La musica secondo... Zubin Mehta
Intervista del 1992 - Zubin Mehta dalla prima pagina di "Repubblica" del 7 Febbraio 2000
Zubin Mehta, nato in India il 29 Aprile del 1936, figlio di un eminente violinista e direttore d'orchestra, è cresciuto con la musica classica europea. A sedici anni dirigeva per la prima volta un'orchestra sinfonica, a diciannove cominciava a studiare con il leggendario direttore viennese Hans Swarowski (nella stessa classe c'era anche Claudio Abbado). Nel 1958 Mehta vinse il Concorso internazionale per direttori d'orchestra di Liverpool, ricevendo immediatamente una nomina a maestro di cappella nella stessa città, cui fecero seguito inviti delle Filarmoniche di Vienna e di Berlino. Nel 1960 diresse per la prima volta la New York Philharmonic e nel 1978, dopo le tappe di Montreal (dal 1961) e Los Angeles (1962-1978), ne divenne il direttore musicale. Nel 1991, tredici anni più tardi, il versatile direttore e brillante virtuoso orchestrale - stimato da cantanti e solisti per la sua sensibilità e duttilità come accompagnatore - ha rinunciato al suo incarico. Resta come sempre strettamente legato all'Orchestra Filarmonica d'Israele.
Maestro Mehta, è lieto di aver rinunciato al suo
incarico di direttore musicale della New York Philharmonic? L'orchestra
è nota per essere difficile e dopo tredici anni, chissà, forse
passa un po' anche la voglia, no?
Non lavoro certo di meno - Ho appena diretto Aida
in Israele per la dodicesima volta in due settimane. E non me ne
sono andato da New York perché l'orchestra era difficile. Non è
più difficile di altre orchestre, ma migliore della maggior
parte. Forse, dopo tredici stagioni, sono stufo della città di
New York - c'è troppo poco verde, e per questo tornerò a
dirigere a Los Angeles.
Non Le è piaciuta New York?
Non particolarmente. Amo l'orchestra, molto meno la
città. Quando dirigo mi manca spesso lo standard dell'orchestra,
decisamente elevato, il sogno di ogni direttore.
Ma lavorare a New York dev'essere particolarmente
difficile - se ne erano già lamentati Leonard Bernstein e Pierre
Boulez.
Più che altro è difficile aver successo a New
York - e questo non vale solo per la cultura, ma anche per lo
sport, gli spettacoli, tutto insomma. La città è la metropoli
della competizione. La stampa è molto dura, ma questo è un
fatto da accettare.
Continuerà a dirigere la New York Philharmonic?
Non in questa stagione, ma nella prossima dirigerò
l'ultima opera sinfonica di Olivier Messiaen, compositore del
quale ero diventato amico. Sono stato io a commissionare questo
lavoro.
Ernest Fleischmann, il manager della Los Angeles
Philharmonic, ha detto recentemente, citando Boulez, che si
dovrebbero sciogliere le orchestre sinfoniche perché sono ormai
sorpassate. Cos'ha da dire al proposito?
Boulez dirige in teatri d'opera e Fleischmann si
batteva solo per una maggiore elasticità, necessaria in quanto
la musica classica attira un pubblico sempre più vasto. Mi
rattrista il fatto che ogni riflessione faccia nascere previsioni
catastrofiche.
Il mondo musicale ha perso i "Great Old Men"
- come Karajan e Bernstein. Il pubblico sente la mancanza degli
"dei" o dei dittatori della bacchetta?
Lenny non era un dittatore. Era molto spesso troppo
democratico. I dittatori si ritrovano piuttosto nella generazione
precedente a Bernstein, quella di Ormandy e Reiner, prodotti dell'epoca
della dittatura. Oggi i musicisti orchestrali sono troppo forti e
sicuri di sé, non hanno più bisogno di tollerare i dittatori.
Neanche musicalmente?
A volte avrebbero bisogno di una mano più ferma,
dovrebbero provare più a lungo di quanto gli venga richiesto.
