«Sono certo che glielo getterà attraverso la porta.»
«E farà bene» rispose Carmaux. «Saliremo per le trinche e le dolfiniere del bompresso e saremo sul castello prima che gli spagnoli possano rimettersi dalla sorpresa causata dall'investimento.»
«E la figlia del Corsaro Nero?»
«Ci saremo noi a proteggerla ed a salvarla, se la fregata andrà a picco. Morgan me ne ha dato l'incarico.»
Il rottame intanto continuava ad avanzarsi lentamente, quasi senza far rumore. Essendo semi-pieno d'acqua, era ormai così basso da non poterlo facilmente scorgere, tanto più che Morgan aveva fatto tingere di scuro la vela di gabbia, che era sufficiente per nascondere la latina poppiera.
I corsari avevano fatti i loro preparativi di combattimento ed occupati i posti loro assegnati da Pierre le Picard.
Il numero più grosso era stato radunato a metà nave, e non era stato armato che di pistole e di sciabole.
Due dozzine d'uomini, divisi in due gruppi, erano stati piazzati sul cassero e sul castello di prora, forniti d'archibugi, perché proteggessero i loro compagni nel caso che la sorpresa non riuscisse.
Erano quasi tutti bucanieri, tiratori infallibili: ogni archibugiata gettava un uomo fuori di combattimento, morto o ferito.
A mezzanotte, il rottame non si trovava che a poche gomene dalla nave e nessuno degli uomini di guardia pareva che essersi accorto del pericolo.
Era un grosso veliero, a due alberi, con numerosi sabordi; probabilmente qualche nave mercantile armata da guerra e forse montata anche da un numeroso equipaggio.
Carmaux non si era ingannato, affermando che gli pareva immobile. Ed infatti aveva le vele quasi tutte imbrogliate e non s'avanzava che per la spinta del vento che agiva sulla massa.
Verso poppa, oltre i due grossi fanali, si vedevano agitarsi parecchi lumi, e si udivano risuonare dei colpi sordi, come se l'equipaggio fosse affaccendato ad eseguire qualche urgente riparazione.
«Io credo che stiano cambiando il timone» disse Morgan a Pierre le Picard, che lo interrogava. «Non scorgo alcuna ombra sul castello. Si tengono sicuri di non fare cattivi incontri. Avverti gli uomini di tenersi pronti. Getterò la fregata attraverso la prora del veliero.»
«Sarò alla loro testa» disse il filibustiere, scendendo sulla tolda colla spada sguainata.
«Carmaux!...»
«Signore» rispose il francese, che in quel momento saliva con Wan Stiller per ricevere gli ultimi ordini.
«Nel quadro, vecchio mio, presso la signora di Ventimiglia. Se la fregata nell'urto dovesse sfasciarsi, gettatevi subito in mare assieme a lei e badate di non farvi assorbire dal gorgo.»
Per la prima volta forse in vita sua, il fiero filibustiere pareva profondamente commosso.
«M'hai udito, Carmaux» disse, dopo un istante di silenzio. «Perdere tutto sì, ma non quella fanciulla.»
«Contate su di noi, signor Morgan» disse Carmaux. «Checché accada, la signora di Ventimiglia sarà salva. Vieni compare Wan e stacca i salvagente.»
Erano appena scomparsi, quando si udì sul castello di prora del veliero una voce a gridare:
«Un'antenna!... Che cos'è che s'avanza?... Ohe, del...»
La voce fu coperta da uno scricchiolìo sinistro e da un cozzo non troppo forte.
Morgan, con un colpo di barra aveva gettato il rottame attraverso la prora del veliero, da cui non distava ormai che pochi passi.
Nel medesimo istante si udì la voce di Pierre le Picard gridare:
«Su, lesti!...»
Il bompresso si trovava sopra la tolda della fregata, che attraversava da babordo a tribordo, e la dolfiniera rasentava colla sua estremità inferiore il tavolato.
Al comando di Pierre le Picard, quaranta uomini si slanciarono, senza mandare un grido, verso le trinche, issandosi con rapidità fulminea sull'albero.
In un momento vi sono sopra e si slanciano verso il castello di prora, silenziosi come una legione di fantasmi.
Tre o quattro marinai del veliero, appena rimessisi dallo stupore, prodotto da quell'urto inatteso e allarmati dal grido del loro camerata, salivano in quel momento la scala, mentre a poppa si udivano incrociarsi domande e risposte e si vedevano delle ombre accorrere con delle fiaccole in mano.
Pierre le Picard che per primo era giunto sul castello, balzò come una tigre sull'uomo di guardia che aveva dato il primo allarme, e lo uccise.
Gli altri, che vedono irrompere tutte quelle persone e che non sapevano lì per lì spiegarsi da dove potessero essere salite, cercano di darsi alla fuga.
I filibustieri, che sono già saltati in coperta, piombarono addosso turando loro la bocca e li legarono, gettandoli verso la murata più vicina.
Morgan, vedendo che la fregata, malgrado l'urto subito, continuava a galleggiare, aveva intanto raggiunto il grosso dei bucanieri, occupando fortemente il castello.
L'attacco era stato così fulmineo e così silenzioso, che, quando comparvero gli spagnoli che lavoravano a poppa, quasi tutti i corsari della fregata si trovavano a bordo del veliero.
Vedendoli avanzare colle torce in mano, Morgan lanciò innanzi i suoi archibugieri, gridando:
«Arrendetevi o comando il fuoco!...»
Gli uomini di guardia si fermarono di botto, terrorizzati. Non erano che sette od otto e non avevano altre armi che dei martelli e qualche scure.
Vedendosi puntare contro tutti quegli archibugi e scorgendo il castello ingombro di gente, gettarono i loro istrumenti, dicendo:
«Non opponiamo resistenza.»
«Dov'è il capitano?»
«Eccomi!...» gridò una voce. «Chi mi vuole? Che cosa succede qui? Chi ha urtato?»
Un uomo sulla quarantina, che teneva in mano una pistola, era uscito dall'ombra, esponendosi alla luce proiettata dai due grossi fanali di poppa.
Morgan balzò verso si lui, gridandogli: «Arrendetevi, signore!... Siamo ormai padroni della vostra nave.»
«Chi siete voi?» chiese lo spagnolo con voce minacciosa.
«Morgan, il filibustiere!...»
Lo spagnolo, udendo quelle parole, aveva alzata rapidamente la pistola per fare fuoco. Pierre le Picard, che lo sorvegliava, fu lesto a fargliela saltare di mano con un colpo di spada.
Quattro o cinque uomini si erano gettati addosso allo spagnolo, alzando su di lui le sciabole, pronti ad ucciderlo.
«Rispettate i valorosi» disse Morgan. «Legatelo e conducetelo in una cabina. «Venti uomini nella camera di prora e che si assicurino dei marinai che dormono. «A me, Pierre le Picard!... Nel quadro!...»
Si diresse verso poppa, seguíto da una trentina dei suoi corsari e scese nel quadro, il cui salotto era ancora illuminato.
Due uomini stavano seduti dinanzi ad un tavolo e giuocavano tranquillamente al montes, ancora ignari di quanto era avvenuto in coperta.
Uno doveva essere un personaggio appartenente all'alta nobiltà spagnola, a giudicarlo dalla ricchezza delle sue vesti e dalla magnificenza delle trine che gli guarnivano le maniche.
Era un uomo di trenta o trentadue anni, di statura alta, quantunque magrissimo, coi capelli e la barba biondi, col naso leggermente ricurvo, gli occhi da falco, ed il mento aguzzo, indizio certo d'una energia poco comune.
L'altro invece, che doveva essere qualche ufficiale del veliero, era assai più giovane e coi lineamenti più grossolani.
Vedendo irrompere Morgan, seguíto da parecchi uomini, il gentiluomo era balzato vivamente in piedi, mettendo la destra sulla guardia dello spadone.
«Che cosa volete voi e da dove siete sbucati?» chiese, aggrottando la fronte. «E chi, soprattutto, vi ha dato il permesso di disturbare la nostra partita?»
«Il permesso ce lo siamo presi noi, signore» disse Morgan, salutandolo colla spada.
E, vedendo che lo sconosciuto accennava a trarre la spada:
«Lasciatela nel fodero, signor mio.» aggiunse, con tono un po' ironico. «Non guadagnereste nulla ad opporre resistenza. Siamo in sessanta, e voi dovreste conoscere ormai quanto valgono i filibustieri della Tortue.»
Il gentiluomo aveva fatto due passi indietro.
«Siete sorti dal mare o dall'inferno, voi?» gridò. «Razza infame che il diavolo protegge per nostra disperazione!...»
«Basta!... Gettate la spada!» comandò Morgan.
«E se mi rifiutassi?»
«Vi farei uccidere, signore.»
Il gentiluomo mormorò qualche cosa fra i denti e spezzò con dispetto la lama che aveva già estratta, gettando i due tronconi fuori dal sabordo che era aperto.
«Chi siete voi che m'imponete la resa?» chiese con ira.
«Morgan» rispose il filibustiere. «Un nome che gli spagnoli di Puerto del Principe, di Portobello, di Maracaybo e di Gibraltar conoscono già.»
Un pallore cadaverico si era diffuso sul viso dello spagnolo.
«Morgan» disse con voce malferma. «Anch'io conosco questo nome.
«A quale prezzo fissate il mio riscatto? So che voi assalite città e navi spagnole perché siete spinti da una inestinguibile sete d'oro.
«Di ciò parleremo più tardi, quando avremo saputo chi siete voi.»
«Fatica inutile, perché io sono qui per tutti uno sconosciuto. D'altronde non sono uso a mercanteggiare. Fissate il prezzo e la città ove desiderate essere pagato.»
«Legate questi due uomini e chiudeteli in qualche cabina» disse invece Morgan. «Che si mettano due sentinelle alla loro porta. «Addio signore» aggiunse poi con voce ironica, «ci occuperemo più tardi di voi.»
Capitolo sedicesimo
Il governatore di Maracaybo
Non erano trascorsi cinque minuti, che tutto l'equipaggio, composto di sessanta uomini, sorpreso in gran parte nelle amache della camera comune di prora, si trovava prigioniero nel frapponte della nave, guardato da otto corsari armati d'archibugi.
Nessuno aveva osato opporre resistenza, tanto era il terrore che ispirano in quell'epoca i filibustieri della Tortue, che godevano fama di essere invincibili, perché uomini d'origine infernale. Qquella conquista non era costata che la perdita d'un uomo, del marinaio di guardia sul castello, ucciso da Pierre le Picard.
Il cambio della nave però non si rivelò così buono, come dapprima i filibustieri avevano sperato, quantunque quel veliero valesse infinitamente di più della sgangherata fregata destinata ormai a inabissarsi.
Anche la nave spagnola aveva assai sofferto per l'uragano e per il razzo di mare, che l'aveva sorpresa alcune ore dopo che si era rovesciato sulla fregata: essa aveva perduto il timone, tutta la murata poppiera e gli attrezzi sopra coperta. Per di più, l'equipaggio aveva affermato a Morgan che da otto ore la nave faceva acqua e che esso aveva pompato tutta la giornata per vuotare la sentina che si era riempita.
Comunque fosse, i corsari si ritenevano più sicuri su quel legno che sul rottame, avendo l'alberatura quasi intatta e legname sufficiente per costruire un nuovo timone.
«Signora» disse Morgan a Jolanda, che aveva lasciato il rottame assieme a Carmaux ed a Wan Stiller, salendo sul veliero. «Credevo di essere più fortunato, tuttavia non dispero di poter condurre questa nave alla Tortue. Abbiamo fra noi degli abili carpentieri, che non si troveranno imbarazzati a turare la falla ed a costrurre un nuovo timone o meglio a finire quello che gli spagnoli avevano cominciato.»
«Ho sempre avuta piena fiducia in voi, signor Morgan» rispose la fanciulla «e questa fiducia non verrà meno neanche ora.»
«Wan Stiller conduci la signora nel quadro, e tu, Carmaux, preparale la migliore cabina. I prigionieri ne faranno a meno e si accontenteranno del frapponte.»
«Andiamo, compare» disse il francese, volgendosi verso l'amburghese. «Prepareremo alla signora di Ventimiglia un grazioso nido.»
Erano appena scesi nel salotto del quadro che era rimasto illuminato, quando Jolanda si arrestò, mandando un grido di sorpresa.
Si era fermata dinanzi ad una miniatura sospesa ad una parete, che raffigurava la testa d'un vecchio dalla barba e dai capelli bianchi e dall'aspetto severo.
«Che cosa avete, signora?» chiese Carmaux.
«Io ho veduto nel mio castello di Ventimiglia una miniatura identica a questa!...» esclamò Jolanda.
«Ventre di pescecane!...» gridò Carmaux, facendo un passo indietro. «Lui!... Diciassette anni non me lo hanno fatto scordare!...»
«Tuoni d'Amburgo!...» esclamò Wan Stiller. «Sì, lui!... Come questa miniatura si trova qui?...»
«Avete visto quell'uomo?» chiese Jolanda con una certa agitazione.
«L'abbiamo conosciuto, signora» rispose Carmaux, con aria imbarazzata, facendo contemporaneamente a Wan Stiller un rapido cenno.
«Chi è?»
«Era un governatore spagnolo che diede molto da fare ai corsari della Tortue.»
«E come si trova nel mio castello di Ventimiglia una miniatura precisa a questa?» chiese Jolanda. «Che l'aavesse portata dall'America mio padre?»
«Certo, signora» rispose Carmaux. «L'avrà avuta, nella divisione del bottino ricavato dal sacco di Vera Cruz.»
«Strana combinazione!... Trovare qui la medesima miniatura!... Sì, sono i suoi occhi, le fattezze del suo viso sono identiche, l'espressione dura è la medesima. Io desidererei sapere a chi appartiene.»
«Probabilmente al comandante della nave. Cercheremo d'interrogarlo. Andate a riposarvi, signora, è già la una del mattino.»
Apersero varie cabine e trovatane una che pareva non fosse stata abitata da alcuno e arredata con una certa eleganza, la pregò di entrare e di coricarsi nel bianco lettuccio che ne occupava il centro.
Quando Carmaux e Wan Stiller furono tornati nel salotto, due esclamazioni sfuggirono simultaneamente dalle loro labbra:«Suo nonno!»
«Il duca di Wan Guld!»
«Compare Stiller, bisogna sapere come questo quadrettino si trova qui. Io sono certo di non ingannarmi, è lui!...»
«Mi pare di vedermelo ancora dinanzi, la notte che comparve sul cassero della sua nave, colla fiaccola in mano, fra i due barili di polvere» disse l'amburghese. «E mi pare ancora, nel mirarlo, di udire lo spaventevole rimbombo che ne seguì e di vedere la vampa alzarsi verso il cielo. Te ne ricordi, Carmaux?»
«Perbacco!... Mi sento correre ancora indosso un brivido tutte le volte che ci penso. Compare, cerchiamo di sapere a chi appartiene questa miniatura. Non sono meno curioso della signora di Ventimiglia.»
«Andiamo a chiederlo al capitano del veliero.»
«Sarà meglio interrogare qualcuno dell'equipaggio, il pilota per esempio.»
«Andiamo Carmaux.»
«Vuotiamo prima questi due bicchieri, che sono rimasti miracolosamente diritti e che il capitano ed i suoi ufficiali si sono dimenticati di tracannare.
I due compari, che ci tenevano a bagnarsi l'ugola quando si presentava l'occasione, vuotarono d'un fiato le due tazze, poi passarono nel frapponte dove si trovavano allineati su due ranghi e legati i prigionieri, guardati dagli otto corsari.
Carmaux s'accostò ai camerati, sussurrò loro qualche parola, poi s'accostò ad un vecchio marinaio dalla barba bianca, che supponeva fosse uno dei piloti e, dopo d'averlo slegato, lo trasse in un angolo, dicendogli:
«Ti prometto del tabacco e anche una bottiglia se mi darai una indicazione che mi urge» gli disse.
«Parlate» rispose lo spagnolo.
«Tu conosci il quadro della nave?»
«Vi sono sceso un centinaio di volte.»
«A chi appartiene quella miniatura appesa a una delle pareti?»
«Una testa di vecchio?»
«Sì, sì» disse Carmaux.
«Al viaggiatore che abbiamo imbarcato nella baia di Macuira, all'uscita del golfo dei Caraibi.»
«Mostratemelo.»
«È il primo della seconda fila, quello che si trova presso il capitano. Un gran signore, a quanto pare, qualche gentiluomo di certo.»
Carmaux fissò gli sguardi sull'uomo indicato, che era lo stesso che aveva spezzata la spada all'intimazione di arrendersi.
«Non lo conosco e non l'ho di certo mai veduto» mormorò Carmaux dopo un attento esame. «Eppure... guardalo anche tu, Wan Stiller.»
«Il lampo di quegli occhi non ti è nuovo, è vero camerata?» chiese l'amburghese. «Ricorda il vecchio Wan Guld.»
«Chi è quell'uomo?» chiese il francese, volgendosi verso lo spagnolo.
«Non lo so, signore.»
«Quando lo avete imbarcato?»
«Otto settimane or sono.»
«Era solo?»
«No, aveva con sé parecchi ufficiali che sono però rimasti a terra.»
«Siete rimasti sempre in mare fino ad oggi?»
«Siamo stati a Cuba ed ora tornavamo sulle coste del Venezuela.»
«Non sai dirmi da dove veniva quell'uomo, quando lo imbarcaste nella baia di Macuira?»
«Lo ignoro, ma sono certo che il capitano lo aspettava, essendo noi rimasti una settimana nascosti entro la baia, senza fare alcun carico. Vi dico però che deve essere qualche pezzo grosso, a giudicarlo dal modo con cui lo trattava il comandante. Era lui che dava gli ordini a bordo.»
«Avrai il tabacco e la bottiglia» disse Carmaux, riconducendolo tra i prigionieri.
«Chi credi possa essere?» chiese Wan Stiller, quando risalirono in coperta, dove i filibustieri lavoravano a tutta lena alle pompe per vuotare la sentina, onde permettere ai carpentieri di scoprire la falla e di turarla.
«Deve essere lui!»
«Chi lui?»
«Cerchiamo don Raffaele e, se non parlerà, parola di marinaro, lo getterò in mare.»
Si era messo a correre per la tolda, cercando fra i gruppi dei marinai e dei prigionieri della fregata che erano stati lasciati ancora liberi, il piantatore e lo trovò, finalmente, seduto su un rotolo di gomene, colla testa fra le mani e gli occhi fissi sul tavolato.
«Non è il momento di sognare questo, don Raffaele» gli disse Carmaux, scuotendolo.
«Non è ancora finita dunque la mia triste esistenza?» chiese il poveraccio con un sospirone. Che cosa volete?»
«Ditemi, se vi mostrassi il governatore di Maracaybo, il conte di Medina, lo riconoscereste?»
«Non sono ancora interamente imbecillito» rispose il piantatore.
«Egli è qui, sapete?»
Don Raffaele s'era alzato di colpo.
«Scherzate?» chiese. «È impossibile!...»
«Vi dico che è qui» ribatté Carmaux.
«Su questa nave?»
«Sì, e sono certo che, vedendolo, lo riconoscerete subito.»
«Voi avete sognato?»
«Venite dunque, testardo.»
«Andiamo» disse il piantatore. «Non ho ancora perduta la vista.»
«Compare,» disse Wan Stiller «ti devi essere ingannato.»
«Aspetta, prima di pronunciarti» rispose il francese. «Io sono convinto di avere indovinato giusto. Un altro uomo che non fosse o suo figlio o qualche suo stretto parente, non potrebbe possedere la miniatura di Wan Guld. Siamo sulla buona strada, te lo dico io, ed il capitano Morgan rimarrà ben sorpreso quando apprenderà che valore ha la sua preda.»
Il piantatore, un po' trascinato da Carmaux e un po' sospinto dall'amburghese, scese nel frapponte, dove si trovavano ancora i prigionieri, illuminati da due lanterne sospese al soffitto.
«Guardate il primo di quella fila, don Raffaele» disse Carmaux, spingendolo innanzi. «Guardatelo bene e, prima di dirmi se lo conoscete o no, pensateci due volte.»
Il piantatore aveva appena fissati gli sguardi sul gentiluomo, quando un grido gli sfuggì:
«Voi siete uno stregone!».
«È lui?»
«Sì.»
«Il conte di Medina?»
«E di Torres.»
«Il bastardo del duca?»
«L'ho veduto cento volte e si è degnato di parlare con me.»
«Lo sospettavo!» esclamò Carmaux. «Ecco una preda che ci consola di aver dato l'abbordaggio ad una nave che valeva ben poco.
«Il capitano Morgan ne sarà ben lieto.»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mentre Carmaux, tutto lieto della scoperta fatta, si recava ad informare il filibustiere, un uomo che nessuno dei due corsari e nemmeno don Raffaele avevano osservato, perché si era fino allora tenuto nascosto dietro il tronco inferiore dell'albero di trinchetto, presso la scassa, si era bruscamente alzato, mandando una sorda imprecazione.
Era il capitano Valera, il quale, sospettando qualche cosa, li aveva silenziosamente seguìti e si era collocato così vicino a loro, da non perdere una sola sillaba.
«Quella canaglia di piantatore lo ha tradito» mormorò. «Non mi ero ingannato, sospettando che fosse stato lui a condurli nel monastero. Ho fatto bene a sorvegliarlo. A suo tempo ti pagherò come meriti.»
Si diresse verso i corsari di guardia, chiedendo loro:
«Permettete di salutare un mio compatriota?»
«Non abbiamo ordini per impedirvelo» rispose uno dei filibustieri. «Fate pure.»
«Grazie» rispose il capitano. «Ho trovato qui una vecchia conoscenza.»
Passò dietro la seconda fila dei prigionieri e si accostò al governatore di Maracaybo, che stava seduto su una curcuma, tutto concentrato in sé stesso.
«Ho molto dispiacere di trovarvi qui, signor conte» gli disse, sedendoglisi presso. «Sarete però anche voi molto sorpreso di vedermi.»
Il governatore si volse vivamente, e fece un gesto di stupore.
«Voi, capitano!» esclamò. «Possibile!...»
«In carne ed ossa, signor conte» disse Valera. «Non sono stato più fortunato di voi, la fregata che montavo fu catturata da quel dannato Morgan, che il diavolo se lo porti all'inferno.»
«Quale fregata?» chiese il conte.
«Ignorate dunque che, dei sei legni che dovevano distruggere i corsari, tre sono stati distrutti dai filibustieri?»
«E i nostri si sono lasciati fare a pezzi?» disse il governatore, con ira. «Sono dunque invincibili questi filibustieri!»
«Io li credo tali, signor conte» rispose il capitano.
«È vero che hanno saccheggiato anche Gibraltar?»
«Sì.»
«E la figlia del Corsaro è sempre al sicuro?»
«No, signor conte, è in mano di Morgan.»
Il governatore aveva fatto un soprassalto, accompagnato da un gesto di furore.
«In mano dei filibustieri!» mormorò con voce fremente. «Che cosa mi narrate voi?»
«Che è qui, a bordo di questa nave.»
«Chi mi ha tradito?»
«Non io di certo, signor conte.»
«Narratemi tutto, tutto!» disse il gentiluomo, mordendosi rabbiosamente le dita.
Il capitano non se lo fece dire due volte, e gli raccontò brevemente quanto gli era accaduto, dopo la presa di Maracaybo da parte dei filibustieri.
Il conte di Medina lo aveva ascoltato senza interromperlo, diventando, volta a volta, ora smorto ed ora rosso, come fosse lì lì per coglierlo un colpo.
«Maledetti!... Maledetti!...» mormorò coi denti stretti, quando il capitano ebbe finito. «Chi può avermi riconosciuto?»
«Quel piantatore, don Raffaele Caldara, che ho visto poco fa coi due filibustieri, Carmaux e Wan Stiller.»
«Io ho udito ancora questi nomi.»
«Erano i due fedeli che accompagnavano sempre il Corsaro Nero.»
«Sì, mio padre mi aveva parlato di loro. Spero che quel traditore non vivrà a lungo.»
«M'incarico io di farlo sparire,» rispose il capitano, «tanto più che sospetto sia stato lui a guidare i due filibustieri al convento.»
«Che fare ora? Morgan non accetterà alcun riscatto da me e mi terrà prigioniero, se conosce i miei progetti sulla figlia del Corsaro.»
«Su vostra nipote, signor conte» corresse il capitano.
Il governatore gli lanciò un'occhiata feroce.
«No» disse «i miei progetti sulla figlia dell'uomo che fu fatale a mio padre e che mi tolse, sposando la duchessa, una immensa fortuna. La lotta però è appena cominciata e Morgan, giacché si è creato il protettore della signora di Ventimiglia, troverà in me un avversario implacabile!»
«Per questo occorre che voi siate libero, signore»
«Posso contare su di te?»
«Sempre, signore. Cosa devo fare?»
«Impedire che questa nave ci trasporti alla Tortue.»
«Non sarà impresa facile.»
Un sorriso contrasse le labbra del conte.
«Che cosa ci vuole per rovinare una nave? Una falla aperta al momento opportuno; un barile di polvere che accidentalmente prende fuoco e la rovina parzialmente; dei cannoni che spezzano i freni...»
«Ho già fatto questo giuoco, signore, per rovinare la fregata e sarebbe pericoloso ripeterlo» disse il capitano con un soffio di voce. «Ne so abbastanza; però metterò in esecuzione una mia idea.»
«Hai amici su cui contare qui?»
«Due soldati della guarnigione di Maracaybo che mi sono fedeli.»
«Prometti loro senza contare le piastre a nome mio...»
Una voce che risuonò all'estremità del frapponte che fece trasalire il capitano, lo interruppe.
Era Carmaux che gridava:
«Conducete nel quadro il gentiluomo. È aspettato.»
«Morgan vuole parlarvi» disse il capitano. «Negate tutto e giuocate d'astuzia.»
«Sarò un avversario degno di lui» disse il conte, alzandosi. «Vedremo chi proverà che io sia realmente il governatore di Maracaybo.»
Capitolo diciassettesimo
Due rivali formidabili
Quando il conte di Medina entrò nel quadro, trovò Morgan solo, appoggiato alla tavola che occupava il centro del salotto, su cui stavano ancora i bicchieri vuotati da Carmaux e da Wan Stiller.
Il filibustiere, vedendolo entrare, aveva spinto innanzi due sedie, dicendo con voce secca:
«Sedete, signor conte; abbiamo da parlare di cose importanti.»
«Conte!...» esclamò il governatore di Maracaybo, fingendo un gesto di stupore. «Ecco un titolo che sarei lieto di avere, ma per ora non lo possiedo. Vi siete ingannato, capitano Morgan, chiamandomi così.»
«Ne siete ben convinto?» chiese il filibustiere con accento leggermente beffardo.
«Io sono don Diego Miranda, e null'altro. Non ho mai avuto alcun titolo nobiliare.»
«Piantatore forse?»
«Fabbricante di cioccolatto a S. Domingo.»
«Possibile che io mi sia ingannato o meglio che si siano ingannati coloro che avevano conosciuto in piena funzione il governatore di Maracaybo?» disse Morgan, sempre beffardo. «Signor conte di Medina, è meglio che giuochiamo a carte scoperte.»
«Conte di Medina!» esclamò il figlio del duca. «È uno scherzo questo, capitano Morgan, per aumentare il prezzo del riscatto? Se si tratta di piastre, parlare pure. Sono abbastanza ricco per pagare e vi prego fin d'ora, di voler fissare la somma necessaria per riacquistare la mia libertà.»
Morgan si mise a ridere; era però un riso secco, che non si udiva certo con piacere e che fece sussultare il conte.
«Un riscatto» disse. «Non vi ho fatto chiamare per spillarvi alcune migliaia di piastre. Non ho terre e castelli come quel grande gentiluomo che fu il Corsaro Nero, tuttavia sono oggi ricco a sufficienza. E poi che importa a me l'oro? Signor conte, figlio del duca di Wan Guld, sia pure nato da altra donna, gettate la maschera.»
«Quale?» chiese il governatore con voce sardonica.
«Quella che cercate di applicarvi al viso per nascondere il vostro vero essere.»
«Dunque io sarei?»
«Il conte di Medina e Torres, governatore di Maracaybo.»
«Un bel nome ed un bel titolo» disse il gentiluomo. «Vi hanno ingannato per bene coloro che vi hanno detto ciò.»
Morgan, che cominciava ad impazientirsi, tese una mano verso la miniatura appesa alla parete, che rappresentava il duca di Wan Guld.
«Ebbene, signor conte, negate ora, se l'osate, che quell'uomo non sia vostro padre. Lo conobbi troppo bene, quando lottava ferocemente contro il Corsaro Nero, a cui aveva prima ucciso nelle Fiandre il fratello maggiore, a tradimento e poi impiccati qui, in America, gli altri due: il Corsaro Verde ed il Rosso. Negatelo!...»
Il conte era rimasto silenzioso.
«Negatelo dunque» ripeté Morgan. «Quella miniatura vi appartiene.»
«Chi ve lo ha detto?» chiese il conte. «Chi fu il miserabile che mi ha tradito? Maledizione su di lui. Ebbene sì, io sono il conte di Medina e Torres, figlio del duca di Wan Guld e della marchesa di Miranda, e governatore di Maracaybo... Che desiderate ora da me?»
«Sapere una sola cosa» disse Morgan.
«Quale?»
«Perché avete mandato delle navi ad impadronirsi della figlia del Corsaro, della signora Jolanda di Ventimiglia?»
«Voi volete sapere troppo, capitano Morgan» disse il conte. «Sono affari che riguardano me solo e non i filibustieri della Tortue.»
«Voi avete dimenticato che il Corsaro Nero fu uno dei più grandi capitani della filibusteria e che, come tale, sua figlia ha diritto alla nostra protezione.»
«La protezione di ladri di mare, di uomini posti fuori della legge!» disse il conte con un sorriso ironico. «Bei gentiluomini, in fede mia!...»
Una vampa d'ira era salita sul viso di Morgan. La sua destra si posò rapidamente sulla guardia della spada ed estrasse a metà il ferro dalla guaina.
«Uccidetemi, o meglio assassinatemi» disse il conte con voce pacata, aprendosi il giubetto e mostrando la bianca camicia di seta. «Il cuore batte qui.»
Quella calma e quelle parole, furono come una doccia gelata per il filibustiere.
«Morgan si batte, ma non assassina» disse ringuainando il ferro. «Avete la lingua che taglia, signor conte.»
«La mia spada taglierebbe di più» rispose arditamente il figlio di Wan Guld.
«Lo vedremo, se un giorno noi ci incontreremo l'uno di fronte all'altro, col ferro in pugno.»
«Accetto fin d'ora la sfida.»
«Volete rispondere alla mia domanda?»
«Vi ho detto che sono affari che riguardano la mia famiglia.»
«Voi odiate la signora di Ventimiglia.»
«È possibile che io possa odiare la figlia di colui che causò la morte di mio padre, il duca di Wan Guld.»
«Il Corsaro Nero non lo uccise. Fu vostro padre che diede fuoco alle polveri, quando la Folgore abbordò la sua fregata. Io ero presente a quella tragica scena. D'altronde, il Corsaro aveva dei gravi motivi per odiare vostro padre, che gli aveva assassinati tre fratelli.»
«Ma non di abbandonare sulle onde del Mare dei Caraibi, colla tempesta che stava per iscoppiare, la figlia legittima di mio padre, Honorata di Wan Guld.»
«Il Corsaro Nero aveva giurato di sterminare tutti coloro che portavano quel nome nefasto e l'aveva giurato sulle salme dei suoi fratelli, il Corsaro Rosso ed il Verde. D'altronde Honorata, sfuggita miracolosamente alla tempesta, non solo gli perdonò, ma divenne persino sua moglie.»
«Ebbene anch'io ho giurato... Ho raccolta l'eredità di mio padre.»
«Nelle vene della signora di Ventimiglia scorre il sangue della vostra famiglia.»
«Mia madre non era quella di Honorata; io non sono un Wan Guld, sono un bastardo» disse il conte, con amarezza.
Si passò una mano sulla fronte, come per scacciare un triste pensiero, poi disse, quasi con impazienza:
«Orsù, che cosa volete fare di me?»
«Promettetemi di rinunciare ai vostri disegni, che non possono essere se non malvagi, sulla signora di Ventimiglia e di lasciare per sempre le colonie spagnole dell'America, ed io vi porrò in libertà.»
«Non sperate di strapparmi una simile promessa» disse il conte con voce energica.
«Allora vi condurrò alla Tortue e vi rimarrete prigioniero finché avrete cambiato idea.»
«Fate pure.»
«Vi avverto che, fino all'arrivo, voi rimarrete chiuso in una cabina e guardato a vista, non desiderando io che la signora di Ventimiglia sappia che voi siete a bordo.»
«Ah!... Ella è qui!...» esclamò il conte, fingendo la più viva sorpresa.
«Non lo sapevate?»
«Nessuno me lo disse.»
«Non createvi delle illusioni.»
«Che cosa volete dire, signor Morgan.»
«Lasciate ogni speranza di poter agire contro di lei.»
Il conte alzò le spalle senza rispondere. Appena però Morgan gli ebbe voltato il dorso per chiamare gli uomini che vegliavano al di fuori in attesa del prigioniero, un sorriso sinistro gli apparve sulle labbra, mentre una cupa fiamma gli balenava negli occhi.
«Signor conte» disse Morgan, lasciando entrare i due corsari di guardia. «Seguìte questi uomini.»
«Sta bene» rispose il governatore.
E uscì colla fronte alta, senza tradire la menoma apprensione e senza nemmeno salutare il suo nemico.
«Ecco un uomo capace di darmi molto da fare» mormorò Morgan, quando si trovò solo. «Sarà meglio affrettarci ad approdare alla Tortue. «In mare non dormirò tranquillo finché vi sarà a bordo costui. Carmaux!...»
Il francese, che forse s'aspettava quella chiamata e che fumava sull'ultimo gradino della scala in compagnia dell'inseparabile amburghese, fu lesto ad accorrere.
«Che cosa vuole il signor Morgan?»
«Affido a te ed all'amburghese la sorveglianza del conte. Non è necessario che ti dica che egli è un pericoloso personaggio.»
«È il figlio di Wan Guld, del terribile vecchio che ha dati al Corsaro Nero tanti fastidi» disse Carmaux. «Io ed il mio compare Wan veglieremo a turno dinanzi alla sua cabina.»
«E non una parola alla signora di Ventimiglia, sulla presenza del conte. Forse non vivrebbe più tranquilla, sapendolo a bordo.»
«Non siamo che in quattro a conoscerlo, e se don Raffaele parla, lo butto ai pesci.»
«Lavorano i carpentieri?»
«Sono tutti nella cala e pare che la falla sia più larga di quanto supponevano gli spagnoli.
«Non potremo rimetterci alla vela prima di domani a sera.»
«Andrò io ad accelerare i lavori. Va', Carmaux, e apri gli occhi.»
Il francese raggiunse l'amburghese, che non aveva abbandonato il suo posto.
«Acqua in bocca, compare, su quanto è avvenuto. È l'ordine.»
«Non parlerò.»
«Hai veduto don Raffaele?»
«Mi pare di averlo scorto poco fa sul castello di prora.»
«Andiamo a cercarlo.»
Attraversarono la tolda, dove una parte dell'equipaggio, aiutato da parecchi prigionieri spagnoli della fregata, lavorava accanitamente alle pompe, per vuotare la sentina e salirono sul castello, ma non riuscirono a scorgerlo.
Percorsero nuovamente la coperta, guardando sotto le vele che erano state calate in coperta e fra i rotoli di cordami; poi scesero nelle batterie interrogando i loro camerati, visitando perfino la camera comune dell'equipaggio e le dispense senza trovarlo.
«Questa sparizione è misteriosa» disse l'amburghese. «Che quel pauroso, temendo qualche vendetta da parte del governatore, sia fuggito?»
«E dove?» chiese Carmaux. «È più probabile che si sia annegato. La desiderava tanto la morte!...»
«È impossibile che abbia presa una così disperata risoluzione; cerchiamolo ancora, compare.»
Alcuni amici, informati della scomparsa del piantatore, si erano uniti a loro, visitando la nave dalla tolda alla cala; dovettero finalmente convincersi che quel povero uomo non si trovava più a bordo del veliero.
Uno dei prigionieri della fregata aveva detto loro che, trovandosi pochi minuti prima sul cassero, gli pareva di aver udito un tonfo, come se un corpo o qualche attrezzo fosse caduto in mare.
«Si è annegato» disse l'amburghese. «Mi rincresce, parola di marinaio, perché, quantunque spagnolo, era un buon uomo.»
«O l'hanno invece annegato?» disse Carmaux.
«E chi?» chiese l'amburghese, che era stato profondamente colpito da quelle parole.
«Qualcuno che forse sospettava di lui.»
«Il capitano Valera?»
«Chi lo sa?»
«Avrebbe gridato e opposta qualche resistenza.»
«Possono averlo prima pugnalato a tradimento od imbavagliato.»
«Eppure ho scorto poco fa il capitano giù nel frapponte, che chiacchierava tranquillamente col capitano del veliero» disse l'amburghese.
«Comunque sia, mi rattrista la miseranda fine di quel buon diavolo, che ci ha reso tanti servigi. In guardia, amburghese. Il governatore è affidato alla nostra sorveglianza e dobbiamo tenere gli occhi aperti. Quello è il più pericoloso di tutti!...»
Capitolo diciassettesimo
Il tradimento
Quando l'alba sorse, la nave non si trovava in condizioni di rimettersi alla vela.
I carpentieri, quantunque avessero lavorato alacremente tutta la notte, non erano ancora riusciti a turare interamente la falla, che si era aperta presso la ruota di prora e che aveva delle dimensioni tali, da mettere in serio pericolo il veliero.
Anche il timone non era stato ancora finito, non avendo trovato nei depositi il legname adatto a quel genere di costruzioni, cosicché Morgan si vedeva costretto ad attender forse altre ventiquattro ore, prima di poter abbandonare quei paraggi che potevano diventare pericolosissimi, essendo frequentati dalle navi spagnole.
Durante la notte il veliero, quantunque non soffiasse vento, trascinato forse da qualche corrente, si era accostato alla costa venezuelana di tanto, che si poteva già scorgerla vagamente. Quale tratto della costa fosse, nessuno poteva saperlo, perché anche il capitano spagnolo, interrogato in proposito, non aveva data alcuna informazione precisa, affermando di non aver potuto fare il punto del mezzodì da quarantotto ore, in causa dell'uragano.
Anche il rottame, abbandonato a sé stesso, era stato trascinato verso il sud durante la notte e lo si poteva vedere, ad una distanza di dodici o quindici miglia, un po' rovesciato sul babordo, ma sempre galleggiante.
Morgan, che aveva premura di mettersi alla vela e di rifugiarsi alla Tortue, anche per sapere se gli altri legni della squadra, che portavano buona parte delle ricchezze predate, si erano salvati, non aveva lasciata la cala, e continuava ad incoraggiare i carpentieri.
La riparazione non era facile, anche in causa dell'acqua che continuava ad entrare dal foro e che le pompe, quantunque energicamente manovrate, non riuscivano a vincere.
Perfino i prigionieri spagnoli della fregata erano stati occupati a formare una doppia catena, e si facevano passare con mastelli e buglioli, che venivano riempiti in sentina e vuotati in coperta.
Ciò malgrado calò la sera, senza che il duro lavoro fosse ancora stato ultimato, con grande apprensione dell'equipaggio, il quale cominciava a disperare di poter venire a capo di riuscire a mettere il veliero in grado di navigare.
«La va male» disse Carmaux, che era salito in coperta a respirare una boccata d'aria e che aveva appreso dai camerati quelle non liete notizie. «Si direbbe che qualche santo o qualche diavolo protegga il conte di Medina. Se la continua così, invece di andare alla Tortue, andremo a naufragare sulle coste del Venezuela.»
«Lo credi compare?» chiese Wan Stiller, che si era fatto surrogare nella guardia da un amico.
«Stamane la costa era appena visibile, ed ora si distingue perfettamente. Vi è una maledetta corrente che ci trascina fatalmente verso il sud.»
«Non si può dunque chiudere quella falla?»
«Pare invece che se ne sia aperta un'altra. Mi hanno detto or ora che altra acqua entra, scendendo dalla poppa.»
«Non se n'erano accorti prima?»
«No.»
«Come si spiega questa istoria?»
«Corrono dei sospetti.»
«Quali?»
«Che qualche prigioniero spagnolo, approfittando della poca sorveglianza che esercitano i nostri uomini, troppo occupati alle pompe, abbia sabotato la nave da quel lato.»
«Il capitano dovrebbe farlo impiccare.»
«Va a cercarlo tu» disse Carmaux.
«Che cosa dice il signor Morgan?»
«È furibondo ed ha minacciato di far gettare in acqua tutti i prigionieri, se riesce a scoprirne qualcuno con qualche attrezzo da trapanare.»
«Hai tenuto d'occhio il capitano?»
«Non ho cessato di sorvegliarlo e credo che si sia accorto che io ho dei sospetti su di lui.»
«Che sia stato lui a sabotare la nave a poppa?»
«No, perché l'ho sempre veduto a pompare» rispose Carmaux.
«Che abbia qualche complice?»
«Chi può saperlo? Bah, non disperiamo» disse Carmaux.
Ahimè!... Pareva che la sfortuna, unita forse al tradimento, avesse giurato di non lasciar tregua ai vincitori di Maracaybo e di Gibraltar.
I carpentieri, alla mezzanotte, quando già speravano di poter dare gli ultimi colpi alle tavole e alle lastre di rame adoperate per chiudere la falla, erano stati bruscamente scacciati dalla sentina da un'improvvisa irruzione d'acqua che colava da babordo e così rapidamente che in meno di dieci minuti aveva coperto il paramezzale.
Quasi nell'istesso tempo, come se quella nuova disgrazia non bastasse, si era levato un forte vento dal nord, spingendo la nave, con maggior velocità, verso la costa venezuelana, che doveva essere ormai vicina.
Al grido di allarme dei carpentieri, Morgan era prontamente accorso con Pierre le Picard ed aveva dovuto, suo malgrado, constatare che, questa nuova via d'acqua, apertasi improvvisamente, non era possibile vincerla colle pompe di bordo, tanto più che l'equipaggio era completamente prostrato da quell'incessante e faticosa manovra che durava da ventiquattr'ore.
«Tanto valeva rimanere sul rottame» disse a Pierre le Picard, che si asciugava alcune stille di sudore freddo. «Nel cambio non abbiamo fatto alcun guadagno.»
«Era dunque un crivello lo scafo di questa dannata nave?» disse il secondo, con ira. «O che una mano colpevole, malgrado le tue minacce, abbia sabotata nuovamente la chiglia? Se avessimo urtato contro qualche roccia, il colpo si sarebbe ripercosso anche sulla coperta.»
«Sì» disse Morgan, «qui è stato commesso un infame tradimento. Mentre i nostri uomini cercavano di otturare la falla, una mano colpevole ne ha aperta un'altra.»
«A quale scopo?»
«Per impedirci di tornare alla Tortue; la cosa è spiegabilissima.»
