La musica secondo... Richard Osborne

Richard Osborne a Vienna con Herbert von Karajan per il Ballo in Maschera

Nell'opera, tedesca ed in gran parte anche italiana, l'Orchestra Filarmonica di Vienna si è sempre mossa su di un terreno familiare ed è stato con loro che, nel gennaio di quest'anno, Karajan ha realizzato la sua ultima registrazione completa di un'opera, Un ballo in maschera di Verdi. Nonostante la colpa di alcuni difetti tecnici nelle registrazioni EMI degli anni Settanta de Il Trovatore, Aida e Don Carlos sia stata attribuita, a torto o a ragione, a Karajan, egli è sempre stato un superbo direttore di Verdi, e, si sarebbe supposto, un interprete congeniale di Un ballo in maschera, con il suo humour graffiante e la sua perfezione formale. Michel Glotz sicuramente lo pensava, ed aveva suggerito l'idea a Karajan ad intervalli, per un periodo di dodici anni o più. Alla fine ci ri-nunciò: e naturalmente, nello spazio di sei mesi - per essere precisi, alla vigilia del Capodanno 1987 - Karajan disse, «Ora farò il Ballo». Ci vollero cinque giorni per scegliere i cantanti, il tempo di telefonare agli interpreti che Karajan desiderava: Domingo, una scelta che s'imponeva da sola, Nucci, che, come Karajan disse più tardi, fu per lui la grande rivelazione di quelle sedute, «un uomo che può cantare con suono pianissimo ed espressione fortissimo», Florence Quivar, la seducente e dotata Sumi Jo e, naturalmente, Josephine Barstow, secondo alcuni una scelta discutibile, nella quale Karajan si determinò nel momento in cui la vide e l'ascoltò in Die schwarze Maske di Penderecki.
Se la strategia di produzione di Karajan di registrare le esecuzioni in anticipo sulla loro messa in scena dal vivo aveva un inconveniente, era che talvolta le registrazioni non riuscivano sempre a raggiungere l'armonia e l'incandescenza delle successive esibizioni in teatro. Tuttavia, come mi hanno raccontato Josephine Barstow e Sumi Jo, entrambe non abituate ai suoi metodi di lavoro, la sua abilità nel forgiare i suoi cantanti in una squadra omogenea nello spazio di pochi giorni aveva dell'incredibile. Con Karajan, naturalmente, i cantanti dovevano trattenersi per tutta la durata delle sedute, continuamente a disposizione. Questo fatto da solo sviluppava un senso d'insieme, di sforzo condiviso; e poiché Karajan passava da una scena all'altra durante la stessa seduta, non poteva mai verificarsi l'eventualità di un cantante che imparasse in tutta fretta la parte sul posto, o sull'aeroplano dove viaggiava per registrare poi un programma preordinato. Con Karajan non esistevano programmazioni, il che, come sottolineava la Barstow, significava che dovevi avere il tuo ruolo assolutamente sotto controllo. Talvolta egli poteva scambiare le scene con poco più di un minuto di preavviso, una cosa praticamente impossibile da tollerare, se non fosse per la sua abilità, con un solo colpo di bacchetta, di suscitare uno stato d'animo, evocare un colore, un'atmosfera - come fa notare la Barstow con uno stupore attonito - «immediatamente!» È questo, credo, uno degli ultimi misteri dell'arte del grande direttore. Certo, in gran parte de Un ballo in maschera, con il suo humour graffiante e cupo, il sentimento ossessivo della morte, Karajan si muoveva su di un terreno familiare, e nessun'orchestra produce un suono più cupo dei Wiener Philharmoniker, quando viene loro richiesto. Proprio così, era un fenomeno da assaporare.
