La musica secondo... Giuseppe Patané
Da un articolo del 1989.
GIUSEPPE PATANÉ - UN RICORDO DI RODOLFO CELLETTI (Ottobre 1989)
Con Giuseppe Patané, scomparso nel maggio 1989 a Monaco di Baviera dove era impegnato a dirigere il Barbiere di Siviglia, è sparito non solo uno dei direttori più stimati dei nostri tempi ma soprattutto uno degli ultimi esponenti dell'antica scuola direttoriale, che da Toscanini a Serafin, da De Sabata a Votto aveva condensato in una sola figura tanto il musicista che l'uomo di teatro, profondo conoscitore delle voci e delle convenzioni operistiche. Proprio sul rispetto di una certa tradizione, intesa come conservazione di un patrimonio di segreti, di malizie esecutive volte ad assicurare vitalità al testo musicale, ritenuto terreno su cui lavorare e non da rispettare pedissequamente come una falsa filologia tenderebbe a suggerire, poggiava lo stile del direttore napoletano, forse per questo motivo snobbato da certa critica intransigente. L'esser rimasto da solo a sostenere tutta l'eredità di un passato con convinzione assoluta e motivata (non dimentichiamo che Patané, figlio di una famiglia di musicisti, ebbe modo di conoscere e collaborare con i più grandi compositori e direttori di questo secolo) certo non lo favorì in un periodo in cui concedersi la benchè minima licenza equivaleva a un tradimento dell'autore o, peggio ancora, ad un antiquato modo di pensare. E non pochi dissentiranno forse da alcune affermazioni di Patané presenti in questa intervista, sicuramente una delle sue ultime, rilasciata in occasione dell'incisione per la Decca del Barbiere di Siviglia al Teatro Comunale di Bologna, nel giugno '88. La stessa volontà di proporre coraggiosamente una versione 'tradizionale' della più popolare opera rossinana chiarisce immediatamente il punto di vista del direttore, tranquillamente disinibito nel dichiarare la predilezione per un'edizione teatrale piuttosto che per la famosa edizione critica. Ma sarà forse possibile ritrovare nelle sue parole, in quella colorita ironia tutta napoletana, la sicurezza delle proprie posizioni, la certezza di una scelta non tanto personale quanto 'giusta' ai fini della logica interpretativa e doverosa nei confronti di una tradizione da tramandare, che dopo di lui sarà destinata probabilmente a perdersi nel tempo.
Qual
è il suo rapporto con il disco?
Non ho esclusive con nessuna casa discografica (ho lavorato
indifferentemente per la Decca, per la RCA, per la Deutsche
Grammophon, per la CBS, per l'Hungaroton), anche perché penso di
incidere il più possibile per lasciare ai posteri qualche
documento valido: così se un'etichetta non è interessata ad un
certo tipo di opera vado a farla con un'altra. Per esempio ho
appena realizzato lIris di Mascagni con la CBS
perché era lunica disponibile in questo senso;
prossimamente inciderò invece La Wally di Catalani con la
RCA, insieme a Domingo e alla Tokody, mentre con la CBS ho in
programma La Boheme, ancora con Domingo, e La fanciulla
del West.
Noto
un interesse predominante per il Verismo ...
Non solo, perché sono in ponte per il '91 anche I
Puritani, probabilmente a Santa Cecilia, e per il prossimo
anno La Favorita, con Kraus e la Baltsa, che incideremo a
Vienna.
Torniamo
a questo Barbiere che sta registrando per la Decca. Quali
opere di Rossini rientrano nel suo repertorio?
Beh, a parte la Matilde di Shabran e simili che non ho
mai sentito in vita mia, ho diretto tutte quelle del repertorio
corrente: Cenerentola, Italiana in Algeri, Mosè,
Barbiere, Guglielmo Tell.
Per
questa incisione di Barbiere quale edizione è stata
scelta?