«Che il governatore avesse qualche amico fra i prigionieri della fregata?»
«Può darsi, Pierre» rispose Morgan.
«Avresti dovuto gettarli tutti in mare, come io ti avevo consigliato» disse il piccardo.
«La signora di Ventimiglia non ci avrebbe mai perdonata una simile crudeltà, che suo padre mai avrebbe permessa.»
«È vero» rispose Pierre le Picard, con un po' di malumore però. «Che fare ora?»
«Non ci rimane altro che far arenare la nave su qualche banco e tentare poi di chiudere le falle.»
«Il mare monta, Morgan, ed il vento di tramontana soffia forte.»
«Cercheremo di arenarci su di una costa piana. Orsù, spieghiamo qualche vela e cerchiamo di approdare, prima che la nave si riempia d'acqua.»
Quando salirono in coperta, trovarono Jolanda, la quale avvertita da Carmaux del pericolo che correva il veliero, aveva lasciata subito la cabina.
«Affondiamo, signor Morgan?» chiese colla sua solita voce tranquilla.
«Non ancora, signora» rispose il filibustiere. «Prima che la nave sia piena d'acqua passeranno almeno due ore ed a noi ne basta una per toccare la costa. La scorgete laggiù verso il sud!»
«Non si spezzerà il veliero? Vedo le onde a formarsi e precipitarsi all'assalto.»
«Sì, il mare diventa cattivo» rispose Morgan, «Tuttavia spero di trovare un buon punto per arenare la nave.»
Poi, alzando la voce gridò:
«In coperta anche la guardia franca e issate le vele!»
Tutti salirono sulla tolda, compresi Carmaux e Wan Stiller, i quali ritenevano inutile la guardia al governatore in un simile momento.
Il mare in pochi minuti, forse per la vicinanza della costa e per la presenza di scogliere e di bassifondi, oltre che per il vento, era diventato cattivo.
Enormi cavalloni che si formavano sotto gli occhi dell'equipaggio, investivano poderosamente la nave, scrollandola brutalmente.
Pierre le Picard, per dare al veliero un po' di stabilità e anche per aumentarne la corsa, aveva già fatto spiegare le due vele latine e qualche fiocco sul bompresso.
La costa venezuelana non doveva essere molto lontana. Si udiva il fragore formidabile delle onde rompentisi contro la spiaggia o contro le scogliere, e si vedeva estendersi dinanzi alla nave un immenso lenzuolo biancastro prodotto dalla spuma.
Morgan si era messo al timone, volendo dirigere la nave di suo pugno ed aveva pregato Jolanda di non allontanarsi da lui, onde essere pronto a soccorrerla, ignorando se la nave avrebbe potuto resistere all'urto, e Carmaux si era unito a loro, mentre l'amburghese scandagliava il fondo assieme a Pierre le Picard.
I colpi di mare, man mano che il veliero si accostava alla terra, si succedevano con maggior frequenza. Dei cavalloni enormi varcavano di quando in quando le murate e si rompevano in coperta, minacciando di trascinare via i prigionieri della fregata e anche gli uomini dell'equipaggio.
Il fracasso prodotto da quella terribile risacca, in certi momenti era tale, che non si udivano quasi più i comandi di Morgan e di Pierre le Picard.
A mezzanotte la costa non era più che a cinquecento passi, ma l'oscurità era così fitta da non poter discernere se esistesse qualche rifugio o se vi erano delle scogliere da evitare.
«Dove andiamo noi?» si chiedeva Carmaux, che teneva con una mano la signora di Ventimiglia, onde sorreggerla. «Ci fracasseremo contro le scogliere o la nave affonderà prima di toccare?»
Il timore che la nave s'inabissasse da un momento all'altro, non era ingiustificato. La falla o le falle aperte dal traditore, dovevano essersi rapidamente allargate sotto gli urti poderosi ed incessanti delle onde, poiché il veliero, in meno di mezz'ora, si era immerso d'un paio di metri e l'acqua cominciava a trapelare attraverso i sabordi della batteria, quantunque Morgan avesse fatti chiudere tutti gli sportelli onde ritardare la sommersione.
Si udiva giù nella stiva l'acqua muggire cupamente e rompersi contro le tramezze della batteria e del frapponte, ogni qualvolta la nave, investita dalle onde, si piegava su un fianco o sull'altro.
Morgan, temendo che i prigionieri della nave morissero annegati là dentro, li aveva già fatti salire, compreso il conte di Medina che era stato condotto a prora, e affidato a Wan Stiller, affinché la fanciulla che si trovava a poppa, non potesse vederlo.
Alle dodici ed un quarto la nave si trovava fra la risacca, la quale si faceva sentire fortemente. Morgan era sempre al timone e faceva sforzi prodigiosi per mantenere il veliero in rotta.
Quell'intrepido uomo di mare, quantunque non ignorasse che la tolda da un momento all'altro poteva mancargli sotto i piedi, conservava anche in quel terribile frangente una calma ammirabile ed impartiva i comandi con voce calma e limpida.
Solo i suoi sguardi tradivano una profonda emozione, quando si fissavano su Jolanda, quantunque la fanciulla si sfrozasse di non dimostrare alcuna ansietà, né alcuna apprensione e avesse già tre volte detto:
«Non preoccupatevi per me, signor Morgan. Questo naufragio non m'impressiona.»
La nave, urtata da tutte le parti, scrollata furiosamente, si dibatteva fra un mare di spuma, non obbedendo quasi più all'azione del timone, né alla spinta delle vele che il vento gonfiava.
S'avanzava, poi indietreggiava, rovesciandosi violentemente ora su un fianco e ora sull'altro, inalberandosi bruscamente, quasi verticalmente, per ricadere subito dopo.
Sotto quelle scosse l'acqua che la riempiva si precipitava come un torrente attraverso il frapponte, alle corsìe della batteria e alla stiva e sfondava con muggiti orribili le porte delle cabine, tutto travolgendo nella sua corsa.
Già la costa non era che a qualche centinaio di metri, quando a prora si udì Pierre le Picard urlare:
«Frangenti dinanzi a noi!... Poggia tutto, Morgan!...»
Il filibustiere che non aveva lasciata la ribolla, orzò alla banda con tutte le forze, sperando di gettare la nave fuori dalla rotta, quando un'onda spaventevole si rovesciò sulla poppa attraversandola da parte a parte.
Morgan s'era precipitato verso Jolanda, afferrandola stretta fra le braccia, mentre Carmaux veniva spinto sopra la murata.
«Aggrappatevi a me, signora!» aveva gridato.
Aveva appena pronunciate quelle parole che si sentì sollevare dall'enorme cavallone assieme alla fanciulla e portare via.
Sprofondò in un avvallamento, senza abbandonare la signora di Ventimiglia, fu coperto da un'onda, poi rimontò alla superficie.
Quando poté aprire gli occhi, scorse la nave ad una gomena di distanza, che veniva ributtata al largo da una contro-ondata.
«Tenetevi stretta a me, signora» disse. «La costa non è che a pochi passi e la nave fra poco naufragherà!»
Jolanda gli si era invece abbandonata fra le braccia, come se fosse svenuta.
«A me!... A me!...» gridò Morgan, spaventato.
Una voce che non era lontana, aveva risposto a quella chiamata disperata:
«Vengo, capitano!...»
Una testa umana era apparsa fra un fiotto di spuma, librandosi sulla cresta di un'onda, poi subito scomparve.
Morgan, vedendo che la fanciulla era inerte, cercava di tenerle la bocca fuori dall'acqua onde sottrarla all'asfissia e si era messo a nuotare disperatamente.
Uomo gagliardo e abituato a sfidare i flutti, quantunque la signora di Ventimiglia lo imbarazzasse non poco, non temeva di annegare. Altre volte si era sottratto alla morte, gettandosi audacemente fra le onde prima che la nave affondasse.
Ciò che invece lo preoccupava era, oltre alla violenza dei cavalloni, la vicinanza della costa. Se questa rappresentava la salvezza, poteva anche offrire dei gravi pericoli, con quella risacca furiosa che tutto sconvolgeva.
Ripeté la chiamata e udì la medesima voce di prima a rispondere:
«Un momento, signor Morgan, auff!... Vengo!...»
Un grido di gioia era sfuggito al filibustiere:
«Carmaux!...»
«Sì, sono io, signor Morgan.»
«Affrettati.»
«Maledette onde!...»
«La signora di Ventimiglia è svenuta!...»
Il bravo marinaio con un'ultima bracciata era giunto dietro a Morgan.
«Qui... appoggiatevi, capitano... ho strappato un salvagente nel momento in cui l'onda mi spazzava via...
«Tuoni d'Amburgo, come dice l'amico Wan... la signora qui...»
Morgan, vedendo presso di sé il marinaio che s'appoggiava all'anello di sughero, si era voltato, allungando la mano che aveva libera, mentre colla sinistra alzava la fanciulla che non era ancora tornata in sé.
«Grazie, Carmaux» disse, mentre un'altra onda li portava via spingendoli maggiormente verso la spiaggia.
«Avete urtato, capitano?» chiese il marinaio.
«Io no.»
«La signora è svenuta?»
«Forse l'onda l'avrà sbattuta sul capo di banda. Aiutami, Carmaux, e facciamole scudo, quando verremo scaraventati contro la spiaggia.»
«Riceverò io il primo urto, capitano» rispose Carmaux, passando un braccio attorno alla vita di Jolanda.
«E la nave, dov'è andata che non si scorge più?»
«L'ho veduta respinta al largo... Badiamo!... Ho toccato... siamo addosso alla riva.»
«Non lasciate la signora... Carmaux!»
«No... signor Morgan...»
Le onde li travolgevano, sbattendoli in tutti i versi. Il frastuono prodotto dalla risacca era diventato tale che non potevano più udirsi. Morgan faceva sforzi sovrumani per tenere la testa della fanciulla fuori dall'acqua, però, di quando in quando, una massa di spuma li copriva tutti e tre obbligandoli a bere.
Già due volte avevano toccato, quando un cavallone che si avanzava muggendo, li sollevò a prodigiosa altezza, spingendoli innanzi con rapidità straordinaria.
«Non lasciare!...» ebbe appena il tempo di gridare Morgan.
Sentirono le loro gambe impigliarsi in qualche cosa e come imprigionarli. La cresta del cavallone passò sopra le loro teste frangendosi contro i tronchi d'alcuni alberi, che apparivano confusamente fra le tenebre, poi la massa liquida si ritrasse verso il mare, cercando di trascinare seco i tre naufraghi, ma gli ostacoli che li avevano imprigionati non avevano ceduto.
«Siamo a terra!...» aveva urlato Carmaux con voce tuonante. «Siamo salvi!...»
Il cavallone li aveva trascinati in mezzo ad un caos di paletuvieri ed i rami contorti di quelle piante li avevano non solo trattenuti, ma avevano anche smorzata la violenza dell'urto.
«Fuggiamo, prima che l'onda ritorni» aveva gridato Morgan.
Lasciò andare il salvagente, che ormai non gli era più d'alcuna utilità, con un braccio si strinse al petto la fanciulla, e passando di ramo in ramo, raggiunse il margine della boscaglia.
Fortunatamente, il secondo cavallone non fu così enorme come l'altro e si era sfasciato contro le prime file delle rizofore.
«Ecco un approdo veramente fortunato» disse Carmaux, che era stato lesto a seguire Morgan. «Cerchiamo di far tornare in sé la signora di Ventimiglia.»
«Speriamo che non abbia riportata alcuna ferita» ripose Morgan, la cui voce era un po' alterata. «Ci vorrebbe del fuoco, innanzi tutto.»
«Ho l'acciarino e l'esca chiusi in una scatola di metallo impenetrabile all'umidità! Vediamo se tutto è asciutto.»
«Sbrigati, Carmaux. Sono inquieto.»
«Batte il suo cuore?»
«Sì.»
«Non sarà nulla, signor Morgan. l'esca è ben secca e non è entrata una sola goccia d'acqua nella scatoletta.»
«Raccogli dei rami secchi mentre io preparo un giaciglio.»
Morgan depose dolcemente la fanciulla, poi, avendo ancora al fianco la spada, tagliò otto o dieci foglie di banano e ne formò uno strato, che rese più soffice con dei muschi strappati dal tronco d'un albero enorme.
Carmaux intanto aveva raccolto a tentoni delle foglie secche e dei rami ed aveva improvvisato un piccolo falò, accendendolo senza troppa fatica.
Appena la fiamma s'alzò, rompendo le tenebre, fu vista la fanciulla alzare un braccio, come se cercasse di allontanare qualche cosa.
Morgan aveva mandato un grido di gioia:
«Ritorna in sé!... Signora Jolanda!... Signora di Ventimiglia!...»
La fanciulla aveva ancora gli occhi chiusi ed il suo bel viso era pallidissimo, però la respirazione da qualche istante era diventata più libera.
«Signora... signora... siete salva» ripeteva Morgan, che le stava curvo sopra, spiando ansiosamente ogni suo minimo movimento. «Siamo sulla costa!...»
A un tratto la fanciulla si scosse ed i suoi begli occhi si aprirono, fissandosi su Morgan.
«Voi... signore...» mormorò.
«Sì, sono io, Morgan...»
Un sorriso sfiorò le labbra della figlia del Corsaro Nero e la sua destra strinse quella del filibustiere.
«L'onda... me la ricordo... ma sono ancor viva?...»
«Siete ferita, signora?»
«No... ho urtato... è vero... quando l'onda mi trascinava via... e la nave? e gli altri?...»
«Non pensate al veliero» disse Morgan. «Suppongo che si sia arenato in qualche luogo.»
«Ah!...» esclamò la fanciulla, vedendo presso di sé il francese. «Siete voi, Carmaux?»
«Dove si trova la figlia del mio capitano, mi trovo sempre anch'io» rispose il marinaio, sorridendo.
«Ma dunque tu non sei stato trascinato dall'onda?» disse Morgan.
«Mi ero già aggrappato alle griselle di babordo dell'albero maestro, quando vidi voi fuori dal bordo colla signora di Ventimiglia ed allora mi sono lasciato andare anch'io, pensando di potervi essere utile, tanto più che avevo potuto staccare un salvagente.»
«Grazie, vecchio mio» disse Morgan con voce commossa. «Tu sei un marinaio impareggiabile.»
«Sono un marinaio del Corsaro Nero» rispose modestamente Carmaux.
Capitolo diciannovesimo
I naufraghi
Per il resto della notte, i due filibustieri e la signora di Ventimiglia, che si era prontamente rimessa, non avendo riportata alcuna ferita, lo passarono accanto al fuoco per asciugarsi le vesti, non osando allontanarsi dalla costa.
D'altronde, prima di prendere una qualche decisione, volevano sapere che cosa era avvenuto del veliero, che era scomparso fra le tenebre e non si era più vista. Non credevano che fosse andato a picco, quantunque ormai quasi pieno d'acqua; era più probabile che si fosse arenato in qualche altro punto della costa o sui bassifondi che Pierre le Picard aveva segnalati, pochi minuti prima che quel terribile colpo di mare si rovesciasse sulla poppa.
Se il veliero si fosse spaccato a breve distanza, certo le grida dei naufraghi sarebbero giunte agli orecchi di Morgan e del suo compagno, malgrado l'incessante frastuono delle onde.
Un ardente desiderio di conoscere la sorte toccata alla disgraziata nave aveva tormentato incessantemente Morgan ed il francese, sicché, appena i primi albori ebbero fugate le tenebre, furono lesti a dirigersi verso i paletuvieri, colla speranza di scoprirla.
Fu un crudele disinganno: la nave era scomparsa!...
«Che sia andata a picco?» chiese Carmaux, che pensava al suo amico Wan. «Che cosa ne dite, signor Morgan?»
«Se fosse naufragata si vedrebbero dei rottami» rispose il filibustiere, che osservava attentamente le onde che si accavallavano ancora violentemente, rovesciandosi verso la spiaggia. «Vedi tu delle casse, dei barili, dei pennoni o dei pezzi di murata?»
«No, signore.»
«E nemmeno io» disse Jolanda che li aveva raggiunti. «Vedo laggiù una punta che si protende verso il nord-est» disse Morgan. «Può darsi che le onde l'abbiano spinta dietro quel capo.»
«Mi rincrescerebbe che il mio amico Wan Stiller si fosse sommerso senza di me.»
«Appena potremo, ci spingeremo verso quella punta» disse Morgan.
«Capitano» disse Jolanda, «sapete dove siamo naufragati?»
«Sulla costa venezuelana, signora, ma dove precisamente, non ve lo saprei dire.»
«Hanno delle città qui gli spagnoli?»
«Sì, e non poche, quantunque assai lontane le une dalle altre. Preferisco però evitarle con somma cura.»
«Come farete allora a tornare alla Tortue?»
«Non lo so, signora; per ora non pensiamo a ciò. In qualche modo ce la caveremo, è vero Carmaux?»
«Un filibustiere trova sempre il modo di tornarsene a casa.»
«Potresti intanto offrirci qualche cosa, vecchio mio. Le foreste del Venezuela non mancano di risorse.»
«Non ho che il mio coltello di manovra, signor Morgan.»
«Ed io la spada e la mia pistola che non prenderà certamente fuoco. Magro armamento, se troveremo gli indiani.»
«Ve ne sono qui?» chiese Jolanda.
«I Caraibi sono numerosi su queste coste e vi sono anche delle tribù che hanno ancora l'usanza di divorare i prigionieri di guerra. Dovremo guardarci da loro.
Convinti di poter ben presto ritrovare i loro camerati, lasciarono la spiaggia e si avviarono verso il margine della foresta, che formava come una immensa muraglia di verzura e che, a prima vista, sembrava impenetrabile.
Quelle terre bagnate dalle acque del golfo del Messico, irrigate da fiumi giganti e benedette dal sole, sono di una fertilità prodigiosa e lo sviluppo che viprendono le piante è straordinario.
Basta che una piantagione venga trascurata per poche settimane, perché sia subito invasa da un caos di piante che crescono quasi a vista d'occhio. Dopo un anno, una vera boscaglia copre ogni cosa e fa sparire ogni traccia di coltivazione.
La foresta che copriva tutta la costa, e che, molto probabilmente, si estendeva per un tratto immenso anche nell'interno, esistendo in quell'epoca un gran numero di foreste vergini nell'America Meridionale, pareva che fosse costituita, almeno sul margine, da due sole qualità di piante: da palmizi e da bombax.
Infatti, fin dove si estendeva lo sguardo, non si scorgevano che le foglie verdi cupe dei primi, disposte come immensi ciuffi all'estremità di fusto non molto alti né molto grossi e assai diritti, e quelle più chiare e meno lunghe dei secondi, che avevano tronchi più grossi e biancastri ed i rami coperti di frutta irte di spine, che sono poi così dure da potersi adoperare come chiodi.
Sotto quelle vôlte di verzura, strette le une alle altre, ritte o aggrovigliate come serpenti, o giacenti al suolo, si scorgevano ammassi di piante parassite, di liane, di racchette che danno una specie di fichi di Barberia e di gambi sarmentosi di niku, dalla scorza bruna e lucente.
Fra i rami strillavano a piena gola dei macachi, scimmie voracissime e ghiottissime, e svolazzavano dei tucani dal becco enorme e dei cassichi che facevano dondolare i loro nidi in forma di borse.
In lontananza un onorato, appollaiato sulla cima del più alto palmizio, lanciava con una monotonìa noiosa le sue note musicali: do... mi... sol... do...
«La colazione non mancherà» disse Carmaux, dopo d'aver dato uno sguardo alle piante.
«Forse quelle frutta spinose?» chiese Jolanda.
«Buone appena per le scimmie quelle, signora.» rispose Morgan. «I formaggeri non sono d'alcuna utilità per gli uomini e sopratutto per gli affamati.»
Quelle piante dalla scorza biancastra si chiamano anche così e non già perché producano del formaggio, ma per il loro legno che è bianco e poroso»
«E gli altri?» chiese Jolanda.
«Sono cavoli palmisti, è vero, Carmaux?»
«Sì, signore, ed è un vero peccato non avere qualche animale da mettere allo spiedo, avendo il pane ormai assicurato.»
Anche l'arrosto stava per offrirsi da sé.»
Un grido strano, che pareva emesso da una trombetta, era echeggiato a breve distanza.
«Che cos'è?» chiese Jolanda, stupita.
«Un segnale degl'indiani?» chiese Morgan, sfoderando rapidamente la spada.
«È arrosto che si annuncia» disse Carmaux ridendo. «Buon uccello l'agami. Rincresce ucciderlo, ma il ventre non ragiona. Signor Morgan, datemi la vostra spada.»
Un bel volatile, grosso come un gallo, colle gambe lunghissime, colle penne nere sul collo e sulle ali, a riflessi azzurro dorati sotto il ventre e rossastri sul dorso, era balzato fuori da un cespuglio, salutando i naufraghi con un allegro strombetto.
Quel grazioso uccello non dimostrava alcun timore per la vicinanza di quelle tre persone, anzi le guardava a testa alta, starnazzando le ali e continuando la sua rumorosa fanfara.
«Non scappa no quel bravo uccello» disse Carmaux, vedendo che Morgan cercava qualche pezzo di ramo per lanciarglielo addosso, colla speranza di abbatterlo.
«Lasciate fare a me, capitano.»
Vedendo a qualche passo un calupo diavolo, pianta che produce dei semi che si ritengono ottimi contro i morsi dei serpenti, specialmente se messi in infusione coll'acquavite, sgusciò alcuni di quei granelli e li gettò al volatile, il quale si mise a beccarli tranquillamente.
«Vedete come si familiarizza subito colle persone» disse Carmaux. «Mi rincresce, lo ripeto, ma non abbiamo di meglio.»
Mentre con una mano continuava a gettare semi, coll'altra aveva impugnata la spada datagli da Morgan e, lentamente, s'accostava al povero uccello, il quale non si accorgeva del pericolo.
A un tratto la lama scintillò in aria e l'agami, decapitato di colpo, stramazzò fra le foglie secche, sbattendo le ali.
«Ah! Poveretto!» esclamò Jolanda. «Tradire così la sua fiducia.»
«Combattiamo la lotta per l'esistenza, signora» rispose Morgan. «Occupati del pane ora, vecchio mio, mentre io preparo l'arrosto.»
Aiutato dalla fanciulla fece raccolta di rami e riaccese il fuoco, poi si mise a spennacchiare il volatile, mentre Carmaux, aiutandosi colle liane, dava la scalata ad uno dei più grossi palmizi.
Pochi minuti dopo un rumore di fronde scosse e di rami schiantati annunciava a Morgan che anche il pane era assicurato.
Pane veramente non era, poiché i cavoli palmisti non hanno nulla a che fare cogli artocarpi che danno una pasta, che se non somiglia precisamente a quella che si ricava dalla farina, ne fa benissimo le veci, quantunque abbia un gusto che la fa piuttosto rassomigliare a quello di certe specie di zucche e del gambo dei carcioffi.
I palmisti producono invece una mandorla mostruosa, lunga talvolta quasi un metro e grossa anche come la gamba d'un uomo, bianca, liscia, di sapore eccellente e che per gl'indiani fa le veci della cassava, ossia delle gallette di manioca, quando questo tubero manca.
Carmaux, che era disceso, si era subito messo a scortecciare la mandorla, quando ai suoi orecchi giunse un rumore di foglie e di rami, come se qualcuno cercasse di aprirsi il passo fra le piante.
«Signor Morgan, all'erta!» gridò, balzando in piedi e porgendogli la spada. «Pare che qualcuno si avvicini.»
«Qualche animale?» chiese il filibustiere, gettandosi prontamente dinanzi a Jolanda.
«Non lo so, signore» rispose il marinaio, raccogliendo da terra un grosso ramo che poteva servirgli da randello. «Mi pareva che qualcuno corresse fra le piante.»
«Io non odo nulla; e voi, signora Jolanda?»
«Nemmeno» rispose la fanciulla.
In quel momento i rami d'un folto cespuglio s'erano aperti e due indiani erano comparsi improvvisamente, impugnando un lungo arco di due metri e delle freccie pure lunghissime, munite all'estremità d'una spina acutissima.
Erano quasi nudi, di statura piuttosto alta, colla pelle bruno-rossiccia, solcata da strane pitture fatte col succo di genipa, i capelli neri, grossolani e lunghissimi, e gli occhi assai foschi.
Attorno alle reni portavano un piccolo gonnellino di fibre vegetali ed al collo ed ai polsi collane e braccialetti di denti d'animali feroci e di artigli di giaguaro o di coguaro, con qualche scaglietta di tartaruga.
Vedendo i naufraghi, si erano arrestati guardandoli con una certa curiosità, senza però manifestare, almeno per il momento, alcuna intenzione ostile, poi uno dei due che portava infisso nei capelli il becco d'un tucano, fece qualche passo, dicendo in cattivo spagnolo:
«Che cosa fanno qui gli uomini bianchi?»
«Siamo naufragati la scorsa notte» rispose Morgan, che copriva sempre, col proprio corpo, Jolanda. «E voi chi siete?»
«Caraibi» disse l'indiano.
«Come mai conosci lo spagnolo, tu?»
L'indiano prese un atteggiamento fiero, poi con un gesto maestoso disse:
«Io sono Kumara, il più valente guerriero della tribù, che ha uccisi molti nemici e che ha veduto la grande città degli uomini venuti colle grandi piroghe dalla parte ove il sole si leva. Io conservo nella mia capanna la collana di metallo bianco che mi ha dato il capo dei volti bianchi. Kumara è un grande guerriero.»
L'indiano, terminata la sua presentazione, si era appoggiato all'arco, sporgendo il petto e alzando la testa più che poteva in una posa eroicomica, che fece sorridere i naufraghi.
«Signor Morgan,» disse Carmaux «aspetta la nostra risposta.»
«T'incarico di fare la mia presentazione» rispose il filibustiere.
«Sarà tremenda.»
Fece a sua volta due passi innanzi e alzando minacciosamente il randello come se volesse spaccare il groppone a qualcuno, gridò con voce tuonante, indicando Morgan:
«L'uomo che tu vedi è il capo d'una immensa tribù, che non è stata mai vinta nemmeno dagli spagnoli. Ha un numero infinito di grandi piroghe, di tubi che scatenano il fulmine e che uccidono a grandi distanze e può dominare, con un gesto, i venti e le tempeste. Il suo braccio è invincibile e la spada che stringe ha tagliate più teste di quanti sono gli alberi di questa foresta. Egli è il più grande guerriero dei paesi dove il sole si leva.»
«Non mancava altro che mi proclamasse un nume» disse Morgan, ridendo.
I due indiani avevano ascoltato in silenzio le spacconate di Carmaux, conservando una serietà assoluta.
«Le mie parole hanno fatto colpo» disse Carmaux. «Eccoci diventati invincibili.»
«Se vi avranno creduto» disse Jolanda.
«Oh! Bevono grosso quelle genti» rispose il marinaio. L'indiano che portava sui capelli il becco di tucano, scambiò col compagno alcune parole, poi s'avanzò verso i naufraghi, dicendo:
«Voi che siete uomini così potenti, permetteteci di metterci sotto la vostra protezione.»
«Vi minaccia qualcuno forse?» chiese Morgan.
«Sì, i guerrieri Oyaculè» rispose l'indiano che si chiamava Kumara, guardandosi paurosamente intorno.
«Chi sono costoro?»
«Degl'indiani assai cattivi, che ammazzano i prigionieri di guerra e che ci hanno sorpresi stamane presso le rive d'una savana, mentre attendevamo a cacciare un maipuri (tapiro).»
«Sono uomini che hanno la pelle quasi bianca come la vostra, il naso ricurvo una barb lunga» rispose Kumara. «Abitano le grandi foreste dell'interno e di quando in quando fanno delle scorrerie fino sulle rive del mare, per saccheggiare e devastare i nostri villaggi.»
«Erano molti quelli che ti hanno assalito?» chiese Morgan.
«No, sette od otto» rispose l'indiano.
«Con archi e frecce?»
«E anche con delle pesanti vanaya.»
«Che cosa sono?»
«Delle mazze di legno del ferro, di forma quadrangolare, che essi adoperano con un'abilità veramente straordinaria.»
«Vi hanno inseguiti?»
«Sì.»
«Che siano vicini?»
«Non lo so» rispose l'indiano. «Da un'ora li abbiamo perduti di vista.»
«E non aver nemmeno un fucile» disse Morgan, gettando uno sguardo inquieto su Jolanda, la quale, quantunque avesse tutto compreso, conoscendo benissimo lo spagnolo, conservava la sua solita calma.
«Avete la pistola, signor Morgan?» disse Carmaux.
«Con due soli colpi e la polvere bagnata.»
«L'asciugheremo e serberemo quei due colpi per le grandi circostanze.»
«Facciamo colazione in fretta, poi sgombriamo» disse il filibustiere. «Se troviamo i nostri compagni, non avremo più nulla da temere da quei selvaggi. Sedetevi signora di Ventimiglia, e non preoccupatevi per ora.»
«Presso di voi mi sento sicura» rispose la fanciulla.
Essendo il volatile cotto, lo divisero, dandone un pezzo ai due indiani e tagliarono la colossale mandorla che fu assai gustata da tutti.
Mentre mangiavano, Kumara narrò loro che egli ed il compagno appartenevano ad una grossa tribù di Caraibi, che avevano il loro villaggio sulle rive d'un profondo golfo, non molto lontano da quel luogo e che egli era uno dei capi più rispettati e più stimati.
Terminarono la colazione senza essere stati disturbati.
Probabilmente gli antropofagi avevano smarrite le traccie dei due indiani, o disperando di poterli raggiungere, si erano ritirati nelle loro impenetrabili foreste.
«Sloggiamo» disse Morgan, aiutando Jolanda ad alzarsi. «Andremo a vedere quella punta, giacché io suppongo che la nave molto facilmente si sia sfasciata al di là.»
«E se fosse andata a picco con tutti quelli che la montavano?» chiese la fanciulla.
«Sarebbe una grave disgrazia» rispose Morgan. «Come ritornereste alla Tortue?»
«Non ci rimarrebbe che tentare la traversata del golfo su una piroga indiana, un'impresa pericolosa è vero, signora, ma io sono ben deciso a non finire qui i miei giorni» rispose il filibustiere con accento risoluto.
«Non si spingono fino su queste spiagge i corsari della Tortue?»
Preceduti dai due indiani, che si sentivano più sicuri presso gli uomini bianchi e che non osavano rientrare nella foresta per paura d'incontrare gli Oyaculè, che ispiravano loro un terrore invincibile, si misero in marcia seguendo il margine della foresta.
Essendo il vento di tramontana cessato, le onde a poco a poco si erano calmate, invece la risacca si faceva sentire sempre violentissima su quelle spiaggie, a causa dei numerosi bassifondi e scoglietti che la proteggevano.
Nessun rottame appariva fra i cavalloni che indicasse essere colà naufragata una nave; piuttosto il veliero doveva essere stato respinto al largo e trascinato al di là del capo dove probabilmente si era sfasciato.
Gli alberi della foresta a poco a poco variavano. Di quando in quando fra i palmizi apparivano enormi gruppi di banani dalle foglie immense, dei simaruba che hanno proprietà toniche, sia nella scorza che nelle radici e sotto cui si nascondono, se si deve credere agl'indiani, le testuggini terrestri; e di bambù colossali, così grossi che gl'indigeni se ne servono per costruire delle belle canoe così resistenti da sfidare le scuri meglio affilate.
Bande di tucani dalle penne multicolori e dal becco enorme, d'una bella tinta gialla, svolazzavano assieme a numerosi pappagalli, mentre fra i cespugli fuggivano delle lucertole mostruose dai fianchi di smeraldo, orribili a vedersi e che nondimeno sono pregiatissime per la loro polpa bianca che somiglia anche, per sapore, a quella delicata dei polli.
I due indiani, quantunque abituati ad attraversare i boschi, procedevano con precauzione, guardando attentamente dove posavano il piede e frugando prima, colla punta dei loro archi, le foglie secche e le alte erbe, per non venire morsi dai serpenti che sono numerosissimi in quelle regioni o dalle grosse formiche che producono dei dolori atroci e anche la febbre, specialmente quelle chiamate fiamminghe, che sono le più tremende di tutte.
Già avevano veduto più d'un rettile fuggire fra le foglie e uno, tutto nero, si era rizzato dinanzi a loro mandando un sibilo acutissimo e tentando di morderli. Era stato un ay-ay, uno dei più pericolosi, essendo il loro veleno così potente da causare la morte in pochi istanti.
Un'ora dopo il drappello, superato un bosco di enormi passiflore, che copriva quella penisoletta che si protendeva verso il mare per alcune centinaia di metri, giungeva sulla spiaggia opposta.
Un grido era subito sfuggito a Morgan:
«Dei rottami!... La nave si è sfasciata!...»
Capitolo ventesimo
L'assalto degli Oyaculè
I naufraghi erano giunti sulle rive d'un vasto golfo che s'addentrava assai nella costa coperta da foreste.
Fra i cavalloni che si frangevano contro le scogliere, avevano scorto un gran numero di rottami.
In mezzo alla spuma ondeggiavano antenne, pezzi di fasciame e di ponte, casse e barili che si urtavano rumorosamente fra di loro.
Alcune enormi travi, strappate forse alle ruote di prora e di poppa dello scafo, si erano arenate fra i paletuvieri, e al rifluire della marea erano rimaste in secco fra i loro rami contorti.
Se i rottami erano abbondanti, mancavano assolutamente gli uomini. La spiaggia, fin dove giungevano gli sguardi, era deserta e anche in acqua non si scorgeva alcun cadavere, cosa inesplicabile, considerato il gran numero di persone che si trovavano a bordo del veliero nel momento in cui le onde ed il vento lo spingevano verso i bassifondi.
«Possibile che si siano tutti annegati!...» esclamò Morgan, con voce alterata. «C'erano fra i nostri uomini dei valenti nuotatori, che non avevano paura dei cavalloni. Che cosa ne dici, Carmaux?»
«Apparterranno alla nostra nave questi rottami?» chiese invece il marinaio.
«Che cosa volete dire, Carmaux?» domandò Jolanda.
«Che potrebbero appartenere anche alla fregata che noi abbandonammo dopo l'abbordaggio.»
«E la nostra nave?» chiese Morgan. «Dove vuoi che sia finita? Andiamo a vedere quelle travi» disse Morgan, che era diventato pensieroso.
Aprendosi il passo fra i paletuvieri, giunsero ben presto là dove le onde avevano spinto quegli avanzi, e trovarono fra le sabbie parecchi altri rottami, fra cui un affusto di cannone, mancante del pezzo.
Morgan vi si era precipitato sopra, non ignorando che le bocche da fuoco ordinariamente portavano dipinto il nome della nave a cui appartenevano.
«Hai ragione, Carmaux!» gridò. «Questi avanzi appartengono alla fregata. Ecco qui sull'affusto il suo nome.»
«Ma dunque che cosa è accaduto del veliero?» chiese Jolanda.
«Io non oso rispondervi, signora» disse Morgan, la cui fronte si era oscurata. «Temo che sia successa una catastrofe»
«Allora voi credete che la nostra nave si sia inabissata?» chiese Jolanda con voce commossa.
«I miei uomini devono riposare tutti in fondo al mare; ecco la mia opinione, signora. La nave deve essere stata respinta al largo, forse a molta distanza dalla costa, e poi inghiottita.»
«Ah!... Mio povero Wan!» gemette Carmaux. «Andarsene senza di me!...»
«Noi non abbiamo ancora alcuna prova che quella nave si sia sommersa» disse Jolanda.
«Era piena d'acqua, signora, ed a meno d'un miracolo, non può essere sfuggita alla sorte che lo attendeva. Credo che a noi non rimanga che di occuparci dei casi nostri.»
«Che cosa intendete di fare, signor Morgan?»
«Giacché la fortuna ci ha mandati questi due indiani, seguiamoli alla loro tribù» rispose il filibustiere. «Là almeno troveremo per il momento un rifugio e una protezione. Non dimentichiamo che in queste foreste si aggirano gli Oyaculè.»
«Come ci accoglieranno quegl'indiani?»
«I Caraibi non sono cattivi, quando non si provocano» rispose Carmaux. «Io li conosco per averli frequentati con vostro padre.»
Morgan interpellò Kumara.
«Domani sera potremo giungere al villaggio, se gli Oyaculè non ci arresteranno» rispose l'indiano. «Abbiamo lasciata la nostra piroga su un fiume che sbocca in una savana, nascosta fra le larghe foglie dei mucumucù e può darsi che i nostri nemici non l'abbiano scoperta.»
«È lontana quella savana?»
«Tre ore di marcia.»
«Purché quei maledetti Oyaculè non ci aspettino colà» disse Carmaux. «Amo poco aver da fare con quei selvaggi, specialmente quando non ho fra le mani il mio archibugio.»
«Potremmo venire egualmente sorpresi, anche rimanendo qui» rispose Morgan. «D'altronde, non sono che otto e la polvere della mia pistola si è bene asciugata con questo calore ardente. Tengo dunque la vita di due uomini e poi ho la spada. Vuoi guidarci?» chiese poi all'indiano che aveva il becco del tucano.
«Cogli uomini bianchi io non ho paura» rispose Kumara. «Sono dei forti guerrieri.»
Si misero in cammino, preceduti dai due indiani, che si tenevano l'uno dietro l'altro, coll'arco in mano e le freccie pronte ad essere scagliate.
I tre naufraghi erano tristi e molto preoccupati, specialmente Morgan, il quale oltre ad aver perduti tutti i suoi fedeli compagni ed il frutto dell'audacissima spedizione, si trovava senza nave e senza aiuti e con molte probabilità di cadere nelle mani dei selvaggi o degli spagnoli, assieme alla fanciulla che aveva giurato di salvare.
Anche Carmaux aveva perduta la sua consueta allegria, pensando alla miseranda fine del suo inseparabile compagno, il povero amburghese.
Man mano che s'inoltravano nella grande foresta, la marcia diventava sempre più penosa.
Si trovavano come impacchettati fra una vegetazione troppo esuberante, che aveva invasi i più piccoli lembi di terra. A destra, a sinistra, dinanzi e dietro, s'intrecciavano confusamente passiflore, liane, sarmenti di pimento, noci moscate selvatiche, alberi del pepe, cedri del Venezuela, alberi del cotone carichi di fiori gialli e porporini, gruppi di euforbie, cactiformi irti di spine e di baspa butirracee, così chiamate perché si estrae da quelle piante una specie di burro assai apprezzato dagl'indiani.
Fra quel caos di rami e di foglie non si vedeva alcun volatile, nondimeno di quando in quando il silenzio che regnava nella foresta veniva improvvisamente rotto da urla assordanti e da muggiti formidabili che facevano arrestare di colpo i tre naufraghi, credendo che fossero i temuti antropofagi che si preparassero ad assalirli.
Erano invece alcune truppe di scimmie rosse che si divertivano a dare una prova della solidità dei loro polmoni o meglio del loro gozzo. Quei quadrumani sono straordinariamente abbondanti nelle foreste del Venezuela e delle vicine Guiane, e per potenza di voce possono gareggiare coi barbado brasiliani.
Si raccolgono fra i rami d'un grosso albero e là gonfiano i loro gozzi, che sono grossi come un uovo di tacchino, mandando degli hon-hon e dei muggiti così formidabili da udirsi facilmente alla incredibile distanza di cinque chilometri.
Se quelle scimmie erano inoffensive, altri pericoli minacciavano il drappello, il quale era costretto ad avanzarsi colla massima prudenza.
Di quando in quando fra le foglie secche, che formavano degli strati altissimi, si vedevano uscire certi formiconi lunghi un centimetro e mezzo, neri, lucenti, coll'addome gonfio, che subito si rizzavano per mordere i piedi nudi dei due indiani e che non davano indietro.
Morgan, che aveva già percorso altre volte le foreste dell'America Meridionale, specialmente quelle delle Guiane e della Colombia, e che sapeva quanti pericoli nascondono, vegliava attentamente su Jolanda, badando dove posava i piedi e frugando le erbe e le foglie colla punta della spada, per paura che nascondessero qualche formidabile trigonocefalo o qualche serpente corallo, dal morso senza rimedio, od un serpente liana, tutti rettili che abbondano straordinariamente in quelle regioni e che sono assai aggressivi.
E non guardava solamente verso terra. Seguendo l'esempio dei due indiani, scrutava anche il fitto fogliame delle piante, potendo piombare improvvisamente sulla fanciulla qualcuno di quegli enormi rettili chiamati pitoni, che posseggono una forza da stritolare senza difficoltà l'uomo più robusto o qualche coguaro, amando questi sanguinari animali tenersi nascosti fra i rami per meglio sorprendere la preda.
Camminavano da un paio d'ore, sempre inoltrandosi con grandi difficoltà, nella foresta, quando un grido acuto ruppe improvvisamente il silenzio che regnava in quel momento sotto le vôlte di verzura, arrestando di colpo i due indiani.
«Che cosa c'è?» chiese Morgan, mettendosi prontamente dinanzi alla fanciulla ed impugnando la pistola, mentre Carmaux le si poneva dietro, facendo un rapido dietro fronte.
«Avete udito?» chiese Kumara.
«Il grido di qualche animale pericoloso?»
«No, d'una bernaca.»
«Ne so meno di prima.»
«Di un'oca selvatica» disse l'indiano.
«E ti spaventi d'un simile volatile?»
«Dove si trova una capanna vi si trovano sempre di quelle oche, ma non è ciò che mi preoccupa.»
«Quale altro motivo dunque?»
«Quel grido non mi parve naturale e anche Jay, il mio compagno, è del medesimo avviso.»
«Che sia stato qualche segnale?»
«È quello che noi sospettiamo, signor uomo bianco» disse il caraibo.
«Fatto da qualche Oyaculè?» chiese Carmaux.
«Non vi sono tribù amiche qui.»
«Puoi esserti ingannato» disse Morgan.
Kumara scosse il capo, poi disse:
«Un caraibo non s'inganna mai.»
«È lontana la savana?»
«Deve essere anzi vicinissima.»
«Se vogliono assalirci ci piomberanno egualmente addosso, sia qui che più innanzi» disse Morgan a Jolanda. «Tenetevi presso di me, signora, e prendete la mia pistola, a me la spada basta.»
I due indiani si consultarono a bassa voce, provarono l'elasticità dei loro archi, dando ad ognuno un giro di corda onde avessero una portata maggiore, poi partirono in silenzio, guardando l'uno a destra e l'altro a sinistra.
La foresta cominciava allora a diradarsi un po' ed a diventare umidissima. In mezzo alle piante si udivano scrosciare dei torrentelli che pareva scorressero tutti verso un'unica direzione.
I due indiani ascoltavano sempre e alzavano di frequente gli occhi, come se cercassero la bernaca che aveva mandato quel grido; invece nessuna oca selvatica appariva.
Avevano percorsi due o trecento passi, scivolando silenziosamente fra le passiflore che ingombravano il suolo, quando tornarono a fermarsi, dicendo:
«Sentiamo il fiume che si versa nella savana.»
Infatti un po' più innanzi, dell'acqua scrosciava. Pareva che un torrente rapidissimo si aprisse il passo fra le piante.
