La musica secondo... Giuseppe Patané

Da un articolo del 1989.

GIUSEPPE PATANÉ - UN RICORDO DI RODOLFO CELLETTI (Ottobre 1989)

Con Giuseppe Patané, scomparso nel maggio 1989 a Monaco di Baviera dove era impegnato a dirigere il Barbiere di Siviglia, è sparito non solo uno dei direttori più stimati dei nostri tempi ma soprattutto uno degli ultimi esponenti dell'antica scuola direttoriale, che da Toscanini a Serafin, da De Sabata a Votto aveva condensato in una sola figura tanto il musicista che l'uomo di teatro, profondo conoscitore delle voci e delle convenzioni operistiche. Proprio sul rispetto di una certa tradizione, intesa come conservazione di un patrimonio di segreti, di malizie esecutive volte ad assicurare vitalità al testo musicale, ritenuto terreno su cui lavorare e non da rispettare pedissequamente come una falsa filologia tenderebbe a suggerire, poggiava lo stile del direttore napoletano, forse per questo motivo snobbato da certa critica intransigente. L'esser rimasto da solo a sostenere tutta l'eredità di un passato con convinzione assoluta e motivata (non dimentichiamo che Patané, figlio di una famiglia di musicisti, ebbe modo di conoscere e collaborare con i più grandi compositori e direttori di questo secolo) certo non lo favorì in un periodo in cui concedersi la benchè minima licenza equivaleva a un tradimento dell'autore o, peggio ancora, ad un antiquato modo di pensare. E non pochi dissentiranno forse da alcune affermazioni di Patané presenti in questa intervista, sicuramente una delle sue ultime, rilasciata in occasione dell'incisione per la Decca del Barbiere di Siviglia al Teatro Comunale di Bologna, nel giugno '88. La stessa volontà di proporre coraggiosamente una versione 'tradizionale' della più popolare opera rossinana chiarisce immediatamente il punto di vista del direttore, tranquillamente disinibito nel dichiarare la predilezione per un'edizione teatrale piuttosto che per la famosa edizione critica. Ma sarà forse possibile ritrovare nelle sue parole, in quella colorita ironia tutta napoletana, la sicurezza delle proprie posizioni, la certezza di una scelta non tanto personale quanto 'giusta' ai fini della logica interpretativa e doverosa nei confronti di una tradizione da tramandare, che dopo di lui sarà destinata probabilmente a perdersi nel tempo.

Qual è il suo rapporto con il disco?
Non ho esclusive con nessuna casa discografica (ho lavorato indifferentemente per la Decca, per la RCA, per la Deutsche Grammophon, per la CBS, per l'Hungaroton), anche perché penso di incidere il più possibile per lasciare ai posteri qualche documento valido: così se un'etichetta non è interessata ad un certo tipo di opera vado a farla con un'altra. Per esempio ho appena realizzato l’Iris di Mascagni con la CBS perché era l’unica disponibile in questo senso; prossimamente inciderò invece La Wally di Catalani con la RCA, insieme a Domingo e alla Tokody, mentre con la CBS ho in programma La Boheme, ancora con Domingo, e La fanciulla del West.

Noto un interesse predominante per il Verismo ...
Non solo, perché sono in ponte per il '91 anche I Puritani, probabilmente a Santa Cecilia, e per il prossimo anno La Favorita, con Kraus e la Baltsa, che incideremo a Vienna.

Torniamo a questo Barbiere che sta registrando per la Decca. Quali opere di Rossini rientrano nel suo repertorio?
Beh, a parte la Matilde di Shabran e simili che non ho mai sentito in vita mia, ho diretto tutte quelle del repertorio corrente: Cenerentola, Italiana in Algeri, Mosè, Barbiere, Guglielmo Tell.