Dunque, noi sappiamo benissimo che c'è una revisione 'Zedda',
riportata alla partitura originale. Noi l'abbiamo evitata per due
ragioni: una è che la terza edizione fedele a questa revisione
sarebbe stata perfettamente inutile, non perché la partitura non
sia valida, anzi devo dire che Zedda ha fatto un lavoro onorevole
e lo si deve ringraziare per aver portato alla luce quelle che
erano le prime intenzioni del compositore. Esistono però anche
delle tradizioni da rispettare: essendo io un maestro di
tradizioni, ho voluto incidere un Barbiere tradizionale,
senza per questo voler andar a priori contro la versione Zedda,
ma con l'intenzione di realizzarne la prima edizione 'tradizionale'
in digitale. La seconda ragione sta nel fatto che la tradizione
ha un senso, intendendo con questo termine tutti quegli
accorgimenti che l'autore, d'accordo con il direttore d'orchestra
dell'epoca, ha accettato. Per esempio nella Sinfonia è stato
innestato un trombone, perché il risultato sonoro con i soli
contrabbassi non veniva fuori. Sono state aggiunte due battute
nel concertato del primo atto perché sembrava 'non logico' avere
due battute in meno. In questo stesso brano si è deciso di
affidare l'intervento di Don Bartolo a Don Basilio, anche perché
«Guarda Don Bartolo! Sembra una statua! Fiato non restagli da
respirar» fa sottintendere che Don Bartolo non canti. Ma i
maggiori interventi si sono fatti comunque a livello orchestrale.
Vocalmente
ci sono stati molti cambiamenti?
All'epoca di Rossini erano accettate le variazioni che i
cantanti si permettevano di fare nelle riprese di una strofa, che
veniva sempre variata. Anche questo fa parte della tradizione,
perché un'usanza che da Rossini a Donizetti trovava tutti gli
autori concordi e contentissimi è senz'altro da recuperare.
Le
variazioni da chi sono state scritte?
Non esistono variazioni per questa o quella opera, tanto che
si può trovare grosso modo la stessa cadenza sia nell'aria del
baritono del Trovatore che in quella del tenore della Lucia.
Generalizzando, si può dire che in quasi tutte le opere la
cadenza rimanga la stessa. Di conseguenza non sono stati fatti
studi particolari. Si sono evitati abbellimenti e si sono
accettate alcune variazioni, soprattutto nell'aria di Rosina,
scritte nel nostro caso per registro di mezzosoprano.
Questa
scelta è stata sua o della Decca?
È stata presa di comune accordo, con l'idea precisa di
realizzare un Barbiere non freddo ma quasi live, in cui
dominasse lo spirito teatrale. Abbiamo di conseguenza curato
molto bene i recitativi ed anche il movimento scenico, cercando
di dare con il cambio dei microfoni l'effetto di lontano-vicino,
interno-esterno.
I
tagli sono stati tutti riaperti?
Si, perché oggi si usa trasferire in disco tutto quello che
è stato scritto. Io mi sono adeguato a questa usanza anche se
confesso di non essere del tutto convinto, perché i tagli hanno
un senso, un significato più che altro teatrale, accettato dall'autore.
In disco non mi danno fastidio, ma in teatro non farei mai un'edizione
integrale.
Verrà
inclusa quindi anche l'aria finale del tenore?
Noi l'abbiamo incisa, ma, se decideremo di inserirla, la
posizioneremo alla fine dell'opera, come appendice. Questa è un'aria
che fu tolta da Rossini dal Barbiere e innestata nella Cenerentola
per il mezzo-soprano, quindi fu egli stesso che non volle che
comparisse nel Barbiere, anche perché è di una
difficoltà enorme per il tenore. Comunque solo l'aria è stata
tolta dal contesto, mentre il recitativo tra il Conte e Don
Bartolo è stato mantenuto.
Ai
cantanti è stata lasciata una certa libertà interpretativa?
Abbiamo scelto d'accordo con i cantanti un'impostazione
precisa, un'unica linea interpretativa, che è stata realizzabile
grazie ad una compagnia di elementi disponibili e anche molto
validi. Oltre a Nucci, alla Bartoli, a Matteuzzi, a Burchuladze,
voglio ricordare Fissore, uno dei migliori Bartoli d'oggi, se non
il migliore.
Come
si è trovato con l'Orchestra del Comunale di Bologna?
Il risultato musicale è abbastanza soddisfacente, perché,
nel responsabilizzare un po' tutti, l'orchestra alla fine ha reso.