«Dov'è il tuo canotto?» chiese Morgan.
«Sul fiume» rispose Kumara.
«M'avevi detto nella savana.»
«L'acqua morta non è lontana.»
Stavano per riprendere le mosse, quando udirono ripetersi, e molto vicino, il grido della bernaca.
I due indiani si erano voltati rapidamente, tendendo gli archi.
«Ancora il segnale?» chiese Morgan.
«Sì» rispose Kumara. «Il grido dell'oca selvatica è stato molto bene imitato, ma non c'inganna.»
«Affrettiamoci a raggiungere il fiume» disse Morgan. «Se possiamo trovare la vostra piroga siamo salvi.»
«Deve trovarsi presso quell'albero» disse Kumara, indicando un bacaba, una specie di palma vinifera dai cui rami pendevano dei fiori chermisini disposti a festoni.
«Andate a vedere, uomo bianco, mentre noi sorvegliamo la foresta col vostro compagno.»
«Sì, andate, capitano» disse Carmaux. «Mettete prima in salvo la signora di Ventimiglia. «Affrettatevi, odo le fronde ad agitarsi.»
Morgan si spinse rapidamente innanzi, seguíto da Jolanda e giunse sulla riva d'un corso d'acqua assai rapido, non più largo d'una mezza dozzina di metri, che scorreva fra due vere muraglie di verzura.
Gli alberi erano così immensi che congiungevano i loro rami e le loro foglie attraverso il fiumicello, formando una vôlta quasi impenetrabile ai raggi del sole.
Morgan si curvò sulla riva e scorse, semi-nascosto fra le larghe foglie dei mucumucu, uno di quei canotti scavati nel tronco d'un bambù gigante, chiamati montarias, armato di quattro pagaje dalla pala assai larga ed il manico molto corto.
«Eccola la piroga!» gridò. «Presto, signora, imbarcatevi.»
Aiutò la fanciulla a scendere la riva che era molto ripida e coperta di arbusti spinosi e la fece imbarcare nel canotto.
Stava per risalire onde chiamare i compagni, quando delle urla spaventevoli scoppiarono nella foresta.
«Signor Morgan» udì a gridare Carmaux. «Salvate la signora!... Fuggite!...»
Invece di obbedire, il filibustiere si spinse fino sulla cima della sponda e vide Carmaux ed i due indiani fuggire a precipizio verso il folto della foresta, inseguiti da sette od otto uomini semi-nudi, di statura altissima, col viso adorno di lunghe barbe e che lanciavano delle freccie con rapidità prodigiosa.
«Gli Oyaculè!...» esclamò. «Qui, Carmaux, qui!... Il canotto!... Il canotto!...»
Era troppo tardi, poiché gli antropofagi, forse senza volerlo, si erano gettati fra i fuggiaschi ed il fiume, impedendo così loro di salvarsi nella piroga.
Udendo le grida di Morgan, tre uomini si staccarono dal gruppo e gli lanciarono contro alcune freccie, senza riuscire a colpirlo.
Il filibustiere, comprendendo che ormai non poteva più contare sui suoi compagni, con due salti raggiunse il fiume e si gettò nel canotto, gridando alla fanciulla che aveva armata risolutamente la pistola:
«Gettatevi nel fondo della piroga, signora!... Vengono!...»
Poi, mentre Jolanda obbediva, prese due pagaie e, strappata la corda, si spinse al largo remando affannosamente.
Si era allontanato di una decina di metri, quando i tre selvaggi che gli si erano volti contro, comparvero sulla riva.
Tre freccie sibilarono, seguìte da un grido di dolore. Due si erano piantate sul bordo, la terza invece, meglio diretta, si era conficcata profondamente nel petto del filibustiere, quasi all'altezza della spalla destra.
Jolanda, che lo aveva veduto strapparsi furiosamente il sottile cannello di bambù e che aveva udito il suo grido di dolore, si era alzata di colpo e scorgendo i tre selvaggi che stavano per tendere nuovamente gli archi, scaricò sul più vicino un colpo di pistola.
L'antropofago, colpito alla testa, rotolò giù per la riva sbattendo pazzamente le braccia e piombò in acqua, affondando subito.
Gli altri due, spaventati dallo sparo, forse il primo che udivano, e dalla morte fulminea del loro compagno, risalirono precipitosamente la riva scomparendo fra le piante.
La fanciulla, che era diventata pallidissima, s'accostò a Morgan il quale, non ostante il dolore intenso che doveva produrgli la ferita, continuava ad arrancare con suprema energia.
«Non sarà cosa grave, signora» disse il filibustiere cercando di sorridere. «La punta è rimasta nella carne, e più tardi la estrarremo.»
«Mio Dio, e se la punta fosse avvelenata!...»
«Non conoscono i veleni questi selvaggi, rassicuratevi, signora Jolanda. Prendete le pagaie e aiutatemi meglio che potrete. È necessario allontanarci prima che quei furfanti ricompariscano. Oh!... Voi tirate meravigliosamente!... Grazie!...»
«Vedo il sangue trapelare attraverso la vostra giubba. Permettete che vi fasci la ferita.»
«Più tardi... lasciate che coli... presto, signora... possono giungere a crivellarci di freccie.»
La fanciulla, comprendendo che non sarebbe riuscita ad indurre il fiero corsaro a lasciarsi fasciar la ferita e, temendo che gli antropofagi ricomparissero e tornassero per dargli il colpo di grazia, prese le altre due pagaie e si mise a remare per aiutarlo.
Era profondamente commossa e voltava ad ogni istante il capo verso il filibustiere, chiedendogli con premura:
«Volete riposarvi, signor Morgan? Lasciate a me la cura di condurre il canotto. So guidare una scialuppa.»
«No, signora, più presto, più presto» rispondeva Morgan.
Il fiume fortunatamente aveva una corrente rapidissima ed i fuggiaschi si allontanavano veloci. Era, più che un fiume, una specie di torrente, dalle acque pesanti e quasi nerastre, sature di miasmi prodotti dal corrompersi delle foglie che trasportava ed incassato fra i due margini della foresta fra i quali si era aperto violentemente il passo.
Sotto la vôlta di verzura che lo copriva intensamente, non soffiava il minimo alito d'aria e regnava una temperatura da stufa, che faceva sudare prodigiosamente i due remiganti.
Quella vôlta invece li preservava dai colpi di sole che sono così frequenti in quelle regioni quasi equatoriali, dal mezzodì alle quattro e quasi mai perdonano.
Morgan, quantunque soffrisse assai per la punta della freccia che gli era rimasta conficcata nelle carni, e sebbene continuasse a perdere sangue non cessasse di colare, resisteva tenacemente, senza che gli uscisse dalle labbra un solo lamento.
Aveva però la fronte bagnata da un freddo sudore e lo si vedeva stringere i denti, per non lasciarsi sfuggire nessun grido di dolore.
Jolanda lo secondava, manovrando energicamente le pagaie e cercando di mantenere il canotto in mezzo al fiume, ma le sue inquietudini aumentavano, vedendo formarsi, ai piedi del filibustiere, una chiazza di sangue che a poco a poco si allargava.
«Basta, signor Morgan» disse ad un tratto, sentendo che rallentava la battuta. «Volete uccidervi? Lasciate a me la cura di condurre il canotto, fasciatevi la ferita.»
«Un momento ancora, signora» rispose Morgan, con voce soffocata. «Vedo un largo dietro di noi... deve essere la savana o qualche laguna...»
«Ve ne prego...»
«Aspettate...»
«Ve l'ordino, allora.»
Il filibustiere, che non si reggeva più, aveva ritirate le pagaie, comprimendosi la ferita con ambe le mani.
Il canotto in quel momento sboccava in una vasta laguna, ingombra di foglie di mucumucù e di fasci di legno cannone dai fusti bianchi, lisci ed argentei.
Jolanda lo spinse verso la riva più vicina, arenandolo su un banco limaccioso.
«Venite, signor Morgan» disse, con voce commossa.
Il filibustiere si era alzato, barcollando.
«È la punta che mi lacera le carni» mormorò, tergendosi il sudore che gli bagnava la fronte.
«Che sia avvelenata?» chiese Jolanda, con terrore.
«No... no...»
Scese sulla riva, sorreggendosi sulla spada, ma giunto colà dovette appoggiarsi alla fanciulla.
«Mio povero amico, quanto dovete soffrire» disse Jolanda.
«Tutto passerà» rispose il filibustiere, guardandola cogli occhi socchiusi. «Legate il canotto, signora... la corrente può trascinarlo... E Carmaux?... Dove sarà Carmaux?...»
Poi si ripiegò bruscamente su sé stesso e si lasciò cadere sulla riva, mandando un sordo gemito.
«Signor Morgan!» gridò Jolanda, slanciandosi verso di lui per sorreggerlo.
«Non spaventatevi, signora» rispose il filibustiere, rimettendosi prontamente. «I corsari hanno la pelle dura.»
Capitolo ventunesimo
Il ferito
Il fiume si riversava in una vastissima laguna o savana che fosse, interrotta qua e là da banchi fangosi, su cui erano cresciuti rigogliosi mazzi di bambù, grossi quanto il corpo d'un uomo e di manghi, i quali immergevano nelle acque le loro radici contorte.
Le rive, quantunque assai lontane, apparivano coperte da boscaglie che dovevano essere foltissime, a giudicarle dalla enorme quantità di tronchi che si slanciavano a grandi altezze, stendono in tutte le direzioni delle foglie mostruose.
Nessun canotto scivolava fra le larghe foglie delle aninga e delle murici che coprivano vaste zone d'acqua. Volavano invece in grossi stormi dei martini pescatori, dei beccaccini e dei ciganas, specie di fagiani che difficilmente si allontanano dalle rive dei fiumi o delle paludi.
Dopo essersi assicurato che quel luogo era deserto e aver fatto legare il canotto, affinché la corrente, che si faceva sentire abbastanza forte, non lo portasse via, Morgan si sbottonò la casacca di grosso panno e la camicia di flanella, mettendo allo scoperto la spalla destra, dove appariva uno squarcio, prodotto dalla freccia, che dava sangue in abbondanza.
«Mio povero amico» disse Jolanda, che guardava con visibile commozione la ferita. «Quanto dovete soffrire!»
«Datemi la spada, signora» disse Morgan.
«Che cosa volete fare?»
«Allargare la ferita per estrarre la punta che è rimasta nella carne.»
«Mio Dio!...»
«Bisogna levarla, signora, o produrrà un'infiammazione pericolosa.»
«Soffrite assai.»
«Non è la prima freccia che mi colpisce. Sulle rive dell'Orenoco ne ho ricevuta un'altra. Fortunatamente quest'indiani non hanno la triste abitudine d'avvelenarle, se no a quest'ora non sarei più vivo.»
«Aspettate, signor Morgan» disse Jolanda.
«Che cos volete fare?»
«Non abbiamo nulla per fasciare la ferita.»
«Ecco là una pianta di cotone. Troverete al suolo delle capsule ben fornite di peluria. Per fasciarla basterà una manica della mia camicia di lana.
«Andate, signora Jolanda; è tempo di arrestare il sangue.»
La fanciulla aveva già osservata la pianta, che cresceva a cinquanta o sessanta passi dalla riva, sul margine dell'immensa foresta.
Mentre si allontanava, Morgan pulì la punta della spada sulla propria camicia, poi con coraggio straordinario la cacciò delicatamente nella ferita allargandola, finché trovò l'estremità inferiore della freccia. Afferrarla e strapparla violentemente colle dita, fu l'affare d'un istante.
Il dolore però era stato così intenso, che il disgraziato cadde all'indietro mezzo svenuto.
Quando la fanciulla ritornò colle mani piene di cotone, Morgan non si era ancora rimesso dall'atroce spasimo.
Giaceva disteso sull'erba, cogli occhi socchiusi, pallidissimo, mentre il sangue usciva a fiotti dalla ferita.
Nella mano sinistra stringeva ancora, colle dita raggrinzate, la punta della freccia, una spina d'ansara lunga un buon pollice, dalla punta acutissima e resistente quanto un ago d'acciaio.
Vedendolo in quello stato, la signora di Ventimiglia aveva mandato un grido d'angoscia:
«Signor Morgan!... Signor Morgan!...»
Il filibustiere, a quel grido aveva riaperti gli occhi ed aveva tentato di rialzarsi, senza riuscirvi. Le indicò la ferita, mormorando:
«Qui... arrestate... la vita fuggirà... Non spaventatevi...»
Jolanda si era inginocchiata presso di lui.
Con mano ferma pulì la ferita da cui il sangue sfuggiva sempre, riunì delicatamente le due labbra prodotte dalla spina, vi applicò una manata di bambagia, poi, strappato un lembo del fazzoletto di seta che portava sul capo per difendersi dagli ardori del sole, fasciò la piaga meglio che poté.
Morgan non aveva mandato un lamento. Anzi le labbra del fiero scorridore del mare si erano atteggiate ad un sorriso.
«Grazie... signora...» mormorò, respirando a lungo. «Mi avete bendato... meglio d'un... medico.»
«Soffrite molto?»
«Cesserà... poi... la perdita del sangue... mi ha indebolito...»
«Riposatevi, signor Morgan, io veglio su di voi...»
Il filibustiere accennò col capo di sì e si abbandonò fra le erbe. Si sentiva estremamente spossato e provava negli orecchi un ronzìo doloroso.
La febbre non doveva tardare a sopraggiungere. Già le sue gote si colorivano d'una tinta infuocata ed il suo respiro diventava affannoso.
La fanciulla, temendo che prendesse qualche colpo di sole, colla spada tagliò alcune gigantesche foglie di banano, piantò al suolo alcuni rami ed improvvisò una minuscola tettoia, sufficiente a riparare il ferito.
«Ah, mio Dio!» mormorava la povera fanciulla, che si era seduta presso il filibustiere ormai assopito. «Se vi fosse qui Carmaux. Che i selvaggi l'abbiano ucciso? Che cosa farò io, su questa laguna, con un ferito?...»
Morgan cominciava a vaneggiare. Dalle sue labbra, arse dai primi assalti della febbre, uscivano parole tronche e sconclusionate.
Parlava della Tortue, della sua Folgore, di Pierre le Picard, di Carmaux.
Ad un tratto un nome giunse agli orecchi della fanciulla, facendola sussultare.
«Jolanda» aveva mormorato il ferito, con un tono di voce dolcissima. «Brava fanciulla...»
«Sogna di me» disse la figlia del Corsaro.
Un rapido rossore le aveva inporporate le gote e i suoi sguardi si erano fissati sui fieri lineamenti del filibustiere, che né il dolore prodotto dalla ferita, né la febbre avevano alterati.
«Sogna» mormorò per la seconda volta. «E sogna di me...»
D'improvviso Morgan si scosse e aprì gli occhi, balbettando con voce rantolosa:
«Acqua... acqua... la sete mi divora.»
Aveva fatto cenno di rialzarsi, ma la fanciulla gli pose una mano sulla fronte, dicendo:
«No, signor Morgan, non muovetevi. Vi porterò da bere.»
«Ah!... Siete voi, signora Jolanda... quanto siete buona... Vegliate su di me... maledetto selvaggio!...»
«Non irritatevi. Nessuno ci minaccia.»
«E Carmaux?... E Carmaux?»
«Non ho veduto più nessuno. Speriamo che siano riusciti a sfuggire all'inseguimento degli Oyaculè.»
«Voi... sola...»
«Ho la spada e anche una palla nella pistola. Non ho sparato che un solo colpo. Attendetemi, signor Morgan.»
Raccolse una foglia di banano, ne staccò un pezzo che arrotolò in forma di cornetto e si avviò verso il fiume, essendosi accorta che l'acqua della laguna era salmastra.
La foce del rapido corso d'acqua non era lontana che tre o quattrocento passi.
La coraggiosa fanciulla vi si diresse, costeggiando il bosco, e giunta presso la riva, si curvò per riempire il cornetto.
Stava per immergerlo, quando s'arrestò, guardando con ispavento verso la riva opposta, che non distava più di quindici passi.
Su un albero che si curvava sul fiume, adagiato su un ramo trasversale che radeva quasi l'acqua, stava un animale lungo oltre un metro, colla testa piuttosto grossa, il corpo robusto, coperto da un pelame fitto e morbido, grigiastro sul dorso con macchie e striscie nere, e bianco sotto il ventre.
Guardava attentamente la corrente e lasciava pendere dal ramo la coda, sfiorando dolcemente l'acqua coll'estremità di essa.
«Che sia un giaguaro?» mormorò la fanciulla, gettandosi prontamente dietro una macchia di legno cannone.
Il fiume che la divideva dalla fiera, come dicemmo, era poco largo in quel punto e quell'animale poteva, con un salto, varcarlo e piombarle addosso.
Pareva però che non si fosse nemmeno accorto della presenza della fanciulla, poiché continuava la sua misteriosa manovra senza staccare gli sguardi dalla corrente.
«Ho commessa un'imprudenza a non prendere con me né la spada, né la pistola» mormorò Jolanda. «Eppure bisogna che porti dell'acqua a Morgan.»
Stava per uscire dalla macchia, quando vide l'animale fare un brusco movimento, quindi lo udì mandare un rauco ruggito.
Aveva ritirata rapidamente la coda a cui erasi attaccato qualche cosa d'informe, che a prima vista Jolanda non comprese che cosa potesse essere, poi curvatosi innanzi afferrò colle zampe anteriori quel corpo che si dibatteva.
«Una testuggine» disse Jolanda. «Che abile pescatore!»
L'animale soddisfatto della sua presa, con un salto immenso si era slanciato sulla riva, scomparendo rapidamente fra i cespugli.
«Forse quel povero rettile mi ha salvata la vita» pensò la fanciulla.
Riempì d'acqua il cornetto e fuggì verso la laguna, guardandosi alle spalle per paura che quell'animale si fosse deciso a varcare il fiume per procurarsi una preda più grossa.
Quando giunse presso la piccola tettoia, Morgan era ricaduto in un profondo torpore e giaceva, in mezzo alle foglie di banano, colle braccia allargate e la testa rovesciata.
Jolanda stava per chiamarlo, quando retrocesse vivamente mandando un grido d'orrore.
Sul petto del ferito, fra la camicia e la casacca, stava accovacciato un ragno mostruoso, dal corpo peloso e nero, le zampe lunghissime, pure pelose e rigate in giallo, armate alle loro estremità di branche formidabili.
Aveva otto occhi, brillanti come carbonchi, di grandezza ineguale, disposti gli uni vicini agli altri in forma d'un X.
L'orribile bestia pareva che si disponesse a rimuovere la fasciatura della ferita.
Jolanda, inorridita, era rimasta immobile, mentre il ragno, accortosi della sua presenza, la fissava coi suoi numerosi occhi, dardeggiando su di lei degli sguardi feroci.
Ad un tratto si volse, raccolse la spada e vibrò un colpo di punta, gettando il mostruoso ragno a tre passi di distanza, poi con un fendente lo spaccò in due.
«Ah!... L'orribile mostro!...» esclamò. «Se tardavo a sopraggiungere, dissanguava Morgan!...»
In quel momento vide il ferito riaprire gli occhi e tentare di alzarsi.
«Voi... signora» mormorò, mentre un lampo gli illuminava gli sguardi.
«Avete sete, signor Morgan?» chiese la fanciulla.
«Sì,.... ho la gola arsa... è la febbre che sopraggiunge e sotto questo clima non manca mai di visitare i feriti.»
Jolanda si curvò su di lui, l'aiutò ad alzarsi un po' e gli accostò alle labbra il cornetto che era ancora quasi pieno di acqua.
Il ferito la trangugiò avidamente fino all'ultima stilla, mandando un sospiro di soddisfazione.
«Grazie, signora» disse.
Ad un tratto fece colle mani un gesto, come di stupore.
«Che cosa avete, signora?» chiese. «Siete pallidissima e le vostre braccia tremano. Avete veduti gl'indiani?»
«No, signor Morgan, rassicuratevi. Guardate là quella brutta bestia che agita ancora le sue zampe. Si era accoccolata sul vostro petto.»
«Una migale» disse Morgan. «L'odor del sangue l'aveva attirata. Sono ben brutti quei ragni.»
«Uccidono?»
«Oh no, non sono capaci di tanto le migale. È bensì vero che talvolta, se riescono a trovare qualche bambino addormentato, lo dissanguano aprendogli una ferita al collo, ma non sono pericolose per gli uomini. Avete veduto nessuno sulle rive del fiume?»
«Solo un animale che pescava le testuggini e che, ve lo confesso, mi spaventò non poco dapprima, essendomi recata colà senza la spada.»
«Grosso molto?» chiese Morgan, che aveva provato un fremito di spavento, non già per sé, bensì per la valorosa fanciulla.
«Pareva una giovane tigre col pelame grigio, bruno e bianco, e striscie nere sul dorso.»
«Doveva essere invece un maracaya od un pardino, grandi predatori sì, ma che non assalgono mai l'uomo. Ricordatevi di prendere sempre la spada o la pistola, se sarete costretta ad allontanarvi. Io sono ora impotente a difendervi! Vi fosse qui almeno Carmaux!...»
«Che cosa sarà avvenuto di lui, signor Morgan?» chiese Jolanda, con voce commossa. «Che quei selvaggi lo abbiano ucciso?»
«Carmaux non è uomo da lasciarsi ammazzare come un coniglio e poi era coi due caraibi.»
«Che vengano a cercarci?»
«Non ne dubito. Gl'indiani sanno trovare una traccia anche in mezzo alle boscaglie e, non vedendo più il canotto, s'immagineranno che noi ci siamo messi al sicuro in questa savana.
«Ecco la febbre che torna. Passerete una brutta notte, signora.»
«Voi, non io.»
«Allora, insieme» disse Morgan, cercando di sorridere. «Ah!...» Infilò una mano in una tasca della casacca e aveva estratto una scatoletta di latta. «L'esca e l'acciarino di Carmaux» disse con voce lieta. «È stata una vera fortuna che me l'abbia data.»
«Volete che accenda il fuoco?»
«Questa sera, signora. Le belve temono la fiamma e non oseranno accostarsi.»
«Vado a fare raccolta di legna.»
«E cercate qualche frutto per voi, signora. Non avete nulla per la cena.»
«Se permettete tornerò al fiume onde questa notte non vi manchi dell'acqua.»
«Siete troppo buona, signora. Se poteste trovare una cuiera sarei lieto.»
«Conosco quelle piante» rispose Jolanda «e so come fanno gl'indiani per avere dei buoni recipienti. Non sarà difficile trovarne.
«Addio, signor Morgan, non inquietatevi.»
La brava fanciulla prese la spada e si diresse verso la boscaglia, coll'intenzione di attraversare il lembo che copriva una specie di promontorio, dietro a cui doveva scorrere il fiume.
S'inoltrò dunque coraggiosamente fra le enormi piante, che crescevano in tale numero e così vicine da non permettere al sole di attraversare la vôlta di verzura.
Ve n'erano di tutte le specie, mescolate confusamente: saponieri, così chiamati perché le loro corteccie e le loro bacche messe in acqua danno una schiuma densa che ha le proprietà del sapone; cedri, che erano privi di frutta; formaggieri; cotonieri; simaruba; palmizi e maot dalle foglie immense.
La fanciulla ascoltò dapprima, per tema che vi fosse qualche carnivoro nei dintorni, poi, non udendo che le note monotone dell'onorato, si cacciò in mezzo alle piante, raccogliendo qua e là dei rami morti, che riuniva in piccoli fasci, legandoli con dei pezzi di liana.
Non dimenticava anche la cena e faceva raccolta di manghi, che abbondavano sul suolo, staccatisi perché troppo maturi, e anche dei grossi aranci, che faceva cadere dai rami più bassi servendosi della spada.
Continuò così ad avanzarsi attraverso il promontorio, affrettando il passo, perché vedeva ormai il sole declinare rapidamente e l'oscurità addensarsi sotto le macchie.
Udiva già il mormorìo del fiume, quando scoperse la cuiera che cercava; una pianta enorme con larghe foglie e numerosi rami, avvolti da piante parassite ed il tronco coperto di muschio. Portava un numero infinito di grosse zucche, lucentissime, di color verde-pallido, di forma sferica e assai più grosse dei poponi.
Ne staccò una, la spezzò in due legandola forte con una liana e la vuotò della polpa bianca che conteneva.
«Ecco due ottimi vasi che riempirò d'acqua per il signor Morgan» disse.
E s'avviò rapidamente verso il fiume, passando fra enormi cespugli, in mezzo ai quali scorgeva, non senza un profondo senso di ribrezzo, numerose migali pelose che la guardavano coi loro occhi lucentissimi, come se cercassero di affascinarla.
Alcune stavano invece semi-nascoste in mezzo alle folte erbe, occupate certo a digerire gli uccelli che avevano sorpresi nei loro nidi e le vedeva asciugarsi sul dorso peloso le loro zampe ancora lorde di sangue.
Riempì in fretta le due metà della cuiera, poi tornò nel bosco che attraversò più presto di prima.
Morgan era sempre coricato e aveva gli occhi aperti, fissi sulle acque nerastre della laguna. La febbre però lo aveva ripreso ed il suo viso, rosso come la luna piena quando s'alza in certi tramonti d'estate, sudava copiosamente.
«Avete fatto nessun incontro?» chiese.
«No, signor Morgan. Ecco l'acqua e delle frutta. Vado a raccogliere la legna per il fuoco di questa notte» rispose la fanciulla.
«Affrettatevi, la sera cala rapida.»
«Le fascine non sono lontani, signor Morgan.»
La fanciulla che non si sentiva affatto stanca, ritornò nella foresta e riportò alcune fascine. Ne aveva però lasciati altri più innanzi e, temendo che la provvista non bastasse per tenere acceso il fuoco tutta la notte, quantunque il sole in quel momento fosse scomparso, fece una seconda gita.
Si era già caricata degli altri fastelli, quando in mezzo ad una folta macchia di passiflore, udì un miagolìo rauco che terminò in una specie di ululato.
«Un'altra bestia» mormorò la signora di Ventimiglia. « Che brutta notte si prepara.»
Si mise a correre e scese la costa senza essersi sbarazzata dei fastelli.
Trovò Morgan seduto che stringeva nella destra la pistola. Pareva in preda ad una viva agitazione.
«Ah!... Grazie, signora!» esclamò, vedendo la fanciulla. «Ho tremato per voi.»
«Perché, signor Morgan?» chiese Jolanda.
«Avete udito quell'urlo?»
«Sì.»
«Era d'un giaguaro.»
«Temevate che mi assalisse?»
«Non hanno paura degli uomini quelle belve e, quando sono affamate, non esitano a gettarsi anche contro i cacciatori. L'avete veduto?»
«No, però non doveva essere molto lontano dal luogo ove mi ero fermata a raccogliere la legna.»
«Accendete subito il fuoco, signora.»
«Che venga a ronzare attorno al nostro accampamento?»
«Avete paura?»
«Per ora no, signor Morgan» rispose la valorosa fanciulla.
«Il giaguaro si mostrerà, ne sono sicuro. E non sono in grado di difendervi! La febbre fra poco m'atterrerà, lo sento.»
«La vostra pistola ha ancora una palla e se quella brutta bestia verrà, le farò fuoco addosso.
Jolanda fece due mucchi di legna e li accese a pochi passi di distanza l'uno dall'altro, poi si sedette presso il ferito, che era ricaduto sul suo giaciglio, mostrando in apparenza una calma ammirabile.
Nel medesimo istante, nella tenebrosa foresta s'alzava un altro urlo, più prolungato del primo.
Il giaguaro certamente stava per scendere verso la laguna.
Capitolo ventiduesimo
Il giaguaro
La notte, sulle rive di quella deserta laguna, al margine di un bosco vicino infestato probabilmente da belve affamate, s'annunciava terribile per la valorosa fanciulla, tanto più che Morgan, ripreso dalla febbre, che sotto quei climi assume rapidamente dei sintomi gravissimi, ricominciava a vaneggiare.
Si era accoccolata sotto la piccola tettoia, presso il ferito e dietro ai due fuochi che mandavano bagliori sinistri sulle piante vicine. Si era messa dinanzi la spada e la pistola e spiava ansiosamente il margine della foresta, dove udiva, di quando in quando, echeggiare il lugubre ululato del giaguaro.
Mille rumori cominciavano ad alzarsi, sia sugli isolotti e sui banchi della laguna ingombri di legni cannone e di manghi, sia fra le folte macchie che proiettavano le loro cupe ombre sulla riva.
Erano gracidii di batraci o di quegli enormi rospi chiamati pipa, sibili di rettili acquatici e terrestri, urla acute che si ripercuotevano senza posa sotto le vôlte di verzura, mandate dalle scimmie rosse e dai cebi, a cui facevano di quando in quando eco gli u-uh! rauchi dei coguari e dei maracaya.
Jolanda si sforzava di mostrarsi tranquilla, tuttavia ad ogni ululato del giaguaro si stringeva presso Morgan e rabbrividiva, credendo sempre di vedersi dinanzi quei formidabili predatori che la fame doveva, presto o tardi, spingere verso il piccolo accampamento.
«Come finirà questa notte?» si chiedeva con angoscia. «Avessi almeno delle munizioni, mentre non ho che un solo colpo da sparare e che può anche andare a vuoto.»
Il filibustiere pareva che non udisse nulla. Dormiva o meglio era assopito dalla febbre che abbatteva la sua vigorosa fibra, però di quando in quando si agitava violentemente, sbarrava gli occhi e pronunciava parole che non avevano senso.
Jolanda si sforzava di calmarlo, ma il disgraziato pareva che non udisse neanche la voce della fanciulla. Pareva anzi che si fosse perfino scordato di averla vicina.
Solo a lunghi intervalli, acquistava qualche istante di lucidità e allora la prima parola che gli sfuggiva dalle labbra arse dalla febbre era per chiedere acqua.
Fortunatamente le due mezze zucche erano molto capaci e Jolanda non aveva timore che la provvista si consumasse prima dell'alba.
Verso la mezzanotte però, la febbre essendo forse cessata, Morgan tornò completamente in se stesso. Il suo primo sguardo fu per la fanciulla che gli stava vicino.
«Vegliate?» chiese egli, con dolcezza. «Povera signora!... Fate la guardia, mentre io dormo.»
«Non ho sonno, signor Morgan» rispose Jolanda. «E poi mi preme che non si spenga il fuoco.»
«Eppure dovete essere stanca.»
«Mi riposerò quando si alzerà il sole. Io sto bene, mentre voi siete ferito e avete perduto tanto sangue.»
«Sì, quella maledetta freccia!» esclamò Morgan, con rabbia.
«Nessuno ci minaccia per ora.»
«La notte nasconde mille pericoli.»
A un tratto, con uno sforzo supremo, si alzò a sedere, fissando sulla fanciulla due occhi smarriti.
Aveva udito in quel momento echeggiare il rauco ululato del giaguaro.
«Dite che nessuno vi minaccia?» esclamò. «Avete scordata quella belva?»
«Non si è ancora mostrata presso di noi e poi non ho la spada e la pistola?» rispose la fanciulla.
«Può piombarvi addosso.»
«I fuochi ci proteggono.»
«Sì, ma non sono tranquillo, signora. Se vi dilaniasse? Aiutatemi ad alzarmi. Voglio difendervi.»
«Non avete la forza di affrontare un simile carnivoro, signor Morgan. Rimanete coricato o la vostra ferita invece di rimarginarsi s'inasprirà maggiormente.»
«Divorerà almeno me, invece di voi. Non voglio che voi cadiate fra gli artigli di quella fiera.»
«Vi ripeto che non si è ancora mostrata. Orsù, ricoricatevi, ve ne prego. Ecco la febbre che vi riprende.»
«La febbre» disse Morgan, con un brivido. «Acqua... la Tortue è sempre lontana? Non vedo qui più la mia Folgore... Che quel cane d'un conte l'abbia affondata?»
«Che cosa dite, signor Morgan?» chiese Jolanda.
«Sì, è stato lui, sai, Carmaux? Bisogna impiccarlo affinché non faccia del male alla signora di Ventimiglia... Vuol riaverla in sua mano... Prepara una buona fune... lassù... sul pennone di parrocchetto...»
Morgan tornava a vaneggiare, mentre l'ululato del giaguaro si faceva udire sempre più vicino.
Jolanda lo costrinse a ricoricarsi, poi afferrò la pistola e la spada e guardò con profonda ansietà verso il margine della foresta.
L'urlo del giaguaro era risuonò così vicino, da far credere che si trovasse solo a pochi passi.
E infatti in mezzo ad un folto cespo di passiflore che si alzava a metà costa, Jolanda vide scintillare fra le tenebre due punti verdastri, simili agli occhi di un gatto.
«È là che mi spia» mormorò la fanciulla, mentre si sentiva bagnare la fronte di freddo sudore. «Potrò io resistergli o ci sbranerà tutti e due?»
Gettò su Morgan uno sguardo disperato. Il filibustiere aveva rinchiusi gli occhi, però continuava ad agitare le braccia e a pronunciare parole sconnesse.
Colla punta della spada riattizzò il fuoco più vicino, poi vi gettò sopra un fastello di legna resinosa.
La fiamma s'alzò altissima, illuminando tutto il declivio della costa e gettando in aria numerose scintille.
Il giaguaro, senza dubbio spaventato o irritato da quell'improvvisa fiammata, si era slanciato fuori dalla macchia di passiflore, ululando spaventosamente.
La luce proiettata dalle fiamme lo illuminava pienamente.
Era un superbo animale, grosso quanto una tigre di mezza età, di forme tozze ed un po' pesanti, lungo quasi due metri, con un mantello corto, fitto e morbido, dalla tinta giallo-rossiccia a macchie nere orlate di rosso ed il ventre biancastro.
Vedendo la fanciulla ritta dinanzi ai due fuochi, in un atteggiamento risoluto, colla spada in pugno che scintillava alla luce dei due falò, si era arrestato, raggrinzando il muso e mostrando i suoi formidabili denti.
La sua coda spazzava dolcemente le erbe, sollevando le foglie secche con uno scrosciare ruvido. Non ululava più: coi baffi irti ringhiava sordamente, dardeggiando sulla signora di Ventimiglia, che pareva che lo sfidasse, uno sguardo ripieno d'ardente bramosìa.
La fame doveva tentarlo, però i due fuochi lo trattenevano ancora e non osava slanciarsi verso la piccola tettoia sotto la quale Morgan, in preda alla febbre, continuava a vaneggiare.
Si leccò con quella mossa che è familiare ai felini, le zampe anteriori, si lisciò le spalle ed il petto, sbadigliò due o tre volte, poi fece qualche passo innanzi con un rom-rom che non era certo di buon augurio.
Stette un momento immobile, continuando a lisciarsi il pelame, poi fece alcuni passi ancora, sempre fissando la fanciulla ed accostandosi al fuoco.
Si muoveva lentamente, quasi avesse paura di spaventarla, rivoltandosi di frequente su se stesso per leccarsi i fianchi. La signora di Ventimiglia, quantunque non conoscesse le abitudini traditrici di quei formidabili animali, non si lasciava sedurre da quelle dimostrazioni pacifiche.
Ritta sempre dietro ai due fuochi, colla spada tesa e la pistola nella sinistra, lo fissava intrepidamente, risoluta ad opporre la più fiera resistenza. Non tremava più: si era irrigidita ed i suoi muscoli in quel momento si sentivano capaci di sostenere qualsiasi urto, pur di difendere il filibustiere che dormiva dietro di lei.
Il giaguaro ebbe un po' di esitazione, poi cercò di girare attorno ai due fuochi, prima quello di destra, poi quello di sinistra.
Jolanda, comprendendo il pericolo che correva se l'animale riusciva a compiere quella manovra, s'abbassò rapidamente deponendo per un momento la spada, raccolse un grosso ramo resinoso e glielo gettò contro colpendolo sul muso.
L'animale, sentendosi bruciare i baffi, mandò un ululato spaventevole, poi fuggì a rompicollo facendo balzi di tre o quattro metri sul margine della foresta s'arrestò guardando coi suoi occhi fosforescenti e minacciosi il piccolo accampamento.
Jolanda trasse un profondo respiro di sollievo. Il pericolo per il momento era scongiurato.
«Non resisterei però ad un'altra simile prova» mormorò, asciugandosi il sudore che le bagnava la fronte. «Non avevo mai veduta la morte così vicina.»
Guardò Morgan e vide che dormiva tranquillo. La febbre doveva avergli concessa un po' di tregua.
«Non si è accorto che la belva stava per assalirci» disse. «Meglio così. Anche ferito si sarebbe alzato per difendermi e forse avrebbe commessa qualche pazzia e provocato lo slancio del giaguaro.»
Alzò gli occhi verso il margine della foresta e vide ancora il maledetto animale, ritto fra due cespugli, che la osservava, seguendo attentamente tutti i movimenti che essa faceva.
Pareva di pessimo umore, perché lo si udiva brontolare. Quell'accoglienza che gli era costata la perdita dei baffi non l'aveva certo soddisfatto.
«Pare che non abbia voglia di ritentare la prova» disse la fanciulla, gettando sui fuochi due altri fastelli di legna.
In quel momento udì Morgan chiamare:
«Signora... acqua... brucio.»
«Avete sempre la febbre, è vero, signor Morgan?» chiese Jolanda, presentandogli la zucca ed aiutandolo ad alzarsi.
«Ne avrò fino all'alba» rispose il filibustiere. «E voi non avete preso ancora un istante di riposo? Vi ammalerete, signora.»
«Non pensate a me. Avrò tempo per riposarmi.»
«Ah!...»
«Che cosa avete, signor Morgan?»
«Ed il giaguaro?»
«L'ho fatto fuggire.»
«Voi!...» esclamò Morgan.
«Guardate, non gira più attorno a noi. Si era bensì accostato il briccone, e gli ho accarezzato il muso con un tizzone acceso e ci ha lasciati tranquilli.»
«Siete ben la figlia del Corsaro Nero voi» disse il filibustiere, guardandola con ammirazione. «Così giovane, affrontare una simile fiera!... Nemmeno Carmaux l'avrebbe osato.»
«Eppure la cosa è stata facilissima e non ho nemmeno sacrificato l'ultimo colpo di pistola.»
«Quanto vi dovrò, signora!»
«Sì, un po' d'acqua» disse Jolanda scherzando.
«No, la vita, poiché se io fossi stato solo, assopito dalla febbre come ero, il giaguaro mi avrebbe divorato. È lontana l'alba? Io ho perduta la nozione del tempo.»
«Abbiamo ancora parecchie ore di oscurità. Cercate di riposare, signor Morgan; il sonno fa bene agli ammalati. E la vostra ferita vi addolora?»
«Non troppo, signora. Sotto questi climi si cicatrizzano rapidamente. È la febbre che può diventare pericolosa.»
«Ricoricatevi, mentre io vado a riattizzare il fuoco.»
Morgan, che si sentiva effettivamente assai spossato, un po' in causa dell'eccessiva perdita di sangue e un po' per la febbre, obbedì.
Jolanda, che temeva sempre qualche altra sorpresa da parte del giaguaro, si accostò ai fuochi che riattizzò sprigionando un nembo di scintille che fecero fuggire tre o quattro grossi vampiri che volteggiavano in quel momento al di sopra della piccola tettoia, forse colla speranza di sorprendere Morgan e dissanguarlo colle loro trombe a ventosa, armate di papille perforanti.
Guardò verso il margine del bosco e fu ben lieta di non vedere più il giaguaro.
O l'animale, disperando di saziarsi colle delicate carni della fanciulla, aveva perduta la pazienza e se n'era tornato nella sua tana, oppure aveva potuto sorprendere qualche altra preda più facile da abbattere e se l'era portata più lontana per divorarsela tranquillamente.
La fanciulla, rassicurata, e vedendo che Morgan aveva ripreso nuovamente il sonno, si sedette presso i due fuochi, aspettando pazientemente che il sole spuntasse.
Nella foresta non si udivano più né ululati, né ringhii, né fischi di rettili. Le sole scimmie davano ancora dei concerti spaventevoli, facendo rimbombare le vôlte di verzura coi loro formidabili hon... hon.
Finalmente le tenebre cominciarono a diradarsi verso oriente e le acque della laguna si tinsero dei primi riflessi dell'alba.
Gli uccelli si destavano. L'onorato riprendeva le sue note musicali, do... mi... sol... do; i tucani mandavano le loro grida discordi e dure, somiglianti al cigolare d'una ruota priva di grasso; i craci gorgogliavano imitando i tacchini; i pappagalli schiamazzavano sulle più alte cime dei formaggieri od in mezzo alle sipe.
Jolanda si era alzata avvicinandosi a Morgan. Il filibustiere dormiva ancora ed era tranquillissimo.
La febbre doveva essere cessata.
«Se approfittassi del suo sonno per cercare la colazione?» si chiese Jolanda. «Con un colpo di pistola potrei uccidere qualche animale. Ho udito raccontare che i cervi non mancan nelle foreste del Venezuela.»
Mise accanto a Morgan una cuia onde potesse dissetarsi nel caso che si svegliasse, poi, dopo d'aver ravvivati i due falò cogli ultimi fastelli, sapendo ormai per prova che erano sufficienti a proteggere il piccolo accampamento, prese la spada e la pistola e si mise a costeggiare la laguna, le cui rive erano coperte da foltissime macchie di legno cannone e di passiflore.
Non aveva già intenzione di allontanarsi troppo, per paura che il giaguaro approfittasse della sua assenza per gettarsi sul ferito e dilaniarlo.
Si mise a rasentare le macchie, frugandole colla punta della spada, colla speranza di sorprendere qualche animale, volgendosi di quando in quando per guardare la tettoia.
Aveva già percorsi cinque o seicento passi, quando vide uscire da un cespuglio un branco di grossi granchi di mare che fuggivano precipitosamente verso la laguna.
Erano dei brutti crostacei, che rassomigliavano per grandezza alle migali, colle branche adunche e robustissime ed il dorso rugoso.
«Fuggono!...» esclamò la fanciulla. «Che vi sia qualche carogna in mezzo a quel cespuglio?»
Allontanò con precauzione i rami e s'avanzò lentamente, tenendo la spada tesa, ma ad un tratto si fermò, poi indietreggiò mandando un grido d'orrore.
Steso fra le foglie secche, stava un corpo umano, che indossava ancora un vestito di grosso panno verde ed una corazza, ed il cui capo completamente scarnato o dai granchi o dalle termiti, era privo della più piccola particella di carne.
Anche i lunghi stivali di cuoio giallo, non stringevano che due stinchi e dalle maniche della giubba spuntavano delle falangi prive di pelle e di nervi.
A pochi passi stava uno spadone irruginito e snudato ed una fiaschetta di metallo, che pareva di stagno.
«Un morto!...» aveva esclamato la fanciulla, dopo il primo istante di spavento. «Chi avrà ucciso questo disgraziato? Gl'indiani o qualche belva?»
Lo guardò meglio e non scorse sulle vesti alcuna traccia di sangue, né alcun strappo che potesse indicare il passaggio d'una punta di freccia.
«Triste scoperta» mormorò la signora di Ventimiglia. «Sarà serbata anche a noi una sorte eguale?»
