La musica secondo... Richard Stoltzman
Richard Stoltzman parla con Christopher Breunig a Londra.
Da una intervista del 1990.
Richard Stoltzman si è formato a San Francisco negli anni '40 e '50. Suo padre amava le big band e i dischi di Sinatra, Ella Fitzgerald e Nat King Cole; come molti sassofonisti, possedeva un clarinetto che però non veniva mai suonato. Richard Stoltzman ne trovò la custodia sotto il letto dei genitori: «Ricordo vagamente che un pomeriggio, mentre camminavo a quattro zampe per la casa, trovai quello che pensavo essere un giocattolo carino e di stile, con quei piccoli pezzi che si potevano far rotolare per il pavimento, scintillanti, e poi si potevano unire insieme. Sembra che mio padre abbia deciso che io ero interessato al clarinetto». Cominciò così le lezioni, andò da un insegnante che lo iniziò con Everybody's classical hits e due cori di Stardust di Hoagy Carmichael con una svisatura per la seconda strofa. La vita culturale di San Francisco non era una realtà per Stoltzman. Non andava ai concerti sinfonici e suonava il clarinetto solo per gli amici e in chiesa. È questo, egli spiega, che gli ha fatto concepire la musica come una «grande distesa» senza steccati rigidi.
Seguì per lui un lungo periodo di preparazione classica, quattro anni all'Ohio State University, tre a Yale e Columbia e dieci estati ai Marlboro Music Festivals. Arrivando a Marlboro egli imparò veramente che cosa significasse fare della musica. Adottò come suoi idoli i veterani come Moise, Serkin, Horszowsky (per la loro vitalità e responsabilità verso pezzi che conoscevano così bene). Egli si ritrovò a studiare con Serkin le stesse sonate di Reger due, tre settimane per tre estati consecutive, studiandole e lavorandoci sopra (senza che fosse prevista l'esecuzione in pubblico). «Si diventa molto umile in una situazione così vedi, uno pensa di avere una laurea e quindi di essere in cima alla vetta dal punto di vista tecnico e poi si va in un posto come Marlboro dove si è costretti di mettersi sotto a riconsiderare con più attenzione il proprio modo di vivere la musica. E si potrebbe anche non arrivare mai a capire come deve essere eseguito un brano musicale».
«Ricordo una volta mentre lavoravo con Horzowsky su un quintetto per pianoforte e fiati di Mozart; lui ascoltava e suonava; stavamo per finire il movimento lento ed egli si fermò proprio prima della coda. Aveva un ottantina d'anni allora, mentre noi eravamo tutti molto giovani. Non disse una parola e noi ci domandammo che cosa stesse succedendo; poi qualcuno gli chiese: "Va tutto bene?". "Sì. Devo ricordarmi di mandare una lettera a Mozart"».
«Noi pensammo: "Che vuol dire?" Finché qualcuno gli chiese che cosa gli avrebbe detto. "Gli dirò solo: Grazie a Lei Mozart." E così ci rendemmo conto che egli era rimasto semplicemente colpito dalla bellezza di quella frase».
«Siamo così fortunati ad essere musicisti, ed è così importante che la tradizione sia portata avanti e che ci si assumano delle responsabilità come musicisti restando onesti con noi stessi e con la partitura».
Stoltzman non insegna perché i suoi programmi non gli permettono di avere il tempo necessario per essere sempre a disposizione degli studenti. Ha avuto delle Master Classes in passato, ma i suoi sentimenti al riguardo sono contrastanti.
«A volte queste classi sono incredibili. Altre volte sembra di aver reso le cose più confuse piuttosto che averle chiarite; si prova un po' il sentimento sleale di stare 'scappando', capisce? La situazione non aiuta a far emergere l'individualità dell'allievo; quando poi c'è un pubblico, la cosa può diventare uno spettacolino, con lo studente usato come una marionetta. Qualche volta ci si trova ad usare lo studente per fare una generalizzazione che non è pertinente, un punto di partenza per un'altra categoria. Se tutti capiscono, allora va bene».