Sa, quasi tutte le orchestre italiane non sono abituate alla
disciplina discografica e tendono per questo ad essere un po'
rumorose. È questione di mentalità, che spero si cambi al più
presto, in modo che le case discografiche tornino ad incidere di
nuovo in Italia, perché il suono delle nostre orchestre per l'opera
italiana e l'ideale. Purtroppo mancano anche le sale d'incisione
e se si pensa a Santa Cecilia, che è una delle migliori
orchestre europee ma che è priva di una sala da concerto e di
una d'incisione, si può ben capire perché rimanga senza un'attività
discografica.
Lei
lavora molto all'estero. Com'è il suo rapporto con le orchestre
straniere rispetto a quelle italiane?
Devo dire che attualmente sono Direttore stabile di una delle
due orchestre della Radio di Monaco di Baviera. Abbiamo inciso
lIris in pochissimo tempo. È un'orchestra che legge
molto bene, di ottima qualità sonora, che non ha nessun problema
se ci sono da fare straordinari o sedute fuori orario. Sarà
perché la c'è un'altra organizzazione, perché si guadagnerà
forse di più, ma si avverte un orgoglio che qui sembra essere
scemato, ma per ragioni indipendenti dagli stessi orchestrali. È
l'andazzo musicale italiano che va riveduto e corretto, a partire
dalla Scala.
Torna
comunque volentieri in Italia?
Naturalmente, perché qui il contatto umano è unico e poi
perché ho amici dappertutto. Come napoletano vorrei essere il
salvatore del Teatro S. Carlo, ma vedo che è un'impresa
veramente disperata. Ho sempre sperato, ma ormai mi sono
rassegnato.
Dove pensa che si riesca ancora a fare musica in Italia?
Bologna, se si cambia la mentalità di qualcuno a livello dirigenziale, ha un teatro molto serio. Ho conosciuto il Sovrintendente e il Direttore Artistico e ne ho ricevuto un'ottima impressione: se tutti i teatri avessero due persone così, forse cambierebbe la vita musicale italiana. Mi sono trovato bene alla Scala, anche se quest'anno c'è un po' di crisi (1988, n.d.r.), e così pure all'Opera di Roma, dove l'anno scorso abbiamo fatto un buon Macbeth perché ho avuto la fortuna di non incappare in un periodo di scioperi. Difficilmente se sono impegnato in Italia per uno spettacolo riesco a farne un altro nello stesso tempo in un diverse teatro, perché la mia attività si svolge soprattutto all'estero, dove come si sa gli impegni si fissano con molto anticipo. Col Teatro di Monaco ho già un programma predisposto nei minimi particolari sino al '92.
Come si concilia lo spirito di un
napoletano con quello tedesco?
Basta farsi voler bene, essere amico, non darsi delle arie,
non trattarli male. Loro capiscono e non ne approfittano. Da noi
invece c'è sempre quello che ti batte una mano sulla spalla e ti
dice «Beh, ora non ci pensiamo. Se ne parla domani». E a forza
di parlarne domani, il domani diventa sempre domani, in modo che
non si risolve mai niente.
I
suoi prossimi impegni in Italia?
Sono in trattative con la Scala per un'opera: dipende da chi
canterà. Purtroppo la Scala è un teatro in cui si scelgono
prima i cantanti e in base a questi poi si stabilisce che opera
si deve fare. Questo perché alla Scala non si accettano le
mediocrità da parte del pubblico, mentre invece la critica
scambia la mediocrità per talento e viceversa. Non accuso quella
milanese, in particolare, ma a livello mondiale bisogna dire che
la critica ne ha azzeccate poche. Se avessimo dovuto dar retta ai
critici, a quest'ora sarebbero in piedi solo autori come Auteri-Manzocchi,
Coronaro, Filippetti, mentre sarebbero scomparsi Verdi, Puccini,
Wagner. Questo non fa testo: bisogna accontentare soprattutto il
pubblico, perché le opere sono state scritte per lui. La
conferma di uno spettacolo è il teatro esaurito e il pubblico in
piedi che applaude. Il resto non conta.
Com'è
possibile gestire il rapporto tra direttore e artisti di fama?
Gli artisti di fama musicisti vanno sempre d'accordo
con il direttore. Poi ci sono anche artisti di fama che non sono
musicisti e li ci può essere qualcosa che non va, ma col
ragionamento si riesce a risolvere anche questa difficoltà e ad
andare d'accordo con tutti.
Esiste
un repertorio in cui la componente vocale predomina su quella
direttoriale e viceversa?