Stette qualche momento a contemplare quel disgraziato, uno spagnolo di certo, a giudicarlo dalle vesti; poi raccolse la spada e la fiaschetta, pensando che potevano essere di maggior utilità ai vivi che ai morti.
Stava per ritornare verso Morgan, quando i suoi sguardi si fermarono su alcuni segni che parevano delle lettere incise sulla fiaschetta con qualche punta, forse quella della spada.
Guardandoli attentamente, riuscì, non senza fatica, a decifrarli.
La mano di quel povero uomo aveva scritto in lingua spagnola:
«Smarrito nella foresta, muoio di fame.»
Vi era sotto un R poi un Yup...
La morte doveva averlo sorpreso prima che potesse scrivere completamente il suo cognome.
La fanciulla, assai impressionata per quella lugubre scoperta, tornò lentamente verso l'accampamento, dove trovò Morgan seduto, che stava fasciandosi nuovamente la ferita.
«Come state, signor Morgan?» gli chiese con premura.
«Molto meglio di ieri, signora» rispose il filibustiere.
«La ferita comincia già a rimarginarsi un po'; mi sento però sempre debolissimo.
Toh!... Dove avete trovata quella spada?»
Jolanda lo informò della lugubre scoperta.
«Avete fatto bene a raccogliere quell'arma e quella fiaschetta» disse Morgan. «Chi sarà quel disgraziato? Che vi sia qualche colonia o qualche borgata spagnola non lungi da qui? Amerei meglio che non ve ne fossero.»
«Nessuno sa chi noi siamo. Potremmo inventare qualche istoria.»
«Gli spagnoli sono più da temersi degl'indiani, signora. Oh!... Avete udito?»
Verso la laguna era echeggiato un fischio, seguíto poco dopo da un tonfo, che sollevò un alto sprazzo di spuma.
Jolanda si alzò vivamente
«Armatevi, signora» disse Morgan.
«Prendo la vostra spada.»
Ciò detto s'avanzò cautamente verso la laguna, aprendosi il passo attraverso i fusti di legno cannone che ingombravano la riva.
Capitolo ventitreesimo
Un'altra notte terribile
Un animale, o meglio un mammifero, di grosse dimensioni, era comparso fra le foglie delle mucumucù che coprivano buoa parte della laguna, e si divertiva a sollevare delle piccole ondate colla sua larga coda piatta, massacrando quelle piccole zattere galleggianti.
Nelle forme rassomigliava un po' ad una foca, essendo anche munito di pinne somiglianti a delle braccia, la testa invece di essere rotonda era piuttosto allungata, fornita all'estremità di peli ruvidi e lunghi che parevano dei baffi.
Sul petto aveva due grosse mammelle che ricordavano quelle delle famose sirene dell'antichità.
Doveva pesare un paio di quintali di certo, a giudicarlo dalla sua lunghezza che superava i due metri e mezzo e dalla sua rotondità.
Jolanda, nascosta in mezzo ai legni cannone, lo guardava con curiosità, chiedendosi che specie di mammifero potesse essere, non avendone mai visto uno simile, né potendo ammettere che delle foche si trovassero nelle calde acque equatoriali.
Si rovesciava ora sul dorso ed ora sul ventre, sbattendo vigorosamente l'acqua colle sue lunghe pinne, si lasciava affondare, poi con una brusca spinta si slanciava fuori più che mezzo, mandando dei lunghi fischi.
Jolanda, sempre nascosta, si domandava come avrebbe potuto impadronirsi di quella grossa preda, che avrebbe assicurato cibo a lei e a Morgan per parecchio tempo.
Aveva bensì la pistola, ma dubitava con una sola palla di poter abbattere un animale così enorme. Se Morgan non fosse stato ferito, forse avrebbero potuto raggiungerlo col canotto e assalirlo a colpi di spada.
Stava per ritornare onde consigliarsi col filibustiere, quando vide il mammifero accostarsi alla riva e frugare col muso fra le erbe acquatiche che crescevano abbondanti in quel luogo.
«Se mi provassi a dargli un colpo di spada?» si chiese Jolanda. «L'arma è solida e la punta aguzza, mentre quell'animale non mi sembra che debba avere la pelle dura, non avendo squame.»
Si gettò a terra e allontanando dolcemente i fusti dei legni cannone, si mise a strisciare verso la riva.
Udiva il mammifero grugnire proprio sotto le erbe acquatiche che tappezzavano il margine della laguna, quindi doveva essere a buona portata anche per un colpo di spada.
La speranza di poter offrire al filibustiere un bel pezzo di carne, di cui aveva tanto bisogno per rimettersi del sangue perduto, la spingeva a tentare la sorte.
D'altronde non poteva correre pericolo alcuno, non avendo quell'abitante delle acque, né un aspetto feroce, né armi di difesa d'alcuna specie.
Giunta sulla riva la brava fanciulla scostò lentamente le erbe, che erano assai alte e si spinse dolcemente innanzi, impugnando con mano ferma la spada del filibustiere.
Il mammifero era lì sotto, occupato a mangiare le radici delle erbe e pareva che non si fosse ancora accorto del pericolo che lo minacciava.
Si agitava appena e continuava a grugnire come un maialetto.
Jolanda si rizzò di colpo sulle ginocchia e affondò il ferro nel dorso dell'animale, cacciandovelo dentro quasi fino alla guardia.
Udì un rapido fischio, poi uno spruzzo di spuma l'avvolse, facendola cadere indietro e costringendola ad abbandonare la spada che era rimasta nella ferita.
Quando poté rialzarsi vide il mammifero a dibattersi furiosamente, a quindici passi dalla riva. Aveva la spada ancora infitta nel dorso e dalla ferita colava un rivoletto di sangue che arrossava l'acqua.
«Signor Morgan!... È preso!... È preso!...» gridò Jolanda, con voce trionfante.
«Chi, signora?» chiese il filibustiere che faceva sforzi disperati per alzarsi.
La fanciulla, certa ormai che l'animale era agonizzante, si era slanciata verso la tettoia, per armarsi della spada dello spagnolo.
«È nostro!... E nostro!...» gridò, accostandosi a Morgan. «Avremo quanta carne vorremo.»
«Chi avete ucciso?» chiese il filibustiere.
«Non so, una bestia assai grossa, una specie di foca.»
«Una foca!... È impossibile, signora; qui non se ne trovano.»
«Ne ha almeno le forme.»
«Quello che avete ucciso non può essere che un manato o meglio un lamantino, una preda squisita, la cui carne può gareggiare, per gusto e delicatezza, con quella dei giovani vitelli.»
«Salgo nel canotto e vado a finirlo» disse la fanciulla. «Devo anche ricuperare la vostra spada.»
«Badate che non vi rovesci in acqua. I manati non sono pericolosi, tuttavia hanno della forza nella coda.»
«Sarò prudente:»
Impugnò lo spadone dello spagnolo e si diresse verso il canotto che era legato alla riva.
Lo staccò, vi balzò dentro, prese le pagaie e si spinse al largo.
Il lamantino si dibatteva presso un banco di fango e pareva agli estremi. L'acqua tutt'intorno al suo corpo era rossa di sangue.
Jolanda, con pochi colpi di remo lo raggiunse, e, alzato lo spadone dello spagnolo, si mise a tempestarlo, specialmente sulla testa, né cessò finché non lo vide esalare l'ultimo respiro.
Essendo su un bassofondo, era rimasto col dorso fuori dall'acqua.
Jolanda si provò a levare la spada di Morgan e, sentendo che resisteva, passò nella guardia una liana per rimorchiare la grossa preda alla riva.
Non fu impresa facile, poiché il lamantino era grosso assai e tendeva ad affondare; nondimeno, dopo un quarto d'ora, riusciva a tirarlo presso un mango che tuffava nelle acque le sue radici contorte.
Morgan, che da lontano aveva seguíto cogli sguardi e non senza una certa ansietà, le diverse fasi della caccia, o meglio della pesca, salutò il ritorno della valorosa ed intraprendente fanciulla con un fragoroso urrà.
«Un momento ancora, signor Morgan» disse Jolanda «e vi offrirò una buona colazione, se è vero che la carne di questi mammiferi è così squisita come mi avete detto.»
Dopo reiterati sforzi trasse dal corpo del lamantino l'arma del filibustiere; poi, servendosi dello spadone spagnolo che era più largo e più pesante, quindi meglio adatto per servire da coltello, tagliò dal dorso una fetta enorme che portò presso la capannuccia, dove ardevano ancora i due falò.
Con dei sassi improvvisò alla meglio un fornello, infilzò la carne nel ferro del filibustiere e ravvivò con alcuni rami il fuoco.
«Eccomi diventata cuoca» disse Jolanda, che era assai di buon umore, per la splendida riuscita di quell'impresa. «Fra breve assaggerete un pezzo della mia preda.»
«Sì, apprezzerete fra poco la delicatezza della sua carne.»
«Signor Morgan, lasciate che completi la colazione.»
«Che cosa volete aggiungere ancora?»
«Ho veduto poco fa, mentre tornavo da quella lugubre scoperta, un banano che aveva un grappolo enorme.»
«Eccellenti quelle frutta, specialmente se cucinate sotto la cenere. Possono surrogare il pane.»
«Manca però il sale.»
«Vi sono in questo paese delle piante che possono fornirne; non so dove si troveranno. «Gli indiani non adoperano che quello.»
«Come fanno ad estrarlo?»
«Bruciano i rami, fanno bollire la cenere, poi la filtrano e trovano sempre dei cristalli di sale.»
«Noi però possiamo farne a meno.»
«E come, signor Morgan?»
«M'avete detto che l'acqua della laguna è salata. Aspargete un po' l'arrosto ed ecco trovato il rimedio.»
«Che pessima cuciniera sarei io! Rinuncio fin d'ora alla carica cui aspiravo a bordo della vostra Folgore.»
Anche scherzando, la brava fanciulla non perdeva però il suo tempo e badava che l'arrosto si cucinasse a perfezione.
Quando lo vide quasi pronto, lo asperse con poche goccie d'acqua salata, poi andò a far raccolta di banane e di manghi, e ficcò le prime sotto la cenere calda.
«Signor Morgan» disse ad un certo momento. «Siete servito.»
Avendo deposto l'arrosto su una bella foglia di banano, appena tagliata, e si era seduta presso il ferito, il quale aspirava con visibile soddisfazione il delizioso profumo che esalava l'enorme fetta del lamantino.
La colazione, non variata è vero, ma assai abbondante, fu molto gustata tanto dal ferito quanto da Jolanda, ed entrambi, che dal mattino innanzi non avevano mangiato che qualche frutto, vi fecero molto onore.
«Signor Morgan» disse la fanciulla quand'ebbero finito. «Consigliamoci un po' per cercare di uscire da questa situazione. Quando potrete, a vostro giudizio, riprendere le vostre forze?»
«Fra due o tre giorni noi lascieremo questo luogo» rispose il filibustiere. «Le mie gambe sono sane e anche solide.»
«E dove andremo noi? Che cosa faremo? La vita dei Robinson non nego che abbia dei lati belli, ma voi non siete uomo da vivere sempre sotto queste foreste.»
«E nemmeno voi, suppongo» rispose Morgan. «Il vostro posto non è qui.»
«Dunque?»
«Ascoltatemi, signora. Se questa laguna ha l'acqua salata, io m'immagino che comunichi col mare per qualche canale o direttamente. Appena io sarò guarito, noi c'imbarcheremo sul canotto e cercheremo di raggiungere le rive del golfo del Messico. Solo là noi potremo trovare la nostra salvezza. Ed ora, signora, coricatevi e riposate; ne avete bisogno. Io intanto veglierò.»
«Obbedisco al vostro consiglio.»
La fanciulla andò a tagliare parecchie foglie di palmizio, per prepararsi un giaciglio e si coricò all'ombra di un simaruba, che s'alzava a qualche passo dalla capannuccia.
Morgan, messosi accanto lo spadone dello spagnolo, s'immerse in profondi pensieri.
Di quando in quando però si scuoteva e guardava la fanciulla che dormiva profondamente, con un braccio ripiegato sotto la testa, in una posa graziosa, ed ascoltava il suo respiro regolare e tranquillissimo.
«Bella e valorosa» mormorava, con un sospiro. «Ecco una donna che farà felice l'uomo cui vorrà bene.»
Il sonno di Jolanda durò molte ore. Il sole già precipitava all'orizzonte, quando riaprì gli occhi e Morgan vegliava ancora.
Era più bella che mai, con quei neri capelli che le scendevano sulle spalle, in disordine, e che le incorniciavano graziosamente il fresco visino leggiermente roseo.
«Quanto ho dormito!» esclamò, alzandosi in fretta. «Vi sarete molto annoiato, signor Morgan?»
«No signora Jolanda» rispose il filibustiere. «I volatili della laguna mi hanno distratto, e poi provavo un vero piacere nel vedervi riposare.»
«Mi dispiace però, avendo molto da fare.»
«E che cosa, signora?»
«Rinnovare la provvista d'acqua e la legna. Tornerà anche questa notte il giaguaro?»
«Speriamo che abbia fatto buona caccia e che non venga a disturbarci. Quando i carnivori si sono satollati, non inquietano nessuno.»
«Al lavoro» disse la fanciulla.
Si armò e si diresse verso il fiume. Desiderava vivamente di giungere su quelle rive, colla speranza di riveder comparire, se non Carmaux, almeno qualcuno degl'indiani.
Attraversò il bosco, non incontrando che alcuni gruppi di scimmie barrigudo che la salutavano con degli strepitosi escke!... escke!... e raggiunse felicemente il corso d'acqua, ma non vide alcun essere umano aggirarsi su quelle rive.
Riempì le cuie, poi s'affrettò a ritornare. Fatta la provvista d'acqua, s'occupò della legna.
I rami secchi e anche resinosi abbondavano sul margine della foresta, sicché poté formare, senza alcuna fatica, parecchi fastelli che portò all'accampamento.
«Ora possiamo attendere tranquillamente la notte» disse a Morgan.
«Avete fatto alcun incontro?» chiese il filibustiere.
«Nessuno»
Cenarono con un pezzo di lamantino avanzato dalla colazione ed alcuni manghi e banani, poi Jolanda accese i due fuochi e ne preparò un terzo verso la riva, essendosi ricordata che il giaguaro aveva cercato di girare intorno all'accampamento.
Aveva appena terminati quei preparativi, quando il sole scomparve. Gli uccelli si erano già ritirati nei loro nidi e soli volavano per l'aria, con dei bruschi zig zag, quegli schifosi pipistrelli chiamati vampiri, dal corpo peloso e le ali grandissime.
Morgan si era a poco a poco assopito, dopo essersi fatto promettere dalla fanciulla, che più tardi lo avrebbe svegliato perché montasse il suo quarto di guardia, se la febbre non lo prendeva.
Jolanda si sedette fra i due fuochi, come la notte precedente, sorvegliando il margine della foresta, perché solo da quella parte poteva giungere qualche pericolo.
Erano passate due o tre ore senza che si udisse alcun grido od un urlo sotto le folte piante, quando, non senza una certa inquietudine, vide due ombre scendere cautamente la costa e dirigersi verso la laguna.
Tuttavia pareva che non avessero alcun desiderio di accostarsi all'accampamento, che i due falò illuminavano come in pieno giorno.
Certo, il fuoco li teneva in distanza.
Jolanda si alzò per vedere quale specie di animali fossero e trasalì nello scorgere degli occhi fosforescenti.
«Due felini» mormorò. «Eppure non rassomigliano al giaguaro che è qui venuto ieri sera.»
E infatti erano più piccoli, di forme più svelte ed eleganti, ed avevano il pelame differente, d'un colore rosso-giallastro, che si oscurava sul dorso e diventava bianco-rossiccio sotto il ventre.
"Che siano due coguari?" si chiese Jolanda. "Mi hanno detto che anche quegli animali, se non sono feroci come i giaguari, non sono tuttavia meno pericolosi."
Le due belve passarono a dieci passi dai due fuochi, voltando la testa verso la fanciulla e mandando un rauco u... u!... poi continuarono a scendere verso la laguna.
Ad un tratto, Jolanda li vide spiccare un gran salto e piombare su qualche cosa che dapprima non seppe che cosa fosse.
«Che abbiano sorpreso qualche animale?» mormorò la fanciulla, guardando con maggior attenzione.
Un'esclamazione di collera le sfuggì dalle labbra e si accostò rapidamente a Morgan, svegliandolo bruscamente.
«Che cosa avete, signora?» chiese il filibustiere, alzandosi a sedere. «È il mio quarto?»
«Divorano le nostre provviste?»
«Chi?»
«Non so, vi sono due animali sbucati dalla foresta che cenano col nostro lamantino.»
«Che bestie sono?»
«Mi sembrano due coguari» rispose la fanciulla.
«Non commettete l'imprudenza di andarli a scacciare, signora» rispose Morgan. «Sono pericolosi quanto i giaguari e non esiterebbero ad assalirvi.»
«Se provassi a scaricare contro di loro la pistola?»
«Non sprecate la nostra ultima palla. Potremmo più tardi rimpiangerla.
«Lasciateli cenare; qualche cosa rimarrà anche per noi, essendo il lamantino assai grosso.»
Morgan s'ingannava nelle sue speranze, poiché quando i due coguari, pieni da scoppiare, se ne andarono, giunsero quasi subito per prendere parte al banchetto, due coppie di maracaya, poi alcuni yaguarabundi chiamati anche gati de monte, i quali divorarono gli ultimi avanzi del mammifero.
Quando finalmente il sole riapparve, la povera fanciulla dovette constatare che dell'enorme massa di carne non rimanevano che poche ossa triturate.
«Signor Morgan» disse, tornando verso il ferito «dovremo accontentarci di sola frutta. Quei ghiottoni hanno fatto scomparire tutta la nostra riserva.»
«Me lo immaginavo» rispose il ferito.
«Mi rincresce per voi, non avendo quasi nulla da offrirvi per la colazione di stamane.»
«Non inquietatevi per me, signora. Nella mia vita avventurosa, della fame ne ho sofferto e molta e nemmeno questa volta morirò. Fra tre o quattro giorni sarò in grado di alzarmi e vedrete che in due riusciremo a scovare qualche animale ed ucciderlo. Queste foreste devono essere assai ricche di selvaggina.»
«Ma no» disse a un tratto la fanciulla, la quale da qualche istante teneva agli occhi fissi sulle isolette che ingombravano la palude, «la colazione non ci mancherà! Anzi mi stupisco come non abbia pensato prima ai trampolieri.
«E come volete cacciare quei volatili? Sapete bene che non abbiamo che un solo colpo da sparare.»
«Penso alle uova dei trampolieri, signor Morgan. Sceglierò le più fresche e saranno cento volte più nutritive dei manghi e dei banani.»
«Siete veramente una donna impareggiabile, signora di Ventimiglia..»
«Il bisogno aguzza la fantasia e le idee, signor Morgan. Avete bisogno di me?»
«No, signora. Lasciatemi una spada e non preoccupatevi di me. D'altronde nessun pericolo mi minaccia e poi le belve raramente lasciano di giorno i loro covi.»
«Tornerò subito, signor Morgan.»
Capitolo ventiquattresimo
L'isola galleggiante
La brava fanciulla, certa che nessuno potesse minacciare il ferito e rassicurata dal silenzio che regnava nella vicina foresta, scese la riva, portando con sé lo spadone dello spagnolo, giacché poteva esserci qualche jacarè nella palude e s'imbarcò sul canotto, spingendolo al largo.
Come abbiamo detto, su quella savana sommersa si estendevano numerosi banchi melmosi, che le piante palustri avevano subito ricoperto e che servivano di rifugio ad un numero infinito di trampolieri chiassosi.
Jolanda, avendone osservato uno che pareva vastissimo e che era ingombro di canne altissime, si diresse verso quello, colla speranza di fare un'ampia provvista d'uova.
Non era lontano che mezzo miglio dall'accampamento ed essendo una canottiera abbastanza abile, in meno d'un quarto d'ora lo raggiunse.
Fu però non poco sorpresa, nel salirvi sopra, sentendolo muoversi ed abbassarsi lievemente, come se quell'isolotto non posasse sul fondo della laguna.
«È strana» mormorò. «Si direbbe che galleggia come una zattera. Che mi sia ingannata?»
Si provò ad avanzare fra le canne e si convinse che quell'isolotto doveva essere formato da un'amalgama di rami, arrestatisi là forse intorno a qualche ostacolo e poi intrecciatisi strettamente, in modo da formare una di quelle zattere rassomiglianti a quelle che si scorgono sulle acque del lago del Messico.
«Purché mi sostenga, non occupiamoci ad indagare come sia formato questo isolotto» mormorò la fanciulla.
Legò il canotto ad una delle canne, sfondò una linea di paletuvieri che formavano come l'orlo della zattera e s'inoltrò cautamente, sollevando intorno a sé una vera nuvola di trampolieri.
«I nidi non mancheranno di certo» disse Jolanda. «La raccolta sarà abbondante.»
Si mise a costeggiare l'isolotto e con viva soddisfazione s'avvide di non essersi ingannata nelle sue previsioni.
In mezzo alle canne, posate entro piccole buche col fondo coperto di foglie, vi erano delle uova in gran numero, alcune piccole ed altre grosse quasi quanto quelle delle galline.
La fanciulla scartò quelle passate, raccolse quelle che dalla loro trasparenza le parevano più fresche e le mise nella sottana, che aveva doppiata attorno alla cintola.
Stava per ritornare al canotto, lieta di essersi procurata una colazione sostanziosa e tutt'altro che cattiva, quando sentì l'isolotto inclinarsi dolcemente verso il margine opposto, come se qualche grosso animale tentasse di salirvi.
Dapprima provò un vago senso di terrore, trovandosi così lontana da Morgan; poi, ricordandosi di avere lo spadone dello spagnolo, un'arma poderosa e di buon filo, non ostante la ruggine che la ricopriva, la impugnò solidamente e fece una prudente ritirata verso il canotto.
«Con pochi colpi di remo raggiungerò la riva» si era detta.
Riaprì i paletuvieri e subito un grido d'angoscia le sfuggì.
Il canotto, che pochi minuti prima aveva legato ad una grossa canna, se ne andava lentamente alla deriva, girando dolcemente su se stesso.
«Ah!... Mio Dio!...» esclamò la disgraziata fanciulla. «Sono perduta!... Come farò ora ad abbandonare questo isolotto?»
Gettò all'intorno uno sguardo smarrito, e non vide alcuno aprirsi il passo fra le canne ed i paletuvieri. Eppure l'isolotto subiva di quando in quando delle leggiere oscillazioni, specialmente verso il margine opposto.
Qualcuno doveva, per qualche segreto scopo, aver lasciato allontanare il canotto, affinché la fanciulla rimanesse prigioniera sull'isolotto.
«Che vi sia qualche indiano nascosto fra questi vegetali?» si chiese Jolanda. «Eppure non ne abbiamo veduto. Che si tratti di quei terribili selvaggi?» si domandò, retrocedendo fino sul margine dell'isolotto. «Che cosa potrei fare io se mi assalissero in parecchi?»
Si era fermata, coi piedi quasi in acqua, scrutando attentamente le canne e sembrandole ad ogni istante di udire il sibilo di qualche freccia. Invece nulla; anzi, l'isolotto non si agitava più e si manteneva perfettamente immobile.
Un po' rassicurata, guardò il canotto. La debole corrente l'aveva spinto verso un banco pantanoso emergente dall'acqua di qualche palmo, lontano un centinaio di metri.
«Non potrò mai raggiungerlo» mormorò. «Non oserei immergermi fra queste acque, che possono nascondere dei voraci caimani: chissà anzi che non mi spiino in questo momento, in attesa di divorarmi.
«Cerchiamo di avvertire il signor Morgan, poi vedrò come potrò fare per raggiungere il canotto.»
Colle mani fece portavoce e gridò con quanto fiato aveva:
«Signor Morgan!...»
Il filibustiere, che si trovava a meno di mezzo miglio, udì distintamente la chiamata, poiché si sollevò più che poté, gridando a sua volta:
«Che cosa desiderate, signora di Ventimiglia?»
«Hanno tagliata la liana del mio canotto e non so come fare a ritornare.»
«È affondato?»
«No, si è arenato a cento metri da me.»
«E chi ha recisa la corda?»
«Non lo so, eppure temo che qualcuno si sia accostato all'isolotto.»
«Non potete costruire una zattera?»
«Non vi sono che delle canne, qui.»
Il filibustiere fece un gesto di disperazione.
«E non poterla aiutare in modo alcuno!» gridò. «Signora, sapete nuotare?»
«Sì.»
«Gettatevi in acqua senza indugio e raggiungete il canotto.»
«E gli alligatori?»
«È vero, non vi avevo pensato» rispose Morgan. «Cercherò io di venire verso di voi.»
«Ve lo proibisco. La vostra ferita s'inasprirebbe, e poi chissà se voi potreste riuscire nell'intento.»
L'isolotto si era nuovamente piegato verso il margine opposto, con degli scricchiolii sordi.
«Non spaventiamo inutilmente il signor Morgan, e cerchiamo di cavarcela meglio che è possibile» disse. «Io non devo contare su di lui o sarebbe capace di commettere qualche pazzia per venire in mio aiuto. La figlia del Corsaro Nero deve mostrarsi degna del padre.»
Aprì arditamente le canne colla mano sinistra e s'avanzò risolutamente colla spada tesa, pronta a colpire.
L'isolotto non aveva più di dieci metri di larghezza su una lunghezza di quindici o sedici, quindi in pochi istanti giunse sulla riva opposta.
Con sua sorpresa non vide nessuno. Solamente notò che un gruppo di fusti di legno cannone che crescevano su di un minuscolo banco, lontano pochi passi, si agitava ancora come se qualcuno vi si fosse nascosto nel mezzo.
«Deve essere stato un caimano» disse Jolanda. «Spinto dalla fame, avrà cercato di salire sull'isolotto colla speranza di sorprendermi.
«Lasciamolo in pace e cerchiamo invece di trovare qualche mezzo per raggiungere il canotto.»
Ad un tratto le sfuggì un grido di gioia.
«Io dimenticavo che quest'isolotto è galleggiante!» esclamò. «Cerchiamo qual'è l'ostacolo che lo trattiene e recidiamolo. Libero che sia, la corrente può portarmi là dove si trova il canotto, o per lo meno, verso la riva.»
Si mise a percorrere l'isolotto in tutti i sensi, spiccando, di quando in quando, un salto, per assicurarsi della sua solidità, facendolo ogni volta ondeggiare vivamente, e s'arrestò verso il centro dove ergevasi una massa informe coperta di muschi e di piante parassite.
«Che sia questo l'ostacolo?» si domandò. «Si direbbe che questo è un pezzo di tronco e che attorno ad esso tutte queste piante si sono fermate ed intrecciate strettamente.»
Prese lo spadone e tagliò muschi e piante, mettendo allo scoperto un pezzo d'albero ormai semi-imputridito che si scheggiava facilmente sotto i colpi dello spadone.
«Me l'ero immaginato» mormorò la fanciulla. «È questo che trattiene l'isolotto come un'àncora.
«Tagliato che sia, tutta questa massa seguirà la corrente ed in qualche luogo mi condurrà.»
S'appressò all'orlo del galleggiante e si mise a gridare:
«Signor Morgan!... Signor Morgan!...»
«Signora» rispose il filibustiere.
«Se ritardo a tornare, non inquietatevi. Ho trovato il mezzo di raggiungere egualmente la riva.»
«Non correte alcun pericolo? Ditemelo od io tenterò la traversata della laguna a nuoto.»
«Oh!... Non fatelo, non muovetevi, signor Morgan. Rimanete tranquillo e prima di mezzodì io sarò, spero, con voi.»
Fece ritorno al tronco e dopo d'aver tagliate all'intorno le radici delle piante acquatiche, che formavano il fondo del galleggiante, e aver levato i detriti vegetali già quasi convertiti in terriccio, si mise a lavorare a colpi di spadone con tutte le sue forze.
La lunga immersione aveva guastato il legno, una vera fortuna, poiché quell'albero, spezzatosi chissà per quale causa, ed affondato, aveva una circonferenza notevole, e certo la fanciulla non sarebbe mai riuscita a spezzarlo, senza l'aiuto d'una buona scure.
Lavorava già da una buona mezz'ora, con crescente accanimento, decisa a non interrompersi fino all'esaurimento completo delle sue forze, quando sentì l'isola nuovamente oscillare, poi piegarsi verso un lato.
«Che sia il caimano che ritenta l'attacco?» si domandò, voltandosi rapidamente. «Quel bestione vuole un buona lezione e gliela darò. Quei rettili non sono già voraci né pericolosi come i coccodrilli, e poi non sono molto agili a terra e le canne gl'impediranno di servirsi della sua coda.
«Finiamola!...»
Decisa ad affrontare l'ingordo sauriano, onde non venire da un momento all'altro sorpresa, si avanzò adagio adagio, scostando le canne dolcemente per non fare rumore.
Era già giunta dietro i paletuvieri, quando udì due tonfi, uno subito dopo l'altro e vide balzare in aria un fiotto di spuma giallastra.
Con un salto fu sul margine dell'isolotto e si curvò prontamente allungando lo spadone, poi si ritrasse subito, facendo un gesto di terrore.
Attraverso l'acqua, che era piuttosto trasparente, aveva veduta una forma umana nuotare velocemente e scomparire in mezzo alle larghe foglie dei mucumucù e delle victoria.
«Un uomo!...» avea esclamato. «E forse erano due!... Che siano indiani antropofagi?»
Si abbassò dietro le rizofore per non venire scorta e guardò il banco, che si trovava di fronte all'isolotto e su cui poco prima aveva veduto agitarsi i fusti di legno cannone.
Non erano trascorsi cinque secondi, quando vide una testa coperta da lunghi capelli biondastri, emergere quindi un corpo semi-nudo, scivolare fra le piante e scomparire.
Poco dopo un altro ne sorgeva a breve distanza e pure si nascondeva fra le piante.
«Sono due cannibali» mormorò la povera fanciulla, rabbrividendo. «Il colore dei loro capelli li ha traditi. Quei miserabili cercano di prendermi per divorarmi. Che siano due di quelli che ci hanno fatti fuggire? Il pericolo è grave e bisogna che mi affretti a liberare l'isolotto dall'ostacolo che lo tiene prigioniero.»
Per un momento ebbe il pensiero di avvertire Morgan, poi, riflettendoci meglio, vi rinunciò. Già non poteva esserle di alcun aiuto e nel tentativo di salvarla avrebbe commesso qualche pazzia.
Rimase in osservazione alcuni minuti, poi vedendo che i due indiani non si facevano vivi, quasi persuasa che non osassero affrontarla direttamente e che fossero privi d'armi, non avendo veduto indosso a loro alcun arco, anzi nemmeno un coltello, ritornò verso il centro dell'isola, riprendendo il duro lavoro.
Il tronco era già stato profondamente intaccato dalla grossa lama dello spadone, un'arma impareggiabile, forse di vero acciaio di Toledo, temprato nelle acque del Guadalquivir.
Ci volle una buona ora prima che quel pezzo di legno fosse tagliato a sufficiente profondità per permettere a quell'ammasso di radici e di piante di potersi liberamente muovere.
«Va!...» esclamò Jolanda. «l'isolotto si muove! Sono salva!»
Quel grido l'aveva mandato troppo presto.
La massa galleggiante si era appena messa in moto, quando s'inchinò bruscamente da un lato lasciando filtrare abbondantemente l'acqua attraverso le radici ed il terriccio, poi un urlo rauco, che sembrava l'urlo di guerra di un indiano, squarciò improvvisamente l'aria.
Jolanda aveva fatto un salto indietro, mentre un uomo di alta statura, quasi interamente nudo, grondante d'acqua, le si precipitò addosso allungando le mani per afferrarla.
Dalla tinta della pelle, assai più chiara di quella degli altri indiani, dagli occhi azzurrognoli invece d'essere neri e dal naso adunco come il becco d'un pappagallo, la signora di Ventimiglia aveva subito riconosciuto nel suo assalitore uno di quei feroci abitatori delle selve interne del Venezuela, che si pascevano di carne umana; tuttavia non si smarrì.
Aveva nelle vene il sangue del formidabile scorridore del mare e quantunque sola e giovanissima fece fronte all'impetuoso attacco del selvaggio.
Questi d'altronde era inerme.
«Indietro o t'uccido!» gridò la valorosa italiana, spingendo minacciosamente innanzi lo spadone.
L'indiano, che si credeva abbastanza robusto per misurarsi con una creatura che gli pareva debole, invece di dare indietro spiccò un salto per strapparle l'arma.
Jolanda con una mossa fulminea si sottrasse all'attacco, poi allungò il braccio armato, colpendo l'indiano sotto la gola e con tale violenza che la lama entrò nelle carni per parecchi pollici.
Il ferito mandò un urlo feroce, si portò le mani sullo squarcio per arrestare il sangue che sfuggiva a fiotti, poi fuggì via come un pazzo, rantolando.
Jolanda stava per slanciarglisi dietro onde costringerlo ad abbandonare l'isolotto quando udì dietro di sé le canne aprirsi violentemente.
Ebbe appena il tempo di voltarsi e di rimettersi in guardia che vide apparire il secondo indiano, che teneva in mano un grosso bambù terminante in una rozza punta.
Vedendo l'atteggiamento fiero e risoluto della fanciulla e soprattutto la spada che impugnava solidamente, ebbe un momento di esitazione.
Jolanda che vedevasi rizzare dinanzi la morte, ne approfittò per incalzarlo vigorosamente, vibrando tre o quattro stoccate.
La scherma non le era sconosciuta e sapeva valersi delle armi usate in quei tempi.
«T'uccido!...» gli gridò.
L'indiano, sorpreso di aver trovato quell'inaspettata resistenza e forse spaventato dal grido di morte del compagno, indietreggiò verso l'orlo della zattera, digrignando i denti e ruggendo come una belva.
Due volte aveva tentato di colpire la fanciulla colla sua arma primitiva, senza riuscirvi.
Vedendosi presso il margine cercò, con un salto improvviso, di fare inclinare quell'ammasso di radici e di piante, colla speranza di far cadere la valorosa fanciulla e di gettarsele poi addosso a tradimento.
Venutogli meno anche quel tentativo, tentò di scagliarsi sull'avversaria a corpo perduto e di stringerla fra le braccia; invece cadde in acqua con una puntata in mezzo al petto, che gli strappò un urlo di dolore.
Quasi nel medesimo istante le acque si gonfiarono bruscamente presso di lui, due enormi mascelle apparvero munite di denti formidabili e si chiusero con un lugubre scricchiolìo intorno al suo corpo, tagliandolo in due.
Il disgraziato ebbe appena il tempo di mandare un grido orribile e scomparve assieme al caimano, diventato inconsciamente alleato della giovane.
Jolanda atterrita da quell'atroce spettacolo era rimasta muta cogli occhi sbarrati, fissi sul cerchio di sangue, che s'allargava a fior d'acqua.
«Non supponevo che finisse così» disse, tergendosi il freddo sudore che le bagnava la fronte. «È orribile!... È orribile. Cerchiamo almeno di soccorrere l'altro, se è possibile.»
Il primo indiano, fuggendo, aveva tracciato un largo solco fra le canne e le piante non si erano ancora alzate. Lo seguì fino sul margine dell'isolotto senza trovare quel disgraziato. Le foglie dei paletuvieri erano imbrattate di sangue non ancora coagulato, ma l'indiano non vi era più.
Probabilmente era balzato in acqua ed era morto in fondo alla palude o era spirato su qualche banco vicino.
«L'hanno voluto» disse con voce triste. «Sarei stata ben felice di risparmiarli.»
Ritornò lentamente verso l'altro margine dell'isolotto e guardò verso la riva.
Morgan non si scorgeva più e nemmeno l'accampamento. La zattera si era spostata e filava dolcemente attraverso un ampio canale aperto fra i banchi, andando alla deriva.
Capitolo venticinquesimo
La marcia notturna
Jolanda, certa che anche il primo indiano fosse morto, cominciava a rassicurarsi; tuttavia non era troppo soddisfatta della via che seguiva l'isola galleggiante e che non poteva in modo alcuno modificare, non avendo forza sufficiente per spostare una simile massa, anche se avesse avuto a sua disposizione qualche remo.
Aveva dapprima sperato che andasse alla deriva verso il banco su cui stava ancora arenato il canotto; invece la corrente l'aveva tenuta assai lontana e la trascinava non già verso la riva, bensì verso il mezzodì, dove non scorgevansi, almeno fino allora, alberi di nessuna specie che indicassero la vicinanza d'una foresta e quindi la terra ferma.
«Che questa laguna sbocchi in mare?» si domandò con apprensione. «No, non è possibile» aggiunse poi, dopo essersi orientata col sole. «Il golfo del Messico sta verso il settentrione, ossia dietro di me.
«Dove va dunque quest'acqua? Che si riversi in qualche grande laguna interna? Come sarà inquieto il signor Morgan non scorgendomi più! Se potesse ancora udirmi ed avvertirlo. Proviamo!...»
Si spinse verso l'orlo dell'isolotto e con quanta voce aveva lo chiamò tre volte per nome, poi attese.
Poco dopo una voce assai lontana le rispose.
«Signora!... Signora!... Dove siete?... La corrente mi trascina verso il sud. Appena toccherò terra verrò a raggiungervi. Nessuno mi minaccia, quindi attendetemi senza angosciarvi anche se tardo.»
Si sedette sull'orlo della zattera, mettendosi a fianco la spada e trangugiò una mezza dozzina d'uova, fra quelle che aveva prese dai nidi, e deposte in una buca.
«Peccato non poter invitare il signor Morgan» disse. «Ed è lui soprattutto che ha bisogno di rinvigorirsi.»
Terminato il magro pasto, con alcune canne si costruì una piccola tettoia per ripararsi dai raggi del sole diventati ardentissimi ed attese pazientemente che la zattera approdasse in qualche luogo.
Il canale era terminato e dinanzi all'isolotto si stendeva una immensa superficie liquida, quasi sgombra di banchi, solcata solo da un numero infinito di uccelli acquatici, che volteggiavano con piena sicurezza anche sopra la testa di Jolanda e che si posavano senza alcuna diffidenza fra le canne.
Al sud invece, si cominciava a discernere una striscia un po' oscura, che doveva essere il margine di una foresta.
Doveva trovarsi là dietro il bacino di raccolta delle acque, poiché la corrente, quantunque fosse sempre debolissima, non variava direzione.
«Non giungerò all'altra sponda prima del tramonto» disse la fanciulla, che si era alzata per meglio osservare quella linea. «Quanta via dovrò poi fare per raggiungere il signor Morgan?
«E dovrò farla di notte, quando le belve escono dai loro covi per mettersi in cerca di preda! Eppure non posso lasciare solo il filibustiere, che si trova ancora così debole da non potersi difendere.
Tornò a sedersi sotto la tettoia, guardando le acque, che di quando in quando qua e là si gonfiavano, per mostrare qualche dorso rugoso coperto da scaglie fangose.
Erano dei caimani che giuocherellavano, inseguendosi. Fortunatamente pareva che non facessero nessuna attenzione all'isolotto.
La sponda intanto diventava sempre più visibile. Era assai bassa, tanto che pareva si trovasse a livello della laguna e coperta di alberi, che pareva appartenessero alla specie dei manghi, piantati su radici altissime e contorte che parevano uscire dall'acqua.
Il sole stava per tramontare, quando l'isolotto finalmente si arenò su quella riva che pareva costituita da pantani assai molli, i quali potevano benissimo nascondere delle sabbie mobili.
I manghi erano vicinissimi e le loro radici erano così unite da permettere il passaggio.
Jolanda, che diffidava di quel terreno traditore, si appese lo spadone al fianco, poi, aiutandosi colle mani e coi piedi, salì sulla radice più vicina, senza preoccuparsi delle proteste rumorose ed affatto inoffensive d'una banda di scimmie rosse che aveva occupati i rami per saccheggiarne le frutta.
Aggrappandosi alle liane, che pendevano numerose dai tronchi e che erano resistenti come corde di canapa e, guardando attentamente dove posava i piedi per non venire inghiottita dalle sabbie, dopo un quarto d'ora di ginnastica faticosa si trovò finalmente sul terreno solido, che era coperto di palme gommifere d'aspetto bellissimo e pittoresco.
«Risaliamo verso il settentrione» disse Jolanda, che pareva fosse instancabile. «Le belve ordinariamente non lasciano i loro covi prima della mezzanotte e per quell'ora avrò percorso un lungo tratto di via. Povero signor Morgan, come sarà inquieto!...»
Raccolse alcuni manghi che giacevano al suolo, se ne mise alcuni nella sottana ripiegata per serbarti per il ferito, non avendo prese con sé le uova per essere più libera, impugnò lo spadone e si mise coraggiosamente in cammino, costeggiando la laguna.
Il sole era già scomparso e lunghe file di trampolieri solcavano lo spazio per raggiungere le isolette, in mezzo alle cui canne avevano i loro nidi. La luna cominciava a mostrarsi al di sopra dei grandi alberi, tingendo di riflessi argentei le acque.
I rumori a poco a poco si spegnevano. Scimmie e volatili tacevano e cominciavano invece a ronzare le terribili zanzare che s'alzavano a battaglioni dai paletuvieri.
Jolanda affrettava il passo, tenendosi lontana più che poteva dal margine della foresta, per non venire improvvisamente sorpresa da qualche giaguaro o da qualche coguaro e si fermava sovente e tendere gli orecchi.
Fortunatamente anche la foresta, almeno fino a quel momento, era silenziosa e non si udiva che il lieve stormire delle fronde, appena agitate dal venticello notturno.
Nondimeno non si sentiva tranquilla e, quantunque avesse lo spadone, delle vaghe paure cominciavano ad infiltrarsi nel suo animo. Le pareva di vedere fra i cespugli della foresta agitarsi delle forme umane e scintillare anche gli occhi fosforescenti degli animali feroci.
Si fermò tre o quattro volte, guardandosi intorno con spavento, credendosi seguita da uomini o da animali, e chiedendosi se non sarebbe stato meglio rifugiarsi su qualche albero e attendere l'alba.
Ogni volta il timore che Morgan, l'uomo per cui, in fondo all'anima nutriva ormai qualcosa di più d'un semplice affetto, potesse correre qualche grave pericolo, la spronò a riprendere la marcia.
Camminava già da un paio d'ore, affrettando sempre più il passo, quando le parve che una figura mostruosa si agitasse sull'orlo della foresta a quaranta passi da lei.
La luna, che splendeva in un cielo purissimo, la illuminava solamente in parte, essendovi in quel luogo delle piante assai fronzute che proiettavano una folta ombra
Jolanda non riusciva a capire bene che animale fosse; le sembrava però una scimmia piuttosto che un giaguaro od un tapiro, e di dimensioni assolutamente straordinarie.
«Che sia un orangutan?» mormorò. «Eppure mi hanno assicurato che in America non si trovano che scimmie di piccola statura.»
Si provò a fare qualche passo innanzi, sperando di spaventare quel singolare animale; invece quello non lasciò il posto e continuò a dondolarsi comicamente ed a fare degli inchini.