Quali sono i Suoi progetti per i prossimi anni?
Quali registrazioni effettuerà?
Stanno uscendo adesso i Gurre-Lieder di Schonberg,
l'Ottava e la Zero di Bruckner, due registrazioni straussiane con
i Berliner Philharmoniker, La mia patria di Smetana con la
Filarmonica d'Israele e registrazioni con il violinista Julian
Rachlin e il pianista Yefim Bronfman. Sarà quindi la volta della
mia prima opera di Mozart, Figaro a Firenze, con degli interpreti
giovanissimi e meravigliosi: Lucio Gallo, Michele Pertusi, Marie
McLaughlin - una nuova generazione di bravissimi cantanti-musicisti,
una vera gioia per il direttore.
Esiste per qualcuno come Lei con un'enorme
discografia alle spalle, un sogno che non si è ancora avverato?
Quando sogno di un'opera che non ho ancora inciso,
allora si tratta di Tristano e Isotta - ma questo è proprio un
sogno, non un progetto concreto. Un sogno invece che si è
avverato è l'incisione di Messiaen e sono felicissimo che la mia
ex-orchestra abbia ottenuto un successo strepitoso a Salisburgo
con la sua ultima opera: San Francesco d'Assisi.
Negli ultimi anni Lei ha partecipato ad alcuni
"eventi sensazionali" - quali il "concerto dei tre
tenori" oppure la "Tosca" romana, tacciati però
in parte di essere puro spettacolo e di non aver niente a che
fare con il "nuovo" pubblico.
Ed è sbagliato. Il concerto di José, Placido e
Luciano ha risvegliato l'interesse per l'opera in milioni,
milioni veramente, di spettatori. Quanto a noi, l'abbiamo fatto
da una parte per divertirci, dall'altra per accogliere nuovamente
fra noi un collega che aveva sconfitto la grave malattia. Per me
Tosca è stata una grande sfida - l'opera non passerà
inosservata ai media, e io desidero essere partecipe quando
verrà presentata con i nuovi mezzi tecnici. Allorché firmai il
contratto, non avevo idea che sarebbe stata trasmessa in 107
paesi - formidabile per un musicista.
Trova che ci sia una differenza tra un'esecuzione
live e un'incisione? Il disco ha forse un'altra estetica?
Il disco è più idealista, più puro se vogliamo,
e questo vale soprattutto per le registrazioni operistiche. Ho
inciso Salomé e ne emergono dei particolari che vanno persi nell'esecuzione
dal vivo - sfumature dell'orchestra e del testo. L'incisione
permette una maggiore concentrazione, almeno per me - non incido
qualcosa che non ho mai eseguito davanti al pubblico. Non
registrerei mai un'opera senza averla prima sperimentata sulla
scena.
Si vede nei panni di manager di un teatro d'opera?
Si, ma non adesso. Per trent'anni ho ricoperto una
qualche carica, ora ho bisogno di libertà, l'ho ottenuta e sono
felice, proprio felice, di aver resistito a tutte le offerte, e
ne avevo molte e di molto interessanti.
Cosa può dire agli ascoltatori?
Non dovrebbero solo ascoltare i dischi, ma andare
anche ai concerti.