Stoltzman si è esibito in un recital con Richard Goode al Wigmore Hall ai primi di Maggio (ha suonato Debussy, Schumann, Poulenc, Gershwin, e nove o dieci canzoni di Ives con il clarinetto nelle parti vocali). Il 16 ha suonato il Concerto di Copland con la Royal Philharmonic Orchestra diretta da Litton e le incisioni uscite in coincidenza con i concerti includono il Primo Concerto di Weber, e l'Introduzione Tema e Variazioni di Rossini (che a lui piace: «il più vicino, in certo qual modo, all'improvvisazione Jazz; una serie di cori su quel tema sempre più fantastici e interessanti») e delle sonate trascritte per violino di Schubert.
«Copland ha una cadenza che suona veramente come un'improvvisazione su progressioni d'accordo». Sul disco la struttura della cadenza è più chiara che non con Goodman (su CBS) (che trovò il lavoro difficile da affrontare). Chiedo a Stoltzman se gli è piaciuto registrare con la London Symphony Orchestra.
«La prima volta che suonai il Concerto di Copland ad Edimburgo, due o tre anni fa, fu magnifica. Pensavo che sarebbe stato un po' difficile suonare un tipico concerto americano con un gruppo inglese; ma lo avevano suonato con Copland, e ne avevano capito veramente lo stile. E quelli che suonarono in Bernstein (Preludio, Fuga e Riff) erano davvero stupendi. Lo hanno eseguito proprio come se lo suonassero ogni giorno».
Gli chiedo il suo parere del disco.
«Quando lo ascolto su CD è quasi più vivo di quando l'ho eseguito con loro. Quando lo suono live con un grande ensemble, non sembra mai che funzioni a meno che io non sia molto amplificato, e gli ottoni siano, come dire, deamplificati. L'equilibrio si perde verso la fine dei Riff: - il clarinetto non si sente proprio».
«Corigliano accoppiato nello stesso disco è molto singolare. Egli ha fatto una grande carriera nella musica per film. Inoltre è uno dei pochi Americani a cui il Metropolitan abbia commissionato un lavoro. Il movimento lento in quel Concerto è molto emozionante: specialmente il modo con cui egli combina l'assolo di violino e il clarinetto per ascendere fino all'unisono finale. E nel finale c'è la parte destinata al clarinetto "da suonare come un computer", e con suoni antifonali avanti e indietro fra ottoni e me. Nell'auditorio dove registrammo, mettemmo tutti in piedi nella balconata. Mi chiedevo come avremmo potuto fare la stessa cosa in uno studio di registrazione, ma per fortuna avevamo un vero auditorio, ottimo per il suono. C'era qualcosa di bello e reale nel fatto che io guardassi in alto e suonassi verso le persone lassù nella balconata. E i corni francesi erano ai margini dell'auditorio, separati dall'orchestra».
Spero che la gente non si spaventi del fatto che è tutto XX secolo americano
«Lo so, è difficile tranquillizzare un ascoltatore ed aiutarlo ad "entrare" in un pezzo. Sa, mia madre è una mia fan, chissà per quale ragione! Quando ascoltò Corigliano non fu affatto sorpresa. Penso che parte del motivo per cui il pezzo è entusiasmante consista nel fatto che è drammatico e teatrale, come un film. Ed io penso che quelli siano suoni molto familiari per noi che viviamo negli ultimi anni del XX secolo, grazie ai film e alla TV. Nonostante il loro uso sia generalmente un sottofondo o sia »
Non c'è bisogno che quadri dal punto di vista strutturale.
«No. Invece il pezzo di John quadra sia dal punto di vista strutturale che compositivo. Amo il fatto che il primo Riff nel clarinetto che dovrebbe essere appena percettibile, in realtà diventi la colonna portante dell'intero pezzo. E l'ultima parte del clarinetto nel primo movimento è quell'intera parte indietro anche se questo non è importante saperlo. Quando si studia il lavoro e si scoprono queste cose, ci si sente ancora più legati, perché viene dato qualcosa in cambio».