Jolanda non sapeva che decisione prendere. Tornare indietro e riguadagnare la zattera non voleva; d'altronde esitava a perché quel quadrumane si trovava appunto là dove bisognava passare, essendovi la laguna da una parte ed il bosco dall'altra.
Finalmente si decise e avanzò.
L'animale la lasciò accostare senza fare alcuna dimostrazione ostile, poi, quando se la vide a pochi passi, si alzò e scappò verso il bosco. Cosa strana!... Nel muoversi erasi rimpicciolito e non sembrava più alto di una scimmia comune.
«Oh!... Curiosa!...» esclamò la fanciulla, ridendo. «Che sia stata una illusione ottica? Effetto di raggi di luna ripercossi sulle acque forse, che hanno ingrandito quello scimiotto?
Tutta lieta di essere sfuggita così bene a quel pericolo che non le era sembrato dapprima immaginario, riprese animosamente la via.
Dopo un'altra ora, mentre scendeva da una piccola altura che costeggiava la laguna, distinse finalmente in lontananza un punto luminoso.
«Il nostro accampamento!...» esclamò con voce giuliva. «Povero signor Morgan, come avrà fatto ad accendere il fuoco, ferito come è? Sarà ben lieto di vedermi.»
Raddoppiò il passo, senza più preoccuparsi delle urla dei lupi rossi, che di quando in quando risuonavano sotto gli alberi; ad un tratto, quando già non distava dall'accampamento che tre o quattrocento metri e cominciava a distinguere la minuscola tettoia, un grido la fece trasalire.
«Prendi, canaglia!...» aveva urlato una voce formidabile.
«Il signor Morgan!...» aveva esclamato Jolanda. «Dio mio!... È in pericolo!...»
Si mise a correre disperatamente, gridando:
«Signor Morgan, vengo in vostro aiuto!»
Vicino al fuoco mezzo spento vedeva un gruppo che si agitava e che sembrava formato da un uomo e da un animale.
Di quando in quando balenava in aria qualche cosa, come la lama d'una spada, che poi calava rapida, per rialzarsi subito.
La voce continuava a urlare:
«Eccone un'altra!... Non te ne vai ancora? Prendi dunque!...»
Poi si udivano dei rauchi brontolii, che finivano in una specie di ruggito soffocato.
Il filibustiere doveva essere stato assalito da qualche belva e si difendeva disperatamente a colpi di spada.
Jolanda si precipitò verso l'accampamento, gridando:
«Eccomi, signor Morgan!... Giungo in tempo!...»
«Guardatevene, signora» rispose il filibustiere. «È un coguaro quello che m'ha assalito!»
«Così saremo in due ad affrontarlo» rispose la valorosa fanciulla.
Il coguaro, vedendo sopraggiungere quel rinforzo, si volse per far fronte a quel nuovo nemico, e Morgan approfittò per tirargli un colpo di spada nelle natiche.
La belva mandò un ruggito di rabbia e di dolore, con un urlo abbatté la tettoia e fuggì verso il bosco, spiccando salti di tre o quattro metri.
«Grazie, signora» disse Morgan, con voce commossa. «Stavo per essere sopraffatto da quell'animalaccio. Come sono lieto di rivedervi! Cominciavo a temere che vi fosse successa qualche grave disgrazia.»
«Siete stato nuovamente ferito?» chiese la fanciulla, premurosamente.
«No, signora. Solamente la mia casacca è stata ridotta in cattivo stato. Ebbi il tempo di afferrare la spada e potei così tenere il coguaro a distanza.»
«Vi aveva sorpreso?»
«Sì, mentre stavo riattizzando il fuoco» rispose il filibustiere. Voi, da dove venite? Esporvi così, di notte, sola, su queste sponde che sono infestate da animali pericolosi.
«Non sono forse la figlia del Corsaro Nero?» disse Jolanda, sorridendo.
«È vero» rispose Morgan, imitandola. «Vi dico però che nessun'altra donna, specialmente alla vostra età, avrebbe avuto un tale coraggio.»
«Tacete, signor Morgan e ditemi, come va la vostra ferita?»
«Comincia già a cicatrizzarsi, signora.»
«Avrete sofferto fame e sete quest'oggi?»
«Ero troppo inquieto per voi per accorgermene.»
«Vi ho portato alcuni manghi.»
«Mi basteranno. Sedetevi e riposatevi, signora, e poi mi racconterete le vostre avventure.»
«Che sono terribili, signor Morgan. Per poco non venivo uccisa e divorata.»
«Da chi?» chiese il filibustiere, impallidendo.
«Da due di quegli indiani che ci hanno inseguiti.»
«Da quegli antropofagi?...»
«Mangiate, signor Morgan, poi vi racconterò tutto.»
Capitolo ventiseiesimo
Ricompare don Raffaele
Quattro giorni dopo, il filibustiere si dichiarò pronto a mettersi in marcia.
La ferita si era quasi interamente rimarginata, e, quantunque si fosse nutrito di sole frutta, le forze a poco a poco gli erano ritornate.
La sua robusta, anzi eccezionale fibra, aveva concorso non poco ad affrettare la sua guarigione.
Già il giorno innanzi si era provato a fare una breve passeggiata nel bosco vicino, senza provare alcun dolore.
«Partiamo, signora» disse dunque quella mattina, dopo una magra colazione di banane cucinate sotto la cenere. «Dobbiamo raggiungere il mare al più presto.»
7«Là sta la nostra salvezza.»
«Supponete che questa laguna abbia uno sbocco verso il golfo del Messico?» chiese Jolanda.
«Sì, perché io ho ieri osservato che la corrente scende verso il sud per sei ore, e che poi risale verso il settentrione.»
«Dunque queste acque subiscono il flusso e riflusso del mare?»
«Precisamente.»
«E sperate di trovare là Carmaux?»
«O per lo meno qualche villaggio di Caraibi. Quei selvaggi non sono più cattivi e rispettano gli uomini dalla pelle bianca, ora che hanno subìto la colonizzazione spagnola. Da loro potremo avere facilmente una buona piroga colla quale riusciremo a giungere alla Tortue. Colla promessa di qualche fucile, non si fanno pregare per accompagnarci.»
«E Carmaux?»
«Quando saremo alla Tortue manderò qui un drappello di bucanieri o di filibustieri a cercarlo.
«Dov'è il nostro canotto?»
«L'ho ricondotto qui ieri sera, mentre voi dormivate. La zattera che mi avete insegnato a costruire, mi ha trasportata fino al banco dove si era arenato.»
«Siete una fanciulla ammirabile, signora di Ventimiglia.»
Presero le spade e la pistola e scesero la riva, ma una dolorosa sorpresa li attendeva: l'imbarcazione era nuovamente scomparsa!...
«Che si sia affondata?» si chiese Morgan, diventando pallidissimo.
«Non lo ammetterò mai» rispose Jolanda, che appariva non meno sgomentata del filibustiere. «Era tutta d'un pezzo e non aveva alcuna crepatura.»
«Allora ce l'hanno rubata.»
«E quando?»
«Voi siete certa che vi fosse ancora ieri sera?»
«Sì, l'avevo legata con una liana nuova.»
«Qualcuno ce l'ha rubata approfittando dell'oscurità. Durante la vostra veglia non avete veduto nessuno?»
«Non mi parve, signor Morgan.»
Il filibustiere scese la riva e prese la liana che prima univa il canotto ad un fusto di legno cannone e la esaminò attentamente.
«È stata tagliata con un colpo di coltello o con qualche cosa di simile» disse. «Signora, io suppongo che altri indiani abbiano scoperto il nostro accampamento e la più elementare prudenza consiglia di andarcene di qui al più presto.»
«E dove?» chiese Jolanda.
«Nella foresta dove gli Oyaculè hanno inseguito Carmaux ed i due caraibi. M'ingannerò, eppure io spero di ritrovare ancora il mio marinaio»
«Sarà necessario attraversare il fiume, ma mi pare che l'acqua non sia troppo profonda e poi sono un buon nuotatore e non avrei difficoltà a portarvi sulla riva opposta.»
«Allora andiamo, signor Morgan» rispose Jolanda. «Marciando sempre verso il nord noi giungeremo in ogni modo al mare e voi avete una piccola bussola, è vero?»
«Sì, signora di Ventimiglia.»
Raccolse un grosso ramo per servirsene da bastone e si misero tutti e due in cammino, attraversando il promontorio boscoso.
Morgan s'avanzava adagio per non irritare troppo la ferita e di quando in quando si arrestava per scrutare i dintorni, temendo sempre una sorpresa da parte di coloro che avevano rubata la scialuppa.
La foresta sembrava invece deserta, non si scorgevano che pochi gruppi di cebo brune, scimmie dal corpo massiccio, ricche di pelo che si solleva in forma di cresta sul capo, terminante in un ciuffo e che poi si allunga come una barba, girando intorno al mento.
In dieci minuti Morgan e Jolanda attraversarono il lembo della foresta e giunsero sulla riva del fiume, in un luogo ove l'acqua non era molto profonda ed il guado possibile.
«Permettete che vi prenda in braccio, signora» disse Morgan. «Non voglio che vi bagniate.»
Stava per curvarsi onde prendere la fanciulla fra le braccia, quando alcune freccie sibilarono ai suoi orecchi, senza colpirlo, poi una turba d'indiani uscì correndo dalla foresta, maneggiando le pesanti mazze quadrangolari ed agitando gli archi.
Morgan snudò rapidamente la spada, gettandosi dinanzi a Jolanda per proteggerla, poi, coprendosi con un fulmineo mulinello, arrestò per un istante gli assalitori, gridando in lingua spagnola:
«Fermatevi o vi uccido!...»
Gl'indiani invece di obbedire si schierarono in semicerchio tendendo gli archi e puntando le frecce contro il petto del filibustiere.
Il momento era terribile. Era impossibile che a così breve distanza gl'indiani, che sono generalmente abilissimi arcieri, potessero mancare al bersaglio.
Morgan, comprendendo che la sua vita e quella di Jolanda erano in grave pericolo, abbassò la spada, dicendo con voce minacciosa:
«Che cosa volete voi dall'uomo bianco? Io non sono vostro nemico. Perché mi assalite?»
Un indiano che era più alto degli altri e che portava infisse nei capelli alcune penne di crace, con un cenno fece abbassare gli archi, poi s'avanzò di qualche passo, dicendo pure in lingua spagnola:
«Chi sei tu e da dove vieni?»
«Siamo naufraghi che la tempesta ha gettati su queste coste.»
«Sei tu che hai ucciso uno dei nostri capi che era qui venuto a cacciare il maipuri (tapiro) con un suo compagno e che poi non ha fatto più ritorno alla sua città?»
«Intendi parlare di Kumara, forse?» chiese Morgan, facendo un gesto di sorpresa ed insieme di gioia.
«Come conosci il mio nome?» chiese l'indiano, con non minore sorpresa.
«Io l'ho incontrato cinque giorni or sono presso la costa, assieme al suo compagno. Era stato sorpreso dagli Oyaculè e si era rifugiato nel mio accampamento.»
«Sono comparsi qui gli Oyaculè?» chiese l'indiano, con un tremito nella voce.
«Sì, e furono essi a dividermi da Kumara.»
«E dov'è ora il capo?»
«Io non lo so. È fuggito nella foresta assieme ad uno dei miei compagni e non ho più riveduto nessuno»
«Tu mi giuri sul tuo piaye che non l'hai ucciso?»
«Lo giuro» disse Morgan.
L'indiano si volse verso i suoi compagni e scambiò con loro alcune parole, in una lingua che il filibustiere non comprendeva, quindi tornò verso Morgan che stava sempre dinanzi a Jolanda e gli disse:
«Credo a quanto hai raccontato, uomo bianco. Dove andavi ora?»
«Verso la costa, colla speranza di veder passare uno dei nostri canotti.»
«Vieni invece al nostro villaggio che è situato pure presso le rive del mare, all'uscita delle acque della laguna. Noi ti accordiamo larga ospitalità e non avrai nulla da temere. Tu sai che i caraibi sono oggi gli alleati degli spagnoli.»
«Noi siamo pronti a seguirti.»
«È tua figlia quella fanciulla?» chiese il caraibo.
«No, mia sorella» rispose Morgan.
«Deve essere coraggiosa quanto è bella.»
«E saprà difendersi quanto un uomo di guerra.»
«È sotto la mia protezione e nessuno oserà alzare gli sguardi su di lei. Facciamo colazione, poi partiremo.»
Gli indiani si sedettero intorno a Morgan e a Jolanda e trassero dalle loro pagara (specie di ceste formate di foglie intrecciate) dei pesci che avevano pescati di recente e che avevano già arrostiti, alcuni quarti di kariacù (specie di cervo), dei banani, delle gallette di manioca e alcuni fiaschi di casciri, forte liquore che, bevuto in abbondanza, ubbriaca quanto l'acquavite.
Erano una quarantina, tutti di statura media, come lo sono anche oggidì i pochi caraibi sfuggiti alle stragi commesse dagli spagnoli, dai francesi, dagli olandesi, con spalle larghe, nerboruti, dalla pelle d'una tinta giallo-rossiccia, resa ancora più rossiccia da una mistura d'olio di cocco mescolato all'urina che solevano spalmarsi per difendersi dalle punture delle innumerevoli zanzare.
Avevano il viso tondo, grosso, d'aspetto un po' malinconico e gli occhi piccoli, neri e vivacissimi ed i capelli assai oscuri e grossolani.
Tutto il loro vestito consisteva in un piccolo gonnellino di cotone ornato di frange e palline di diversi colori; invece abbondavano di collane e di braccialetti formati con denti di belve, con cocche variopinte, becchi di tucano e cristalli di monte; molti avevano il setto nasale bucato e attraversato da una spina di pesce e sotto il labbro inferiore portavano, incastrato nella carne, un dischetto di legno od un pezzo di scaglia di tartaruga.
Quand'ebbero terminata la colazione, che fu consumata in silenzio, non avendo gli indiani dell'America meridionale l'abitudine di parlare durante i loro pasti, si dissetarono abbondantemente, poi diedero il segnale della partenza.
Morgan e Jolanda si misero dietro al capo, il quale, per dimostrare meglio le sue pacifiche intenzioni, non aveva prese nemmeno le loro spade.
Attraversarono un lembo della foresta, aprendosi faticosamente il passo fra quegli ammassi di verzura, e scesero verso la laguna, in una piccola cala dove si trovavano arenati sulla riva sette lunghi canotti fra cui quello che aveva appartenuto a Morgan.
«Sei stato tu a rubarmelo?» chiese il filibustiere al capo dell'orda.
«Sì» rispose l'indiano, ridendo. «Te l'ho preso ieri sera, poco dopo il tramonto. Avendo scorti i fuochi che ardevano nel tuo campo, ho costeggiato la laguna per vedere chi erano le persone accampate e, trovato il canotto, te l'ho preso. D'altronde non era tuo.»
«Apparteneva a Kumara» rispose Morgan.
«L'ho riconosciuto subito e, credendo che tu avessi ucciso quel valente guerriero, ti ho teso l'imboscata per vendicarlo.»
«Sospetti ancora che io l'abbia ammazzato?»
«No.» rispose l'indiano. «Presto, imbarchiamoci.»
I caraibi presero posto nei canotti, afferrarono le pagaie e la piccola flottiglia si spinse al largo, dirigendosi verso settentrione.
Morgan e Jolanda si erano installati nella piroga del capo, che era la più lunga e anche la più comoda, essendo riparata nel centro da una piccola piupa, ossia tettoia formata con foglie di waie e di maripa.
Verso sera i canotti giungevano alla foce d'un fiume o d'un canale che fosse, che pareva comunicasse col mare, scendendo la corrente verso la laguna.
Gl'indiani s'accamparono all'estremità d'un promontorio, accendendo numerosi fuochi per tener lontane le belve. Al mattino, allo spuntare del sole, tornavano ad imbarcarsi, remando con gran lena.
A mezzodì il canale s'allargò improvvisamente e subito apparve, su una delle rive, un villaggio acquatico, o aldè piantato su una enorme palizzata e composto di tre o quattro dozzine di carbè, gigantesche case formate da una immensa tettoia, lunghe da sessanta a ottanta piedi, alte diciotto o venti, coi tetti di canne e di foglie di latania.
Attorno alle palizzate, che sostenevano quelle ampie costruzioni, si scorgevano numerosi canotti, alcuni scavati nel tronco d'un cedro ed altri di bambù.
Udendo le grida dei guerrieri, dalle carbè e anche dalle jupa, che sono le capanne destinate alle donne, uscirono numerosi indiani seguìti da un gran numero di fanciulli, che salutavano l'arrivo della squadriglia con strilli così acuti da sfondare gli orecchi.
La canoa del capo, che era la prima, abbordò la palizzata più prossima ed il capo stesso aiutò Morgan e Jolanda a salire sulla piattaforma, dove si erano radunati alcuni sotto-capi, riconoscibili per le penne di craci e di tucani che portavano infisse nei capelli.
Il capo scambiò con loro alcune parole, poi facendo un gesto di sorpresa si volse verso Morgan, dicendogli in lingua spagnola:
«Tu hai detto il vero e ne sono lieto.»
«Perché?» chiese il filibustiere.
«Kumara è giunto qui ieri sera, sano e salvo.»
«E l'uomo bianco?»
«Gli uomini bianchi, vuoi dire.»
«No, ve n'era uno solo cogl'indiani.»
«Ve ne sono ora due: guarda. Ecco che giungono.»
Due uomini si erano precipitati fuori da una capanna e correvano verso Morgan e Jolanda, balzando attraverso le piattaforme e agitando pazzamente le braccia.
«Carmaux!...» aveva esclamato il filibustiere con gioia.
«E don Raffaele» aveva aggiunto Jolanda.
«Da dove è sbucato quello spagnolo?» si chiese Morgan, con stupore. «E lo dicevano morto!...»
«Capitano!... Capitano!...» gridò Carmaux, che arrivava come una bomba. «Salvi!... Salvi!... Ecco il più bel giorno della mia vita!...»
Capitolo ventisettesimo
Il rapimento di Jolanda
Un quarto d'ora dopo Morgan, Jolanda, Carmaux ed il piantatore di Maracaybo si trovavano radunati in una comoda jupa coperta da tre lati di stuoie, messa a loro disposizione da Kumara. Erano seduti davanti a due magnifiche oche marine perfettamente arrostite e ad un cumulo di gallette di cassava, di manghi e di ananassi.
Non mancava nemmeno un monumentale fiasco di casciri.
Tutti erano ansiosi di sapere in causa di quali fortunate circostanze erano riusciti a sfuggire alla morte; ma, sopratutto, meravigliava l'inaspettata presenza di don Raffaele che avevano creduto annegato.
La narrazione di Carmaux non aveva destato molto interesse.
Il bravo marinaio ed i due indiani, con una rapida corsa riuscirono a salvarsi nella parte più folta della foresta, dove gli Oyaculè non avevano osato inseguirli; più tardi, erano tornati verso il fiume per cercare Morgan e Jolanda e non avendoli trovati si erano decisi di recarsi all'aldè per chiamare soccorso e prendere un nuovo canotto onde perlustrare la laguna.
«Ora a voi, don Raffaele» disse Jolanda, quando Carmaux ebbe finito. «La vostra presenza fra questi indiani, per noi è assolutamente straordinaria.»
«Infatti, signora, mi sono salvato e sono qui giunto in modo miracoloso» disse il piantatore, che mangiava per due e baciava frequentemente il fiasco, con un accompagnamento di profondi sospiri. «Mi pare impossibile di essere ancora vivo. Mi avevano gettato in mare per affogarmi, signore; non è vero che io fossi caduto da me» disse don Raffaele.
«Chi ti aveva gettato?» chiese Morgan, aggrottando la fronte.
«Quel dannato capitano, temendo che io avessi riconosciuto...»
«Alt, camerata» disse Carmaux, strizzandogli l'occhio.
« il comandante della nave» riprese don Raffaele, che era già stato precedentemente avvertito dal marinaio di non fare cenno alcuno sul governatore di Maracaybo.
«E quale capitano?» chiese Morgan.
«Il signor Valera.»
«Quello che mi teneva prigioniera nei sotterranei del convento di Maracaybo?» chiese Jolanda.
«Sì, signora. Doveva essersi immaginato che ero stato io a condurre laggiù i due filibustieri del signor Morgan e non aspettava che l'occasione propizia per vendicarsi di me. Approfittando del momento in cui voi eravate occupati a turare le falle apertesi nel veliero, mi seguì sul castello di prora e, presomi a tradimento per le spalle, mi precipitò in mare, prima ancora che avessi avuto il tempo di mandare un grido.»
«E come vi siete salvato?» chiese Morgan. «Eravamo allora assai lontani da queste coste.»
«Ora ve lo narro. Quando tornai a galla, mezzo istupidito da quel bagno improvviso, la vostra nave era già lontana; ma vidi, a qualche gomena da me, il rottame della fregata che galleggiava ancora. Essendo un buon nuotatore, mi vi diressi ed avendo trovata una fune pendente dal bordo, mi vi issai. Il rottame, trasportato dal vento e anche da qualche corrente, s'infranse su queste coste e mi salvai quasi miracolosamente sulla spiaggia, dove venni poi trovato da alcuni indiani di questo villaggio e qui condotto.»
«Abbiamo infatti trovati gli avanzi della povera fregata» disse Morgan. «Don Raffaele, voi dovete essere nato sotto una buona stella.»
«Comincio a crederlo anch'io» rispose il panciuto piantatore. «Vorrei però...»
Che cosa voleva? Né Morgan né Carmaux poterono mai saperlo, poiché la conversazione fu improvvisamente interrotta da alcune scariche di fucili e da un gridìo assordante.
I due corsari, Jolanda e don Raffaele si erano precipitati fuori della capanna, mentre i caraibi passano a corsa sfrenata attraverso le piattaforme, seguìti dalle loro donne che urlavano disperatamente e dai loro bambini che strillavano a piena gola.
Kumara, vedendo comparire Morgan, gli si era slanciato incontro, dicendogli:
«Capo bianco, difendici!...»
«Chi vi minaccia?» chiese il filibustiere.
«Non so, degli uomini bianchi s'accostano all'aldè facendo fuoco.»
«Degli spagnoli?»
«Non mi pare.»
«Andiamo a vedere.»
Morgan girò intorno ad una gigantesca capanna, che gl'impediva di guardare verso la laguna e giunto sul margine della piattaforma scorse due enormi zattere cariche di persone, le quali sparavano dei colpi di fucile in aria e non già contro il villaggio.
Morgan e Carmaux avevano mandato due grida di gioia:
«I nostri compagni!...»
Erano infatti i filibustieri del veliero che s'inoltravano nel canale che comunicava col mare, spingendo faticosamente innanzi le zattere, che parevano formate cogli avanzi d'una nave.
C'erano, se non tutti, quasi tutti e Pierre le Picard era con loro.
Come si trovavano lì e sopratutto per quale combinazione fortunata erano riusciti, anch'essi, a sfuggire alla morte?
«Amici!...» aveva gridato Morgan con voce tuonante. «Cessate il fuoco!... Siete ospiti d'indiani che non vi daranno fastidi.»
Un urlo immenso si era alzato fra i corsari:
«Il capitano!... Il signor Morgan!...»
La prima zattera, spinta innanzi da una dozzina di remi, giunse ben presto sotto le palizzate e Pierre le Picard per il primo salì sulla piattaforma, gettandosi fra le braccia di Morgan.
«Anche la signora di Ventimiglia!...» esclamò, accorgendosi della presenza di Jolanda. «Ah!... Quale fortuna!...»
«E la nave?» chiese Morgan.
«Naufragata» rispose Pierre le Picard «Coi suoi rottami abbiamo costruite queste zattere.»
«Io ho percorsa la costa senza vederla.»
«Si è sfasciata su di un isolotto, lontano quindici miglia da queste spiaggie.
«Le onde ci avevano respinti nuovamente al largo, nel momento in cui tu venivi portato via assieme a Carmaux e alla signora di Ventimiglia e ci gettarono sopra dei bassi fondi. E tu? Ah!... Un momento. Mi dimenticavo di dirti che per poco gli spagnoli ci catturarono.»
«Quali spagnoli?»
«Una nave si è ancorata a poche miglia da qui, in una baia e per poco non scoperse i nostri galleggianti.»
«Una nave!» esclamò Morgan, nella cui mente era improvvisamente sorta un'idea.
«Sì e grossa; a quanto mi parve.»
«Pierre, quanti uomini hai?»
«Cinquanta, essendosene alcuni annegati. I prigionieri spagnoli sono invece fuggiti ieri sera, approfittando d'una fermata a terra.»
«Anche...»
«Sì» rispose Pierre, che lo aveva compreso.
Morgan trattenne a stento un gesto di rabbia, poi disse con voce sorda:
«Più tardi ci occuperemo di loro; per ora abbiamo qualche cosa di meglio da fare.»
Si curvò sull'orlo della piattaforma e, volgendosi verso i suoi corsari che attendevano il suo ordine per sbarcare, gridò loro:
«Approdate sulla riva opposta dove fra poco vi raggiungerò.»
«Che cosa vuoi fare, Morgan?» chiese Pierre le Picard.
«I tuoi uomini hanno salvate le armi, è vero?»
«È stato il loro primo pensiero e tutti hanno l'archibugio, la sciabola d'arrembaggio e munizioni sufficienti.»
«È grossa e molto bene armata la nave che hai veduta?»
«Un bel vascello, in fede mia» rispose Pierre le Picard.
«A noi non resta che tentare un colpo disperato, Pierre» disse Morgan.
«Vuoi impadronirti di quella nave?»
«Sì; è l'unica risorsa che ci rimane per poter lasciare queste coste e tornare alla Tortue.»
«Diavolo! Un'impresa che non sarà facile, Morgan. Quella nave, a giudicarla dalla sua grossezza, deve avere un equipaggio assai numeroso.»
«Noi non siamo abituati a contare i nostri nemici» disse Morgan «Orsù, non perdiamo tempo. Carmaux!»
Nessuno rispose. Il bravo marinaio, scorgendo sulla seconda zattera l'amburghese, il suo inseparabile amico, lo aveva subito raggiunto.
«Sarà con Wan Stiller» disse Pierre.
«Non importa» disse Morgan.
Si volse verso Jolanda che aveva assistito al colloquio senza parlare.
«Signora» le disse «noi partiamo per una spedizione che può riuscire pericolosissima e non desidero esporvi. Se vi lasciassi qui, sotto la guardia di Kumara e di don Raffaele, vi spiacerebbe? Quest'indiani sono brave persone, incapaci di tentare qualche cosa contro di voi.»
«Vi aspetterò, signor Morgan e perfettamente tranquilla» rispose Jolanda. «Quello che domando a voi è di non esporvi troppo. La morte d'un uomo così valoroso e così cavalleresco, la piangerei troppo.»
Morgan era rimasto muto, cogli occhi fissi sulla fanciulla, poi, con un gesto rapido, le aveva presa la destra portandola alle labbra.
«Signora» disse, con voce alterata da una gioia intensa «vivrò per voi e se una palla malaugurata mi attraverserà il petto, morrò col vostro nome sulle labbra.»
Un vivo rossore erasi diffuso sulle gote della fanciulla.
«V'aspetto, capitano» disse con un sospiro. «Che Iddio vi protegga.»
«Addio, signora, noi saremo di ritorno prima di questa sera.»
Morgan s'allontanò rapidamente come se volesse nascondere l'emozione che provava e scese in un canotto, dove già si trovava Pierre le Picard con quattro caraibi.
Jolanda, ritta sull'orlo della piattaforma, lo seguiva collo sguardo, sorridendogli, né si mosse finché il canotto non scomparve dietro gli isolotti che ingombravano il canale.
«Sono sotto la vostra protezione, don Raffaele» disse al piantatore. «Spero che, quantunque voi siate spagnolo, non mi tradirete.»
«Preferirei farmi uccidere, signora» disse il piantatore, con enfasi. «Ormai io sono amico dei filibustieri e se qualcuno vorrà toccarvi, proverà la forza delle mie braccia.»
«Conducetemi nella jupa che Kumara ha messa a nostra disposizione.»
«I vostri desideri sono ordini per me, signora.»
Le fece largo fra gl'indiani che si erano radunati in buon numero sull'ultima piattaforma e la precedette fino alla capanna; poi andò in cerca di Kumara che si trovava all'altra estremità del villaggio, onde mettesse una scorta d'onore a disposizione della fanciulla.
Aveva già combinato ogni cosa e stava per tornarsene alla capanna, girando le piattaforme meridionali, quando i suoi sguardi caddero su un canotto montato da una dozzina d'uomini e che sbucava in quel momento fra le isolette che si estendevano in buon numero anche da quel lato.
Fu tale l'emozione che provò nel riconoscere le persone che lo montavano, che dovette aggrapparsi ad un palo per non cadere.
Il pover'uomo non aveva torto a spaventarsi in quel modo, poiché fra quei dodici uomini che s'avvicinavano rapidamente al villaggio, aveva veduto il conte di Medina e la sua anima dannata, il capitano Valera.
Quando si riebbe, il canotto era ormai giunto dinanzi alle prime palizzate e gli spagnoli stavano salendo sulla piattaforma.
«Sono perduto!...» mormorò don Raffaele. «Il capitano mi getterà nella laguna e con una pietra al collo questa volta.»
Per un momento ebbe l'idea di correre alla jupa ed avvertire la signora di Ventimiglia, ma comprese che era troppo tardi e che non avrebbe potuto ormai fare nulla per salvarla.
«Se mi recassi ad avvertire il signor Morgan e Carmaux?» si chiese. «Forse non sono molto lontani e potrebbero tornare ancora in tempo per impedire al conte d'impadronirsi della fanciulla.
«Animo, non perdiamo tempo e mostriamoci coraggiosi una buona volta.»
Sotto la piattaforma vi erano parecchi canotti legati alla palizzata, forniti di pagaie.
Don Raffaele, che per la prima volta forse in vita sua si sentiva nel cuore un coraggio da leone, si lasciò scivolare lungo un palo e scese nel canotto più leggiero.
Stava per spingersi risolutamente al largo, quando un'idea balenatagli improvvisamente nel cervello, lo trattenne.
«Io stavo per commettere una sciocchezza» disse. Spinse il canotto sotto le piattaforme, passando abilmente fra la moltitudine di pali che le sorreggevano e si diresse verso l'angolo orientale del villaggio.
Mentre le attraversava udiva distintamente, sopra la sua testa, le donne e gli uomini chiacchierare ed i bambini ridere o strillare, essendo i pavimenti delle abitazioni formati da travicelli di bambù, coperti da tralicci di fibre legnose che non impedivano ai suoni di trasmettersi.
«Benissimo, benissimo» mormorò don Raffaele. «Non perderò una sillaba di quanto dirà il conte alla signorina di Ventimiglia, così potrò raccontare tutto al signor Morgan.»
Giunse così inosservato presso l'angolo orientale dell'aldè, dove sopra sorgeva la jupa che il capo aveva destinata a Jolanda.
Tese gli orecchi e udì un passo leggiero che ora s'accostava ed ora s'avvicinava.
«La signorina è sopra di me» mormorò. «Aspettiamo.»
Non erano trascorsi dieci minuti, quando udì dei passi pesanti, poi la voce del conte dire:
«Rimanete qui di guardia, capitano.»
«Maledetto briccone!» mormorò Don Raffaele. «Se potessi afferrare quel dannato Valera e tirarlo giù, sarei ben contento. Ah!... È entrato il conte!... Apriamo gli orecchi.»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Vedendo giungere quegli uomini bianchi e salire senza diffidenza sulle piattaforme, Kumara, seguíto dai sotto-capi, si era affrettato ad andarli a ricevere.
Appena trovatosi di fronte al conte di Medina, non aveva potuto frenare un grido di stupore ed insieme di gioia.
«Mi riconosci ancora, mio bravo caraibo?» chiese il governatore di Maracaybo, con un sorriso di contentezza.
«Tu sei il grande uomo bianco che comandava quella bella città che io ho visitato due anni or sono e che mi accolse da amico» rispose l'indiano.
«Sì» disse il conte «io ero allora governatore di Cumana. Sono lieto che tu abbia serbato buona memoria dell'accoglienza che ti feci in quella città degli uomini bianchi.»
«Tengo ancora i regali che tu mi hai dati. Che cosa posso fare ora per te? Sei mio ospite.»
«Fa dare una capanna e dei cibi ai miei uomini che hanno fame, poi conducimi al tuo carbè avendo io bisogno di parlarti.»
Il caraibo diede ai suoi sotto-capi alcuni ordini, poi rivolgendosi al conte:
«Seguitemi, grande uomo bianco» gli disse.
«Venite, capitano» disse il governatore, facendo a Valera un cenno.
Mentre gli uomini che li avevano accompagnati, e che altro non erano che marinai del veliero abbordato da Morgan, venivano condotti in una capanna. Kumara si diresse verso il suo carbè, che era assai vasto, introducendo il conte ed il capitano in una stanza appartata, prospettante la laguna.
«Siete in casa mia» disse, prendendo una zucca piena di casciri ed empiendo alcuni bicchieri che aveva ricevuto in dono dagli spagnoli di Cumana.
«Ascoltami attentamente» disse il conte «e se mi servirai fedelmente, io regalerò a te ed alla tua tribù armi, vesti e l'acqua che brucia la gola.»
«Conosco la generosità del grande uomo bianco» rispose Kumara, mentre i suoi occhi s'accendevano d'una fiamma vivida.
«Stamane io ho veduto passare per il canale sette od otto delle tue canoe, e su una vi erano un uomo bianco ed una fanciulla.»
«È vero» rispose l'indiano.
«Sono ancora qui?»
«L'uomo è partito due ore or sono assieme a molti altri uomini bianchi che erano qui giunti con delle zattere.»
Il conte guardò il capitano Valera.
«Che Morgan si sia riunito ai suoi uomini?» chiese.
«Certo» rispose il capitano.
«È il demonio che protegge quell'uomo? Lo credevo annegato ed invece ha ritrovato ancora i suoi maledetti corsari!... Quando finirà la sua fortuna?
«Sai, Kumana, dove si sono recati?»
«Lo ignoro, grande uomo bianco» rispose il caraibo. «Ho udito però parlare di uno di quei grandi canotti che hanno le ali.»
«D'una nave?»
«Sì, così voi li chiamate.»
«Che qualche legno corsaro abbia approdato su queste coste?» disse il capitano.
«La fanciulla è partita con quell'uomo?»
«No, è qui.»
Il conte aveva fatto un soprassalto.
«Qui!...» esclamò.
«Nella jupa che le lo destinata» disse l'indiano.
«Ecco una fortuna che non speravo!... Che superba rivincita!... Me la ritolga Morgan, se è capace. Bisognerà che ceda, la figlia del Corsaro.»
«Adagio, signor conte» disse il capitano. «Morgan può aver lasciata qui una scorta per proteggerla.»
«Non è rimasto che un uomo solo a guardarla» disse Kumara «e mi sembra, anzi, che sia uno spagnolo.»
«Se cercherà opporre resistenza lo getteremo nella laguna» disse il capitano, con accento risoluto.
«Andiamo a vederla e lasciatemi entrare solo» disse il conte. «Tu, Kumara, avrai quanto ti ho detto.»
«L'altro uomo bianco nulla mi aveva promesso» pensò il furbo indiano. «Serviamo questo.»
Prese il suo arco e le sue freccie e uscì seguíto dai due spagnoli, facendo cenno agl'indiani che si trovavano sul suo passaggio di allontanarsi.
Attraversò il villaggio acquatico e si fermò dinanzi alla jupa di Jolanda, dicendo:
«La bella fanciulla bianca è qui.»
«E l'uomo incaricato di vegliare su di lei?» chiese il capitano.
«Sarà andato a procurarsi del casciri» rispose l'indiano. «Mi ha già vuotato tre fiaschi, e del migliore, preparato appositamente per me.»
«Rimanete qui di guardia, capitano» disse il conte.
Si levò il cappello piumato, ed entrò risolutamente nella capanna, aprendo bruscamente la porta, non senza chiedere:
«Si può?»
La fanciulla stava in quel momento rassettando la casuccia, che era ingombra di canestri contenenti delle provviste e di stuoie di nipa.
Udendo quella voce si era vivamente voltata, mandando un grido di sorpresa.
«Voi, signore?» chiese, inarcando le sopracciglia, e facendo due passi indietro, mentre le sue gote si scolorivano.
«Mi riconoscete, signora di Ventimiglia?» chiese il conte di Medina con accentò un po' ironico, mentre s'inchinava e spazzava il suolo coll'estremità della lunga piuma del suo feltro.
«Non dimentico mai coloro che si sono dichiarati miei nemici» rispose Jolanda, che si era prontamente rimessa dalla sorpresa.
«Io credo, signora, che voi abbiate avuto sempre torto a considerarmi come vostro nemico» disse il governatore di Maracaybo, con studiata cortesia. «Avete mai pensato che io potessi essere, in qualche modo, un po' vostro parente?»
«Voi!...»
«Vostra madre era, se non m'inganno, una duchessa di Wan Guld.»
«E così, signore?»
«E nelle mie vene» disse il conte, alzando fieramente il capo, «scorre pure il sangue dei Wan Guld.»
«Mentite!...»
«Vostra madre, signora, nacque dalla prima moglie del duca; io sono nato da un'altra donna che fu come seconda moglie del duca di Wan Guld. Quale differenza passa dunque? Ma queste sono cose che non vi riguardano. Sangue ducale scorre pure nelle mie vene e basta.»
«Allora dovreste...»
«Proteggervi, è vero, signora?» chiese il conte con voce beffarda. «Disgraziatamente, io non sono tale uomo da difendere le persone che sono amiche dei ladri di mare e degli amici di vostro padre.»
Jolanda si era rizzata con una mossa di leonessa ferita, col viso rosso di collera, la destra tesa.
«Siete venuto qui a offendere la memoria di mio padre, signore?» gridò.
«Vostro padre» disse il conte «Chi era? Un filibustiere della Tortue, un ladro di mare al pari degli altri, insomma.»
«Signore!... Uscite!...»
«Sì, quando avrete firmata la rinuncia dei beni che mio padre il duca di Wan Guld possiede qui, nelle colonie spagnole dell'America meridionale e centrale. Un milione di piastre stanno meglio nelle mie tasche che nelle vostre. Voi, d'altronde, in Piemonte avete terre e castelli a sufficienza.»
«Non firmerò mai quella carta, signore.»
«Mai! Eh via, signora, altri hanno pronunciata quella parola e poi non sempre l'hanno mantenuta. Non mi conoscete ancora.»
«Sì, per un miserabile!» gridò Jolanda.
Il conte di Medina diventò pallido come un cencio lavato. Per un momento, la fanciulla lo vide curvarsi come un toro che si prepara a gettarsi sul toreador, poi inchinarsi profondamente, dicendo:
«Allora, signora, rimarrete mia prigioniera.»
«E non pensate che io sono sotto la protezione dei filibustieri della Tortue?» disse Jolanda.
«Sono ladri di mare!»
«Sono uomini formidabili.»
«Disgraziatamente per voi torneranno troppo tardi.» Poi con voce recisa, disse:
«Firmate?»
«No.»
«Badate!....,
«Delle minaccie a me!... No, non firmerò mai poiché ho la certezza che in seguito non potrei riacquistare la mia libertà!»
Una fiamma sinistra era balenata negli occhi del conte.
«Devo vendicare mio padre!...» gridò. «Mi avete indovinato!... Vi spezzerò in due!... A me, capitano!»
Valera, che stava presso la porta e che tutto aveva udito, con un salto si slanciò nella capanna, dicendo:
«Eccomi, signor conte.»
«Impadronitevi di questa fanciulla.»
Jolanda aveva fatto altri due passi indietro, cercando qualche arma. Il capitano, che aveva forse indovinata la sua intenzione, in un baleno le fu addosso, afferrandola attraverso la vita.
La fanciulla mandò un grido:
«Aiuto, caraibi!...»
Kumara era diventato però, almeno in quel momento, completamente sordo. Pensava alle armi, alle vesti e all'acqua che rode la gola del grande uomo bianco e credette opportuno di non muoversi.
«Firmate ora?» chiese il conte.
«No... mai!...» rispose Jolanda, che si dibatteva disperatamente fra le braccia del capitano.
Il conte uscì dalla jupa.
«Hai una canoa pronta?» chiese a Kumara.
«Ne ho più di cinquanta» rispose l'indiano.
«Chiama i miei uomini e falli salire sulla più grossa. Io ti aspetto a Cumana per consegnarti i regali che ti ho promesso.»
«Tu sei generoso, grande uomo bianco» rispose l'indiano. «Ed io stesso ti condurrò a Cumana. Prima di questa sera noi vi saremo.»
«E prima di mezzanotte noi salperemo per la Costarica e di là passeremo a Panama, è vero capitano?» disse il conte. «Vedremo se Morgan sarà capace di venire fin là a prenderla. Là abbiamo truppe e cannoni in così grande numero da tener fronte ad un'armata. Signora» disse poi. «Vi prego di seguirci.»
«E dove, signore?» chiese la fanciulla.
«Lo saprete più tardi.»
«E se mi rifiutassi?»
«Mi vedrei costretto, con mio grande rincrescimento, ad impiegare la forza.»
«Lasciate almeno che scriva un biglietto per il capitano Morgan» disse Jolanda. «Io ho contratto degli obblighi verso di lui.»
«Non acconsentirò mai. Sbrigatevi, signora, non abbiamo tempo da perdere.»
«Siete dei miserabili!» gridò Jolanda, con supremo disprezzo.
Il conte impallidì sotto quell'oltraggio, poi riprese subito il suo sangue freddo.
«Le offese d'una donna non si lavano col sangue» disse. «Basta: venite o chiamo i miei uomini.»
«Non voglio che i vostri sgherri mi tocchino. Vi seguo; il capitano Morgan saprà raggiungervi e vendicarmi.»
«Vedremo» rispose il conte, con un sorriso ironico.
Le offerse il braccio, che ella sdegnosamente respinse e uscirono dalla jupa.
Un gran canotto montato dagli spagnoli, da sei indiani e da Kumara, li attendeva dinanzi all'ultima piattaforma.
Don Raffaele, che temeva di essere scorto, si lasciò cadere nel fondo della sua imbarcazione.
Vide scendere prima il capitano, poi Jolanda, quindi il conte; poi il gran canotto prese rapidamente il largo dirigendosi verso settentrione.
«La conducono a Panama» mormorò il brav'uomo, asciugandosi la fronte. «La signora di Ventimiglia è perduta; i corsari mai riusciranno ad espugnare quella grande città, che è così lontana.
«Orsù, andiamo a dare la triste notizia al signor Morgan.»
Passò sotto le piattaforme remando con gran lena e si diresse là dove aveva veduto sbarcare i corsari, prendendo terra sul margine della immensa foresta.
Capitolo ventottesimo
La corvetta spagnola
Mentre il conte di Medina, con un colpo fortunato s'impadroniva della figlia del Corsaro Nero, Morgan alla testa dei suoi fidi corsari, si recava in cerca della nave spagnola che era approdata sulle coste venezuelane e che gli era necessaria per fare ritorno alla Tortue. Non aveva fatto ancora il suo piano d'attacco, tuttavia era più che certo che, prima che il sole cadesse, in un modo o nell'altro, avrebbe avuto in suo potere il legno spagnolo.