Durante le sedute Karajan era solito dire molto poco, persino quando si ascoltava la registrazione. Ad un estraneo i suoi metodi potrebbero essere parsi arbitrari, anche tirannici, ma ciascuno dei protagonisti potrebbe raccontarvi che hanno imparato ad avere fiducia in lui, a riconoscere che con lui c'era invariabilmente una ragione artistica di suono a determinare una decisione, ed una ragione, ciò che è più importante, fondata su di una mescolanza di intuizione e decine di anni di esperienza difficilmente conquistata da un uomo di grande saggezza e pratica. «Egli costruisce la registrazione di un'opera», mi ha detto Michel Glotz, «come qualcuno potrebbe intessere un arazzo, lavorando in punti diversi contemporaneamente ma sempre con l'effetto globale ben chiaro nella mente». Ed è la supervisione di Karajan dei lavori che egli dirigeva, si trattasse di una sinfonia di Bruckner o di un'opera di Verdi, a far durare la soddisfazione che si prova spesso con molte delle sue interpretazioni molto dopo le prime critiche e le reazioni istantanee a questo o quel particolare. Karajan ha fatto talvolta dei dischi poco riusciti, ed alcuni istantaneamente ed evidentemente grandi, ma molte delle sue registrazioni hanno ricevuto una larga approvazione da parte della critica dieci e persino venti anni dopo la loro prima comparsa e le iniziali spesso caute e condiscendenti recensioni. Quando le sedute di registrazione de Un ballo in maschera erano giunte a metà, Karajan ordinò che la sala venisse orientata in un'altra direzione: l'orchestra nelle poltrone, i solisti dietro di loro sul palcoscenico. Questo invalidò la registrazione di un paio di giorni e sprofondò completamente qualcuno nel panico, ma quale che sia il motivo pratico ed immediato del cambiamento, ciò non si sarebbe fatto se Karajan non avesse avvertito che dopo le prove con il pianoforte e parecchi giorni di lavoro con l'orchestra davanti ai microfoni, tutti erano pronti a concludere il Ballo in una serie di lunghe e sostenute riprese durante un intenso periodo di quattro giorni.
Ed egli aveva sempre tempo per i cantanti. Dopo una lunga seduta un martedì mattina, i musicisti scomparvero e gli aiuti vennero congedati, mentre Karajan sedette nella Musikvereinsaal di Vienna, vuota, a parlare con Sumi Jo. Egli appariva completamente esausto ma trascorse venti minuti in una conversazione particolareggiata. Dei curiosi che si aggiravano nei corridoi come spie nel Der Rosenkavalier congetturarono che la giovane coreana stesse ricevendo una romanzina dal maestro. Ma non si trattava di niente del genere. «Mi fece una breve osservazione a proposito dell'intonazione in un punto particolare del mio registro», rivelò più tardi Sumi Jo, «ma si è trattato solo di una chiacchierata, una lunghissima chiacchierata sulla mia carriera, le mie speranze, i miei timori, i progetti, gli ostacoli che potrei incontrare. Ecco, io mi sono guardata attorno un bel po', ora, ma mai nessuno si era dato il disturbo di affrontare con me simili argomenti. Pure, Karajan mi ha parlato come ad una sua propria figlia. E quando discutemmo sull'esecuzione, e la mia interpretazione, si dimostrò completamente aperto alle mie idee. La maggior parte dei direttori con cui ho lavorato, dicendo «No, questo è ciò che desidero», rivelano, io credo, una specie di insicurezza. Con Karajan non era mai così». Ovviamente, è stato detto che Karajan prendeva i cantanti, rovinava le loro voci, e poi li abbandonava; un argomento popolare presso il pubblico inglese contrario a Karajan. Questo, in generale, non è mai stato il parere dei cantanti. È vero, era difficile dire di no a Karajan, non solo perché si perdeva un ingaggio prestigioso, ma soprattutto perché, come ha ricordato Helen Donath, «Quando gli dici di no, egli si sente quasi personalmente rifiutato». Ma egli sapeva anche quello che richiedeva. La Donath fu Eva in una delle più preziose registrazioni di Karajan, il cofanetto EMI di Die Meistersinger del 1970 a Dresda. «Qualsiasi altro direttore mi avrebbe cancellato dal disco», ella raccontò alla scrittrice americana Jeannie Williams, «ma egli tenne bassa l'orchestra. Il pericolo è che poi chiunque pensa «Oh, lo può cantare», ed il resto del mondo ti chiede, «Faresti, per favore, questa parte con me?».