Per questa incisione di Barbiere quale edizione è stata scelta?
Dunque, noi sappiamo benissimo che c'è una revisione 'Zedda', riportata alla partitura originale. Noi l'abbiamo evitata per due ragioni: una è che la terza edizione fedele a questa revisione sarebbe stata perfettamente inutile, non perché la partitura non sia valida, anzi devo dire che Zedda ha fatto un lavoro onorevole e lo si deve ringraziare per aver portato alla luce quelle che erano le prime intenzioni del compositore. Esistono però anche delle tradizioni da rispettare: essendo io un maestro di tradizioni, ho voluto incidere un Barbiere tradizionale, senza per questo voler andar a priori contro la versione Zedda, ma con l'intenzione di realizzarne la prima edizione 'tradizionale' in digitale. La seconda ragione sta nel fatto che la tradizione ha un senso, intendendo con questo termine tutti quegli accorgimenti che l'autore, d'accordo con il direttore d'orchestra dell'epoca, ha accettato. Per esempio nella Sinfonia è stato innestato un trombone, perché il risultato sonoro con i soli contrabbassi non veniva fuori. Sono state aggiunte due battute nel concertato del primo atto perché sembrava 'non logico' avere due battute in meno. In questo stesso brano si è deciso di affidare l'intervento di Don Bartolo a Don Basilio, anche perché «Guarda Don Bartolo! Sembra una statua! Fiato non restagli da respirar» fa sottintendere che Don Bartolo non canti. Ma i maggiori interventi si sono fatti comunque a livello orchestrale.

Vocalmente ci sono stati molti cambiamenti?
All'epoca di Rossini erano accettate le variazioni che i cantanti si permettevano di fare nelle riprese di una strofa, che veniva sempre variata. Anche questo fa parte della tradizione, perché un'usanza che da Rossini a Donizetti trovava tutti gli autori concordi e contentissimi è senz'altro da recuperare.

Le variazioni da chi sono state scritte?
Non esistono variazioni per questa o quella opera, tanto che si può trovare grosso modo la stessa cadenza sia nell'aria del baritono del Trovatore che in quella del tenore della Lucia. Generalizzando, si può dire che in quasi tutte le opere la cadenza rimanga la stessa. Di conseguenza non sono stati fatti studi particolari. Si sono evitati abbellimenti e si sono accettate alcune variazioni, soprattutto nell'aria di Rosina, scritte nel nostro caso per registro di mezzosoprano.

Questa scelta è stata sua o della Decca?
È stata presa di comune accordo, con l'idea precisa di realizzare un Barbiere non freddo ma quasi live, in cui dominasse lo spirito teatrale. Abbiamo di conseguenza curato molto bene i recitativi ed anche il movimento scenico, cercando di dare con il cambio dei microfoni l'effetto di lontano-vicino, interno-esterno.

I tagli sono stati tutti riaperti?
Si, perché oggi si usa trasferire in disco tutto quello che è stato scritto. Io mi sono adeguato a questa usanza anche se confesso di non essere del tutto convinto, perché i tagli hanno un senso, un significato più che altro teatrale, accettato dall'autore. In disco non mi danno fastidio, ma in teatro non farei mai un'edizione integrale.

Verrà inclusa quindi anche l'aria finale del tenore?
Noi l'abbiamo incisa, ma, se decideremo di inserirla, la posizioneremo alla fine dell'opera, come appendice. Questa è un'aria che fu tolta da Rossini dal Barbiere e innestata nella Cenerentola per il mezzo-soprano, quindi fu egli stesso che non volle che comparisse nel Barbiere, anche perché è di una difficoltà enorme per il tenore. Comunque solo l'aria è stata tolta dal contesto, mentre il recitativo tra il Conte e Don Bartolo è stato mantenuto.

Ai cantanti è stata lasciata una certa libertà interpretativa?
Abbiamo scelto d'accordo con i cantanti un'impostazione precisa, un'unica linea interpretativa, che è stata realizzabile grazie ad una compagnia di elementi disponibili e anche molto validi. Oltre a Nucci, alla Bartoli, a Matteuzzi, a Burchuladze, voglio ricordare Fissore, uno dei migliori Bartoli d'oggi, se non il migliore.

Come si è trovato con l'Orchestra del Comunale di Bologna?
Il risultato musicale è abbastanza soddisfacente, perché, nel responsabilizzare un po' tutti, l'orchestra alla fine ha reso. Sa, quasi tutte le orchestre italiane non sono abituate alla disciplina discografica e tendono per questo ad essere un po' rumorose. È questione di mentalità, che spero si cambi al più presto, in modo che le case discografiche tornino ad incidere di nuovo in Italia, perché il suono delle nostre orchestre per l'opera italiana e l'ideale. Purtroppo mancano anche le sale d'incisione e se si pensa a Santa Cecilia, che è una delle migliori orchestre europee ma che è priva di una sala da concerto e di una d'incisione, si può ben capire perché rimanga senza un'attività discografica.