Tutte e due le componenti sono importanti, perché un cast di
ottimi cantanti con un direttore mediocre fa sempre una pessima
figura e così pure un cast mediocre con un grandissimo direttore
ottiene lo stesso risultato. Per quanto riguarda il repertorio,
posso dire che per ragioni di pura comodità preferisco dirigere
Wagner, perché è meno rischioso: tutto quello che può
succedere succede senza che se ne faccia uno scandalo. Invece
mettere le mani su Rossini, Bellini, Donizetti oggi è un
problema, perché se non si ha un cast adeguato anche il
direttore casca in pieno. Poi bisogna provare tantissimo con l'orchestra,
perché ad esempio Rossini richiede la massima pulizia, mentre in
Wagner se esce fuori un trombone o una tuba tutto passa. Wagner
è facilissimo da dirigere: infatti i direttori tedeschi dirigono
Wagner, ma solo quando affrontano il repertorio italiano fanno
capire se sono validi o meno.
Ha
una preferenza per un repertorio in particolare?
No, amo la musica in generale. Evito solo i rumori che fanno
parte della musica contemporanea, perché quelli li sento alla
Stazione Centrale senza pagare il biglietto!
E
quindi se le proponessero un 'opera moderna?
Dipende, ci sono delle opere moderne valide e ce ne sono
altre che sono esperimenti inutili. Io non le subisco perché le
rifiuto a priori: nel '71 a Napoli ho diretto una prima assoluta
di Meyerowitz, ma quella, per quanto moderna, era musica. Io
leggo la musica come il giornale, ma se rifiuto certe opere è
perché non c'è musica da leggere.
Qual
è il repertorio che le viene più richiesto?
Quello di tradizione, perché molti ritengono che io sia l'ultimo
direttore della vecchia generazione e non uno dei maestri della
nuova e così tutti vengono da me a chiedere come si faceva
questa o quell'altra cosa. Dopotutto avendo iniziato in teatro
all'età di sette anni e avendo diretto la prima volta a
diciannove, conto gia una carriera quasi quarantennale. Pur
essendo giovane, ho conosciuto Mascagni, Giordano, Alfano e ho
studiato per un certo tempo anche con Cilea, grazie naturalmente
a mio padre e a mio nonno, che era addirittura amico di Wagner.
La nostra famiglia ha in questo senso una tradizione. E per
quanto riguarda i compositori stranieri, posso dire di aver
incontrato Stravinsky, Prokofiev, Hindemith, Sibelius,
Shostakovich.
Pensa
quindi di essere considerato un direttore di tradizione per il
suo modo di proporsi o per questi contatti che lei ha avuto con i
musicisti del passato?
Per questi contatti, perché credo di aver tramandato grazie
a loro delle tradizioni giuste. Prendiamo un esempio: Cavalleria
rusticana. Se la si volesse dirigere com'è scritta, si
otterrebbe l'esatto contrario di quello che voleva Mascagni. E
questo non lo dico solo io, perché se qualcuno ascolta il disco
diretto da lui confrontando la partitura, noterà che uno è l'opposto
dell'altra, come effetti sonori, tempi e via dicendo.
Di
conseguenza il lavoro di un direttore come deve inquadrarsi?
Un direttore dev'essere informato sulle vere tradizioni (non
quelle costruite sui 'tradimenti' dei cantanti, come le fioriture
alla Caruso che non fanno parte della tradizione e vanno di
conseguenza eliminate), quelle per intenderci che l'autore stesso
alla prima prova d'orchestra andava ad annotare sulla partitura
già stampata, che di conseguenza è priva di queste correzioni.
I
compositori che lei ha conosciuto erano tutti così elastici
nelle intenzioni?
Tutti, assolutamente. Giordano disse una volta, provando con
l'orchestra: «Signori, ritmo!». «Ma scusi, Maestro, qui c'è
scritto ...» «Non importa, qui bisogna fare della musica!».
Ora invece abbiamo i 'masturbatori della semicroma'. Questa non
è musica, è matematica!
Ma
trova alcuni talenti tra le nuove leve?
Qualche talento c'è, ma questi giovani devono apprendere
certe cose che non sanno. Io ho avuto la fortuna di lavorare con
direttori che queste cose le sapevano, dai Serafin ai De Sabata.
Si
spiega come mai una scuola di così abili concertatori e
conoscitori della vocalità si sia perduta?