Come la maggior parte dei musicisti, Richard Stoltzman sente di avere dentro di sé «una o due melodie immortali» ma «quando si arriva a qualcosa che durerà nel tempo, non sono sicuro di poter scandagliare quegli abissi». Così egli è impegnato come solista per un concerto promesso da Takemitsu e un altro da Lukas Foss. La società del Lincoln Centre, l'UCLA, i gruppi di Boston e di Chicago si sono uniti per commissionare un nuovo lavoro per clarinetto e piano, e Stolzman ha molto caro un pezzo del compositore australiano Peter Sculthorpe, che egli fece debuttare ad un concerto per il ritiro del suo vecchio maestro a Yale. Ha chiesto un nuovo concerto per il 1990 a William Thomas Mckinley, un insegnante del New England Conservatory. Si è avvicinato a compositori di grido come Carter, Lutoslawski, Penderecki, ma questi sono impegnati per una decina d'anni o forse più. Ricorda di aver incontrato Tippett ad una esecuzione del Concerto Triplo a San Francisco. «Fu molto gentile, ma disse di non poterlo fare poiché non si poteva impegnare per altri pezzi».
Stoltzman ha però eseguito molte volte il New York Counterpoint di Reich, anche a Londra, ai concerti dell'Ensemble di Steve Reich e lo ha registrato. New York Counterpoint è scritto per una parte suonata dal vivo e dieci preregistrate. A Tokyo lo ha suonato come un pezzo da concerto per undici clarinettisti, ed ha lavorato con il fotografo John Pearson per avere proiettate immagini sincronizzate.
«Abbiamo passato due giorni con Steve per cercare di fare quella registrazione, perché Steve era molto pignolo nel volerla ritmicamente giusta. Inoltre egli sapeva bene come avrebbe dovuto essere sentita. Io no, almeno da principio. Poi gradualmente riuscimmo a capirci. La mia posizione iniziale era quella di suonarlo, di lavorarci sopra, di fraseggiarlo e così via. Capii poi che se io avessi dato una qualche leggere "nuance" ad una parte, questa avrebbe condizionato il resto di 30 o 40 battute ed ogni parte che vi si sovrapponeva avrebbe dovuto essere trattata allo stesso modo. Così, quello che in un primo tempo poteva essere un momento spontaneo, si sarebbe radicato nel pezzo diventando una specie di deformazione. Dovetti perciò imparare a suonare "perfettamente" e con una sorta di purezza. Al principio stavo diventando matto ma poi lo trovai affascinante».
Ha studiato matematica all'Università
«Non avevo pensato a questo! Un errore o vuoto di memoria, e, sei o sette minuti più tardi si scopre di aver avuto ragione o di essersi sbagliati, ed è una sfida alla concentrazione »
E com'è la partitura?
«Oh, assolutamente convenzionale. Non c'è fraseggio; è una specie di cosa giocosa, e nella situazione del concerto si suppone che l'attenzione oscilli un po' dentro e un po' fuori; sta all'ascoltatore decidere su quale struttura vuole concentrarsi».
A parte di usarli come mezzo per familiarizzare con i nuovi lavori europei, Stoltzman non è un appassionato di dischi. «Ho alcuni dischi ai quali sono affezionato e che amo ascoltare di continuo. Ho sempre amato le incisioni dei Concerti di Mozart fatte da Peter Serkin con la English Chamber Orchestra. È il padrino di mio figlio ed ho imparato molto da lui (un co-fondatore, con Stoltzman, del gruppo da camera Tashi); quando ne metto su uno, è come avere una pietra di paragone per me. Mi piace ascoltare certi vocalisti per avere la qualità della voce che mi circonda di tanto in tanto. Ma ad essere sincero, mi piace molto avere silenzio in casa! Sono già abbastanza le ore di studio, quelle di prova e i concerti: qualche volta la musica comincia a perdere la sua essenza di magnetismo. E sa quando si va in giro per ascensori e simili - in realtà non succede così spesso in Inghilterra o, almeno, non ne sono al corrente. Ma mio Dio! In America avviene ovunque - è come un incubo. Così, in strani momenti, io ho "silenzio in casa"».