Lei lavora molto all'estero. Com'è il suo rapporto con le orchestre straniere rispetto a quelle italiane?
Devo dire che attualmente sono Direttore stabile di una delle due orchestre della Radio di Monaco di Baviera. Abbiamo inciso l’Iris in pochissimo tempo. È un'orchestra che legge molto bene, di ottima qualità sonora, che non ha nessun problema se ci sono da fare straordinari o sedute fuori orario. Sarà perché la c'è un'altra organizzazione, perché si guadagnerà forse di più, ma si avverte un orgoglio che qui sembra essere scemato, ma per ragioni indipendenti dagli stessi orchestrali. È l'andazzo musicale italiano che va riveduto e corretto, a partire dalla Scala.

Torna comunque volentieri in Italia?
Naturalmente, perché qui il contatto umano è unico e poi perché ho amici dappertutto. Come napoletano vorrei essere il salvatore del Teatro S. Carlo, ma vedo che è un'impresa veramente disperata. Ho sempre sperato, ma ormai mi sono rassegnato.

Dove pensa che si riesca ancora a fare musica in Italia?

Bologna, se si cambia la mentalità di qualcuno a livello dirigenziale, ha un teatro molto serio. Ho conosciuto il Sovrintendente e il Direttore Artistico e ne ho ricevuto un'ottima impressione: se tutti i teatri avessero due persone così, forse cambierebbe la vita musicale italiana. Mi sono trovato bene alla Scala, anche se quest'anno c'è un po' di crisi (1988, n.d.r.), e così pure all'Opera di Roma, dove l'anno scorso abbiamo fatto un buon Macbeth perché ho avuto la fortuna di non incappare in un periodo di scioperi. Difficilmente se sono impegnato in Italia per uno spettacolo riesco a farne un altro nello stesso tempo in un diverse teatro, perché la mia attività si svolge soprattutto all'estero, dove come si sa gli impegni si fissano con molto anticipo. Col Teatro di Monaco ho già un programma predisposto nei minimi particolari sino al '92.

Come si concilia lo spirito di un napoletano con quello tedesco?
Basta farsi voler bene, essere amico, non darsi delle arie, non trattarli male. Loro capiscono e non ne approfittano. Da noi invece c'è sempre quello che ti batte una mano sulla spalla e ti dice «Beh, ora non ci pensiamo. Se ne parla domani». E a forza di parlarne domani, il domani diventa sempre domani, in modo che non si risolve mai niente.

I suoi prossimi impegni in Italia?
Sono in trattative con la Scala per un'opera: dipende da chi canterà. Purtroppo la Scala è un teatro in cui si scelgono prima i cantanti e in base a questi poi si stabilisce che opera si deve fare. Questo perché alla Scala non si accettano le mediocrità da parte del pubblico, mentre invece la critica scambia la mediocrità per talento e viceversa. Non accuso quella milanese, in particolare, ma a livello mondiale bisogna dire che la critica ne ha azzeccate poche. Se avessimo dovuto dar retta ai critici, a quest'ora sarebbero in piedi solo autori come Auteri-Manzocchi, Coronaro, Filippetti, mentre sarebbero scomparsi Verdi, Puccini, Wagner. Questo non fa testo: bisogna accontentare soprattutto il pubblico, perché le opere sono state scritte per lui. La conferma di uno spettacolo è il teatro esaurito e il pubblico in piedi che applaude. Il resto non conta.

Com'è possibile gestire il rapporto tra direttore e artisti di fama?
Gli artisti di fama musicisti vanno sempre d'accordo con il direttore. Poi ci sono anche artisti di fama che non sono musicisti e li ci può essere qualcosa che non va, ma col ragionamento si riesce a risolvere anche questa difficoltà e ad andare d'accordo con tutti.