Non accusiamo le giovani leve direttoriali perché
tecnicamente oggi il direttore d'orchestra è migliorato. Oggi
abbiamo giovani che veramente danno punti ai direttori anziani,
per quanto tra questi non si riesca più a trovare un uomo di
teatro. Ora non si intende più questa parola nel senso di umile
servitore della musica e del palcoscenico: si debutta subito alla
Scala o al Met senza avere un'esperienza maturata. Questi non li
considero colleghi, pur rispettandoli tutti ed anzi valutandoli
come direttori forse anche meglio di me. Però se un cantante mi
viene a dire: «Sa, Maestro, ho sbagliato perché sono abituato
al suo collega», io gli chiedo «Scusi, da quanti anni canta?»
«Da un anno e mezzo» «E allora come fa a conoscere un mio
collega, se sono tutti morti già da vent'anni?». L'unico
rimasto in piedi è Gavazzeni, gli altri sono tutti spariti,
purtroppo.
Quindi
lei crede che il direttore d'oggi sia più adatto alla sinfonica
che all'opera?
Senza dubbio. Io consiglierei al direttore d'oggi di
respirare come un essere umano, perché solamente così può
capire le esigenze di un cantante: dove deve riprendere fiato,
come deve esprimere una certa frase, dato che non tutte le frasi
possono essere cantate rigorosamente in tempo. Ora purtroppo si
è persa questa concezione e si tende a realizzare un lavoro
freddo. È vero che il romanticismo è superato e che non si
suona più la serenata alla fidanzata, ma bisogna comunque
rispettare lo stile di un'epoca e se all'epoca la prassi era
quella di suonare la serenata, questa prassi va rispettata, anche
se non è più l'epoca. Quando ho da lavorare con certi registi
che vogliono spostare l'azione più avanti preferisco fare l'opera
in forma di concerto, come mi è capitato ad Amburgo per Gioconda
e a Francoforte per Mefistofele, dove ho scelto questa
alternativa per evitare di avere a che fare con registi di questo
genere. Che facciano le opere moderne, ma non questi lavori!
E
tra i cantanti vede più degli esecutori o degli interpreti?
Oggi sono migliori come interpreti di quelli del passato.
Quelli avevano una salute vocale superiore, perché non
prendevano l'aereo ma si riposavano in quei lunghi viaggi di nave,
senza subire gli sbalzi di fuso orario. La carriera di un
cantante oggi dura molto poco. Ricordo Beniamino Gigli a
sessantatre anni ancora in auge, mentre oggi a quarantasette sono
quasi tutti finiti, perché cantano troppo e spesso un repertorio
sbagliato. Ora come ora, ad essere ottimisti, si può ancora
combinare una compagnia di Belcanto. Il Verismo sta per
scomparire a livello vocale e non parliamo poi di Wagner: anche a
Bayreuth sono tutte 'zanzare raffreddate'!
Davide Annachini
GIUSEPPE PATANÉ - UN RICORDO DI RODOLFO CELLETTI (Ottobre 1989)
Giuseppe
Patané è morto a cinquantasette anni. Ed è morto sul podio,
mentre dirigeva. Sul podio, in un certo senso, era anche nato. Il
padre, Franco Patané, era stato un direttore d'orchestra di
qualche merito.
Pochi sanno, di Giuseppe Patané, che in teatro esordì come
cantante. Napoletano, era fanciullo cantore del coro del San
Carlo quando, nel 1946, quattordicenne, sostenne una parte
solistica, quella di Geppino, in un'opera nuova di Jacopo Napoli,
Miseria e nobiltà. Era già allievo del Conservatorio
San Pietro a Majella. Studiò direzione d'orchestra, impugnò per
la prima volta la bacchetta, in uno spettacolo d'opera, nel 1951,
ancora a Napoli. L'opera era la Traviata, Giuseppe Patané
aveva soltanto diciannove anni.
Il teatro dellesordio non era però il San Carlo. Per
giungere al maggior teatro della sua città, Giuseppe Patané
dovette attendere lestate del 1962 e la stagione
organizzata dal San Carlo all'Arena Flegrea. L'opera fu la Madama
Butterfly. Nel maggio del 1963, poi, Patané diresse al San
Carlo il Rigoletto. Da allora, fino a tempi recentissimi,
è stato uno dei direttori più assidui, nel teatro napoletano.