Pierre le Picard si era messo a capo della comitiva, avendo rilevato approssimativamente il luogo dove la nave aveva gettate le àncore. Con una marcia rapidissima, tre ore dopo giungevano sulla riva del mare, all'estremità d'una insenatura assai profonda, dove il legno, sia per fare provvista di acqua o per riparare delle avarie, aveva cercato un momentaneo rifugio.
I corsari si fermarono sotto una folta boscaglia, lasciando che solo i due capi si spingessero fino sulla spiaggia, per timore di venire scoperti e di mandare a male l'impresa.
La nave che era penetrata nel golfo, era una magnifica corvetta armata da guerra.
«Che cosa ne dici, Morgan?» chiese Pierre le Picard, che si era coricato presso al filibustiere.
«La nave è grossa e probabilmente avrà un bel numero di artiglierie e un equipaggio numeroso» rispose Morgan. «Eppure non dispero di sorprenderla col favore delle tenebre.
«Quel vascello ci è assolutamente necessario per ritornare alla Tortue. Chi oserebbe, in questa stagione, che è quella dei tremendi razzi di mare, tentare la traversata su dei canotti indiani, colla signora di Ventimiglia?»
«Hai ragione, Morgan. Ah!... Ecco una combinazione fortunata.»
«Che cos'hai, Pierre?»
«Non vedi gli spagnoli calare in acqua delle scialuppe cariche di barili?»
«Ebbene?»
«Scendono a terra.»
«Pierre» disse Morgan, alzandosi «credo di aver un bel colpo da tentare.»
«Quale?...»
«Lascia pensare a me. Raggiungiamo i nostri uomini senza perdere tempo. Ti prometto che prima di sera la corvetta sarà nostra. Andiamo ad imboscarci.»
«Che cosa vuoi tentare?»
«Lo vedrai fra poco.»
L'equipaggio aveva calato in acqua due grosse scialuppe ed una baleniera e vi avevano preso posto trenta o trentacinque uomini, tutti armati di archibugi e di scuri.
I due filibustieri, che si tenevano coricati dietro una macchia di passiflore, attesero che le scialuppe si dirigessero verso la costa, poi si alzarono e raggiunsero frettolosamente i loro compagni.
«Preparate le armi» disse loro Morgan. «Abbiamo da sorprendere le scialuppe che stanno per toccare la costa.» Poi, volgendosi verso Pierre, gli parlò sottovoce.
«Farò come vorrai» disse il luogotenente, dopo d'averlo ascoltato senza interromperlo. «La tua mente è sempre ricca d'espedienti. Mi crederanno poi?»
«Tu parli lo spagnolo benissimo e non dubiteranno di nulla.»
«Dove mi aspetterete?»
«Qui, in mezzo a questi alberi. È necessario che gli uomini rimasti a bordo non si accorgano dell'imboscata o leveranno le àncore e prenderanno il largo.»
«Bada che i nostri uomini non fucilino anche me.»
«Al primo colpo d'arma da fuoco gettati a terra.»
Pierre le Picard si levò la giacca ed i calzoni, non conservando che le mutande che strappò qua e là, gettò via anche gli stivali e la spada, raccolse un grosso ramo e s'allontanò, dicendo:
«Se mi uccideranno, mi vendicherete.»
«Saremo pronti ad impedire loro d'impiccarti» rispose Morgan.
Mentre i filibustieri si gettavano a terra, nascondendosi dietro le macchie, Pierre le Picard si era messo risolutamente in cammino, avanzandosi attraverso la foresta che era foltissima.
Si orientava in modo da poter giungere sulla spiaggia dove gli spagnoli dovevano aver preso terra.
Camminava da dieci minuti, quando udì dei colpi sonori echeggiare a breve distanza. Pareva che degli uomini abbattessero delle piante.
Pierre alzò gli occhi e vide che si trovava in mezzo di una vasta macchia di palmizi caraibici.
«Cercano i cavoli palmisti» disse. «Che siano a corto di viveri o che abbiano degli uomini colpiti dallo scorbuto a bordo? Animo, e badiamo di non raccontare delle sciocchezze.»
S'appoggiò al bastone, dandosi l'aria d'un uomo sfinito da una lunga marcia e si avanzò attraverso gli alberi, dirigendosi là dove risuonavano i colpi di scure.
Aveva attraversato un folto gruppo di simaruba, quando udì una voce esclamare:
«Toh!... Un selvaggio!...»
Quattro marinai stavano intorno ad un cavolo palmisto, occupati ad abbatterlo. Vedendo comparire Pierre, avevano deposte le scuri e raccolti precipitosamente i loro archibugi.
«Non fate fuoco, ragazzi» disse il filibustiere, in lingua spagnola. «Io non sono un selvaggio.»
«È vero, è un uomo bianco» disse uno dei quattro, abbassando l'archibugio. «Da dove venite, voi?»
«Sono un povero naufrago» disse Pierre, avanzandosi, «e vostro compatriota.»
I quattro marinai, pienamente rassicurati, lo avevano circondato, guardandolo con curiosità mista a compassione.
«Povero uomo» disse il più vecchio dei quattro. «È molto tempo che errate in questa foresta?»
«Tre settimane» rispose Pierre.
«Si è sfasciata la vostra nave?»
«Completamente e senza poter salvare nulla.»
«Come si chiamava?»
«La Pinta.»
«Ed i vostri compagni si sono tutti annegati?»
«La maggior parte, sì.»
«Non siete dunque solo?»
«Ci siamo salvati in sette.»
«Dove sono gli altri?»
«In una capanna che abbiamo costruita poco lungi da qui e sono tutti così sfiniti dalla fame che non possono nemmeno camminare.»
«Eppure abbondano i cavoli palmisti qui» osservò un altro.
«Non abbiamo nemmeno una scure per abbatterli.»
«Non vi lascieremo morire d'inedia» rispose il primo. «Aspettate che vada ad avvertire l'ufficiale e voi, camerati, date a questo povero uomo un po' di biscotto ed un sorso d'aguardiente, se ne avete ancora nelle fiaschette.»
Pierre le Picard, che recitava a meraviglia la parte insegnatagli da Morgan, aveva appena stritolati due biscotti e bevuto un po' di acquavite, quando vide tornare il marinaio accompagnato da un luogotenente e da una trentina di marinai.
«Dove sono i vostri compagni?» chiese l'ufficiale al filibustiere, che si era subito alzato. «Il mio marinaio Pedro mi ha raccontato che voi non siete solo.»
«È vero, signore» rispose Pierre le Picard «e non sono molto lontani.»
«Avete incontrati degl'indiani in questa foresta?»
«Non ne abbiamo veduto, signore.»
«La vostra nave si chiamava?»
«La Pinta.»
«Ed apparteneva?»
«Al dipartimento marittimo di Uraba. Nel Darien.»
«Sì, signore.»
«È vivo il capitano?»
«È morto nel naufragio.»
«Conducetemi dai vostri compagni. La nostra nave è abbastanza grossa per poter imbarcare otto o dieci uomini.»
«Grazie, signore» rispose Pierre le Picard, con sottile ironia. «Voi siete troppo buono. Se non vi rincresce, seguitemi.»
«Avanti» disse l'ufficiale volgendosi verso i suoi uomini.
Il drappello si dispose su una doppia fila e seguì il filibustiere che si era accompagnato al luogotenente.
Attraversarono un lembo della foresta, procedendo con una certa precauzione, poi ad un tratto Pierre le Picard finse d'inciampare in una liana, lasciandosi cadere come corpo morto.
Quasi nel medesimo istante si udì la voce di Morgan gridare:
«Fuoco!...»
Una terribile scarica era partita in mezzo ai cespugli, gettando a terra una decina di spagnoli, poi i filibustieri si erano slanciati fuori colle sciabole d'abbordaggio in mano, gridando:
«Arrendetevi!...»
Lo stupore dei sopravvissuti era stato tale, che non avevano nemmeno pensato di reagire. D'altronde, il numero dei nemici era così superiore da togliere loro ogni desiderio di tentare la resistenza.
Solo il luogotenente estrasse rapidamente la spada e si avanzò contro Morgan che era dinanzi a tutti, gridando:
«Chi siete voi che assassinate degli uomini bianchi al pari di voi?»
«Siamo dei nemici ben più formidabili degl'indiani» rispose il filibustiere, che aveva pure messo mano alla spada. Volete sapere chi siamo? Filibustieri della Tortue. Gettate le armi ed arrendetevi.»
Udendo quelle parole, il luogotenente fece un gesto di stupore.
«Voi, filibustieri della Tortue!...» esclamò
«Vi arrendete sì o no? Noi non abbiamo tempo da perdere.»
L'ufficiale esitava, poi vedendo che i suoi uomini lasciavano cadere gli archibugi, non sentendosi il coraggio di dare battaglia ad una così grossa partita di nemici tanto temuti, ruppe la spada, gettando i due pezzi in un cespuglio.
«Cedo alla forza» disse, facendo un gesto di rabbia. «Fucilateci, se lo credete.»
«Sono abituato a rispettare il valore sfortunato» rispose Morgan. «Voi avrete salva la vita, ve ne dò la mia parola.»
Quindi, volgendosi verso i suoi uomini che tenevano i fucili imbracciati, pronti a far fuoco, disse:
«Legate questi Signori.»
Mentre eseguivano i suoi ordini, mosse incontro a Pierre le Picard che rideva a crepapelle, sempre sdraiato fra le folte erbe.
«Grazie, Pierre» gli disse. «Tu mi dai in mano quella nave.»
«Non l'abbiamo ancora presa» rispose il luogotenente, sempre ridendo.
«Non dubito dell'esito finale» rispose Morgan. «Mancano due sole ore al tramonto e questa sera non si alzerà la luna.
«Una sorpresa la si può tentare.»
«E non s'inquieteranno, quelli rimasti a bordo, non vedendo ritornare i loro compagni?»
Morgan, invece di rispondere, chiamò sette od otto corsari, poi disse a Pierre le Picard:
«Conducimi là dove sono le scialuppe.»
«Non siamo lontani più di un chilometro.»
«In marcia, dunque.»
Il drappello partì di buon passo, mentre i filibustieri rimasti legavano agli alberi, con delle robuste liane, i prigionieri spagnoli.
Dieci minuti dopo, Morgan, Pierre ed i loro uomini giungevano presso la riva del mare. Si nascosero in mezzo alle piante, poi il capitano ordinò di fare una scarica in aria.
Un istante dopo i cannoni della corvetta tuonavano con un rimbombo assordante.
«Credono di spaventare dei selvaggi» disse Morgan. «Certo suppongono che i loro camerati siano stati sorpresi da qualche banda di caraibi.
«Inoltratevi nel bosco e continuate a sparare, allontanandovi dalla spiaggia più che potete; e noi, Pierre, sorvegliamo la nave.»
I corsari partirono di corsa, sparando di tratto in tratto e dirigendosi verso il centro della boscaglia per far credere che inseguissero i selvaggi.
«Vedi che non si muovono?» disse Morgan, dopo alcuni minuti. «Udendo i colpi d'archibugio sempre meno distinti, il comandante non dubiterà che i suoi uomini siano vincitori.»
«Sei un demonio, tu» disse Pierre le Picard.
«Cerco d'ingannarli» rispose Morgan, «e vedrai che noi ci riusciremo.»
Gli uomini rimasti a bordo non si erano mossi. D'altronde mancavano di scialuppe, non vedendosi sospesa alla grue che una piccola jola, appena capace di contenere tre o quattro persone.
Quando il sole scomparve, fecero tuonare nuovamente i cannoni del cassero per chiamare gli uomini rimasti a terra, poi accesero i due grandi fanali di poppa.
«È il momento d'agire» disse Morgan. «Va' a radunare i nostri corsari e conducili qui senza ritardo.»
«Devo lasciare delle sentinelle a guardia dei prigionieri?»
«Basteranno quattro» rispose Morgan. «Affrettati, Pierre, sono impaziente d'impadronirmi della nave.»
Il luogotenente partì di corsa. Un quarto d'ora dopo i corsari si trovavano radunati sulla spiaggia, pronti ad imbarcarsi.
«Pierre» disse Morgan «tu che parli lo spagnolo meglio di qualunque altro dei nostri, dà la voce a quelli di bordo.»
Il luogotenente gridò con quanto fiato aveva:
«Ohè, camerati!...»
Dalla corretta si udì un uomo rispondere tosto:
«Siete voi?»
«Sì.»
«Tutti?»
«Tutti.»
«Imbarca e tornate a bordo. Ed i selvaggi?»
«Sono in fuga.»
«Bene: a bordo.»
«Salite nelle scialuppe e non parlate» comandò Morgan. «Sono carichi i vostri archibugi?»
«Sì, capitano» risposero i corsari.
«Appena saremo sulla tolda del legno date dentro senza misericordia.»
I cinquantasei uomini s'imbarcarono in silenzio nelle scialuppe.
Morgan aveva preso posto nella più grossa, che era montata da diciotto corsari; Pierre nella baleniera; gli altri si erano stipati nella terza.
Staccatesi dalla spiaggia, le tre imbarcazioni si diressero velocemente verso la corvetta, in modo d'abbordarla da due lati.
La scialuppa di Morgan fu la prima a giungere sotto la scala di babordo che era rimasta abbassata.
Il filibustiere impugnò le armi e salì in fretta, seguíto dai suoi diciotto uomini.
Appena giunto in coperta, vedendo avvicinarsi alcuni marinai, scaricò contro di essi i due colpi della sua pistola, che furono subito seguìti da una scarica d'archibugi e dalle grida:
«Arrendetevi ai filibustieri o siete morti!...»
Gli uomini di guardia, spaventati, presi da un improvviso panico e vedendo cadere parecchi di loro, si erano dati alla fuga verso la camera di prora, precipitandosi all'impazzata giù per la scala.
«Occupate il quadro e fate fuoco su chi tenta di uscire!...» gridò Morgan.
Le altre due scialuppe avevano intanto abbordato il legno a tribordo e gli equipaggi erano saliti frettolosamente, mandando clamori feroci.
Pierre le Picard fece subito occupare il cassero ed il castello, dove si trovavano alcuni pezzi di cannone e collocare un forte drappello dinanzi alla camera comune di prora.
Nelle batterie del frapponte si udivano i marinai spagnoli a correre e urlare: «Tradimento!... Tradimento!....,
Morgan fece accendere quante lanterne poté trovare, poi ordinò di aprire il boccaporto.
Gli spagnoli, compresi gli ufficiali, avevano disertate le cabine del quadro e la camera comune, rifugiandosi nel frapponte, dove forse pensavano di opporre qualche resistenza.
Morgan si curvò sull'orlo del boccaporto, gridando: «Arrendetevi: la nave ormai è in nostra mano.»
Due o tre colpi di fucile, sparati a casaccio, furono la risposta.
«Vi prometto salva la vita» ripeté Morgan.
«Fuoco su quei ladri di mare!...» comandò una voce, che doveva essere quella del capitano.
Morgan si ritirò prontamente, mentre il frapponte s'illuminava di lampi. Gli spagnoli, invece di arrendersi, rispondevano vigorosamente.
«Vi snideremo egualmente» disse Morgan. «Pierre...»
«Eccomi» rispose il filibustiere, accorrendo.
«Guarda se nella camera comune o nel quadro vi è qualche cassa di granate.»
«Vuoi bombardare gli spagnoli?»
«Non ho alcun desiderio di salpare le àncore con tante persone a bordo che potrebbero giuocarmi qualche brutto tiro.»
«Saranno poi un centinaio?»
«Andiamo a vedere» disse Pierre. «Anche gli spagnoli conoscono le granate e ne fanno uso.»
Pochi minuti doop Pierre tornò, seguíto da otto marinai che portavano con precauzione due casse pesantissime.
«Ve ne sono qui tante bombe, da far saltare la nave» disse, facendole deporre dinanzi a Morgan.
Mentre i corsari svitavano le casse colle dovute precauzioni, gli spagnoli non avevano cessato di fare fuoco verso il boccaporto, massacrando le manovre dell'albero maestro e facendo cadere un gran numero di cordami. Erano però polvere e palle sprecate, poiché i corsari si guardavano bene di esporsi a quelle scariche che si succedevano con una frequenza furiosa.
Ad ogni intimazione di arrendersi quei valorosi, ignari del grave pericolo che li minacciava, rispondevano con colpi di archibugio e con insolenze, promettendo che avrebbero fatto saltare la Santa Barbara piuttosto di lasciarsi prendere.
Morgan, sicuro di tenerli, non si preoccupava però gran che. Prese una granata, accese tranquillamente la miccia e la scagliò nel frapponte. Lo scoppio fu seguíto da urla terribili e da passi precipitosi.
Gli spagnoli, che non s'aspettavano di certo quella sorpresa, si erano ritirati verso le estremità delle corsìe per mettersi al coperto dai frammenti delle granate e continuare a tenere testa.
I filibustieri, furiosi per quella inaspettata resistenza, avevano cominciato a lanciare i proiettili in tutte le direzioni, per impedire ai loro avversari di organizzare la difesa.
Già una ventina di granate erano cadute nel frapponte, quando, fra i lampi dei colpi d'archibugio, si vide un uomo avanzarsi sotto il boccaporto e lo si udì gridare:
«Basta!... Ci arrendiamo, se ci promettete salva la vita.»
«Sia!...» rispose Morgan. «Salite a due a due dal quadro di poppa.»
«Giurate che ci risparmierete.»
«Morgan non ha che una parola.»
Un grido di stupore e di spavento era echeggiato nel frapponte della corvetta: «Morgan!... Il famoso filibustiere!...»
Poi la voce che poco prima aveva comandato il fuoco, disse:
«Siete voi veramente Morgan, il vincitore di Portobello?»
«Sì, io sono Morgan il filibustiere» rispose il corsaro.
«Allora mi arrendo.»
«Uscite dal quadro a due a due, o noi continueremo a scagliare bombe finché sarete tutti distrutti.»
Nel frapponte si udirono dei bisbigli, poi dei passi affrettati, quindi un fragore sordo come di fucili che vengono lasciati cadere al suolo.
Morgan aveva fatto radunare una ventina dei suoi uomini dinanzi alla scala del quadro, cogli archibugi spianati.
Poco dopo un uomo comparve tenendo in mano una spada.
«Dov'è il signor Morgan?» chiese.
«Eccomi» rispose il filibustiere avanzandosi e puntando sullo spagnolo la pistola.
«Ecco la mia spada. Io sono il comandante della corvetta.»
«Conservate la vostra arma» disse il filibustiere. «Voi siete un coraggioso.»
«Grazie, signore» rispose lo spagnolo, ringuainandola. «Ditemi però che cosa farete di me e dei miei uomini.»
«Vi sbarcheremo senza fare né a voi, né a loro alcun male. A me basta avere la nave che ormai mi appartiene per diritto di conquista.»
«Voi avete ragione, signore, dal momento che noi non siamo stati capaci di difenderla. Non sperate tuttavia di sbarcarmi vivo.»
Nel medesimo istante, con un gesto fulmineo, il valoroso comandante si puntava una pistola alla fronte, bruciandosi le cervella e cadendo esanime ai piedi di Morgan.
«Ecco un uomo che poteva rivaleggiare col nostro coraggio» disse il filibustiere, profondamente impressionato. «Presentate le armi al valore sfortunato.»
Mentre i corsari, non meno commossi, obbedivano, altri ufficiali e marinai si presentavano all'uscita del quadro.
Morgan li fece condurre nelle scialuppe, sotto buona scorta, ordinando di tradurli a terra.
Dieci minuti dopo sulla corvetta non rimaneva più degli spagnoli che il cadavere del comandante, coperto dal grande stendardo di Spagna, ammainato appositamente dal corno dell'artimone.
Capitolo Ventinovesimo
Un'impresa pericolosa
Dopo tante disgraziate vicende, la fortuna aveva finalmente arriso a quel pugno di valorosi.
La nave, che con tanta astuzia ed audacia avevano conquistata e senza subire perdita alcuna, non valeva certo la fregata che li aveva affrontati dinanzi al forte della Barra di Maracaybo, era però infinitamente migliore di quella montata dal conte di Medina che avevano abbordata col rottame.
Si trattava d'un solido veliero, alto di ponte, armato di dodici pezzi di grosso calibro e quasi nuovo. Doveva aver fatto parte di qualche squadra incaricata di scortare qualche convoglio di navi mercantili od i famosi galeoni, recanti in Europa l'oro estratto dalle ricche miniere del Perù e del Messico.
Probabilmente qualche colpo di vento lo aveva separato dal grosso, costringendolo a cercar rifugio sulle coste venezuelane.
Morgan e Pierre le Picard, accertatisi che la corvetta, contrariamente a quanto avevano supposto, era anche sufficientemente fornita di viveri, deliberarono di richiamare senza ritardo gli uomini che avevano lasciati a terra a guardia dei primi prigionieri e di muovere verso il villaggio dei caraibi per imbarcare la signora di Ventimiglia.
«Tu» che hai percorso quel canale comunicante colla laguna, credi che troveremo acqua sufficiente per inoltrarci fino all'aldè di Kumara?»
«Sì, il canale è profondo quanto basta» aveva risposto Pierre.
«Fa dunque ritirare i nostri uomini e portare ai prigionieri alcuni moschetti e dei viveri, onde non muoiano di fame in mezzo alla foresta.»
Pierre le Picard stava per obbedire, quando, verso la costa, si udì la voce di Carmaux che gridava:
«Signor Morgan!... Signor Morgan!... Mandate subito una scialuppa!... Presto!... Presto!...»
«Che cosa vuole quel brav'uomo?» si chiese il filibustiere, il quale provò nondimeno un sussulto.
«Otto uomini nella baleniera!...» comando Pierre. La scialuppa che non era stata innalzata sui paranchi, partì quasi subito montata da otto corsari, dirigendosi frettolosamente là dove Carmaux continuava a gridare:
«Presto, camerati!... Più presto!...»
La baleniera toccò la spiaggia, poi tornò con rapidità fulminea verso la nave, coll'equipaggio aumentato di due uomini.
«Uno è Carmaux di certo» disse Pierre, che si era collocato dietro Morgan. «Chi può essere l'altro?»
Morgan non aveva risposto. Curvo sulla scala, guardava attentamente l'uomo che sedeva presso Carmaux, tentando di ravvisarlo.
Quando la baleniera giunse presso la corvetta, un grido di doloroso stupore sfuggì dalle labbra del filibustiere:
«Don Raffaele!...»
«Il piantatore!...» esclamò Pierre. «Per quale motivo ha lasciato l'aldè dei caraibi?»
Morgan era impallido. Presentiva già una disgrazia.
Il piantatore, quantunque fosse rotondo come una botte e pesante come un piccolo ippopotamo, saliva in fretta, spinto da Carmaux.
«Signor Morgan...» grido con voce affannosa... «l'hanno rapita... i birbanti...»
«Chi?» urlò il filibustiere, afferrandolo per un braccio e scuotendolo violentemente.
«Lui... il conte... ci ha sorpresi ed ha condotta via la signora di Ventimiglia.»
Morgan mandò un urlo come di belva ferita e aveva fatto due passi indietro, portandosi una mano sul cuore. Quell'uomo, ordinariamente così calmo e freddo, era in quel momento così trasfigurato da un dolore intenso, che i suoi uomini, accorsi subito alla notizia che don Raffaele era tornato, ne furono profondamente commossi.
«Udiamo» disse Pierre le Picard. «Spiegatevi meglio, don Raffaele.»
Il piantatore narrò meglio che poté quanto era avvenuto nell'aldè dei caraibi dopo la loro partenza, e riferì il colloquio che aveva udito fra il conte di Medina, il capitano Valera e la signora di Ventimiglia.
«A Panama!... La conducono a Panama!...» gridò Morgan, facendo un gesto di disperazione.
Poi, completamente accasciato da quella notizia, si era appoggiato contro la murata, tergendosi nervosamente il sudore freddo che gli bagnava la fronte.
«Tu l'ami, è vero?» gli sussurrò Pierre, avvicinandoglisi.
«Sì» rispose il filibustiere.
«Me n'ero accorto. Che cosa dobbiamo fare per strapparla un'altra volta dalle mani di quel maledetto conte? Tu sai come noi tutti ti amiamo e di che cosa siamo capaci. Speri di poter raggiungere la nave prima che tocchi i porti dell'America Centrale?»
«È quello che tenteremo» rispose Morgan, che riacquistava a poco a poco la sua energia.
«Don Raffaele» disse Pierre. «Siete mai stato a Panama?»
«Vi sono nato, signore» rispose il piantatore.
«Allora conoscete il passo dello Chagres?»
«È il solo che conduce a Panama.»
«Vi è una guarnigione colà?»
«Sì, e ce n'è una nell'isola di Santa Caterina, abbastanza numerosa... ma, signore, io, dicendovi ciò, tradisco la mia patria.»
«Anche senza le vostre spiegazioni nessuno ci tratterrebbe. «Comanda, Morgan. Dove dobbiamo andare, innanzi tutto?» chiese Pierre
«A bruciare il villaggio dei traditori» rispose Morgan. «Guai se Kumara cadrà nelle mie mani.»
«A quest'ora, signore, egli è a Cumana ed il conte sarà salpato per l'America Centrale» disse don Raffaele.
«Ritengo inutile perdere del tempo prezioso» disse Pierre. «Veleggiamo senza ritardo verso la Tortue e là vedremo cosa dovremo fare.
«Non ci mancano né uomini, né navi.»
Morgan trasse in disparte il suo luogotenente, dicendogli:
«Giuro su Dio che se non raggiungeremo il conte prima che sbarchi a Chagres, io vi condurrò sotto le mura di Panama.»
«Tu mediti una simile impresa!...» esclamò Pierre. «Come vorresti attraversare l'istmo ed espugnare una così grande città, la più popolosa e la meglio fortificata di tutte quelle che posseggono in America gli spagnoli?»
«Eppure mi sento l'animo di condurre a buon fine una simile impresa, che renderebbe maggiormente temuta la filibusteria» disse Morgan.
«Alla Tortue non mancano uomini audaci, pronti a qualsiasi cimento e quanto alle navi, oggi ve ne sono in abbondanza nella nostra isola. Che mi diano mille corsari ed io li condurrò a vedere la regina dell'Oceano Pacifico e darò loro milioni e milioni di piastre.»
«Sarebbe meglio per noi poter mettere le nostre zampe sul conte, prima che sbarchi sulle coste dell'istmo!» disse Pierre le Picard. «Se si potesse sapere quale rotta terrà, sarebbe una gran bella cosa.»
«Ed in quale modo?»
«Dove supponi che si sia recato colla signora di Ventimiglia?»
«L'avrà condotta nel porto più prossimo.»
«A Cumana, allora, che è vicino. Se potessimo mandare là qualcuno ad informarsi qualcuno dei nostri »
«L'idea non mi dispiace. Uomini di fegato ne abiamo finché vogliamo. Ah!...»
«Che cosa vuoi?»
«Don Raffaele che può esserci ancora molto utile.»
Si guardò intorno e scorgendo sul cassero il piantatore che chiacchierava con Carmaux e coll'amburghese, lo raggiunse, chiedendogli:
«Aveva cavalli il conte di Medina?»
«Nessuno, signore.»
«Dove si è diretto?»
«A Cumana, che è la città più vicina e dove troverà navi in abbondanza, essendo quel porto assai frequentato.»
«Conoscete qualcuno laggiù?»
«Sì, un notaio che anni orsono abitava in Maracaybo e che è un po' mio parente.»
«Vorreste recarvi colà assieme a due dei miei uomini?»
«Correrei il rischio di farmi impiccare come traditore.»
«La vostra vita mi appartiene e ve l'ho risparmiata già un paio di volte.»
«Riflettete, signore, e non dimenticate che io sono uno spagnolo.»
«Che sarebbe ben lieto però di vendicarsi del capitano Valera.»
«Non lo nego» rispose don Raffaele; «ed è appunto del capitano che io ho paura. Se è ancora a Cumana potrebbe riconoscermi e farmi stringere il collo con una buona cravatta.»
«Vi trasformeremo in modo da rendervi irriconoscibile, se lo desiderate, e poi non vi obbligo a mostrarvi al vostro nemico. Non vi chiedo altro che di condurre due dei nostri in quella città e di farli ospitare nella casa del vostro amico. Non desidero altro da voi.»
«Non mi comprometteranno i vostri uomini?»
«Non vi daranno alcun fastidio e vi lasceranno libero, dopo che li avrete condotti da quel notaio. Accettate?»
«Farò quello che vorrete» rispose don Raffaele, con un sospiro.
«Seguitemi nel quadro e tu, Pierre, prepara tutto perché all'alba la nave possa salpare senza ritardi.»
Mentre stava per scendere nel quadro assieme allo spagnolo, Carmaux e Wan Stiller s'accostarono a Pierre, che si preparava a mandare a terra delle scialuppe, onde far ritornare gli uomini rimasti a guardia dei prigionieri.
«Si parte dunque, signor Pierre?» chiese Carmaux.
«È vero che si va a Panama?»
«Sembra» rispose il filibustiere.
«Benone» disse il francese. «Speriamo questa volta di torcere il collo a quel furfante di conte. Amico Stiller, andiamo a dormire.»
Invece però di ritirarsi nella camera comune, si cacciarono sotto il castello di prora che era ingombro di vele e di cordami e trassero da un bugliolo due bottiglie polverose che guardarono amorosamente.
«Beviamo, compare» disse Carmaux «e scacciamo un po' il malumore. Devono contenere dello Xeres eccellente, avendole prese nella dispensa del capitano spagnolo.» Baciò il collo della bottiglia, poi: «Tuoni di Brest!... Perdere ancora la signora di Ventimiglia, quando era ormai nostra!...» esclamò.
«La riprenderemo, compare.»
«E quando?»
«Il capitano Morgan è un uomo capace di andare anche a Panama.»
«Un'impresa che nessun filibustiere ha mai sognato di tentare.»
«La tenterà lui. Bevi, compare.»
«Corpo...»
Carmaux si alzò bruscamente alzato, vedendo un'ombra comparire sotto il castello.
«Il capitano!...» aveva esclamato, cercando di nascondere le bottiglie.
«Continua pure a bere, Carmaux» disse Morgan, poiché era lui in persona. «Intanto, rispondi.»
«Se posso offrirvi, signor Morgan» disse il francese, con aria imbarazzata.
«Più tardi. Ho altro da fare per il momento.»
«Voi sapete, capitano Morgan, che noi siamo i pezzi vecchi della filibusteria, sempre pronti a qualunque sbaraglio.»
«È perciò che ho pensato a voi, che siete stati i più fedeli marinai del Corsaro Nero.»
«Avete qualche missione da affidarci, capitano Morgan?» chiese Wan Stiller.
«Voi conoscete Chagres?»
«Ci siamo stati, anni or sono, coll'Olonese» rispose Carmaux. «Brutta borgata dove si beve male e si mangia peggio.»
«Hai conoscenze laggiù?»
«Sì, signor Morgan, un taverniere basco che mi ha fatto assaggiare del Malaga che poi non ho più bevuto in vita mia.»
«Fidato?»
«Eh!... Un basco non è né spagnolo, né francese, sta fra gli uni e gli altri, a seconda che gli conviene. Si chiamava... aspettate, capitano.»
«Ribach» disse Wan Stiller.
«Sì, Ribach» ripeté Carmaux.
«Dovrete andarlo a trovare, mentre io alla Tortue organizzerò una poderosa spedizione per attraversare lo stretto e piombare su Panama» disse Morgan.
Carmaux aveva fatto un soprassalto.
«Milioni di cannoni!...» esclamò.
«Io non so ancora se sarà necessario spingersi così lontano ed affrontare i gravi pericoli che presenterà tale impresa. Se però tu e Pierre le Picard giungerete troppo tardi a Chagres per arrestare il conte di Medina, noi marceremo su Panama, parola di Morgan. Sono risoluto tentare tutto pur di riavere la contessa di Ventimiglia, dovessi dare fondo a tutte le mie ricchezze.
«Ho già preso gli accordi opportuni con Pierre le Picard perché mi preceda a Chagres assieme a voi e ad un buon numero di filibustieri. Vi domando ora di rendermi un servizio urgente.»
«Lo so, miei bravi» rispose Morgan. «Siete mai stati a Cumana?»
«Mai, signore.»
«Vorrei mandarvi colà assieme a don Raffaele.»
«Ci andremo» risposero Carmaux e l'amburghese ad una voce.
«Sapete come gli spagnoli trattano i filibustieri che cadono nelle loro mani.»
«Nessuno ignora che tengono sempre in serbo un bel numero di cravatte di canapa per noi» disse Carmaux ridendo. «Ce ne guarderemo, signor Morgan, non datevene pensiero. Diteci invece che cosa dobbiamo fare a Cumana.»
«Informarvi della rotta che terrà il conte di Medina, della nave che avrà noleggiata e della sua esatta destinazione.»
«Volete possibilmente assalirlo prima che sbarchi nell'America Centrale?»
«Sì, se farò in tempo» rispose Morgan.
«Come andremo a Cumana? A piedi?»
«Colla baleniera che Pierre sta già fornendo di vele e di reti.»
«Fingeremo di essere dunque dei pescatori?»
«Sì, cacciati dalla tempesta sulle coste venezuelane. Io verrò ad incrociare fra due giorni dinanzi a quella baia per raccogliervi e non partirò senza avere vostre notizie. Ho fatto collocare nella scialuppa dei razzi, che voi accenderete su qualche punto della costa. Noi saremo pronti ad accorrere.»
«Va bene, signor Morgan» risposero i due corsari.
«La baleniera è già in acqua.»
Carmaux e Wan Stiller vuotarono i bicchieri, poi si alzarono frettolosamente, scomparendo nella camera comune di prora.
Capitolo trentesimo
Il notaio di Maracaybo
Non era ancora trascorsa mezz'ora, quando Carmaux, l'amburghese e don Raffaele scendevano la scala di tribordo, sotto cui ondeggiava una svelta baleniera fornita di due piccole vele e d'un fiocco.
Morgan li aspettava sulla piccola piattaforma inferiore, per dare loro le ultime istruzioni.
I due filibustieri e lo spagnolo indossavano dei vestiti da pescatori, di grosso panno azzurro, con larga fascia di lana rossa e berretto di tela cerata. Inoltre don Raffaele, per rendersi meno riconoscibile, si era tagliato i baffi e le lunghe basette.
«Ricordatevi del segnale e usate le maggiori cautele» disse loro Morgan. «Io incrocerò solo di notte, cominciando da domani sera e di giorno mi celerò in fondo al golfo di Cariaco, che è lungo e sicurissimo. Avete tre razzi di diverso colore e voi sapete che cosa significano.»
«Il verde, aspettateci in mare, il rosso, mandate una scialuppa, l'azzurro fuggite» rispose Carmaux. «Addio, signor Morgan, e se gli spagnoli ci impiccano vi auguro fortuna a Panama.»
«Siete troppo prudenti e troppo astuti per lasciarvi prendere» rispose il filibustiere.
Strinse loro la mano e risalì in coperta, mentre Carmaux prendeva la barra del timone e l'amburghese e lo spagnolo si collocavano a prora.
«Lascia» disse il francese.
L'amburghese sciolse la corda e la baleniera prese il largo, filando rapidamente verso oriente.
La nave di Morgan rimase all'ancoraggio, non avendo premura di mostrarsi nelle acque di Cumana, che potevano essere battute da navi da guerra, avendone gli spagnoli in quasi tutti i porti, principali.
«Andiamo a meraviglia» disse l'amburghese fregandosi le mani. «Mare calmo e vento in poppa. Quando potremo giungere, don Raffaele?»
«Non prima di domani sera» rispose il piantatore.
«Così lontani siamo dunque da quel porto?» chiese Carmaux.
«Lo suppongo e poi è meglio per voi e anche per me giungervi a notte inoltrata.»
«Siete già stato a Cumana?»
«Conosco tutte le città del Venezuela» rispose il piantatore.
«E chi è quel vostro amico, di cui mi ha parlato il capitano?» riprese Carmaux.
«Un notaio, che un tempo abitava a Maracaybo.»
I due filibustieri si guardarono, facendo un gesto di sorpresa.
«Aspettate, don Raffaele» disse l'amburghese. «Quel vostro amico, vent'anni or sono, esercitava a Maracaybo?»
«Sì.»
«Un giorno la sua casa fu distrutta dal fuoco, è vero?»
Don Raffaele lanciò uno sguardo interrogatore sui due filibustieri, i quali risposero con una risata clamorosa.
«Lo conoscete forse?» chiese il piantatore, con inquietudine.
«Perbacco!... È un nostro carissimo amico!...» rispose Carmaux, che schiattava dalle risa. «Che bottiglie deliziose aveva quel briccone!... Ah!... Ah!... Il notaio di Maracaybo!...»
Il piantatore si era fatto oscuro in viso, mentre i due filibustieri non cessavano di ridere.
«Don Raffaele» disse finalmente Carmaux «vi ricorderete forse di quel tragico e comico episodio che ha privato quel povero notaio della sua casa. I vostri compatrioti ci avevano assediati in quella bicocca assieme al Corsaro Nero.»
«Che aveva fatti prigionieri il notaio ed anche un certo conte di Lerma, un valoroso e cavalleresco gentiluomo» aggiunse l'amburghese.
«Sì, me lo ricordo» disse don Raffaele. «Voi eravate fuggiti sul tetto dopo aver fatto saltare la casa di quel povero uomo.»
«Per scendere poi nel giardino d'un conte o marchese Morales, scappando così ai vostri compatrioti» disse Carmaux.
«Eravate voi quei demoni che per ventiquattro o trenta ore teneste testa ad una o due compagnie di archibugieri?»
«Sì, don Raffaele.»
«Eccomi in un bell'imbarazzo. Se il notaio vi riconoscesse?»
«Sono passati vent'anni, non sarà quindi facile che ricordi ancora i nostri volti» disse l'amburghese.
«Non commettete imprudenze almeno.»
«Saremo tranquilli come due agnellini» promise Carmaux.
Una viva ondulazione, che fece rollare la baleniera, li avvertì che si trovavano presso delle scogliere.
«Sono le isole di Pirita» disse don Raffaele, prevenendo la domanda che stava per rivolgergli Carmaux. «Stringete verso la costa.»
Carmaux vedendo delinearsi verso il settentrione delle isole, spinse la scialuppa verso la costa, dove il mare appariva sgombro di scogliere.
All'alba, avvistavano una grossa borgata annidata in fondo ad una vasta insenatura e dove si scorgevano le alberature di non poche navi.
«Barcellona» disse il piantatore. «Siamo già a buon punto e giungeremo a Cumana prima che il sole tramonti. D'ora innanzi non parlate che lo spagnolo e se qualche nave ci accosta, lasciate che risponda io.»
«Vi avverto, però, don Raffaele, che noi vi sorveglieremo rigorosamente. Per il vostro bene siate leale».
«Vi ho dato prove sufficienti della mia lealtà, signor Carmaux» rispose il piantatore.
Verso le sei della sera la baleniera, che aveva avuto quasi sempre il vento favorevole, si trovava dinanzi a Cumana, che in quel tempo era una delle città più ricche e più popolose della Venezuela e che era anche ben difesa, trovandosi a non molte centinaia di miglia dalla Tortue.
Appunto in quel momento entravano in rada parecchie barche di pescatori, montate per la maggior parte da indiani.
Carmaux spinse dietro di esse la scialuppa, onde passare inosservato fra due grosse caravelle che stazionavano presso l'entrata della rada.
«Non credevo di passarla così liscia» disse Carmaux, dirigendo la scialuppa verso la gettata più prossima. Dove abita il notaio?»
«Non siamo lontani; aspettate che il sole sia tramontato. Sta già per scomparire.»
Carmaux fece calare le vele latine e servendosi solamente del fiocco, approdò dinanzi ad un vecchio fortino caduto in rovina.
«Ecco un bel luogo per fare il segnale a Morgan» disse, guardando le muraglie che ancora rimanevano in piedi.
Legarono la scialuppa, misero in ordine le reti, arrotolarono le vele, poi si nascosero sotto le fascia di lana un paio di pistole ognuno ed una di quelle navaje che, aperte, diventano lunghe come spade.
«Possiamo andare» disse Carmaux a don Raffaele. «Non ci si vede più.»
«Mi promettete di non commettere violenze?» chiese il piantatore.
«Non siamo così sciocchi» rispose l'amburghese.
«Allora seguitemi.»
«Adagio, don Raffaele. Sarà ancora vivo il notaio?»
«Sei mesi fa non era ancora morto.»
«Deve essere assai vecchio.»
«Sessant'anni. Andiamo.»
Si orientò per qualche istante, si diresse verso una viuzza che passava in mezzo a dei giardini tenuti con gran cura, poi imboccò una larga strada fiancheggiata da belle case a due piani, tutte in pietra ed illuminata da qualche lampada fumosa.
Dopo un centinaio di metri, s'arrestò dinanzi ad una abitazione piuttosto vecchia, un po' più alta delle altre, e sormontata da una terrazza coperta di piante.
«Aspettatemi qui» disse. «Vado ad annunciare la vostra visita.»
«Fate pure» rispose Carmaux.
Don Raffaele lasciò cadere il pesante martello di ferro sospeso alla porta e, appena questa s'aprì, entrò in un andito buio, scomparendo agli sguardi dei due filibustieri.
«Sei tranquillo?» chiese Carmaux all'amburghese.
«Non diffido di quel brav'uomo. Sa che noi siamo capaci di fargli passare un brutto quarto d'ora.»
Poco dopo il piantatore ricomparve sulla soglia del portone e pareva che non fosse di cattivo umore.
«Possiamo dunque entrare?» chiese Carmaux.
«Sì» rispose il piantatore. «Il notaio vi accorda ospitalità e vi offre anche una cena.»
«È la perla dei notai!...» esclamò l'amburghese.
«Lo dicevo io che era un uomo eccellente.»
«Seguitemi» disse don Raffaele.
I due filibustieri entrarono in un androne malamente illuminato da una fumosa lampada ad olio e vennero introdotti in un salotto a pianterreno, modestamente ammobiliato, dove si trovava una tavola coperta di tondi su uno dei quali faceva bella mostra un'anitra assai grassa.
Il notaio si era già seduto al desco e pareva che si preparasse a cenare, senza attendere gli ospiti.
Era un uomo sulla sessantina, molto magro e molto rugoso, d'aspetto bonario. Vedendo entrare i due filibustieri li guardò quasi sospettosamente, poi, senza nemmeno salutarli, fece loro cenno di accomodarsi alla tavola, dicendo:
«Se credete, tenetemi compagnia.»
Carmaux e l'amburghese si scambiarono uno sguardo e fecero una smorfia che indicava un certo malcontento.
Non s'aspettavano un'accoglienza così fredda, né una cena così magra, tuttavia Carmaux rispose:
«Grazie, signore, questo invito giunge in buon punto poiché siamo affamati, anzi tremendamente affamati.»
«E molto assetati anche» aggiunse Wan Stiller.
«Ah!...» fece il notaio.
Tagliò l'anitra e ne offerse a tutti, ma non fece aggiungere nulla.