Esiste un repertorio in cui la componente vocale predomina su quella direttoriale e viceversa?
Tutte e due le componenti sono importanti, perché un cast di ottimi cantanti con un direttore mediocre fa sempre una pessima figura e così pure un cast mediocre con un grandissimo direttore ottiene lo stesso risultato. Per quanto riguarda il repertorio, posso dire che per ragioni di pura comodità preferisco dirigere Wagner, perché è meno rischioso: tutto quello che può succedere succede senza che se ne faccia uno scandalo. Invece mettere le mani su Rossini, Bellini, Donizetti oggi è un problema, perché se non si ha un cast adeguato anche il direttore casca in pieno. Poi bisogna provare tantissimo con l'orchestra, perché ad esempio Rossini richiede la massima pulizia, mentre in Wagner se esce fuori un trombone o una tuba tutto passa. Wagner è facilissimo da dirigere: infatti i direttori tedeschi dirigono Wagner, ma solo quando affrontano il repertorio italiano fanno capire se sono validi o meno.

Ha una preferenza per un repertorio in particolare?
No, amo la musica in generale. Evito solo i rumori che fanno parte della musica contemporanea, perché quelli li sento alla Stazione Centrale senza pagare il biglietto!

E quindi se le proponessero un 'opera moderna?
Dipende, ci sono delle opere moderne valide e ce ne sono altre che sono esperimenti inutili. Io non le subisco perché le rifiuto a priori: nel '71 a Napoli ho diretto una prima assoluta di Meyerowitz, ma quella, per quanto moderna, era musica. Io leggo la musica come il giornale, ma se rifiuto certe opere è perché non c'è musica da leggere.

Qual è il repertorio che le viene più richiesto?
Quello di tradizione, perché molti ritengono che io sia l'ultimo direttore della vecchia generazione e non uno dei maestri della nuova e così tutti vengono da me a chiedere come si faceva questa o quell'altra cosa. Dopotutto avendo iniziato in teatro all'età di sette anni e avendo diretto la prima volta a diciannove, conto gia una carriera quasi quarantennale. Pur essendo giovane, ho conosciuto Mascagni, Giordano, Alfano e ho studiato per un certo tempo anche con Cilea, grazie naturalmente a mio padre e a mio nonno, che era addirittura amico di Wagner. La nostra famiglia ha in questo senso una tradizione. E per quanto riguarda i compositori stranieri, posso dire di aver incontrato Stravinsky, Prokofiev, Hindemith, Sibelius, Shostakovich.

Pensa quindi di essere considerato un direttore di tradizione per il suo modo di proporsi o per questi contatti che lei ha avuto con i musicisti del passato?
Per questi contatti, perché credo di aver tramandato grazie a loro delle tradizioni giuste. Prendiamo un esempio: Cavalleria rusticana. Se la si volesse dirigere com'è scritta, si otterrebbe l'esatto contrario di quello che voleva Mascagni. E questo non lo dico solo io, perché se qualcuno ascolta il disco diretto da lui confrontando la partitura, noterà che uno è l'opposto dell'altra, come effetti sonori, tempi e via dicendo.

Di conseguenza il lavoro di un direttore come deve inquadrarsi?
Un direttore dev'essere informato sulle vere tradizioni (non quelle costruite sui 'tradimenti' dei cantanti, come le fioriture alla Caruso che non fanno parte della tradizione e vanno di conseguenza eliminate), quelle per intenderci che l'autore stesso alla prima prova d'orchestra andava ad annotare sulla partitura già stampata, che di conseguenza è priva di queste correzioni.

I compositori che lei ha conosciuto erano tutti così elastici nelle intenzioni?
Tutti, assolutamente. Giordano disse una volta, provando con l'orchestra: «Signori, ritmo!». «Ma scusi, Maestro, qui c'è scritto ...» «Non importa, qui bisogna fare della musica!». Ora invece abbiamo i 'masturbatori della semicroma'. Questa non è musica, è matematica!

Ma trova alcuni talenti tra le nuove leve?
Qualche talento c'è, ma questi giovani devono apprendere certe cose che non sanno. Io ho avuto la fortuna di lavorare con direttori che queste cose le sapevano, dai Serafin ai De Sabata.