Per la verità, i primi anni di carriera non furono brillanti,
riservarono a Patané molti teatri periferici, in Italia e all'estero.
AllOpera di Roma giunse nel 1964 con la Madama Butterfly,
alla Scala nel 1970 con il Rigoletto e il Don Carlo.
Ma nel frattempo s'era affermato anche all'estero. Nel 1961 aveva
iniziato un rapporto con la Deutsche Oper di Berlino destinato a
protrarsi per molti anni. Nel 1971 diresse per la prima volta all'Opera
di Amburgo, ma già da qualche tempo era comparso alla Staatsoper
di Vienna, al Covent Garden di Londra, al Metropolitan di New
York.
Ormai lo si considerava come una delle bacchette più versate nel
repertorio operistico italiano ed era ospite dei maggiori teatri
del mondo. Anche di recente la sua attività internazionale
seguiva un ritmo serratissimo. Questo, per quanto riguarda i dati
biografici essenziali, è tutto.
La statura del musicista era per molti aspetti eccezionale.
Patané vantava anzitutto una memoria mostruosa. Per molte
partiture del repertorio italiano era una sorta d'archivio
vivente. Si narra che, all'inizio della carriera, trovandosi in
uno sperduto teatro straniero, ricostruisse a memoria le parti
strumentali della Boheme, non essendo giunte a
destinazione quelle richieste dall'impresariucolo che aveva
organizzato le recite. La memoria, tuttavia, non era che un
aspetto del singolare congegno musicale che Patané incarnava.
Altrettanto eccezionali erano l'istinto e la sensibilità.
Coglieva il rapporto fra situazione scenica, contesto strumentale
e vocalità con un'immediatezza che sorvolava qualsiasi
problematica. Aveva anche un gesto ampio, incisivo, eloquente che,
morbido o imperioso che fosse, andava sempre a segno per
chiarezza e forza di suggestione. Conosceva il respiro dei
fraseggi vocali, guidava le orchestre lungo la rotta d'una
dinamica che poteva abbracciare i pianissimi più tenui e i
fortissimi più intensi senza distorsioni di suono e con un senso
del ritmo e una capacità e una tempestività di interventi,
negli imprevisti del palcoscenico o della buca, attuati con la
massima semplicità.
Pochi mesi prima che Patané morisse, una zanzarina che ronza su
un quotidiano milanese mi diede sulla voce. «Ma come! Loda
Patané che alla critica piace poco e stronca un Bohm». Capirai
che termine di paragone! Chi non apprezzava Patané? La critica
che si fa provinciale per non sembrare provinciale; e che inoltre,
diffidando del proprio orecchio e delle proprie nozioni, non osa
censurare le cosiddette celebrità, anche quando la loro fama è
usurpata.
Ma Patané era un grande direttore. L'ha scritto di recente anche
Maurizio Papini e ritengo che lo scriverebbero - se gia non l'hanno
scritto - un Isotta o un Foletto. Magari con alcune riserve da me
condivise. Non ho mai conosciuto Giuseppe Patané. L'unico
contatto è stata una telefonata di alcuni anni fa. Troppo poco
per poter parlare dell'uomo in prima persona. Ma è notorio che
Patané non si curava minimamente di sfoggiare l'
allure, il tono, il sussiego del grande direttore.
Anzi, il contrario. E per questo si tendeva a sottovalutarlo. Gli
mancava anche il cosiddetto perfezionismo. Piuttosto scettico, a
volte abbonava a certe orchestre una parte delle prove. Tanto,
diceva, più di questo non renderanno mai. Spesso aveva ragione,
qualche volta torto.
Il suo stesso rendimento poteva essere altalenante per mancanza
di concentrazione nellimminenza d'una recita. Anche perché
amava vivere a modo suo. Gli accadeva poi di accettare la
direzione di edizioni di opere il cui esito appariva pregiudicato
in partenza e d'essere quindi coinvolto in recite disastrate. In
tempi più recenti, però, era divenuto più cauto. Ne è una
prova la rinuncia alla Luisa Miller allestita quest'anno
dalla Scala.
Come chi sia, quando voleva Giuseppe Patané aveva veramente la
statura del grande direttore d'opera. Negarlo perché non s'atteggiava
a santone del podio sarebbe iniquo, oltre che sciocco.
Rodolfo Celletti