«Quest'uomo è diventato estremamente avaro» pensava Carmaux. «Non è più quello che ci ha ospitati a Maracaybo. È vero che allora aveva le nostre spade alla gola. Le bottiglie le tirerà fuori: a questo ci penso io.»
Quand'ebbero finito, il notaio, che durante il pasto non aveva più aperto bocca, limitandosi a guardare di tratto in tratto i due filibustieri, andò a prendere una fiasca di vino e riempì i bicchieri, dicendo:
«Bevete pure. Poi mi direte chi siete voi e che cosa desiderate da me.»
«Signor notaio» disse Carmaux «se don Raffaele non vi ha ancora detto chi noi siamo, vi dirò allora io che siamo due personaggi in missione, mandati qui dal signor Presidente dell'Udienza Reale di Panama, per avere informazioni precise sul signor conte di Medina, di cui non si hanno più notizie dopo la sua fuga da Maracaybo.»
«Dovevate rivolgervi al governatore di Cumana.»
«Non abbiamo creduto di farlo, signor notaio, per certi motivi che non vi posso, almeno per ora, esporre. È vero che il conte è giunto qui?»
«Sì» rispose il notaio. «È arrivato improvvisamente, con una piccola scorta ed una fanciulla.»
«Ed è già ripartito?» chiese Carmaux con ansietà.
«A mezzodì.»
«Per dove?»
«Per Chagres, mi hanno detto.»
«Allora si reca a Panama?»
«Lo credo.»
«Su quale nave si è imbarcato?»
«Sull'Andalusa.»
«Vascello da guerra?»
«Una corvetta di ventiquattro cannoni» disse il notaio.
Carmaux fece imprudentemente un gesto di furore. Il notaio che da qualche po' l'osservava attentamente, alzò vivamente la testa, e chiese:
«Quale interesse ha il signor Presidente dell'Udienza Reale di Panama di conoscere queste cose? Sarei curioso di saperlo, mio caro signore.»
«Lo ignoro» rispose prontamente il francese.
«Ah!...» fece il notaio. Poi, dopo qualche istante di silenzio e guardando fisso fisso Carmaux, gli chiese a bruciapelo:
«Siete mai stato a Maracaybo, molti anni or sono?»
Il filibustiere per poco non fece un soprassalto, poi rispose:
«Una sola volta, signore, due mesi or sono. Perché mi fate questa domanda?»
«Che volete? Mi pare di aver già udito la vostra voce.»
«Forse vi confondete con un altro, signore.»
«Ne sono convinto» disse il notaio con un certo tono che turbò i due filibustieri. «E poi è passato tanto tempo che posso essermi ingannato. Viveva allora ancora il terribile Corsaro Nero.»
«L'avete conosciuto voi?» chiese Carmaux, per meglio ingannarlo.
«Sì, per mia disgrazia e vi ho perduta una casa per colpa sua, una bella casa che fu distrutta dal fuoco.»
«Mi avete già raccontata quell'avventura» disse don Raffaele.
«Era insieme a due corsari e ad un negro gigantesco» proseguì il notaio, «ed avevano avuta la malaugurata idea di rifugiarsi nella mia casa.»
«E non vi hanno ucciso?» chiese l'amburghese, che tratteneva a stento le risa.
«No, si accontentarono di vuotarmi mezza cantina.»
«Che paura però dovete aver provata» disse Carmaux.
«Non avevo più sangue nelle vene.»
«Sfido io, godeva una fama terribile, il Corsaro Nero.»
«E poi, come vi dissi, era insieme a due dei suoi... Oh!...»
«Che cosa avete signore?» chiese Carmaux.
«Il caso è stranissimo!...»
«Quale?»
Il notaio non rispose. Guardava attentamente l'amburghese, il quale dal canto suo raggrinzava il volto per dargli un'altra espressione.
«La mia memoria deve essersi indebolita» disse finalmente il notaio. «Non mi ricordo più come io sia riuscito a salvarmi quando la casa ardeva.»
«Sarete saltato dalla finestra» disse Carmaux, che cominciava però a sudar freddo.
«È probabile. Signori, è tardi ed ho l'abitudine di alzarmi presto. Don Raffaele, conducete questi signori nella stanza che ho loro assegnata. Ci rivedremo domani a colazione, signori.»
Il piantatore accese una candela e fece segno ai due filibustieri di seguirli.
«Buona notte, signore, e grazie della vostra cortese ospitalità» disse Carmaux, inchinandosi dinanzi al notaio.
Il piantatore, che doveva conoscere la casa, fece percorrere ai due filibustieri un lungo corridoio, poi li introdusse in una stanza piuttosto vasta e ammobiliata con un certo sfarzo.
Appena la porta fu chiusa, due imprecazioni sfuggirono a Carmaux.
«Il vecchio ci ha riconosciuti, è vero compare?» chiese Wan Stiller.
«Ne ho quasi la certezza, e faremo bene a filare questa notte stessa. Che ne pensate voi, don Raffaele?»
«Lasciate che vada ad interrogare il notaio. Se correrete qualche pericolo verrò subito ad avvertirvi.»
«O ci farete invece arrestare?» chiese Carmaux.
«No, perché intendo di seguirvi.»
«Voi!...» esclamarono ad una voce i due filibustieri.
«Voi andate a Panama, è vero?»
«Certo.»
«Verrò anch'io: voglio vendicarmi di quell'odiato capitano.»
Appena lo spagnolo fu uscito, Carmaux aprì una delle due finestre e guardò al di fuori.
«Mette su un'ortaglia» disse a Wan Stiller «e non vi sono che due metri d'altezza. Un piccolo salto, compare, che anche don Raffaele può tentare, senza pericolo di rompersi le gambe.»
«Che sia già giunto Morgan?» chiese l'amburghese.
«Col vento che ha soffiato quest'oggi non sarà rimasto dietro di noi. Vedrai che risponderà subito al nostro segnale.»
«Taci: ecco don Raffaele che ritorna.»
Il piantatore un momento dopo entrava precipitosamente nella stanza.
«Fuggiamo subito» disse.
«Che c'è?» chiesero ad una voce i due filibustieri.
«Il notaio vi ha riconosciuti.»
«Per le sabbie d'Olonne, come diceva Pietro l'Olonese» rispose Carmaux. «Che memoria ha quel diavolo d'uomo per ricordarsi ancora di noi dopo diciott'anni!»
«Vi dico di fuggire e senza perdere tempo» ripeté don Raffaele. «È già andato ad avvertire le guardie.»
«Allora» disse l'amburghese «non abbiamo altro da fare che questo.»
Salì sul davanzale e saltò nel giardino, massacrando una splendida aiuola di rose.
Carmaux lo aveva subito imitato, dicendo al piantatore: «Se credete, fate come facciamo noi.»
E per poco non era caduto addosso all'amburghese.
Don Raffaele, misurata l'altezza, a sua volta si era lasciato andare.
«Come le lepri, ora» disse Carmaux. «Dritti alla baleniera.»
In un baleno attraversarono l'ortaglia che non era molto vasta, sfondarono una siepe di cactus e si slanciarono su una viuzza deserta.
«Don Raffaele» disse Carmaux «guidateci fino alla gettata.»
Malgrado la rotondità del suo ventre, il piantatore si era messo a correre come se avesse già le guardie alla calcagna.
In meno di cinque minuti giunsero sulla gettata, dove trovarono ancora la baleniera semi-arenata sotto il fortino in rovina.
«Il segnale» disse Carmaux.
Prese un razzo, s'arrampicò su un bastione diroccato e l'accese, mentre Wan Stiller alzava le due vele della baleniera e don Raffaele spiegava il fiocco.
Il razzo era appena scoppiato in aria che al largo, verso il nord, si scorse una striscia di fuoco fendere le tenebre, quindi dileguarsi.
«È Morgan!...» gridò Carmaux, imbarcandosi precipitosamente.
«Al largo, compare!...»
Si erano allontanati da soli dieci minuti, quando udirono una voce gridare:
«Eccoli!... Fuoco!...»
Quattro o cinque colpi d'archibugio rimbombarono verso la spiaggia.
«Buona notte!...» gridò Carmaux. «Fila verso la bocca del porto, amburghese!...»
Essendo il vento notturno piuttosto fresco, la baleniera si allontanò rapidamente, mentre sulla gettata rimbombavano altri spari.
Con due bordate la scialuppa giunse all'imboccatura del porto e uscì in mare.
Una massa nera passava in quel momento, a meno di trecento metri, dinanzi al porto.
«A noi, Fratelli della Costa!...» urlò Carmaux. «Ci danno la caccia!...»
La nave virò quasi sul posto, mettendosi attraverso il vento, mentre un'altra voce rispondeva:
«A bordo, Carmaux.»
Con una bordata la scialuppa giunse sotto la nave, presso la scala che era stata subito abbassata.
Due paranchi furono calati per issarla, mentre Carmaux, l'amburghese ed il piantatore si slanciavano su pei gradini.
Un uomo li aspettava: era Morgan.
«Dunque?» chiese.
«Partito, signore» rispose Carmaux.
«Quando?»
«Stamane.»
«Per dove?»
«Per Chagres.»
«Sta bene» rispose Morgan. «Andremo a prenderlo a Panama.»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quattro giorni dopo la corvetta di Morgan faceva la sua entrata nella piccola baia della Tortue.
Era quell'isola il covo dei famosi filibustieri del Golfo del Messico, che avevano giurata una guerra spietata agli spagnoli per vendicare la inumana distruzione degl'indiani compiuta dai primi conquistadores, o piuttosto per alleggerire gli spagnoli di una parte delle immense ricchezze che traevano dalo sfruttamento delle loro colonie.
Il ritorno improvviso di Morgan, che tutti avevano creduto morto, produsse un'emozione straordinaria fra tutti i corsari, che tenevano in grande stima l'antico luogotenente del Corsaro Nero, per il suo coraggio e per le sue audaci imprese.
Le notizie della presa di Maracaybo, della liberazione della signora di Ventimiglia, del sacco di Gibraltar e della distruzione della flotta spagnola erano già giunte alla Tortue, portate dai compagni di Morgan i quali, più fortunati del loro capo, erano riusciti a porsi in salvo assieme alle ricchezze predate.
La scomparsa della fregata predata all'ammiraglio, sulla quale Morgan si era imbarcato con la signora di Ventimiglia, aveva dato luogo a gravi timori, e molti capi della filibusteria avevano finito per ammettere che tutti dovevano esser morti annegati nel mar dei Caraibi.
Perciò il ritorno quindi dell'audace corsaro, che contava un gran numero di amici e di ammiratori, era stato salutato con grande gioia.
La nave si era appena ancorata fra i velieri corsari che ingombravano la piccola baia, che già i più famosi scorridori del mare si trovavano a bordo.
C'era Brodely, che più tardi doveva rendersi famoso nella presa del castello di S. Felipe, giudicato la più formidabile fortezza degli spagnoli; Sharp, Harris, Sawkins, tre uomini terribili, le cui imprese dovevano far meravigliare il mondo; Watling, il saccheggiatore delle coste peruviane; Montauban, Michel ed altri allora poco noti, ma che dovevano diventare a loro volta famosi.
Nell'apprendere che la signora di Ventimiglia era stata ripresa e condotta a Panama, un urlo di furore scoppiò fra quegli uomini formidabili e in tutti i cervelli si affacciò l'idea di tentare la grande impresa ideata da Morgan.
Quella grande città, emporio delle ricchezze del Perù e del Messico, aveva già da tempo risvegliato la cupidigia dei filibustieri. Tuttavia la distanza e le difficoltà che potevano incontrare nella traversata dell'Istmo, che a quel tempo non era tagliato da nessun canale ed era per essi terreno completamente sconosciuto, più che le forze imponenti che potevano opporre loro gli spagnoli, li avevano fino allora trattenuti.
Udendo Morgan fare la proposta di tentare la grande impresa, nessuno sollevò alcuna obbiezione.
«Là» aveva detto il filibustiere, «oltre liberare la signora di Ventimiglia, che si è messa sotto la protezione delle nostre spade, troverete tesori tali da diventare tutti ricchi.»
Un'ora dopo la spedizione veniva decisa dai più celebri e più audaci capi della Tortue.
XXXI
Nell'America Centrale
Lo stesso giorno, la Vasquez - tale era il nome della corvetta spagnola predata da Morgan sulle coste venezuelane - spiegava le vele per l'America Centrale, col grande stendardo di Spagna sciolto sull'artimone.
Era comandata da Pierre le Picard e montata da ottanta uomini, scelti fra coloro che parlavano correntemente il castigliano e che indossavano i vistosi costumi usati in quell'epoca dagli spagnoli delle colonie americane.
Carmaux e Wan Stiller, i due inseparabili, ne facevano parte col grado di mastri d'equipaggio, essendo i soli che conoscevano la piccola borgata di Chagres e che potevano dare preziose informazioni e più preziosi consigli.
La Vasquez doveva costituire l'avanguardia della spedizione, ancorarsi nella piccola baia e assicurarsi, innanzi tutto, se il conte di Medina aveva già iniziata la traversata dell'Istmo per raggiungere Panama ed, in caso contrario, doveva abbordare la sua nave e riprendergli la signora di Ventimiglia.
Morgan, come grande ammiraglio della squadra filibustiera, che doveva essere numerosissima per poter tener testa alle grosse navi spagnole, si era fermato alla Tortue, onde preparare ogni cosa e assicurare il buon esito della grande ed audacissima impresa.
Scarseggiando però in quell'epoca i viveri alla Tortue, subito dopo la partenza della corvetta, egli mandò quattro a farne provvista nei porti spagnoli più vicini, affidandone il comando a Brodely, che godeva fama d'uomo arditissimo.
La Vasquez, spinta da buon vento, mise la prora verso il sud-ovest, frettolosa di avvistare le coste dell'istmo di Panama.
Era una buonissima veliera, tant'è che al mattino del quinto giorno, il suo equipaggio già salutava con gioia l'alta vetta del Castello Chico e le cime accidentate della Sierra di Veragua, visibili in mare a grande distanza.
Pierre le Picard fece chiamare in coperta Carmaux e Wan Stiller, i quali in tutto quel tempo non avevano fatto altro che giuocare e bere, senza affatto curarsi del regolamento che proibiva il giuoco a bordo delle navi filibustiere in spedizione guerresca.
«Alla ribolla, amico Carmaux» gli disse Pierre. «Spetta a te condurre in porto la corvetta.»
«Signor Pierre» rispose il francese, «preparate intanto voi la farsa. Che non manchino né i pifferi, né i tamburi per salutare il fortino. Del resto rispondo io. Vieni, compare, e apri bene gli occhi e dimentica la tua lingua.»
La Vasquez, che aveva il vento in poppa, puntò verso una piccola insenatura che s'apriva sulla costa, ormai perfettamente visibile.
Era quella di Chagres. Il suo villaggio, che in quei tempi aveva molta importanza, passando per di là la via che conduceva alla regina dell'Oceano Pacifico, a poco a poco cominciava a delinearsi, col suo fortino e le sue casette a un solo piano, sormontate da belle terrazze coperte di fiori.
Carmaux, che, come dicemmo, vi era già stato molti anni prima, con due bordate sorpassò felicemente la punta meridionale che difendeva la rada dai forti venti del nord-est e spinse innanzi la corvetta, facendola ancorare fra due vecchie navi in demolizione.
Udendo tuonare i cannoni di bordo e vedendo sventolare sull'artimone il vessillo spagnolo, tutta la popolazione, composta di due o tre centinaia di anime e di due compagnie di soldati, s'era affollata sulla spiaggia, mentre il forte restituiva il saluto.
Ad un cenno di Pierre, i pifferi ed i tamburi avevano intuonata una marcia spagnola, con un accordo passabilmente discreto.
Le àncore erano appena affondate, quando una scialuppa si staccò dalla spiaggia. Era montata dalle due maggiori autorità della borgata: l'alcalde ed il comandante della guarnigione e da una mezza dozzina di barcaiuoli.
«Signor Pierre» disse Carmaux, che aveva indossata una divisa fiammante e che si era cinto un lungo spadone. «Badate all'inglese!... Se vi sfugge una parola guasterete la faccenda.»
«Non temere» rispose il corsaro, che s'era avanzato fino sul pianerottolo della scala per ricevere le autorità. «Da questo momento io sono don Juan Perredo, cavaliere dell'ordine di Sant'Jago...»
L'alcalde ed il comandante della guarnigione stavano allora salendo la scala. Il primo era un uomo sulla cinquantina, rotondo quasi come don Raffaele; l'altro invece aveva l'aspetto d'un vero uomo di guerra e, malgrado fosse più vecchio del primo, s'avanzava impettito tenendo fieramente il pugno sul fianco.
«Don Juan Perredo, cavaliere di Sant'Jago, comandante della Vasquez, ha il piacere di salutarvi» disse Pierre, stringendo la mano prima all'alcalde, poi al comandante. «Eravate già stati avvertiti del mio arrivo?»
«No, capitano» rispose l'alcalde, che sbuffava ancora per la faticosa ascensione. «Anzi siamo rimasti assai stupiti di veder giungere questa nave e per poco non la credemmo montata da quei diavoli di mare che si chiamano filibustieri.»
«Come!...» esclamò Pierre, fingendo abilmente un gesto di stupore. «Il conte di Medina non vi aveva annunciato il mio arrivo?»
«Il signor governatore di Maracaybo è giunto qui ieri mattina ed è partito subito per Panama, senza annunciarvi. Aveva molta fretta, il signor conte.»
«Non comprendo come non mi abbia atteso» disse Pierre le Picard, fingendosi assai contrariato da quella risposta.
«Dovevate scortarlo fino a Panama, capitano?» chiese il comandante.
«Sì» rispose il filibustiere.
«Gli ho dato io una buona scorta, composta di uomini fidati e valorosi.»
«Aveva con sé una fanciulla?» chiese Pierre.
«Sì,» rispose l'alcalde «una giovane e bellissima signorina.»
«Quanto si è fermato qui?»
«Appena una mezz'ora, il tempo sufficiente per provvedersi di cavalcature.»
«E la nave che lo ha condotto è ripartita pure?»
«Credo che sia andata a Costarica.»
«Forse il conte mi farà pervenire i suoi ordini» disse Pierre.
«Vi fermate qui?» chiese l'alcalde.
«Ho l'ordine di non rimettermi alla vela.»
«In che cosa possiamo esservi intanto utili?»
«Mettete qualche casa a nostra disposizione e forniteci di viveri freschi.»
«Il palazzo del governatore è pronto ad ospitare voi ed i vostri ufficiali, signor capitano.»
«Arrivederci, signori, e grazie» rispose Pierre, facendo un gesto di congedo.
I due rappresentanti le autorità della borgata, comprendendo che il colloquio era finito, ridiscesero nella scialuppa e tornarono a terra.
«Non abbiamo fortuna, Carmaux» disse Pierre, quando furono soli.
«È quello che dicevo poco fa a Wan Stiller» rispose il francese, «Il conte non sarà andato molto lontano però.»
«Se ci provassimo ad inseguirlo?»
«Era venuta anche a me l'idea, ma ho udito a parlare del castello di S. Felipe che chiude la via e sotto a cui non si passa se non si ha un ordine dal Presidente dell'Udienza di Panama. Se non fosse lontano!... Eh!... Bisognerebbe informarci. Lo chiederò al basco, se non sarà morto. Sono dieci anni che non vengo più qui.»
«Un taverniere, mi hai detto.»
«Sì, signor Pierre.»
«Tu sei amico di tutti i tavernieri del mondo.»
«Mi ci trovo bene fra le botti» rispose Carmaux, ridendo. «Volete che vada a cercarlo?»
«Ti do carta libera, purché sii prudente.»
«Oh!... Non uscirà dalla mia bocca una parola che non sia spagnola. Compare Stiller, andiamo.»
Le scialuppe erano già state messe in acqua. I due inseparabili si munirono di un paio di pistole e si fecero condurre a terra, sbarcando un po' lontano dalle prime case.
«Orientiamoci» disse Carmaux all'amburghese. «In dieci anni questa borgata è cambiata.»
Due o tre viuzze strette e fangose si offrivano dinanzi a loro. Scelsero la più vicina e s'avanzarono strascinando rumorosamente i loro spadoni.
Gli abitanti che incontravano, riconoscendoli per marinai della corvetta, facevano loro buon viso, invitandoli ad entrare nelle case a bere una tazza di cioccolata, bevanda allora assai in uso nelle colonie spagnole d'America, essendo il caffè ancora sconosciuto.
Chiedendo ora all'uno, ora all'altro, dopo un buon quarto d'ora, i due corsari si trovarono finalmente dinanzi ad una tavernaccia di meschina apparenza, sulla cui soglia stava un ometto magro come un'aringa e dalla pelle un po' olivastra.
«Che il diavolo mi impicchi se costui non è il basco» disse Carmaux. «Non è molto invecchiato l'amico.»
«Con quelle bottiglie!» esclamò Wan Stiller. «In cantina non s'invecchia mai, compare.»
S'accostarono all'ometto che li guardava curiosamente, facendo una serie d'inchini e lo spinsero nella taverna, chiedendogli:
«Non si riconoscono più gli amici?»
Il basco aveva fatto un soprassalto.
«Misericordia!... I filibustieri!...» esclamò.
«Silenzio o ti taglio la lingua, amico» disse Carmaux. «Noi non siamo più coi ladri di mare. Siamo arruolati sotto le bandiere della grande Spagna e ti assicuro che non ci troviamo male.»
«Avete lasciato Laurent? Eravate con lui, dieci anni or sono, quando veniste qui a saccheggiare la borgata.»
«Ma non la tua cantina, che noi proteggemmo contro la rapacità dei nostri camerati.»
«Non mi sono mai scordato di quella vostra buona azione.»
«Veniamo a farci pagare quel debito di riconoscenza» disse Wan Stiller.
«La mia cantina come la mia borsa è a vostra disposizione» disse l'ometto, con voce grave. «Non vi ho mai dimenticati.»
«Porta dunque da bere per ora e non spaventarti» disse Carmaux. «Non siamo venuti né per prenderti la borsa, né per asciugare le tue botti.»
Non aveva ancora terminato di parlare, che già il taverniere era scomparso per tornare poco dopo con due polverose bottiglie che promettevano di essere delle migliori.
«Basco» disse Carmaux, dopo d'aver assaggiato il vino. «Tu hai una cantina degna d'un re. Scommetterei che il grande Carlo V, se fosse ancora vivo, non sdegnerebbe di trincare con noi.»
«Ho altre bottiglie come questa; bevete senza darvi pensiero.»
«Possiamo fidarci di te?»
«Senza di voi, sarei stato rovinato completamente dai corsari del signor Laurent, ve lo dissi già.»
«Hai veduto, tu, la nave che è entrata in porto ieri mattina?»
«Ero sulla gettata quando affondò le àncore.»
«Ne è disceso un signore, accompagnato da una fanciulla, è vero?»
«Mi hanno detto che era il conte di Medina, governatore di Maracaybo.»
«Ed è partito subito per Panama?»
«Circa mezz'ora dopo.»
«Il signor conte ci deveuna grossa somma, che non siamo stati fin'ora capaci di riavere e vorremmo raggiungerlo al più presto con un manipolo dei nostri camerati che hanno anche essi dei conti da saldare con quel pezzo grosso sì, ma pessimo pagatore. Dove credi che si trovi a quest'ora?»
«Non troppo vicino di certo. Ha fatto requisire i migliori cavalli e deve aver oltrepassato anche il castello di S. Felipe.»
«L'oltrepasseremo anche noi; è lontano?»
«Tre sole leghe, ma senza un lascia-passare il comandante non vi permetterebbe di proseguire. L'avete voi?»
«Vedremo di procurarcelo.»
«Uhm!» fece il taverniere, scuotendo il capo.
«Che cos'è quel castello?»
«Un forte piantato sulla cima d'una rupe, che domina la via che conduce nella valle del Chagres.»
«Credi che sia impossibile passarvi sotto senza venire scorti?»
«Di notte il passo è chiuso e guardato da sentinelle.»
«Affare perduto» disse poi. «Il conte non ci pagherà più. Brutto spilorcio, derubare così degli onesti marinai. Se potessi mettere il piede in Panama! A proposito, conosci quella città, tu?»
«Vi sono stato l'anno scorso.»
«È vero che gli spagnoli l'hanno fortificata formidabilmente?»
«È tutta cintata, ha torri e artiglierie in gran numero e si dice che non vi siano mai meno di ottomila uomini di guarnigione.»
«Mi piacerebbe visitarla» disse Carmaux. «Bah!... sarà per un'altra volta. Bevi, compare Stiller.»
Vuotarono coscienziosamente le bottiglie, poi se ne tornarono lentamente a bordo, non poco malcontenti della magra riuscita della loro missione.
Erano appena saliti sulla corvetta ed avevano informato Pierre le Picard di quanto avevano appreso dal basco, quando una scialuppa montata da un ufficiale e da parecchi remiganti, abbordò il legno, fermandosi presso la scala.
«Qualche notizia sul conte?» si chiese Pierre le Picard, muovendo incontro all'ufficiale, che teneva in mano una lettera:
«Salite, signore.»
«Da parte dell'alcalde, capitano» disse il messo, mettendo piede sulla tolda.
La lettera conteneva un invito per gli ufficiali della nave e pei marinai, ad un fandango notturno, onde festeggiare il loro arrivo.
«In mancanza di altro, divertiamoci» mormorò il filibustiere. «Non avremo nulla da fare fino all'arrivo della squadra.»
Quindi, alzando la voce, disse all'ufficiale che aspettava una risposta:
«Dite all'alcalde che noi siamo riconoscenti di questo invito e che lo accettiamo con piacere.»
«Conducete il maggior numero possibile di marinai, signore» disse il messo.
«Non lascerò a bordo che gli uomini puramente necessari.»
«Sono cortesi questi abitanti» disse, volgendosi verso Carmaux, quando l'ufficiale ridiscese nella scialuppa. «Se sapessero che razza di spagnoli siamo noi!... Ehi, Carmaux, hai il viso oscuro?»
«Non ho mai avuto gran fiducia negli inviti degli spagnoli» rispose finalmente il francese.
«Che cosa temi? Oh!... già, preferiresti cacciarti in qualche cantina. Anche al fandango il buon vino non mancherà, vecchio mio.»
Carmaux non rispose, ma scosse ripetutamente il capo.
Capitolo trentaduesimo
Una festa finita male
Appena tramontato il sole, una diecina d'imbarcazioni montate dagli ufficiali della guarnigione spagnola e dai notabili della borgata, abbordarono la corvetta per fare scorta d'onore all'equipaggio.
Pierre le Picard, volendo mostrarsi sensibile a quella dimostrazione di simpatia verso gli uomini di mare, e non avendo d'altronde nulla da temere, aveva scelti sessanta marinai, stimando sufficienti gli altri venti per la guardia della nave. Per precauzione aveva ordinato a tutti di non separarsi né dalla spada, né dalla pistola.
L'alcalde era salito a bordo, seguíto da una diecina di barcaiuoli muniti di canestri contenenti tortillas - specie di focaccie dolci - e bottiglie destinate agli uomini che dovevano rimanere sulla corvetta, onde avessero la loro parte.
«Vi aspettiamo, signor capitano» disse inchinandosi.
Le scialuppe della corvetta, munite di fanali e di torce, erano già state calate in acqua. I sessanta corsari, che avevano indossati per la circostanza i più vistosi costumi, ad un comando dei mastri lasciarono la nave e la piccola flottiglia si diresse verso la gettata ingombra di gente che applaudiva calorosamente i baldi giovani della flotta spagnola.
Tutti i corsari, che non dubitavano di nulla, erano allegrissimi ed entusiasti di quelle accoglienze alle quali non erano certo abituati nelle colonie spagnole, dove invece di applausi ricevevano ferro e piombo e granate. Solo Carmaux, contrariamente al solito, pareva preoccupato e borbottava.
«Ehi, compare» disse l'amburghese, che gli camminava al fianco «Che cosa mastichi? Tabacco o parole?»
«Io non so per quale motivo, compare amburghese, ho questa sera dei brutti presentimenti.»
«Che cosa temi? Siamo in buon numero innanzi tutto e nessuno dubita che noi non siamo dei bravi marinai spagnoli.»
«Spero d'ingannarmi» rispose Carmaux.
La festa era stata allestita nel palazzo del governo, una massiccia costruzione a due piani, con solide inferriate alle finestre ed il portone laminato in ferro, dovendo talvolta quegli edifici servire anche da fortezza.
Le ampie sale erano state splendidamente illuminate e brulicavano di borghesi, di ufficiali e anche di fanciulle.
I corsari, accolti da evviva entusiastici e dal suono d'una mezza dozzina di chitarre, si dispersero per le sale, dove altri chitarristi intuonavano già chi il bolero, chi il fandango, due ballabili assai in voga in quell'epoca.
Carmaux e Wan Stiller, che preferivano le bottiglie a quella ginnastica indiavolata, si spinsero subito in un angolo della sala maggiore, dove c'erano dei tavoli forniti di fiaschi di mezcal e di vini di Spagna.
«Lasciamo che si divertano i giovani» aveva detto Carmaux. «E noi invece apriamo gli occhi.»
La festa prometteva di riuscire brillantissima. Nuovi arrivati giungevano ad ogni istante e fanciulle, borghesi, ufficiali e soldati andavano a gara per colmare di cortesie i corsari.
Soprattutto l'alcalde ed il comandante della guarnigione si facevano in quattro per mostrarsi gentilissimi con tutti, oltre che con Pierre le Picard. Si erano perfino degnati di dare due vigorose strette di mano a Carmaux ed a Wan Stiller, indicando loro i fiaschi contenenti il vino migliore.
Alla mezzanotte la festa era al colmo e l'allegria regnava sovrana. Già Carmaux cominciava a rassicurarsi, quando ad un tratto udì verso un angolo della sala un grido, poi vide due uomini aprirsi violentemente il passo fra le coppie danzanti e uscire.
Il francese si era alzò precipitosamente.
«Vieni, Wan Stiller!...» esclamò.
«Che cosa ti piglia, compare?» chiese l'amburghese.
«Vieni, ti dico» ripeté Carmaux.
L'amburghese, colpito dall'accento di Carmaux e anche dalla sua agitazione, si alzò borbottando:
«Peccato lasciare lì questo Porto.»
Carmaux aveva fatto rapidamente il giro della sala, cercando cogli sguardi Pierre le Picard. Vedendolo chiacchierare tranquillamente coll'alcalde, uscì sperando di raggiungere i due uomini che avevano mandato quel grido.
La folla che ingombrava le sale vicine era d'altronde tanta da non permettergli di avanzare in fretta.
«Che cos'hai dunque?» gli chiese Wan Stiller, che lo aveva finalmente raggiunto, barcollando sulle malferme gambe.
Carmaux, invece di rispondere lo trasse verso una finestra, lasciando cadere dietro di sé le tende.
«Non hai udito quel grido?» gli chiese.
«L'avrà mandato qualche fidanzato geloso» rispose l'amburghese.
«L'hai udito bene?»
«Sì.»
«Non ti ricorda nulla?»
«Assolutamente nulla e poi col Porto che stavo bevendo... Oh!... Avevo altro da fare.»
«Eppure io non posso essermi ingannato.»
«Spiegati meglio, compare.»
«Giurerei d'aver udito il grido del capitano Valera.»
«Tuoni d'Amburgo!...» esclamò Wan Stiller, diventando livido. «Il capitano qui!... Allora verremo scoperti.»
«Cerchiamolo, e non lasciamolo scappare.»
I due compari rialzarono la tenda e si misero a girare fra le coppie danzanti, poi passarono al pianterreno dove corsari, spagnoli e fanciulle alternavano il fandango al bolero con grande slancio e fra un chiasso indemoniato.
Stavano per passare dinanzi ad una porta, quando quella si aprì e comparve il comandante della guarnigione col volto abbuiato. Egli fissò su di loro uno sguardo acuto come la punta d'uno spillo.
«Pare che vi annoiate» disse lo spagnolo, affettando un sorriso. «Non vi ho ancora veduti a danzare.»
«Siamo troppo vecchi, comandante» rispose Carmaux. «Lasciamo il posto ai più giovani.»
«Fatevi servire del vino e dei cibi nella sala superiore e cercate di divertirvi meglio che potete.»
«Grazie, comandante» risposero i due compari, salendo lo scalone che metteva al secondo piano.
«Hai notato quello sguardo?» chiese Carmaux, quando si trovarono al loro tavolo.
«Sì, compare» rispose l'amburghese. «Aveva l'aria corrucciata e anche imbarazzata, il comandante.»
«Avvertiamo Pierre. Io non sono tranquillo.»
Stavano per alzarsi, quando un tumulto spaventevole scoppiò improvvisamente nella sala, ripercuotendosi in quelle vicine.
Le danzatrici avevano lasciati improvvisamente i loro cavalieri e fuggivano disordinatamente verso le scale seguìte dai borghesi, dagli ufficiali e dai suonatori, mentre si udivano echeggiare dovunque le grida di: «Tradimento!... Tradimento!...»
I marinai della corvetta, sorpresi da quella fuga improvvisa, erano rimasti intontiti, chiedendosi che cosa era avvenuto.
«Camerati!...» gridò Carmaux, sfoderando la spada. «Alle armi!...»
Nel medesimo istante si udirono rimbombare verso la rada alcuni colpi di cannone, seguìti da nutrite scariche di moschetteria.
I corsari, rimessisi dal loro stupore, comprendendo che erano stati traditi, stavano per precipitarsi giù dallo scalone per unirsi ai loro compagni che si trovavano nelle sale inferiori, quando comparve Pierre colla spada in pugno.
«È troppo tardi!...» gridò con voce alterata. «Le truppe ci hanno bloccati ed i nostri stanno barricando il portone.»
«Ve lo avevo detto, signor Pierre, che avevo dei brutti presentimenti» disse Carmaux. «Fu lui che aveva mandato quel grido.»
«Chi lui?» chiese il filibustiere.
«Il capitano Valera.»
«Ancora quel furfante?»
«È lui che ha preparato l'agguato, ne sono certo.»
«Mille demoni!...» gridò Pierre.
«Tentiamo un'uscita» disse l'amburghese.
«Hanno piazzato quattro pezzi di cannone dinanzi al portone e vi sono due compagnie di archibugieri» disse Pierre. «Ci faremmo massacrare inutilmente.»
«Siamo dunque assediati?» chiesero parecchie voci.
«Non perdetevi d'animo, camerati» rispose Pierre. «L'edificio è solido e resisteremo a lungo. D'altronde, la squadra di Morgan non tarderà a giungere.»
«E la corvetta?» chiese Wan Stiller, udendo rombare con maggior intensità le artiglierie.
«Temo che quella sia perduta» rispose Pierre. «I venti uomini che abbiamo lasciati a bordo non la dureranno a lungo. Si scorge il molo dalle finestre?»
«No» rispose Carmaux. «Abbiamo due file di case dinanzi a noi.»
«Organizziamo la resistenza» disse Pierre. «Barrichiamo la scala e le porte e ritiriamoci tutti quassù. Vedremo se gli spagnoli avranno il coraggio di assalirci anche qui dentro.»
Mentre i corsari accorrevano in aiuto dei loro camerati, che stavano accumulando dietro il portone tutta la mobilia delle sale inferiori, Carmaux e Wan Stiller s'accostarono cautamente ad una finestra.
Essendo l'edificio isolato in mezzo alla piazza della borgata, potevano scorgere quello che facevano gli spagnoli e valutare le loro forze.
Il presidio aveva prese le sue misure per bloccare completamente i corsari. Due compagnie di archibugieri avevano occupati fortemente i quattro sbocchi delle vie, erigendo frettolosamente delle barricate con carrette, botti e tronchi d'albero ed avevano collocati anche quattro cannoni di fronte alla porta, alla distanza di cento passi.
Pareva però che gli spagnoli non avessero alcuna fretta di assalire il palazzo. Forse contavano di prendere egualmente i corsari affamandoli.
«Brutto affare» disse Carmaux all'amburghese. «Si tengono sicuri di averci nelle mani, senza consumare la polvere.»
«I nostri della corvetta sapranno che Morgan aveva deciso di mandare una forte avanguardia all'isola di Santa Caterina?»
«Moriz, che ha ora il comando della nave, non deve ignorarlo e si recherà subito là per vedere se le navi sono giunte. Se le trova, questo assedio non durerà a lungo.»
«Odi Carmaux?»
«Sì, i colpi di cannone rallentano. La corvetta deve essersi messa alla vela.»
«Almeno quelli si salvano.»
«Speriamo di cavarcela anche noi, compare.»
Stavano per ritirarsi, quando videro accendersi sulla piazza alcune cataste di legna, poi avanzarsi un ufficiale che teneva sulla punta della spada un fazzoletto. Un trombettiere lo seguiva.
«Un parlamentario» disse Carmaux.
Udendo il primo squillo, Pierre le Picard si era slanciato verso la finestra occupata da Carmaux e dall'amburghese.
«Vengono ad intimarci la resa» disse il filibustiere. «Che nessuno faccia fuoco.»
L'ufficiale si era fermato a dieci passi dal portone, mentre il trombettiere faceva squillare poderosamente il suo istrumento.
«Che cosa vogliono dunque?» chiese Pierre affacciandosi.
«D'ordine del comandante della guarnigione e dell'alcalde, v'intimo la resa» gridò l'ufficiale, alzando il capo.
«Per chi ci prendete?» gridò il filibustiere, fingendosi incollerito. «Così voi trattate i marinai della flotta? Quale scherzo è questo?»
«Ah!... Lo chiamate uno scherzo!...» esclamò l'ufficiale. «È inutile che voi prolunghiate l'equivoco; ormai siete stati riconosciuti.»
«Per chi?»
«Per filibustieri della Tortue.»
«Ma voi siete pazzi!» gridò Pierre. «Finitela, o noi vi daremo l'assalto alla borgata e la bruceremo. I miei marinai sono furiosi e non son più capace di trattenerli.»
«Volete prolungare la commedia?»
«Ditemi almeno chi è quell'imbecille che pretende di riconoscere in noi, onorati marinai della flotta spagnola, dei ladri di mare.»
«È un uomo che fu vostro prigioniero: il capitano Juan de Valera.»
«Che l'inferno l'inghiotta...» mormorò Carmaux. «Non mi ero ingannato.»
«Dite a quel capitano che è un imbecille!» urlò Pierre. «Noi non siamo corsari.»
«Ho l'ordine d'intimarvi la resa. Poi si vedrà se voi siete realmente spagnoli o ladroni della Tortue.»
«La marina non cede dinanzi a simili intimazioni.»
«Badate che vi sono qui cinquecento soldati e che la vostra nave ha già preso il largo abbandonandovi.»
«Noi siamo in numero sufficiente per resistervi finché ci piacerà. Attaccateci, se l'osate, e i miei marinai vi mostreranno di che cosa sono capaci.»
«Lo vedremo» rispose l'ufficiale allontanandosi, seguíto dal trombettiere.
«Se avessimo i nostri archibugi non m'inquieterei troppo, quantunque si trovino di fronte a noi cinquecento uomini, se sono veramente tanti.»
«Dubito che siano così numerosi» rispose Carmaux.
«Devono però essere in buon numero e hanno cannoni e archibugi.»
«Ci siamo lasciati prendere come ragazzi inesperti. Non ci rimane che sperare nell'avanguardia della flotta di Morgan, che doveva partire all'alba del giorno successivo a quello della nostra partenza. Se è già approdata a Santa Caterina verrà avvertita dalla Vaquez e l'assedio non durerà molto. Come stiamo a viveri, Carmaux?»
«C'è da bere, signore.»
«Intanto berremo» concluse pacatamente Pierre, che non era uomo da perdersi d'animo. «Le muraglie sono grosse, le finestre del piano inferiore sono munite di solide inferriate, la porta e lo scalone sono barricati ed infine abbiamo le nostre spade e le nostre pistole. Non faranno di noi un solo boccone.»
Gli spagnoli, anche dopo il ritorno del parlamentario, non diedero segno di voler forzare il palazzo del governo.
Per il momento si accontentavano di sorvegliare gli assediati; quella tregua non doveva tuttavia durare a lungo, tutti i corsari ne erano convinti.
E infatti ai primi albori, un colpo di cannone, la cui palla sfondò uno dei due battenti del portone, diede il segnale della battaglia.
Gli spagnoli durante la notte si erano poderosamente trincerati agli sbocchi delle vie ed avevano anche scavato una piccola trincea per mettere al coperto i loro pezzi e gli artiglieri.
«La festa comincia» disse Carmaux. «Difendiamo la pelle, compare Wan.»
«Siamo tutti pronti» rispose l'amburghese.
Al primo colpo di cannone ne era venuto dietro un altro, poi un terzo, quindi delle furiose scariche di moschetteria si erano seguìte.
Mentre i pezzi miravano a sfondare la porta, gli archibugieri dirigevano il fuoco contro le finestre, per impedire ai corsari di affacciarsi e di rispondere.
Pierre le Picard, che non voleva esporre inutilmente i suoi uomini e che voleva sopratutto economizzare le munizioni per l'ultima difesa, aveva dato ordine di non occuparsene. Già le massiccie pareti erano più che sufficienti a ripararli e la barricata innalzata fra il portone e la scala li garantiva da un immediato attacco.
Quel fuoco violentissimo durò una buona ora, con grande spreco di polvere da parte degli spagnoli e con scarso successo. Solo il portone, scardinato e semi-fracassato dal tiro dei quattro pezzi d'artiglieria aveva finito per rovinare addosso alla barricata, ma l'ingresso era ostruito da tanti rottami da osatacolare ogni tentativo di attacco.
Quando gli zappatori si mossero per sgombrare quell'enorme cumulo di mobili sfasciati, furono accolti da parte dei corsari con una tale scarica di pistolettate che più della metà rimasero dinanzi al palazzo morti o moribondi. Gli altri, nonostante le imprecazioni degli ufficiali, rinunciarono subito alla pericolosa impresa, rifugiandosi dietro le trincee.
«L'osso è duro da rodere» disse Carmaux, che da una finestra, prudentemente riparato dietro un angolo, spiava le mosse degli assedianti. «Non oseranno prendere d'assalto il palazzo. Ti sembra, compare?»
«Ne sono convinto anch'io» rispose Wan Stiller. «Hanno troppa paura dei filibustieri.»
«Ah!... Se potessi vedere quel maledetto capitano!...»
«Si guarderà bene dal mostrarsi. Vorrei sapere perché non ha seguíto a Panama il conte di Medina.»
«Quello avrà fiutato il pericolo e lo avrà lasciato qui per sorvegliare la costa. Volpone!... Ci ha giocati per bene; se capita ancora fra i piedi non commetterò la sciocchezza di risparmiarlo come feci nel monastero di Maracaybo.»
«Hanno sospeso il fuoco!...»
«Si ritengono certi di prenderci anche senza sprecare palle e polvere» disse Carmaux. «Contano sulla fame e più di tutto sulla sete, compare. Se posdomani nessuno viene in nostro aiuto o saremo costretti a tentare una sortita disperata o lasciarci morire d'inedia.»