Sotto alcuni aspetti, Karajan era l'ultimo dei professionisti. Josephine Barstow mi ha detto, «Fare musica ad un simile livello è il motivo per cui sono entrata in questa professione. E non c'è dubbio, la concentrazione che dà a ciascuno, e la serietà con cui Karajan si accosta alla musica sono qualità oggi assolutamente rare». Le dichiarazioni della Barstow riecheggiano quello che affermava Jon Vickers con particolare intensità, molti anni prima: «Non c'è dubbio che Karajan si elevi di un bel po' al di sopra di qualsiasi altro direttore nel mondo, oggigiorno. È molto duro lavorare con lui, ad essere sinceri, ma solo perché egli richiede un livello incredibile, per amore della musica. Questo è particolarmente preoccupante per me, poiché egli crede che io sia molto migliore di quanto io stesso non creda. Egli mi spinge all'estremo in ogni momento. Ci sono pochissimi aspetti del mio lavoro e della vita che possano impressionarmi, e rendermi vulnerabile. Non mi emoziono per il Metropolitan, o il Covent Garden, o La Scala, o Salisburgo. Divento emotivamente fragile con Karajan, e se lui lo volesse, potrebbe farmi a pezzi; ed egli lo sa. Ma un simile rapporto è raro nel mondo musicale».
L'eredità Vickers / Karajan è piccola ma importante: il Tristano e l'Otello della EMI, la Walküre della Deutsche Grammophon. Naturalmente, Karajan chiese a Vickers di fare il Tristano nel 1958 e gli fu regolarmente detto di lasciar perdere. Ma Karajan ebbe fiducia nel giovane canadese e non provò risentimento, né lo perse di vista, guadagnandosi la devozione di Vickers. In quella medesima intervista egli aggiungeva: «Quando un uomo sta in alto come Karajan e propone una simile qualità, quando la sua presa, la sua capacità e la sua comprensione sono così grandi, non può evitare di procurarsi dei nemici. È una delle tristi realtà del cuore umano. La gelosia e l'invidia di cui quest'uomo è vittima mi terrorizzano letteralmente, perché egli è di un'umanità nobile e grandissima». Tutto quello che possiamo dire è che ci dispiace che Vickers non fosse a disposizione in qualche redazione di giornale, il pomeriggio in cui Karajan ebbe il suo fatale attacco di cuore.
Nessuno ha bisogno che io enumeri la serie o ricordi i pregi dell'eredità di registrazioni, dalle primissime post-belliche di Brahms e Richard Strauss a quella di commiato, la viennese Ottava di Bruckner. Anche gli scettici guardano amorevolmente ad alcune delle vecchie incisioni EMI degli anni Cinquanta - Così fan tutte, Fledermaus e Ariadne, Butterfly, e Il Trovatore con la Callas, e, un po' più tardi, Falstaff e Der Rosenkavalier, partiture conosciute, rispettivamente, al seguito di Toscanini e di Clemens Krauss. La teoria alla moda che le cose divennero meno interessanti in seguito fa acqua da tutte le parti, dal momento che gli anni Sessanta portarono fresche rivelazioni con la nuova, giovane Filarmonica di Berlino in Brahms e Debussy, Bruckner, Honegger e Wagner, insieme ad una buona quantità di ardente 'verismo' in disco, il più memorabile, forse, nel 1965 a La Scala di Milano, con la registrazione de La Cavalleria rusticana e I Pagliacci per la Deutsche Grammophon. Negli anni Settanta, e precisamente intorno al 1975, dopo la debilitante malattia, Karajan intensificò le vecchie registrazioni e ne aggiunse di nuove, ampliando la portata del proprio repertorio registrato per intraprendere dozzine di nuovi lavori, tra i quali i brani inclusi nel famoso cofanetto DG
di Berg, Schönberg e Webern, e, uno dei suoi conseguimenti supremi, il CD dal vivo con la Nona di Mahler, pure per la Deutsche Grammophon. Nella musica di Bruckner, Strauss e Sibelius egli poteva occasionalmente trovare chi gli stesse alla pari, ma nessuno che riuscisse veramente a competere con il suo intuito, la sua convinzione, la padronanza della forma, e la sensazione della lontananza della musica, la sua straordinaria distanza spirituale.

Richard Osborne


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