Si spiega come mai una scuola di così abili concertatori e conoscitori della vocalità si sia perduta?
Non accusiamo le giovani leve direttoriali perché tecnicamente oggi il direttore d'orchestra è migliorato. Oggi abbiamo giovani che veramente danno punti ai direttori anziani, per quanto tra questi non si riesca più a trovare un uomo di teatro. Ora non si intende più questa parola nel senso di umile servitore della musica e del palcoscenico: si debutta subito alla Scala o al Met senza avere un'esperienza maturata. Questi non li considero colleghi, pur rispettandoli tutti ed anzi valutandoli come direttori forse anche meglio di me. Però se un cantante mi viene a dire: «Sa, Maestro, ho sbagliato perché sono abituato al suo collega», io gli chiedo «Scusi, da quanti anni canta?» «Da un anno e mezzo» «E allora come fa a conoscere un mio collega, se sono tutti morti già da vent'anni?». L'unico rimasto in piedi è Gavazzeni, gli altri sono tutti spariti, purtroppo.

Quindi lei crede che il direttore d'oggi sia più adatto alla sinfonica che all'opera?
Senza dubbio. Io consiglierei al direttore d'oggi di respirare come un essere umano, perché solamente così può capire le esigenze di un cantante: dove deve riprendere fiato, come deve esprimere una certa frase, dato che non tutte le frasi possono essere cantate rigorosamente in tempo. Ora purtroppo si è persa questa concezione e si tende a realizzare un lavoro freddo. È vero che il romanticismo è superato e che non si suona più la serenata alla fidanzata, ma bisogna comunque rispettare lo stile di un'epoca e se all'epoca la prassi era quella di suonare la serenata, questa prassi va rispettata, anche se non è più l'epoca. Quando ho da lavorare con certi registi che vogliono spostare l'azione più avanti preferisco fare l'opera in forma di concerto, come mi è capitato ad Amburgo per Gioconda e a Francoforte per Mefistofele, dove ho scelto questa alternativa per evitare di avere a che fare con registi di questo genere. Che facciano le opere moderne, ma non questi lavori!

E tra i cantanti vede più degli esecutori o degli interpreti?
Oggi sono migliori come interpreti di quelli del passato. Quelli avevano una salute vocale superiore, perché non prendevano l'aereo ma si riposavano in quei lunghi viaggi di nave, senza subire gli sbalzi di fuso orario. La carriera di un cantante oggi dura molto poco. Ricordo Beniamino Gigli a sessantatre anni ancora in auge, mentre oggi a quarantasette sono quasi tutti finiti, perché cantano troppo e spesso un repertorio sbagliato. Ora come ora, ad essere ottimisti, si può ancora combinare una compagnia di Belcanto. Il Verismo sta per scomparire a livello vocale e non parliamo poi di Wagner: anche a Bayreuth sono tutte 'zanzare raffreddate'!

Davide Annachini


GIUSEPPE PATANÉ - UN RICORDO DI RODOLFO CELLETTI (Ottobre 1989)