«Non aspetteremo quel momento» disse l'amburghese. «Usciremo finché avremo forza per lavorare colle spade.»
Capitolo trentatreesimo
Fra il piombo ed il fuoco
Dopo quel primo scacco, gli spagnoli persuasi delle difficoltà che si presentavano nell'espugnazione di quell'edificio difeso da quei sessanta disperati, non avevano più rinnovato il tentativo.
La prima giornata era così trascorsa relativamente calma, ma l'assedio era stato convertito in un blocco strettissimo onde impedire ai filibustieri di invadere e saccheggiare le case vicine per provvedersi, se non di viveri, almeno d'acqua nelle cisterne dei cortili.
Anche durante la notte, gli assedianti si mantennero tranquilli attorno ai fuochi che avevano accesi in gran numero per far comprendere agli assediati che vegliavano rigorosamente.
Il secondo giorno le cose non variarono. Qualche colpo di cannone sparato contro la barricata, qualche scarica d'archibugi verso le finestre e null'altro.
Pierre le Picard cominciava ad impensierirsi. La corvetta doveva essere giunta fino dal giorno innanzi all'isola di Santa Caterina. Se non era tornata era segno che colà non doveva aver trovata l'avanguardia della squadra flibustiera.
Come continuare la resistenza?
Le tortillas erano finite, i fiaschi erano vuoti e la sete più che la fame cominciava a farsi sentire, specialmente a causa del gran caldo che regnava.
«La va male» brontolava Carmaux, che si affacciava ora ad una finestra ed ora ad un'altra colla speranza di veder gli spagnoli levare l'assedio. «Siamo in un bell'impiccio e se non facciamo un colpo di testa, creperemo di fame e di sete.»
Già i più vecchi ed i più influenti avevano proposto a Pierre le Picard di tentare una sortita; ma il filibustiere che non disperava ancora, si era recisamente parendogli quella un'impresa troppo arrischiata.
«Sessanta e senza archibugio non riusciranno mai a vincerne quattro o cinquecento, armati anche di cannoni» aveva risposto. «Aspettiamo ancora. Forse gli aiuti sono già in viaggio.»
Stava per calare la notte, quando Carmaux e Wan Stiller, che spiavano le mosse degli assedianti, notarono fra loro un movimento insolito.
Il numero dei soldati, soprattutto degli archibugieri, era aumentato e ai quattro pezzi della trincea se n'era aggiunto un quinto.
«Uhm!...» mormorò il francese, scuotendo la testa. «Temo che la notte non passerà liscia.»
Fece chiamare Pierre le Picard e lo mise a parte dei suoi timori.
«Sì, si preparano ad un assalto decisivo» disse il filibustiere, dopo aver notato a sua volta il movimento che regnava fra gli assedianti.
«Signor Pierre» disse Carmaux, «mi viene un sospetto.»
«E quale?»
«Che gli spagnoli siano stati avvertiti che si viene in nostro aiuto. È impossibile che l'avanguardia della flotta, che doveva partire dodici ore dopo di noi dalla Tortue, non sia ancora giunta a Santa Caterina. Sono trascorsi già tre giorni e non mi stupirei che fosse arrivato anche il capitano Morgan col grosso»
«Che tu sia un veggente, Carmaux?»
«Non è che una semplice supposizione, signor Pierre.»
«Che io condivido. Prepariamoci ad una difesa disperata.»
I corsari, avvertiti dei preparativi d'attacco che facevano gli spagnoli, si erano messi alacremente all'opera per prolungare la difesa il più possibile.
Accesero tutte le lampade, che erano ancora in buon numero; raccomodarono alla meglio la barricata, quindi coi mobili rimasti ne formarono una seconda sull'ultimo pianerottolo dello scalone, dinanzi alla porta della sala maggiore del secondo piano, dove intendevano opporre l'ultima difesa.
Avevano appena ultimati quei preparativi, quando i cinque pezzi della trincea tuonarono insieme con un rimbombo assordante, sfondando i rottami del portone.
Pierre le Picard aveva divisi i suoi uomini in due drappelli: uno doveva incaricarsi della difesa della scala, l'altro far fuoco dalle finestre nel caso che gli spagnoli tentassero qualche scalata.
I colpi di cannone si succedevano ai colpi, fracassando a poco a poco i mobili accumulati dinanzi alla scala.
Quella musica infernale durò un quarto d'ora, poi, quando la barricata crollò, una compagnia d'alabardieri, sostenuta da un grosso drappello di archibugieri, mosse risolutamente all'assalto dello scalone con urla formidabili.
Malgrado i colpi di pistola dei filibustieri, gli assalitori entrarono ben presto sotto l'atrio, occupandolo fortemente, e sgombrandolo dai rottami per far posto ad una seconda compagnia che si era formata per l'assalto decisivo.
I filibustieri, radunatisi sull'ultimo pianerottolo, li aspettavano colle spade in pugno.
Pierre le Picard era in prima linea ed incoraggiava i suoi uomini, gridando:
«Tenete duro!... I soccorsi stanno per giungere.»
La compagnia d'assalto, entrata a sua volta, fece una scarica contro gli assediati gettandone a terra parecchi, poi si slanciò su per la scala colle picche in pugno.
Era il momento atteso dai filibustieri per riprendersi la rivincita. Con un urto poderso rovesciarono giù per la scala i mobili che avevano accumulato dinanzi la porta della sala maggiore, poi, approfittando della confusione e dello spavento che aveva colto gli spagnoli, vedendosi precipitare addosso quella valanga, si scagliarono a loro volta col ferro in mano, impegnando una mischia furiosa.
La loro discesa era stata così fulminea, che gli archibugieri rimasti sotto l'atrio non avevano avuto nemmeno il tempo di fare fuoco. Se li trovarono dunque addosso mentre la compagnia d'assalto, disorganizzata da quella tempesta di mobili che ne aveva uccisi parecchi e anche storpiati non pochi, scappava a tutte gambe.
Gli spagnoli, anche in quell'epoca, non erano uomini da cedere facilmente il passo e fecero animosamente fronte al poderoso assalto dei corsari, difendendosi disperatamente.
La lotta durava da qualche minuto con gravi perdite d'ambo te parti, quando si udì una voce gridare:
«Al fuoco!... Al fuoco!....»
La barricata si era incendiata, o forse era stata incendiata appositamente dagli assedianti, e fiamme vivissime si sprigionavano fra quell'ammasso di rottami, sollevando fra i combattenti una barriera ardente.
«In ritirata!...» aveva urlato Pierre le Picard, che era uscito incolume da quella lotta sanguinosa.
I filibustieri che si sentivano avvolgere dal fumo, risalirono precipitosamente la scala, mentre le fiamme si comunicavano alle tappezzerie ed ai tendaggi delle vicine porte.
Un'ondata di fumo e di scintille, spinta dalla corrente d'aria che entrava per il portone, s'allungava su per la scala.
«Ci bruciano vivi!» gridò Carmaux. «Chiudete la porta della sala o soffocheremo.»
Fu subito obbedito, ma ormai l'incendio si propagava rapidamente per le sale inferiori.
I corsari si contarono rapidamente: erano ancora in quarantadue. Diciotto erano rimasti sulla scala e nell'atrio uccisi dalle scariche di moschetteria e dalle alabarde.
«Amici» disse Pierre le Picard «non ci rimane che di saltare dalle finestre e morire vendendo cara la pelle. Sfondiamo una inferriata e mostriamo agli spagnoli come sanno cadere i filibustieri della Tortue.»
Nella sala erano rimasti ancora alcuni mobili assai pesanti, fra cui una lunga tavola.
Venti braccia la sollevarono e servendosene come d'una catapulta percossero poderosamente una delle inferriate, rinnovando l'urto per tre volte di seguito.
Al quarto le sbarre, strappate dal loro alveolo, caddero sulla piazza.
«Io apro la via» gridò Pierre, mentre il fumo, passando fra le fessure, stava per invadere la sala.
Misurò l'altezza: non vi erano che cinque metri, un'inezia per quegli uomini che avevano dell'agilità da vendere.
Pierre impugnò la spada, e per il primo saltò, cadendo in piedi.
Aveva appena toccato terra e si preprava ad avventarsi contro i nemici, quando un rimbombo assordante echeggiò verso la baia. Pareva che venti o trenta cannoni avessero fatto fuoco contemporaneamente.
Pierre aveva mandato un urlo di gioia:
«Ecco la nostra squadra!... Saltate, amici!...»
Si guardò intorno: non vi erano più spagnoli sulla piazza.
Udendo quegli spari che annunciavano l'arrivo d'altri filibustieri, si erano affrettati a porsi in salvo sulla via di Panama per rifugiarsi forse nella formidabile rocca di S. Felipe.
Anche gli abitanti fuggivano all'impazzata verso i boschi, fra le urla delle donne ed i pianti dei bambini.
I corsari, che temevano di veder sprofondare il pavimento della sala, saltarono tutti, compresi Carmaux e Wan Stiller.
Pierre le Picard organizzò la sua banda e mosse velocemente verso la rada. Le cannonate erano cessate e si udivano invece gli urrà strepitosi degli equipaggi.
Quando il drappello giunse sulla gettata, dieci scialuppe cariche di gente armata vi giungevano.
Un uomo sbarcò per il primo e mosse verso Pierre, dicendogli:
«Sono ben lieto di essere giunto in tempo per salvarti.»
Era Morgan.
Capitolo trentaquattresimo
L'assalto di Panama
La spedizione organizzata da Morgan per muovere all'attacco della regina dell'Oceano Pacifico, era la più formidabile che fino allora avessero potuto formare i filibustieri della Tortue.
Essa si componeva di trentasette legni fra grossi e piccoli, montati da duemila combattenti, senza contare i marinai, muniti di artiglierie, di fuochi artificiali e di abbondanti munizioni da bocca e da guerra: una vera armata per quei tempi.
Da tutte le parti erano accorsi uomini per arruolarsi sotto la bandiera di Morgan, colla speranza di arricchirsi prodigiosamente nel saccheggio di quella grande ed opulenta città, la maggiore che possedessero gli spagnoli dopo la capitale del Perù.
Ne erano giunti dalla Giamaica, da S. Cristoforo, da Goave e quasi tutti i bucanieri di San Domingo; quei terribili e famosi bersaglieri, avevano aderito per odio contro gli spagnoli.
Con un tatto e con un'abilità straordinaria, Morgan era riuscito a riordinare quell'accozzaglia di ladri di mare, formata dalla più indisciplinata canaglia dell'universo.
Separata la squadra in due divisioni, aveva nominato sé stesso ammiraglio col comando della prima e un altro contrammiraglio per il comando della seconda. Quarantotto ore dopo la partenza della corvetta di Pierre le Picard, muovendo risolutamente verso l'isola di Santa Caterina che era allora tenuta fortemente dagli spagnoli e dove contava di lasciare parte della sua gente onde avere sempre una buona riserva.
Raggiunto in alto mare dai quattro legni comandati da Brodely, che aveva mandato in cerca di viveri e che si erano riforniti abbondantemente, prendendo d'assalto e saccheggiando la città di Rancaria, presso Cartagena, dopo cinque giorni aveva calato le àncore nella baia dell'isola di Santa Caterina.
Il presidio spagnolo, spaventato per la comparsa di forze così imponenti, non aveva osato opporre la menoma resistenza, quantunque disponesse di forze abbastanza numerose.
Alla prima intimazione di resa era subito sceso a patti, cedendo ai filibustieri dieci forti armati di un gran numero di pezzi d'artiglieria ed i magazzini ben forniti d'armi, di munizioni e di provviste alimentari.
La resa era appena avvenuta quando nella rada era entrata la corvetta. Udendo la triste avventura toccata ai corsari di Pierre le Picard, le due squadre non avevano indugiato a levare le àncore, dopo d'aver lasciato un forte presidio a Santa Caterina e, come abbiamo veduto, erano giunti dinanzi alla borgata nel momento in cui gli assediati si credevano ormai irremissibilmente perduti.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La sera stessa Morgan, che temeva che la notizia del suo sbarco potesse giungere a Panama troppo presto e che gli spagnoli potessero chiedere soccorsi alle colonie del Perù, del Cile e del Messico, organizzava tosto una forte colonna per impadronirsi del forte di S. Felipe, chiamato anche forte di San Lorenzo, per aprirsi la via che conduceva all'Oceano Pacifico.
Ne affidò il comando a Brodely, che si era acquistata molta fama, e che godeva la fiducia di tutti, dandogli per sottotenente Pierre le Picard.
Carmaux e Wan Stiller, sempre all'avanguardia delle imprese più arrischiate, ne facevano parte assieme a don Raffaele che era giunto con la squadra e che per odio contro il capitano Valera, aveva ormai abbracciato definitivamente la causa dei filibustieri, quantunque gli spiacesse, e non poco, di dover agire contro la bandiera della sua patria.
La colonna si componeva di cinquecento uomini, scelti fra i più valorosi, poiché non si ignorava che quel castello era uno dei più solidi e che anzi era ritenuto inespugnabile.
E infatti, eretto con enormi spese sulla cima d'una rupe ed incaricato di chiudere l'unica via che conduceva a Panama, poderosamente armato di grosse artiglierie e difeso da una guarnigione numerosa e anche valorosa, quel castello era ostacolo così formidabile da fare indietreggiare i più audaci.
I filibustieri però, abituati a non dare mai indietro, si erano animosamente mossi, più che certi di venire a capo di quella pericolosa spedizione.
Al mattino erano già sotto il castello, e intimavano altezzosamente alla guarnigione la resa, minacciando in caso contrario di sterminare la guarnigione.
La risposta che ottennero fu una terribile grandinata di palle di fucile e di cannone.
I filibustieri non si sgomentarono per questo. Animati dalla voce dei sotto-capi, si slanciarono intrepidamente all'assalto, smaniosi di venire all'arma bianca. Ma il fuoco degli assediati, lungi dal rallentare, diventò invece formidabile.
Già cominciavano a scoraggiarsi, quando un bucaniere ebbe un'idea luminosa. Aveva osservato che le tettoie del forte erano coperte di foglie di palma secche, entrò in un campo coltivato a cotone che si estendeva a fianco della rupe, raccolse alcune manate di bambagia e, formata una palla l'attaccò alla bacchetta dell'archibugio, dopo aver passata l'estremità inferiore nella canna.
Ciò fatto diede fuoco al cotone e scaricò il fucile. Quello strano proiettile andò a cadere sulle tettoie del forte le cui foglie non tardarono ad accendersi.
I suoi compagni vedendo quel buon risultato, lo imitarono e cominciò a cadere sulle fortificazioni una pioggia di fuoco anziché di piombo che cadde, che sviluppò un incendio terribile.
Mentre gli spagnoli, che correvano il pericolo di morire arrostiti, cercavano di domare le fiamme, i filibustieri giunsero sotto le palizzate. Abbattutene alcune ed incendiatene altre, dopo un sanguinoso combattimento riuscivano finalmente ad impadronirsi della rocca.
Di trecentoquaranta spagnoli soli ventiquattro erano riusciti a sfuggire alla morte; ma anche i filibustieri avevano pagata a caro prezzo quella prima vittoria, poiché centosessanta di loro erano rimasti sul terreno e ottanta erano feriti.
Spento dopo lunghi sforzi l'incendio, Brodely, che nonostante la perdita delle gambe non aveva ceduto il comando, s'affrettò a fare restaurare il forte onde difendere quel passo importante nel caso che da Panama fossero mandate truppe a riconquistarlo.
Morgan informato di quel primo successo, qualche giorno dopo arrivò al castello col grosso. Aveva fretta di giungere a Panama per non lasciar tempo agli spagnoli di chiamare truppe dal Perù e dal Messico, dove vi erano numerose guarnigioni e poi per paura che il conte di Medina gli sfuggisse nuovamente riparando nelle altre colonie.
Lasciati cinquecento uomini a guardia del castello, il 18 gennaio del 1671 si metteva risolutamente in marcia, non avendo altra guida che don Raffaele che aveva condotto con sé, non essendovi nessuno dei suoi che conoscesse la via che attraversava l'istmo.
Il povero piantatore si era bensì dapprima recisamente rifiutato di far la parte del traditore, ma minacciato di esser fatto morire fra i più atroci tormenti, aveva dovuto cedere alla volontà del formidabile corsaro.
Gli spagnoli, già avvertiti dell'avanzarsi di quel piccolo esercito, non essendo ancora in numero sufficiente per tentare la sorte delle armi, avevano invece distrutti tutti i villaggi e bruciarono perfino le piantagioni, perché i nemici non si rifornissero di viveri.
Morgan però non era uomo da spaventarsi. Sebbene la fame travagliasse crudelmente i suoi uomini, continuò la sua marcia ora attraverso a boscaglie od ora salendo in canotti il fiume Chagres.
Don Raffaele aveva assicurato che nela borgata di Cruces dovevano trovare grandi magazzini, essendo quel borgo il deposito principale di tutte le merci, che andavano a Panama o ne venivano seguendo per un tratto la via fluviale del Chagres.
Fu una crudele delusione. Gli spagnoli, fuggendo dinanzi alle avanguardie dei filibustieri, avevano tutto bruciato e portato via.
Quegli affamati ebbero nondimeno la fortuna di trovare un sacco di cuoio pieno di pane e sedici giare di vino, ben poca cosa per tanta gente.
Si rifecero invece coi cani e coi gatti che erano in buon numero e che distrussero per metterli ad arrostire.
Là finiva il corso del Chagres.
Morgan rimandò alla costa, colle scialuppe che aveva portato, sessanta dei più sfiniti, non conservando solo una piccola barca che doveva servirgli per mandare notizie alla flotta, e dopo una notte di riposo riprese la terribile marcia.
Aveva ancora mille e cento uomini, forza certo imponente, se non tale da fronteggiare gli spagnoli rinchiusi in Panama, che si supponevano quattro o cinque volte più numerosi. Tuttavia Morgan non disperava dell'esito finale di quell'ardita impresa.
Si impegnarono allora fra le aspre gole della Cordigliera di Veragua. Avanzando non scorgevano che burroni e abissi profondi, immense rupi che pareva da un momento all'altro dovessero precipitare sulle loro teste e boscaglie dove non vi erano tracce d'alcun sentiero.
Guidandosi colle bussole, quegli uomini intrepidi non esitarono a spingersi avanti ed a superare tutti gli ostacoli.
Guai se gli spagnoli li avessero assaliti in quelle gole!...
Se non osavano mostrarsi, mandavano però contro i filibustieri grosse partite d'indiani che li tribolavano non poco.
Di quando in quando dalle foreste o dai picchi piombavano loro addosso nembi di freccie e tempeste di sassi, senza che mai riuscissero a scorgere le mani che scagliavano quei proiettili, perché gl'indiani subito fuggivano colla velocità dei daini, sottraendosi abilmente alle scariche degli archibugieri.
Nel penultimo giorno dovettero sostenere una furiosa battaglia che per poco non riuscì loro fatale.
Si erano inoltrati in una gola strettissima, colle pareti tagliate quasi a picco e dove cento uomini ben risoluti e bene armati sarebbero stati sufficienti per sterminarli tutti, quando si videro assaliti da una turba d'indiani coi quali furono costretti a venire alle mani e combattere con tutte le loro forze.
Per parecchie ore la sorte rimase indecisa e già i filibustieri scoraggiati stavano per ritirarsi, quando un fortunato colpo di fucile abbatté il capo degl'indiani. I suoi uomini, perdutisi d'animo, abbandonarono il campo, fuggendo sulle montagne.
Il nono giorno quell'orda affamata, dopo d'aver superata con infiniti stenti la Cordigliera, giungeva in una vasta pianura caldissima, dove corse il pericolo di morire di sete, non avendo trovato una sola goccia d'acqua; e forse non avrebbe avuto il coraggio di seguire più oltre Morgan, se una pioggia abbondantissima, seguita da un violento uragano, non li avesse un po' ringagliarditi.
Lo stesso giorno scoprivano da lontano l'Oceano Pacifico, ed in una vallata trovarono un gran numero di bovi, di asini e di cavalli.
Fu un vero ristoro per quei disgraziati, che in tanti giorni non avevano fatto un solo pasto abbondante.
Si erano appena rimessi in marcia, avanzando a casaccio perché don Raffaele aveva dichiarato di non riconoscere più quei luoghi, quando videro sorgere all'orizzonte le torri di Panama.
L'opulenta regina dell'Oceano Pacifico stava dinanzi a loro!...
Un entusiasmo indicibile si era impadronito di quegli uomini che avevano temuto di rimanere sopraffatti dalle crescenti difficoltà dell'impresa.
«Andiamo all'assalto!...» tale fu il grido che sfuggì da tutti i petti.
Morgan che non voleva cimentarsi subito con uomini ancora stanchi e che desiderava esplorare il terreno, promise l'attacco per l'indomani.
Gli spagnoli, avvertiti della presenza di quei formidabili nemici, rimasero stupefatti e spaventati. Fino allora non avevano creduto che quegli uomini fossero capaci di tanta audacia.
Nondimeno, mentre si organizzava la difesa, il Presidente dell'Udienza Reale spinse alcuni corpi di truppe verso i filibustieri, sperando di bloccarli, e fece tagliare le vie che conducevano in città ed alzare qua e là trincee e batterie.
Morgan avendo scorta una boscaglia dove non vi era la menoma traccia di sentiero, approfittò della notte per farla attraversare dai suoi uomini, giungendo alle spalle dei corpi spagnoli, i quali si videro costretti a lasciare le trincee e le batterie, diventate ormai inutili.
Al mattino i filibustieri erano pronti per muovere all'attacco della città.
Gli spagnoli si erano già riuniti fuori delle mura per dare loro battaglia. Le loro forze si componevano di quattro reggimenti di linea, di duemila quattrocento uomini di truppa leggera, di quattrocento cavalieri e di duemila tori selvaggi condotti da parecchie centinaia d'indiani.
I filibustieri invece non erano che mille e senza un solo pezzo di artiglieria.
«Compare» disse Wan Stiller a Carmaux, che dal margine della foresta osservava, assieme a don Raffaele, gli spagnoli che si spingevano per la pianura in ordine di battaglia, coi tori in testa
«Qui noi tutti vi lascieremo le ossa.»
«Vedremo, vedremo, compare Wan» rispose Carmaux, con voce tranquilla. «Sono forse i tori che ti spaventano?»
«Io mi domando che cosa accadrà di noi quando ci rovineranno addosso tutte quelle bestie indemoniate e dietro di esse tutti quei reggimenti.»
«Finché non vedo Morgan preoccupato, non ho alcun timore. Che le forze che abbiamo dinanzi siano imponenti non lo nego, ma noi siamo sempre i terribili filibustieri della Tortue. Don Raffaele, voi sapete dove si trova il palazzo del conte di Medina, è vero?»
«Sì» rispose il piantatore.
«Appena saremo entrati in Panama ci condurrete là assieme a Morgan. Il conte non deve sfuggirci.»
«Se sarete capaci di entrare» disse don Raffaele, coi denti stretti. «Spero che i miei compatrioti vi diano fra poco una tale batosta da farvi scappare più che in fretta fino a Chagres.»
«Voi avete ragione di dire così, mio caro don Raffaele. Siete spagnolo.»
I primi colpi di cannone sparati dagli spagnoli, interruppero la loro conversazione.
La battaglia stava per cominciare.
Morgan, che al pari degli altri, temeva l'irrompere di quelle masse d'animali, aveva raccomandato ai suoi uomini di non lasciare il margine della foresta.
Essendo colà il terreno assai malagevole, frastagliato da burroncelli e da crepacci, contava su quegli ostacoli per disorganizzare le colonne dei tori. Aveva avuto anzi la precauzione di mettere in prima fila tutti i bucanieri, quei formidabili bersaglieri che erano abituati a misurarsi con quei robusti animali che nelle boscaglie di San Domingo e di Cuba costituivano il loro principale nutrimento.
Gli spagnoli muovevano all'attacco in linee profonde, fiancheggiati dalla cavalleria e preceduti dagl'indiani che conducevano i tori.
Quando i filibustieri videro quella massa enorme slanciarsi innanzi, aizzata dalle urla selvagge degl'indigeni, furono lesti ad aprire un fuoco formidabile per arrestarla prima che potesse giungere sul margine della foresta.
La carica di quei duemila animali era spaventosa. Correvano all'assalto a testa bassa, colle corna tese orizzontalmente, pronti a sgominare le linee dei corsari e muggendo furiosamente.
Il terreno invece non si prestava ad un assalto compatto. Costretti a dividersi e suddividersi in causa dei burroni, furono accolti dai bucanieri con un fuoco così terribile, che in pochi minuti la metà di essi rimase sul terreno.
Gli altri si dispersero e tornarono verso gli spagnoli, spargendo il panico fra le loro file.
Imbaldanziti da quel primo successo, i corsari ormai sicuri della vittoria, lasciarono la boscaglia assalendo con impeto disperato le forze spagnole.
Si impegnò una mischia sanguinosissima, che durò ben due ore con grande strage d'ambo le parti.
Eppure, incredibile a dirsi, non ostante l'accanita resistenza opposta dagli spagnoli, alle dieci del mattino, fanti, alabardieri ed archibugieri, quelle truppe che il Presidente dell'Udienza Reale aveva mandate contro il piccolo esercito dei filibustieri, colla speranza di schiacciarlo completamente, fuggivano disordinatamente verso Panama.
Tutta la cavalleria era stata distrutta dal fuoco implacabile dei bucanieri, e seicento spagnoli erano rimasti morti sul campo a testimoniare il loro valore, oltre un gran numero di feriti e di prigionieri.
Morgan, radunati i suoi capi, additò loro le torri di Panama, dicendo:
«Ed ora non ci rimane che d'impadronirci della città. Avanti, miei prodi!... La regina dell'Oceano Pacifico è in nostra mano!...»
Capitolo trentacinquesimo
La morte del conte di Medina
Quantunque la battaglia in campo aperto si fosse risolto con la completa sconfitta degli spagnoli, Panama era ancora in grado di opporre una lunga ed ostinata resistenza e di far pagare cara ai filibustieri la loro audacia
Oltre ad essere la più grossa città dell'America Centrale e la più opulenta, era anche la più fortificata, essendo stata cinta interamente dal lato di terra e munita di torri e d'una formidabile artiglieria.
Aveva inoltre nella sua rada navi in buon numero, bene equipaggiate e poderosamente armate e la maggior parte dei suoi abitanti era gente abituata ai combattimenti.
Morgan, che più che la smania di conquista lo spingeva il desiderio di liberare la figlia del Corsaro Nero, alla quale ormai era legato da un affetto ben più profondo che una semplice amicizia, da buon capitano non indugiò a muovere all'assalto della poderosa città.
Voleva approfittare del terrore e della confusione che vi regnava, dopo la disastrosa sconfitta subìta dalle truppe.
Formate quattro colonne d'assalto e dati gli ordini necessari ai suoi capi, mezz'ora dopo la vittoria i suoi uomini, già sicuri d'impadronirsi della città, erano sotto le mura.
Malgrado la dolorosa impressione prodotta dalla perdita della battaglia, soldati e cittadini avevano organizzata rapidamente la resistenza.
Un formidabile fuoco d'artiglieria aveva accolse le colonne d'attacco dei filibustieri, facendo delle vere stragi; ma quei coraggiosi non si perdettero d'animo
Tre ore durò la lotta dinanzi alle mura, mettendo a durissima prova il valore ormai leggendario di quei ladroni di mare. Finalmente, malgrado il fuoco infernale degli spagnoli, Pierre le Picard per il primo, riuscì, alla testa d'un pugno di disperati, a impadronirsi d'uno dei più solidi bastioni, dopo aver distrutto fino all'ultimo i difensori, compresi i frati che il Presidente dell'Udienza Reale aveva inviati sulle mura, perché colla loro presenza incoraggiassero i difensori.()
Voltate le artiglierie contro la città e contro le torri, quel primo manipolo diede tempo agli altri di scalare le mura e di rovesciarsi attraverso le vie come un torrente che rompe gli argini.
Ormai più nessuno opponeva resistenza. Fuggivano i soldati, fuggivano i cittadini, fra un frastuono orrendo e le bordate che scaricavano le navi della rada facevano più danno alle case che ai filibustieri.
Un panico indescrivibile si era impadronito di tutti, cosicché mancò la difesa interna, che avrebbe potuto disputare ancora a lungo la vittoria dei terribili scorridori del golfo del Messico.
I capi, d'altronde, avevano perduta la testa, ed erano stati i primi od a fuggire o ad arrendersi, compreso il Presidente dell'Udienza Reale.
Morgan, temendo che i suoi uomini, dopo tante sofferenze si abbandonassero all'orgia, s'affrettò a far spargere la voce che gli spagnoli avevano avvelenati i cibi e le bevande.
Mentre i filibustieri, occupati i punti principali, bombardavano le navi della baia che erano ormai le sole a opporre ancora qualche resistenza, Morgan con una schiera di corsari scelti, fra i quali Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller, si diresse velocemente verso il centro della città. Don Raffaele, continuamente minacciato di morte, li guidava al palazzo del conte di Medina che era uno dei più noti e dei più belli di Panama.
A Morgan premeva precludergli la fuga e di strappargli Jolanda.
Certo il fulmineo assalto dato dai filibustieri, gli aveva impedito di prendere il largo per tempo.
Un quarto d'ora dopo il drappello, che si cacciava innanzi turbe di fuggenti, giungeva su una vasta piazza, nel cui centro sorgeva un bellissimo edificio a due piani. Sul portone si scorgeva lo stemma del conte: due leoni rampanti in campo azzurro.
Dei servi fuggivano in quel momento, carichi di pacchi che contenevano probabilmente degli oggetti preziosi.
Vedendo comparire quel drappello di uomini armati, gettarono ogni cosa a terra per essere più lesti nella corsa, ma Pierre le Picard giunse in tempo per fermarne uno.
«Non uccidetemi!» aveva gridato il povero uomo, con voce tremante. «Sono un misero servo.»
«Tu sei proprio il tipo che ci occorre, giovanotto» rispose Pierre. «Noi non ti faremo male alcuno se risponderai e subito alle nostre domande.»
«Dov'è il conte di Medina?» gli chiese Morgan, mentre i suoi uomini occupavano l'atrio del palazzo per impedire la fuga a coloro che erano ancora rimasti dentro.
«Non lo so, signore» rispose il servo, diventando livido.
«Pierre», disse il filibustiere, «fa fucilare quest'uomo, giacché cerca d'ingannarci.»
Il poveretto, comprendendo che la sua vita era appesa ad un filo, aveva alzate le mani, gridando:
«No, signori, parlerò.»
«Dov'è dunque?» chiese Morgan, con voce terribile.
«Nel palazzo.»
«Non è fuggito?»
«Gli è mancato il tempo. Non credeva che la città cadesse nelle vostre mani così presto.»
«Vi è una fanciulla con lui?»
«Sì, signore.»
Morgan non aveva potuto frenare un grido di gioia:
«Finalmente Jolanda è mia!...»
«C'è qualcuno col conte?»
«Il capitano Valera e due dei suoi ufficiali.»
«Dove si trova il conte?»
«Si è nascosto»»
«Guidaci» disse Morgan. «A me Carmaux con Wan Stiller. Gli altri circondino il palazzo e facciano fuoco su chi cercherà di uscire.»
«E anche voi, don Raffaele, seguiteci» disse Carmaux.
Mentre i filibustieri circondavano il palazzo, Morgan, Pierre, Carmaux, Wan Stiller e don Raffaele, seguivano il servo.
Invece di salire il marmoreo scalone che metteva nelle sale superiori, il prigioniero li condusse in un corridoio alla cui estremità si scorgeva un quadro di grandi dimensioni rappresentante una Madonna.
«Dove andiamo?» chiese Pierre, che diffidava.
«Vi conduco dove si trova il conte» rispose il servo.
«Mano alle spade, amici» comandò il filibustiere. «Rammentatevi dei colpi che vi ha insegnati il Corsaro Nero.»
«Silenzio, signori» disse il servo. «Pare che alterchino.»
Tutti si erano accostati al quadro tendendo gli orecchi. Si udiva la voce del conte confusa ad altre.
Pareva che là dietro si discutesse animatamente. Morgan, che aveva il cuore stretto, ascoltava attentamente rattenendo il respiro.
Ad un tratto, dopo un brevissimo silenzio, udì il governatore di Maracaybo dire con voce minacciosa:
«Firmate, signora, siete ancora in tempo!... Firmate o non uscirete viva di qui!...»
Morgan era diventato pallido come un morto.
«Attenti amici: vi è la signora di Ventimiglia ed il conte potrebbe ucciderla. E tu, apri!...»
Il servo toccò un bottone nascosto fra i fregi della cornice ed il quadro scivolò sotto, scomparendo entro una fessura apertasi nel pavimento.
Dinanzi ai filibustieri s'apriva una sala assai ampia, illuminata da due doppieri. Non conteneva che una lunga tavola, collocata nel mezzo, su cui stavano delle carte ed un calamaio.
Il conte di Medina vi stava appoggiato, tenendo in mano una penna. Dietro di lui si scorgevano il capitano Valera e due ufficiali che tenevano le spade snudate.
Di fronte, dall'altro lato della tavola, si trovava Jolanda, ritta, in una posa fiera e risoluta.
«No, signore, non firmerò giammai!» aveva gridato.
In quell'istante i quattro filibustieri si slanciarono come un solo uomo nella sala, gridando:
«A noi, signori!...»
Pierre le Picard, che era il primo, si era gettato verso Jolanda, mentre Wan Stiller e Carmaux, con una spinta irresistibile, mandarono all'aria la tavola onde non servisse di barriera ai quattro spagnoli.
Il conte di Medina vedendo irrompere quei quattro uomini che ben conosceva, aveva mandato un urlo di furore.
Gettò la penna, estrasse rapidamente una pistola che teneva alla cintura, e prima che alcuno potesse impedirglielo fece fuoco verso Jolanda, urlando:
«Muori per mano del bastardo!...»
Un grido di dolore aveva seguíto lo sparo, ma non lo mandò Jolanda, bensì Pierre le Picard.
Il bravo filibustiere con una mossa fulminea aveva coperto la fanciulla ed aveva ricevuto la palla nel petto.
Tuttavia era rimasto in piedi. S'appoggiò al muro per non cadere, levò a sua volta la pistola e fece fuoco contro il gruppo formato dai quattro spagnoli abbattendo uno dei due ufficiali.
«Sono vendicato» ebbe appena il tempo di dire.
E stramazzò al suolo, mentre Jolanda si curvava su di lui. Quella scena si era svolta così rapidamente, che Morgan non aveva potuto impedirla. Cieco di rabbia si era scagliato addosso al conte che l'aspettava a pie' fermo, colla spada in mano, gridandogli:
«Difendetevi, signore, perché non vi accorderò quartiere.»
Carmaux si era gettato invece contro il capitano, mentre Wan Stiller caricava furiosamente l'ufficiale.
Don Raffaele, istupidito, erasi fermato in un angolo, appoggiandosi contro la parete. La presenza del capitano, del suo implacabile nemico, lo aveva come inchiodato al suolo.
I sei uomini combattevano ferocemente, decisi a uccidere i loro avversari o farsi uccidere.
Erano tutti abilissimi spadaccini, che conoscevano a fondo tutte le sottigliezze della terribile scuola dell'acciaio.
Morgan, accortosi fino dai primi colpi d'aver dinanzi un avversario pericoloso, che non ignorava le botte segrete dei più famosi maestri di quell'epoca, dopo i primi fulminei attacchi era diventato prudente, frenando l'eccitazione dei propri nervi.
Non incalzava più coll'impeto dei primi momenti. Stava invece sulla difensiva, aspettando che il conte, assai meno vigoroso e meno muscoloso, esaurisse le proprie forze per tentare qualche botta segreta insegnatagli dal cavaliere di Ventimiglia.
Il governatore di Maracaybo, che forse si era accorto dell'intenzione dell'avversario, si risparmiava più che poteva, limitandosi a fare delle finte e non rompendo che di rado.
Carmaux ed il capitano Valera s'attaccavano invece rabbiosamente, facendo sprizzare scintille dai ferri.
«Questa volta non vi risparmierò come l'altra» diceva Carmaux, incalzando vigorosamente l'avversario.
Il capitano conservava un silenzio feroce. Pareva che qualche sinistro pensiero lo preoccupasse più che la spada di Carmaux ed il pericolo di cadere con tre pollici di ferro nel petto.
Colla fronte aggrottata, le labbra contratte da un sogghigno crudele, lanciava a destra ed a sinistra degli sguardi obliqui come se cercasse di scoprire qualche rifugio. Rompeva di frequente, come se non fosse capace di tener testa agli assalti più impetuosi del francese e per calcolo o per caso, s'accostava a poco a poco a don Raffaele che era sempre addossato al muro, a breve distanza dalla signora di Ventimiglia.
L'amburghese invece, più flemmatico del francese, quantunque non meno valente di lui, scambiava vigorose stoccate coll'ufficiale, spingendolo a poco a poco verso la parete contro la quale pensava d'inchiodarlo.
Jolanda, inginocchiata presso il cadavere di Pierre le Picard, pareva che pregasse.
Ad un tratto un urlo selvaggio echeggiò nella sala coprendo il fragore dei ferri, subito seguíto da un grido di dolore e da una voce che diceva:
«Son morto!...»
Era il capitano Valera che aveva fatto il suo colpo.
A poco a poco, sempre indietreggiando, si era accostato a don Raffaele e, dopo essersi assicurato con un rapido sguardo, che ormai si trovava a buona portata, con un salto da tigre si era gettato fuori dalla linea della spada di Carmaux, poi con una stoccata fulminea aveva immerso il ferro nella gola del piantatore.
Il disgraziato, colpito a morte, era stramazzato al suolo mandando quel grido:
«Son morto!...»
Carmaux, vedendosi sfuggire l'avversario, era piombato su di lui, urlando:
«Ora vendicherò don Raffaele!...»
Il capitano, agile come un gatto, si era nuovamente gettato da una parte, precipitandosi addosso alla signora di Ventimiglia che non si era accorta del grave pericolo.
Già stava per trafiggerla alle spalle, quando Wan Stiller, che era a pochi passi, e che aveva udito il grido di furore di Carmaux, con una stoccata poderosa inchiodò l'ufficiale alla parete, poi, ritirato il ferro fumante di sangue, tese il braccio armato per coprire la fanciulla.
Il capitano, che non s'aspettava quel nuovo avversario, spinto dal proprio slancio, si era infilzato da sé contro la spada dell'amburghese.
Cacciò un urlo feroce, alzò le mani, poi rovinò al suolo mandando un'ultima bestemmia.
Il ferro gli aveva attraversato il cuore.
La signora di Ventimiglia, vedendosi cadere intorno quei due uomini, l'ufficiale ed il capitano, si era alzata di scatto, facendo un gesto d'orrore. Pareva che solo in quel momento si fosse accorta che in quella sala sei uomini lottavano ferocemente, decisi a vincere od a morire.
«Basta!... Basta sangue!...» gridò.
Un urlo di rabbia e di dolore le rispose. Il conte di Medina era stato toccato da Morgan, sopra la mammella sinistra.
«E questa è la botta segreta del Corsaro!...» gridò il filibustiere, portandogli un secondo colpo dal basso in alto, essendosi ripiegato fino a toccare quasi il suolo.
Udendo quella voce e vedendo il conte arretrare, Jolanda aveva gridato:
«No, Morgan... risparmiatelo!»
Era troppo tardi. La botta segreta del Corsaro Nero era partita ed il ferro del filibustiere era scomparso più che mezzo nel petto del conte.
Il figlio di Wan Guld aveva lasciò cadere la spada, portandosi ambe le mani sul cuore.
Fece tre passi indietro, come un automa, cogli occhi sbarrati, le labbra bianche, poi piombò al suolo come un albero sradicato dall'uragano.
Jolanda si precipitò verso di lui, pallida come una morta, commossa.
«Signor conte!...» gli disse, inginocchiandosi presso di lui e prendendogli le mani che diventavano ormai già fredde. «Perdonatemi... non volevo la vostra morte...»
Il bastardo aprì gli occhi già velati e li fissò sulla fanciulla.
Fece cenno che lo rialzassero.
Morgan, gettata via la spada con un gesto di orrore, si era pure inginocchiato presso il morente e lo aveva aiutato a sollevarsi, onde il sangue non lo soffocasse.
«Sono... stato... malvagio...» mormorò con voce semispenta. «Perdonatemi... Jolanda... perdona...temi... dite...lo...»
«Vi perdono, signor conte» rispose la fanciulla, singhiozzando.
Il conte girò il capo verso Morgan che era pure profondamente commosso.
«L'ama...te... è... vero?...» chiese.
Il corsaro fece col capo un cenno affermativo.
Il conte gli prese la destra e gliela strinse fortemente, poi rovesciò il capo.
Era morto.
Jolanda si era alzata piangendo. Staccò dalla parete un crocefisso, lo depose sul petto del conte, poi gli chiuse gli occhi.
«Andiamo, signora» disse Morgan.
E la trasse con dolce violenza fuori da quella sala dove cinque cadaveri giacevano al suolo, illuminati dalla funebre luce dei doppieri.
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Due settimane durò il sacco di Panama e sarebbe di certo durato assai di più, poiché immense ricchezze rimanevano ancora da raccogliere, quantunque gli abitanti avessero nascoste le cose più preziose, quando un incendio spaventevole scoppiò quasi contemporaneamente in più luoghi, avvolgendo la regina del Pacifico in un mare di fuoco.
Gli spagnoli accusarono i filibustieri, o meglio Morgan, di averlo provocato; questi invece ne diede la colpa ai primi, che l'avrebbero suscitato per interrompere il sacco e tentare anche di soffocarli.
Comunque sia, l'intera città andò distrutta totalmente, ma anche in mezzo alle ceneri i filibustieri trovarono gran copia d'oro e d'argento e di gemme.
Dopo quattro settimane essi abbandonavano definitivamente le sponde dell'Oceano con un convoglio di seicento e quindici bestie da soma, che portavano il frutto di tanta impresa.
Il bottino fu valutato a quattrocentoquarantatremila libbre d'argento.
Un mese dopo i filibustieri, con Morgan, la signora di Ventimiglia, Carmaux e Wan Stiller sbarcavano alla Tortue, senza essere stati molestati dalle squadre spagnole del golfo del Messico, e otto giorni dopo si celebravano le nozze della figlia del Corsaro Nero coll'ardito e fortunato filibustiere.
Avendo in quell'epoca l'Inghilterra fatta la pace colla Spagna e mandato ordine al governatore della Giamaica che vietasse a qualunque filibustiere di mettersi in mare, i corsari si divisero in varie partite per corseggiare per loro conto ed a loro rischio e pericolo.
Morgan si ritirò alla Giamaica per vivere tranquillo colla giovane sposa che adorava. Fu molto stimato dal conte di Carlisle, governatore allora di quell'importante isola, che lo fece nominare vice-governatore; e il re Carlo II d'Inghilterra lo nominò cavaliere.
Carmaux e Wan Stiller, ormai invecchiati e stanchi di menare le mani, seguirono l'antico luogotenente del orsaro Nero, godendosi in pace gli ultimi anni della loro tribolata ed avventurosa esistenza.
F I N E