Dalla prima pagina del quotidiano "La Repubblica" del 7 Febbraio 2000
Un solo atto di razzismo e l'Austria non mi avrà più - di ZUBIN MEHTA
SONO in ansia per l'Austria. E per Vienna, la mia Vienna, dove ho studiato, nella cui grande musica (e cultura) mi sono subito riconosciuto fino a farne un mio secondo linguaggio, città che mi ha sempre accolto con entusiasmo, dove ho amicizie sincere e dove mi sono sempre sentito a casa mia. Per la prima volta mi sento straniero nella mia quasi patria e quindi appartengo a quella categoria di persone invise a Joerg Haider. Temo che si ripeta quello che è accaduto in passato, quando grandi musicisti come Schoenberg e Fritz Kreisler furono costretti a rifugiarsi in America perché perseguitati dall'antisemitismo nazista. Già, proprio Schoenberg, che era profondamente viennese e che mai avrebbe sognato di trasferirsi in America. Eppure lo dovette fare. Paradossalmente, dovette abbandonare un impero che nell'unione di popoli diversi aveva trovato la propria forza, che dalla mescolanza di culture diverse aveva visto nascere geni come Mahler o Freud. Temo, dunque, che l'ascesa al potere di Joerg Haider porti ad una nuova fuga di menti dall'Austria, e a un impoverimento di nuovi apporti dall'esterno. E TEMO molte altre cose. Temo, ad esempio, che il successo di Haider porti altre frange razziste europee a rinforzarsi, a inorgoglirsi, magari fino alla creazione di un vero e proprio movimento. Mi preoccupa l'eventualità che - se cadesse il governo appena costituito e l'Austria tornasse alle urne - Haider trionfi ulteriormente. Temo anche la "nonchalanche" con cui Haider ha rinnegato certe esecrabili dichiarazioni rilasciate in passato. Perché la politica non è il frutto della mente di un'unica persona, di un solo leader, ma anche dei collaboratori, di un entourage di consiglieri che spesso possono essere cattivi. O addirittura pessimi. Credo che il presidente Klestil abbia fatto tutto il possibile, rispettando i limiti invalicabili imposti dalla democrazia, e ho fiducia in lui; ma non dobbiamo dimenticarci che in alcuni circoli del suo paese Klestil è considerato un "traditore" perché presidente troppo europeo e poco austriaco. Ancora, ho fiducia nell'Europa perché so che, se Haider dovesse trasformarsi da minaccia in realtà xenofoba, il presidente prenderebbe senza dubbio i provvedimenti adeguati. È tempo che gli Stati Uniti mandino in Austria un ambasciatore di forte esperienza e carriera diplomatica, per affrontare adeguatamente questi problemi. Per adesso, io non posso altro che dichiarare il mio imbarazzo, la mia preoccupazione. Non credo all'artista come spettatore passivo di cosa accade nel mondo. Sono convinto che anche un musicista debba prendere una posizione di fronte ad una situazione di emergenza. E credo anche che all'intolleranza - non paventata, ma messa in pratica - si debba rispondere con l'intolleranza. Dunque, al momento continuerò a lavorare in Austria per dimostrare che le questioni di cittadinanza, almeno e soprattutto in campo artistico, non hanno ragione di esistere: oltre che dirigere spesso la Filarmonica di Vienna, io per esempio sono direttore principale sia dell'orchestra del Maggio Musicale Fiorentino che della Israel Philarmonic Orchestra, oltre che Generalmusikdirektor della Bayerische Staatsoper di Monaco. Continuerò a considerarmi viennese d'adozione. Ma qualora la politica di Heider lo richiedesse, qualora si traducesse in gesti xenofobi, ripenserò alle mie posizioni. Come non ho mai lavorato nel Sudafrica razzista, a Berlino Est, nella Grecia dei colonnelli, nei paesi a regime totalitario, mentre in Medioriente stiamo cominciando a mettere in pratica anche con la musica una pace difficile ma necessaria. Sì, la musica può dare il suo aiuto. Lo dico da persona che ha sempre creduto profondamente nel lavoro di Gandhi, Martin Luther King, Mandela, di coloro che hanno cambiato il destino dei popoli senza spargere sangue. Ne ho avuto la prova recentemente, durante un concerto all'Ymca di Gerusalemme, dove musicisti arabi e israeliani hanno suonato insieme, davanti a bambini palestinesi provenienti dai campi profughi più poveri, mescolati a bambini israeliani. E che si è concluso con la felice commozione di tutti. Lo ripeto: se tutto procede senza rigurgiti xenofobi, continuerò a mantenere i miei profondissimi legami con l'Austria. Ma risponderò con il rifiuto, con la dolorosa assenza da Vienna qualora Haider mettesse in pratica la sua politica xenofoba. E lo farò anche se sarà una famiglia, una sola famiglia di indiani o di altri immigrati, a subirla.