Giuseppe Patané è morto a cinquantasette anni. Ed è morto sul podio, mentre dirigeva. Sul podio, in un certo senso, era anche nato. Il padre, Franco Patané, era stato un direttore d'orchestra di qualche merito.
Pochi sanno, di Giuseppe Patané, che in teatro esordì come cantante. Napoletano, era fanciullo cantore del coro del San Carlo quando, nel 1946, quattordicenne, sostenne una parte solistica, quella di Geppino, in un'opera nuova di Jacopo Napoli, Miseria e nobiltà. Era già allievo del Conservatorio San Pietro a Majella. Studiò direzione d'orchestra, impugnò per la prima volta la bacchetta, in uno spettacolo d'opera, nel 1951, ancora a Napoli. L'opera era la Traviata, Giuseppe Patané aveva soltanto diciannove anni.
Il teatro dell’esordio non era però il San Carlo. Per giungere al maggior teatro della sua città, Giuseppe Patané dovette attendere l’estate del 1962 e la stagione organizzata dal San Carlo all'Arena Flegrea. L'opera fu la Madama Butterfly. Nel maggio del 1963, poi, Patané diresse al San Carlo il Rigoletto. Da allora, fino a tempi recentissimi, è stato uno dei direttori più assidui, nel teatro napoletano.
Per la verità, i primi anni di carriera non furono brillanti, riservarono a Patané molti teatri periferici, in Italia e all'estero. All’Opera di Roma giunse nel 1964 con la Madama Butterfly, alla Scala nel 1970 con il Rigoletto e il Don Carlo. Ma nel frattempo s'era affermato anche all'estero. Nel 1961 aveva iniziato un rapporto con la Deutsche Oper di Berlino destinato a protrarsi per molti anni. Nel 1971 diresse per la prima volta all'Opera di Amburgo, ma già da qualche tempo era comparso alla Staatsoper di Vienna, al Covent Garden di Londra, al Metropolitan di New York.
Ormai lo si considerava come una delle bacchette più versate nel repertorio operistico italiano ed era ospite dei maggiori teatri del mondo. Anche di recente la sua attività internazionale seguiva un ritmo serratissimo. Questo, per quanto riguarda i dati biografici essenziali, è tutto.
La statura del musicista era per molti aspetti eccezionale. Patané vantava anzitutto una memoria mostruosa. Per molte partiture del repertorio italiano era una sorta d'archivio vivente. Si narra che, all'inizio della carriera, trovandosi in uno sperduto teatro straniero, ricostruisse a memoria le parti strumentali della Boheme, non essendo giunte a destinazione quelle richieste dall'impresariucolo che aveva organizzato le recite. La memoria, tuttavia, non era che un aspetto del singolare congegno musicale che Patané incarnava. Altrettanto eccezionali erano l'istinto e la sensibilità. Coglieva il rapporto fra situazione scenica, contesto strumentale e vocalità con un'immediatezza che sorvolava qualsiasi problematica. Aveva anche un gesto ampio, incisivo, eloquente che, morbido o imperioso che fosse, andava sempre a segno per chiarezza e forza di suggestione. Conosceva il respiro dei fraseggi vocali, guidava le orchestre lungo la rotta d'una dinamica che poteva abbracciare i pianissimi più tenui e i fortissimi più intensi senza distorsioni di suono e con un senso del ritmo e una capacità e una tempestività di interventi, negli imprevisti del palcoscenico o della buca, attuati con la massima semplicità.
Pochi mesi prima che Patané morisse, una zanzarina che ronza su un quotidiano milanese mi diede sulla voce. «Ma come! Loda Patané che alla critica piace poco e stronca un Bohm». Capirai che termine di paragone! Chi non apprezzava Patané? La critica che si fa provinciale per non sembrare provinciale; e che inoltre, diffidando del proprio orecchio e delle proprie nozioni, non osa censurare le cosiddette celebrità, anche quando la loro fama è usurpata.
Ma Patané era un grande direttore. L'ha scritto di recente anche Maurizio Papini e ritengo che lo scriverebbero - se gia non l'hanno scritto - un Isotta o un Foletto. Magari con alcune riserve da me condivise. Non ho mai conosciuto Giuseppe Patané. L'unico contatto è stata una telefonata di alcuni anni fa. Troppo poco per poter parlare dell'uomo in prima persona. Ma è notorio che Patané non si curava minimamente di sfoggiare l' “allure”, il tono, il sussiego del grande direttore. Anzi, il contrario. E per questo si tendeva a sottovalutarlo. Gli mancava anche il cosiddetto perfezionismo. Piuttosto scettico, a volte abbonava a certe orchestre una parte delle prove. Tanto, diceva, più di questo non renderanno mai. Spesso aveva ragione, qualche volta torto.
Il suo stesso rendimento poteva essere altalenante per mancanza di concentrazione nell’imminenza d'una recita. Anche perché amava vivere a modo suo. Gli accadeva poi di accettare la direzione di edizioni di opere il cui esito appariva pregiudicato in partenza e d'essere quindi coinvolto in recite disastrate. In tempi più recenti, però, era divenuto più cauto. Ne è una prova la rinuncia alla Luisa Miller allestita quest'anno dalla Scala.
Come chi sia, quando voleva Giuseppe Patané aveva veramente la statura del grande direttore d'opera. Negarlo perché non s'atteggiava a santone del podio sarebbe iniquo, oltre che sciocco.

Rodolfo Celletti


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